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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di SETTEMBRE 2018

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aggiornamento al 30.09.2018 (ore 23,59)

aggiornamento al 26.09.2018

aggiornamento al 03.09.2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.09.2018 (ore 23,59)

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Lotto già edificato e volumetria residua:
come, quando e quanto quantificarla??

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello per cui “un’area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni”.
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata, l’intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l’effetto che anche l’area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall’area su cui insiste il manufatto”.
In altri termini, “
un’area edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisce la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa”.
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10.3. Le argomentazioni poste a sostegno del diniego sono totalmente condivisibili.
10.4. Ed invero, costituisce principio pacifico in giurisprudenza quello per cui “un’area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni” (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, n. 3573 del 20.07.2017).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata, l’intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l’effetto che anche l’area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall’area su cui insiste il manufatto” (Cons. Stato, sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
10.5. In altri termini, “un’area edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisce la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa” (Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4647) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 30.08.2018 n. 9091 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi, è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà.
Tanto è consolidato questo orientamento che l’Adunanza plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della volumetria assentibile su una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata prima della legge 17.08.1942, n. 1150, quando lo ius aedificandi era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa. Ciò comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante.
Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata con riguardo al lotto originario. Con la conseguenza che è irrilevante la mancanza di un formale atto di asservimento del precedente fabbricato, atteso che quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell’area discende ope legis dalla sua utilizzazione, senza la necessità di apposito strumento negoziale.
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Va distinto l'indice di densità territoriale, (riferibile a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, che definendo il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.) dall'indice di densità fondiaria (riferibile alla singola area, che definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione).
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10. Con il quinto motivo di appello, riproducendo sostanzialmente il terzo motivo di ricorso proposto dinanzi al Tar, si mira a sostenere la legittimità del permesso di costruire annullato e, quindi, la mancanza del presupposto base dell’autotutela.
10.1. Da un lato si sostiene l’illegittima considerazione, ai fini del computo della volumetria, di quanto costruito sulla part. 24 (originaria costruzione antecedente al 1942, poi ampliata con concessione del 1983 e del 1997), per essere antecedente al 1942 e, inoltre, per la mancanza di asservimento o di vincolo pertinenziale tra questa e le particelle coinvolte nella richiesta di permesso (nn. 25 -poi frazionata in nn. 1281, 1282 e 1283- e n. 350).
10.2. Dall’altro, si lamenta l’omessa considerazione di altre particelle di proprietà della signora Di Pu. e, per sostenere la compatibilità della volumetria richiesta per il nuovo permesso con il costruito, si esclude la computabilità della edificazione precedente alla concessione del 1997 e si calcola autonomamente la volumetria per annessi agricoli mediante l’utilizzo dell’indice 0,07, previsto per gli opifici.
11. Le censure sono prive di fondamento e vanno rigettate.
11.1. In punto di fatto va chiarito che la part. 24, dove negli anni è stata realizzata una costruzione e annessi per una volumetria di mc 797,71, fa parte dell’originaria particella 25, costituente un unico fondo in capo dapprima ad An.Al., poi frazionato già in epoca antecedente al 1950, ed ulteriormente frazionato in epoca successiva, e che della stessa particella originaria n. 25 fanno parte quelle (1281, 1282 e 1283) rilevanti per il permesso chiesto; inoltre, va chiarito che la part. 350, risultante dal frazionamento della originaria part. 23, confina con la originaria part. 25, poi frazionata.
In definitiva, dalle mappe catastali emerge uno stato dei luoghi tale che delle originarie particelle 23 e 25, confinanti ed appartenenti a proprietari diversi, il frazionamento della 25, comprensiva della 24 con insediamento costruttivo antecedente al 1942, ha determinato il sorgere di più costruzioni sulla stessa.
Indiscutibile è, quindi, il dato reale costituito dall’unitarietà dell’area, considerata nella fattispecie in riferimento alla titolarità delle particelle n. 24 e nn. 1281, 1282 e 1283, senza che possa essere determinante qualunque altra particella nella titolarità della stessa istante, essendo stata la volumetria assentibile già consumata da quanto costruito sulla part. 24.
11.2. In diritto, deve preliminarmente escludersi ogni rilievo ad un calcolo autonomo della volumetria per gli annessi agricoli realizzati sulla base della concessione del 1997 sulla particella n. 24, atteso che l’appellante non offre alcuna giustificazione alla tesi dell’utilizzo dell’indice 0,07, che il PdF prevede espressamente solo per gli opifici.
11.3. Come detto, la questione centrale posta in diritto si articola in due profili (§ 10.1.) strettamente connessi.
Il primo mette in discussione la computabilità volumetrica di costruzioni preesistenti al 1942, in regime di ius aedificandi quale pura estrinsecazione del diritto di proprietà, e, comunque poi legittimamente ampliate con successive concessioni.
Il secondo, evidentemente subordinato, presuppone tale computabilità, ma la lega all’esistenza di un atto di asservimento, all’esistenza di un vincolo pertinenziale tra il fondo costruito e quello costruendo.
Ad entrambe le questione va data risposta negativa sulla base della giurisprudenza consolidata di questo Consiglio.
11.3.1. L’area alla quale si riferisce la concessione edilizia richiesta dalla parte privata, prima concessa e poi negata dall’amministrazione, deriva per successivi frazionamenti da due lotti originari confinanti, e su parte di essa (part. 24) è stata costruita una abitazione e degli annessi agricoli. Si controverte sul rilievo che, ai fini del rilascio del titolo edilizio, debba riconoscersi al volume relativo all’opera già edificata.
11.3.2. Il Giudice amministrativo ha più volte avuto modo di affermare (Cons. Stato, sez. IV, n. 2941 del 2012) che, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2004, n. 5039; id., Sez. III, 28.04.2009, n. 965).
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi, è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21.09.2009, n. 5637).
Tanto è consolidato questo orientamento che l’Adunanza plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della volumetria assentibile su una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata prima della legge 17.08.1942, n. 1150, quando lo ius aedificandi era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa. Ciò comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante (Cons. Stato, Ad. plen., 23.04.2009, n. 3).
Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata con riguardo al lotto originario. Con la conseguenza che è irrilevante la mancanza di un formale atto di asservimento del precedente fabbricato, atteso che quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell’area discende ope legis dalla sua utilizzazione, senza la necessità di apposito strumento negoziale (Cons. Stato, n. 1525 del 2004).
11.3.3. Deve aggiungersi che per smentire queste conclusioni non vale la distinzione che l’appellante sembra fare tra indice di densità territoriale, (riferibile a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, che definendo il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.), e indice di densità fondiaria (riferibile alla singola area, che definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione) (cfr. sul punto, tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, n. 32 del 2013; n. 5419 del 2017).
Premesso che nella fattispecie viene in questione l’indice di densità fondiaria, comunque la distinzione non rileva rispetto ai principi suddetti che si riferiscono all’indice di fabbricabilità, del quale la densità territoriale e la densità fondiaria costituiscono declinazione a seconda dell’assetto urbanistico che conforma i territori.
11.3.4. Resta da dire che la sicura computabilità del costruito sulla particella n. 24, sulla base di quanto prima argomentato, fa venir meno ogni concreto effetto alla denunciata non considerazione di altre aree di proprietà della signora Di Puglia posto che i calcoli volumetrici prospettati dall’appellante prescindono, almeno, dalla computabilità della costruzione originaria come costruita e assentita prima della concessione del 1997.
12. In conclusione, l’appello va rigettato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.08.2018 n. 4747 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo (ed a maggior ragione, dunque, ove un qualche titolo di sanatoria poi ottenga), impegna la superficie, che in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui ai fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto già parzialmente edificato occorre dunque considerare tutte le costruzioni, che comunque già insistono sull'area.

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2.2 – Il TAR ha inoltre opportunamente puntualizzato, disattendendo la tesi della società ricorrente, che nell'edificazione complessivamente realizzabile sull'area vanno computati anche i volumi e le superfici preesistenti, anche se in precedenza condonati.
Al riguardo, vanno richiamati i precedenti di questo Consiglio, secondo cui “ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo (ed a maggior ragione, dunque, ove un qualche titolo di sanatoria poi ottenga), impegna la superficie, che in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata. Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui ai fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto già parzialmente edificato occorre dunque considerare tutte le costruzioni, che comunque già insistono sull'area" (Cons. St., Sez. IV, 12.05.2008, n. 2177).
Ne consegue che l’eventuale sanatoria per condono della costruzione precedente non esclude, in sede di verifica della compatibilità di qualsiasi volume successivamente progettato con la superficie disponibile in relazione all’indice di fabbricabilità fondiaria dell’area complessiva, il computo della volumetria così realizzata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 22.05.2018 n. 3050 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti.
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In caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore all’adozione del primo piano regolatore generale, con il quale per la prima volta nel territorio comunale siano stati introdotti indici di densità edilizia (territoriale e fondiaria), in assenza di limiti di volumetria non è configurabile un’ipotesi di asservimento in senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla destinazione dell’area non edificata del lotto a servizio dell’edificio realizzato.
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Si precisa, al riguardo, che la disposizione all’esame è in linea con i principi di origine giurisprudenziale per cui:
   - un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio tempore intervenuti (v. Cons. Stato, Sez. III, parere 28.04.2009, n. 965/2009; Cons. Stato, IV, 29.01.2008, n. 255; Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2004, n. 5039);
   - in caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore all’adozione del primo piano regolatore generale, con il quale per la prima volta nel territorio comunale siano stati introdotti indici di densità edilizia (territoriale e fondiaria), in assenza di limiti di volumetria non è configurabile un’ipotesi di asservimento in senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un vincolo di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla destinazione dell’area non edificata del lotto a servizio dell’edificio realizzato (v. Ad. Plen., 23.04.2009, n. 3; Cons. Stato, Sez. VI, 18.12.2012, n. 6475; Cons. Stato, Sez. VI, 23.02.2016, n. 732) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.01.2018 n. 545 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Consiglio di Stato: il calcolo dei volumi edificabili va effettuato solamente sulle «aree libere».
Con la sentenza 22.11.2017 n. 5419 il Consiglio di Stato, Sez. IV, torna ad affrontare il tema del computo della volumetria edificabile assegnata alle aree del territorio comunale dallo strumento urbanistico generale, precisando che eventuali modificazioni di quest'ultimo, volte a prevedere nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, interessano le sole "aree libere".
Dalla definizione di tali aree devono escludersi le aree già direttamente edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o aree in cui si sono realizzate opere di urbanizzazione) e quelle che, pur essendo fisicamente libere da immobili, risultano già sfruttate per l'edificazione di altri lotti, ai quali pertanto risultano inscindibilmente asserviti.
Il caso
In seguito alla sentenza n. 2665/2015, con la quale il Tar Campania–Salerno aveva rigettato una domanda di annullamento di un permesso di costruire rilasciato nel 2015, nella quale si censurava l'errato utilizzo da parte del Comune dell'indice fondiario e lo sforamento della volumetria massima assentibile, il ricorrente ha presentato appello al Consiglio di Stato.
L'appellante ha sostenuto in particolare che l'erronea applicazione dell'indice fondiario di edificabilità, unitamente alla violazione sotto numerosi profili del D.M. 1444/1968 e della L. n. 1150/1942, avrebbero portato ad un calcolo errato della superficie disponibile ai fini edificatori, risultandone l'illegittimità del permesso di costruire impugnato. Secondo tale prospettazione l'assenza di volumetria residua sarebbe peraltro evidente anche ammettendo la contestata applicazione dell'indice fondiario, poiché non sarebbe possibile considerare come aree libere, ai fini del calcolo volumetrico, le aree destinate a parcheggi pertinenziali e quelle a standard.
La decisione
Il Consiglio di Stato, in riforma della decisione di primo grado, non ha perso occasione per ribadire quelli che si possono considerare come orientamenti giurisprudenziali ormai consolidati in relazione alla successione nel tempo degli strumenti urbanistici ed alla capacità edificatoria da questi assegnata.
In particolar modo, dopo aver ribadito il noto principio secondo cui lo strumento urbanistico generale è diretto a conformare l'edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell'entrata in vigore del piano o di una sua variante, i giudici di Palazzo Spada affermano che l'assegnazione di indici edificatori, proprio in ragione della richiamata irretroattività delle previsioni di piano, interessa le sole "aree libere", tali dovendosi intendere quelle "disponibili" al momento della pianificazione.
Più precisamente, non possono considerarsi "aree libere", oltre –ovviamente– alle aree già edificate (aree di sedime dei fabbricati o sulle quali sorgono opere di urbanizzazione), nemmeno quelle aree che risultano comunque già utilizzate per l'edificazione, in quanto asservite alla realizzazione di altri fabbricati onde consentirne il relativo sviluppo volumetrico.
Pertanto, un'area edificabile la cui volumetria sia già stata interamente considerata in occasione del rilascio di un titolo edilizio non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di un secondo titolo edificatorio nella perdurante esistenza del primo edificio.
Dal calcolo della volumetria necessaria per l'edificazione di un nuovo lotto (o per l'ampliamento di uno già esistente) devono infatti escludersi le aree asservite o accorpate, le quali hanno quindi ormai esaurito la loro vocazione edificatoria, anche se oggetto di successivo frazionamento o alienazione.
Tale principio non subisce mutamenti anche nel caso in cui vengano introdotte delle variazioni in melius del piano regolatore in relazione agli indici di fabbricazione, i quali non riguardano le aree già utilizzate a scopo edificatorio, anche se si presentano fisicamente libere. A maggior ragione, in sede di rilascio di ulteriori titoli edilizi nell'ambito di una stessa area oggetto di precedente edificazione senza che sia medio tempore intervenuta alcuna modificazione della disciplina urbanistica le aree che contribuiscono al maggiore sviluppo del lotto sono solamente quelle considerate "libere" secondo i criteri anzidetti.
Un'ultima precisazione della sentenza riguarda l'impossibilità di reperire ulteriore volumetria edificabile dalle aree destinate a standard nonché a parcheggio ai sensi dell'art. 41-sexies della L. n. 1150/1942, le quali non possono dunque considerarsi "aree libere" ai sensi e agli effetti sopra precisati.
Sotto questo profilo, neppure la circostanza che l'art. 41-sexies si riferisca alle aree a parcheggio private –come tali escluse dal computo degli standard– comporta la possibilità di considerarle nel successivo calcolo della superficie utilizzabile per una nuova costruzione o l'ampliamento di quelle esistenti, poiché, diversamente opinando, ne deriverebbe un «effetto moltiplicatore» della capacità edificatoria sviluppata dall'area di riferimento (articolo Edilizia e Territorio del 13.12.2017).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Al fine di definire con precisione cosa occorra considerare quale “superficie suscettibile di edificazione”, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
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L’eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare, nell’ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili.
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E' stato affermato che "un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni”.
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto".
Quanto esposto, comporta che, proprio perché il piano regolatore (e le sue successive modificazioni) considerano le sole aree libere, eventuali variazioni degli indici di fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai privati proprietari) non possono riguardare aree già utilizzate a fini edificatori.
Al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei predetti indici si impongono ad aree per le quali, pur essendo in precedenza previsti indici più favorevoli, non siano state ancora utilizzate a fini edificatori.
Né vi è contraddizione tra le due precedenti ipotesi, poiché esse sono ambedue perfettamente coerenti con la esposta tesi della conformabilità delle sole aree libere. Ed infatti, nel primo caso, l’area non può definirsi libera, in quanto già utilizzata a fini edificatori, mentre nel secondo l’area è libera, posta la sua non ancora intervenuta utilizzazione.
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Quanto affermato con riferimento alla successione nel tempo di diversi indici di fabbricabilità fondiari, deve trovare a maggior ragione applicazione nell’ipotesi di rilascio di successive concessioni edilizie e/o permessi di costruire nell’ambito della stessa area in costanza di indice di fabbricabilità, dovendosi considerare, al fine di sviluppare la volumetria assentibile, le sole aree da considerare libere, secondo i criteri innanzi descritti.

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Sia gli standard ex art. 5 D.M. 1444/1968, sia le aree da destinare a parcheggio, ai sensi dell’art. 41-sexies l. n. 1150/1942, devono essere considerate come “non disponibili”, ai fini di una successiva edificazione, laddove già considerate (ovvero laddove avrebbero dovuto essere considerate), ai fini della realizzazione di precedenti costruzioni.
Come è noto, l’art. 5 D.M. cit. prevede che,, nelle zone A) e B), a fronte di 100 mq. di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, devono corrispondere almeno 40 mq di superficie da destinare a parcheggio, e ciò in aggiunta ai parcheggi previsti dall’art. 18 l. n. 765/1967, e sempre che “siano previste adeguate attrezzature integrative” (dovendosi altrimenti calcolare 80 mq).
A sua volta, l’art. 41-sexies citato (introdotto nella l. n. 1150/1942 proprio dall’art. 18 l. n. 765/1967), prevede che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare, la disposizione contenuta nel predetto art. 41-sexies “…opera come norma di relazione nei rapporti privatistici e come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la p.a., non potendo quest’ultima autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di dette aree, giacché l’osservanza della norma costituisce condizione di legittimità della concessione edilizia, e spettando esclusivamente alla stessa p.a. l’accertamento della conformità degli spazi alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della idoneità a parcheggio delle aree, con la conseguenza che il trasferimento del vincolo di destinazione su aree diverse da quelle originarie può avvenire soltanto mediante il rilascio di una concessione in variante, chiarendosi anche che, mentre gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 costituiscono aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione d standard, quelli di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni e come tali escluse (ex art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968, n. 1444) dal computo del calcolo della misura degli standards”.
Orbene, la circostanza che le aree di cui all’art. 41-sexies siano da qualificarsi “aree pertinenziali private”, come tali escluse dal computo degli standard, non significa che dette aree possano essere considerate come “disponibili”, ai fini del successivo calcolo della superficie utilizzabile per una nuova costruzione.
Ed infatti, l’art. 3, co. 2, lett. d) del D.M. n. 1444/1968, in sintonia con quanto previsto dal successivo art. 5, si limita a precisare che le aree ex art. 41-sexies non possono essere considerate ai fini del computo delle aree da riservare a parcheggi (standard), ma si intendono come “aggiuntive” a questi ultimi.
Si tratta di una disposizione che, in presenza di una nuova costruzione, tende ad aumentare le aree da destinare a parcheggi, privati (in quanto verosimilmente a disposizione dei condomini) ovvero pubblici.

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6.5. Può procedersi all’esame del secondo motivo di gravame.
Il motivo è fondato.
Tanto innanzi precisato quanto alla corretta definizione ed applicazione degli “indici”, al fine di definire con precisione cosa occorra considerare quale “superficie suscettibile di edificazione”, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare, nell’ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto, peraltro, modo di affermare che "un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni” (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto" (Cons. Stato, sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
Quanto esposto, comporta che, proprio perché il piano regolatore (e le sue successive modificazioni) considerano le sole aree libere, eventuali variazioni degli indici di fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai privati proprietari) non possono riguardare aree già utilizzate a fini edificatori.
Al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei predetti indici si impongono ad aree per le quali, pur essendo in precedenza previsti indici più favorevoli, non siano state ancora utilizzate a fini edificatori.
Né vi è contraddizione tra le due precedenti ipotesi, poiché esse sono ambedue perfettamente coerenti con la esposta tesi della conformabilità delle sole aree libere. Ed infatti, nel primo caso, l’area non può definirsi libera, in quanto già utilizzata a fini edificatori, mentre nel secondo l’area è libera, posta la sua non ancora intervenuta utilizzazione.
Quanto affermato con riferimento alla successione nel tempo di diversi indici di fabbricabilità fondiari, deve trovare a maggior ragione applicazione nell’ipotesi di rilascio di successive concessioni edilizie e/o permessi di costruire nell’ambito della stessa area in costanza di indice di fabbricabilità, dovendosi considerare, al fine di sviluppare la volumetria assentibile, le sole aree da considerare libere, secondo i criteri innanzi descritti.
6.6. In tale contesto, sia gli standard ex art. 5 D.M. 1444/1968, sia le aree da destinare a parcheggio, ai sensi dell’art. 41-sexies l. n. 1150/1942, devono essere considerate come “non disponibili”, ai fini di una successiva edificazione, laddove già considerate (ovvero laddove avrebbero dovuto essere considerate), ai fini della realizzazione di precedenti costruzioni.
Come è noto, l’art. 5 D.M. cit. prevede che,, nelle zone A) e B), a fronte di 100 mq. di superficie lorda di pavimento di edifici previsti, devono corrispondere almeno 40 mq di superficie da destinare a parcheggio, e ciò in aggiunta ai parcheggi previsti dall’art. 18 l. n. 765/1967, e sempre che “siano previste adeguate attrezzature integrative” (dovendosi altrimenti calcolare 80 mq).
A sua volta, l’art. 41-sexies citato (introdotto nella l. n. 1150/1942 proprio dall’art. 18 l. n. 765/1967), prevede che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare (Cons. Stato, sez. V, 04.11.2014 n. 5444; sez. IV, 06.01.2013 n. 32), la disposizione contenuta nel predetto art. 41-sexies “…opera come norma di relazione nei rapporti privatistici e come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la p.a., non potendo quest’ultima autorizzare nuove costruzioni che non siano corredate di dette aree, giacché l’osservanza della norma costituisce condizione di legittimità della concessione edilizia, e spettando esclusivamente alla stessa p.a. l’accertamento della conformità degli spazi alla misura proporzionale stabilita dalla legge e della idoneità a parcheggio delle aree, con la conseguenza che il trasferimento del vincolo di destinazione su aree diverse da quelle originarie può avvenire soltanto mediante il rilascio di una concessione in variante (Cass. civ., sez. II, 13.01.2010, n. 378), chiarendosi anche che, mentre gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 costituiscono aree pubbliche da conteggiarsi ai fini della dotazione d standard, quelli di cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private pertinenziali alle nuove costruzioni e come tali escluse (ex art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968, n. 1444) dal computo del calcolo della misura degli standards”.
Orbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza impugnata, la circostanza che le aree di cui all’art. 41-sexies siano da qualificarsi “aree pertinenziali private”, come tali escluse dal computo degli standard, non significa che dette aree possano essere considerate come “disponibili”, ai fini del successivo calcolo della superficie utilizzabile per una nuova costruzione.
Ed infatti, l’art. 3, co. 2, lett. d) del D.M. n. 1444/1968, in sintonia con quanto previsto dal successivo art. 5, si limita a precisare che le aree ex art. 41-sexies non possono essere considerate ai fini del computo delle aree da riservare a parcheggi (standard), ma si intendono come “aggiuntive” a questi ultimi.
Si tratta di una disposizione che, in presenza di una nuova costruzione, tende ad aumentare le aree da destinare a parcheggi, privati (in quanto verosimilmente a disposizione dei condomini) ovvero pubblici.
Alla luce di quanto sin qui esposto, non possono, dunque, trovare accoglimento le considerazioni esposte dall’appellato Di Na..
Ed infatti, con riferimento a tutte le aree destinate a standard ex art. 5 e a parcheggi ex art. 41-sexies, le stesse non possono essere ritenute come utilizzabili per il calcolo del volume ulteriormente insediabile sul lotto; se ciò fosse, l’area considerata sarebbe soggetta ad un “effetto moltiplicatore” di cubatura, travolgendosi nei fatti il rapporto tra area coperta ed area scoperta (a prescindere dalla sua finalizzazione), che invece il legislatore ha inteso assicurare.
Così argomentando, come si è già detto, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
Né assumono particolare rilevanza la circostanza che l’area da destinare a parcheggi (pubblici o privati) sia di proprietà privata, ovvero il fatto che -come sostenuto dall’appellato con riferimento a quanto differentemente previsto per aree residenziali o commerciali da riservare a parcheggi- “le diverse destinazioni dell’immobile condizionerebbero le superfici effettivamente a disposizione” per l’ulteriore volume insediabile (pag. 12-13 memoria dep. 28.04.2017)
Infatti, l’imposizione di standard e/o vincoli di destinazione costituisce conformazione della proprietà privata, onde contemperare lo jus aedificandi del privato (assentito, nel suo esercizio, dalla Pubblica amministrazione) con le evidenti esigenze pubblicistiche di assicurare un uso armonico del territorio, volto alla soddisfazione della pluralità di esigenze di vita e, non ultimo, del diritto alla salute di tutti i cittadini.
Ed in tale contesto è appena il caso di osservare che, a differenti destinazioni dell’immobile edificato, ben possono (anzi, ragionevolmente, “debbono”) corrispondere superfici di diversa entità da considerare “vincolate nella destinazione” al predetto immobile (in quanto condizioni per la sua edificazione), e, dunque, secondo i principi sin qui esposti, ormai “sfruttate” e non più computabili per ulteriori ed eventuali possibilità edificatorie.
6.7. Nel caso di specie, la superficie complessiva del lotto, pari a mq. 4065, ha già visto la realizzazione di un fabbricato (destinato ad albergo, poi a scuola) di mc. 3415,64 (oltre la volumetria interrata pari a mc. 2131,50) e di una superficie pavimentata lorda complessiva di mq. 1761,64 (tale estensione, affermata dall’appellante, non è contestata dall’appellato).
Ne consegue che, applicando gli standard ex art. 5 D.M. n. 1444/1968, la superficie da destinare a parcheggio è pari a mq. 1409,31; mentre le aree da destinare a parcheggi ex art. 41-sexies sono pari a mq. 341,56, per un totale di superficie destinata pari a mq. 1750,87.
Detraendo tale superficie da quella complessiva del lotto (4065 – 1750,64), la superficie residua, sulla quale applicare l’indice di fabbricabilità fondiario, è di mq. 2314,36, che sviluppa, dunque (mq. 2314,36 x 1,5 mc), una volumetria di mc. 3471,54 (di poco superiore a quella già esistente sul lotto).
Da ciò consegue, pertanto, l’intervenuto esaurimento del lotto e la illegittimità del permesso di costruire n. 5097/2015.
6.8. Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere accolto nei limiti sopra precisati e, per l’effetto, in riforma della sentenza n. 2665/2015 impugnata, deve essere accolto il ricorso instaurativo del giudizio di I grado, con conseguente annullamento del permesso di costruire n. 5097/2015, rilasciato dal Comune di Agropoli
(Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2017 n. 5419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale, l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo “la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano “servono a conformare l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del Piano o di una sua variante”, ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei suoli.
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La “densità edilizia territoriale” è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa, la “densità edilizia fondiaria” è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile.
La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità edilizia fondiaria, concernendo la singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione ed è a tale indice che occorre fare concreto riferimento ai fini della individuazione della volumetria effettivamente assentibile con il permesso di costruire.
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6.3.Il Collegio, ai fini della decisione della presente controversia, deve richiamare alcune considerazioni, già svolte da questo Consiglio di Stato (sez. IV, 20.07.2016 n. 3246; 09.07.2011 n. 4134, di recente riaffermate con sentenza 20.07.2017 n. 3573) e che devono essere riconfermate nella presente sede.
Ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale, l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo “la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare, “servono a conformare l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del Piano o di una sua variante” (Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2009 n. 4009), ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei suoli (Cons. Stato, sez. II, 18.06.2008 n. 982).
In tale contesto, come affermato dalla giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV, 08.01.2013 n. 32) “la “densità edilizia territoriale” è riferita a ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa, la “densità edilizia fondiaria” è riferita alla singola area e definisce il volume massimo su di essa edificabile”.
La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità edilizia fondiaria, concernendo la singola area e definendo il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie suscettibile di edificazione ed è a tale indice che occorre fare concreto riferimento ai fini della individuazione della volumetria effettivamente assentibile con il permesso di costruire (cfr., sul punto e per concludere, Cons. Stato, Ad. plen., 23.04.2009, n. 3; Cass. civ., sez. I, 26.09.2016, n. 18841) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2017 n. 5419 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: La rinnovazione del piano regolatore (anche quando prevede nuovi e più favorevoli indici di edificabilità), può interessare, nell'ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, solo le aree libere, con esclusione di quelle comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino fisicamente libere da immobili.
Nel caso di realizzazione di manufatti edilizi, la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area accorpata, l'intera estensione interessata, infatti, deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto.
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Lo strumento urbanistico, nel disporre le conformazioni del territorio, considera le sole aree libere e più precisamente quelle che non risultano già edificate in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione, diversamente opinando "ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo".
Pertanto, quando un'area edificabile viene successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile nell'intera area permane invariata; di conseguenza, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una o più costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente residua tenuto conto di quanto originariamente costruito.
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5c. Giova soggiungere che la rinnovazione del piano regolatore (anche quando prevede nuovi e più favorevoli indici di edificabilità), può interessare, nell'ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, solo le aree libere, con esclusione di quelle comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino fisicamente libere da immobili.
Nel caso di realizzazione di manufatti edilizi, la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area accorpata, l'intera estensione interessata, infatti, deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto.
5d. Lo strumento urbanistico, nel disporre le conformazioni del territorio, considera le sole aree libere e più precisamente quelle che non risultano già edificate in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione, diversamente opinando "ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 20/07/2016 n. 3246).
5e. Pertanto, quando un'area edificabile viene successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile nell'intera area permane invariata; di conseguenza, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una o più costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente residua tenuto conto di quanto originariamente costruito.
Conclusivamente l'appello è del tutto infondato e va respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.08.2017 n. 3949 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale, l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo “la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano “servono a conformare l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del Piano o di una sua variante”, ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei suoli.
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Proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare, nell’ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili.
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E' stato affermato che "un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni”.
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto".
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Proprio perché il piano regolatore (e le sue successive modificazioni) considerano le sole aree libere, eventuali variazioni degli indici di fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai privati proprietari) non possono riguardare aree già utilizzate a fini edificatori.
Al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei predetti indici si impongono ad aree per le quali, pur essendo in precedenza previsti indici più favorevoli, non siano state ancora utilizzate a fini edificatori.
Né vi è contraddizione tra le due precedenti ipotesi, poiché esse sono ambedue perfettamente coerenti con la esposta tesi della conformabilità delle sole aree libere. Ed infatti, nel primo caso, l’area non può definirsi libera, in quanto già utilizzata a fini edificatori, mentre nel secondo l’area è libera, posta la sua non ancora intervenuta utilizzazione.
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3.2. Il Collegio, ai fini della decisione della presente controversia, deve richiamare alcune considerazioni, già svolte da questo Consiglio di Stato (sez. IV, 20.07.2016 n. 3246; 09.07.2011 n. 4134) e che devono essere riconfermate nella presente sede.
Ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale, l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare prevedendo “la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano, come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare, “servono a conformare l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell’entrata in vigore del Piano o di una sua variante” (Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2009 n. 4009), ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei suoli (Cons. Stato, sez. II, 18.06.2008 n. 982).
Orbene, proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole “aree libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare, nell’ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto, peraltro, modo di affermare che "un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni” (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto" (Cons. Stato, sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
Quanto esposto, comporta che, proprio perché il piano regolatore (e le sue successive modificazioni) considerano le sole aree libere, eventuali variazioni degli indici di fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai privati proprietari) non possono riguardare aree già utilizzate a fini edificatori.
Al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei predetti indici si impongono ad aree per le quali, pur essendo in precedenza previsti indici più favorevoli, non siano state ancora utilizzate a fini edificatori.
Né vi è contraddizione tra le due precedenti ipotesi, poiché esse sono ambedue perfettamente coerenti con la esposta tesi della conformabilità delle sole aree libere. Ed infatti, nel primo caso, l’area non può definirsi libera, in quanto già utilizzata a fini edificatori, mentre nel secondo l’area è libera, posta la sua non ancora intervenuta utilizzazione (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 20.07.2017 n. 3573 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ove una determinata area sia stata considerata ai fini dell’indice fondiario di fabbricazione, ogni ulteriore costruzione che interessi in tutto o in parte l’area stessa, anche se quest’ultima sia stata successivamente divisa, deve tener conto dei volumi realizzati sull’intero lotto considerato ai fini della precedente concessione”, diversamente consentendosi “il superamento della densità edilizia voluta dallo strumento urbanistico”, e legittimando “un differente ed inammissibile regime edilizio tra aree che sono rimaste in titolarità allo stesso proprietario, e quelle che invece siano state frazionate a seguito di interventi edilizi sulle stesse.
Invero, nel caso in cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va infatti calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata.
Un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è infatti suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
Lotto urbanistico e lotto catastale esprimono infatti concetti diversi, essendo il primo imperniato sulla fruibilità urbanistica del suolo, e pertanto, sulla omogeneità della destinazione urbanistica del terreno, che ben può essere composto da una pluralità di numeri di mappale o particelle catastali. Il lotto edificabile integra dunque uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale, ben potendo il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari, e perfino tra loro non contigui, che viene individuato dagli strumenti urbanistici, sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica.
Conseguentemente, è irrilevante, sotto il profilo urbanistico, la ripartizione di un lotto unitario in più particelle catastali, di modo che, ai fini del rilascio di un titolo edilizio per la costruzione di nuovi volumi, è necessario considerare nel computo degli indici di fabbricazione anche i manufatti già esistenti sull'intera area di proprietà, pur se ricadenti in particelle catastali distinte da quella oggetto di intervento.

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II) In primo luogo, osserva il Collegio che la citata sentenza n. 372/1993, resa tra le medesime parti, e con riferimento ad un progetto edilizio insistente sull’area oggetto del presente giudizio, pronunciandosi sull’interpretazione del citato art. 6.14.1 delle N.T.A., ha affermato che “ove una determinata area sia stata considerata ai fini dell’indice fondiario di fabbricazione, ogni ulteriore costruzione che interessi in tutto o in parte l’area stessa, anche se quest’ultima sia stata successivamente divisa, deve tener conto dei volumi realizzati sull’intero lotto considerato ai fini della precedente concessione”, diversamente consentendosi “il superamento della densità edilizia voluta dallo strumento urbanistico”, e legittimando “un differente ed inammissibile regime edilizio tra aree che sono rimaste in titolarità allo stesso proprietario, e quelle che invece siano state frazionate a seguito di interventi edilizi sulle stesse”.
III) I principi affermati in detta sentenza, per quanto contraddetti dall’isolata pronuncia del Consiglio di Stato invocata dalla ricorrente (n. 5194/2002), sono condivisi dal Collegio, oltre che dalla giurisprudenza pressoché unanime.
Diversamente da quanto sostenuto dall’istante, nel caso in cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la superficie coperta residua, va infatti calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata (C.S., Sez. IV, 22.05.2012, n. 2941, TAR Lombardia, Milano, Sez., II, n. 2652/2015).
Un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è infatti suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (C.S., Sez. V, 12.07.2005 n. 3777, n. 5039/2004, n. 1074/2001).
IV) Lotto urbanistico e lotto catastale esprimono infatti concetti diversi, essendo il primo imperniato sulla fruibilità urbanistica del suolo, e pertanto, sulla omogeneità della destinazione urbanistica del terreno, che ben può essere composto da una pluralità di numeri di mappale o particelle catastali. Il lotto edificabile integra dunque uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale, ben potendo il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari, e perfino tra loro non contigui, che viene individuato dagli strumenti urbanistici, sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica (C.S. Sez. V, 09.03.2015, n. 1161, C.S., Sez. V, 13.09.2013, n. 4531).
Conseguentemente, è irrilevante, sotto il profilo urbanistico, la ripartizione di un lotto unitario in più particelle catastali, di modo che, ai fini del rilascio di un titolo edilizio per la costruzione di nuovi volumi, è necessario considerare nel computo degli indici di fabbricazione anche i manufatti già esistenti sull'intera area di proprietà, pur se ricadenti in particelle catastali distinte da quella oggetto di intervento (C.S., Sez. V, 27.06.2006, n. 4117) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.05.2017 n. 1191 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto.
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12.8. I rilievi ora esposti si pongono nel solco di una giurisprudenza consolidata, giacché, "in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto" (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 06.09.1999, n. 1402; sez. V, 07.11.2002, n. 6128; sez. IV, 20.07.2016, n. 3246) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.11.2016 n. 4891 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (art. 4, u.c., L. 28.01.1977, n. 10) e dallo strumento urbanistico, e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui "un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa".
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti, non rileva la circostanza che l'unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare l'esistenza di più manufatti sul fondo dell'originario unico proprietario.
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Ai sensi dell'art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale, l'assetto urbanistico dell'intero territorio comunale, in particolare prevedendo "la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona".
Le previsioni del Piano servono a conformare l'edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell'entrata in vigore del Piano o di una sua variante, ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei suoli.
Proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e di indicazione delle sue possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole "aree libere", tali dovendosi ritenere quelle "disponibili" al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l'edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D'altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano.
Sicché, l'eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare, nell'ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, le sole aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino "fisicamente" libere da immobili.
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Un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni.
Più in particolare, è stato, sempre in giurisprudenza, precisato che in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto.
Né il vincolo che deriva dall’utilizzo della volumetria su una determinata area necessita specifiche previsioni o atti.
Infatti, quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis dalla sua utilizzazione, sulla base della concessione edilizia, senza la necessità di strumenti negoziali privatistici (atto d'obbligo, trascrizione, ecc.).
Questi ultimi, invece, devono sussistere solo quando il proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure, ancora, quando siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari di più terreni li asservano unitariamente alla realizzazione di un unico progetto, ai fini della quale i rispettivi lotti perdono, dal punto di vista urbanistico-edilizio, la loro "individualità". Tale vincolo rimane così cristallizzato nel tempo.
Gli effetti derivanti dal vincolo creato dall'asservimento di un fondo, in caso di edificazione, integrando una qualità oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle potenzialità edificatorie dell'area asservita, con permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario.
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1) Il ricorso si rivela infondato.
2) Parte ricorrente lamenta i criteri di determinazione da parte dell’amministrazione della volumetria realizzabile sull’area di sua proprietà e, in particolare, afferma che l’indice di fabbricabilità andasse calcolato sulla sola base della volumetria realizzata (e quella assentibile) nell’area classificata B1 dal nuovo piano regolatore, senza tener conto di quanto in precedenza realizzato anche nell’area ora F5, e invece valutando che il frazionamento dell’area dall’originaria particella 5189 era precedente alle modifiche di PRG, che aveva ripianificato la zona in questione e devoluto ex novo una parte dell’originaria area a questa nuova destinazione.
L’intervenuto nuovo strumento urbanistico avrebbe stabilito un indice di fabbricabilità fondiaria autonomo interamente sfruttabile nell’area in questione, senza la necessità di tener presente quanto in precedenza costruito su altro lotto (ancorché le due aree costituissero inizialmente un’unica entità), poi assoggettato a differente destinazione urbanistica.
Le doglianze formulate non possono essere accolte.
Al riguardo, deve considerarsi che, secondo consolidati principi espressi dalla giurisprudenza, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (art. 4, u.c., L. 28.01.1977, n. 10) e dallo strumento urbanistico, e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui "un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione" (Cons. Stato Sez. IV, 26/09/2008, n. 4647; Cons. di Stato, sez. V, 12.07.2004 n. 5039), "a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa" (Cons. di Stato, sez. V, 28.02.2001 n. 1074).
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti, non rileva la circostanza che l'unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare l'esistenza di più manufatti sul fondo dell'originario unico proprietario (Cons. Stato, sez. V, 26.11.1994 n. 1382).
Ai sensi dell'art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale, l'assetto urbanistico dell'intero territorio comunale, in particolare prevedendo "la divisione in zone del territorio comunale con la precisazione delle zone destinate all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona".
Le previsioni del Piano servono a conformare l'edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti al momento dell'entrata in vigore del Piano o di una sua variante (Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2009 n. 4009), ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei suoli (Cons. Stato, sez. II, 18.06.2008 n. 982).
Proprio per le sue caratteristiche di strumento di pianificazione e di indicazione delle sue possibilità di utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le future conformazioni del territorio, considera le sole "aree libere", tali dovendosi ritenere quelle "disponibili" al momento della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per l'edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D'altra parte, diversamente opinando, ogni nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale (cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti), valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da conformare per il migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso vivono ed operano (Cons. Stato Sez. IV, Sent., 09/07/2011, n. 4134).
Quanto sin qui esposto, comporta che l'eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare, nell'ambito della zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico, le sole aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si presentino "fisicamente" libere da immobili.
Un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia agli effetti della volumetria realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, è stato, sempre in giurisprudenza, precisato che in ipotesi di realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata, l'intera estensione interessata deve essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto (Cons. Stato Sez. IV, 09.07.2011, n. 4134; Cons. Stato, sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
Né il vincolo che deriva dall’utilizzo della volumetria su una determinata area necessita specifiche previsioni o atti.
Infatti, quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis dalla sua utilizzazione, sulla base della concessione edilizia, senza la necessità di strumenti negoziali privatistici (atto d'obbligo, trascrizione, ecc.) (Sez. IV, 19.01.2008, n. 255; 19.10.2006, n. 6229; 31.01.2005, n. 217).
Questi ultimi, invece, devono sussistere solo quando il proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria maggiore di quella che il suo solo terreno gli consentirebbe, oppure, ancora, quando siffatto asservimento sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari di più terreni li asservano unitariamente alla realizzazione di un unico progetto, ai fini della quale i rispettivi lotti perdono, dal punto di vista urbanistico-edilizio, la loro "individualità" (Cons. Stato, Sez. V, 23.03.2004, n. 1525 e 25.11.1988, n. 744). Tale vincolo rimane così cristallizzato nel tempo (Cons. Stato, Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766).
Gli effetti derivanti dal vincolo creato dall'asservimento di un fondo, in caso di edificazione, integrando una qualità oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle potenzialità edificatorie dell'area asservita, con permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di chiunque ne sia il proprietario (Cons. Stato Sez. V, 27.06.2011, n. 3823).
In conclusione, quindi, in base a quanto indicato, nel caso di specie, la realizzazione della cubatura sull’originario fondo n. 5189 da parte della Im.Ca. spa, a cui si è sommata quella già realizzata dalla ricorrente sull’attuale particella n. 5375, derivata a seguito di frazionamento, aveva esaurito le possibilità edificatorie dell’area originaria e a nulla può valere, nel senso di attribuire una maggiore fabbricabilità, la circostanza dell’intervenuto frazionamento e dell’adozione di un nuovo strumento urbanistico che ha impresso a una parte del fondo una diversa destinazione, in quanto l’indice di fabbricazione dell’area originaria non è comunque aumentato.
3) Per le suesposte ragioni il ricorso va rigettato (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 05.05.2016 n. 2265 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Qualora il piano abbia aumentato le potenzialità edificatorie del suolo, non vi è infatti alcuna ragione per distinguere le aree già edificate da quelle non edificate, dovendosi semplicemente riscontrare se, detratta la volumetria già realizzata sul lotto, residui una ulteriore potenzialità edificatoria.
Per la stessa ragione, non rileva se il lotto fosse stato edificato saturando la volumetria consentita dal precedente strumento urbanistico, poiché –come detto– ciò che rileva è unicamente la circostanza che residui una volumetria edificabile in base al nuovo strumento urbanistico.
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La natura della funzione di pianificazione urbanistica non è diretta soltanto a disciplinare le potenzialità edificatorie dei suoli liberi da costruzioni, ma è volta a regolare complessivamente l’uso di tutto il territorio interessato dal piano, per il soddisfacimento del complesso delle esigenze della comunità insediata.
Dalla natura stessa di tale funzione discende che ogni strumento urbanistico ha pari forza formale rispetto a quelli ad esso gerarchicamente equiordinati, per cui i rapporti tra le previsioni di diversi strumenti di pianificazione urbanistica generale comunale non possono che risolversi in base al principio cronologico (lex posterior derogat priori).
Conseguentemente, una volta venuto meno il PRG, affermare che le aree già edificate non sarebbero ulteriormente edificabili, nonostante le più favorevoli previsioni del nuovo PGT, equivarrebbe anche a riconoscere una sostanziale e non prevista portata ultrattiva allo strumento urbanistico ormai abrogato.

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Secondo un principio costantemente ribadito dal giudice amministrativo, un'area è suscettibile di ulteriore edificazione proprio e soltanto nel caso in cui la costruzione già realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore titolo edilizio.
Conseguentemente, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata (e ciò ferma restando l’irrilevanza –sempre ribadita in giurisprudenza– di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo).
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D’altra parte, non può neppure condividersi l’affermazione per cui l’eventuale volumetria aggiuntiva dovrebbe comunque essere sfruttata per incrementare le superfici già utilizzabili in base al precedente indice urbanistico, e non anche per consentire l’utilizzazione della cantina/deposito, precedentemente non computata nella volumetria.
Si tratta, infatti, di una tesi che non trova alcun aggancio nel complessivo sistema della disciplina urbanistica, dal quale non si inferisce alcun divieto di utilizzare l’incremento dell’indice edificatorio per trasformare uno spazio non abitabile in locale destinato alla permanenza di persone.
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8.2 Ciò posto, non può condividersi la tesi dei ricorrenti, secondo la quale l’incremento della volumetria edificabile previsto dal nuovo strumento urbanistico potrebbe operare solo nelle aree libere da costruzioni, e non invece in quelle già edificate, tanto più ove già volumetricamente sature.
Qualora il piano abbia aumentato le potenzialità edificatorie del suolo, non vi è infatti alcuna ragione per distinguere le aree già edificate da quelle non edificate, dovendosi semplicemente riscontrare se, detratta la volumetria già realizzata sul lotto, residui una ulteriore potenzialità edificatoria.
Per la stessa ragione, non rileva se il lotto fosse stato edificato saturando la volumetria consentita dal precedente strumento urbanistico, poiché –come detto– ciò che rileva è unicamente la circostanza che residui una volumetria edificabile in base al nuovo strumento urbanistico.
La tesi opposta non è condivisibile, in quanto contrasta con la natura stessa della funzione di pianificazione urbanistica, la quale non è diretta soltanto a disciplinare le potenzialità edificatorie dei suoli liberi da costruzioni, ma è volta a regolare complessivamente l’uso di tutto il territorio interessato dal piano, per il soddisfacimento del complesso delle esigenze della comunità insediata.
Dalla natura stessa di tale funzione discende che ogni strumento urbanistico ha pari forza formale rispetto a quelli ad esso gerarchicamente equiordinati, per cui i rapporti tra le previsioni di diversi strumenti di pianificazione urbanistica generale comunale non possono che risolversi in base al principio cronologico (lex posterior derogat priori).
Conseguentemente, una volta venuto meno il PRG, affermare che le aree già edificate non sarebbero ulteriormente edificabili, nonostante le più favorevoli previsioni del nuovo PGT, equivarrebbe anche a riconoscere una sostanziale e non prevista portata ultrattiva allo strumento urbanistico ormai abrogato.
8.3 Le conclusioni qui raggiunte sono, del resto, pacifiche in giurisprudenza, atteso che, secondo un principio costantemente ribadito dal giudice amministrativo, un'area è suscettibile di ulteriore edificazione proprio e soltanto nel caso in cui la costruzione già realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore titolo edilizio (Cons. Stato, Sez. V, 28.05.2012, n. 3120; Id., Sez. IV, 29.09.2008, n. 4647; Id., Sez. V, 12.07.2004, n. 5039; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 24.02.2012, n. 623).
Conseguentemente, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata (v. tra le ultime: Cons. Stato, Sez. IV, 22.05.2012, n. 2941; e ciò ferma restando l’irrilevanza –sempre ribadita in giurisprudenza, ma costituente questione che non si pone nel caso di specie– di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo).
8.4 D’altra parte, non può neppure condividersi l’affermazione per cui l’eventuale volumetria aggiuntiva dovrebbe comunque essere sfruttata per incrementare le superfici già utilizzabili in base al precedente indice urbanistico, e non anche per consentire l’utilizzazione della cantina/deposito, precedentemente non computata nella volumetria.
Si tratta, infatti, di una tesi che non trova alcun aggancio nel complessivo sistema della disciplina urbanistica, dal quale non si inferisce alcun divieto di utilizzare l’incremento dell’indice edificatorio per trasformare uno spazio non abitabile in locale destinato alla permanenza di persone (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 15.04.2016 n. 737 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (…), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (…) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione” (…), a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
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Non può farsi riferimento alla <<cubatura residua determinatasi per effetto del previgente indice di fabbricabilità fondiaria, essendo essa oggetto di una facoltà che se non esercitata non è “opponibile” al nuovo piano … (derivando da ciò) anche l’irrilevanza del frazionamento del lotto non potendo esso fungere da strumento di conservazione per l’utilizzazione della stessa>>.
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L’asservimento di un’area ad una costruzione, dà luogo ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente, indipendentemente da quando esso si è verificato, a nulla valendo che la cubatura originariamente assentita non sia stata sfruttata per intero, che, dopo l’asservimento, l’area sia stata frazionata, e che il titolo edilizio a servizio del quale l’asservimento stesso opera, sia venuto meno per decadenza.
L'asservimento di un fondo, ai fini della sua edificabilità, costituisce, infatti, una qualità oggettiva dello stesso, che continua a seguirlo anche nei successivi trasferimenti o frazionamenti a qualsiasi titolo posti in essere in epoca successiva, indipendentemente dalle vicende riguardanti il titolo a cui accede, posto che il vincolo dal medesimo creato per sua natura permane sul fondo “servente” (nel senso che per il calcolo della sua edificabilità vanno computati i volumi comunqu
e esistenti) a tempo indeterminato.
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Gli argomenti di doglianza così sintetizzati, non meritano accoglimento.
Occorre premettere che, come rilevato dalla giurisprudenza: <<il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (…), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (…) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata. Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione” (…), a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa>> (Cons. Stato, Sez. IV, 26/09/2008, n. 4647).
La stessa giurisprudenza ha, inoltre, chiarito che non può farsi riferimento alla <<cubatura residua determinatasi per effetto del previgente indice di fabbricabilità fondiaria, essendo essa oggetto di una facoltà che se non esercitata non è “opponibile” al nuovo piano … (derivando da ciò) anche l’irrilevanza del frazionamento del lotto non potendo esso fungere da strumento di conservazione per l’utilizzazione della stessa>> (Cons. Stato, Sez. IV, 29/01/2008, n. 255).
A quanto sopra occorre ancora aggiungere, per quanto qui rileva, che l’asservimento di un’area ad una costruzione, dà luogo ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente, indipendentemente da quando esso si è verificato (Cons. Stato, A.P. 23/04/2009, n. 3; Sez. V, 26/09/2013, n. 4757), a nulla valendo che la cubatura originariamente assentita non sia stata sfruttata per intero, che, dopo l’asservimento, l’area sia stata frazionata, e che il titolo edilizio a servizio del quale l’asservimento stesso opera, sia venuto meno per decadenza.
L'asservimento di un fondo, ai fini della sua edificabilità, costituisce, infatti, una qualità oggettiva dello stesso, che continua a seguirlo anche nei successivi trasferimenti o frazionamenti a qualsiasi titolo posti in essere in epoca successiva (Cons. Stato, Sez. V, 30/03/1998, n. 387; Sez. IV, 06/07/2010, n. 4333), indipendentemente dalle vicende riguardanti il titolo a cui accede, posto che il vincolo dal medesimo creato per sua natura permane sul fondo “servente” (nel senso che per il calcolo della sua edificabilità vanno computati i volumi comunque esistenti) a tempo indeterminato (Cons. Stato, Sez. V, 17/06/2014 n. 3094).
Alla luce delle illustrate coordinate di diritto, emerge l’infondatezza delle tesi sostenute dagli appellanti (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 01.07.2015 n. 3251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulle modalità di calcolo della volumetria residua di un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi.
Va precisato che “lotto urbanistico” e “lotto catastale” esprimono concetti diversi, sicché non sempre coincidono.
La locuzione "lotto" a ben vedere è impropriamente utilizzata per indicare una porzione di suolo catastalmente definita, non avendo nulla a che vedere con l'identificazione catastale di una o più particelle o mappali, essendo imperniata sulla fruibilità urbanistica del suolo e, pertanto, sulla omogeneità della destinazione urbanistica del terreno, che ben può essere composto da una pluralità di numeri di mappale o particelle catastali.
Il lotto edificabile integra, dunque, uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non contigui) e che viene individuato dagli strumenti urbanistici sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica.
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Circa la suscettività edificatoria del mappale, o più in generale di un’area frazionata in più parti e parzialmente costruita, è quella che residua dalla volumetria complessiva dell’area, detratta la volumetria dell’originaria costruzione.
Non rileva, quindi, ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, che l’unico fondo sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare l’esistenza di più manufatti sul fondo originario prima del frazionamento, ove questo sia considerato unitariamente sotto l’aspetto urbanistico edilizio.
Ne consegue che un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento della domanda del nuovo permesso di costruire, dovendosi considerare, ai fini del calcolo della volumetria, non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
Va da sé che un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia ai fini della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni.
Diversamente, attraverso la mera operazione di frazionamento catastale del lotto urbanistico, si altererebbe la disciplina di piano e la potenzialità edificatoria attribuita ad una determinata area.
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15.- Ciò posto in fatto, va esaminata la questione delle modalità di calcolo della volumetria residua di un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi.
15.1- Va, innanzi tutto, precisato che “lotto urbanistico” e “lotto catastale” esprimono concetti diversi, sicché non sempre coincidono.
La locuzione "lotto" a ben vedere è impropriamente utilizzata per indicare una porzione di suolo catastalmente definita, non avendo nulla a che vedere con l'identificazione catastale di una o più particelle o mappali, essendo imperniata sulla fruibilità urbanistica del suolo e, pertanto, sulla omogeneità della destinazione urbanistica del terreno, che ben può essere composto da una pluralità di numeri di mappale o particelle catastali (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 13.09.2013, n. 4531).
Il lotto edificabile integra, dunque, uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto edificabile essere formato da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non contigui) e che viene individuato dagli strumenti urbanistici sulla base degli indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica.
Ne consegue l’indifferenza ai fini urbanistici del fatto che il mappale 223, qui in questione, sia lotto catastalmente autonomo perché scorporato dal mappale originario.
E’ rilevante, invece che il lotto urbanistico, come definito nel progetto del fabbricato a suo tempo approvato, è comprensivo anche del mappale 223.
Corollario di tali considerazioni è l’insensibilità del frazionamento catastale ai fini urbanistici e della suscettività edificatoria del mappale 223.
15.2- Fermo tanto, quanto alla suscettività edificatoria del mappale 223, o più in generale di un’area frazionata in più parti e parzialmente costruita, è quella che residua dalla volumetria complessiva dell’area, detratta la volumetria dell’originaria costruzione (Cons. Stato, sez. VI, n. 255 del 2008).
Non rileva, quindi, ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, che l’unico fondo sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare l’esistenza di più manufatti sul fondo originario prima del frazionamento, ove questo sia considerato unitariamente sotto l’aspetto urbanistico edilizio.
Ne consegue che un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento della domanda del nuovo permesso di costruire, dovendosi considerare, ai fini del calcolo della volumetria, non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5039 del 2004; Cons. Stato, sez. V, n. 1074 del 2001).
Va da sé che un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia ai fini della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei terreni.
Diversamente, attraverso la mera operazione di frazionamento catastale del lotto urbanistico, si altererebbe la disciplina di piano e la potenzialità edificatoria attribuita ad una determinata area.
15.3- L’applicazione di tali criteri ermeneutici comporta, per la fattispecie qui in esame, che la volumetria ancora utilizzabile è quella che residua dalla volumetria totale del lotto urbanistico nella sua consistenza originaria, determinata in base agli indici volumetrici vigenti al momento della domanda del nuovo permesso di costruire, detratta quella già esistente.
Ne consegue la correttezza del diniego dell’amministrazione comunale che più volte ha evidenziato agli interessati che l’intervento edilizio riguardava un lotto urbanistico unitario, parzialmente edificato, sicché tutti i parametri urbanistici andavano riferiti al lotto urbanistico, non rilevando il frazionamento catastale dell’area (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 09.03.2015 n. 1161 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un’area già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando le costruzioni su di essa esistenti, indipendentemente dall’epoca della relativa realizzazione, non esauriscano la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire.
Con la conseguenza che, al fine di verificare se residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, si deve considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura dell’edificazione preesistente, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa, frazionata o alienata separatamente.

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Anche le critiche sollevate col secondo motivo dei due appelli non persuadono.
Esaminando le più diffuse e articolate contestazioni della SCER, comprensive anche di quella esposta dal Comune, va prioritariamente considerata l’obiezione che giustamente la società aveva fatto riferimento alle p.lle 1050, 1051 e 1052 e non all’intero comparto.
Sul punto, si condivide pienamente quanto ritenuto dal Tar. Infatti, un’area già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando le costruzioni su di essa esistenti, indipendentemente dall’epoca della relativa realizzazione, non esauriscano la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire; con la conseguenza che, al fine di verificare se residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, si deve considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura dell’edificazione preesistente, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa, frazionata o alienata separatamente (CGARS, sentenza 19.11.2014 n. 629 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’indice di fabbricabilità territoriale “s’applica esclusivamente nel calcolo dei volumi, complessivamente realizzabili in una ben definita zona urbanistica, in sede di attuazione dello strumento urbanistico, laddove per il calcolo del volume, assentibile in relazione ad un ben individuato e specifico intervento edilizio, occorre rifarsi necessariamente all'indice di fabbricabilità fondiaria”.
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Quanto al calcolo della volumetria in concreto ammissibile il Consiglio di Stato ha da tempo affermato che:
   - “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione”, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa;
   - “allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari,… la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione”.
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Come chiarito dal Consiglio di Stato, dunque, non è possibile applicare l’indice di fabbricabilità fondiaria sulla sola porzione di fondo risultante dal frazionamento. Ma non è impedito alla proprietà utilizzare su tale porzione la volumetria che residua una volta decurtate le dimensioni della costruzione esistente e dei relativi standard.
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In relazione al primo motivo, questo Tribunale ha già avuto occasione di chiarire come l’indice di fabbricabilità territoriales’applichi esclusivamente nel calcolo dei volumi, complessivamente realizzabili in una ben definita zona urbanistica, in sede di attuazione dello strumento urbanistico, laddove per il calcolo del volume, assentibile in relazione ad un ben individuato e specifico intervento edilizio, occorre rifarsi necessariamente all'indice di fabbricabilità fondiaria” (sent. n. 1821/2013).
Sicché, sotto questo profilo, l’operato del Comune, in sede di rilascio dell’impugnato p.d.c., risulta corretto.
Quanto al calcolo della volumetria in concreto ammissibile, pure censurato dal ricorrente, il Consiglio di Stato ha da tempo affermato che:
   - “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione” (sez. V, sent. 12.07.2004, n. 5039), a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (id., sent. 28.02.2001, n. 1074);
   - “allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari,… la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione” (sez. IV, sent. 16.02.1987, n. 91).
Come chiarito dal Consiglio di Stato, dunque, non è possibile applicare l’indice di fabbricabilità fondiaria sulla sola porzione di fondo risultante dal frazionamento. Ma non è impedito alla proprietà utilizzare su tale porzione la volumetria che residua una volta decurtate le dimensioni della costruzione esistente e dei relativi standard. E di ciò ha tenuto conto il Comune nel rilasciare l’impugnato permesso di costruire.
Per fare maggior chiarezza, si precisa che nella fattispecie in esame la cubatura a disposizione degli odierni controinteressati non deriva da una variazione in melius dell’indice di fabbricazione, la quale certamente non avrebbe potuto riguardare aree già utilizzate a fini edificatori (così, Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n. 4134/2011); bensì risulta dalla applicazione alla medesima area, complessivamente considerata e fermi tutti i parametri normativi vigenti, dell’indice di fabbricabilità fondiaria anziché dell’indice di fabbricabilità territoriale (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 04.07.2014 n. 1194 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ove un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
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1.2 Sotto il secondo profilo non può essere condivisa la tesi dell’IEEP secondo la quale la particella 134, distinta dalle altre porzioni risultanti dal frazionamento del lotto originario di estensione pari a 9243 mq, avrebbe una propria autonoma dotazione edificatoria indipendente da quella già espressa dalle altre particelle dell’originario compendio.
Se così fosse basterebbe frazionare i lotti già impegnati con la massima cubatura esprimibile per moltiplicare il carico urbanistico di zona ben oltre il limite consentito dagli indici di fabbricazione.
E’ infatti pacifico in giurisprudenza (TAR Lombardia-Brescia, sez. I, 25.11.2011, n. 1629) che ove un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto (giurisprudenza costante: Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n. 3120 Cons. St., sez. IV, del 22.05.2012, n. 2941).
Ne consegue che il diniego adottato dal Comune di Bari è correttamente fondato sul presupposto che la particella 134, come parte di un più ampio lotto urbanisticamente unitario, in tal guisa considerato all’epoca delle precedenti concessioni edilizie, dovesse scontare la volumetria già realizzata (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 01.04.2014 n. 440 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla determinazione della volumetria residua di un'area già edificata.
Come più volte ribadito dalla Giurisprudenza <<il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata. Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui "un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione" >>, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
La giurisprudenza ha evidenziato che, allorché un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
Pertanto, sia la vendita di una parte dell'originario unico fondo, così come il frazionamento del fondo da parte dell'originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini dell'edificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a quelle assentite al momento del frazionamento.
Fin di recente, la Giurisprudenza ha ribadito che un'area edificabile, già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda concessione nelle perdurante esistenza del primo edificio , irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà de terreni.
Ancora, nel determinare la preesistenza da dedurre, occorre fare riferimento a tutte le costruzioni, che comunque già insistono sull'area, ivi comprese quelle abusive (ovvero condonate) e non già solo a quelle assistite da titolo. Infatti, <<quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis dalla sua utilizzazione, a prescindere dal fatto che l'utilizzazione stessa sia "coperta" o meno da uno dei titoli all'uopo previsti dall'ordinamento, così come a prescindere dalla natura stessa -di verifica preventiva della conformità della realizzando costruzione agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina urbanistico/edilizia, ovvero in sanatoria- del titolo>>.
In conclusione, secondo la giurisprudenza un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
In altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua o la superficie coperta residua vanno calcolate previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con l’ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
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La conclusione non muta nell'ipotesi in cui sia stato costruito abusivamente e la costruzione sia stata successivamente sanata.
In tal caso, la situazione alla quale far riferimento ai fini della valutazione dello sfruttamento o meno della volumetria dei vari lotti non è, come sostiene il ricorrente, quella al momento del rilascio della concessione edilizia in sanatoria (la qual cosa si presterebbe a facile elusione della disciplina urbanistica) bensì quella al momento della edificazione, allorquando la costruzione, per la rilevante cubatura, ha assorbito tutta la volumetria esprimibile dai lotti di terreno all’epoca appartenenti ad unico proprietario.
Non rileva neppure la circostanza che alcuni dei lotti non siano stati inseriti nella domanda di condono, avendo egualmente perduto in via permanente la volumetria al momento della costruzione.
Invero, nel determinare la preesistenza da dedurre occorre fare riferimento a tutte le costruzioni, che comunque già insistono sull’area, ivi comprese quelle abusive (ovvero condonate) e non già solo a quelle assistite da titolo. Infatti (come chiarito dalle decisioni sopra richiamate), quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo sull'area discende ope legis dalla sua utilizzazione, a prescindere dal fatto che l’utilizzazione stessa sia “coperta” o meno da uno dei titoli all’uopo previsti dall’ordinamento, così come a prescindere dalla natura stessa –di verifica preventiva della conformità della realizzanda costruzione agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina urbanistico/edilizia, ovvero successiva ed in sanatoria– del titolo.
Ed ancora, <<il successivo frazionamento della particella originaria non è idoneo a far ottenere una nuova potenzialità edificatoria ad una superficie allo scopo già utilizzata, sia pure con un immobile oggetto di istanza di condono che, comunque, “impegna” la volumetria assentibile sulla stessa area>>. Al riguardo, a nulla rileva che l’abuso edilizio, per il quale è stato richiesto il condono, riguardi una particella mentre il nuovo intervento che si vorrebbe realizzare sarà realizzato su altre particelle , peraltro formate per frazionamento della p.lla originaria.
D’altra parte, <<è pacifico che ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto parzialmente edificato occorra considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area. Tra tali costruzioni vanno dunque inserite anche quelle abusive, purché oggetto di una domanda di condono e dunque, almeno fino alla definizione di tale domanda in senso negativo, non sanzionabili con la demolizione: anche tali manufatti concorrono a determinare una saturazione dell’area, né sembra ragionevole escludere dalla volumetria assentibile quella già sfruttata, sia pure per mezzo di opere abusive successivamente condonate>>.
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In punto di diritto, vanno quindi richiamati i principi elaborati dalla giurisprudenza in termini di determinazione della volumetria residua di un'area già edificata.
Come più volte ribadito dalla Giurisprudenza (cfr. Cons. St., Sez. IV, 26.09.2008 n. 4647; sez. V, 28.05.2012, n. 3120; TAR Lombardia sez. I di Brescia, 25.11.2011 n. 1629; TAR Campania sez. II Napoli, 14.12.2012 n. 5209) <<il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata. Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui "un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione" (cfr. Cons. di Stato, sez. V, 12.07.2004 n. 5039)>>, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n. 3120 e 28.02.2001 n. 1074).
La giurisprudenza (cfr. Cons. St. Sez. V, 27.06.2006 n. 4117, Sez. IV, 16.02.1987 n. 91) ha evidenziato che, allorché un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
Pertanto, sia la vendita di una parte dell'originario unico fondo, così come il frazionamento del fondo da parte dell'originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini dell'edificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a quelle assentite al momento del frazionamento (TAR Sardegna sez. II Cagliari, 19.05.2006 n. 996; TAR Abruzzo Pescara, 06.02.2006 n. 88; TAR Sicilia sez. I Catania, 01.04.2008 n. 547 e 28.04.2010 n. 1251).
Fin di recente, la Giurisprudenza ha ribadito che un'area edificabile , già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia agli effetti della volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in considerazione come area libera, neppure parzialmente , ai fini del rilascio di una seconda concessione nelle perdurante esistenza del primo edificio , irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà de terreni (Cons. Stato, sez. IV, 06.05.2013 e n. 2442 e Sez.V 10.02.2000 n. 749).
Ancora, nel determinare la preesistenza da dedurre, occorre fare riferimento a tutte le costruzioni, che comunque già insistono sull'area, ivi comprese quelle abusive (ovvero condonate) e non già solo a quelle assistite da titolo. Infatti, (cfr. Cons. St., Sez. IV, 12.05.2008 n. 2177) <<quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis dalla sua utilizzazione, a prescindere dal fatto che l'utilizzazione stessa sia "coperta" o meno da uno dei titoli all'uopo previsti dall'ordinamento, così come a prescindere dalla natura stessa -di verifica preventiva della conformità della realizzando costruzione agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina urbanistico/edilizia, ovvero in sanatoria- del titolo>>.
In conclusione, secondo la giurisprudenza un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 2941 del 22.05.2012, sez. V, 12.07.2004 n. 5039).
In altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua o la superficie coperta residua vanno calcolate previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con l’ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
La conclusione non muta nell'ipotesi in cui sia stato costruito abusivamente e la costruzione sia stata successivamente sanata.
In tal caso, la situazione alla quale far riferimento ai fini della valutazione dello sfruttamento o meno della volumetria dei vari lotti non è, come sostiene il ricorrente, quella al momento del rilascio della concessione edilizia in sanatoria (la qual cosa si presterebbe a facile elusione della disciplina urbanistica) bensì quella al momento della edificazione, allorquando la costruzione, per la rilevante cubatura, ha assorbito tutta la volumetria esprimibile dai lotti di terreno all’epoca appartenenti ad unico proprietario.
Non rileva neppure la circostanza che alcuni dei lotti non siano stati inseriti nella domanda di condono, avendo egualmente perduto in via permanente la volumetria al momento della costruzione.
In tal senso, oltre la Giurisprudenza sopra richiamata, v. anche Tar Lombardia, Sez. I di Brescia, sentenza del 25.11.2011 n. 1629, secondo la quale nel determinare la preesistenza da dedurre occorre fare riferimento a tutte le costruzioni, che comunque già insistono sull’area, ivi comprese quelle abusive (ovvero condonate) e non già solo a quelle assistite da titolo. Infatti (come chiarito dalle decisioni sopra richiamate), quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo sull'area discende ope legis dalla sua utilizzazione, a prescindere dal fatto che l’utilizzazione stessa sia “coperta” o meno da uno dei titoli all’uopo previsti dall’ordinamento, così come a prescindere dalla natura stessa –di verifica preventiva della conformità della realizzanda costruzione agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina urbanistico/edilizia, ovvero successiva ed in sanatoria– del titolo.
Nello stesso senso TAR Campania, Sezione VII di Napoli, dec. n. 7042 del 19/05/2010, secondo il quale <<il successivo frazionamento della particella originaria non è idoneo a far ottenere una nuova potenzialità edificatoria ad una superficie allo scopo già utilizzata, sia pure con un immobile oggetto di istanza di condono che, comunque, “impegna” la volumetria assentibile sulla stessa area>>. Al riguardo, a nulla rileva che l’abuso edilizio, per il quale è stato richiesto il condono, riguardi una particella mentre il nuovo intervento che si vorrebbe realizzare sarà realizzato su altre particelle , peraltro formate per frazionamento della p.lla originaria.
D’altra parte, prosegue la richiamata decisione, <<è pacifico che ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto parzialmente edificato occorra considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area. Tra tali costruzioni vanno dunque inserite anche quelle abusive, purché oggetto di una domanda di condono e dunque, almeno fino alla definizione di tale domanda in senso negativo, non sanzionabili con la demolizione: anche tali manufatti concorrono a determinare una saturazione dell’area, né sembra ragionevole escludere dalla volumetria assentibile quella già sfruttata, sia pure per mezzo di opere abusive successivamente condonate (in termini, TAR Campania cit.)>>.
Conseguentemente, alla stregua dei predetti, condivisibili, orientamenti giurisprudenziali, il ricorso risulta infondato, poiché nel caso in questione ricorrono tutti i presupposti voluti dalla giurisprudenza (unico proprietario di più particelle autonomamente accatastate su alcune delle quali abbia eseguito costruzioni abusive le quali, per la rilevante cubatura, impegnino la volumetria di tutte le particelle catastali autonome) per ritenere definitivamente perduta la volumetria delle aree, interamente impegnate dalle costruzioni sanate (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 26.09.2013 n. 2296 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: È stato nel tempo sempre affermato che l'inedificabilità dell'area asservita o accorpata ovvero la sua avvenuta utilizzazione ai fini edificatori, costituisce una qualità obiettiva del fondo, come tale opponibile ai terzi acquirenti, ed produce l'effetto d’impedirne l'ulteriore edificazione oltre i limiti consentiti, a nulla rilevando che la proprietà dell'area sia stata trasferita ad altri, che l'edificazione sia direttamente ascrivibile a questi ultimi, che manchino specifici negozi giuridici privati diretti all'asservimento o che l'edificio insista su una parte del lotto catastalmente divisa.
Diversamente opinando, gli indici (di densità territoriale, di fabbricabilità territoriale e di fondiaria) del piano urbanistico sopravvenuto, che conformano il diritto di edificare, si rileverebbero vani e privi di significato, in quanto le aree sulle quali sono stati operati frazionamenti verrebbero ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita alla stregua delle sopravvenute previsioni, in relazione a tutta la loro estensione considerata dal nuovo piano, con la conseguenza di pregiudicare la stessa finalità della strumentazione, di permettere un ordinato sviluppo del territorio.
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2. Il ricorso è infondato.
La tesi che l'Amministrazione municipale sviluppa richiama il parere del Consiglio di Stato, Sezione terza, 28.04.2009 n. 9605, secondo il quale "qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con l’iper saturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo".
La società ricorrente oppone in concreto (in specie, con il primo motivo di gravame) che, se anche il precedente strumento urbanistico, sotto il cui vigore è stata rilasciata al signor Ca.Cu. la licenza edilizia del giorno 11.05.1971 riguardante l'originaria particella 31 del foglio 25, da cui (successivamente al nuovo piano) è stata stralciata l'attuale particella 1171, di proprietà della società ricorrente, avesse considerato tali terreni come "un lotto urbanisticamente unitario", tale situazione non è più riscontrabile nella disciplina del piano regolatore generale, approvato con deliberazione della Giunta regionale 21.11.1995 n. 5105, seguita dalla variante generale approvata con delibera regionale 31.01.2005 n. 561. La pratica edilizia controversa quindi, in definitiva, è assoggettata alla più recente strumentazione urbanistica e precisamente alla disciplina dell'articolo 4 delle norme tecniche di attuazione, con le relative numerazioni.
In particolare, per gli interventi di nuova edificazione (anche a seguito di demolizione) nella zona B, l'articolo 4.6 (primo paragrafo) definisce "Le aree libere residue… quelle tipizzate come zone B e edificate, che non siano asservite a edifici esistenti, come pertinenze dirette o come parte scoperta del lotto edificabile originario e che abbiano diretta comunicazione con una sede stradale pubblica".
Perciò, seguendo il ragionamento attoreo, si dovrebbe giungere alla conclusione che, in presenza delle vigenti norme tecniche che si limitano a fissare in 500 m² il lotto fondiario minimo e in assenza di qualsiasi atto che abbia asservito l’attuale particella 1171 alla costruzione realizzata in forza della licenza edilizia del 1971 (non riscontrabile né nella licenza edilizia né nell'atto di compravendita), nonché nella mancanza di norme di raccordo tra la precedente e l'attuale disciplina, la proprietà della società Le.Co. rappresenti un lotto autonomo suscettibile di edificazione sulla base dei parametri stabiliti dagli strumenti urbanistici attualmente in vigore nel comune di Modugno.
L'assunto però, come già rilevato dalla quarta Sezione del Consiglio di Stato in sede cautelare, contrasta con l'interpretazione costantemente data dalla giurisprudenza alla legislazione urbanistica.
È stato infatti nel tempo sempre affermato che l'inedificabilità dell'area asservita o accorpata ovvero la sua avvenuta utilizzazione ai fini edificatori, costituisce una qualità obiettiva del fondo, come tale opponibile ai terzi acquirenti, ed produce l'effetto d’impedirne l'ulteriore edificazione oltre i limiti consentiti, a nulla rilevando che la proprietà dell'area sia stata trasferita ad altri, che l'edificazione sia direttamente ascrivibile a questi ultimi, che manchino specifici negozi giuridici privati diretti all'asservimento o che l'edificio insista su una parte del lotto catastalmente divisa (Consiglio di Stato, Sez. IV, 16.02.1987, n. 91; Sez. V, 25.11.1988, n. 744; 26.11.1994, n. 1382; Sez. IV, 06.09.1999, n. 1402; Sez. V, 10.02.2000, n. 749; 28.02.2001, n. 1074; 07.11.2002, n. 6128; 12.07.2004, n. 5039; Sez. IV, 31.01.2005, n. 217; Sez. V, 10.05.2005, n. 2328; 09.10.2007, n. 5232; Sez. IV, 26.09.2008, n. 4647; 20.07.2011, n. 4405; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 21.12.2009, n. 5750; TAR Puglia, Lecce, Sez. III, 27.09.2012, n. 1593).
D’altra parte, nella presente vicenda, in linea con i suddetti principi, il lotto su cui Le.Co. intende costruire non sembra integrare, neppure alla stregua l'articolo 4.6 delle N.T.A., una delle “aree libere residue”, visto che dal loro novero devono essere escluse quelle “asservite a edifici esistenti, …come parte scoperta del lotto edificabile originario”.
In effetti, diversamente opinando, gli indici (di densità territoriale, di fabbricabilità territoriale e di fondiaria) del piano urbanistico sopravvenuto, che conformano il diritto di edificare, si rileverebbero vani e privi di significato, in quanto le aree sulle quali sono stati operati frazionamenti verrebbero ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita alla stregua delle sopravvenute previsioni, in relazione a tutta la loro estensione considerata dal nuovo piano, con la conseguenza di pregiudicare la stessa finalità della strumentazione, di permettere un ordinato sviluppo del territorio (ex plurimis: Consiglio di Stato, Sezione IV, 29.01.2008 n. 255).
A tanto consegue l’infondatezza delle censure sub 1) (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 09.01.2013 n. 11 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire.
Al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area, residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, si deve, pertanto, considerare non solo la superficie libera e il volume a essa corrispondente ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, anche se eseguito senza il prescritto titolo, a nulla rilevando che quest’ultimo possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa, frazionata o alienata separatamente.
Tale condizione, in quanto volta a tenere fermo il rapporto espresso dall’indice di edificabilità fondiaria e a consentire il raffronto fra volumi edificati ed edificabili (altrimenti sarebbero eluse le prescrizioni relative alla densità edilizia), inerisce obiettivamente al fondo medesimo: il che significa che è opponibile ai successivi acquirenti ed è valida anche in assenza del convenzionamento degli atti d’impegno.
Infatti, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità: è, pertanto, conformato anche da tali indici.
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La circostanza dell’epoca di realizzazione dei manufatti, in sede di computo della volumetria complessiva insediata in un’area ai fini del rispetto degli standards vigenti, è del tutto ininfluente, dovendosi considerare, senza alcuna distinzione, tutta la volumetria già edificata nell’ambito della zona.
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È legittimo il diniego di un permesso di costruire in caso di esaurimento della volumetria assentibile poiché la realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata ha come effetto quella di considerare l’intera estensione interessata come utilizzata ai fini edificatori; pertanto, anche l’area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall’area su cui insiste il manufatto.
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V. Il ricorso è infondato.
V.1. Il provvedimento di diniego è motivato come segue: “l’area di intervento risulta derivare per frazionamento dall’area di pertinenza di un fabbricato di antica costruzione, il cui volume non è stato tenuto in conto nella determinazione della capacità edificatoria del suolo, come espressamente richiesto dall’art. 22 delle NTA del PRG, e il fabbricato che si chiede di realizzare sviluppa un volume pari alla capacità edificatoria dell’intera area”.
In particolare, l’originaria particella n. 273 (oggi nn. 1446, 273 sub 3, 1115 e 1116) risultava già edificata nel 1951 nonché oggetto di successivo progetto di ampliamento, approvato dall’Amministrazione comunale in data 11.07.1958, con rilascio della relativa licenza (“Villa Pia”).
V.2. Si premette in diritto che:
   - Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire. Al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area, residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, si deve, pertanto, considerare non solo la superficie libera e il volume a essa corrispondente ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, anche se eseguito senza il prescritto titolo, a nulla rilevando che quest’ultimo possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa, frazionata o alienata separatamente (TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 21.12.2009, n. 5750; Consiglio di Stato, IV, 26.09.2008, n. 4647).
Tale condizione, in quanto volta a tenere fermo il rapporto espresso dall’indice di edificabilità fondiaria e a consentire il raffronto fra volumi edificati ed edificabili (altrimenti sarebbero eluse le prescrizioni relative alla densità edilizia), inerisce obiettivamente al fondo medesimo: il che significa che è opponibile ai successivi acquirenti ed è valida anche in assenza del convenzionamento degli atti d’impegno.
Infatti, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità: è, pertanto, conformato anche da tali indici.
   - La circostanza dell’epoca di realizzazione dei manufatti, in sede di computo della volumetria complessiva insediata in un’area ai fini del rispetto degli standards vigenti, è del tutto ininfluente, dovendosi considerare, senza alcuna distinzione, tutta la volumetria già edificata nell’ambito della zona (TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 24.01.2008, n. 10).
   - È, pertanto, legittimo il diniego di un permesso di costruire in caso di esaurimento della volumetria assentibile poiché la realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata ha come effetto quella di considerare l’intera estensione interessata come utilizzata ai fini edificatori; pertanto, anche l’area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata dall’area su cui insiste il manufatto (Consiglio di Stato, sez. IV, 09.07.2011, n. 4134).
   - L’enunciazione dei suddetti principi espressa negli artt. 22 e 23 delle NTA del Prg di Nardò nulla aggiunge al già consolidato indirizzo giurisprudenziale né, in assenza di specifici limiti temporali, ne impone l’applicazione solo successivamente all’adozione del correlato PRG; peraltro, quanto all’applicabilità, l’ultimo frazionamento dell’originario lotto, del 2010, è successivo all’adozione del citato strumento urbanistico generale (TAR Puglia-Lecce, Sez. III, sentenza 27.09.2012 n. 1593 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi, è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà.
Tanto è consolidato questo orientamento che l’Adunanza plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della volumetria assentibile su una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata prima della legge 17.08.1942, n. 1150, quando cioè lo "ius aedificandi" era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa. Ciò comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante.
Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata con riguardo al lotto originario.
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Come ricordato in narrativa, l’area alla quale si riferisce la concessione edilizia, richiesta dalla parte privata e negata dall’Amministrazione, deriva per successivi frazionamenti da un lotto originario, su cui è stato costruito un albergo-ristorante. Si controverte sul rilievo che, ai fini del rilascio del titolo edilizio, debba riconoscersi il volume relativo all’opera già edificata.
Al riguardo il Giudice amministrativo ha più volte avuto modo di affermare che, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2004, n. 5039; Id., Sez. III, 28.04.2009, n. 965).
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi, è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 21.09.2009, n. 5637).
Tanto è consolidato questo orientamento che l’Adunanza plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della volumetria assentibile su una determinata area secondo l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche la costruzione realizzata prima della legge 17.08.1942, n. 1150, quando cioè lo "ius aedificandi" era considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di circostanza ininfluente in sede di commisurazione della volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area e che individua il volume massimo consentito su di essa. Ciò comporta la necessità di tener conto del dato reale costituito dagli immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante (Cons. Stato, Ad. plen., 23.04.2009, n. 3).
Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata con riguardo al lotto originario. Il che nella fattispecie il Se. non contesta, concentrando piuttosto il primo motivo dell’appello sul profilo –del tutto giuridico e non fattuale– della mancanza di un formale atto di asservimento del precedente fabbricato e di un diverso rilievo di quest’ultimo secondo la normativa urbanistica dell’epoca.
Circostanze queste che, per le ragioni sopra dette, devono considerarsi ininfluenti, non ritenendo il Collegio di doversi discostare da una giurisprudenza cospicua e consolidata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.05.2012 n. 2941 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia urbanistica l’atto d’obbligo trascritto di costituzione della servitù non aedificandi di un terreno costituisce una qualità oggettiva del suolo interessato e comporta una obbligazione “propter rem”, realizzando un particolare vincolo pertinenziale (in quanto tale non suscettibile di decadenza perché a contenuto conformativo) destinato a rimanere cristallizzato nel tempo e che può essere superato, però, soltanto da una nuova disciplina introdotta dal pianificatore generale in materia di volumetria e capacità edificatoria (salvo che non si versi in ipotesi di vincolo di inedificabilità imposto dall’originario unico proprietario del fondo).
Di conseguenza, poiché la destinazione e l’utilizzazione delle aree rappresenta un dato urbanisticamente dinamico ed in evoluzione potendo mutare nel tempo l’indice fondiario nonché la stessa previsione dei lotti minimi, la potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente valutata ed esaminata alla stregua delle modificazioni urbanistiche sopravvenute con salvezza, si ripete, delle restrizioni permanenti ai poteri edificatori connessi alla proprietà gravata.
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Quando la volumetria per l'intera area originaria sia stata utilizzata, a nulla vale il suo successivo frazionamento, per giustificare una ulteriore edificabilità e qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua va calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
Sicché, al fine del rispetto della volumetria assentita dal piano regolatore generale, non assumono rilievo alcuno le vicende private connesse alla disponibilità di un'area edificabile già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, in quanto la vendita di una parte dell'originario unico fondo, successiva all'approvazione dello strumento urbanistico che determina limiti alla relativa edificabilità implicandone l'esaurimento (come anche il frazionamento del fondo da parte dell'originario unico proprietario), è irrilevante rispetto all'inedificabilità delle aree libere, oggetto della compravendita, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate.
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Considerato:
   - le questioni controverse possono essere trattate unitariamente in considerazione delle loro connessioni ed interdipendenze, a loro volta collegate dall’unicità del tema relativo all’asservimento di un suolo in relazione alle sopravvenienze urbanistiche;
   - in linea preliminare, deve essere osservato che in materia urbanistica l’atto d’obbligo trascritto di costituzione della servitù non aedificandi di un terreno costituisce una qualità oggettiva del suolo interessato e comporta una obbligazione “propter rem”, realizzando un particolare vincolo pertinenziale (in quanto tale non suscettibile di decadenza perché a contenuto conformativo) destinato a rimanere cristallizzato nel tempo e che può essere superato, però, soltanto da una nuova disciplina introdotta dal pianificatore generale in materia di volumetria e capacità edificatoria (salvo che non si versi in ipotesi di vincolo di inedificabilità imposto dall’originario unico proprietario del fondo);
   - di conseguenza, poiché la destinazione e l’utilizzazione delle aree rappresenta un dato urbanisticamente dinamico ed in evoluzione potendo mutare nel tempo l’indice fondiario nonché la stessa previsione dei lotti minimi, la potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente valutata ed esaminata alla stregua delle modificazioni urbanistiche sopravvenute con salvezza, si ripete, delle restrizioni permanenti ai poteri edificatori connessi alla proprietà gravata;
   - nella specie, ricorrono entrambe le suddette condizioni ostative all’ulteriore sfruttamento edilizio, sia perché la società ricorrente o suo dante causa ha tratto a suo tempo “utilitas” dall’intervento diretto in luogo del dovuto piano di lottizzazione a tali fini restringendo l’edificabilità a 3 mc/mq pur esprimendo all’epoca l’area 6,5 mc/mq (ragione per la quale la deducente non può ora venire contro la stessa propria scelta), sia perché il sopravvenuto PGT ha previsto il diverso indice di 1 mc/mq che, essendo inferiore a quello previgente, comporta che la società interessata risulta aver già di gran lunga realizzato quanto oggi consentito dal citato nuovo strumento generale (dovendo essere la richiesta concessione edilizia assentita secondo le vigenti regole e la volumetria calcolata in relazione all’intera area originaria di progetto e non limitatamente al lotto pertinenziale libero);
   - la società ricorrente pretende anche di eseguire quel differenziale residuo di cubatura attraverso una distorta lettura dell’art. 4 delle NTA, che escluderebbe a suo dire rilevanza ai frazionamenti anteriori e la quale, nello stabilire che “In caso di frazionamenti, avvenuti a far data dalla adozione del PGT, l’utilizzo delle aree risultanti è subordinato alla verifica di rispetto degli indici previsti dal PGT per tutte le aree derivate dal frazionamento”, non ha invece minimamente inteso fare salvezza alcuna e semmai rinforzato il criterio che tutto il costruito deve essere computato ai fini del calcolo delle volumetrie di piano, per come calcolate in sede di redazione, a prescindere quindi anche dai frazionamenti successivi all’adozione del PGT ed a maggior ragione, allora, di quelli anteriori;
   - infatti, quando la volumetria per l'intera area originaria sia stata utilizzata, a nulla vale il suo successivo frazionamento, per giustificare una ulteriore edificabilità (Consiglio Stato, sez. V, 10.02.2000, n. 749) e qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua va calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo (Consiglio Stato , sez. III, 28.04.2009, n. 965);
   - conclusivamente, al fine del rispetto della volumetria assentita dal piano regolatore generale, non assumono rilievo alcuno le vicende private connesse alla disponibilità di un'area edificabile già interamente considerata in occasione del rilascio di una concessione edilizia, in quanto la vendita di una parte dell'originario unico fondo, successiva all'approvazione dello strumento urbanistico che determina limiti alla relativa edificabilità implicandone l'esaurimento (come anche il frazionamento del fondo da parte dell'originario unico proprietario), è irrilevante rispetto all'inedificabilità delle aree libere, oggetto della compravendita, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate (Consiglio Stato, sez. IV, 06.09.1999, n. 1402) (Consiglio di Stato, Sez. I, parere 13.01.2012 n. 97 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il comune deve verificare, in vista del rilascio del titolo abilitativo edilizio, se la disponibilità della volumetria necessaria all’esecuzione delle opere previste in progetto sussista in capo al soggetto istante ovvero in capo a soggetti terzi.
In caso contrario, si determinerebbe la seguente alternativa di effetti abnormi, in assenza di controlli all’uopo posti in essere:
   a) i limiti di carico urbanistico fissati dagli appositi strumenti finirebbero per essere superati e vanificati dal concomitante utilizzo di identiche volumetrie edificabili da parte di proprietari di suoli ricadenti in medesimi comparti;
   b) i soggetti regolarmente ed effettivamente titolari di volumetrie realizzabili, ove prevenuti da iniziative edificatorie autorizzate di altri soggetti proprietari di suoli ubicati entro il medesimo comparto, finirebbero per essere illegittimamente privati delle predette volumetrie, pur senza averne convenuto alcuna cessione.
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I
l diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità, con la conseguenza che esso è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Sicché, “un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione, solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie libera più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria, di cui si chiede la realizzazione”.

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Per verificare la effettiva potenzialità edificatoria di un originario lotto urbanistico poi frazionato, occorre sempre partire dalla considerazione che, in virtù del carattere ‘unitario’ dell'originario lotto asservito a precedenti costruzioni, non possono non computarsi le volumetrie realizzate su di esso, considerato nel suo complesso e unico ad aver acquisito e mantenuto una ‘propria’ potenzialità edificatoria; con la conseguenza che la verifica dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla predetta potenzialità, diminuita della volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica, complessiva area.
Pertanto, allorquando un’area edificabile venga frazionata in più parti tra vari proprietari –così come anche allorquando la volumetria disponibile sia ripartita in base a quote consortili di un comparto edificatorio ex art. 23 della l. n. 1150/1942–, la cubatura utilizzabile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata; con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario –o sul comparto– una costruzione, i proprietari dei vari terreni in cui detto fondo è stato frazionato (o che compongono il comparto) hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota.

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Il trasferimento di volumetria da un fondo all'altro e la cessione di cubatura da parte del proprietario di un fondo confinante, consistono in un contratto atipico ad effetti obbligatori avente natura di atto preparatorio, finalizzato al trasferimento di volumetria, che si perfeziona con il provvedimento amministrativo.
Presupposto indefettibile della fattispecie è l'adesione del cedente, che può essere manifestata o sottoscrivendo l'istanza o il progetto del cessionario, o rinunciando alla propria cubatura a favore di questi, o notificando al comune tale sua volontà, mentre il vincolo di asservimento a carico ed a favore del fondo sorge, sia per le parti sia per i terzi, solo per effetto del rilascio della concessione edilizia, che legittima lo ius aedificandi del cessionario.
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L'amministrazione comunale, fin dall'istruttoria sul rilascio del permesso di costruire, è chiamata a verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è richiesto il provvedimento autorizzativo –anche se questo è sempre rilasciato facendo salvi i diritti dei terzi– e se il titolo non viene provato è legittimo che il rilascio della concessione venga negato. Tale principio è desumibile dall'art. 11, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 in base al quale “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”.
Per modo che la verifica del possesso del titolo a costruire costituisce un presupposto, la cui mancanza impedisce all'amministrazione di procedere oltre nell'esame del progetto.
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4. Venendo ora al terzo motivo di ricorso, con esso la Artistica Immobiliare lamenta l’eccesso di potere, per avere il Comune di Benevento svolto indebitamente indagini estese “alla ricerca d’ufficio di eventuali elementi limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di disponibilità allegato dal ricorrente medesimo” e per essersi altrettanto indebitamente arrogata “il compito di dirimere controversie mai sorte”.
Detto altrimenti, secondo la ricorrente, l’amministrazione resistente non avrebbe potuto spingersi a verificare, in vista del rilascio del titolo abilitativo edilizio, se la disponibilità della volumetria necessaria all’esecuzione delle opere previste in progetto sussistesse in capo al soggetto istante ovvero in capo a soggetti terzi (nella specie, rispettivamente, Ar.Im. e Al.).
Il motivo è infondato, tenuto conto che l’amministrazione è certamente chiamata a verificare la volumetria edificabile relativa all’immobile sul quale si richiede il permesso di costruire.
In caso contrario, si determinerebbe la seguente alternativa di effetti abnormi, in assenza di controlli all’uopo posti in essere:
   a) i limiti di carico urbanistico fissati dagli appositi strumenti finirebbero per essere superati e vanificati dal concomitante utilizzo di identiche volumetrie edificabili da parte di proprietari di suoli ricadenti in medesimi comparti;
   b) i soggetti regolarmente ed effettivamente titolari di volumetrie realizzabili, ove prevenuti da iniziative edificatorie autorizzate di altri soggetti proprietari di suoli ubicati entro il medesimo comparto, finirebbero per essere illegittimamente privati delle predette volumetrie, pur senza averne convenuto alcuna cessione.
Ed invero, nella specie, non si è trattato di vagliare questioni di distribuzione delle cubature fra proprietari privati, bensì –stando proprio alla terminologia della ricorrente– di “verificare soltanto l’esistenza di un titolo sostanziale idoneo a costituire in capo all’istante il diritto di sfruttare la potenzialità edificatoria del bene”.
Al riguardo, giova rammentare, in primis, che il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità, con la conseguenza che esso è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata; per modo che “un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione, solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie libera più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria, di cui si chiede la realizzazione” (Cons. Stato, sez. V, 12.07.2004, n. 5039; 12.07.2005, n. 3777; 23.08.2005, n. 4385; 27.06.2006, n. 4117; sez. IV, 29.01.2008, n. 255; 12.05.2008, n. 2177; 26.09.2008, n. 4647; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 08.03.2006, n. 2738; TAR Lazio, Roma, sez. II, 15.11.2006, n. 12137; TAR Sicilia, Catania, sez. I, 01.04.2008, n. 547).
Ebbene, nel caso di specie, come evidenziato retro, sub n. 3.2, la Ar.Im. e i precedenti acquirenti della proprietà ex Me., al momento del rilascio dei permessi di costruire annullati in via di autotutela, avevano già utilizzato una volumetria di mc. 37.456 per la realizzazione di 14 edifici in linea a destinazione residenziale (rispettivamente, 5 sagome A1 e 9 sagome A2), risultando così residuata alla complessiva area spettante agli aventi causa della predetta proprietà ex Me. una cubatura inferiore ai mc. 5.021 necessari per la costruzione del fabbricato de quo ed a nulla rilevando che questo insistesse su una porzione (corrispondente alla particella 1139 del foglio catastale 59), autonoma e catastalmente divisa, ottenuta dal frazionamento di un più ampio lotto originario (corrispondente alla particella 803 del foglio 59), ricompreso nel subcomparto 30/A (sul punto, cfr. Cons. Stato, sez. V, 28.02.2001 n. 1074; 12.07.2005, n. 3777; 27.06.2006, n. 4117; sez. IV, 26.09.2008, n. 4647).
Difatti, per verificare la effettiva potenzialità edificatoria di un originario lotto urbanistico poi frazionato, occorre sempre partire dalla considerazione che, in virtù del carattere ‘unitario’ dell'originario lotto asservito a precedenti costruzioni, non possono non computarsi le volumetrie realizzate su di esso, considerato nel suo complesso e unico ad aver acquisito e mantenuto una ‘propria’ potenzialità edificatoria; con la conseguenza che la verifica dell'edificabilità della parte del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla predetta potenzialità, diminuita della volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica, complessiva area (Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2008, n. 3766).
Pertanto, allorquando un’area edificabile venga frazionata in più parti tra vari proprietari –così come anche allorquando la volumetria disponibile sia ripartita in base a quote consortili di un comparto edificatorio ex art. 23 della l. n. 1150/1942–, la cubatura utilizzabile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata; con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario –o sul comparto– una costruzione, i proprietari dei vari terreni in cui detto fondo è stato frazionato (o che compongono il comparto) hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29.01.2008, n. 255).
In base a tali premesse, occorre inferire, con riferimento al caso di specie, da un lato, che, al momento del rilascio dei permessi di costruire annullati in via di autotutela, la potenzialità edificatoria del subcomparto 30/A avrebbe dovuto calcolarsi tenuto conto delle volumetrie già realizzate e dall’altro, che gli acquirenti della proprietà ex Me. (tra i quali, da ultima, la ricorrente) avrebbero potuto utilizzare la cubatura residua soltanto in proporzione alla quota spettante alla predetta proprietà, corrispondente alla particella 1139, così come risultante dal frazionamento dell’originaria particella 803 del foglio catastale 59.
In un simile contesto, il Comune di Benevento ha, pertanto, legittimamente esercitato, in sede di autotutela, i poteri istruttori di verifica e controllo dell'assentibilità del progetto con riguardo l'edificazione del lotto della ricorrente, in quanto questa risulta essersi attribuita unilateralmente e senza il consenso degli altri proprietari (titolari della quota ex Tr.–Uc.) anche la volumetria che, in base all'indice di edificabilità, sarebbe spettata a questi ultimi.
Ed invero, il trasferimento di volumetria da un fondo all'altro e la cessione di cubatura da parte del proprietario di un fondo confinante, consistono in un contratto atipico ad effetti obbligatori avente natura di atto preparatorio, finalizzato al trasferimento di volumetria, che si perfeziona con il provvedimento amministrativo.
Presupposto indefettibile della fattispecie è l'adesione del cedente, che può essere manifestata o sottoscrivendo l'istanza o il progetto del cessionario, o rinunciando alla propria cubatura a favore di questi, o notificando al comune tale sua volontà, mentre il vincolo di asservimento a carico ed a favore del fondo sorge, sia per le parti sia per i terzi, solo per effetto del rilascio della concessione edilizia, che legittima lo ius aedificandi del cessionario (cfr. Cass., 29.06.1981, n. 4245; 22.02.1996, n. 1352; 12.09.1998, n. 9081; Cons. Stato, sez. V, 04.01.1993, n. 26; 26.11.1994, n. 1382; 28.06.2000, n. 363).
Pertanto, la ricorrente, in mancanza del consenso degli altri proprietari, non aveva né titolo né legittimazione per disporre della volumetria ad essi spettante e tale circostanza non atteneva –a differenza di quanto dalla medesima dedotto– ai rapporti privatistici tra i vari proprietari, bensì alla verifica del possesso dei titoli di legittimazione per il rilascio del titolo abilitativo edilizio ed all'accertamento, da parte dell’amministrazione comunale, del rispetto delle prescrizioni e dei vincoli del piano regolatore connessi agli indici di edificabilità espressi dal rapporto area–volume (TAR Lombardia, Brescia, 10.01.2006, n. 24)
Gli accertamenti occasionati dal contatto tra disciplina sostantiva e normativa urbanistico-edilizia, non preludono, infatti, alla soluzione di conflitti intersoggettivi, ma ineriscono alla fase istruttoria del procedimento, volta al riscontro dell’esistenza di un diritto, reale o anche solo obbligatorio, che rende ammissibile la richiesta. La possibile incertezza, emergente ab origine o in forza di successive acquisizioni procedimentali, impone quindi ogni utile approfondimento istruttorio mirante alla verifica della legittimazione (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 30.07.2008, n. 9586).
Del resto, l'amministrazione comunale, fin dall'istruttoria sul rilascio del permesso di costruire, è chiamata a verificare che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il quale è richiesto il provvedimento autorizzativo –anche se questo è sempre rilasciato facendo salvi i diritti dei terzi– e se il titolo non viene provato è legittimo che il rilascio della concessione venga negato. Tale principio è desumibile dall'art. 11, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 in base al quale “il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo”. Per modo che la verifica del possesso del titolo a costruire costituisce un presupposto, la cui mancanza impedisce all'amministrazione di procedere oltre nell'esame del progetto (Cons. Stato, sez. V, 07.09.2007, n. 4703) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 11.06.2009 n. 3203 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con l’iper saturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo.
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Il ricorso merita accoglimento per la fondatezza della prima censura che assorbe le rimanenti.
Con il primo motivo l’istante sostiene che con la concessione impugnata sarebbe stato superato l’indice massimo di copertura di 0,5 tra superficie coperta e superficie fondiaria previsto dall’art. 12, sub 6, delle norme di attuazione al Piano Particolareggiato per le zone B4 e B5, approvato con deliberazione consiliare n. 108 del 12.09.1995. Ciò in quanto la superficie coperta complessiva andrebbe calcolata aggiungendo a quella in precedenza utilizzata quella delle costruzioni assentite con l’impugnata concessione n. 60, in conseguenza della quale il rapporto massimo di copertura supererebbe il prescritto indice di 0,5.
La concessione edilizia n. 60 attiene al lotto n. 7, con superficie di mq. 1578, dell’isolato 22A del Piano Particolareggiato. Sul lotto risultano edificati due corpi di fabbricato (A e B), assentiti con concessione edilizia n.79/89, occupanti complessivamente una superficie coperta di mq. 787, 44.
In forza dell’indice di copertura previsto per la zona dal Piano Particolareggiato (0,5 mq./mq.), nel lotto, da considerare urbanisticamente unitario, é possibile realizzare una copertura di 789 mq.. Poiché la superficie coperta utilizzata era pari a mq. 787,44 già realizzati, l’intervento di cui alla concessione edilizia in esame porterebbe al superamento di detto indice di copertura.
Infatti, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con l’iper saturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo (cfr in tal senso, su un caso pressoché identico, la sentenza 1827/2008 del TAR Sardegna, Sez. 2ª) (Consiglio di Stato, Sez. III, parere 28.04.2009 n. 2810 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di asservimento volumetrico si possono trarre dalla giurisprudenza consolidata i seguenti principi:
   a) nel computo della volumetria assentibile in ciascuna zona di piano regolatore sono da ricomprendere anche gli edifici preesistenti, in quanto il p.r.g., nella parte in cui prevede i limiti entro i quali l’area può essere edificata, si riferisce non all’edificazione ulteriore rispetto a quella già esistente al momento della sua approvazione, ma all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area;
   b) le vicende inerenti alla proprietà dei terreni, e in particolare il frazionamento del fondo da parte dell’originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’inedificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate e pertanto restano inedificabili (oppure edificabili nei soli limiti della volumetria residua) ove le costruzioni esistenti abbiano già “consumato” la volumetria disponibile.
In applicazione di questi principi si è statuito che:
   - si deve sempre tenere conto dei manufatti preesistenti;
   - per calcolare l’entità dell’asservimento e la volumetria residua, si deve considerare non il regime edilizio più favorevole esistente all’epoca di edificazione dei manufatti in situ, ma lo strumento urbanistico vigente alla data del provvedimento emesso sulla domanda di concessione;
   - se un’area edificabile viene frazionata in più parti, alienate a vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area rimane invariata, e quella che residua tenuto conto dell’originaria costruzione resta di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione della rispettiva quota di acquisto- salvo ovviamente eventuali cessioni di cubatura-, a nulla rilevando che l’edificanda costruzione vada ad insistere su un lotto libero risultante dal frazionamento;
   - l’area la cui potenzialità edificatoria sia già saturata da una precedente costruzione deve ritenersi asservita per il solo fatto della costruzione, anche in mancanza di atto di asservimento o di concessione rilasciata per un progetto che individuasse l’area da edificare, in quanto qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.

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3. Prima di esaminare i motivi dei ricorsi, è opportuno richiamare la posizione della giurisprudenza sulle questioni in esame, riportando quanto compiutamente stabilito dalla sentenza n. 123 del 30.01.2007 di questa Sezione: “in materia di asservimento volumetrico si possono trarre dalla giurisprudenza consolidata i seguenti principi:
   a) nel computo della volumetria assentibile in ciascuna zona di piano regolatore sono da ricomprendere anche gli edifici preesistenti (Cons. Stato V 29.11.1994 n. 1414), in quanto il p.r.g., nella parte in cui prevede i limiti entro i quali l’area può essere edificata, si riferisce non all’edificazione ulteriore rispetto a quella già esistente al momento della sua approvazione, ma all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area (Cons. Stato V 07.11.2002 n. 6128, 26.11.1994 n. 1382);
   b) le vicende inerenti alla proprietà dei terreni, e in particolare il frazionamento del fondo da parte dell’originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’inedificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate e pertanto restano inedificabili (oppure edificabili nei soli limiti della volumetria residua) ove le costruzioni esistenti abbiano già “consumato” la volumetria disponibile (Cons. Stato IV 06.09.1999 n. 1402).
In applicazione di questi principi si è statuito che:
   - si deve sempre tenere conto dei manufatti preesistenti (Cons. Stato V n. 6128/2002 cit.);
   - per calcolare l’entità dell’asservimento e la volumetria residua, si deve considerare non il regime edilizio più favorevole esistente all’epoca di edificazione dei manufatti in situ, ma lo strumento urbanistico vigente alla data del provvedimento emesso sulla domanda di concessione (Cons. Stato V 22.11.2001 n. 5928);
   - se un’area edificabile viene frazionata in più parti, alienate a vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area rimane invariata, e quella che residua tenuto conto dell’originaria costruzione resta di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione della rispettiva quota di acquisto (CS V 12.07.05 n. 3777)- salvo ovviamente eventuali cessioni di cubatura (cfr. Cass. II, 12.09.1998 n. 9081, Cons. Stato V 28.06.2000 n. 3637)-, a nulla rilevando che l’edificanda costruzione vada ad insistere su un lotto libero risultante dal frazionamento (Cons. Stato VI 27.06.2006 n. 4117 e riferimenti);
   - l’area la cui potenzialità edificatoria sia già saturata da una precedente costruzione deve ritenersi asservita per il solo fatto della costruzione, anche in mancanza di atto di asservimento o di concessione rilasciata per un progetto che individuasse l’area da edificare (Cons. Stato V 12.07.04 n. 5039), in quanto qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata (Cons. Stato V 27.06.2006 n. 4117)
” (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 30.10.2008 n. 5223 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ove un lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta residua) va calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con l'iper saturazione di alcune superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità nel residuo (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 24.10.2008 n. 1827).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto occorre considerare le costruzioni che insistono sull'area, nonché -comunque- le loro pertinenze necessarie e le aree di transito, le quali non possono considerarsi "titolari" di alcuna cubatura autonoma, ulteriore rispetto a quella già realizzata negli edifici serviti.
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Il ricorso è infondato.
In ordine alla censura di violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, avanzata con il I) motivo, il collegio osserva che l’amministrazione ha trasmesso, in corso d’istruttoria, alla ricorrente il parere contrario reso sulla sua istanza dal responsabile del procedimento, così comunicandole “i motivi che ostano all’accoglimento dell’istanza”, in corretto adempimento di quanto prescritto dalla cennata disposizione, di cui si assume erroneamente la violazione.
Dal provvedimento impugnato risulta –diversamente da quanto opinato dalla ricorrente con il II) motivo– che il diniego opposto dall’amministrazione non è basato sulla mancanza di contiguità tra l’edificio della ricorrente in corso di realizzazione e la particella della quale è stata acquisita la volumetria, bensì dalla ritenuta impossibilità di computare quest’ultima, a causa del fatto che la particella de qua è di pertinenza di altro edificio.
Il ragionamento seguito dall’amministrazione va condiviso.
Bisogna in proposito sottolineare che la particella della quale la ricorrente ha acquistato la volumetria è, in concreto, il cortile sul quale si affaccia l’edificio dell’ex Istituto Pio X e su di essa insistono gli accessi all’edificio stesso.
In considerazione di siffatta necessaria pertinenzialità, non può riconoscersi alla stessa alcuna potenzialità edificatoria, tanto meno da cedere a terzi vicini, quali che siano le sue vicende civilistiche o catastali (cfr. C.S., V, 07.11.2002, n. 6128) e senza che abbia rilievo la necessità o meno di computare, ai fini dell’ulteriore cubatura realizzabile nella zona, quella dell’edificio dell’ex istituto Pio X, realizzato prima dell’entrata in vigore dell’attuale legislazione urbanistica limitativa.
Ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto occorre, invero, considerare le costruzioni che insistono sull'area, nonché –comunque- le loro pertinenze necessarie e le aree di transito, le quali non possono considerarsi “titolari” di alcuna cubatura autonoma, ulteriore rispetto a quella già realizzata negli edifici serviti (cfr. TAR Sardegna, II, 19.05.2006, n. 996; Id., 19.03.2003, n. 316). E d’altronde su dette aree funzionalmente asservite agli edifici preesistenti non è direttamente realizzabile volumetria alcuna, prima e a prescindere dal ogni eventuale “cessione”.
Sulla base di tutte le considerazioni fin qui svolte, il ricorso in esame risulta infondato e va quindi rigettato (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 07.08.2008 n. 426 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nel calcolo della volumetria residua di un lotto in parte già edificato occorre fare riferimento agli indici edilizi in vigore alla data di rilascio del nuovo permesso di costruire. Questo vale sia per gli indici che stabiliscono direttamente la misura dell’edificazione consentita (indici di utilizzazione) sia per i parametri rilevanti ai fini del calcolo (superfici, volumi, altezze, rapporti, distanze).
Pertanto la volumetria esistente deve essere attualizzata secondo gli indici edilizi sopravvenuti in modo da renderla omogenea, e dunque confrontabile, con la nuova volumetria di progetto e con la volumetria complessivamente ammissibile. Solo così è possibile dare applicazione alla nuova disciplina edilizia garantendo che l’insediamento di volume sul territorio sia quello effettivamente consentito dallo strumento urbanistico più recente.
Questo principio opera negativamente per i proprietari quando i nuovi indici siano più restrittivi ma può risolversi anche in un vantaggio quando subentrino indici più favorevoli.
Un’ipotesi particolare di modifica più favorevole si ha quando venga riformulato o precisato un parametro edilizio (nel caso in esame la superficie lorda di pavimento) e la nuova formulazione consenta di non tenere conto di una parte della volumetria esistente incrementando così quella residua. Gli strumenti urbanistici potrebbero distaccarsi da questa regola introducendo delle disposizioni transitorie specifiche.

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11. Con il secondo motivo il ricorrente sostiene che l’edificio descritto nella DIA avrebbe superato la volumetria consentita, in violazione dell’art. 20 delle NTA.
Prendendo come riferimento i titoli edificatori relativi all’ex mappale n. 135 (v. sopra al punto 4) la volumetria residua sarebbe pari a 434,81 mc (2.508 - 2.073,19) e non a 1.134,50 mc (2.508 – 1.373,50) come dichiarato nella DIA. Pertanto solo una parte della volumetria di 1.111,07 mc prevista nella DIA (v. sopra al punto 2) avrebbe potuto essere collocata sul mappale n. 282.
I controinteressati replicano che la misurazione del volume dell’edificio presente sull’ex mappale n. 135 (ovvero ex n. 207 e attualmente n. 283) è stata ripetuta utilizzando le nuove definizioni dei parametri edilizi introdotte nel 2004 dall’art. 12 delle NTA.
Conseguentemente è stato escluso dalla superficie lorda di pavimento il piano seminterrato in quanto sporgente dal suolo con la quota dell’intradosso del primo solaio per meno di 0,70 metri e avente altezza interna non superiore a 2,40 metri (art. 12 punto 5-g delle NTA).
Tenendo in considerazione solo la superficie lorda degli altri due piani dell’immobile (481,58 mq) il volume risulta pari a 1.373,50 mc. Ai sensi dell’art. 12 punto 5-e delle NTA non è inserito nel volume il portico, in quanto la relativa superficie (35,23 mq) è inferiore al 15% della superficie lorda di pavimento.
12. La tesi dei controinteressati appare condivisibile.
Nel calcolo della volumetria residua di un lotto in parte già edificato occorre fare riferimento agli indici edilizi in vigore alla data di rilascio del nuovo permesso di costruire. Questo vale sia per gli indici che stabiliscono direttamente la misura dell’edificazione consentita (indici di utilizzazione) sia per i parametri rilevanti ai fini del calcolo (superfici, volumi, altezze, rapporti, distanze).
Pertanto la volumetria esistente deve essere attualizzata secondo gli indici edilizi sopravvenuti in modo da renderla omogenea, e dunque confrontabile, con la nuova volumetria di progetto e con la volumetria complessivamente ammissibile. Solo così è possibile dare applicazione alla nuova disciplina edilizia garantendo che l’insediamento di volume sul territorio sia quello effettivamente consentito dallo strumento urbanistico più recente.
Questo principio opera negativamente per i proprietari quando i nuovi indici siano più restrittivi (v. CS Sez. IV 31.12.2007 n. 6833; CS Sez. V 22.11.2001 n. 5928) ma può risolversi anche in un vantaggio quando subentrino indici più favorevoli. Un’ipotesi particolare di modifica più favorevole si ha quando venga riformulato o precisato un parametro edilizio (nel caso in esame la superficie lorda di pavimento) e la nuova formulazione consenta di non tenere conto di una parte della volumetria esistente incrementando così quella residua. Gli strumenti urbanistici potrebbero distaccarsi da questa regola introducendo delle disposizioni transitorie specifiche.
Nel caso in esame tuttavia l’art. 20 delle NTA si limita a ricaricare la volumetria ammissibile incrementando del 20% l’indice di utilizzazione fondiaria e non contiene precisazioni sulla volumetria esistente.
Pertanto non vi sono ragioni per non applicare a tale volumetria la nuova definizione di superficie lorda di pavimento introdotta nel PRG del 2004
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.07.2008 n. 830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., della legge 28.01.1977, n. 10, ratione temporis applicabile al caso di specie) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo (ed a maggior ragione, dunque, ove un qualche titolo di sanatoria poi ottenga), impegna la superficie, che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
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Un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria, di cui si chiede la realizzazione.
Ai fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto già parzialmente edificato occorre dunque considerare tutte le costruzioni, che comunque già insistono sull’area.
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Occorre infatti, in proposito, ricordare che il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte Cost., n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., della legge 28.01.1977, n. 10, ratione temporis applicabile al caso di specie) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo (ed a maggior ragione, dunque, ove un qualche titolo di sanatoria poi ottenga), impegna la superficie, che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria, di cui si chiede la realizzazione (Cons. St., V, 12.07.2004, n. 5039).
Ai fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto già parzialmente edificato occorre dunque considerare tutte le costruzioni, che comunque già insistono sull’area.
La tesi sostenuta dall'appellante (della irrilevanza delle costruzioni, per le quali sia stata presentata ed accolta domanda di condono edilizio) si rivela, quindi, del tutto priva di fondamento, dato che, in applicazione del principio ora detto, quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis dalla sua utilizzazione, a prescindere dal fatto che l’utilizzazione stessa sia “coperta” o meno da uno dei titoli all’uopo previsti dall’ordinamento, così come a prescindere dalla natura stessa –di verifica preventiva della conformità della realizzando costruzione agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla disciplina urbanistico/edilizia, ovvero in sanatoria– del titolo.
Cosicché l'eventuale sanatoria per condono della costruzione precedente non esclude, in sede di verifica della compatibilità di qualsiasi volume successivamente progettato con la superficie disponibile in relazione all’indice di fabbricabilità fondiaria dell’area complessiva, il computo della cubatura così realizzata; ciò tenuto anche conto del fatto che, in mancanza, come qui accade, di qualsivoglia statuizione, nel provvedimento di “condono” di cui si tratta, in mérito alla déroga a detto indice (nei cui limiti la volumetria all’epoca condonata comunque si manteneva) ed in forza del principio di stretta interpretazione da applicarsi in relazione a disposizioni comunque di carattere eccezionale e straordinario (quali quelle in tema di sanatoria edilizia), il provvedimento relativo non può che ritenersi inteso a regolarizzare la mera mancanza di previo titolo concessòrio per l’effettuato (nel caso di specie) “allargamento della sagoma dell’edificio”.
Tale compatibilità consegue, in definitiva, non al rilascio del titolo edilizio (qualunque esso sia) ma alla materiale esecuzione dell’opera, pur se eseguita abusivamente e pur se poi “sanata” avvalendosi degli strumenti all’uopo previsti dall’ordinamento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 12.05.2008 n. 2177 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione.
Insomma, ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto edificato occorre considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area, quelle previste con progetti già assentiti dal Comune, come pure gli atti di asservimento di volumetria in favore di altro fondo; non può quindi essere considerata libera un'area già parzialmente edificata, sicché nel calcolo della volumetria realizzabile, ai fini del rilascio di un permesso relativo ad una seconda costruzione, nella perdurante esistenza del primo edificio, dovrà tenersi conto di quanto già realizzato.
Né l'applicazione di indici di fabbricabilità sopravvenuti fra la prima edificazione ed il nuovo progetto implica illegittima applicazione retroattiva di tali indici, in quanto essa riguarda la nuova valutazione dell'autorità comunale, che va condotta alla stregua degli indici vigenti.
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Il ricorso, ad avviso del collegio, non è meritevole di accoglimento.
Il ricorrente vorrebbe sfruttare la cubatura residuata al tempo del rilascio dei precedenti titoli edilizi; ritiene che il nuovo indice fondiario debba applicarsi solo alle aree residuate e non asservite alle costruzioni già realizzate, non già all'intero lotto. In tal senso ritiene la determinazione negativa assunta dall'amministrazione sull'istanza di concessione edilizia del 07.06.2006 illegittima per applicazione retroattiva dei nuovi indici.
Orbene, in materia deve applicarsi il principio secondo cui un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione (C.S., V, n. 5039/2004).
Insomma, ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto edificato occorre considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area, quelle previste con progetti già assentiti dal Comune, come pure gli atti di asservimento di volumetria in favore di altro fondo (Tar Cagliari, II, n. 996/2006); non può quindi essere considerata libera un'area già parzialmente edificata, sicché nel calcolo della volumetria realizzabile, ai fini del rilascio di un permesso relativo ad una seconda costruzione, nella perdurante esistenza del primo edificio, dovrà tenersi conto di quanto già realizzato (Tar Pescara, n. 88/2006).
Né l'applicazione di indici di fabbricabilità sopravvenuti fra la prima edificazione ed il nuovo progetto implica illegittima applicazione retroattiva di tali indici, in quanto essa riguarda la nuova valutazione dell'autorità comunale, che va condotta alla stregua degli indici vigenti (Tar Napoli, II, n. 10239/2004) (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 01.04.2008 n. 547 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione. A nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti, “non rileva la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario”.
Ed ancora; “allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari,….., la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto”.
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La questione all’esame riguarda, in particolare, la possibilità di edificare, in base a norme di piano sopravvenute, su lotto libero derivante da frazionamento di altro di maggiore estensione, sul quale è stata realizzata, in virtù delle norme del piano previgente, una volumetria assentita con titolo edilizio rilasciato in base a progetto che ha interessato l’intero lotto.
L’appellante è per la soluzione positiva, intendendo costruire su lotto di 1,519 mq, con destinazione residenziale confermata dal nuovo piano, ricavato da un lotto di 3.690, sul quale ha già realizzato 6.636 mc dei 11.070 mc assentibili con il piano preesistente.
Poiché nel nuovo piano non v’è una disciplina urbanistica dell’area in questione che abbia imposto di tener conto della volumetria già
realizzata, l’indice di fabbricabilità da esso previsto deve essere applicato senza condizioni o limitazioni, onde avrebbe errato il giudice di primo grado ad affermare la legittimità del contestato diniego.
La tesi non è condividibile.
La Sezione in merito osserva, in via preliminare, che nel passaggio da uno strumento urbanistico generale ad altro, ove diversamente non emerga, deve ritenersi che il nuovo piano sia stato elaborato utilizzando gli stessi dati base del precedente, occorrenti per la sua formazione; stesso rilevo cartografico comprendente tutto il territorio comunale (ed i Comuni contermini); stessi rilievi aerofotogrammetrici del territorio stesso; stessi fogli mappali catastali riguardanti e comprendenti l’estensione di tutto il territorio comunale.
Tutto ciò è senz’altro legittimo e spiega perché sono irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio termine intervenuti, non potendosi ritenere che l’amministrazione sia obbligata a tenerne conto.
In virtù dei detti dati base vengono stabiliti il nuovo indice di densità territoriale (normalmente il rapporto tra numero massimo ammissibile di abitanti e superficie dell’intero territorio), l’indice di fabbricabilità territoriale (rapporto tra volume lordo massimo degli edifici residenziali ad uso residenziale, esclusi i negozi, e la superficie dell’intero territorio), e quindi la densità fondiaria e l’indice di fabbricabilità fondiaria.
Tutti indici che conformano il diritto di edificare, per cui ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dal nuovo indice, in relazione a tutta la sua estensione considerata dal nuovo piano.
Ciò spiega l’irrilevanza della cubatura residua determinatasi per effetto del previgente indice di fabbricabilità fondiaria, essendo essa oggetto di una facoltà che se non esercitata non è “opponibile” al nuovo piano, e spiega anche l’irrilevanza del frazionamento del lotto non potendo esso fungere da strumento di conservazione per l’utilizzazione della stessa.
Se così non fosse, evidenti sarebbero gli effetti negativi sul mantenimento sull’ordinato sviluppo edificatorio delle zone di p.r.g., e in particolare di quelle residenziali, postulato dagli indici in precedenza ricordati. Quanto fin ora argomentato, come già accennato, ha avuto ampio riscontro nella giurisprudenza di questo Consesso.
Si è quindi stabilito che “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione” (cfr. Cons. di Stato, sez. V, 12.07.2004 n. 5039). A nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (id., 28.02.2001 n. 1074). Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti, “non rileva la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario” (cfr. id., sez. V, 26.11.1994 n. 1382).
Ed ancora; “allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari,….., la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.02.1987 n. 91).
Poiché per effetto del nuovo indice fondiario, pari a 1 mc/mq, l’appellante ha esaurito la volumetria disponibile dell'intero lotto, correttamente il Comune ha rigettato la sua domanda di rilascio di nuovo permesso di costruire (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29.01.2008 n. 255 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (infatti, ai fini del calcolo della volumetria realizzabile non rileva la circostanza che l'unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare l'esistenza di più manufatti sul fondo dell'originario unico proprietario) (TAR Basilicata, sentenza 04.09.2007 n. 522).

EDILIZIA PRIVATA: Un terreno edificabile già utilizzato a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera e il volume a essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione (Cds, sez. V, n. 5039/2004) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 01.06.2007 n. 1730).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (cfr. Corte Cost. Sent. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
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Secondo un orientamento giurisprudenziale che il Collegio condivide,
   1) “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione”, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa;
   2) ai fini del calcolo della volumetria realizzabile “non rileva la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario”;
   3) allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
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Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti hanno dedotto che il locale commerciale particella n. 512 non poteva essere ampliato, in quanto la volumetria, complessivamente realizzata di 7.731,50 mc. (6.720 mc. dell’edificio costruito sulla particella n. 509 + 1.011,50 mc. del manufatto costruito sulla particella n. 616) sull’originaria superficie complessiva di 1.538 mq., di cui ai terreni foglio di mappa n. 71, particella n. 190 sub. c), d), e) e f), poi frazionati nelle particelle n. 509, n. 510, n. 511, n. 616 e n. 617, risultava superiore all’indice di fabbricabilità di 3 mc/mq., stabilito dall’art. 12 delle Norme Tecniche di Attuazione del vigente PRG, il quale consentiva la realizzazione di una volumetria massima di 4.614 mc., già completamente utilizzata dagli edifici già esistenti.
Tale censura risulta fondata e pertanto va accolta per i seguenti motivi.
Infatti, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (cfr. Corte Cost. Sent. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Comunque, secondo un orientamento giurisprudenziale (cfr. C.d.S., Sez. V, Sent. n. 5039 del 12.07.2004; C.d.S. Sez. V, Sent. n. 1074 del 28.02.2001; C.d.S. Sez. V, Sent. n. 1382 del 26.11.1994), che il Collegio condivide (cfr. da ultimo TAR Basilicata Sent. n. 929 del 30.12.2006 su un’analoga controversia relativa ai terreni foglio di mappa n. 71 particelle nn. 508, 614 e 615, sempre siti nella stessa zona del Comune di Matera e confinanti con i terreni foglio di mappa n. 71 particelle n. 509, n. 510, n. 511, n. 616 e n. 617, oggetto del presente giudizio),
   1) “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione”, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa;
   2) ai fini del calcolo della volumetria realizzabile “non rileva la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario”;
   3) allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto (TAR Basilicata, sentenza 23.03.2007 n. 202 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di asservimento volumetrico si possono trarre dalla giurisprudenza consolidata i seguenti principi:
   a) nel computo della volumetria assentibile in ciascuna zona di piano regolatore sono da ricomprendere anche gli edifici preesistenti, in quanto il p.r.g., nella parte in cui prevede i limiti entro i quali l’area può essere edificata, si riferisce non all’edificazione ulteriore rispetto a quella già esistente al momento della sua approvazione, ma all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area;
   b) le vicende inerenti alla proprietà dei terreni, e in particolare il frazionamento del fondo da parte dell’originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’inedificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate e pertanto restano inedificabili (oppure edificabili nei soli limiti della volumetria residua) ove le costruzioni esistenti abbiano già “consumato” la volumetria disponibile.
In applicazione di questi principi si è statuito che:
   - si deve sempre tenere conto dei manufatti preesistenti;
   - per calcolare l’entità dell’asservimento e la volumetria residua, si deve considerare non il regime edilizio più favorevole esistente all’epoca di edificazione dei manufatti
in situ, ma lo strumento urbanistico vigente alla data del provvedimento emesso sulla domanda di concessione;
   - se un’area edificabile viene frazionata in più parti, alienate a vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area rimane invariata, e quella che residua tenuto conto dell’originaria costruzione resta di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione della rispettiva quota di acquisto -salvo ovviamente eventuali cessioni di cubatura-, a nulla rilevando che l’edificanda costruzione vada ad insistere su un lotto libero risultante dal frazionamento;
   - l’area la cui potenzialità edificatoria sia già saturata da una precedente costruzione deve ritenersi asservita per il solo fatto della costruzione, anche in mancanza di atto di asservimento o di concessione rilasciata per un progetto che individuasse l’area da edificare, in quanto qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.

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6. Ciò premesso, osserva il Collegio che in materia di asservimento volumetrico si possono trarre dalla giurisprudenza consolidata i seguenti principi:
   a) nel computo della volumetria assentibile in ciascuna zona di piano regolatore sono da ricomprendere anche gli edifici preesistenti (Cons. Stato V 29.11.1994 n. 1414), in quanto il p.r.g., nella parte in cui prevede i limiti entro i quali l’area può essere edificata, si riferisce non all’edificazione ulteriore rispetto a quella già esistente al momento della sua approvazione, ma all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area (Cons. Stato V 07.11.2002 n. 6128, 26.11.1994 n. 1382);
   b) le vicende inerenti alla proprietà dei terreni, e in particolare il frazionamento del fondo da parte dell’originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’inedificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate e pertanto restano inedificabili (oppure edificabili nei soli limiti della volumetria residua) ove le costruzioni esistenti abbiano già “consumato” la volumetria disponibile (Cons. Stato IV 06.09.1999 n. 1402).
In applicazione di questi principi si è statuito che:
   - si deve sempre tenere conto dei manufatti preesistenti (Cons. Stato V n. 6128/2002 cit.);
   - per calcolare l’entità dell’asservimento e la volumetria residua, si deve considerare non il regime edilizio più favorevole esistente all’epoca di edificazione dei manufatti
in situ, ma lo strumento urbanistico vigente alla data del provvedimento emesso sulla domanda di concessione (Cons. Stato V 22.11.01 n. 5928);
   - se un’area edificabile viene frazionata in più parti, alienate a vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area rimane invariata, e quella che residua tenuto conto dell ’originaria costruzione resta di pertinenza dei diversi proprietari in proporzione della rispettiva quota di acquisto (CS V 12.07.2005 n. 3777) -salvo ovviamente eventuali cessioni di cubatura (cfr. Cass. II, 12.09.1998 n. 9081, Cons. Stato V 28.06.2000 n. 3637)-, a nulla rilevando che l’edificanda costruzione vada ad insistere su un lotto libero risultante dal frazionamento (Cons. Stato VI 27.06.2006 n. 4117 e riferimenti);
   - l’area la cui potenzialità edificatoria sia già saturata da una precedente costruzione deve ritenersi asservita per il solo fatto della costruzione, anche in mancanza di atto di asservimento o di concessione rilasciata per un progetto che individuasse l’area da edificare (Cons. Stato V 12.07.2004 n. 5039), in quanto qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata (Cons. Stato V 27.06.2006 n. 4117) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.01.2007 n. 123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: A fronte di una determinata potenzialità edificatoria di un lotto, costituente un dato oggettivo che misura la compatibilità dello sfruttamento edilizio del fondo con le previsioni urbanistiche, il conseguimento di un titolo abilitativo all'edificazione, legato alle scelte contingenti del proprietario, quand'anche per certi versi condizionato dalle determinazioni assunte dall'amministrazione ai fini del rilascio del titolo stesso in merito alla cubatura ammissibile, non ha certo effetto preclusivo del successivo sfruttamento della residua potenzialità edificatoria in astratto disponibile, nel caso in cui il volume già assentito non esaurisca o superi la cubatura consentita dalle prescrizioni urbanistiche (Consiglio Stato, sez. IV, 06.03.2006, n. 1108) (TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 22.11.2006 n. 420).

EDILIZIA PRIVATA: Un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione.
Pertanto, quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell'area discende "ope legis" dalla sua utilizzazione, senza la necessità di apposito strumento negoziale, cosicché l'eventuale sanatoria per condono della costruzione precedente non esclude, a carico della superficie ulteriore rispetto a quella di sedime, il vincolo della quantità necessaria ad esprimere la cubatura realizzata.

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Con il ricorso indicato in epigrafe, l’istante censurava il provvedimento di diniego della concessione, poiché la potenzialità edificatoria del terreno era stata assorbita dagli edifici per i quali erano gi à state realizzate le concessioni in sanatoria nn. 65-66 e 67, in data 05.07.1996.
A riguardo, il ricorrente censurava la violazione di legge ed il difetto di motivazione, poiché l’istanza presentata al Comune era relativa ad un terreno ottenuto dall’istante da parte della madre, che l’aveva altresì ricevuto per donazione dal genitore Ri.Vi.. Esponeva, ancora, che tale appezzamento era parte dell’originaria particella 431, che a sua volta,era derivata dalla particella 89, poi frazionata.
Orbene sul terreno in menzione erano state richieste due concessioni in sanatoria da parte degli altri donatari, che l’ottenevano ai sensi della l. n. 47 de 1985.
Contestava, il ricorrente, la circostanza che sia la legge n. 47 cit. che la legge n. 724 del 1994 contenessero delle previsioni atte a giustificare il computo degli edifici condonati ai fini del limite edificatorio. Peraltro, evidenziava che, ai sensi della variante al P.R.G. il terreno d’interesse ricade nella sottozona C3, case unifamiliari con orto e, non più, come sotto la vigenza del la precedente disciplina urbanistica, nella zona F3, parchi pubblici ed impianti sportivi.
Si costituiva l’amministrazione chiedendo il rigetto della domanda.
Osserva il Collegio che la domanda appare infondata. Infatti, per smentire la tesi di parte ricorrente, basta ricordare quanto più volte affermato dalla giurisprudenza amministrativa sul punto: “Un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione. Pertanto, quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo dell'area discende "ope legis" dalla sua utilizzazione, senza la necessità di apposito strumento negoziale, cosicché l'eventuale sanatoria per condono della costruzione precedente non esclude, a carico della superficie ulteriore rispetto a quella di sedime, il vincolo della quantità necessaria ad esprimere la cubatura realizzata” (Consiglio Stato, sez. V, 12 luglio 2004, n. 5039)
Né rileva che il terreno risultasse già frazionato al momento del rilascio delle concessioni in sanatoria del 1996, poiché l’impegno della superficie necessaria alla realizzazione della costruzione, in base all’indice di fabbricabilità applicabile nella zona, consegue non al rilascio del titolo edilizio ma alla materiale esecuzione dell’opera, pur se eseguita abusivamente (cfr. Cons. Stato, sent. cit.) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 15.11.2006 n. 12137 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo consolidati principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
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Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente alfine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti, “non rileva la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario”.
Allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, infatti, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.

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La tesi non è condividibile.
Questa Sezione ha di recente ribadito (cfr. dec. n. 3777 del 12.07.2005) che, secondo consolidati principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente alfine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione” (cfr. Cons. di Stato, sez. V, 12.07.2004 n. 5039), a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (id., 28.02.2001 n. 1074).
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti, “non rileva la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario” (cfr. id., sez. V, 26.11.1994 n. 1382).
Allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, infatti, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.02.1987 n. 91).
Nell’ordinamento vigente, dunque, i principi fin qui esposti conformano lo stesso regime della proprietà edilizia, intesa come proprietà immobiliare suscettibile di edificazione, cosicché essi non necessitano di formale enunciazione in specifiche disposizioni regolamentari o di piano (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 27.06.2006 n. 4117 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Allorché un'area edificabile venga frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia già stata realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni in cui detto fondo (originariamente) unico è stato frazionato hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
Il principio è condivisibile, ma opera a condizione che un'area sia stata effettivamente asservita alla costruzione, nel senso che quest'ultima non avrebbe potuto essere realizzata senza calcolare la volumetria espressa dall'area asservita.
Ciò non avviene quando un'area, avente una propria identità catastale, sebbene indicata nel titolo edilizio come parte di un compendio edificabile, non sia stata utilizzata neppure in parte a tale fine, essendo stata edificata, su altra o altre aree contigue, una volumetria inferiore a quella di cui queste ultime erano capaci.
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9. Il secondo motivo di ricorso è infondato, sotto entrambi i profili dedotti (volumetria edificabile e rapporto filtrante).
Quanto al primo profilo, va precisato che il progetto riguarda i mappali 104, 730 e 732; tuttavia il mappale 730 -sul quale Edil Futura ha acquistato un diritto di superficie per la realizzazione di tre autorimesse in sottosuolo- è stato utilizzato esclusivamente a tale scopo, e non computato per il calcolo della s.l.p. edificabile.
Quanto ai mappali 104 e 732 (acquistati da Ed.Fu. con atto di compravendita 08.07.2002), il ricorrente ne assume l’inedificabilità perché asserviti in passato ad altre costruzioni.
A tal fine richiama la giurisprudenza (Cons. Stato V, 12.07.2005 n. 3777, IV 16.02.1987 n. 91) secondo la quale, allorché un’area edificabile venga frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia già stata realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni in cui detto fondo (originariamente) unico è stato frazionato hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
Il principio è condivisibile, ma opera a condizione che un’area sia stata effettivamente asservita alla costruzione, nel senso che quest’ultima non avrebbe potuto essere realizzata senza calcolare la volumetria espressa dall’area asservita.
Ciò non avviene quando un’area, avente una propria identità catastale, sebbene indicata nel titolo edilizio come parte di un compendio edificabile, non sia stata utilizzata neppure in parte a tale fine, essendo stata edificata, su altra o altre aree contigue, una volumetria inferiore a quella di cui queste ultime erano capaci.
10. Nel caso in esame il mappale 104, sebbene sia menzionato (con i mappali 105, 458, 459) nel nulla osta 30.09.1972, rilasciato per la costruzione di tre piani fuori terra, non è stato però edificato, né la sua volumetria risulta concretamente “sfruttata” allo scopo di realizzare la costruzione sul mappale (o sui mappali) contigui.
Dalla disposta verificazione risulta infatti (pag. 7) che:
   - l’intero compendio (mq 1352 di superficie lorda; mq 1272 di superficie utile) esprimeva all’epoca un volume edificabile di mc 3816;
   - il progetto prevedeva un volume di mc 2218 (volume edificato), sicché residuava un volume di 1598 mc.
Ora, poiché la superficie del mappale 104 è pari ad un terzo del compendio originario (memoria 10.05.2006 di parte ricorrente, pag. 14), e poiché l’intero compendio è stato edificato per meno di 2/3 della volumetria complessivamente disponibile, ciò significa che il mappale 104, rimasto libero da edificazioni, non venne asservito alla costruzione realizzata sui mappali contigui.
Non risulta, d’altro canto, che nella vendita del mappale 104 l’alienante si sia riservato diritti volumetrici, né risulta che questi, pur legittimato (e forse unico legittimato) a dolersene, abbia denunciato la lesione di un proprio (ipotetico) diritto allo sfruttamento della volumetria residua.
Va aggiunto che, rispetto alla volumetria disponibile sui mappali 104 e 732, la verificazione, condotta in base ai parametri urbanistici previsti dalle vigenti n.t.a. (che fanno riferimento non al volume ma alla superficie lorda di pavimento), non ha rilevato eccedenze.
La relazione dà conto sul punto (pagg. 9-10) della doppia verifica effettuata sui mappali di proprietà Ed.Fu., da soli e in unione con gli altri mappali (104, 105, 458 459) contemplati in precedenti permessi di costruzione.
Risulta dunque: che la s.l.p. realizzata in base alla d.i.a 28.02.2003 (ridotta in fase esecutiva a mq 271,46) è inferiore alla s.l.p. (mq 273,95) edificabile computando i soli mappali 104 e 732; mentre la s.l.p. dell’intero compendio (271,46 + 572,06 preesistenti = mq 843,52) è inferiore a quella (mq 921,45) realizzabile sul medesimo compendio complessivamente considerato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.06.2006 n. 1413 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto edificato occorre considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area, quelle previste con un progetto gi à assentito dall’Autorità comunale, come pure gli atti di asservimento di volumetria in favore di altro fondo.
Pertanto sia la vendita di una parte dell'originario unico fondo, così come il frazionamento del fondo da parte dell'originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini dell'edificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a quelle assentite al momento del frazionamento.
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La censura è infondata.
Il fabbricato su cui insiste la proprietà dei ricorrenti (piano terra e cortile) e la proprietà del controinteressato (piano primo), faceva parte di un unico lotto di proprietà, a suo tempo, del signor Ef.Pa..
In sede di divisione della proprietà (atto del 24.05.1954), al figlio Aldo (dante causa dei ricorrenti) venne attribuita la proprietà del “piano terreno col giardinetto, la lavanderia (con la tettoia e la vasca) e le due cantine sotto la cucina e la stanza da pranzo”, mentre al figlio Carlo (dante causa del controinteressato), spettò “il piano superiore, le soffitte e la cantina sotto il salotto, col diritto di sopraelevare il piano”.
In virtù della divisione del bene tra i fratelli, il diritto di sopraelevazione è stato attribuito al proprietario del piano superiore del fabbricato. Ciò ha comportato necessariamente, seppure implicitamente, l’attribuzione della volumetria (da calcolare sulla potenzialità di tutto il lotto) necessaria per realizzare il piano in questione e per esercitare a pieno il diritto assegnato.
Per volontà delle parti, al proprietario del piano superiore è stato infatti attribuito il diritto di sopraelevazione, diritto che impone l’asservimento della volumetria residua dell’intero lotto in favore dell’ultimo piano sul quale soltanto può essere realizzata la volumetria disponibile, volumetria che va calcolata sulla base degli indici previsti dallo strumento urbanistico vigente al momento del rilascio della concessione edilizia per la sopraelevazione.
Ai fini della quantificazione della volumetria residua disponibile di un lotto edificato occorre considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area, quelle previste con un progetto gi à assentito dall’Autorità comunale, come pure gli atti di asservimento di volumetria in favore di altro fondo; pertanto sia la vendita di una parte dell'originario unico fondo, così come il frazionamento del fondo da parte dell'originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini dell'edificabilità delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a quelle assentite al momento del frazionamento (TAR Abruzzo, Pescara, 15.01.2002, n. 96; sulla necessità di considerare complessivamente la potenzialità edificatoria in riferimento al lotto urbanisticamente individuato vedasi Consiglio Stato sez. IV, 25.02.1988 n. 100, TAR Sardegna, 31.07.2001 n. 844).
Nel caso di specie la volumetria residua del lotto era stata asservita con il citato atto di divisione in favore del lastrico del piano superiore. Correttamente, pertanto, il Comune di Sassari ha considerato la volumetria dell’intero originario lotto, ai fini del rilascio delle concessioni edilizie rilasciate al controinteressato per la sopraelevazione del fabbricato (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 19.05.2006 n. 996 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quando una porzione di suolo venga in concreto utilizzata ai fini del computo della cubatura per l'edificazione di un manufatto edilizio, essa non può essere in futuro utilizzata nuovamente a tal fine, neppure nel caso dell'ulteriore frazionamento ed alienazione dell'area libera residua.
Ove così non fosse, infatti, si perverrebbe all'aberrante risultato che, realizzata l'opera, il costruttore potrebbe ben alienare la porzione di terreno non direttamente occupata dalla costruzione onde consentirne un ulteriore sfruttamento edificatorio da parte di un terzo
(Cons. Stato, sez. V, 10.02.2005, n. 2328) (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 06.02.2006 n. 87).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente alfine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione”, a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti, “non rileva la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell'originario unico proprietario”.
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Qualora un'area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto.
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Al riguardo, deve considerarsi che, secondo consolidati principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente alfine di verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione” (cfr. Cons. di Stato, sez. V, 12.07.2004 n. 5039), a nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (id., 28.02.2001 n. 1074).
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti, “non rileva la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell'originario unico proprietario” (cfr. id., sez. V, 26.11.1994 n. 1382).
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Soccorre, allora, il principio già enunciato in proposito da questa Sezione, secondo il quale allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in proporzione della rispettiva quota di acquisto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.02.1987 n. 91) (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.07.2005 n. 3777  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
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Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione.
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La censura è, nel suo complesso, infondata.
Il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di verificare se, in relazione all'intera superficie dell’area (superficie scoperta più superficie impegnata dalla costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione.
Principio, peraltro, sancito nel caso di specie dall’art. 9, primo comma, delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale, che, con riguardo a tutti gli indici edilizi, così dispone: “l’utilizzazione degli indici edilizi che disciplinano l’edificazione in una determinata area esclude ogni richiesta successiva di altre concessioni edilizie sull’area -ad eccezione delle ricostruzioni- indipendentemente da qualsiasi frazionamento o passaggio di proprietà” (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.07.2004 n. 5039  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Presupposti per il permesso in deroga.
Il permesso in deroga di cui all’art. 5, commi 9 e ss., del c.d. Decreto sviluppo (d.l. n. 70 del 2011), è ammesso solo laddove gli “edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare” si collochino in “aree urbane degradate”: la valutazione in ordine alla natura “degradata” dell’area è connotata da ampia discrezionalità tecnica sindacabile solo in presenza di profili di macroscopica illogicità, irragionevolezza o di travisamento del fatto (1).
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   (1) Ha preliminarmente chiarito il Tar che nel rilascio del permesso in deroga previsto dall’art. 5 del c.d. Decreto sviluppo (d.l. n. 70 del 2011), la natura privata e speculativa dell’intervento edilizio non è di per sé ostativa all’individuazione di un interesse pubblico, purché l’intervento realizzi, nel contempo, l’interesse pubblico alla razionalizzazione e riqualificazione delle aree urbane degradate e si tratti di destinazioni d’uso tra loro compatibili e complementari.
Ha aggiunto che l’art. 5, comma 9, del Decreto Sviluppo n. 70 del 2011 si limita a rendere assentitile un permesso in deroga agli strumenti urbanistici, ma non obbliga l’amministrazione a concederlo: in quanto istituto derogatorio del principio per cui lo strumento urbanistico va rispettato finché è in vigore, l’amministrazione è titolare di poteri ampiamente discrezionali di carattere latamente politico implicanti valutazioni di merito che potrebbero persino prescindere da particolari motivazioni di carattere tecnico sindacabili entro i limiti della macroscopica illogicità, irragionevolezza o di travisamento del fatto.
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4.1. L’art. 5, commi 9 e ss., D.L. n. 70 del 2011 (conv. in L. 106/2011) dispone che “Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili (…) è ammesso il rilascio di un permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici ai sensi dell'articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 anche per il mutamento delle destinazioni d'uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili e complementari (…)".
4.2. In forza di tale disposizione, il presupposto in presenza del quale “è ammesso” –quindi comunque non “dovuto”- il rilascio di un permesso di costruire in deroga al vigente PRGC è che l’intervento edilizio consenta di perseguire “la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e “la riqualificazione di aree urbane degradate”, caratterizzate, queste ultime, dalla “presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”.
4.3. Nel contesto della disposizione, il riferimento all’esistenza di “funzioni eterogenee” o di “tessuti edilizi disorganici o incompiuti” o di “edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare” non individua presupposti autonomi per il rilascio di un permesso di costruire in deroga, ulteriori rispetto a quelli costituiti dalla “razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e dalla “riqualificazione di aree urbane degradate”, ma intende unicamente esemplificare gli specifici contesti urbani “degradati” in cui la norma trova applicazione.
In tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, 11.04.2014 n. 1767, secondo cui “
se può convenirsi che i “fini” della norma sono due: “la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate”, sono queste ultime ad essere connotate dalla “presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”.
Se così è, la norma si applica agli edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare soltanto ove ricadenti in “aree degradate”.
4.4. In altre parole,
l’esistenza di “edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare” costituisce un presupposto sufficiente a consentire il rilascio di un permesso di costruire in deroga al vigente strumento urbanistico comunale, soltanto nel caso in cui tali edifici si collochino in “aree urbane degradate”; solo in tal caso la legge consente al consiglio comunale di valutare l’assentibilità di proposte di edificazione in deroga al vigente PRGC e con il riconoscimento al soggetto proponente di particolari facoltà “premianti” (volumetria aggiuntiva, possibilità di delocalizzare la volumetria in area diversa, ammissibilità di modifiche della destinazione d’uso e delle sagome degli edifici), nella misura in cui gli interventi proposti consentano di perseguire l’interesse pubblico prioritario alla “razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e alla “riqualificazione di aree urbane degradate”.
4.5.
La valutazione circa la sussistenza di tali presupposti, ed in particolare circa l’esistenza di aree urbane “degradate”, è rimessa per legge al consiglio comunale; si tratta di una valutazione connotata da ampia discrezionalità tecnica, tenuto che conto che essa può comportare deroghe più o meno estese alla vigente strumentazione urbanistica, e che per tale motivo è sindacabile da questo giudice solo in presenza di profili di macroscopica illogicità, irragionevolezza o di travisamento del fatto: profili che, nel caso di specie, il collegio non rileva.
4.6. Le società ricorrenti sostengono che lo stato di degrado dell’area si evincerebbe sia dalla motivazione della delibera consiliare impugnata, sia dalla documentazione versata in atti.
Il collegio non condivide la tesi di parte ricorrente:
   - premesso che
la nozione di “degrado” di un bene non attinge a regole tecniche desunte da scienze esatte e quindi sconta sempre, inevitabilmente, un tasso più o meno elevato di opinabilità, va osservato che nella motivazione della delibera consiliare n. 48/2017 l’area è così descritta: “L’area presenta le seguenti caratteristiche: la proprietà risulta delimitata da una recinzione il cui accesso principale è individuato da un cancello carraio posto sulla via ... al civico 75. Nell’area sono presenti alcune serre, bassi fabbricati e tettorie aperte e chiuse (in cattivo stato di manutenzione e derivanti dall’attività agricola preesistente), ora utilizzate per il parcheggio degli autobus di linea appartenenti alla ditta Ca., proprietaria degli immobili. La restante parte della proprietà risulta inutilizzata, incolta e ricoperta da vegetazione”; il provvedimento, osserva il collegio, non sembra individuare un’area “degradata”, quanto piuttosto un’area su cui insistono manufatti in cattivo stato di manutenzione (ma tuttora utilizzati da una delle società ricorrenti per l’esercizio della propria attività imprenditoriale di autotrasporto), e in parte costituita da terreno incolto e inutilizzato;
   - la stessa documentazione fotografica prodotta in giudizio dalle società ricorrenti (doc. 11) non restituisce l’immagine di un’area “degradata”: si percepisce la presenza di abbondante vegetazione spontanea, con alcuni modesti manufatti agricoli in evidente stato di cattiva manutenzione; sembra anche di percepire che l’area si collochi in un contesto rurale, o comunque scarsamente urbanizzato; tuttavia, dedurre da questi elementi l’esistenza di un’area urbana degradata è una conclusione che il collegio non ritiene di condividere, e che comunque, allo stato degli atti, appare quanto meno opinabile;
   - è noto, a questo riguardo, che
quando l'Amministrazione non applica scienze esatte che conducono ad un risultato certo ed univoco, ma formula un giudizio tecnico connotato da un fisiologico margine di opinabilità, per sconfessare quest'ultimo non è sufficiente evidenziare la mera non condivisibilità del giudizio, dovendosi piuttosto dimostrare la sua palese inattendibilità, l'evidente insostenibilità, con la conseguenza che, ove non emergano travisamenti, pretestuosità o irrazionalità, ma solo margini di fisiologica opinabilità e non condivisibilità della valutazione tecnico-discrezionale operata dalla Pubblica amministrazione, il giudice amministrativo non può sovrapporre alla valutazione opinabile del competente organo della stessa la propria, giacché diversamente egli sostituirebbe un giudizio opinabile (nella specie, quello del consiglio comunale circa l’insussistenza di una situazione di degrado dell’area interessata dal progetto di edificazione in deroga al PRGC) con uno altrettanto opinabile (nella specie, quello espresso dalla difesa di parte ricorrente), assumendo così un potere che la legge riserva all'Amministrazione;
   - in tale contesto, pertanto, ritiene il collegio che la valutazione del consiglio comunale di Giaveno circa l’insussistenza di un’area degradata da riqualificare, per quanto opinabile, non sia tuttavia manifestamente illogica o irragionevole o frutto di un macroscopico travisamento della situazione di fatto, e in quanto tale si sottragga al sindacato giurisdizionale di questo giudice, alla stregua dei principi sopra esposti.
4.7. A tali considerazioni va poi aggiunto un rilievo di fondo, e cioè che l’art. 5, comma 9, del Decreto Sviluppo n. 70/2011 (convertito in L. 106/2011) si limita ad individuare i presupposti in presenza dei quali l’amministrazione può rilasciare eccezionalmente un permesso di costruire in deroga alla vigente strumentazione urbanistica, senza la necessità di passare attraverso una previa modifica formale dello strumento urbanistico: “può”, non “deve”.
In altre parole,
pur in presenza di “aree degradate…con edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”, l’amministrazione non è obbligata ad accogliere qualsiasi richiesta di edificazione presentata da privati in deroga al vigente piano regolatore comunale, per il solo fatto che questa consenta di razionalizzare il patrimonio edilizio esistente e di riqualificare aree urbane degradate; l’amministrazione può farlo, ma non è vincolata a farlo; il principio di carattere generale è che lo strumento urbanistico va rispettato finché è in vigore; la possibilità di rilasciare permessi di costruire in deroga al vigente strumento urbanistico costituisce una eccezione a tale principio; eccezione che può essere assentita dall’amministrazione comunale in presenza di taluni presupposti previsti dalla legge, nell’esercizio di poteri ampiamente discrezionali che possono afferire anche agli indirizzi politici di fondo dell’amministrazione in carica in materia di governo del territorio (e che non a caso sono affidati, in prima battuta, al consiglio comunale, ossia all’organo elettivo a cui sono riservate per legge le decisioni più importanti in materia di governo del territorio, quali l’approvazione dei piani territoriali ed urbanistici); per tale motivo, si tratta di valutazioni di merito dell’amministrazione comunale, di carattere latamente politico, che potrebbero persino prescindere da particolari motivazioni di carattere tecnico e che, in ogni caso, sono sindacabili da questo giudice entro i limiti ristrettissimi di cui si è detto; per dirla in breve, è la concessione della deroga che va adeguatamente motivata, rappresentando un’eccezione ai principi generali della materia, non il suo diniego, che al contrario costituisce la mera riaffermazione di tali principi (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 18.09.2018 n. 1028 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non impone un più stringente onere motivazionale circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla demolizione, atteso che non può ammettersi il consolidarsi nel privato di un affidamento degno di tutela né l’autore o comunque il proprietario delle opere abusive può ritenersi legittimato in conseguenza del trascorrere del tempo e per effetto del permanere di una situazione di fatto abusiva.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcuna decadenza e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dal compiuto abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei presupposti di fatto e di diritto.
Ricorda sul punto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 D.L. n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 164 del 2014– precisa che “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
La norma è quindi chiara nello stabilire che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, ma configura piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
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Colui che acquista un immobile su cui è stato realizzato un abuso edilizio subentra nella medesima situazione giuridica del dante causa e, se è ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, ha egli stesso la possibilità di eseguire l'ordinanza di demolizione, e se il dante causa al momento della vendita non segnala la sussistenza dell'abuso, tale circostanza può dar luogo ai consueti rimedi civilistici, ma è irrilevante –per le ragioni appena esposte- ai fini dell'esercizio del potere-dovere dell'Amministrazione di emanare gli atti previsti dalla legge.
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L’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito, con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd Legge ponte.
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2.3.- Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non impone un più stringente onere motivazionale circa la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla demolizione, atteso che non può ammettersi il consolidarsi nel privato di un affidamento degno di tutela né l’autore o comunque il proprietario delle opere abusive può ritenersi legittimato in conseguenza del trascorrere del tempo e per effetto del permanere di una situazione di fatto abusiva.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcuna decadenza e, quindi, è adottabile anche a notevole intervallo temporale dal compiuto abuso edilizio, costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei presupposti di fatto e di diritto (Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2017, n. 4580; Cons. Stato, Sez. VI, 11.12.2013 n. 5943).
2.4.- Ricorda sul punto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato (sentenza del 17.10.2017 n. 9) che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 D.L. n. 133 del 2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 164 del 2014– precisa che “la mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale, nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente”.
La norma è quindi chiara nello stabilire che il decorso del tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di demolizione, ma configura piuttosto specifiche e diverse conseguenze in termini di responsabilità in capo al dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso nonostante il tempo trascorso.
2.5.- Non rileva che gli abusi siano stati compiuti non dai ricorrenti ma dal loro dante causa.
Anche in questo caso, secondo condivisa e costante giurisprudenza, colui che acquista un immobile su cui è stato realizzato un abuso edilizio subentra nella medesima situazione giuridica del dante causa e, se è ancora pendente il termine fissato nella ordinanza di demolizione, ha egli stesso la possibilità di eseguire l'ordinanza di demolizione, e se il dante causa al momento della vendita non segnala la sussistenza dell'abuso, tale circostanza può dar luogo ai consueti rimedi civilistici, ma è irrilevante –per le ragioni appena esposte- ai fini dell'esercizio del potere-dovere dell'Amministrazione di emanare gli atti previsti dalla legge (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.07.2014, n. 3565; Tar Genova, sez. I, 06.10.2016, n. 1001).
2.6.- I ricorrenti sostengono al riguardo la preesistenza del manufatto al 01.09.1967.
Rilevano che al punto 7, lett. D, del rogito notarile, la parte alienante attesta che la costruzione del piano terra è iniziata ed ultimata in data anteriore al 01.09.1967, nel mentre dichiara che la costruzione al primo piano è stata realizzata in conformità a regolare provvedimento autorizzativo, rilasciato dal Sindaco, corrispondente alla concessione edilizia n. 20313 del 22.10.1968; precisa inoltre che in seguito non vi sono stati interventi edilizi o mutamenti di destinazione che avrebbero richiesto un titolo.
L’assunto circa la preesistenza del manufatto non è assistito da una valida prova, il cui onere incombe sull’interessato.
Come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza, anche di questa Sezione (cfr. sentenza del 27.08.2016 n. 4108), l’amministrazione comunale non deve fornire, quale condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione, prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso che è posto in capo al proprietario o al responsabile dell'abuso, dimostrare il momento in cui il manufatto è stato costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732), con riferimento specifico all'onere di provare la costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd Legge ponte.
Né costituisce valido principio di prova, a sostegno delle ragioni dei ricorrenti, la nota prot. n. 20313 del 22.10.1968, di cui copia è allegata agli atti di causa, posto che con la stessa il Sindaco del Comune di Torre del Greco autorizzava l’alienante degli odierni ricorrenti ad installare una semplice “casetta prefabbricata” in via Montedoro.
In senso contrario alle deduzioni difensive di parte ricorrente, la nota rende del tutto verosimile che gli abusi contestati siano stati compiuti in epoca successiva al 1967; è sufficiente mettere a confronto il contenuto dell’autorizzazione edilizia sindacale con le dichiarazioni dell’alienante contenute nell’atto di compravendita notarile del 1994, nel quale si fa menzione di una “casa per uso abitazione, …composta da un piano terra di due vani, adibiti a piccola autorimessa e lavanderia o stanza di sbarazzo, e da un primo piano, costituito da tre vani utili ed accessori” (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2018 n. 5464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Circa la costruzione di una tenda con tubolari in alluminio anodizzato laterali fissati al suolo, è da escluderne la sua natura precaria, in quanto la circostanza che la tenda si sostenga con tubolari in alluminio anodizzato laterali fissati al suolo, ne dimostra, da un lato, la sua non immediata rimovibilità, dall’altro la sua reale funzione, quella di consentire un determinato uso, tutt’altro che temporaneo, dello spazio esterno.
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3.- Riguardo all’opera realizzata nell’area cortilizia, indicata al punto 2) dell’ordinanza impugnata (tenda con tubolari in alluminio anodizzato laterali fissati al suolo), è da escluderne la sua natura precaria, in quanto la circostanza che la tenda si sostenga con tubolari in alluminio anodizzato laterali fissati al suolo, ne dimostra, da un lato, la sua non immediata rimovibilità, dall’altro la sua reale funzione, quella di consentire un determinato uso, tutt’altro che temporaneo, dello spazio esterno (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II, 22.12.2017, n. 12632; Tar Liguria, sez. I, 12.02.2015, n. 177) (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 12.09.2018 n. 5464 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il solo criterio dello stabile collegamento territoriale con il contesto nel quale è destinato a sorgere l’intervento edilizio contestato non può essere considerato, di per sé, dato sufficiente a dimostrare l’esistenza di un concreto pregiudizio a carico di chi invoca l’annullamento del titolo abilitativo, quanto meno in tutti i casi in cui la modifica del preesistente assetto edilizio non si dimostri ictu oculi, ovvero sulla scorta di sicure basi statistiche tratte dall'esperienza, pregiudizievole per la qualità (urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell'area in cui insiste la proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile di comportarne un deprezzamento commerciale.
Ed infatti, se tali condizioni non si verificano, spetterà a chi agisce in giudizio fornire la dimostrazione dei danni (o delle potenziali lesioni) ricollegabili all'avversata struttura, in quanto, se si volesse aderire a una diversa impostazione e ritenere che i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione siano sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi si giungerebbe ad “elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, senza che sia necessario far valere un interesse giuridicamente protetto, per tale via coniando (senza autorizzazione legislativa) una sorta di azione popolare”.
Ancor più di recente, è stato osservato: “Il Collegio ritiene di condividere l'affermata insufficienza del solo requisito della vicinitas a radicare un concreto ed attuale interesse all'impugnazione, pur senza pervenire alla posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di tutela in materia edilizia. Ai fini della legittimazione ad agire in presenza di abusi incombe, pertanto, sul ricorrente/interventore la dimostrazione del duplice requisito dello stabile collegamento con il luogo dell'intervento che si afferma abusivo e la allegazione di una lesione che non potrà essere riconosciuta come sussistente solo in ragione del carattere abusivo dell'opera realizzata ma che dovrà essere allegata (e comprovata) anche se come solo eventuale o potenziale ma sulla base di puntuali allegazioni”.
Del resto, si tratta di un orientamento avallato altresì in occasione di molteplici arresti del Consiglio di Stato: “…la sussistenza del requisito della mera vicinitas -in caso di impugnazione di titoli edilizi- non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente…il sistema così disegnato è armonico rispetto alla disciplina disegnata anche dal codice civile e dalle leggi speciali succedutesi: a ben guardare, il vicino vede protetta la propria sfera giuridica attraverso la inderogabile disciplina dettata in materia di distanze; ma laddove ipotizzi in suo danno un pregiudizio discendente da altre violazioni ha il dovere di dedurlo e provarlo” con la conseguenza che “la legittimazione al ricorso non può di certo configurarsi allorquando l'instaurazione del giudizio appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto o contra ius, siccome volti nella sostanza a contrastare la libera concorrenza e la libertà di stabilimento”.
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2. Occorre, in primo luogo, esaminare le eccezioni preliminari di inammissibilità del ricorso sollevate dal Comune resistente e dalla società controinteressata, prendendo le mosse da quella relativa alla carenza di interesse che appare logicamente prioritaria.
Il Collegio ritiene che tale eccezione sia fondata, in quanto l’impugnazione non risulta sostenuta da un interesse concreto al ricorso, nel senso chiarito dalla più aggiornata e condivisibile giurisprudenza.
Appare opportuno ripercorrere, seppur sinteticamente, le coordinate ermeneutiche tracciate in proposito dai più recenti arresti, per poi farne applicazione al caso concreto.
Come noto, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti, il solo criterio dello stabile collegamento territoriale con il contesto nel quale è destinato a sorgere l’intervento edilizio contestato non può essere considerato, di per sé, dato sufficiente a dimostrare l’esistenza di un concreto pregiudizio a carico di chi invoca l’annullamento del titolo abilitativo, quanto meno in tutti i casi in cui la modifica del preesistente assetto edilizio non si dimostri ictu oculi, ovvero sulla scorta di sicure basi statistiche tratte dall'esperienza, pregiudizievole per la qualità (urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell'area in cui insiste la proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile di comportarne un deprezzamento commerciale.
Ed infatti, se tali condizioni non si verificano, spetterà a chi agisce in giudizio fornire la dimostrazione dei danni (o delle potenziali lesioni) ricollegabili all'avversata struttura, in quanto, se si volesse aderire a una diversa impostazione e ritenere che i proprietari di immobili in zone confinanti o limitrofe con quelle interessate da un permesso di costruzione siano sempre legittimati ad impugnare i titoli edilizi si giungerebbe ad “elevare un astratto interesse alla legalità a criterio di legittimazione, senza che sia necessario far valere un interesse giuridicamente protetto, per tale via coniando (senza autorizzazione legislativa) una sorta di azione popolare” (in termini: Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 04.05.2015, n. 1081; Tar Veneto, Sez. II, 15.02.2018, n. 324).
Ancor più di recente, è stato osservato: “Il Collegio ritiene di condividere l'affermata insufficienza del solo requisito della vicinitas a radicare un concreto ed attuale interesse all'impugnazione, pur senza pervenire alla posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di tutela in materia edilizia. Ai fini della legittimazione ad agire in presenza di abusi incombe, pertanto, sul ricorrente/interventore la dimostrazione del duplice requisito dello stabile collegamento con il luogo dell'intervento che si afferma abusivo e la allegazione di una lesione che non potrà essere riconosciuta come sussistente solo in ragione del carattere abusivo dell'opera realizzata ma che dovrà essere allegata (e comprovata) anche se come solo eventuale o potenziale ma sulla base di puntuali allegazioni” (Tar Campania, Salerno, Sez. I, 18.04.2018, nr. 755).
Del resto, si tratta di un orientamento avallato altresì in occasione di molteplici arresti del Consiglio di Stato: “…la sussistenza del requisito della mera vicinitas -in caso di impugnazione di titoli edilizi- non costituisce elemento sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di colui il quale insorge giudizialmente…il sistema così disegnato è armonico rispetto alla disciplina disegnata anche dal codice civile e dalle leggi speciali succedutesi: a ben guardare, il vicino vede protetta la propria sfera giuridica attraverso la inderogabile disciplina dettata in materia di distanze; ma laddove ipotizzi in suo danno un pregiudizio discendente da altre violazioni ha il dovere di dedurlo e provarlo” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908) con la conseguenza che “la legittimazione al ricorso non può di certo configurarsi allorquando l'instaurazione del giudizio appaia finalizzata a tutelare interessi emulativi, di mero fatto o contra ius, siccome volti nella sostanza a contrastare la libera concorrenza e la libertà di stabilimento” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 22.11.2017, n. 5442) (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 04.09.2018 n. 873 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Realizzazione di manufatti precari e facilmente amovibili su area vincolata - Intervento eseguito in assenza di titolo abilitativo.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Nozione di precarietà di un intervento - Nozione di opera precaria - Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. 42/2004 e 30, co. 1, e 8 legge 394/1991 - AREE PROTETTE - Parco naturale regionale - Disciplina per le opere precarie - Artt. 44, lett. e), 65, 72, 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
Il reato di pericolo previsto dall'art. 181 d.lgs. n. 42/2004 è comunque integrato anche dalla realizzazione di manufatti precari e facilmente amovibili, essendo assoggettabile ad autorizzazione ogni intervento modificativo, con esclusione delle condotte che si palesino inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del paesaggio.
Inoltre, la precarietà di un intervento non può essere desunta dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore e che sono irrilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali impiegati e l'agevole rimovibilità, in quanto è richiesta una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente precario per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo e l'opera deve essere destinata ad una sollecita eliminazione alla cessazione dell'uso
(Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.09.2018 n. 39429 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non può aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di diniego della sanatoria e del conseguente ordine di demolizione, il tempo trascorso tra la presentazione della domanda e la conclusione dell'iter procedimentale.
La mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell'autotutela decisoria. Non è in alcun modo concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile- forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento: l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio
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Tali principi sono stati ribaditi anche con riferimento all’ipotesi in cui il destinatario dell’ordine di demolizione non sia responsabile dell’abuso, come riaffermato anche di recente: “
Anche nel caso in cui l'attuale proprietario dell'immobile non sia responsabile dell'abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell'abuso.
Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e l'attuale proprietario imponga all'amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il carattere reale dell'abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può -al contrario- rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell'abuso e il suo avente causa)

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Con il primo motivo di ricorso si lamenta l’eccessiva durata del procedimento, rappresentando che questo, avviato con la domanda di condono presentata in data 09.12.2004 s’è concluso solo il 18.09.2015 -dopo ripetute richieste di integrazioni documentali, imponendo “degli adempimenti non espressamente previsti nel modulo che la stessa amministrazione comunale aveva predisposto”, formulate in data 08.10.2007– ritardando di sei mesi la risposta dopo che l’istante aveva provveduto, entro i termini previsti, agli adempimenti richiesti e persistendo in tale comportamento omissivo anche a seguito della presentazione, da parte dello stesso ricorrente, in data 05.05.2008 della documentazione scritta e fotografica per ottenere il Nulla Osta Legge 29.06.1939 n. 1497, al quale la PA ha dato riscontro solo in data 17.01.2012 – sicché il lungo periodo di tempo trascorso ha ingenerato nel ricorrente (Sig. Ni.Ma.) il legittimo affidamento sul tacito accoglimento della domanda di sanatoria; tale ingiustificato ritardo nel provvedere costituisce una violazione del "buon andamento" sancito dall'art. 97 Cost. e del principio di ragionevolezza desumibile dalla legge n. 241/1990 e dell’obbligo di trasparenza dell’azione amministrativa sancito dalla legge n. 15/2005.
Le doglianze relative alla tempistica della procedura, articolatamente sviluppate con il primo mezzo di gravame, non sono utili a dimostrare l’illegittimità del provvedimento impugnato, alla luce dell’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, in particolare dopo gli ulteriori chiarimenti forniti dall'Adunanza plenaria n. 9 del 2017.
È infatti ormai stato definitivamente chiarito che: “
non può aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di diniego della sanatoria e del conseguente ordine di demolizione, il tempo trascorso tra la presentazione della domanda e la conclusione dell'iter procedimentale.
La mera inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo' in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell'autotutela decisoria. Non è in alcun modo concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile- forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell'interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento: l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta commissione di abusi non fa venire meno il dovere dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti previsti a salvaguardia del territorio
”.
Tali principi sono stati ribaditi anche con riferimento all’ipotesi –come nel caso di specie– in cui il destinatario dell’ordine di demolizione non sia responsabile dell’abuso, come riaffermato anche di recente: “Anche nel caso in cui l'attuale proprietario dell'immobile non sia responsabile dell'abuso e non risulti che la cessione sia stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le stesse. Si osserva in primo luogo al riguardo che il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino di valori di primario rilievo non si pongono in modo peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia responsabile dell'abuso. Non può infatti ritenersi che, ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria, la diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e l'attuale proprietario imponga all'amministrazione un peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il carattere reale dell'abuso e la stretta doverosità delle sue conseguenze non consentono di valorizzare ai fini motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale può -al contrario- rilevare a fini diversi da quelli della misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle responsabilità fra il responsabile dell'abuso e il suo avente causa)” (Cons. St., sez. VI, n. 3527/2018, con ampio richiamo all’AP 9/2017 cit.)
Il Collegio condivide pienamente le sopra richiamate considerazioni e conclusioni, che trovano piena applicazione nel caso di specie.
In conclusione, il decorso del tempo per la definizione della pratica, nel caso in esame, potrebbe al più supportare una richiesta di indennizzo per danno da ritardo (però non è stata formulata in questa sede dai ricorrenti), ove ne sussistano i presupposti.
Non può tuttavia ignorarsi che il rallentamento è dipeso, nel caso di specie, dall'incompletezza della domanda di sanatoria presentata che è imputabile esclusivamente all’istante, che ha l’onere di allegare alla richiesta tutta la documentazione prescritta dalla normativa in materia.
Non può nemmeno condividersi l’assunto del ricorrente secondo cui la mancata integrazione documentale sia stata “posta, del tutto illogicamente, tra le motivazioni della determina di diniego del condono”, dato che, al contrario, è proprio la normativa in materia a stabilire quali atti debbano essere allegati all’istanza di condono e sancire l’improcedibilità dell’istanza in caso di mancata tempestiva integrazione degli stessi ove richiesto dal Comune
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 01.09.2018 n. 9115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il titolo abilitativo tacito può formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa: affinché si abbia il silenzio-assenso, occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono.
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Il titolo abilitativo tacito non può formarsi, per effetto del silenzio-assenso sull'istanza di condono, ove l’immobile sia ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico o ambientale, come nel caso in esame, essendo imprescindibile, in tale condizione, acquisire il parere espresso dall'autorità competente alla gestione del vincolo.
Il provvedimento positivo può ritenersi intervenuto in presenza del vincolo solo con il decorso del termine normativamente prescritto dall'emanazione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, e soltanto se tale parere è favorevole al richiedente, non potendo l'eventuale inerzia dell'Amministrazione far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire con il provvedimento espresso.
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Innanzitutto va ricordato che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il titolo abilitativo tacito può formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie autorizzativa: affinché si abbia il silenzio-assenso, occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma che regola il procedimento di condono (vedi, da ultimo, TAR Emilia Romagna–Bologna, sez. I, n. 50/2018, con richiamo a TAR Puglia, Lecce, n. 181/2014; nonché Consiglio di Stato, sez. VI, n. 3634/2018, che specifica l’onere documentale incombente sull’istante evidenziando che: “la natura procedurale del condono edilizio è infatti eccezionale e straordinaria rispetto alla ordinaria disciplina edilizia e urbanistica: il Comune deve istruire il procedimento nei modi e termini specificatamente previsti dalla legge (cfr., art. 35, comma 12 , l. n. 47/1985 in relazione all'art. 39, comma 4, l. 724/1994); l'interessato al buon esito della pratica deve, a sua volta, assolvere all'onere d'individuare nel dettaglio tipo, consistenza materiale riferita al singolo immobile dell'illecito edilizio, e, in aggiunta, non restare inerte di fronte alle doverose istanze d'integrazione recapitategli dal Comune)”.
Inoltre, e soprattutto, va ricordato che, secondo altrettanto pacifico orientamento giurisprudenziale, il titolo abilitativo tacito non può formarsi, per effetto del silenzio-assenso sull'istanza di condono, ove l’immobile sia ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico o ambientale, come nel caso in esame, essendo imprescindibile, in tale condizione, acquisire il parere espresso dall'autorità competente alla gestione del vincolo.
Come ribadito anche di recente dalla Sezione con sentenza n. 6520/2018 il provvedimento positivo può ritenersi intervenuto in presenza del vincolo solo con il decorso del termine normativamente prescritto dall'emanazione del parere dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, e soltanto se tale parere è favorevole al richiedente, non potendo l'eventuale inerzia dell'Amministrazione far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non potrebbero mai conseguire con il provvedimento espresso (sicché non trova applicazione nei procedimenti in esame l’art. 17-bis della legge n. 241/1990, tardivamente invocato nel ricorso n. 5832/2016 dal ricorrente Ma.Ni. come nuovo motivo di ricorso a contestazione dell’atto di diffida impugnato con il ricorso introduttivo)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 01.09.2018 n. 9115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In quanto proprietari confinanti con l’erigendo fabbricato e soggetti direttamente interessati dall’approvazione del progetto, il termie di impugnazione decorre dalla data di comunicazione o di effettiva piena conoscenza del provvedimento ritenuto lesivo, e non dalla data di pubblicazione del provvedimento medesimo nelle forme di legge.
Va, al riguardo, data continuità all’indirizzo giurisprudenziale qui condiviso a mente del quale “il termine per l’impugnazione di un atto amministrativo per il quale non vi è stata la notificazione o comunicazione decorre dalla piena conoscenza dello stesso da parte dell’interessato".
La “piena conoscenza” coincide con la percezione dell’esistenza del provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidenti la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
La consapevolezza dell’esistenza del provvedimento unitamente alla sua lesività integra infatti la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto, determinandosi in tal modo la piena conoscenza indicata dalla norma.
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Le eccezioni sono infondate.
In quanto proprietari confinanti con l’erigendo fabbricato e soggetti direttamente interessati dall’approvazione del progetto, il termie di impugnazione decorre dalla data di comunicazione o di effettiva piena conoscenza del provvedimento ritenuto lesivo, e non –come suppone il Comune– dalla data di pubblicazione del provvedimento medesimo nelle forme di legge.
Va, al riguardo, data continuità all’indirizzo giurisprudenziale qui condiviso a mente del quale “il termine per l’impugnazione di un atto amministrativo per il quale non vi è stata la notificazione o comunicazione decorre dalla piena conoscenza dello stesso da parte dell’interessato".
La “piena conoscenza” coincide con la percezione dell’esistenza del provvedimento amministrativo e degli aspetti che ne rendono evidenti la lesività della sfera giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di esso.
La consapevolezza dell’esistenza del provvedimento unitamente alla sua lesività integra infatti la sussistenza di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni ostacolo all’impugnazione dell’atto, determinandosi in tal modo la piena conoscenza indicata dalla norma (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2016 n 3825).
Alla medesima conclusione deve giungersi sull’eccezione di inammissibilità per omessa notificazione all’Agenzia del Demanio.
L’acquisizione dell’opera al patrimonio del demanio è evento successivo alla realizzazione e, ovviamente, all’approvazione del progetto: sicché l’Agenzia al momento della notificazione del ricorso avverso la delibera d’approvazione del progetto non era legittimata passiva del gravame.
Aggiungasi che i ricorrenti, una volta venuti a conoscenza per il deposito degli atti della successiva acquisizione al patrimonio del Demanio, hanno tempestivamente impugnato gli atti ad essa riferibili con motivi aggiunti ritualmente notificati a tutte le Amministrazioni interessate (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.08.2018 n. 5071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: a) il D.M. 02.04.1968 n. 1444, recante "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti";
   b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
   c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile;
   d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, e trova conseguente applicazione anche per gli edifici pubblici.
   e) nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 vanno considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono.
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Con i motivi d’appello il Comune denuncia l’errore di giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure nell’omettere di considerare la natura pubblica dell’opera sottratta al regime della distanza minima assoluta di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, prescritta dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
L’appello è infondato.
Alla stregua della consolidata giurisprudenza (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337; id., 23.06.2017, n. 3093; id., 08.05.2017, n. 2086; id., 03.08.2016, n. 3510; id., 29.02.2016, n. 856; Cass. civ. sez. II, 14.11.2016, n. 23136), mette conto ribadire che:
   a) il D.M. 02.04.1968 n. 1444, recante "Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati", prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi edifici"... "in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti";
   b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della salute dei cittadini (prevenendo la formazione di intercapedini malsane);
   c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile;
   d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit., predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, e trova conseguente applicazione anche per gli edifici pubblici.
   e) nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art. 9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 vanno considerati i balconi, nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa dei vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V, 13.03.2014 n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013 n. 5108).
Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.08.2018 n. 5071 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Materiale di risulta da demolizioni - Differenza tra rifiuto e sottoprodotto - Applicazione di un regime giuridico più favorevole - Presupposti di legge - Onere della prova - Artt. 183, 184, 184-bis e 256 d.lgs. n. 152/2006.
Il materiale di risulta da demolizioni è da considerare, in linea generale, rifiuto. Sicché, ai fini della configurabilità del reato previsto dall'art. 256, commi 1-3, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale quello relativo al "deposito temporaneo" o al "sottoprodotto" (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015 - dep. 08/07/2015, Favazzo e altro) (Corte di Cassazione, Sez. VII penale, ordinanza 24.07.2018 n. 35042 - link a www.ambientediritto.it).

URBANISTICA: Ai sensi dell’art. 28 della legge n. 1150/1942 (come modificato dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765), nonché degli articoli 16 e 17 della medesima legge urbanistica, alle lottizzazioni va applicato, in via analogica, il termine massimo di validità decennale entro il quale devono essere attuati i piani particolareggiati (art. 16, comma 5, l. n. 1150 del 1942), decorso il quale divengono inefficaci per la parte inattuata (art. 17, comma 1, della stessa legge).
Anche la giurisprudenza di questa Sezione ha condiviso tale indirizzo, osservando come il riferito orientamento giurisprudenziale è temperato dal riconoscimento della possibilità di realizzazione delle costruzioni edilizie previste dallo strumento di attuazione, anche dopo la sua scadenza, laddove però sia stata completata la sua attuazione, nel senso che devono essere state realizzate, entro il termine di vigenza del piano, tutte le opere di urbanizzazione primaria.
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La delibera dichiarativa della decadenza di un piano di lottizzazione per decorso del decennio di efficacia non deve essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, configurandosi la medesima non come atto costitutivo di un autonomo procedimento, ma come atto meramente ricognitivo dell'inefficacia del piano automaticamente verificatasi con lo scadere del termine.
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11. - In ordine logico, è preliminare accertare se la convenzione di lottizzazione è divenuta inefficace per il decorso del termine decennale entro il quale avrebbe dovuto essere attuata, come stabilito dal Comune con la deliberazione consiliare n. 47 del 29.10.2007.
Ove, infatti, fosse dimostrata l’intervenuta decadenza della lottizzazione per cui è controversia, gli ulteriori motivi dedotti dai ricorrenti avverso la deliberazione concernente il dimensionamento delle volumetrie diverrebbero inammissibili, perché la ricorrente non trarrebbe alcun vantaggio dall’eventuale annullamento o modifica dell’entità del predetto dimensionamento.
12. - Come accennato, la convenzione di lottizzazione fu stipulata il 18.07.1977 e registrata il 05.08.1977. Per cui, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 1150/1942 (come modificato dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n. 765), nonché degli articoli 16 e 17 della medesima legge urbanistica [cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20.01.2003, n. 200, secondo cui, dato il particolare rilievo dei piani di lottizzazione, che costituiscono ormai strumenti urbanistici specifici preordinati e normalmente alternativi rispetto ai piani particolareggiati], alle lottizzazioni va applicato, in via analogica, il termine massimo di validità decennale entro il quale devono essere attuati i piani particolareggiati (art. 16, comma 5, l. n. 1150 del 1942), decorso il quale divengono inefficaci per la parte inattuata (art. 17 comma 1 della stessa legge); nello stesso senso Cons. Stato, IV Sez., 07.02.2012, n. 2045.
Anche la giurisprudenza di questa Sezione ha condiviso tale indirizzo (recentemente si veda TAR Sardegna, Sez. II, 22.01.2018, n. 36, che richiama Sez. II, 19.07.2013, n. 553), osservando come il riferito orientamento giurisprudenziale è temperato dal riconoscimento della possibilità di realizzazione delle costruzioni edilizie previste dallo strumento di attuazione, anche dopo la sua scadenza, laddove però sia stata completata la sua attuazione, nel senso che devono essere state realizzate, entro il termine di vigenza del piano, tutte le opere di urbanizzazione primaria.
Nel caso di specie, i ricorrenti non dimostrano che, alla scadenza del termine decennale, fossero state eseguite le opere di urbanizzazione previste dal piano. Si limitano, infatti, a depositare in giudizio delle foto che si riferiscono alla realizzazione delle opere in questione (cfr. doc. 3 di parte ricorrente) ma dalle quali non è possibile risalire all’epoca di riferimento (dato che le foto sono prive di data); né, soprattutto, è possibile stabilire l’integrale esecuzione delle opere entro il termine decennale scadente nel 1987.
Il predetto termine di efficacia del piano attuativo non può ritenersi superato o prorogato con la norma di cui all’art. 4, comma 2, terzo periodo, della legge regionale n. 8/2004 (che, come visto, si riferisce ai piani attuativi «approvati e convenzionati alla data di pubblicazione della delibera della Giunta regionale n. 33/1 del 10.08.2004, purché alla stessa data le opere di urbanizzazione siano legittimamente avviate ovvero sia stato realizzato il reticolo stradale, si sia determinato un mutamento consistente ed irreversibile dello stato dei luoghi […]»), poiché appare del tutto evidente che le lottizzazioni fatte salve dalla norma regionale sopra richiamata debbono essere individuate esclusivamente in quelle che non fossero già scadute al tempo dell’entrata in vigore della legge regionale n. 8/2004.
...
14. - Ugualmente infondata è la censura concernente il mancato invio della previa comunicazione di avvio del procedimento.
La delibera dichiarativa della decadenza di un piano di lottizzazione per decorso del decennio di efficacia, non deve essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, configurandosi la medesima non come atto costitutivo di un autonomo procedimento, ma come atto meramente ricognitivo dell'inefficacia del piano automaticamente verificatasi con lo scadere del termine (TAR Sardegna, Sez. II, 19.07.2013, n. 553) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 19.07.2018 n. 670  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione […], che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, […] nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
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13. - Anche il riferimento a fatti ed eventi che, integrando altrettante cause di forza maggiore, avrebbero determinato la sospensione del termine di efficacia della lottizzazione, non può essere favorevolmente apprezzato.
Sul punto deve essere richiamato l’orientamento recentemente ribadito con la citata sentenza di questo Tribunale (22.01.2018, n. 36; ma si vedano anche Sez. II, 23.05.2017, n. 352, e Sez. II, 08.11.2016, n. 848), secondo cui è applicabile alla fattispecie il principio affermato in materia di sospensione del termine di durata del titolo edilizio, secondo cui «il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione […], che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, […] nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore» (TAR Sardegna, Sez. II, 22.01.2018, n. 36, che richiama Consiglio di Stato sez. IV, n. 974/2012; sez. III, n. 1870/2013) (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 19.07.2018 n. 670  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime.
E seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
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L’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ove sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio, l’Amministrazione è tenuta a specificare la sussistenza dell’interesse pubblico alla eliminazione dell’opera realizzata o addirittura ad indicare le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che si sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato, può essere condiviso solo se riferito a situazioni assolutamente eccezionali nelle quali risulti evidente la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata.
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Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
La prima censura, incentrata sull’omessa comunicazione dell’avvio del procedimento, è palesemente infondata.
Per giurisprudenza costante, i provvedimenti repressivi degli abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e, seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione, troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del procedimento.
La seconda censura, con cui ci si duole della carenza di motivazione, atteso che la motivazione è necessaria qualora si ordini la demolizione di strutture assai risalenti, come avverrebbe nel caso di specie, è anch’essa infondata. Infatti, la pretesa risalenza dell’immobile non risulta affatto dimostrata: secondo parte ricorrente, essa si evincerebbe dal nulla osta dei VV.F. del Comando provinciale di Napoli, datato 10.12.62.
Tale nulla osta, tuttavia, non risulta essere stato allegato; né sono stati allegati altri documenti (ad es., una perizia di parte) da cui evincere almeno un principio di prova circa la data di presumibile realizzazione dell’abuso.
Inoltre, l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ove sia decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso edilizio, l’Amministrazione è tenuta a specificare la sussistenza dell’interesse pubblico alla eliminazione dell’opera realizzata o addirittura ad indicare le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che si sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato (TAR Marche, 29.08.2003, n. 976; Cons. Stato, Sez. V, 19.03.1999, n. 286), può essere condiviso solo se riferito a situazioni assolutamente eccezionali nelle quali risulti evidente la sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata (TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 19.06.2006, n. 7082; 18.05.2005, n. 6497) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 03.05.2018 n. 2972 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Considerato che l'obbligazione contributiva per costo di costruzione è fondata sulla produzione di ricchezza connessa all'utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria, deve ritenersi che il legislatore, dettando una disposizione così chiara e tranchant come quella di cui all’art. 17, comma 4, DPR 380/2001, abbia inteso affermare che gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato, proprio perché tali, non siano di per sé soli produttivi di ricchezza e dunque non debbano essere assoggettati al costo di costruzione.
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... per l'accertamento del suo diritto alla restituzione della somma di € 9.088,44, indebitamente versata al Comune di Comacchio a titolo di costo di costruzione;
e per la condanna del Comune alla restituzione della suddetta somma oltre interessi.
...
5. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto.
La norma di cui all’art. 17, comma 4, DPR 380/2001, invocata dalla ricorrente, afferma un principio che prescinde da qualunque distinzione, né viene circostanziata a seconda dei casi.
Le affermazioni del Comune in ordine alla presunta ratio della norma, innanzi riportate virgolettate, ricalcano principi che, in realtà, la giurisprudenza ha declinato in relazione alle diverse fattispecie contemplate, anche nel testo applicabile ratione temporis, al comma 3 della suddetta norma e, segnatamente, alla fattispecie di cui alla lett. c) del terzo comma (l’affermazione riportata dal Comune è testualmente rinvenibile in: TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.06.2005, n. 8696).
Il comma 3 prevede(va), infatti, il totale esonero dal contributo di costruzione nei seguenti casi: “a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'articolo 12 della legge 09.05.1975, n. 153;
b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari;
c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici;
d) per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità;
e) per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di tutela artistico-storica e ambientale
”.
Viceversa il comma 4 stabiliva: “Per gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato il contributo di costruzione è commisurato alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione”.
Osserva il Collegio che, in assenza di specificazioni da parte del legislatore, viepiù considerato che la disposizione invocata dalla ricorrente segue quella del comma 3 in cui il legislatore ha contemplato diverse fattispecie per l’esonero dal contributo declinando, per ognuna di esse, i singoli requisiti (ubi voluit, dixit), deve ritenersi che la commisurazione del contributo di costruzione alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione sia obbligatoria in tutti gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato, senza ulteriori distinzioni e indipendentemente dal fatto che si tratti di opere stabili o precarie.
Il contenuto della disposizione in discorso è talmente chiaro da non prestarsi ad interpretazioni di sorta (in claris non fit interpretatio).
D’altra parte, l’ulteriore principio giurisprudenziale invocato dal Comune per giustificare la debenza, nel caso di specie, del costo di costruzione, depone in realtà in senso contrario a quello preteso dall’amministrazione.
Invero, considerato che l'obbligazione contributiva per costo di costruzione è fondata sulla produzione di ricchezza connessa all'utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria (TAR Liguria, sez. I, 28.03.2013, n. 552), deve ritenersi che il legislatore, dettando una disposizione così chiara e tranchant come quella di cui all’art. 17, comma 4, DPR 380/2001, abbia inteso affermare che gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato, proprio perché tali, non siano di per sé soli produttivi di ricchezza e dunque non debbano essere assoggettati al costo di costruzione.
Per quanto precede, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, deve dichiararsi il diritto della ricorrente alla restituzione della somma corrisposta a titolo di costo di costruzione, maggiorata degli interessi legali dalla data della domanda, trattandosi di somma indebitamente riscossa dal Comune di Comacchio (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 27.06.2016 n. 630 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47 del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di inedificabilità relativa).
Pertanto, se il vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto non può considerarsi sic et simpliciter inesistente, ne discende che gli va applicato lo stesso regime della previsione generale dell’art. 32, comma 1, della stessa legge n. 47 del 1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo.

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Nel caso in esame, il vincolo gravante sulle aree oggetto dell’intervento edilizio è quello proprio dei territori costieri, implicante un regime di inedificabilità assoluta, ai sensi del precitato art. 33.
Il vincolo paesistico sui territori costieri compresi in una fascia di 300 metri dalla linea di battigia, in relazione all’intero territorio nazionale, è stato per la prima volta imposto, come è noto, con d.m. 21.09.1984 (recante Dichiarazione di notevole interesse pubblico dei territori costieri, dei territori contermini ai laghi, dei fiumi, dei torrenti, dei corsi d'acqua, delle montagne, dei ghiacciai, dei circhi glaciali, dei parchi, delle riserve, dei boschi, delle foreste, delle aree assegnate alle Università agrarie e delle zone gravate da usi civici), poi seguito dalle norme primarie di cui alla l. 08.08.1985, n. 431, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27.06.1985, n. 312, assorbito poi dal d.lgs. 29.10.1999, n, 490.
Già in base a tale considerazione non appare pertinente il rilievo dell’appellante secondo cui l’Amministrazione comunale avrebbe fatto riferimento a una disciplina vincolistica sopravvenuta, in quanto introdotta soltanto con il d.lgs. 22.01.2004 n. 42, atteso che riguardo al vincolo sui territori costieri l’art. 142 d.lgs. cit. (recante l’elenco delle aree tutelate per legge) è riproduttivo –in continuità della fattispecie sostanziale- di quel regime vincolistico ex lege, ben più risalente nel tempo.
4.5 Inoltre, vale al riguardo rammentare che, in base alle conclusioni raggiunte dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato 22.07.1999. n. 20 circa la disciplina del condono edilizio della legge n. 47 del 1985 e delle connesse questioni (poste dall’art. 33) relative ai procedimenti di condono riguardanti territori con vincoli di inedificabilità relativa, si deve avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data di esame della domanda di sanatoria, secondo il principio tempus regit actum.
Inoltre, quanto ai vincoli di in edificabilità assoluta, questo Consiglio di Stato ha più volte chiarito che se è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47 del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di inedificabilità relativa).
Pertanto, se il vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto non può considerarsi sic et simpliciter inesistente, ne discende che gli va applicato lo stesso regime della previsione generale dell’art. 32, comma 1, della stessa legge n. 47 del 1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 07.10.2003, nr. 5918; sez. IV, 14.02.2012 n. 731) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 06.05.2013 n. 2409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per quanto riguarda la presentazione della DIA si ritiene che l’espressione utilizzata dall’art. 42, comma 1, della LR 12/2005 (“il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività”) individui oltre al proprietario altre due categorie di soggetti.
In primo luogo coloro che dispongono di un diritto reale diverso dalla proprietà che conferisca il potere di modificare l’immobile attraverso interventi edilizi. Accanto a questi si possono considerare legittimati quanti dispongano di un diritto di natura personale da cui derivino aspettative edificatorie.
La promessa di vendita, e in generale il preliminare di compravendita, costituiscono sotto questo profilo titoli idonei, purché non vi sia una clausola con un divieto espresso che riservi al promittente venditore la facoltà di definire le questioni edilizie in attesa del contratto definitivo.
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8. Con il primo motivo di ricorso viene in rilievo la questione della legittimazione del geom. Fr.Da. a presentare la DIA.
Questo problema è alla base sia della censura del ricorrente, che lamenta la violazione dell’art. 42, comma 1, della LR 12/2005, sia dell’eccezione di inammissibilità formulata dai controinteressati, i quali sostengono che il ricorso avrebbe dovuto essere instaurato nei confronti della società Ed. 90 snc.
9. Per quanto riguarda la presentazione della DIA si ritiene che l’espressione utilizzata dall’art. 42, comma 1, della LR 12/2005 (“il proprietario dell'immobile o chi abbia titolo per presentare la denuncia di inizio attività”) individui oltre al proprietario altre due categorie di soggetti.
In primo luogo coloro che dispongono di un diritto reale diverso dalla proprietà che conferisca il potere di modificare l’immobile attraverso interventi edilizi. Accanto a questi si possono considerare legittimati quanti dispongano di un diritto di natura personale da cui derivino aspettative edificatorie. La promessa di vendita, e in generale il preliminare di compravendita, costituiscono sotto questo profilo titoli idonei (v. CS Sez. VI 03.12.2004 n. 7847), purché non vi sia una clausola con un divieto espresso che riservi al promittente venditore la facoltà di definire le questioni edilizie in attesa del contratto definitivo.
Nel caso in esame la promessa di vendita contiene tra i patti speciali una dichiarazione di disponibilità del promittente venditore a “firmare l’eventuale documentazione necessaria all’inoltro della pratica edilizia al Comune” e il consenso all’effettuazione di misurazioni e rilievi da parte del promissario acquirente. Queste formule possono essere interpretate come manifestazioni della volontà di trasferire immediatamente al promissario acquirente ogni potere circa l’edificazione: del resto la vendita di un lotto edificabile ha come finalità intrinseca, nota alle parti, proprio la realizzazione di un intervento edilizio.
Di conseguenza la disponibilità a firmare la documentazione va intesa come impegno del promittente venditore a favorire una rapida conclusione della procedura edilizia: a tale scopo il promittente venditore si impegna a presentare a proprio nome (o a controfirmare) una richiesta di permesso di costruire (o una DIA) nell’eventualità che l’amministrazione non accetti una simile richiesta formulata dal solo promissario acquirente.
In conclusione non vi è nella promessa di vendita alcun elemento che privi il promissario acquirente della legittimazione a presentare una DIA. Occorre poi sottolineare, trattandosi di promessa per persona da nominare, che qualora l’effettivo acquirente sia un terzo è comunque applicabile l’istituto della ratifica ex art. 2032 cc. e conseguentemente il nuovo proprietario può consolidare a proprio vantaggio gli effetti del titolo edificatorio. In concreto la funzione della ratifica è stata svolta dalla volturazione della DIA su richiesta della società Ed. 90 snc (v. sopra al punto 3)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 19.07.2008 n. 830 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 26.09.2018

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"E io pago!!"
A proposito dei "diritti di segreteria" in materia edilizio-urbanistica: il malcostume (silente) di "far cassa" illegittimamente mettendo le mani nelle tasche dei cittadini.
In estrema sintesi,
non possono essere richiesti diritti di segreteria per attività non rientranti tra le tipologie indicate dell’art. 10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68.

     L'istituzione dei "diritti di segreteria" in materia edilizio-urbanistica è avvenuta venticinque anni or sono in forza dell’art. 10, comma 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68, laddove i commi 10, 11 e 12 così recitano: 

10. Sono istituiti diritti di segreteria anche sui seguenti atti:
   a)
certificati di destinazione urbanistica previsti dall'articolo 18, secondo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
   b)
autorizzazioni di cui all'articolo 7 del decreto-legge 23.01.1982, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 25.03.1982, n. 94, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
   c)
autorizzazione edilizia, nonché denuncia di inizio dell'attività, ad esclusione di quella per l'eliminazione delle barriere architettoniche, da un valore minimo di euro 51,65 ad un valore massimo di euro 516,46. Tali importi sono soggetti ad aggiornamento biennale in base al 75 per cento della variazione degli indici dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati;
   d)
autorizzazione per l'attuazione di piani di recupero di iniziativa dei privati, di cui all'articolo 30 della legge 05.08.1978, n. 457, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
   e)
autorizzazione per la lottizzazione di aree, di cui all'articolo 28 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, da un valore minimo di L. 100.000 ad un valore massimo di L. 1.000.000;
   f)
certificati e attestazioni in materia urbanistico-edilizia da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
   g)
concessioni edilizie, da un valore minimo di L. 30.000 ad un valore massimo di L. 1.000.000.
11. I comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti sono autorizzati ad incrementare i diritti di cui alle lettere da a) a g) del comma 10, sino a raddoppiare il valore massimo.
12. I proventi degli anzidetti diritti di segreteria sono a vantaggio esclusivamente degli enti locali.


     Da una lettura attenta, si può desumere come il legislatore nazionale abbia voluto introdurre tali diritti su atti amministrativi, di competenza quasi esclusivamente comunale, la cui elencazione è da ritenersi tassativa e non meramente esemplificativa.
     Siccome precisato dal comma 12 sopra riportato, i diritti di segreteria de quibus sono ad esclusivo vantaggio degli enti locali e la legge nazionale ha precisato (per quanto di attinenza al caso di specie) che per enti locali si intendono:
i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni. 
     Ulteriormente, giova qui ricordare che i suddetti diritti trovano allocazione nel D.L. 18.01.1993 n. 8 che titola: Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica, il cui articolato è infarcito di continui riferimenti agli enti locali come sopra individuati.
     Ciò premesso, la norma è chiara -facilmente intelligibile- nello statuire puntualmente quali siano gli atti amministrativi per i quali richiedere obbligatoriamente (e legittimamente) i "diritti di segreteria" il cui elenco, in forza di sopravvenute leggi modificative/integrative/sostitutive, può essere così riassunto:

10. Sono istituiti diritti di segreteria anche sui seguenti atti:
   a)
certificati di destinazione urbanistica previsti dall'articolo
18, secondo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni (oggi cfr. art. 30 DPR 06.06.2001 n. 380), da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
   b)
autorizzazioni di cui all'articolo 7 del decreto-legge 23.01.1982, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 25.03.1982, n. 94, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000; (istituto ABROGATO)
   c)
autorizzazione edilizia, nonché denuncia di inizio dell'attività
(autorizzazione edilizia ---> istituto ABROGATO / denuncia di inizio attività ---> oggi "segnalazione certificata di inizio attività" - cfr. art. 19 L. n. 241/1990 nonché art. 22 e seguenti DPR 380/2001), ad esclusione di quella per l'eliminazione delle barriere architettoniche, da un valore minimo di euro 51,65 ad un valore massimo di euro 516,46. Tali importi sono soggetti ad aggiornamento biennale in base al 75 per cento della variazione degli indici dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati;
   d)
autorizzazione per l'attuazione di piani di recupero di iniziativa dei privati, di cui all'articolo 30 della legge 05.08.1978, n. 457, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
   e)
autorizzazione per la lottizzazione di aree, di cui all'articolo 28 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, da un valore minimo di L. 100.000 ad un valore massimo di L. 1.000.000;
   f)
certificati e attestazioni in materia urbanistico-edilizia da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
   g)
concessioni edilizie
(oggi "permesso di costruire" - cfr. art. 10 e segg. DPR 06.06.2001 n. 380), da un valore minimo di L. 30.000 ad un valore massimo di L. 1.000.000.


     Invero, l'unica voce per la quale i comuni si sbizzarriscono a richiedere illegittimamente i "diritti di segreteria" -NON dovuti (per alcuni atti amministrativi)- è quella di cui alla lett. f) "certificati e attestazioni", ricomprendendovi fattispecie NON contemplate dal legislatore ovvero NON attinenti alla materia urbanistico-edilizia. Esemplifichiamo, di seguito, alcuni atti per i quali
è legittimo [recte, obbligatorio (laddove istituiti e non soppressi ex art. 2, comma 15, L. n. 127/1997) ... se non si vuole comparire dinanzi alla Corte dei Conti per risponderne in prima persona] richiedere i diritti di segreteria:
   - attestazione idoneità alloggiativa (per cittadini extraUE - ex art. 29 D.Lgs. 25.07.1998 n. 286);
   - certificato di abitabilità/agibilità (per condono edilizio - ex art. 35, comma 19, legge 28.02.1985 n. 47);
   - attestazione di avvenuto deposito frazionamenti e tipi mappale (ex art. 30 del D.P.R. 06.06.2001 n. 380);
   - certificato di inizio e/o fine lavori;
   - certificato di avvenuta demolizione di fabbricato;
   - attestazione/dichiarazione inagibilità di fabbricato;
   - attestazione deposito denuncia c.a. (ex art. 7 l.r. 12.10.2015 n. 33);

     Al contrario e per quanto -purtroppo- facilmente verificabile on-line consultando vari siti web comunali qua e là,
non risulta legittimo far pagare (elencativamente, senza presunzione di esaustività) per i seguenti atti/procedimenti amministrativi:
   - C.I.L. / C.I.L.A. (ex artt. 6 - 6-bis D.P.R. 06.06.2001 n. 380);
   - autorizzazione paesaggistica (ex art. 146 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42);
   - accertamento compatibilità paesaggistica (ex art. 167 D.Lgs. 22.01.2004 n. 42);
   - autorizzazione trasformazione bosco (ex art. 43 l.r. 05.12.2008 n. 31);
   - autorizzazione trasformazione d'uso del suolo (ex
art. 44 l.r. 05.12.2008 n. 31);
   - autorizzazione taglio strada;
   - autorizzazione allacciamento pubblica fognatura;
   - autorizzazione installazione cartelli/insegne, ecc.;
   - proroga termine inizio/ultimazione lavori;
   - volturazione permesso di costruire;
   - pareri preliminari/preventivi, di massima, di fattibilità, ecc.;
   - pareri di sorta;
   - nulla-osta/autorizzazione taglio piante;
   - nulla-osta di sorta;
   - Piani Attuativi di altro genere [P.E.E.P. (Piano per l'Edilizia Economica e Popolare) ex L. 18.04.1962 n. 167; P.I.I. (Programma Integrato di Intervento) ex art. 87 L.R. 11.03.2005 n. 12; P.I.P. (Piano per gli Insediamenti Produttivi) ex art. 27 L. 22.10.1971 n. 865; ecc.];
   - S.C.A. - Segnalazione Certificata di Agibilità (ex art. 24 D.P.R. 06.06.2001 n. 380);
   - presa visione pratiche edilizie;
  
- procedura abilitativa semplificata - P.A.S. (ex art. 6 D.Lgs. 03.03.2011 n. 28);
  
- autorizzazione cessione in proprietà delle aree comprese nei piani approvati a norma della legge 18.04.1962, n. 167 (P.E.E.P.), ovvero delimitate ai sensi dell'articolo 51 della legge 22.10.1971, n. 865, già concesse in diritto di superficie (ex art. 31, comma 45, legge 23.12.1998 n. 448);
  
- autorizzazione all'eliminazione vincoli (dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento) relativi alla determinazione:
     
del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché
     
del canone massimo di locazione delle stesse,
      contenuti nelle convenzioni di cui all'articolo 35 della legge 22.10.1971, n. 865 (P.E.E.P.), e successive modificazioni, per la cessione del diritto di proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17.02.1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di superficie
(ex art. 31, comma 49-bis, legge 23.12.1998 n. 448);
  
- sopralluoghi di sorta.

     Infine, risulta necessario ricordare che i "diritti di segreteria" hanno un
limite minimo (€ 5,16 oppure € 15,49 oppure € 51,65) ed un limite massimo (€ 51,65 oppure € 516,46) -a seconda del tipo di atto/procedimento amministrativo- entro cui essere (legittimamente) predeterminati. Detto altrimenti, è illegittimo richiedere al cittadino una somma maggiore al massimo di legge (€ 51,65 oppure € 516,46) -fatta salva la facoltà di raddoppio in capo solamente a comuni con più di 250.000 abitanti- come, invece, molti comuni operano fregandosene di osservare la norma!!

     Ricapitolando, per i duri di comprendonio,
l’art. 23 della Costituzione stabilisce che nessuna prestazione patrimoniale e personale può essere imposta se non in base alla legge. In altre parole, ogni volta che l’Amministrazione impone una prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa, ciò deve avvenire nel rispetto del principio di riserva di legge.

     Per i tanti (troppi) "SAN TOMMASO" in circolazione, a seguire proponiamo un po' di materiale a conforto della bontà di quanto sopra esplicitato ... buona lettura.
 

EDILIZIA PRIVATA: Non possono essere richiesti diritti di segreteria per attività non rientranti tra le tipologie indicate dell’art. 10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68.
L’art. 23 della Costituzione stabilisce che nessuna prestazione patrimoniale e personale può essere imposta se non in base alla legge.
E, in effetti la deliberazione della Giunta Comunale, pur formalmente adottata per stabilire gli importi dei “Diritti di Segreteria su atti e prestazioni di carattere edilizio ed urbanistico”, rappresenta una prestazione patrimoniale imposta a carico di privati, in considerazione del fatto che la misura censurata con il presente ricorso non appare giustificabile con l’attività istruttoria dell’ufficio comunale e quindi riconducibile ai diritti di segreteria.
Deve essere condivisa, pertanto, la tesi della ricorrente secondo cui, ogni volta che l’Amministrazione imponga una prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa, ciò debba avvenire nel rispetto del principio di riserva di legge.
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I diritti di segreteria che il Comune può istituire in applicazione
dell’art. 10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68 attengono a corrispettivi per l’attività di istruttoria delle specifiche pratiche edilizie indicate al comma 10 e devono essere determinati nel loro ammontare in relazione alle varie tipologie di atti e alla complessità dall’attività istruttoria normalmente richiesta.
Ciò implica che non possono essere richiesti diritti di segreteria per attività non rientranti tra le tipologie indicate al comma 10, né somme sproporzionate nel loro ammontare all’attività istruttoria né, a maggior ragione, possono essere pretesi diritti in occasione di comunicazioni dei privati (es. di inizio o di fine lavori, nomina direttore dei lavori) che non richiedano una specifica attività istruttoria finalizzata al rilascio di un atto o titolo edilizio (anche per silenzio) da parte dell’ufficio.
L’importo preteso dal Comune, pur essendo funzionale al rilascio di un titolo edilizio, appare del tutto sproporzionato rispetto all’attività istruttoria dell’ufficio, tanto da apparire come una prestazione patrimoniale imposta, non rientrante nelle competenze del Comune, come innanzi osservato in relazione al primo motivo.
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... per l'annullamento:
   - del provvedimento prot. n. 8307 del 22.07.2011 del Responsabile dell'Ufficio Tecnico, Sezione Urbanistica Edilizia Privata, del Comune di Calasetta con il quale è stato richiesto alla ricorrente di corrispondere la somma di € 448,35 a titolo di diritti di segreteria, con la precisazione che l'adempimento costituisce condizione di procedibilità dell'istanza presentata per l'esecuzione di ML. 10 di scavo per allaccio La.Gi.;
   - per quanto occorra, della deliberazione n. 83 del 04.09.2009, con cui la Giunta Comunale di Calasetta ha statuito gli importi dei "Diritti di segreteria su atti e prestazioni di carattere edilizio ed Urbanistico";
   - nonché per la declaratoria dell'inesistenza del diritto del Comune a prendere somme a titolo di diritti di segreteria;
...
Con il ricorso in esame, Enel Distribuzione S.p.a. chiede l’annullamento del provvedimento, prot. n. 8307 del 22.07.2011, con il quale il responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di Calasetta ha richiesto alla ricorrente di corrispondere la somma di € 448,35 a titolo di diritti di segreteria quale condizione di procedibilità dell'istanza presentata per l’autorizzazione all’esecuzione di scavi a sezione obbligata di limitate dimensioni, al fine di poter provvedere all’esecuzione di un allaccio per il Sig. La.Gi..
Avverso gli atti impugnati, la società ricorrente deduce, quale primo motivo, la violazione del principio costituzionale, di cui all’art. 23 della Costituzione, che riserva alla legge l’introduzione di prestazioni patrimoniali imposte, nonché la violazione degli art. 25, 26 e 27 del Codice della Strada.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione del principio di proporzionalità, nonché eccesso di potere sotto vari profili, in quanto la somma di € 448,35, richiesta dal Comune di Calasetta a titolo di diritti di segreteria, è manifestamente sproporzionata e immotivata.
...
Il ricorso è fondato alla luce della sentenza di questo Tribunale n. 539 del 31.05.2018, le cui motivazioni, condivise dal collegio, possono essere riprese per la decisione della presente identica controversia.
Occorre rammentare, in conformità a quanto dedotto dalla ricorrente, che l’art. 23 della Costituzione stabilisce che nessuna prestazione patrimoniale e personale può essere imposta se non in base alla legge; e, in effetti la deliberazione della Giunta Comunale di Calasetta n. 83 del 04.09.2009, pur formalmente adottata per stabilire gli importi dei “Diritti di Segreteria su atti e prestazioni di carattere edilizio ed urbanistico”, rappresenta una prestazione patrimoniale imposta a carico di privati, in considerazione del fatto che la misura censurata con il presente ricorso non appare giustificabile con l’attività istruttoria dell’ufficio comunale e quindi riconducibile ai diritti di segreteria.
Deve essere condivisa, pertanto, la tesi della ricorrente secondo cui, ogni volta che l’Amministrazione imponga una prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa, ciò debba avvenire nel rispetto del principio di riserva di legge. Non è fuori luogo ricordare, tra l’altro, che, nel caso in esame, quanto imposto dal Comune intimato incide sulla prestazione di un servizio pubblico essenziale quale quello svolto da E-Distribuzione S.p.A.. E’, peraltro, incontestabile che, nella fattispecie in esame, sussista un’imposizione unilaterale e autoritativa (sotto forma di asseriti “diritti di segreteria”), cui la società concessionaria dell’attività di distribuzione di energia elettrica non può sottrarsi, necessitando dell’autorizzazione comunale per poter realizzare, esercitare e mantenere in efficienza la rete di cavi, tralicci e cabine di trasformazione, e garantire, al tempo stesso, la connessione alla rete di distribuzione a tutti i soggetti che ne facciano richiesta (TAR Brescia, Lombardia, sez. II, 09/04/2018, n. 404).
Fondato appare anche il secondo motivo, con il quale si deduce che la richiesta di pagamento della predetta somma di € 448,35 è illegittima per violazione del principio di proporzionalità e dell’art. 10, co 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68.
I diritti di segreteria che il Comune può istituire in applicazione dell’articolo 10 attengono a corrispettivi per l’attività di istruttoria delle specifiche pratiche edilizie indicate al comma 10 e devono essere determinati nel loro ammontare in relazione alle varie tipologie di atti e alla complessità dall’attività istruttoria normalmente richiesta (sulla natura di corrispettivo dei diritti di segreteria, Tar Campobasso n. 210/2014).
Ciò implica che non possono essere richiesti diritti di segreteria per attività non rientranti tra le tipologie indicate al comma 10, né somme sproporzionate nel loro ammontare all’attività istruttoria né, a maggior ragione, possono essere pretesi diritti in occasione di comunicazioni dei privati (es. di inizio o di fine lavori, nomina direttore dei lavori) che non richiedano una specifica attività istruttoria finalizzata al rilascio di un atto o titolo edilizio (anche per silenzio) da parte dell’ufficio.
L’importo preteso dal Comune di Calasetta, pur essendo funzionale al rilascio di un titolo edilizio, appare del tutto sproporzionato rispetto all’attività istruttoria dell’ufficio, tanto da apparire come una prestazione patrimoniale imposta, non rientrante nelle competenze del Comune, come innanzi osservato in relazione al primo motivo.
La domanda di declaratoria dell'inesistenza del diritto del Comune a pretendere somme a titolo di diritti di segreteria, va invece respinta.
La possibilità di richiedere i diritti di segreteria per il rilascio di atti o titoli edilizi (anche DIA) è espressamente prevista dall’articolo 10, comma 10, del D.L. 18.1.1993, n. 8, cosicché appare infondata la domanda avanzata in ricorso, di accertamento dell’inesistenza del diritto del Comune; anche se, come prima rilevato, l’importo preteso del Comune si è rilevato illegittimo (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 23.08.2018 n. 760 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 23 della Costituzione stabilisce che nessuna prestazione patrimoniale e personale può essere imposta se non in base alla legge.
Sicché, la previsione comunale (contestata) che ha statuito gli importi dei "Diritti di Segreteria su atti e prestazioni di carattere edilizio ed urbanistico" integra una prestazione patrimoniale a carico di privati non prevista dalla legge e, quindi, è illegittima.
Deve essere condivisa, pertanto, la tesi della ricorrente secondo cui, ogni volta che l’Amministrazione imponga una prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa, ciò debba avvenire nel rispetto del principio di riserva di legge.
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I diritti di segreteria che il Comune può istituire in applicazione dell’art. 10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68, attengono a corrispettivi per l’attività di istruttoria delle specifiche pratiche edilizie indicate al comma 10 e devono essere determinati nel loro ammontare in relazione alle varie tipologie di atti e alla complessità dall’attività istruttoria normalmente richiesta.
Ciò implica che non possono essere richiesti diritti di segreteria per attività non rientranti tra le tipologie indicate al comma 10, né somme sproporzionate nel loro ammontare all’attività istruttoria né, a maggior ragione, possono essere pretesi detti diritti in occasione di comunicazioni dei privati (es. di inizio o di fine lavori) che non comportino una specifica attività istruttoria finalizzata al rilascio di un atto o provvedimento da parte dell’ufficio.

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Con il ricorso in esame, Enel Distribuzione S.p.a. chiede l’annullamento del provvedimento, prot. n. 5389 del 11.05.2011, con il quale il responsabile dell'Ufficio Tecnico del Comune di Calasetta ha richiesto alla ricorrente di corrispondere la somma di € 448,35 a titolo di diritti di segreteria quale condizione di procedibilità dell'istanza, presentata in data 07.04.2011, per l’autorizzazione all’esecuzione di scavi a sezione obbligata di limitate dimensioni (20 metri lineari) al fine di poter provvedere all’esecuzione di un allaccio in “Loc. Le Saline”.
Avverso gli atti impugnati, la società ricorrente deduce, quale primo motivo, la violazione del principio costituzionale (art. 23 Cost.) che riserva alla legge l’introduzione di prestazioni patrimoniali imposte, nonché la violazione degli art. 25, 26 e 27 del Codice della Strada.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione del principio di proporzionalità, nonché eccessi di potere sotto vari profili, in quanto la somma di € 448,35, richiesta dal Comune di Calasetta a titolo di diritti di segreteria, è manifestamente sproporzionata e immotivata.
...
Il ricorso è fondato.
Occorre rammentare, in conformità a quanto dedotto dalla ricorrente, che l’art. 23 della Costituzione stabilisce che nessuna prestazione patrimoniale e personale può essere imposta se non in base alla legge; e, in effetti, la previsione comunale di cui alla deliberazione del 04.09.2009, n. 83, con cui la Giunta Comunale di Calasetta ha statuito gli importi dei "Diritti di Segreteria su atti e prestazioni di carattere edilizio ed urbanistico", integra una prestazione patrimoniale a carico di privati non prevista dalla legge e, quindi, è illegittima.
Deve essere condivisa, pertanto, la tesi della ricorrente secondo cui, ogni volta che l’Amministrazione imponga una prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa, ciò debba avvenire nel rispetto del principio di riserva di legge.
Non è fuori luogo ricordare, tra l’altro, che, nel caso in esame, quanto imposto dal Comune intimato incide sulla prestazione di un servizio pubblico essenziale quale quello svolto da E-Distribuzione S.p.A..
E’, peraltro, incontestabile che, nella fattispecie in esame, sussista un’imposizione unilaterale e autoritativa (sotto forma di asseriti “diritti di segreteria”), cui la società concessionaria dell’attività di distribuzione di energia elettrica non può sottrarsi, necessitando dell’autorizzazione comunale per poter realizzare, esercitare e mantenere in efficienza la rete di cavi, tralicci e cabine di trasformazione, e garantire, al tempo stesso, la connessione alla rete di distribuzione a tutti i soggetti che ne facciano richiesta.
Fondato appare anche il secondo motivo, con il quale si deduce che la richiesta di pagamento della predetta somma di € 448,35 è illegittima per violazione del principio di proporzionalità e dell’art. 10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68.
I diritti di segreteria che il Comune può istituire in applicazione dell’articolo 10 attengono a corrispettivi per l’attività di istruttoria delle specifiche pratiche edilizie indicate al comma 10 e devono essere determinati nel loro ammontare in relazione alle varie tipologie di atti e alla complessità dall’attività istruttoria normalmente richiesta (sulla natura di corrispettivo dei diritti di segreteria, Tar Campobasso n. 210/2014).
Ciò implica che non possono essere richiesti diritti di segreteria per attività non rientranti tra le tipologie indicate al comma 10, né somme sproporzionate nel loro ammontare all’attività istruttoria né, a maggior ragione, possono essere pretesi detti diritti in occasione di comunicazioni dei privati (es. di inizio o di fine lavori) che non comportino una specifica attività istruttoria finalizzata al rilascio di un atto o provvedimento da parte dell’ufficio.
L’importo preteso dal Comune di Calasetta, pur essendo funzionale al rilascio di un titolo edilizio, appare del tutto sproporzionato rispetto all’attività istruttoria dell’ufficio, tanto da apparire come una prestazione patrimoniale imposta, non rientrante nelle competenze del Comune, come innanzi osservato in relazione al primo motivo.
In conclusione, per le esposte ragioni, il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente annullamento degli atti impugnati (TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 31.05.2018 n. 538 - link a www.giustizia-amministrativa.it - ad abundantiam, TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 31.05.2018 n. 539 - TAR Sardegna, Sez. II, sentenza 31.05.2018 n. 537).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito
Il D.P.R. n. 380/2001 versione originaria, contenente il “Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, oltre a definire gli interventi edilizi realizzabili prevedeva, altresì, i titoli abilitativi necessari per effettuare gli interventi medesimi (Titolo II) stabilendo, in particolare: con l’art. 6 (“Attività edilizia libera”), quelli che si potevano eseguire senza alcun titolo abilitativo; con l’art. 10 (“Interventi subordinati a permesso di costruire”), quelli per i quali era necessario il permesso di costruire; con l’art. 22 (“Interventi subordinati a denuncia di inizio attività”) gli interventi non riconducibili all’elenco di cui all’art. 10 e all’art. 6, subordinati a presentazione di denuncia di inizio attività (D.I.A.).
La legge n. 68/1993 (“Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica”) all’art. 10, co. 10, ha poi previsto il pagamento dei diritti di segreteria per una serie di atti, tra cui <<…c) autorizzazione edilizia, nonché denuncia di inizio dell'attività…>> (lettera così sostituita dall'articolo 2, comma 60, legge n. 662 del 1996, poi modificata dall'articolo 1, comma 50, legge n. 311 del 2004).
L’art. 6 del d.p.r. n. 380/2001 (così come sostituito dall’art. 5 della L. n. 73/2010 e dall’art. 17 della L. n. 164/2014) attuale formulazione, ha introdotto per gli interventi non necessitanti titolo abilitativo di cui al comma 2, lett. b), c), d), e), la preventiva comunicazione di inizio lavori (C.I.L.) da parte dell’interessato all’amministrazione comunale, mentre con il comma 4 ha previsto, per gli interventi di cui alle lett. e) ed e-bis) del comma 2, la comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.).
Sulla scorta del quadro normativo sopra illustrato, si chiede di sapere se i diritti di segreteria di cui all’art. 10, co. 10, della L. n. 68/1993 e ss. mm. ed ii. sono esigibili dall’ente anche in relazione ai procedimenti per i quali la normativa prevede la presentazione all’amministrazione comunale della C.I.L. o della C.I.L.A.
Risposta
L’art. 10, comma 10, del d.l. 8/1993, convertito dalla legge 68/1993 e successive modificazioni, ha previsto il pagamento di diritti di segreteria per una serie di atti in materia edilizia ed urbanistica.
La comunicazione di inizio lavori (C.I.L.) e la comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.), previste per alcuni interventi in materia edilizia che non necessitano di titolo abilitativo, non sono previsti tra gli atti soggetti al pagamento dei diritti di segreteria dall’articolo citato.
I diritti di segreteria, compresi quelli in materia edilizia ed urbanistica, essendo dovuti a fronte di un’attività amministrativa compiuta dall’ente nello svolgimento delle sue funzioni di diritto pubblico, hanno natura tributaria (cfr. C. Cost. sent. n. 156/1990) e
non è consentito agli enti locali estendere la riscossione ad atti non previsti nella elencazione fatta dal legislatore, né sono possibili adattamenti al nuovo contesto normativo edilizio.
Il comma 3 del Tuel (D.Lgs. 267/2000) richiama il testo dall’art. 52 del D.Lgs. 446/1997 per il quale comuni e le province possono disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche tributarie, salvo per quanto attiene l’individuazione e definizione delle fattispecie imponibili, dei soggetti passivi, dell’aliquota massima dei singoli tributi, nel rispetto delle esigenze di semplificazione degli adempimenti dei contribuenti.
Per questi motivi,
allo stato della legislazione, i comuni non possono richiedere diritti di segreteria per la comunicazione di inizio lavori, né per la comunicazione di inizio lavori asseverata (19.11.2015 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito
La Giunta Comunale, a seguito della proposta, del Responsabile dell'UTC di adeguamento dei diritti di segreteria sugli atti di natura edilizia ai sensi dell'art. 50 della legge 30.12.2004 n. 311, istituiti ai sensi dell'art. 10, comma 10, della Legge 19.03.1993 n. 68, ha provveduto alla sua approvazione.
In seguito è nata una accesa discussione, tra alcuni Cittadini ed il Responsabile dell'UTC, circa la non applicabilità della corresponsione dei diritti di segreteria per il rilascio dell'attestato di avvenuto deposito, imposto dall'art. 30, comma 5, del DPR 380/2001 e s.m.i., dei tipi di frazionamento catastale e dei tipi mappali.
Al fine di poter intervenire con cognizione di causa nella vicenda, si sottopongono alla Vostra cortese attenzione le seguenti domande:
   - i diritti di segreteria, previsti dall'art. 10, comma 10, lettera f), della Legge 68/1993, sono applicabili al deposito dei tipi di frazionamento catastali e dei tipi mappali con stralcio d'area ( corte pertinenziale) imposto dall'art. 30, comma 1, del DPR 380/01 e s.m.i.?
   - tali atti di aggiornamento catastale rivestono natura urbanistico-edilizia?
   - l'attestazione di avvento deposito è da considerarsi un vero e proprio atto dell'Amministrazione Comunale, ovvero una mera ricevuta attestante la presentazione in Comune dei precitati atti di aggiornamento catastale ?
   - per l'attestazione dell'avvenuto deposito in Comune, ai sensi dell'art. 30, comma 5, del DPR 380/2001 e s.m.i. dei tipi di frazionamento catastale e dei tipi mappali con stralcio d'area, il Responsabile dell'UTC è tenuto o meno ad espletare preliminarmente qualsivoglia istruttoria a riguardo?
Risposta
   - Va premesso che la lett. f) del comma 10 dell’art. 10 della l. n. 68/1993, nel prevedere l’applicabilità dei cd. diritti di Segreteria anche in relazione ai “certificati e attestazioni in materia urbanistico-edilizia da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000”, usa una espressione del tutto generica che può essere letta come un omnicomprensivo riferimento ad ogni tipo di “certificato” od “attestazione” rilasciata dalla PA in materia urbanistico-edilizia;
   - Va anche ricordato che i diritti di segreteria vengono in genere fiscalmente considerati una “tassa” e quindi collegati ad un servizio svolto dall’amministrazione in funzione corrispettiva della somma richiesta;
   - Nel caso di specie l’attestazione di deposito dei frazionamenti catastali di cui al comma 5 dell’art. 30 del DPR n. 380/2001 non risulta invero connessa dalla norma alla necessità della PA di effettuare una specifica e preventiva istruttoria su qualche aspetto particolare, ma semplicemente al fatto in sé del “deposito” del tipo di frazionamento, in relazione al quale l’amministrazione non svolge una specifica istruttoria anche se questa potrà venire in rilievo in momenti successivi e tenendo conto della finalità della disposizione che è quella di sanzionare le lottizzazioni abusive;
  - Per tali ragioni una parte della dottrina ritiene che la tassa non sia dovuta in quanto il Comune non svolge alcuna specifica attività di riscontro ed istruttoria di tipo “edilizio” quando riceve i suddetti documenti, osservando che l’atto di deposito in se stesso non costituirebbe un vero e proprio atto di natura urbanistico–edilizia risultando assimilabile a qualsiasi altro comune deposito presso l’ufficio protocollo;
   - Tuttavia va osservato che
l’attività del comune, rilevante ai fini dell’applicazione dei diritti di segreteria non è, nella fattispecie, tanto il “deposito” in sé del tipo di frazionamento quanto “l’attestazione” del deposito stesso da parte dell’Ente pubblico del documento;
   - Da questo punto di vista
quello che assume importanza “corrispettiva” ai fini della applicazione della tassa è proprio tale attività o servizio di generica attestazione, la quale presenta caratteristiche del tutto ordinarie come qualsiasi altra comune attestazione da parte del Comune;
   - Per tali ragioni
si è dell’avviso che, come nella prassi seguita da diversi comuni, si possano applicare i diritti di segreteria nella misura minima in genere prevista (di solito anche nel regolamento comunale) per tale tipo di attestazioni “ordinarie” (tali ipotesi vengono infatti ricondotte alla categoria residuale denominata “attestazioni e certificazioni varie” che prevede un valore modico della tassa da pagare) (19.06.2012 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito
In relazione all'applicazione dei diritti di segreteria in materia edilizia ed urbanistica, ex art. 10, comma 10, D.L. 18/01/1993 n. 8, lett. f) "certificati ed attestazioni", si richiede se possano legittimamente applicarsi anche su attestazioni riguardanti lo stato giuridico delle strade e di beni immobili comunali risultanti da consultazione dell'Inventario Comunale e se in caso positivo va comunque applicato anche il bollo sull'attestazione (già pagato in sede di istanza).
Risposta
La risposta è positiva in quanto le attestazioni concernenti lo stato giuridico delle strade e di beni immobili comunali riguardano pur sempre la materia urbanistica-edilizia.
La circostanza che siano dovuti i diritti di segreteria non esclude affatto che sia dovuta l’imposta di bollo (20.03.2008 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quesito
Il Dirigente del settore urbanistica-edilizia di questo Comune riferisce che molti cittadini che hanno effettuato pagamenti al Comune per diritti di segreteria, ai sensi del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68, e successive modifiche, per la presentazione di D.I.A. cui l'ufficio, per varie motivazioni, non ha dato seguito (o perché la denuncia non era necessaria o per altre motivazioni), hanno chiesto il rimborso dei diritti versati ai sensi della normativa in oggetto, facendo una sorta di assimilazione con quanto accade, ad esempio, per il rimborso degli oneri concessori per permessi di costruzione cui non hanno fatto seguito i lavori.
Si chiede il parere di codesta Associazione in merito all'accoglibilità di tali richieste di rimborso.
Risposta
Il diritto di segreteria è strettamente legato ad una prestazione comunale per la quale, secondo la legge ed i regolamenti comunali, è dovuto il diritto di segreteria.
Se il diritto di segreteria è dovuto sugli atti del procedimento preparatorio, nel caso in cui non abbiano avuto adeguato sviluppo, non danno luogo ad alcun rimborso. Se il diritto di segreteria è dovuto sugli atti del provvedimento, nel caso in cui il provvedimento non abbia luogo, si ritiene non sia dovuto alcun diritto di segreteria.
Nella fattispecie concreta,
nel caso in cui la denuncia di inizio di attività risulti espressamente dichiarata non dovuta, e quindi erroneamente inviata dall’interessato, è da ritenersi, in relazione ai generali principi del diritto, che il diritto di segreteria debba essere restituito, in quanto indebito, senza alcun interesse, a quest’ultimo riguardo, nei termini di cui si dirà in appresso.
Il provvedimento del Responsabile del servizio urbanistica con il quale si dispone per la restituzione del diritto di segreteria in quanto non dovuto, deve essere adeguatamente motivato e deve riportare gli estremi finanziari al fine di renderlo possibile e la firma del responsabile del servizio di ragioneria.
La motivazione in sostanza deve riassumere gli argomenti giuridici per cui la denuncia d’inizio di attività non era per la relativa fattispecie edilizia non dovuta.
Ovviamente il caso “de quo” non è da ritenersi in analogia con quello esemplificato, relativo agli oneri concessori messi in restituzione in quanto il titolare del permesso non ha dato luogo all’inizio dei lavori di cui al permesso e dichiara espressamente di rinunciare all’esecuzione degli stessi sulla base delle motivazioni fornite dal medesimo.
In ogni caso, ed anche in questo ultimo caso, non è dovuto alcun interesse sui rimborsi, a condizione che lo sviluppo delle procedure di rimborso, rispetto alle domande pervenute al Comune abbia luogo nei termini previsti dalla legge 07.08.1990, n. 241 e s.m., o del regolamento comunale sui procedimenti amministrativi (ovviamente per queste tipologie procedimentali) (09.07.2007 - tratto da www.ancirisponde.ancitel.it).

26.09.2018 - LA SEGRETERIA PTPL

Okkio a non rispondere agli ordini istruttori del G.A.:
ciò può integrare ipotesi di reato (tra cui la violazione dell’art. 328 c.p. e l’art. 650 c.p.) col rischio concreto di comparire dinanzi alla Procura della Repubblica nonché Procura Regionale della Corte dei Conti per le valutazioni di competenza.

EDILIZIA PRIVATA: La giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione procede all'acquisizione del bene, fermo restando che, almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione.
Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione costituisce titolo per la immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto prescindere dalla esatta individuazione delle particelle catastali coinvolte.
(Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti che consentano l'identificazione esatta della aree interessate).
Sicché, la concreta individuazione delle aree da acquisire al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione costituiscono elementi necessari del provvedimento acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Atteso che l'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita, l’area da acquisire deve essere individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione l'autorità competente deve rispettare il principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo adeguato, necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di interesse pubblico perseguito.

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Con verbale dell’11.05.1997 del Corpo forestale veniva contestato alla ricorrente un movimento di terra in contrada Monte Caputo in San Martino delle scale, movimento di terra (asseritamente) finalizzato alla costruzione di una casa di mq. 40.
Con lo stesso verbale il terreno era sottoposto a sequestro, con apposizione di sigilli al fine di conservare l’integrità del corpo del reato ed impedire il mutamento dello stato dei luoghi.
Era quindi emesso decreto di sequestro preventivo da parte del GIP (n. 6254/97 – 7761/97, notificato il 17/05/1997.
Il Comune di Monreale intimava, oltre la sospensione dei lavori, anche la demolizione del fabbricato abusivo (ordinanze n. 367 e n. 368 del 26/06/1997)
Con ordinanza n. 188 del 13/07/2000 l’Amministrazione comunale integrava le precedenti ordinanze nella parte in cui non erano stati indicati i dati catastali, rinnovando quindi l’ordine di demolizione precisando che, qualora le opere fossero state sottoposte a sigilli giudiziari, i lavori avrebbero dovuto essere eseguiti dopo la rimozione dei sigilli.
Con verbale del 14/09/2001 alcuni funzionari della polizia locale evidenziavano l’inottemperanza all’ordine demolitorio: in tesi di parte la mancata demolizione era dovuta alla persistenza del sequestro giudiziario.
Quindi con provvedimento del 17/05/2002 il Settore Urbanistica del Comune di Monterale notificava il provvedimento dirigenziale n. 524/M con cui è stata disposta l’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio del Comune per l’omessa ottemperanza entro il termine prescritto all’ordine di demolizione.
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Preliminarmente
il Collegio non può esimersi dallo stigmatizzare il comportamento del Comune di Monreale che, al di là della libera scelta di non voler resistere al ricorso, non ha dato riscontro ai reiterati ordini istruttori emessi da questo Giudice, di cui alla Ordinanza presidenziale n. 74/2016 e le due ordinanze collegiali n. 250/2017 e n. 2891/2017: sulle consequenziali determinazioni il Collegio ritornerà a conclusione della presente sentenza.
Ciò premesso, il ricorso è fondato e va accolto nei limiti di cui di seguito meglio precisati.
Risultano fondate la seconda e la terza censura qui previamente e contestualmente scrutinate.
Il provvedimento impugnato, nel disporre l'acquisizione gratuita, indica, in modo del tutto approssimativo, un'area pari fino a dieci volte la superficie complessiva utile abusivamente costruita sulla particella n. 59 del foglio di mappa n. 20 del N.C.T. di Monreale esteso per circa mq. 1510, a fronte di un contestato abuso di circa 45 mq.
La mancata precisa individuazione della acquisenda area, essendo indicata solo la particella ma non anche la porzione di questa, inficia il provvedimento impugnato.
Ed invero, diversamente da quanto può anche non essere presente nel provvedimento di che intima le demolizione del bene, per quanto attiene al momento con si dispone l’acquisizione dello stesso e della relativa aera di sedime, in una misura che comunque non può essere superiore a 10 volte quella dell’abuso, occorre che l’ordinanza specifichi nel dettaglio la porzione del maggiore terreno che con il provvedimento si intende acquisire.
Opportunamente parte ricorrente richiama l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui "La giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione procede all'acquisizione del bene (in termini TAR Toscana, sez. 3^, 07.05.2013, n. 724), fermo restando che, almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione. Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione costituisce titolo per la immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto prescindere dalla esatta individuazione delle particelle catastali coinvolte. Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti che consentano l'identificazione esatta della aree interessate. Alla luce delle considerazioni che precedono la censura risulta fondata, il che comporta l'accoglimento del ricorso con il conseguente annullamento dell'ordinanza n. 150 del 1997 gravata, potendosi ritenere assorbite le ulteriori censure proposte" (cfr. TAR Toscana—Firenze, Sez. III, 16.01.2014, n. 64; principio affermato anche nelle recentissime decisioni del TAR Piemonte—Torino, 28.04.2016, n. 573 e del TAR Sardegna—Cagliari, 24.03.2016, n. 278).
La concreta individuazione delle aree da acquisire al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione costituiscono elementi necessari del provvedimento acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari.
Quanto alla terza censura, il Collegio ritiene di poter condividere il precedente invocato dalla parte, di cui alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.09.2014 n. 5607, secondo cui "–atteso che l'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita- l’area da acquisire deve essere individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione l'autorità competente deve rispettare il principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo adeguato, necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di interesse pubblico perseguito": nel caso in esame, attesa l’estensione della superficie abusiva, parti a circa 45 mq, ed il rapporto con l’estensione della particella di circa mq 1.510, l’Amministrazione non illustra le ragioni per cui ha ritenuto di procedere alla acquisizione secondo il parametro massimo (di dieci volte l’estensione della superficie abusiva).
In conclusione, il ricorso va accolto con conseguente annullamento, nei limiti sopra esposti, del provvedimento impugnato, con improcedibilità di ogni altra censura siccome ininfluente ai fini del decidere.
Ciò posto, come già osservato,
va stigmatizzato il mancato riscontro alle sopra citate ordinanze istruttorie. Oltre che contrastare con le previsioni del codice del processo amministrativo che impongono alle parti di cooperate con il Giudice ai fini della ragionevole durata del processo (art. 2 comma 2), il comportamento tenuto dal Comune di Monreale può altresì integrare ipotesi di reato (tra cui la violazione dell’art. 328 c.p. e l’art. 650 c.p.) per cui appare opportuno sin d’ora disporre la trasmissione della presente sentenza alla Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per le valutazioni di competenza.
Le spese di lite possono tuttavia essere compensate tra le parti tenuto conto del contestuale mancato riscontro all’ordine istruttorio, ord. n. 2891/2017, che incombeva, per quanto di pertinenza, sulla stessa parte ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia (Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto annulla il provvedimento impugnato nei sensi di cui in motivazione.
Spese compensate.
Manda la Segreteria di
trasmettere copia della presente sentenza alla Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per la Sicilia per le opportune valutazioni di competenza (TAR Sicilia-Palermo, Sez. III, sentenza 13.09.2018 n. 1944 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Sulla realizzazione, in facciata comune dell’edificio, di un ascensore esterno con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio appartamento.
Secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali (art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
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Per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati è necessario il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto dimostrato che le controinteressate siano comproprietarie della metà dell’immobile su cui è stato realizzato l’ascensore e soprattutto non emerge con certezza e in maniera inconfutabile la sussistenza dei presupposti soggettivi in capo ad almeno una di esse per l’applicazione della normativa volta al superamento delle barriere architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio, oltre a non essere stato rilasciato da una struttura sanitaria accreditata per il formale riconoscimento della condizione di disabilità, non risulta nemmeno ricompreso nella documentazione prodotta in occasione della presentazione della d.i.a..
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione alla normativa che regola l’attività amministrativa in materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può prescindere da una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
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Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016.
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa alla eliminazione delle barriere architettoniche avrebbe richiesto agli Uffici comunali un supplemento di istruttoria, considerata altresì la sollecitazione formulata dai condomini asseritamente danneggiati dalla realizzazione dell’ascensore.

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... per l'annullamento, quanto al ricorso per motivi aggiunti:
   - della nota prot. n. 15283/16 datata 23.03.2017, trasmessa e ricevuta a mezzo p.e.c. il 28.03.2017, a firma del Direttore d’Area 7 e del Responsabile del procedimento del Comune di Lecco, avente ad oggetto “riscontro a nota in data 22.02.2016 inerente pratica edilizia n. 136/2004 – realizzazione ascensore esterno nel fabbricato sito in Lecco, -OMISSIS-. Atto di significazione, denuncia e diffida ex art. 27 DPR 380/2001”, con la quale “nell’esercizio delle funzioni assegnate dall’art. 27 del DPR 380/2001, inerenti la vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia nel territorio comunale” non è stata ravvisata “la sussistenza di violazioni tali da consentire (ai sensi della vigente normativa) l’adozione di provvedimenti demolitori relativamente alla realizzazione dell’ascensore esterno de quo agitur”;
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I ricorrenti sono comproprietari di un appartamento sito al piano terra del predetto immobile, mentre le controinteressate -OMISSIS- sono comproprietarie del primo piano e del sottotetto, situati sempre nel medesimo fabbricato; queste ultime hanno realizzato sulla facciata comune dell’edificio, prospetto nord, un ascensore esterno con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio appartamento, da cui sarebbe derivato il totale accecamento di una finestra al servizio dell’atrio comune e la sensibile diminuzione dell’aerazione e dell’illuminazione della scala comune.
Tale intervento edilizio, avviato con una d.i.a. del 2004 e seguito da due istanze di sanatoria nel 2012 e nel 2016, a giudizio dei ricorrenti sarebbe privo dei presupposti di legge, in quanto realizzato in assenza di idoneo titolo edilizio oltre che del consenso dei predetti ricorrenti, quali comproprietari delle parti comuni del fabbricato cui afferisce l’ascensore esterno.
Con una diffida datata 22.02.2016, il legale dei ricorrenti ha invitato il Comune ad intervenire per annullare il titolo edilizio, rigettare la richiesta di sanatoria e disporre la riduzione in pristino di quanto realizzato illegittimamente.
Con atto datato 04.10.2016, il Comune di Lecco ha riscontrato tale diffida, evidenziando come “dall’esame della originaria pratica edilizia –Denuncia di inizio attività in data 12/07/2004, prot. n. 29757– non risulta che l’intervento effettuato abbia previsto <<il totale accecamento di una finestra a servizio dell’atrio comune>> essendo invece rappresentata la realizzazione del nuovo vano ascensore sul fronte nord–ovest previo ampliamento delle finestre esistenti su tale facciata”; è stato altresì affermato che “la denuncia -titolo edilizio da ritenersi idoneo per la realizzazione dell’intervento essendo inquadrabile nella fattispecie dell’art. 22, comma 3, lett. a), del D.P.R. 380/2001– risultava corredata dalla dichiarazione di proprietà resa ai sensi dell’art. 47 del D.P.R. 445/2000”; infine, è stata fatta riserva di “valutare i presupposti per procedere all’annullamento in autotutela della SCIA in data 24/02/2016, prot. n. 14670, in conseguenza dell’esito delle verifiche sopra citate e relativamente alla sussistenza o meno del titolo giuridico di disponibilità ex art. 11 del D.P.R. n. 380/2001 da valutarsi anche con riferimento alla necessità o meno di consenso di tutti i proprietari per la realizzazione di interventi volti alla eliminazione di barriere architettoniche a favore di soggetti portatori di minorazioni fisiche”.
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2. Con ricorso per motivi aggiunti notificato in data 23.05.2017 e depositato il 19 giugno successivo, i ricorrenti hanno altresì impugnato la nota prot. n. 15283/16 datata 23.03.2017, trasmessa e ricevuta a mezzo p.e.c. il 28.03.2017, a firma del Direttore d’Area 7 e del Responsabile del procedimento del Comune di Lecco, avente ad oggetto “riscontro a nota in data 22.02.2016 inerente pratica edilizia n. 136/2004 – realizzazione ascensore esterno nel fabbricato sito in Lecco, -OMISSIS-. Atto di significazione, denuncia e diffida ex art. 27 DPR 380/2001”, con la quale “nell’esercizio delle funzioni assegnate dall’art. 27 del DPR 380/2001, inerenti la vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia nel territorio comunale” non è stata ravvisata “la sussistenza di violazioni tali da consentire (ai sensi della vigente normativa) l’adozione di provvedimenti demolitori relativamente alla realizzazione dell’ascensore esterno de quo agitur”.
A sostegno del ricorso sono stati dedotti, in primo luogo, vizi di invalidità derivata rispetto alla nota dirigenziale del 04.10.2016, già impugnata con il ricorso introduttivo.
Successivamente –sulla natura di “volume tecnico” e/o “privo di autonomia funzionale” dell’ascensore esterno realizzato dalle controinteressate e sulla possibilità di soluzioni alternative e meno impattanti/invasive (ad es. montascale interno)– sono stati dedotti la violazione e/o falsa applicazione dei principi normativi ed urbanistico-edilizi generali in tema di “volume tecnico”, in particolare degli artt. 3, 6, comma 1, lett. b, e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 in tema di edilizia libera, della vigente disciplina in tema di abbattimento delle barriere architettoniche e in particolare degli artt. 2, 3, 7 e 8 della legge n. 13 del 1989, dell’art. 24 della legge n. 104 del 1992, degli artt. 11, commi 1-3, e 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e degli artt. 1102, 1120 e 1121 cod. civ.
Inoltre –con riguardo al titolo edilizio necessario per l’intervento de quo e sulla non configurabilità nella fattispecie di un intervento di “manutenzione straordinaria”– sono stati dedotti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3, comma 1, lett. b e d, 10, comma 1, lett. c, e 22, comma 3, lett. a, del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31, comma 1, lett. c, della legge n. 457 del 1978, la violazione dell’art. 11, comma 1, e/o dell’art. 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001 e l’eccesso di potere per difetto dei presupposti, per travisamento del fatto, per difetto di istruttoria e per difetto assoluto di motivazione.
Con riferimento all’impossibilità di assentire l’intervento in mancanza del consenso di tutti i comproprietari del bene immobile interessato (facciata ed atrio condominiale), alla grave limitazione dell’uso delle parti comuni, alla sussistenza dei presupposti fattuali e legali per procedere all’annullamento in autotutela ex art. 19 della legge n. 241 del 1990 e ss.mm.ii. e/o ex art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001 della s.c.i.a. datata 24.02.2016, prot. n. 14670, in conseguenza dell’esito delle verifiche effettuate, alla insussistenza del titolo giuridico di disponibilità ex artt. 11-27 del D.P.R. n. 380 del 2001, alla necessità di consenso di tutti i proprietari per la realizzazione degli interventi edilizi de quibus, anche laddove asseritamente volti alla eliminazione di barriere architettoniche a favore di soggetti portatori di minorazioni fisiche, sono stati eccepiti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 27 del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione dell’art. 11, commi 1 e 3, e dell’art 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1102 cod. civ., la violazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 della legge n. 241 del 1990, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2011, convertito in legge n. 148 del 2011, in tema di s.c.i.a., dell’art. 19, commi 4 e 6-ter, e degli artt. 21 e 21-nonies della legge n. 241 del 1990, della legge n. 13 del 1989 e del D.M. n. 236 del 1989, l’eccesso di potere per difetto assoluto di istruttoria, il difetto e/o perplessità della motivazione, il travisamento dei fatti e degli atti del procedimento, il difetto e/o erroneo apprezzamento dei presupposti legittimanti, illogicità e contraddittorietà manifesta.
Quanto alla s.c.i.a. in sanatoria del 24.02.2016, prot. 14670, e alla richiesta di permesso di costruire in sanatoria del 12.11.2012, prot. n. 50781, e alla natura “essenziale” delle variazioni poste in essere dalle controinteressate e all’impossibilità di assentire la sanatoria in assenza del consenso di tutti i proprietari del bene oggetto di intervento, sono stati eccepiti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, e dell’art. 37, commi 3 e 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 54, comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, l’eccesso di potere per travisamento del fatto, per difetto di istruttoria, per difetto dei presupposti, per difetto di motivazione e per contraddittorietà intrinseca ed estrinseca.
Anche con riguardo al ricorso per motivi aggiunti è stato chiesto il risarcimento del danno.
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3. Passando all’esame del merito del ricorso per motivi aggiunti, lo stesso è fondato secondo quanto di seguito specificato.
4. Vanno scrutinate preventivamente la seconda e la terza censura del ricorso per motivi aggiunti, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, attraverso le quali si contesta la qualificazione dell’intervento di costruzione dell’ascensore esterno quale attività di manutenzione straordinaria, essendo invece richiesto per la realizzazione di tale attività edilizia il previo rilascio di un permesso di costruire, che presupporrebbe il consenso dell’intero condominio, nella fattispecie mai acquisito, oltre alla dimostrazione della sussistenza di una condizione di disabilità, mai comprovata da parte delle controinteressate.
4.1. Le doglianze sono fondate nei sensi di seguito specificati.
Va premesso che, secondo il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore all’esterno di un condominio non richiede il permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un volume tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr. TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016, n. 97).
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali (art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che “1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503, nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati, sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in seconda convocazione, con le maggioranze previste dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap, ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al titolo IX del libro primo del codice civile, possono installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo comma, e 1121, terzo comma, del codice civile
”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012 (cfr. di recente in giurisprudenza, Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129).
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere architettoniche negli edifici privati è necessario il voto favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto dimostrato che le controinteressate siano comproprietarie della metà dell’immobile su cui è stato realizzato l’ascensore e soprattutto non emerge con certezza e in maniera inconfutabile la sussistenza dei presupposti soggettivi in capo ad almeno una di esse per l’applicazione della normativa volta al superamento delle barriere architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio (all. 3 del Comune), oltre a non essere stato rilasciato da una struttura sanitaria accreditata per il formale riconoscimento della condizione di disabilità, non risulta nemmeno ricompreso nella documentazione prodotta in occasione della presentazione della d.i.a. in data 12.07.2004 (cfr. all. 3 delle controinteressate).
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione alla normativa che regola l’attività amministrativa in materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001, il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può prescindere da una verifica minima e di immediata realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV, 06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017, n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016 (cfr. TAR Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479).
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa alla eliminazione delle barriere architettoniche (cfr. Cass. civ., VI, 09.03.2017, n. 6129) avrebbe richiesto agli Uffici comunali un supplemento di istruttoria, considerata altresì la sollecitazione formulata dai condomini asseritamente danneggiati dalla realizzazione dell’ascensore.
4.2. Pertanto, la scrutinate doglianze vanno accolte, con la conseguente declaratoria di illegittimità del provvedimento comunale del 23.03.2017, non avendo il Comune provveduto correttamente in ordine alla richiesta dei ricorrenti di disporre la demolizione dell’ascensore esterno realizzato senza titolo dalle controinteressate.
4.3. Alla fondatezza delle predette censure, previo assorbimento delle restanti doglianze, segue l’accoglimento del ricorso per motivi aggiunti e il conseguente annullamento del provvedimento comunale del 23.03.2017.
5. Le domande risarcitorie formulate sia con riguardo al ricorso introduttivo che al ricorso per motivi aggiunti sono da respingere, in ragione della mancata dimostrazione dei loro elementi costitutivi.
6. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve essere accolto, con il conseguente annullamento della nota comunale del 23.03.2017; le domande di risarcimento del danno devono essere respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 13.09.2018 n. 2065 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio del fabbricato adibito ad attività turistica.
L’estraneità dell’ascensore al concetto di nuova costruzione, anche ai fini dell’osservanza della normativa sulle distanze, è stata affermata, a più riprese dalla giurisprudenza, anche civile, secondo cui l'ascensore -al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche etc. dell'edificio principale- rientra fra “i volumi tecnici o impianti tecnologici” strumentali alle esigenze tecnico funzionali dell'immobile.
Ed infatti la nozione di "volume tecnico”, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere - e sempre in difetto dell'alternativa - quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale.
L’inquadramento del vano ascensore quale volume tecnico esclude pertanto la necessità di un suo assoggettamento al previo rilascio di permesso di costruire.
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Quanto al rispetto della normativa sulle distanze in un caso analogo al presente il Consiglio di Stato, nel riformare un precedente di segno contrario di questo Tar Abruzzo-Pescara, ha chiarito che: “nell'interpretazione dell'eccezione alla regola del rispetto delle distanze posta dall'ultima parte del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi dal tener conto dell'inserimento della norma -come già rilevato- all'interno della disciplina volta all'eliminazione delle barriere architettoniche nell'interesse dei soggetti portatori di handicap. Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto bilanciamento di interessi, quanto soprattutto nell'accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore, quali quella di "spazio o area di proprietà o di uso comune", le quali non possono essere recepite in un'ottica strettamente civilistica, ma vanno calate nell'ambito della normativa tecnica esistente in subiecta materia”.
Sotto tale profilo è stato ritenuto illegittimo il diniego di rilascio del permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ., applicandosi in ogni caso la deroga di cui all'ultima parte del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.
Né, sotto altro profilo, può assumere valenza ostativa il disposto di cui al comma 2 dell’art. 3 della legge n. 13 cit. che fa salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 cc. e 907 c.c. che riguarda la sola ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune.
Di qui si è desunto che, in assenza di spazi o aree di proprietà comune, il comma 2 art. 3 cit. è da interpretarsi nel senso che la distanza minima da mantenersi è di tre metri in quanto il richiamo all’art. 873 deve intendersi riferito solo alla sua prima parte con esclusione delle previsioni dei regolamenti locali.
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... per l'annullamento:
   - del provvedimento prot. n. 9138 del 05.07.2016 del Responsabile del 3° Settore-Urbanistica ed Edilizia del Comune di Fossacesia di diniego di rilascio del parere urbanistico richiesto dalla società ricorrente per la realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio di un fabbricato adibito a ricettività turistica;
   - della nota prot. n. 9995 del 21.07.2016 con cui lo stesso responsabile di Settore comunica alla società che i lavori inerenti la realizzazione della suddetta piattaforma debbano ritenersi eseguiti in assenza del titolo abilitativo e quindi abusivi.
...
1. Con ricorso iscritto al n. 298/2016 la società ricorrente, quale comodataria di un immobile sito in Fossacesia località Lungomare, oggetto di ristrutturazione assentita con permesso di costruire prot. 28 del 12.06.2013, e successive varianti, nonché con il parere favorevole della Sovrintendenza prot. n. 1091 del 23.01.2013, avendo inoltrato presso il S.u.a.p. del patto territoriale sangroaventino una s.c.i.a. n. 82736 in data 11.05.2016 per la realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio del fabbricato adibito ad attività turistica, impugnava, chiedendone l’annullamento, la nota prot. n. 9138 del 05.07.2016 con cui si comunicava l’avvio delle procedure di repressione di cui all’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 per opere realizzate in assenza di titolo abilitativo e la successiva del 21.07.2016 con cui si acclarava la natura abusiva dell’intervento.
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3.1 Il parere negativo impugnato è motivato sul presupposto che il vano ascensore esterno all’edificio di pertinenza andrebbe qualificato quale “nuova costruzione”, pertanto resterebbe assoggettabile alla normativa sulle distanze dalle costruzione e non sarebbe assentibile non rispettando la distanza minima di 5 metri dal confine di proprietà, nonché poiché privo del prescritto parere paesaggistico.
Rispetto all’inquadramento dell’intervento quale “nuova costruzione”, parte ricorrente, in presenza di un edificio di più piani oggetto di ristrutturazione, all’interno del quale, incontestatamente, non è possibile installare un ascensore, ha invocato la normativa di cui alla legge n. 13/1989 posta a presidio dell’abbattimento delle barriere architettoniche, che è stata posta a base dell’istanza inoltrata al S.u.a.p..
L’assunto merita di essere condiviso.
In subiecta materia, l’estraneità dell’ascensore al concetto di nuova costruzione, anche ai fini dell’osservanza della normativa sulle distanze, è stata affermata, a più riprese dalla giurisprudenza, anche civile, secondo cui l'ascensore -al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche etc. dell'edificio principale- rientra fra “i volumi tecnici o impianti tecnologici” strumentali alle esigenze tecnico funzionali dell'immobile (cfr. Cass. civ., sez. II, 03.02.2011, nr. 2566).
Ed infatti la nozione di "volume tecnico”, non computabile nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata solo a contenere, senza possibilità di alternative e comunque per una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una costruzione principale per essenziali esigenze tecnico funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati all'interno di questa, come possono essere - e sempre in difetto dell'alternativa - quelli connessi alla condotta idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generare aumento alcuno di carico territoriale (cfr. sulla nozione di “volume tecnicoex plurimis C.d.S. sez. VI 31.03.2014 n. 1512; id. 8.05.2014 n. 2363; id. 21.01.2015 n. 175).
L’inquadramento del vano ascensore quale volume tecnico esclude pertanto la necessità di un suo assoggettamento al previo rilascio di permesso di costruire.
3.2 Quanto al rispetto della normativa sulle distanze in un caso analogo al presente, nella pronuncia n. 6253 del 15.12.2012 il Consiglio di Stato, nel riformare un precedente di segno contrario di questo Tar Abruzzo-Pescara n. 87/2012, ha chiarito che: “nell'interpretazione dell'eccezione alla regola del rispetto delle distanze posta dall'ultima parte del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può prescindersi dal tener conto dell'inserimento della norma -come già rilevato- all'interno della disciplina volta all'eliminazione delle barriere architettoniche nell'interesse dei soggetti portatori di handicap. Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto bilanciamento di interessi, quanto soprattutto nell'accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche impiegate dal legislatore, quali quella di "spazio o area di proprietà o di uso comune", le quali non possono essere recepite in un'ottica strettamente civilistica, ma vanno calate nell'ambito della normativa tecnica esistente in subiecta materia”.
Sotto tale profilo è stato ritenuto illegittimo il diniego di rilascio del permesso di costruire per il mancato rispetto delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ., applicandosi in ogni caso la deroga di cui all'ultima parte del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (cfr. in termini vd. anche Tar Liguria 20.01.2016 n. 97).
Né, sotto altro profilo, può assumere valenza ostativa il disposto di cui al comma 2 dell’art. 3 della legge n. 13 cit. che fa salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di cui agli articoli 873 cc. e 907 c.c. che riguarda la sola ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di proprietà o di uso comune. Di qui si è desunto che, in assenza di spazi o aree di proprietà comune, il comma 2 art. 3 cit. è da interpretarsi nel senso che la distanza minima da mantenersi è di tre metri in quanto il richiamo all’art. 873 deve intendersi riferito solo alla sua prima parte con esclusione delle previsioni dei regolamenti locali (Trib. Genova 13.11.1997).
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In conclusione, per quanto sopra esposto il ricorso merita accoglimento con conseguente annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 09.04.2018 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATAPiscine gonfiabili senza licenza.
Non servono licenze edilizie per posizionare una tipica piscina circolare gonfiabile da bambini in un'area privata. Anche se si tratta di un'area destinata a parcheggio purché il manufatto sia sempre una struttura precaria facilmente rimovibile a fine stagione.

Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 03.09.2018 n. 39406.
Il proprietario di un'area adibita a parcheggio è stato sanzionato dalla polizia municipale per aver installato una piscina gonfiabile senza autorizzazione. E pure condannato penalmente per abuso edilizio.
Contro questa misura punitiva l'interessato ha proposto con successo ricorso alla Corte di cassazione.
L'installazione di una piscina gonfiabile da bambini in uno spazio privato non arreca alcun mutamento di destinazione d'uso dell'area, specifica il collegio. Perché si tratta di un'opera precaria, facilmente amovibile al termine del suo impiego (articolo ItaliaOggi del 22.09.2018).
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MASSIMA
4. I ricorsi sono fondati per le ragioni qui esposte.
La sentenza impugnata fonda la responsabilità penale degli imputati su un travisamento della prova e su un'errata interpretazione delle norme giuridiche di cui il giudice deve tenere conto nell'applicazione della legge penale, e segnatamente dell'art. 23-ter del d.P.R. n. 380 del 2001.
Osserva il Collegio, in primo luogo, che la sentenza mostra di cadere in un errore giuridico laddove ritiene sussistente la contravvenzione con riguardo al deposito di "materiale edile vario" dal momento che la medesima sentenza dà atto che era stato rivenuto "sull'area limitrofa" all'area destinata a parcheggio che, secondo l'accusa, sarebbe stata oggetto di mutamento di destinazione d'uso, mediante opere, sicché alcun rilievo penale assume il deposito di "altro materiale di varia natura" non ricadente nell'area dove sarebbe intervenuto il mutamento di destinazione d'uso.
Non di meno, la sentenza fonda la responsabilità degli imputati in relazione alle violazioni delle NTA, del permesso a costruire, per la modifica della destinazione d'uso a parcheggio con opere, realizzate, mediante posizionamento di una piscina gonfiabile, sulla scorta di un travisamento della prova. Dagli atti, a cui questa Corte ha accesso essendo denunciato il suddetto vizio, risulta che una piscina gonfiabile di piccole dimensioni del tipo di quelle in commercio per bambini, priva di aggancio al suolo e opere per il suo utilizzo (scaletta per accedervi) era posizionata sul giardino (dalle fotografie si apprezza anche la facile amovibilità, una volta sgonfiata).
Costituisce ius receputm di questa Corte il principio secondo cui in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d'uso (ora disciplinato dall'art. 23-ter del d.P.R. n. 380 del 2001 (mutamento d'uso urbanisticamente rilevante), senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria omogenea (Sez. 3, n. 26455 del 05/04/2016, P.M. in proc. Stellato, Rv. 267106; Sez. 3, n. 12904 del 03/12/2015, Postiglione, Rv 266483; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi, Rv. 260422; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013; Tortora, Rv. 258686).
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la connotazione dell'immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
In tale ambito solo gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d'uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi. Da cui l'ovvia conseguenza che le modifiche non consentite della singola destinazione, incidendo sull'assetto del territorio comunale come pianificato, incidono negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione ottimale del territorio.
In tale contesto, il mutamento di destinazione d'uso con opere deve, pur sempre, avere connotati modificativi tendenzialmente stabili e non può ritenersi in presenza di opere precarie perché destinate ad un uso temporaneo e facilmente amovibili al termine di utilizzo, situazione riscontrabile, nel caso in esame, in considerazione delle dimensioni della piscina gonfiabile appoggiata sul suolo e destinata per la sua stessa tipologia costruttiva ad essere sgonfiata al termine della stagione estiva e del suo temporaneo utilizzo.

La sentenza, in accoglimento dei primi tre motivi di ricorso, va annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste, resta assorbito il quarto motivo di ricorso
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IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Per le strutture di media vendita non collocate nel centro storico, la dotazione di aree destinate a parcheggio è stabilita dalla normativa regionale nella misura 2 mq. per ogni mq. di spazio destinato alla vendita di prodotti relativi al settore alimentare e di 1,5 mq. per ogni mq. di superficie di vendita di prodotti non alimentari.
In base all’art. 4 d.lgs. 31.03.1998, n. 114, per "superficie di vendita" si intende "l'area destinata alla vendita, compresa quella occupata dai banchi, scaffalature e simili", mentre non costituisce superficie di vendita, per espressa disposizione contenuta in tale norma, esclusivamente l'area "destinata a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi".
La giurisprudenza ha già chiarito che per superficie di vendita di un esercizio commerciale si deve intendere quella su cui sostano e si spostano, oltre al personale addetto al servizio, i consumatori per esaminare gli oggetti posti in vendita collocati negli appositi spazi e per concludere le operazioni di vendita, sicché "la zona di esposizione dei prodotti commercializzati dall'esercizio va inclusa nella superficie di vendita".
L’area che si trova oltre le casse di una struttura di vendita, quindi, non va considerata quale “superficie di vendita”, in quanto non destinata alle operazioni di acquisto da parte della clientela, sicché non va computata ai fini della verifica del rispetto del rapporto tra gli spazi di vendita e i parcheggi disponibili.
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Benché nell’art. 1 del piano commerciale comunale sia prevista una sua validità quadriennale, ciò non significa che il piano commerciale scaduto per decorso del quadriennio dalla sua approvazione abbia perso efficacia; piuttosto, le sue norme continuano a produrre i propri effetti fino a quando non siano sostituite da quelle di un nuovo piano, atteso che l'ultrattività delle norme del piano commerciale è un effetto coessenziale alla natura stessa del detto strumento programmatorio e di pianificazione, giacché nessuna norma di legge stabilisce la sua decadenza alla scadenza del termine di validità.
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6. – Con il primo dei motivi aggiunti si assume la violazione dell’art. 9 l.r. 11.06.1999, n. 17, in quanto non sarebbe rispettato il rapporto tra superficie destinata alla vendita e parcheggi disponibili stabilito con tale norma.
In proposito, va rilevato che per le strutture di media vendita non collocate nel centro storico, la dotazione di aree destinate a parcheggio è stabilita dalla normativa regionale nella misura 2 mq. per ogni mq. di spazio destinato alla vendita di prodotti relativi al settore alimentare e di 1,5 mq. per ogni mq. di superficie di vendita di prodotti non alimentari.
In base all’art. 4 d.lgs. 31.03.1998, n. 114, per "superficie di vendita" si intende "l'area destinata alla vendita, compresa quella occupata dai banchi, scaffalature e simili", mentre non costituisce superficie di vendita, per espressa disposizione contenuta in tale norma, esclusivamente l'area "destinata a magazzini, depositi, locali di lavorazione, uffici e servizi".
La giurisprudenza ha già chiarito che per superficie di vendita di un esercizio commerciale si deve intendere quella su cui sostano e si spostano, oltre al personale addetto al servizio, i consumatori per esaminare gli oggetti posti in vendita collocati negli appositi spazi e per concludere le operazioni di vendita, sicché "la zona di esposizione dei prodotti commercializzati dall'esercizio va inclusa nella superficie di vendita" (cfr. TAR Veneto, sez. III, 02.11.2004, n. 3825; TAR Abruzzo–Pescara, 09.04.2008, n. 387).
L’area che si trova oltre le casse di una struttura di vendita, quindi, non va considerata quale “superficie di vendita”, in quanto non destinata alle operazioni di acquisto da parte della clientela, sicché non va computata ai fini della verifica del rispetto del rapporto tra gli spazi di vendita e i parcheggi disponibili.
Ebbene, questo Tribunale Amministrativo Regionale ha svolto attività istruttoria, chiedendo gli opportuni chiarimenti al Comune intimato.
All’esito delle misurazioni svolte, non contestate da alcuna delle parti in giudizio, è emerso che la superficie di vendita, esclusa l’area posta oltre le casse, à di 295,35 mq., mentre l’area effettivamente adibita a parcheggi, indipendentemente dalle risultanze catastali, è di 618,49 mq., con esclusione dello spazio necessario per consentire l’accesso ai fabbricati residenziali collocati nei pressi della struttura di vendita.
Il rapporto tra aree di parcheggio e superficie di vendita è dunque superiore a quello previsto dalla normativa regionale.
Il motivo risulta pertanto infondato.
7. – Con il secondo motivo di ricorso si deduce che la media struttura di vendita sia stata autorizzata in difetto di un valido piano commerciale approvato dal Comune di Piane Crati.
Ciò avrebbe comportato la violazione degli artt. 6 e 8 d.lgs. n. 114 del 1998, degli artt. 22, comma 1, lett. a), e 11, comma 1, lett. a), l.r. n . 17 del 1999, nonché di numerose circolari.
Ora, a prescindere dalle complesse problematiche connesse alla c.d. liberalizzazione delle attività commerciali e agli effetti che le novità normativa hanno avuto sulla programmazione demandata ai Comuni, problematiche su cui pure si sono diffuse le parti, ciò che emerge documentalmente è che il Comune di Piane Crati è dotato di un piano commerciale, adottato con deliberazione del Commissario ad acta del 16.09.2003, n. 16.
Benché nell’art. 1 di tale piano sia prevista una sua validità quadriennale, ciò non significa che il piano commerciale scaduto per decorso del quadriennio dalla sua approvazione abbia perso efficacia; piuttosto, le sue norme continuano a produrre i propri effetti fino a quando non siano sostituite da quelle di un nuovo piano, atteso che l'ultrattività delle norme del piano commerciale è un effetto coessenziale alla natura stessa del detto strumento programmatorio e di pianificazione, giacché nessuna norma di legge stabilisce la sua decadenza alla scadenza del termine di validità (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 20.07.2016, n. 3282).
Tale piano commerciale prevede espressamente la presenza di una media struttura di vendita collocata esattamente dove la F.lli Le. S.r.l. svolge la propria attività, in quanto –si tratta di un dato di fatto che non è stato oggetto di contestazione in giudizio– anche in passato vi era collocato un supermercato.
In ragione di tali dati, il motivo di ricorso risulta, pertanto, infondato.
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9. – La correttezza dell’operato dell’amministrazione, risultante dal superamento di tutte le censure mosse dalla parte ricorrente, escluda che ad essa sia stato inferto un danno ingiusto, onde la domanda di risarcimento del danno deve trovare rigetto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 31.08.2018 n. 1559 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

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EDILIZIA PRIVATA: In presenza di una s.c.i.a. ai sensi dell’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990, fondata su presupposti chiaramente non afferenti la materia edilizia, l’amministrazione non ha alcun obbligo di provvedere e, conseguentemente, il silenzio dalla stessa serbato non è qualificabile come illegittimo inadempimento.
Sull'interpretazione dell’espressione “fatti salvi eventuali diritti dei terzi”, o simili, che normalmente compare nei provvedimenti autorizzatori in materia edilizia.

Il giudizio sul silenzio, attivato in primo grado dagli attuali appellanti, attiene a quanto previsto, in tema di Scia, dall’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990 n. 241, il quale, nel precisare che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”, afferma altresì che "gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1 e 2” del Cpa.
Come è noto, l’art. 31 Cpa prevede che “decorsi i termini per a conclusione del procedimento amministrativo, e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere”.
Come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire, il giudizio sul cd. silenzio-inadempimento della pubblica amministrazione presuppone, innanzi tutto, che si verta in tema di tutela di interessi legittimi, non potendo il giudizio afferire, sia pure mediatamente, alla tutela di posizioni di diritto soggettivo, in tal modo aggirandosi i limiti di giurisdizione del giudice amministrativo.
La sussistenza delle condizioni dell’azione in capo al soggetto che instaura il giudizio in oggetto deve, dunque, essere verificata in relazione alla titolarità di una posizione di interesse legittimo (pretensivo), tale da avergli consentito l’attivazione di un procedimento amministrativo non conclusosi nel termine previsto mediante l’adozione di alcun provvedimento espresso (ovvero non essendo prevista l’ipotesi di cd. silenzio assenso ex art. 20 l. n. 241/1990).
Più specificamente, nel caso previsto dall’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990 -non avendo il legislatore inteso introdurre una speciale forma di giudizio sul silenzio inadempimento riferito alla tutela di diritti soggettivi- ciò che fonda la sussistenza delle condizioni dell’azione è la titolarità di una posizione giuridica che legittimi l’istante a chiedere all’amministrazione la verifica delle condizioni che consentono di edificare in base a Scia, in relazione al pregiudizio che egli può ricevere da detta attività.
Tale posizione giuridica -sulla quale si fonda la facoltà di richiedere all’amministrazione gli accertamenti previsti- è di interesse legittimo (pena, come si è detto, lo “sconfinamento” nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario), il che comporta che ogni accertamento richiesto deve concernere aspetti inerenti all’interesse pubblico (violato) in materia di edilizia e urbanistica, non già la (eventuale) violazione di norme afferenti alla tutela del diritto dominicale o simili (se non in quanto la violazione di norme “civilistiche” e/o afferenti alla regolamentazione di rapporti tra privati non rilevi innanzi tutto dal punto di visto della tutela dell’interesse pubblico, risolvendosi, ma solo indirettamente, anche in una tutela obiettiva di diritti soggettivi).
Inoltre, l’accertamento della illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione presuppone, come tradizionalmente chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, la sussistenza di un obbligo di provvedere violato o eluso dall’amministrazione medesima.
Nel caso dell’attivazione del sindacato giurisdizionale sul silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di verifica proposta ai sensi dell’art. 19, co. 6-ter cit., l’obbligo di verifica dell’amministrazione concerne i soli aspetti di illegittimità segnalati dall’istante, e nei limiti in cui detti aspetti riguardino una violazione di norme che, poste a tutela dell’interesse pubblico in materia edilizia e urbanistica, comportino (anche) una lesione di posizioni di interesse legittimo.
Inoltre, tale obbligo di verifica –così come generalmente affermato dalla giurisprudenza amministrativa in ordine ai presupposti per la sussistenza dell’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione– non può ritenersi violato le volte in cui l’istanza proposta sia manifestamente infondata o costituisca defatigatoria riproposizione di precedente istanza già in precedenza respinta.
Diversamente opinando (e cioè scollegando la tutela offerta dalla verifica dell’interesse dell’istante e, successivamente, delle condizioni dell’azione in capo al medesimo nella veste di ricorrente), l’istanza di verifica di cui all’art. 19, co. 6-ter, lungi dall’essere lo strumento (unico) di tutela offerto al privato avverso la Scia innanzi al giudice amministrativo, finirebbe con il risolversi in una “denuncia” non meglio qualificata avverso presunti “abusi edilizi” da accertare.
D’altra parte, così come non sussiste un obbligo di provvedere coercibile in capo all’amministrazione riferito alla generica istanza di attivazione dei propri discrezionali poteri di autotutela, e dunque non sussiste in questi casi il conseguente silenzio inadempimento, allo stesso modo non può sussistere un obbligo di verifica “generale” dell’attività edilizia intrapresa in base a Scia da parte dell’amministrazione sulla base dell’istanza ex art. 19, co. 6-ter.
Tale obbligo sussiste solo per quegli aspetti che, collegandosi alla tutela procedimentale di posizioni soggettive di interesse legittimo, distinguono l’istante –in tal modo “qualificandolo”- dalla posizione di mero denunciante.
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Ovviamente, nulla vieta all’amministrazione di verificare, con riferimento ai presupposti e limiti previsti dall’ordinamento, la regolarità di quanto sia in corso di realizzazione in base a Scia, ma ciò a tutta evidenza prescinde da quanto previsto dall’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990 e dal rapporto che si instaura sulla base di detta norma tra pubblica amministrazione e privato istante.
Allo stesso tempo, laddove l’attività edilizia realizzata o in corso di realizzazione in base a Scia violi norme regolatrici dei rapporti tra privati, quale che ne sia la fonte (pubblicistica, contrattuale, etc.), il privato che si ritenga leso ben potrà esercitare il proprio diritto alla tutela giurisdizionale innanzi al giudice ordinario, nei limiti previsti dall’ordinamento.
Sicché, appare evidente come non sussiste alcun obbligo di provvedere dell’amministrazione in ordine ad una istanza volta a sollecitarne l’esercizio dei poteri di autotutela della medesima su una propria precedente certificazione. Ciò in quanto:
- per un verso, non è configurabile il potere di autotutela decisionale in ordine agli atti che costituiscono l’oggetto di precedente esercizio di potere certificativo (presupponendo il potere di autotutela il previo esercizio di un potere costitutivo dell’amministrazione);
- per altro verso, ove anche –per mera ipotesi argomentativa- fosse configurabile l’esercizio del potere di autotutela, in ordine all’istanza che ne sollecita l’esercizio, non sussiste –come si è detto- obbligo di provvedere;
- per altro verso ancora, non sussiste, nel caso di specie, alcun titolo od interesse del privato a che l’amministrazione intervenga in rettifica di attestazione di fatti obiettivamente verificatisi e riscontrati.
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Si sono già innanzi esposti i limiti entro i quali l’accertamento delle norme civilistiche poste a tutela dei diritti soggettivi (e, più specificamente, dominicali) del privato possa rilevare ai fini dell’esercizio dei poteri della pubblica amministrazione.
Giova ulteriormente distinguere (anche con riferimento alle norme afferenti ai diritti reali sul bene oggetto di intervento) tra verifica della sussistenza della legittimazione a richiedere il titolo edilizio e
verifica del rispetto della normativa civilistica lato sensu inerente al bene oggetto della richiesta e a quanto si intende realizzare sullo stesso.
Quanto al primo aspetto, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di osservare, che il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo (così come previsto dall’art. 11, co. 1, DPR n. 380/2001), e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario.
Si è precisato, inoltre, che, “il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria”.
Quanto ora esposto (ed il concetto di “sufficienza” riferito al titolo, elaborato dalla giurisprudenza) comporta, in generale, che è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio; ma non comporta anche che l’amministrazione debba comprovare prima del rilascio (ciò mediante oneri di ulteriore allegazione posti al richiedente o attraverso propri approfondimenti istruttori), la “pienezza” (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo.
Ed infatti, ciò comporterebbe, in sostanza, l’attribuzione all’amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto” non ad essa attribuito dall’ordinamento.
Quanto al secondo aspetto, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che, in sede di esame dell’istanza volta al rilascio di un titolo edilizio, l’amministrazione non deve verificare ogni aspetto civilistico che potrebbe venire in rilievo, ma deve vagliare esclusivamente i profili urbanistici ed edilizi connessi al titolo richiesto.
Si è, in particolare, ricordato che il permesso di costruire non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio, né tanto meno pregiudica la titolarità o l'esercizio di diritti relativi ad immobili diversi da quelli oggetto d'intervento.
Con particolare riguardo all’istanza di titolo ad edificare sulla cosa comune si è affermato: “ogni questione in ordine agli eventuali limiti dell’esercizio in concreto del diritto del comproprietario (ivi compreso quanto inerisce all’uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c.) esula dalle valutazioni dell’amministrazione, nei casi in cui l’immobile considerato non sia oggetto “diretto” del titolo edificatorio, nel senso che attraverso quest’ultimo si realizza una trasformazione dell’immobile, sia attraverso la realizzazione di una volumetria su di esso insistente, sia attraverso la realizzazione di altre opere che ne trasformino in modo decisivo caratteristiche e destinazioni del bene ovvero che incidano su pattuizioni tra i comproprietari in ordine all’uso del medesimo ... Ovviamente, in ordine a tali aspetti, resta ferma la tutela dei diritti reali assicurata dal giudice ordinario, ma ciò ... non può condizionare l’esercizio del potere autorizzatorio in materia edilizia della Pubblica Amministrazione, al punto da rendere illegittimo il permesso di costruire rilasciato”.
E’ alla luce delle considerazioni innanzi esposte che deve essere interpretata l’espressione “fatti salvi eventuali diritti dei terzi”, o simili, che normalmente compare nei provvedimenti autorizzatori in materia edilizia.
Con tale espressione si intende circoscrivere l’ambito di efficacia del provvedimento autorizzatorio in materia edilizia. Si intende cioè ribadire che il provvedimento amministrativo, rilasciato ad un soggetto che è titolare di una situazione qualificata di giuridica relazione con il bene oggetto di intervento, autorizza un intervento di trasformazione del territorio che è compatibile con l’assetto edilizio ed urbanistico previsto per il medesimo ed è, dunque, in tale ordine e limiti, legittimo.
Tale provvedimento inerisce, quanto all’oggetto della istanza presentata, al rapporto pubblicistico tra soggetto richiedente e pubblica amministrazione in esercizio del potere autorizzatorio edilizio. Al tempo stesso, tale provvedimento non incide (perché “non può” incidere) sui distinti rapporti giuridici tra privati, che restano dallo stesso del tutto impregiudicati.
Il che comporta che quanto autorizzato, se non costituisce illecito dal punto di vista amministrativo (proprio per le stesse ragioni per cui risulta autorizzabile), ben può costituire illecito civile, in quanto incidente su una sfera di rapporti cui la Pubblica Amministrazione è (e deve rimanere) estranea.
Ne consegue che eventuali limitazioni alle facoltà e poteri del proprietario (o del comproprietario), sia riferite alla “piena” titolarità del suo diritto, sia al concreto esercizio dello jus aedificandi in relazione a diritti di terzi, per un verso esulano dal piano della “legittimità” del provvedimento amministrativo, per altro verso restano da questo impregiudicate e quindi soggetti terzi che intendono tutelarsi ben potranno farlo, a prescindere dall’atto amministrativo, innanzi al giudice ordinario.
In definitiva, se il provvedimento autorizzatorio edilizio, quanto al suo ambito di efficacia, è estraneo ai rapporti interprivati, (non potendoli condizionare, limitare o comunque su di essi incidere), è del tutto evidente che una violazione delle norme regolatrici di tali rapporti non può rilevare come vizio di legittimità dell’atto.
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Quanto ora affermato con riferimento al provvedimento autorizzatorio edilizio che l’amministrazione è chiamata a (eventualmente) rilasciare su istanza del privato, a maggior ragione deve essere ribadito nel caso di attività edilizia che si intende realizzare in base a Scia.
In questo caso, l’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990 ha tenuto ad escludere che la Scia costituisca provvedimento amministrativo, anche tacito. Il che comporta che l’attività edilizia che il privato intende realizzare si svolge su un piano dove non è previsto l’esercizio di poteri amministrativi e, dunque, a maggior ragione, è estranea alla Pubblica Amministrazione ogni verifica della sussistenza delle condizioni che legittimano ad essere destinatari di un titolo edilizio.
Si intende affermare che, in conseguenza della ricostruzione dell’istituto offerta dall’art. 19 l. n. 241/1990, ogni questione relativa alla titolarità del bene oggetto di intervento attiene direttamente ai rapporti tra privati, non essendo configurabile, per le ragioni esposte, alcun coinvolgimento (neanche “mediato”, cioè nei limiti di verifica dei presupposti ad essere destinatario di un provvedimento amministrativo) della Pubblica Amministrazione.
Ne consegue che ciò che il privato può richiedere, per il tramite dell’istanza di cui all’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990, e nei limiti del suo interesse ad agire, è solo la verifica obiettiva della compatibilità di quanto si intende realizzare con la disciplina urbanistica ed edilizia applicabile al caso di specie.
Ma il privato non può certo richiedere all’amministrazione di verificare –in capo al soggetto che agisce sulla base di una Scia- la sussistenza delle condizioni perché questi possa essere destinatario di un titolo edilizio ex art. 11 DPR n. 380/2001, proprio perché il medesimo articolo esclude che la Scia possa essere ricondotta ad un provvedimento amministrativo.
Nel caso di specie la verifica richiesta all’amministrazione (e, dunque, l’emanazione da parte della medesima di un provvedimento di sospensione degli effetti della Scia), concerneva, in primo luogo, la necessità di verificare la sussistenza dell’assenso dei comproprietari.
Ma tale verifica, per le ragioni innanzi esposte, non può essere richiesta alla Pubblica Amministrazione, a maggior ragione nel caso di una attività edilizia intrapresa sulla base di una Scia:
   - sia in quanto essa afferisce alla natura dei rapporti tra comproprietari (ed ai limiti di uso della cosa comune) e coinvolge quindi diritti soggettivi, come tali esulanti l’ambito del giudizio sull’illegittimità del silenzio;
   - sia in quanto la tematica della legittimazione ad essere destinatari di un titolo edilizio ex art. 11 DPR n. 380/2001 è estranea alla Scia ed ai poteri di verifica su di essa della Pubblica Amministrazione.
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2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata, con le precisazioni di seguito esposte.
2.1. Al fine di meglio chiarire il thema decidendum appare opportuno precisare, in punto di fatto, che il presente giudizio trae origine dalla diffida presentata da Pa.Ro., Ci.Al. e Pa.Id. al Comune di Nocera Superiore in data 23.02.2016, con la quale gli stessi diffidavano il Funzionario responsabile dell’area urbanistica del suddetto Comune “all’assunzione dell’immediato provvedimento di sospensione del titolo abilitativo per silenzio rilasciato, in uno alla revoca dell’attestato prot. n. 29491 del 03.12.2015, essendo stato reso su inesistenti presupposti”.
I signori Pa.Ro., Ci.Al. e Pa.Id. fondavano la propria diffida (in particolare alla emanazione di provvedimento di sospensione) su due argomentazioni:
   - la prima, consistente nell’affermare che “l’amministrazione comunale avrebbe dovuto subordinare il rilascio dell’assenso edilizio a specifica autorizzazione di assenso dei comproprietari”;
   - la seconda, consistente nel rilievo che “la richiesta di assenso edilizio non è stata corredata dalla indicazione delle autorizzazioni ottenute e contemplate dalla normativa di settore, così come previsto dal DPR 542/1994; in particolare non sono stati esplicitati appropriatamente natura e caratteristiche dell’impianto di RM da attivare e dunque della tipologia di assenso preventivo di cui si doveva già essere in possesso per la localizzazione dell’impattante impianto di sfiato”.
Per maggior chiarezza, giova precisare:
   - che l’attività edilizia contestata con la diffida era oggetto non già di un provvedimento amministrativo implicito (o per silentium), bensì di una Scia del 19.12.2014 n. 27051, integrata con comunicazione 29.09.2015 n. 22728 e con trasmissione di documentazione integrativa in data 19.10.2015 n. 24599;
   - che l’attestato oggetto della richiesta di revoca certificava la presentazione della Scia e delle integrazioni alla medesima innanzi indicate, nonché l’assenza di provvedimenti sospensivi dell’efficacia della Scia dalla sua presentazione e fino alla data di emissione dell’attestato.
Stante il silenzio serbato dall’amministrazione sulla diffida 23.02.2016, i signori Pa.Ro., Ci.Al. e Pa.Id. (firmatari della diffida), nonché Pa.Fe. e Ba.Ro., proponevano ricorso giurisdizionale per la declaratoria di illegittimità del silenzio, deciso poi dalla sentenza impugnata nella presente sede.
Oggetto, dunque, del presente giudizio, per il tramite della sentenza impugnata, è il silenzio serbato dall’amministrazione su quanto richiesto con diffida del 23.02.2016, vale a dire l’adozione di un provvedimento di sospensione “del titolo abilitativo per silenzio rilasciato” e la revoca dell’attestato 03.12.2015.
2.2. Tanto precisato, occorre ricordare che l’ambito del giudizio avverso il silenzio è definito:
   - sul piano soggettivo, con riferimento ai soggetti che hanno presentato l’istanza rimasta insoddisfatta a causa del silenzio dell’amministrazione, e dunque titolari della legittimazione ad agire;
   - sul pano oggettivo, dal provvedimento richiesto con l’istanza ed in ordine al quale l’amministrazione non ha esercitato il relativo potere, nemmeno in senso negativo.
Quanto al piano soggettivo, è appena il caso di osservare (poiché il punto non è stato trattato nella sentenza impugnata né ha formato motivo di appello) che, a fronte di tre soggetti presentatori della diffida, il ricorso instaurativo del giudizio di I grado ed il presente appello risultano proposti da cinque soggetti, per due dei quali sarebbe discutibile la sussistenza della legittimazione ad agire.
Quanto al piano oggettivo è da rilevare che il provvedimento di sospensione –in ordine alla mancata adozione del quale è attivato il presente giudizio- deve essere inteso (in applicazione di un favor interpretativo per i ricorrenti) come riferito alla Scia, non sussistendo, nel caso di specie, alcun “titolo abilitativo per silenzio rilasciato” (e, dunque, prescindendosi dal rilevare che ben avrebbe potuto il Comune ritenere la diffida presentata tamquam non esset, per mancanza di oggetto).
In definitiva, l’eventuale silenzio inadempimento dell’amministrazione deve essere verificato solo con riguardo ai due tipi di atto sollecitati con l’istanza e con riferimento ai presupposti indicati per l’adozione degli atti medesimi.
Ne consegue che ogni ulteriore valutazione esplicitata in giudizio –sia per il tramite del ricorso instaurativo del giudizio sia per il tramite dell’appello– è da considerarsi del tutto estranea al thema decidendum.
Tanto precisato, può prescindersi dall’eccezione di inammissibilità proposta dal Comune di Nocera Inferiore, attesa altresì la infondatezza dell’appello.
3. Il giudizio sul silenzio, attivato in primo grado dagli attuali appellanti, attiene a quanto previsto, in tema di Scia, dall’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990 n. 241, il quale, nel precisare che “la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili”, afferma altresì che "gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1 e 2” del Cpa.
3.1. Come è noto, l’art. 31 Cpa prevede che “decorsi i termini per a conclusione del procedimento amministrativo, e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l’accertamento dell’obbligo dell’amministrazione di provvedere”.
Come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha avuto modo di chiarire, il giudizio sul cd. silenzio-inadempimento della pubblica amministrazione presuppone, innanzi tutto, che si verta in tema di tutela di interessi legittimi, non potendo il giudizio afferire, sia pure mediatamente, alla tutela di posizioni di diritto soggettivo, in tal modo aggirandosi i limiti di giurisdizione del giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. III, 22.06.2018 n. 3858); sez. V, 08.05.2018 n. 2751 e 06.02.2017, n. 513).
La sussistenza delle condizioni dell’azione in capo al soggetto che instaura il giudizio in oggetto deve, dunque, essere verificata in relazione alla titolarità di una posizione di interesse legittimo (pretensivo), tale da avergli consentito l’attivazione di un procedimento amministrativo non conclusosi nel termine previsto mediante l’adozione di alcun provvedimento espresso (ovvero non essendo prevista l’ipotesi di cd. silenzio assenso ex art. 20 l. n. 241/1990).
3.2. Più specificamente, nel caso previsto dall’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990 -non avendo il legislatore inteso introdurre una speciale forma di giudizio sul silenzio inadempimento riferito alla tutela di diritti soggettivi- ciò che fonda la sussistenza delle condizioni dell’azione è la titolarità di una posizione giuridica che legittimi l’istante a chiedere all’amministrazione la verifica delle condizioni che consentono di edificare in base a Scia, in relazione al pregiudizio che egli può ricevere da detta attività.
Tale posizione giuridica -sulla quale si fonda la facoltà di richiedere all’amministrazione gli accertamenti previsti- è di interesse legittimo (pena, come si è detto, lo “sconfinamento” nell’ambito della giurisdizione del giudice ordinario), il che comporta che ogni accertamento richiesto deve concernere aspetti inerenti all’interesse pubblico (violato) in materia di edilizia e urbanistica, non già la (eventuale) violazione di norme afferenti alla tutela del diritto dominicale o simili (se non in quanto la violazione di norme “civilistiche” e/o afferenti alla regolamentazione di rapporti tra privati non rilevi innanzi tutto dal punto di visto della tutela dell’interesse pubblico, risolvendosi, ma solo indirettamente, anche in una tutela obiettiva di diritti soggettivi).
Inoltre, l’accertamento della illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione presuppone, come tradizionalmente chiarito dalla giurisprudenza amministrativa, la sussistenza di un obbligo di provvedere violato o eluso dall’amministrazione medesima (Cons. Stato, sez. V, 11.06.2018 n. 3598; sez. IV, 07.06.2017 n. 2751; sez. VI, 27.12.2017 n. 4525).
Nel caso dell’attivazione del sindacato giurisdizionale sul silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di verifica proposta ai sensi dell’art. 19, co. 6-ter cit., l’obbligo di verifica dell’amministrazione concerne i soli aspetti di illegittimità segnalati dall’istante, e nei limiti in cui detti aspetti riguardino una violazione di norme che, poste a tutela dell’interesse pubblico in materia edilizia e urbanistica, comportino (anche) una lesione di posizioni di interesse legittimo.
Inoltre, tale obbligo di verifica –così come generalmente affermato dalla giurisprudenza amministrativa in ordine ai presupposti per la sussistenza dell’illegittimità del silenzio serbato dall’amministrazione– non può ritenersi violato le volte in cui l’istanza proposta sia manifestamente infondata o costituisca defatigatoria riproposizione di precedente istanza già in precedenza respinta (Cons. Stato, sez. IV, 07.06.2017 n. 2751).
Diversamente opinando (e cioè scollegando la tutela offerta dalla verifica dell’interesse dell’istante e, successivamente, delle condizioni dell’azione in capo al medesimo nella veste di ricorrente), l’istanza di verifica di cui all’art. 19, co. 6-ter, lungi dall’essere lo strumento (unico) di tutela offerto al privato avverso la Scia innanzi al giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 06.10.2017 n. 4659), finirebbe con il risolversi in una “denuncia” non meglio qualificata avverso presunti “abusi edilizi” da accertare.
D’altra parte, così come non sussiste un obbligo di provvedere coercibile in capo all’amministrazione riferito alla generica istanza di attivazione dei propri discrezionali poteri di autotutela, e dunque non sussiste in questi casi il conseguente silenzio inadempimento (Cons. Stato, sez. IV, 07.06.2017 n. 2751), allo stesso modo non può sussistere un obbligo di verifica “generale” dell’attività edilizia intrapresa in base a Scia da parte dell’amministrazione sulla base dell’istanza ex art. 19, co. 6-ter.
Tale obbligo sussiste solo per quegli aspetti che, collegandosi alla tutela procedimentale di posizioni soggettive di interesse legittimo, distinguono l’istante –in tal modo “qualificandolo”- dalla posizione di mero denunciante.
3.3. Ovviamente, nulla vieta all’amministrazione di verificare, con riferimento ai presupposti e limiti previsti dall’ordinamento, la regolarità di quanto sia in corso di realizzazione in base a Scia, ma ciò a tutta evidenza prescinde da quanto previsto dall’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990 e dal rapporto che si instaura sulla base di detta norma tra pubblica amministrazione e privato istante.
Allo stesso tempo, laddove l’attività edilizia realizzata o in corso di realizzazione in base a Scia violi norme regolatrici dei rapporti tra privati, quale che ne sia la fonte (pubblicistica, contrattuale, etc.), il privato che si ritenga leso ben potrà esercitare il proprio diritto alla tutela giurisdizionale innanzi al giudice ordinario, nei limiti previsti dall’ordinamento.
4. Alla luce delle considerazioni innanzi esposte, appare evidente come non sussiste alcun obbligo di provvedere dell’amministrazione in ordine ad una istanza volta a sollecitarne l’esercizio dei poteri di autotutela della medesima su una propria precedente certificazione. Ciò in quanto:
   - per un verso, non è configurabile il potere di autotutela decisionale in ordine agli atti che costituiscono l’oggetto di precedente esercizio di potere certificativo (presupponendo il potere di autotutela il previo esercizio di un potere costitutivo dell’amministrazione);
   - per altro verso, ove anche –per mera ipotesi argomentativa- fosse configurabile l’esercizio del potere di autotutela, in ordine all’istanza che ne sollecita l’esercizio, non sussiste –come si è detto- obbligo di provvedere;
   - per altro verso ancora, non sussiste, nel caso di specie, alcun titolo od interesse del privato a che l’amministrazione intervenga in rettifica di attestazione di fatti obiettivamente verificatisi e riscontrati.
Né è dato comprendere, contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti, come l’attestato del quale si è richiesta la revoca e/o l’annullamento possa “compenetrare” l’assenso ricevuto, non presupponendo la disciplina della Scia alcun “assenso” (espresso o implicito) dell’amministrazione, né potendo tale assenso minimamente configurarsi con riferimento ad una mera asseverazione di scienza su fatti effettivamente verificatisi.
Da quanto esposto consegue il rigetto del relativo motivo di appello (sub lett. a2) dell’esposizione in fatto).
5. Altrettanto infondati sono gli ulteriori motivi di appello.
5.1. Si sono già innanzi esposti i limiti entro i quali l’accertamento delle norme civilistiche poste a tutela dei diritti soggettivi (e, più specificamente, dominicali) del privato possa rilevare ai fini dell’esercizio dei poteri della pubblica amministrazione.
Giova ulteriormente distinguere (anche con riferimento alle norme afferenti ai diritti reali sul bene oggetto di intervento) tra verifica della sussistenza della legittimazione a richiedere il titolo edilizio e verifica del rispetto della normativa civilistica lato sensu inerente al bene oggetto della richiesta e a quanto si intende realizzare sullo stesso.
5.2. Quanto al primo aspetto, la giurisprudenza amministrativa ha già avuto modo di osservare (Con. Stato, sez. VI, 22.09.2014 n. 4776; sez. IV, 25.09.2014 n. 4818), che il permesso di costruire può essere rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a chiunque abbia titolo per richiederlo (così come previsto dall’art. 11, co. 1, DPR n. 380/2001), e tale ultima espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima disponibilità dell’area, in base ad una relazione qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso del proprietario.
Si è precisato, inoltre, che, “il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, n. 4818/2014 cit.; in senso conforme, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
Quanto ora esposto (ed il concetto di “sufficienza” riferito al titolo, elaborato dalla giurisprudenza) comporta, in generale, che è onere del Comune ricercare la sussistenza di un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo destinatario di un provvedimento amministrativo autorizzatorio; ma non comporta anche che l’amministrazione debba comprovare prima del rilascio (ciò mediante oneri di ulteriore allegazione posti al richiedente o attraverso propri approfondimenti istruttori), la “pienezza” (nel senso di assenza di limitazioni) del titolo medesimo.
Ed infatti, ciò comporterebbe, in sostanza, l’attribuzione all’amministrazione di un potere di accertamento della sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto” non ad essa attribuito dall’ordinamento.
5.3. Quanto al secondo aspetto, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che, in sede di esame dell’istanza volta al rilascio di un titolo edilizio, l’amministrazione non deve verificare ogni aspetto civilistico che potrebbe venire in rilievo, ma deve vagliare esclusivamente i profili urbanistici ed edilizi connessi al titolo richiesto (Cons. Sato, sez. IV, 23.05.2016 n. 2116).
Si è, in particolare, ricordato che il permesso di costruire non incide sulla titolarità della proprietà o di altri diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto del suo rilascio, né tantomeno pregiudica la titolarità o l'esercizio di diritti relativi ad immobili diversi da quelli oggetto d'intervento (Cos. Stato, sez. VI, 27.04.2017 n. 1942).
Con particolare riguardo all’istanza di titolo ad edificare sulla cosa comune si è affermato: “ogni questione in ordine agli eventuali limiti dell’esercizio in concreto del diritto del comproprietario (ivi compreso quanto inerisce all’uso della cosa comune, ex art. 1102 c.c.) esula dalle valutazioni dell’amministrazione, nei casi in cui l’immobile considerato non sia oggetto “diretto” del titolo edificatorio, nel senso che attraverso quest’ultimo si realizza una trasformazione dell’immobile, sia attraverso la realizzazione di una volumetria su di esso insistente, sia attraverso la realizzazione di altre opere che ne trasformino in modo decisivo caratteristiche e destinazioni del bene ovvero che incidano su pattuizioni tra i comproprietari in ordine all’uso del medesimo ... Ovviamente, in ordine a tali aspetti, resta ferma la tutela dei diritti reali assicurata dal giudice ordinario, ma ciò ... non può condizionare l’esercizio del potere autorizzatorio in materia edilizia della Pubblica Amministrazione, al punto da rendere illegittimo il permesso di costruire rilasciato”.
5.4. E’ alla luce delle considerazioni innanzi esposte che deve essere interpretata l’espressione “fatti salvi eventuali diritti dei terzi”, o simili, che normalmente compare nei provvedimenti autorizzatori in materia edilizia.
Con tale espressione si intende circoscrivere l’ambito di efficacia del provvedimento autorizzatorio in materia edilizia.
Si intende cioè ribadire che il provvedimento amministrativo, rilasciato ad un soggetto che è titolare di una situazione qualificata di giuridica relazione con il bene oggetto di intervento, autorizza un intervento di trasformazione del territorio che è compatibile con l’assetto edilizio ed urbanistico previsto per il medesimo ed è, dunque, in tale ordine e limiti, legittimo.
Tale provvedimento inerisce, quanto all’oggetto della istanza presentata, al rapporto pubblicistico tra soggetto richiedente e pubblica amministrazione in esercizio del potere autorizzatorio edilizio. Al tempo stesso, tale provvedimento non incide (perché “non può” incidere) sui distinti rapporti giuridici tra privati, che restano dallo stesso del tutto impregiudicati.
Il che comporta che quanto autorizzato, se non costituisce illecito dal punto di vista amministrativo (proprio per le stesse ragioni per cui risulta autorizzabile), ben può costituire illecito civile, in quanto incidente su una sfera di rapporti cui la Pubblica Amministrazione è (e deve rimanere) estranea.
Ne consegue che eventuali limitazioni alle facoltà e poteri del proprietario (o del comproprietario), sia riferite alla “piena” titolarità del suo diritto, sia al concreto esercizio dello jus aedificandi in relazione a diritti di terzi, per un verso esulano dal piano della “legittimità” del provvedimento amministrativo, per altro verso restano da questo impregiudicate e quindi soggetti terzi che intendono tutelarsi ben potranno farlo, a prescindere dall’atto amministrativo, innanzi al giudice ordinario.
In definitiva, se il provvedimento autorizzatorio edilizio, quanto al suo ambito di efficacia, è estraneo ai rapporti interprivati, (non potendoli condizionare, limitare o comunque su di essi incidere), è del tutto evidente che una violazione delle norme regolatrici di tali rapporti non può rilevare come vizio di legittimità dell’atto.
5.5. Quanto ora affermato con riferimento al provvedimento autorizzatorio edilizio che l’amministrazione è chiamata a (eventualmente) rilasciare su istanza del privato, a maggior ragione deve essere ribadito nel caso di attività edilizia che si intende realizzare in base a Scia.
In questo caso, l’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990 ha tenuto ad escludere che la Scia costituisca provvedimento amministrativo, anche tacito.
Il che comporta che l’attività edilizia che il privato intende realizzare si svolge su un piano dove non è previsto l’esercizio di poteri amministrativi e, dunque, a maggior ragione, è estranea alla Pubblica Amministrazione ogni verifica della sussistenza delle condizioni che legittimano ad essere destinatari di un titolo edilizio.
Si intende affermare che, in conseguenza della ricostruzione dell’istituto offerta dall’art. 19 l. n. 241/1990, ogni questione relativa alla titolarità del bene oggetto di intervento attiene direttamente ai rapporti tra privati, non essendo configurabile, per le ragioni esposte, alcun coinvolgimento (neanche “mediato”, cioè nei limiti di verifica dei presupposti ad essere destinatario di un provvedimento amministrativo) della Pubblica Amministrazione.
Ne consegue che ciò che il privato può richiedere, per il tramite dell’istanza di cui all’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990, e nei limiti del suo interesse ad agire, è solo la verifica obiettiva della compatibilità di quanto si intende realizzare con la disciplina urbanistica ed edilizia applicabile al caso di specie.
Ma il privato non può certo richiedere all’amministrazione di verificare –in capo al soggetto che agisce sulla base di una Scia- la sussistenza delle condizioni perché questi possa essere destinatario di un titolo edilizio ex art. 11 DPR n. 380/2001, proprio perché il medesimo articolo esclude che la Scia possa essere ricondotta ad un provvedimento amministrativo.
6.1. Nel caso di specie, come si è già detto, la verifica richiesta all’amministrazione (e, dunque, l’emanazione da parte della medesima di un provvedimento di sospensione degli effetti della Scia), concerneva, in primo luogo, la necessità di verificare la sussistenza dell’assenso dei comproprietari.
Ma tale verifica, per le ragioni innanzi esposte, non può essere richiesta alla Pubblica Amministrazione, a maggior ragione nel caso di una attività edilizia intrapresa sulla base di una Scia:
   - sia in quanto essa afferisce alla natura dei rapporti tra comproprietari (ed ai limiti di uso della cosa comune) e coinvolge quindi diritti soggettivi, come tali esulanti l’ambito del giudizio sull’illegittimità del silenzio;
   - sia in quanto la tematica della legittimazione ad essere destinatari di un titolo edilizio ex art. 11 DPR n. 380/2001 è estranea alla Scia ed ai poteri di verifica su di essa della Pubblica Amministrazione.
E’ in questo senso che deve essere intesa la sentenza impugnata, laddove essa afferma l’inammisibilità del ricorso “per essere stato chiesto l’esercizio di poteri in autotutela da parte dell’Ente, in materia sottratta alla sfera di competenza giurisdizionale del G.A.”.
6.2. Altrettanto priva di rilevanza, ai fini edilizi, è la richiesta di verifica della sussistenza delle autorizzazioni previste dal DPR n. 542/1994 per gli impianti RM (risonanza magnetica).
Le autorizzazioni previste dal DPR 08.08.1994 n. 542 (Regolamento recante norme per la semplificazione del procedimento di autorizzazione all’uso diagnostico di apparecchiature a risonanza magnetica nucleare sul territorio nazionale), relative alla “collocazione” delle stesse (v. in particolare, art. 4), attengono ad aspetti di programmazione della assistenza sanitaria ovvero alle caratteristiche dell’apparecchio, aspetti che non interferiscono con le diverse valutazioni proprie dell’amministrazioni sotto il profilo urbanistico-edilizio.
6.3. In definitiva, in presenza di una istanza presentata ai sensi dell’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990, fondata su presupposti chiaramente non afferenti la materia edilizia, l’amministrazione non aveva alcun obbligo di provvedere e, conseguentemente, il silenzio dalla stessa serbato non è qualificabile come illegittimo inadempimento.
7. Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello deve essere rigettato, stante la sua infondatezza, con conseguente conferma della sentenza impugnata, con le precisazioni ed integrazioni di motivazione innanzi rappresentate (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.08.2018 n. 5115 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento edilizio (abusivo) realizzato nel territorio del Parco rientra nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi dell’articolo 13 della suddetta legge gli interventi edilizi esigono la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della legge 394/1991.
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La giurisprudenza distingue tra istanza di nulla-osta ed istanza di accertamento in sanatoria affermando che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla lettera dell’art 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda si intende respinta, delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione impugnatoria”.
I rapporti tra concessione del nulla osta da parte dell’Ente Parco ai sensi dell’art. 13 l. 394/1991 e quelli dell’ente locale di cui all’art. 27 d.p.r 380 sono dunque chiari: l’ordine di demolizione può intervenire anche prima della richiesta di nulla osta dal momento che la valutazione dell’ Ente Parco è del tutto autonoma rispetto a quella dell’ente locale; come chiaro è il rapporto tra la disciplina speciale delle aree protette di cui alla l. 394/1991 e quella generale di cui al d.p.r. 380/2001, prevalendo il canone della specialità a quello della temporalità. Accertata la violazione, in assenza di nulla osta, all’ ente Parco è conferito dall’articolo 29 l. 394/1991 il potere di irrogare la sanzione, ordinando la demolizione e la riduzione in pristino.
Si afferma in giurisprudenza “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’ Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa”.
Pertanto è legittima l’ordinanza di demolizione delle opere abusive una volta accertata la mancata richiesta del nulla osta ai sensi dell’art. 13, l. 391/1994.
Giova ricordare che l'istanza di accertamento in sanatoria sarebbe possibile solo in presenza dell’autorizzazione paesaggistica in osservanza del requisito della doppia conformità. “Nessuna sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 è possibile nei casi come quello in questione. Se ciò venisse consentito si determinerebbe una violazione di legge e di regolamento ex art. 27, co. 1 e 2; art. 36 D.P.R. 380/2001; art 141, co. 6, 8 e 10, lett. c), nonché art. 167 D.lgs. n. 42/2004, consistente nell’adozione di un permesso di costruire in sanatoria in violazione dei limiti di operatività dell’art 36 D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di disposizione applicabile solo per opere dotate del requisito della “doppia conformità”, che nella fattispecie manca del tutto, e comunque, trattandosi di disposizione operante (astrattamente) solo per opere abusive ubicate in area non vincolata, stante la disposizione dell’art. 146, co. 10, lett. c), D.lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale “l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi”.
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Con ordinanza n. 47/2011 l’Ente Parco Vesuvio ordinava la demolizione di opere abusive. Con accertamento da parte del Corpo Forestale dello Stato si accertava l’inottemperanza all’ordine di demolizione e si rinvenivano ulteriori opere abusive in assenza dei prescritti nulla osta ed autorizzazione.
Con ordinanza di demolizione n. 28 del 16.05.2014 il Comune di Terzigno ordinava al ricorrente l’immediata sospensione dei lavori edilizi abusivi, ingiungendo la demolizione delle opere entro 90 giorni.
Con nota prot. 2269 del 04/06/2014 l’Ente Parco Vesuvio provvedeva ad inviare al ricorrente la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi della legge 241/1900 art. 7.
Con ordinanza n. 16/2014 del 05/09/2014 prot. G.3617 del 05.09 2014 notificata in data 17.09.2014, l’Ente Parco Vesuvio ordinava la demolizione delle opere.
Con nota prot. n. 4640 del 03.11.2014 il ricorrente depositava istanza di autorizzazione in sanatoria
Il 15.11.2014 il signor An. presentava il ricorso al Consiglio di Stato.
Con nota successiva n. prot. 229 del 30/01/2015 l’Ente Parco comunicava al ricorrente, al Comune di Terzigno ed al CTA del Corpo forestale dello Stato le ragioni ostative dell’inammissibilità della domanda di autorizzazione in sanatoria.
Dalla relazione presentata dall’ amministrazione risulta che il ricorrente ricevuta la comunicazione del diniego, intervenuta successivamente alla presentazione del ricorso, non abbia proposto motivi aggiunti o proposto nuovo ricorso contro il provvedimento di diniego. Il diniego dell’istanza di autorizzazione in sanatoria fa venir meno l’interesse a ricorrere. Il ricorso deve dunque ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Il ricorso deve comunque ritenersi infondato nel merito.
Giova premettere che l’intervento è avvenuto nel territorio del Parco del Vesuvio che rientra nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi dell’articolo 13 della suddetta legge gli interventi edilizi esigono la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della legge 394/1991.
Lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione di legge con riferimento all’art. 36 d.p.r. 380/2001; violazione e falsa applicazione dell’art. 7, l. 241/1990, eccesso e sviamento di potere. Con ricorso straordinario vengono impugnate sia l’ordinanza di demolizione e riduzione in pristino sia il silenzio provvedimentale relativo all’istanza di accertamento in sanatoria su cui si era formato silenzio-rigetto.
Il ricorrente afferma che avrebbero errato il Comune di Terzigno e l’Ente Parco Vesuvio ad ordinare la demolizione delle opera abusive dovendo attendere la richiesta di istanza di nulla osta ai sensi dell’art. 13. Il motivo di gravame non è fondato.
La giurisprudenza distingue tra istanza di nulla osta ed istanza di accertamento in sanatoria affermando che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla lettera dell’art 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda si intende respinta, delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione impugnatoria” (TAR Campania 3166/2018).
I rapporti tra concessione del nulla osta da parte dell’Ente Parco ai sensi dell’art. 13 l. 394/1991 e quelli dell’ente locale di cui all’art. 27 d.p.r 380 sono dunque chiari: l’ordine di demolizione può intervenire anche prima della richiesta di nulla osta dal momento che la valutazione dell’Ente Parco è del tutto autonoma rispetto a quella dell’ente locale; come chiaro è il rapporto tra la disciplina speciale delle aree protette di cui alla l. 394/1991 e quella generale di cui al d.p.r. 380/2001, prevalendo il canone della specialità a quello della temporalità. Accertata la violazione, in assenza di nulla osta, all’ ente Parco è conferito dall’articolo 29 l. 394/1991 il potere di irrogare la sanzione, ordinando la demolizione e la riduzione in pristino. Si afferma in giurisprudenza “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’ Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa (cfr. Cons. Stato, Parere sez. II, 23.02.2015, n. 449)”.
Pertanto è legittima l’ordinanza di demolizione delle opere abusive una volta accertata la mancata richiesta del nulla osta ai sensi dell’art. 13, l. 391/1994.
Giova ricordare che secondo la giurisprudenza del Consiglio di Stato la istanza di accertamento in sanatoria sarebbe possibile solo in presenza dell’autorizzazione paesaggistica in osservanza del requisito della doppia conformità. “Nessuna sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 è possibile nei casi come quello in questione. Se ciò venisse consentito si determinerebbe una violazione di legge e di regolamento ex art. 27, co. 1 e 2; art. 36 D.P.R. 380/2001; art 141, co. 6, 8 e 10, lett. c), nonché art. 167 D.lgs. n. 42/2004, consistente nell’adozione di un permesso di costruire in sanatoria in violazione dei limiti di operatività dell’art 36 D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di disposizione applicabile solo per opere dotate del requisito della “doppia conformità”, che nella fattispecie manca del tutto, e comunque, trattandosi di disposizione operante (astrattamente) solo per opere abusive ubicate in area non vincolata, stante la disposizione dell’art. 146, co. 10, lett. c), D.lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale “l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi” (Cons. di stato, Parere sez. II, 1568/2011.)
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Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato risultando il gravame privo di pregio.
Per le ragioni su esposte la Sezione esprime il parere che il ricorso vada considerato in parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in relazione al silenzio rigetto e in parte infondato nel merito con riferimento ai vizi di motivazione dell’ordinanza di demolizione e della nota informativa del corpo forestale dello stato (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.08.2018 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’intervento edilizio (abusivo) realizzato nel territorio del Parco rientra nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette.
Ai sensi di tale normativa gli interventi edilizi richiedono, in forza dell’art. 13, la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della medesima legge. Quest’ ultima disposizione concerne i poteri dell’Ente.
La richiesta di nulla osta ex art. 13 l. 394/1991 deve precedere la richiesta delle concessioni ed autorizzazioni necessarie agli interventi. L’accertamento di compatibilità paesaggistica non può essere concesso se non previa acquisizione del preventivo nulla osta da parte dell’ente parco.
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La richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 e 181 d.lgs. 42/2004 e l’istanza di accertamento in sanatoria né sanano l’abuso né sospendono l’efficacia dell’ordinanza di demolizione.
L’istanza di accertamento in sanatoria varrebbe tutt’al più a sospendere gli effetti delle misure sanzionatorie sino all’emanazione del provvedimento o alla formazione del silenzio-rigetto. Afferma la giurisprudenza di questo Consiglio che “la sopravvenuta presentazione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 non incide sulla validità o efficacia del provvedimento sanzionatorio, ma determina solo un arresto temporaneo dell’esecutività delle misure ripristinatorie che riacquistano carattere esecutivo in caso di eventuale diniego della sanatoria”.
Nella relazione ministeriale non risultano gli esiti di tali istanze e neppure sono pervenuti motivi aggiunti e controdeduzioni da parte del ricorrente.
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L’ordinanza di demolizione emanata dall’Ente Parco si fonda legittimamente sulla disposizione dell’art. 29 l. n. 394/1991 la quale, in caso di esercizio di attività edilizia in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva autorizzazione o nulla osta dell’Ente Parco.
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La giurisprudenza afferma con chiarezza che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla lettera dell’art. 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda si intende respinta, delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione impugnatoria”.
L’art. 29 l. 349/1991 fa chiaro riferimento alla sanzione demolitorio/ripristinatoria nel caso di costruzione in aree protette in assenza di nulla osta. L’Ente Parco nell’ordinanza di demolizione ha correttamente applicato la disposizione di legge esercitando il potere sanzionatorio dalla norma attribuitogli.
Invero, “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa”.
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Giova premettere che l’intervento edilizio è avvenuto nel territorio del Parco del Vesuvio che rientra nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi di tale normativa interventi edilizi richiedono, in forza dell’art. 13, la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della medesima legge. Quest’ ultima disposizione concerne i poteri dell’Ente. La richiesta di nulla osta ex art. 13 l. 394/1991 deve precedere la richiesta delle concessioni ed autorizzazioni necessarie agli interventi. Precisa correttamente l’amministrazione che l’accertamento di compatibilità paesaggistica non può essere concesso se non previa acquisizione del preventivo nulla osta da parte dell’ente parco.
Tutto ciò premesso il ricorrente non aveva richiesto il nulla osta ai sensi dell’articolo 13 e neppure acquisito l’accertamento di compatibilità paesaggistica prima di promuovere l’istanza di accertamento in sanatoria ai sensi dell’art. 36. Come puntualizzato dall’amministrazione la richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica ai sensi dell’art. 167 e 181 d.lgs. 42/2004 e l’istanza di accertamento in sanatoria né sanano l’abuso né sospendono l’efficacia dell’ordinanza di demolizione.
L’istanza di accertamento in sanatoria varrebbe tutt’al più a sospendere gli effetti delle misure sanzionatorie sino all’emanazione del provvedimento o alla formazione del silenzio-rigetto. Afferma la giurisprudenza di questo Consiglio che “la sopravvenuta presentazione di istanza di accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 non incide sulla validità o efficacia del provvedimento sanzionatorio, ma determina solo un arresto temporaneo dell’esecutività delle misure ripristinatorie che riacquistano carattere esecutivo in caso di eventuale diniego della sanatoria (v. sul punto, ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 23.03.2016, n. 1203 e n. 1204)”.
Nella relazione ministeriale non risultano gli esiti di tali istanze e neppure sono pervenuti motivi aggiunti e controdeduzioni da parte del ricorrente.
L’ordinanza di demolizione emanata dall’Ente Parco si fonda legittimamente sulla disposizione dell’art. 29 l. n. 394/1991 la quale, in caso di esercizio di attività edilizia in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta, dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva autorizzazione o nulla osta dell’Ente Parco.
Lamenta il ricorrente che l’Ente Parco avrebbe dovuto attendere il risultato dell’accertamento dell’istanza di costruire in sanatoria prima di emanare l’ordine di demolizione.
La giurisprudenza afferma con chiarezza che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla lettera dell’art. 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda si intende respinta, delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione impugnatoria” (TAR Campania, 3166/2018).
Si duole il ricorrente che la sanzione prescelta sia quella ripristinatoria e non quella pecuniaria. La doglianza è priva di fondamento. L’art. 29 l. 349/1991 fa chiaro riferimento alla sanzione demolitorio/ripristinatoria nel caso di costruzione in aree protette in assenza di nulla osta. L’Ente Parco nell’ordinanza di demolizione ha correttamente applicato la disposizione di legge esercitando il potere sanzionatorio dalla norma attribuitogli.
Come si afferma nella giurisprudenza di questo Consiglio: “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della legislazione statale in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa” (Cons. Stato, sez. II, 23.02.2015, n. 449).
Sussistevano dunque i presupposti di fatto e di diritto per l’emanazione dell’ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi.
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Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato risultando il gravame privo di pregio (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.08.2018 n. 2059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Conseguenze che derivano dalla scadenza del piano di lottizzazione.
Circa le conseguenze che derivano dalla scadenza del piano di lottizzazione, senza che la sua esecuzione abbia avuto luogo entro il termine di efficacia decennale, la giurisprudenza ha da tempo evidenziato i seguenti principi:
   - il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia;
   - né è ipotizzabile l’ultrattività delle previsioni del Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura;
   - è irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione, la circostanza che l’impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante;
   - il termine di validità decennale del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa convenzione e ciò si ricollega “al fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione… deve tuttavia ritenersi che la circostanza della mancata stipula della convenzione non possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui all'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa esclusivamente riferimento al "tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato", sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine di garantire l'adeguatezza e rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di validità del piano, con la conseguente e ragionevole necessità che, dopo un certo periodo di tempo (10 anni), si debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione”;
   - inoltre, “il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo. Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria”;
   - quindi, secondo la giurisprudenza consolidata, decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano di lottizzazione questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso, con la precisazione che da ciò discende che:
      a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia ultrattiva;
      b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in generale, il termine di efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso;
      c) le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano di lottizzazione si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi;
   - con riferimento all’ipotesi in cui l’amministrazione abbia rilasciato il titolo edilizio dopo anni dalla maturata scadenza del termine di durata del piano di lottizzazione e della relativa convenzione, il Tribunale ha già chiarito che:
      a) una volta scaduto il termine di efficacia della convenzione, il Comune non può in ogni caso ritenersi vincolato a riconoscere agli esborsi sostenuti dallo stesso lottizzante per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione carattere integralmente sostitutivo rispetto al contributo concessorio;
      b) deve tenersi presente che le opere previste dalla convenzione di lottizzazione sono strettamente correlate alle esigenze di urbanizzazione dell'area, come stimate al tempo della stipula della convenzione, e in relazione al quadro complessivo della disciplina urbanistica a quel tempo vigente, sicché decorso il termine decennale di efficacia della lottizzazione convenzionata, si impone unicamente, secondo i principi, e in assenza di una diversa disciplina di dettaglio, il rispetto degli allineamenti e delle prescrizioni di zona stabilite dal piano di lottizzazione, in applicazione dell'articolo 17 della legge n. 1150 del 1942;
      c) non può ritenersi pregiudicata la potestà dell'Amministrazione, una volta scaduta la convenzione urbanistica, di riconsiderare il fabbisogno di opere di urbanizzazione e di dare applicazione agli eventuali nuovi importi stabiliti per la quantificazione del contributo concessorio;
      d) “ne deriva che l'eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione eseguite a spese del lottizzante carattere integralmente satisfattivo dell'obbligazione relativa al contributo concessorio non può vincolare l'Ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica”
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La scadenza dell’efficacia del piano di lottizzazione incide sulla sola disciplina urbanistica, “non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi”.
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L’eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione, eseguite a spese del lottizzante, un carattere satisfattivo dell’obbligazione relativa al pagamento del contributo concessorio, non può vincolare l’Ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica.
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3) Il ricorso è infondato e deve essere respinto e ciò consente di prescindere dall’esame delle eccezioni di rito sollevate dall’amministrazione resistente.
Preliminarmente, va evidenziato che la domanda restitutoria si situa nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica, afferendo a pretese di natura patrimoniale aventi consistenza di diritto soggettivo (cfr. tra le tante TAR Umbria Perugia, sez. I, 23.03.2016, n. 261).
Ne consegue che resta irrilevante la circostanza che l’amministrazione abbia fondato la pretesa al pagamento e alla ritenzione delle somme, da un lato, sull’incompletezza delle opere di urbanizzazione alla data del rilascio del permesso di costruire n. 3/2005, dall’altro, sulla scadenza della convenzione e del piano di lottizzazione, atteso che in entrambi i casi si tratta di eccezioni di merito, che deducono diversi fatti impeditivi, ognuno dei quali di per sé astrattamente idoneo ad escludere l’esistenza del diritto alla restituzione azionato dalla ricorrente.
Ne deriva che la tesi della ricorrente, secondo la quale l’amministrazione avrebbe in corso di causa modificato inammissibilmente le ragioni sottese al rifiuto di restituire le somme, è destituita di fondamento.
3.1) La fattispecie deve essere esaminata considerando, in primo luogo, le conseguenze che derivano dalla scadenza del piano di lottizzazione, senza che la sua esecuzione abbia avuto luogo entro il termine di efficacia decennale, fatto quest’ultimo emergente pacificamente dagli atti di causa.
In materia la giurisprudenza ha da tempo evidenziato i seguenti principi, condivisi dal Tribunale:
   - il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento attuativo perde efficacia (Cons. Stato Sez. VI 20/1/2003 n. 200; Consiglio di Stato, sez. IV, 27/04/2015, n. 2109; idem 25/07/2001 n. 4073);
   - né è ipotizzabile l’ultrattività delle previsioni del Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo indeterminato la pianificazione urbanistica futura (Cons. Stato Sez. IV 29/11/2010 n. 8384; idem 13/04/2005 n. 1543);
   - è irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia del piano di lottizzazione, la circostanza che l’impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione o al privato lottizzante (Cons. Stato, Sez. IV, 10/08/2011 n. 4761);
   - il termine di validità decennale del piano di lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa convenzione e ciò si ricollega “al fatto che, in via normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue, in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione… deve tuttavia ritenersi che la circostanza della mancata stipula della convenzione non possa ragionevolmente costituire legittimo motivo per cui il piano di lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di cui all'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa esclusivamente riferimento al "tempo, non maggiore di anni dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà essere attuato", sia perché deve comunque ritenersi prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione devono avere una determinata e certa durata temporale, con conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine di garantire l'adeguatezza e rispondenza di tali previsioni agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di validità del piano, con la conseguente e ragionevole necessità che, dopo un certo periodo di tempo (10 anni), si debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte urbanistiche in questione” (TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 18.01.2018, n. 24);
   - inoltre, “il termine massimo di dieci anni di validità del piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure sull'accordo delle parti e decorre dalla data di completamento del complesso procedimento di formazione del piano attuativo (Cons. Stato, Sez. IV, 11.03.2003 n. 1315). Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di pianificazione secondaria” (cfr. Consiglio di Stato n. 1574/2013);
   - quindi, secondo la giurisprudenza consolidata (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920; Cons. Stato, Sez. V, 30.04.2009, n. 2768; Sez. IV, 27.10.2009, n. 6572) decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano di lottizzazione, questo diventa inefficace per la parte in cui non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso, con la precisazione che da ciò discende che:
      a) le previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta e dettagliata conformazione della proprietà privata, le medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia ultrattiva (Tar Abruzzo-L'Aquila, sez. I, 20/11/2014, n. 810; Cons. Stato, n. 2768 del 2009 e n. 6170 del 2007; Campania, Salerno, n. 522 del 2014);
      b) il termine di efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione delle previste opere di urbanizzazione che devono essere realizzate entro tale termine; viceversa per la realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi, fermo restando che poiché, in generale, il termine di efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso (cfr. TAR Lazio Latina, sez. I, 26/04/2018, n. 226;
      c) le conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano di lottizzazione si esauriscono pertanto nell'ambito della sola disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi (cfr. in particolare, TAR Lazio-Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920);
   - con riferimento all’ipotesi –ricorrente anche nel caso di specie– in cui l’amministrazione abbia rilasciato il titolo edilizio dopo anni dalla maturata scadenza del termine di durata del piano di lottizzazione e della relativa convenzione, il Tribunale (TAR Lombardia Milano, sez. II, 29.02.2016, n. 406) ha già chiarito che:
      a) una volta scaduto il termine di efficacia della convenzione, il Comune non può in ogni caso ritenersi vincolato a riconoscere agli esborsi sostenuti dallo stesso lottizzante per l’esecuzione delle opere di urbanizzazione carattere integralmente sostitutivo rispetto al contributo concessorio;
      b) deve tenersi presente che le opere previste dalla convenzione di lottizzazione sono strettamente correlate alle esigenze di urbanizzazione dell'area, come stimate al tempo della stipula della convenzione, e in relazione al quadro complessivo della disciplina urbanistica a quel tempo vigente, sicché decorso il termine decennale di efficacia della lottizzazione convenzionata, si impone unicamente, secondo i principi, e in assenza di una diversa disciplina di dettaglio, il rispetto degli allineamenti e delle prescrizioni di zona stabilite dal piano di lottizzazione, in applicazione dell'articolo 17 della legge n. 1150 del 1942 (già Cons. Stato, Sez. IV, 28.10.2009, n. 6661);
      c) non può ritenersi pregiudicata la potestà dell'Amministrazione, una volta scaduta la convenzione urbanistica, di riconsiderare il fabbisogno di opere di urbanizzazione e di dare applicazione agli eventuali nuovi importi stabiliti per la quantificazione del contributo concessorio;
      d) “ne deriva che l'eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione eseguite a spese del lottizzante carattere integralmente satisfattivo dell'obbligazione relativa al contributo concessorio non può vincolare l'Ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica”.
3.2) Nel caso di specie, il piano di lottizzazione e la relativa convenzione risalgono al 04.12.1990, sicché la disciplina pianificatoria di secondo grado deve ritenersi scaduta il 05.12.2000, in applicazione dei principi appena richiamati.
Prima della scadenza non risulta che siano state richieste e concesse proroghe per la sua attuazione.
Vero è che, con delibera del Consiglio comunale n. 6, in data 24.01.2002, veniva approvata una variante di completamento del piano di lottizzazione, ma ad essa non seguiva la stipulazione della convenzione di lottizzazione, sicché deve ritenersi che la variante non sia mai entrata in vigore, come chiarito dalla citata giurisprudenza.
Allorché, in data 10.10.2007, l’amministrazione ha rilasciato a Ve. il permesso di costruire n. 3/2005, per la realizzazione dell’“Edificio produttivo Lotto n. 3”, il piano di lottizzazione del 1990 era da tempo scaduto, sicché non è ipotizzabile alcuno scomputo degli oneri correlati a tale titolo edilizio in ragione delle previsioni contenute nel piano di lottizzazione da anni inefficace.
Né il permesso del 2007 reca indicazioni o riferisce di accordi in ordine alla previsione della realizzazione di specifiche opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri correlati al particolare titolo.
Di conseguenza, deve ritenersi fondata la pretesa del Comune di pagamento e di ritenzione degli oneri di urbanizzazione relativi al permesso n. 3/2005, perché direttamente ed autonomamente correlata al rilascio del permesso medesimo.
Del resto, nel 2008 il Comune ha accertato che le opere di urbanizzazione previste dal piano del 1990 non erano state completate e che quelle eseguite erano inidonee all’uso previsto, perché ammalorate, tanto che per la loro realizzazione sono stati rilasciati successivamente i permessi 39/2008 e n. 23/2009.
Ne deriva che al tempo del pagamento degli oneri correlati al permesso n. 3/2005, le opere di urbanizzazione, previste dal piano scaduto, non erano neppure completate, sicché per lo meno rispetto alla relativa prestazione di facere dedotta in convenzione e garantita da fideiussione, si profila astrattamente un inadempimento dei lottizzanti, i quali, d’altronde, non hanno dedotto l’esistenza di fatti oggettivamente impeditivi della realizzazione delle opere stesse entro i termini previsti.
In concreto l’amministrazione non ha escusso le garanzie, ma ha atteso il completamento delle opere, come risulta dalla successiva determinazione n. 320 del 28.11.2016, completamento alla cui esecuzione i lottizzanti erano ancora obbligati, poiché, come evidenziato dalla citata giurisprudenza, la scadenza dell’efficacia del piano di lottizzazione incide sulla sola disciplina urbanistica, “non potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli interventi” (cfr. in particolare, TAR Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920).
Con l’atto n. 320/2016, il Comune ha approvato il certificato di collaudo definitivo “delle opere di urbanizzazione del Piano di Lottizzazione di Via della Concordia” del 1990, completate in virtù dei permessi di costruire n. 39/2008 e n. 23/2009 ed ha assunto determinazioni ai fini sia dello svincolo delle fideiussioni, sia dell’acquisizione delle opere di urbanizzazione eseguite.
Parte ricorrente sostiene che il completamento successivo delle opere giustificherebbe comunque la pretesa restitutoria, proprio in applicazione della convenzione del 1990.
Questa impostazione non può essere condivisa.
La convenzione del 1990 è scaduta nel 2000, sicché, come più volte evidenziato, era inefficace al tempo di ultimazione delle opere di urbanizzazione, pertanto la pretesa restitutoria non può trovare fondamento nella disciplina convenzionale accessiva al piano attuativo del 1990, inefficace da anni rispetto al tempo del pagamento degli oneri e del ritenuto completamento delle opere di urbanizzazione.
Ciò trova conferma nei richiamati principi giurisprudenziale, a mente dei quali le opere previste dalla convenzione di lottizzazione sono strettamente correlate alle esigenze di urbanizzazione dell’area, come stimate al tempo della stipula della convenzione e in relazione al quadro complessivo della disciplina urbanistica a quel tempo vigente.
Ne deriva, come già detto, che l’eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione, eseguite a spese del lottizzante, un carattere satisfattivo dell’obbligazione relativa al pagamento del contributo concessorio, non può vincolare l’Ente oltre il termine di durata della convenzione urbanistica (cfr. Tar Lombardia Milano, sez. II, 29.02.2016, n. 406).
Ecco, allora, che anche la determinazione n. 320 del 28.11.2016 deve essere interpretata alla luce del suo oggettivo contenuto e sulla base dei principi regolatori della materia già richiamati.
Essa, seppure reca il collaudo delle opere eseguite e seppure afferma di “dare esecuzione alla delibera di Consiglio comunale n. 15 del 19.03.1990 di approvazione del PL acquisendo le opere di urbanizzazione eseguite dai lottizzanti in conformità alla convenzione urbanistica”, non può ritenersi una conseguenza degli effetti del piano del 1990, perché ormai definitivamente scaduto.
Piuttosto, con tale provvedimento l’amministrazione ha ritenuto sussistenti le condizioni per svincolare le fideiussioni, evitandone l’incameramento, che pure avrebbe potuto porre in essere, stante la mancata attuazione del piano, compresa l’esecuzione delle opere di urbanizzazione, entro il termine decennale.
La determinazione n. 320/2016 non assume giuridicamente, al di là delle espressioni lessicali utilizzate, la veste di atto posto all’esito della completa attuazione della convenzione urbanistica del 1990, sia perché interviene a piano scaduto ed inefficace da anni, sia perché non è dato sapere se, al di là delle opere di urbanizzazione eseguite, gli interventi di lottizzazione siano stati completati, sia perché, infine, non risulta documentata l’esatta coincidenza tra le opere collaudate e quelle oggetto del piano del 1990.
La sua funzione è solo quella di prendere atto dell’ultimazione e del collaudo delle opere di urbanizzazione concretamente eseguite, al fine di procedere allo svincolo delle garanzie, mentre non integra l’accertamento della corretta attuazione del piano di lottizzazione del 1990, cui si correla, secondo la tesi della ricorrente, la previsione dello scomputo degli oneri di urbanizzazione.
In altri termini, per effetto di tale delibera non rivive la previsione di piano che consentiva lo scomputo degli oneri a fronte della realizzazione delle opere, perché tale previsione è divenuta inefficace in via definitiva –stante la mancanza di proroghe e di nuove convenzioni– per effetto della scadenza del termine decennale di durata del piano del 1990.
Va, pertanto, ribadita l’infondatezza della pretesa restitutoria fondata sull’asserita ultrattività della convenzione urbanistica del 1990, perché tale convenzione ha cessato i propri effetti alla scadenza del decennio ordinario di durata e non è stata prorogata, fermo restando che l’edificazione del Lotto n. 3 da parte di Ve. non è correlata oggettivamente e temporalmente all’attuazione della convenzione del 1990.
...
4) In definitiva, il ricorso è infondato e deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 17.08.2018 n. 2001 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Con riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, salve le “innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”.
Comunque, occorre osservare che il nuovo manufatto se può sottrarsi ai limiti, precedentemente previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma, non di meno anche in tali casi è certamente tenuto al rispetto del limite delle distanze dal confine e/o da altri fabbricati, nel rispetto sia delle norme del codice civile sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica.
In sostanza:
   - nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio perché “coincidente” per tali profili con il manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze (e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa). Ed infatti, “la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse”;
   - invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, come pure consentito dalle norme comunali, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso –quanto alla sua collocazione fisica– rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare –indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme sulle distanze. Ed in questo senso depone altresì la stessa pronuncia n. 237/2017 di questo Tar secondo cui, se non è in discussione la possibilità di modificare la sagoma preesistente nel caso di ristrutturazione, quando l’intervento fuoriesce dall’originario contorno (orizzontale o verticale) ne deve essere verificata la conformità ai parametri fissati dalla normativa urbanistica.
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4.4 Quanto alla dedotta inapplicabilità del regime delle distanze rispetto al progettato intervento di ristrutturazione edilizia, occorre precisare in quali casi di ristrutturazione edilizia è richiesto comunque il rispetto della normativa sulle distanze tra le costruzioni.
Con specifico riferimento alla successione di norme del tempo (per la parte che rileva nella presente sede), occorre ricordare che l’art. 3, co. 1, lett. d), nel suo testo originario, prevedeva che fossero interventi di “ristrutturazione edilizia”, quelli:
   - “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Nel testo originario, erano presenti, due tipologie di ristrutturazione edilizia, identiche quanto alla finale realizzazione di un “organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”, ma distinte dalla presenza (o meno) della demolizione (anche parziale) del fabbricato preesistente. Quest’ultima, ove effettuata, per poter rientrare nel campo della ristrutturazione edilizia (e non già della nuova costruzione), doveva concludersi con la “fedele ricostruzione di un fabbricato identico”, al punto da avere identità di sagoma, volume, area di sedime e, in generale, caratteristiche dei materiali.
Il successivo DPR 27.12.2002 n. 301 ha apportato alla definizione (di cui all’art. 3) alcune modifiche, con il risultato di affermare che, nel caso di demolizione e ricostruzione, per potersi definire l’intervento quale “ristrutturazione edilizia”, lo stesso doveva portare ad un manufatto “con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Come è dato osservare, con il nuovo testo il legislatore ha abbandonato sia lo specifico riferimento alla identità di area di sedime e di caratteristiche dei materiali, sia il più generale concetto di “fedele ricostruzione” (non potendo quest’ultimo, a tutta evidenza, essere più ribadito una volta che non sono più richieste le predette caratteristiche).
Infine, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla disposizione in esame, in particolare con l'art. 30, comma 1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L. 09.08.2013, n. 98.
Attualmente, quindi, sono "interventi di ristrutturazione edilizia" quelli rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Come è dato osservare, con particolare riferimento alla ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto al manufatto demolito, salve le “innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ad eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di quello preesistente”.
Tanto precisato in ordine alla definizione di “ristrutturazione edilizia”, occorre osservare che il nuovo manufatto, se può sottrarsi ai limiti, precedentemente previsti, del rispetto dell’area di sedime e della sagoma, non di meno anche in tali casi è certamente tenuto al rispetto del limite delle distanze dal confine e/o da altri fabbricati, nel rispetto sia delle norme del codice civile sia di quelle previste dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica.
In sostanza:
   - nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio perché “coincidente” per tali profili con il manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo di un precedente manufatto che già non rispettava dette distanze (e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione normativa). Ed infatti (Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017 n. 4337), “la disposizione dell’art. 9 n. 2 D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons. Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze diverse”;
   - invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime, come pure consentito dalle norme innanzi indicate, occorrerà comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio perché esso –quanto alla sua collocazione fisica– rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare –indipendentemente dalla sua qualificazione come ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme sulle distanze. Ed in questo senso depone altresì la stessa pronuncia n. 237/2017, richiamata in atti, di questo Tar secondo cui, se non è in discussione la possibilità di modificare la sagoma preesistente nel caso di ristrutturazione, quando l’intervento fuoriesce dall’originario contorno (orizzontale o verticale) ne deve essere verificata la conformità ai parametri fissati dalla normativa urbanistica.
Al fine della verifica del rispetto delle distanze, secondo i principi innanzi enunciati, mentre non rileva che non vi sia incremento di volumetria, ciò che rileva è che si rispetti l’allineamento della preesistente copertura, e che si sia inteso demolire e ricostruire quella preesistente modificandone la sagoma in altezza, ed incrementando l’ingombro volumetrico tramite innalzamento delle pareti perimetrali.
Non può quindi sostenersi che nel caso di edificio situato nella fascia di rispetto autostradale, devono intendersi precluse solo quelle modifiche che comportano un avvicinamento del fronte al tracciato viario, mentre sono consentiti gli interventi rispettosi del "filo" edilizio preesistente.
La tesi del ricorrente non può essere accolta in quanto urta contro l'inequivoco disposto dell'art. 28 del d.p.r. n. 495 del 1992 il quale vieta l'ampliamento di edifici preesistenti, che siano ubicati nella fascia di rispetto dell'autostrada.
Trattandosi di norma assolutamente cogente, in quanto finalizzata alla tutela del bene primario della sicurezza del traffico, la ristrutturazione progettata dall'appellante -comportando pacificamente una modificazione della sagoma di un edificio che già è sito all'interno della fascia- non poteva quindi essere in alcun modo autorizzata. Di qui l’irrilevanza del motivo con cui si contesta l’assenza di una specifica valutazione del pregiudizio alla circolazione stradale connesso all’ampliamento contestato, stante la natura assoluta del vincolo come sopra enunciata.
Alla luce di quanto esposto, prescindendosi dalla qualificazione giuridica dell’opera, ed anche a voler parlare di ristrutturazione edilizia, va ribadito che le opere in edifici preesistenti costituenti modifiche di sagoma, ampliamenti e sopraelevazioni siano soggette al rispetto delle distanze legali (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 23.07.2018 n. 252 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

UTILITA'

APPALTIORIENTAMENTI IN MATERIA DI APPALTI PUBBLICI PER PROFESSIONISTI (UE, febbraio 2018).
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Il presente documento fornisce istruzioni su come evitare gli errori spesso riscontrati negli appalti pubblici relativi a progetti cofinanziati dai Fondi strutturali e d’investimento europei. L’obiettivo è agevolare l’attuazione dei programmi operativi e incoraggiare l’adozione di buone prassi. Il presente documento non fornisce indicazioni giuridicamente vincolanti ma è finalizzato a fornire raccomandazioni generali e a illustrare le migliori prassi.
I concetti, le idee e le soluzioni proposti nei presenti orientamenti non pregiudicano la legislazione nazionale e dovrebbero essere intesi e possono essere adeguati tenendo conto del quadro giuridico nazionale.
I presenti orientamenti non pregiudicano eventuali interpretazioni che la Commissione possa dare in futuro rispetto a qualsiasi disposizione della legislazione applicabile e non vincolano la Commissione europea.
Soltanto la Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a fornire un’interpretazione vincolante del diritto dell’Unione.

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 21.09.2018 n. 220 "Testo del decreto-legge 25.07.2018, n. 91, coordinato con la legge di conversione 21.09.2018, n. 108, recante: «Proroga di termini previsti da disposizioni legislative»".
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Il Milleproroghe è legge.
Il decreto Milleproroghe (91/2018) è stato approvato dall'aula del Senato con 151 voti a favore, 93 contrari e due astenuti. Il provvedimento, in seconda lettura dopo la fiducia chiesta e ottenuta dal governo alla Camera, non è stato modificato a palazzo Madama. Con la conclusione dell'esame, quindi, è convertito in legge.

Vaccini, scuola, election day delle province, misure per i risparmiatori e per il mercato di luce e gas tra le decine di misure, proroghe tecniche per provvedimenti in scadenza ma anche alcune scelte di taglio politico che hanno creato tensioni anche nella maggioranza e portato ieri alla clamorosa rottura istituzionale con i sindaci dell'Anci sul bando periferie (si veda altro articolo in pagina).
Restando agli enti locali, le elezioni dei presidenti di provincia e dei consigli, il cui mandato sia in scadenza, si svolgeranno in una unica tornata il 31.10.2018. Si prorogano dal 31.12.2018 al 30.06.2019 i termini entro i quali diventa obbligatoria la gestione in forma associata delle funzioni fondamentali dei piccoli comuni (fino a 5 mila abitanti o fino a 3 mila abitanti se appartenenti a comunità montane).
Sarà poi istituito un tavolo tecnico-politico per la redazione di linee guida per l'avvio di un percorso di revisione organica della disciplina in materia di ordinamento delle province e città metropolitane (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 21.09.2018, "Sesto aggiornamento 2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 13.09.2018 n. 12950).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 14.09.2018 n. 214, suppl. ord. 41, "Ruoli del personale militare collocato in ausiliaria".
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Militari in aiuto degli enti locali. Nella p.a. il personale in ausiliaria della Difesa.  In G.U. l’elenco dei 5 mila nominativi che potranno essere prestati a regioni e municipi.
Le pubbliche amministrazioni (nazionali e locali) potranno attingere al personale della Difesa in ausiliaria, a costo zero, per sopperire ad eventuali carenze di organico o alla necessità di figure professionali altamente specializzate. Se per esempio un comune ha bisogno di un ingegnere specializzato o di un informatico potrà contattare direttamente la direzione del personale militare, chiedere se tra le Forze armate ci sono professionisti in ausiliaria residenti presso il comune stesso e chiamarli in supporto dell'amministrazione per cinque anni a costo zero, visto che il professionista non sarà a libro paga del comune ma del ministero della difesa.
Per le p.a. e gli enti locali si tratta di una chance sempre esistita ma mai sufficientemente sfruttata che ora si concretizza grazie all'iniziativa del ministro della difesa, Elisabetta Trenta di pubblicare in Gazzetta Ufficiale l'elenco dei militari in ausiliaria presso cui gli enti pubblici potranno attingere. L'elenco, che conta circa 5 mila nomi tra militari cessati in modo permanente dal rapporto di impiego e altri al congedo in riserva, è stato pubblicato sul Supplemento ordinario n. 41 alla Gazzetta Ufficiale n. 214 del 14.09.2018.
L'istituto dell'ausiliaria è un periodo transitorio durante il quale il militare non più in servizio attivo per età o per altra causa può essere destinato, in caso di bisogno, a speciali servizi ausiliari. Nel caso di specie, i militari potranno essere richiamati dagli enti pubblici della provincia di residenza per un periodo di cinque anni. Questo senza alcun costo supplementare per la pubblica amministrazione, in quanto il militare in ausiliaria continuerà ad essere pagato dal ministero della Difesa.
«Si tratta di uno strumento che è sempre esistito, ma che la Difesa, nei governi che si sono susseguiti fino ad oggi, non ha mai saputo mettere a disposizione dei comuni o delle regioni», ha sottolineato il ministro Trenta.
«È un passo avanti verso il cambiamento per cui non chiediamo alcun applauso», ha proseguito il ministro, «poiché non solo rientra nei doveri del ministero che guido, ma soprattutto perché è coerente con quanto avanzato dal M5S il 30.07.2015 attraverso l'interrogazione parlamentare degli allora senatori Marton, Crimi e Santangelo.
Allora ci chiedevamo perché questo strumento fosse disatteso. Oggi lo abbiamo messo finalmente a sistema, andando a sostenere anche centinaia di comuni che, privi dei piani di emergenza per pubbliche calamità, potranno dunque avvalersi di queste pregiate professionalità»
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2018).

ENTI LOCALI: G.U. 11.09.2018 n. 211 "Riforma dell’attuazione della direttiva (UE) 2016/2102 relativa all’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli enti pubblici" (D.Lgs. 10.08.2018 n. 106).

APPALTI SERVIZI: G.U. 10.09.2018 n. 210 "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 03.07.2017, n. 117, recante: «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b) , della legge 06.06.2016, n. 106»" (D.Lgs. 03.08.2018 n. 105).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 36 n. 05.09.2018, "Direzione generale Territorio e protezione civile - Avviso pubblico per l’acquisizione di disponibilità al conferimento dell’incarico di esperto da nominare nella «Commissione regionale in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche»" (comunicato regionale 30.08.2018 n. 124).

ATTI AMMINISTRATIVI: G.U. 04.09.2018 n. 205 "Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)" (D.Lgs. 10.08.2018 n. 101).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria 32 del 07.08.2018, "Integrazioni alle disposizioni regionali concernenti l’attuazione del Piano di Gestione dei Rischi di Alluvione (PGRA) nel settore urbanistico e di pianificazione dell’emergenza, di cui alla d.g.r. 19.06.2017 – n. X/6738" (deliberazione G.R. 02.08.2018 n. 470).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Applicazione dei principi della l.r. 12/2005 in materia di attrezzature per i servizi religiosi (Regione Lombardia, nota 18.09.2018 n. 21624 di prot.).

APPALTIOggetto: Interpello ai sensi dell’articolo 9 del d.lgs. 23.04.2004, n. 124. Applicazione dell’articolo 2 del decreto-legge 17.03.2017, n. 25, con riguardo all’istituzione di metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti di servizi, individuate all’interno di forme di contrattazione collettiva ai sensi dell’articolo 29, comma 2, del decreto legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive modificazioni (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, interpello 13.09.2018 n. 5/2018).

PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Chiarimenti sull’assoggettabilità contributiva ai fini pensionistici e dei trattamenti di fine servizio della voce retributiva “elemento perequativo”, prevista nei CCNL dei dipendenti pubblici triennio 2016-2018 (INPS, messaggio 30.08.2018 n. 3224 - link a www.inps.it).

PUBBLICO IMPIEGOOGGETTO: Rimborso delle spese sostenute dai Comuni per la corresponsione al personale della polizia municipale dell’equo indennizzo e del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio (Ministero dell'Interno, nota 23.08.2018 n. 97420690584 di prot.).

INCARICHI PROFESSIONALIAffidamento incarichi legali da parte degli enti pubblici (Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti, nota 23.08.2018 n. 14/2018 di prot.).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

INCARICHI PROFESSIONALIAffidamento dei servizi legali, il parere del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato sulle disposizioni applicabili agli appalti legali e sulle procedure per la scelta della PA del professionista legale (05.09.2018 - link a www.giurdanella.it).

A.N.AC.

APPALTI SERVIZIRichiesta di parere al Consiglio di Stato sulla normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali alla luce del d.lgs. 18/04/2016 n. 50 e del d.lgs. 03/07/2017 n. 117 (21.09.2018 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTILinee guida n. 4 - Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici - Aggiornamento faq (12.09.2018 - link a www.anticorruzione.it).
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Pubblicate le faq nn. 5 e 6, esplicative degli argomenti di cui ai paragrafi 3.6, 3.7 e 5.1.10 delle linee guida n. 4 - Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici.
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Stazioni appaltanti: on-line elenco concorrenti da invitare. Appalti, contraenti a rotazione.
Il contraente uscente di un appalto non è legittimo che sia invitato ad una procedura negoziata, anche in caso di estrazione per sorteggio; in caso di esiguo numero di concorrenti operanti sul mercato legittimo non fare riferimento agli elenchi ma occorre comunque effettuare una indagine di mercato con avviso o ricorso ad elenchi di altre stazioni appaltanti.

E' quanto ha chiarito l'Anac con la pubblicazione, avvenuta il 12 settembre, delle Faq numero 5 e 6 esplicative sulle linee guida n. 4 sugli affidamenti sotto-soglia Ue, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici.
Il primo punto esaminato dall'Anac riguarda il sorteggio e il fatto che fra i sorteggiati possa capitare il contraente uscente. La materia è trattata nell'ambito della disciplina applicativa del principio di rotazione. Il principio di rotazione degli affidamenti e degli inviti si applica, ha detto l'Anac nelle linee guida, «con riferimento all'affidamento immediatamente precedente a quello di cui si tratti, nei casi in cui i due affidamenti, quello precedente e quello attuale, abbiano ad oggetto una commessa rientrante nello stesso settore merceologico, ovvero nella stessa categoria di opere, ovvero ancora nello stesso settore di servizi».
Rimane invece «eccezionale» e deve essere adeguatamente motivato con riguardo a determinate fattispecie di particolare specialità e eccezionalità, il re-invito del contraente uscente. Ciò premesso nelle Faq, l'Autorità si pone il problema se sia legittimo nelle procedure negoziate invitare di nuovo l'operatore uscente che abbia manifestato interesse alla candidatura a seguito di avviso pubblico e sia stato poi estratto tramite sorteggio con estrazione casuale. A tale quesito viene però data risposta negativa: «il meccanismo dell'estrazione casuale, sia pure a seguito di avviso pubblico, non assicura il rispetto del principio di rotazione, come declinato all'articolo 36, primo comma del codice dei contratti pubblici, novellato dal decreto legislativo 19.04.2017, n. 56. Tale disposizione rende doverosa la rotazione tanto in relazione agli affidamenti quanto agli inviti».
Un secondo punto chiarito nelle Faq pubblicate nei giorni scorsi attiene alla pubblicazione degli elenchi degli operatori economici utilizzati per la selezione degli operatori economici da invitare alle procedure negoziate. Le linee guida prevedono che vengano pubblicati sul sito web della stazione appaltante, non appena costituiti.
La fattispecie esaminata e sulla quale si esprime l'Anac attiene alla legittimità della previsione di un bando in cui si omette la pubblicazione dell'elenco nel presupposto che, per le condizioni del mercato locale, sia prevedibile che un ridotto numero di operatori economici faccia domanda di iscrizione. Richiamato lo scopo della previsione (rispetto dei generali principi di pubblicità e trasparenza dei procedimenti di selezione del contraente), l'Anac però nota anche che «nelle ipotesi in cui gli operatori economici accreditati presso la stazione appaltante procedente siano esigui in relazione al settore merceologico di riferimento, la pubblicazione preventiva degli elenchi potrebbe favorire l'insorgenza di accordi collusivi».
Inoltre, ha detto l'Anac, non è legittimo segretare i nominativi dei partecipanti nel caso in cui si preveda un ridotto numero di operatori economici interessati all'iscrizione all'elenco. L'Anac ha suggerito pertanto di fare ricorso non agli elenchi «ma a successive indagini di mercato, mediante avviso pubblicato sul sito web, o alla costituzione di elenchi di operatori economici congiuntamente con altre stazioni appaltanti che hanno analoghi fabbisogni da soddisfare in modo da aumentare il numero di operatori economici potenzialmente interessati a essere iscritti» (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

APPALTIAffidamenti sottosoglia, il sorteggio degli operatori non garantisce la rotazione.
L'estrazione casuale da un elenco di operatori economici non assicura il rispetto del principio di rotazione, che, per essere derogato, deve essere sempre sostenuto da un'articolata motivazione.

L'Autorità nazionale anticorruzione ha pubblicato le nuove Faq n. 5 e 6 nella sezione dedicata a risolvere i dubbi interpretativi sull'applicazione delle linee guida n. 4 alle procedure per affidamenti sottosoglia.
Il sorteggio con estrazione casuale
Il primo elemento analizzato riguarda un quesito sulla legittimità del reinvito nelle procedure previste dall'articolo 36 del codice all'operatore uscente, che abbia manifestato interesse alla candidatura a seguito di avviso pubblico e sia stato poi estratto tramite sorteggio con estrazione casuale.
L'Anac, richiamando il paragrafo 3.7 delle linee guida n. 4, chiarisce che il reinvito all'operatore uscente costituisce ipotesi di stretta eccezionalità, ammissibile solo se ci sono condizioni di mercato particolari, se l'operatore economico ha svolto bene il suo precedente appalto e se lo stesso risulta comunque con prezzi convenienti.
Secondo l'Autorità, il meccanismo dell'estrazione casuale, sia pure a seguito di avviso pubblico, non assicura il rispetto del principio di rotazione, come declinato all'articolo 36, primo comma del codice dei contratti pubblici, in quanto la disposizione rende doverosa la rotazione tanto in relazione agli affidamenti che agli inviti.
Principi di pubblicità e trasparenza
Il secondo tema preso in esame riguarda gli elenchi di operatori economici costituiti dalle stazioni appaltanti rispetto ai quali un'amministrazione chiede se è legittimo prevedere nell'avviso l'omissione della loro pubblicazione, nei casi in cui, per le condizioni del mercato locale, sia prevedibile che un ridotto numero di operatori economici faccia domanda di iscrizione. L'Anac evidenzia come la disposizione del paragrafo 5.1.10 delle linee guida n. 4 sia finalizzata ad attuare il rispetto dei generali principi di pubblicità e trasparenza dei procedimenti di selezione del contraente, in armonia con quanto stabilito dal Dlgs 33/2013 e dall'articolo 29 del Dlgs 50/2016.
L'autorità riconosce che, nelle ipotesi in cui gli operatori economici accreditati presso la stazione appaltante procedente siano esigui in relazione al settore merceologico di riferimento, la pubblicazione preventiva degli elenchi potrebbe favorire l'insorgenza di accordi collusivi. Essa, tuttavia, chiarisce che nel caso in cui la stazione appaltante preveda un ridotto numero di operatori economici interessati all'iscrizione all'elenco non è corretto prevedere nel bando la segretazione del nominativo dei partecipanti.
In tali casi l'Anac suggerisce di fare ricorso non agli elenchi, ma a successive indagini di mercato, mediante avviso pubblicato sul sito web, o alla costituzione di elenchi di operatori economici congiuntamente con altre stazioni appaltanti che hanno analoghi fabbisogni da soddisfare in modo da aumentare il numero di operatori economici potenzialmente interessati ad essere iscritti.
La presenza di un numero ridotto di operatori accreditati, infatti, può rappresentare, a prescindere dalla pubblicazione dell'elenco, un fattore di criticità nella gestione delle procedure negoziate, specie ove si consideri che gli elenchi hanno una naturale vocazione all'utilizzo in un arco pluriennale di tempo e che, pertanto, i nominativi degli iscritti potrebbero essere noti anche in assenza della stessa pubblicazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.09.2018).

APPALTIBando-tipo n. 1 - Disciplinare di gara a procedura aperta per l’affidamento di contratti pubblici di servizi e forniture nei settori ordinari sopra soglia comunitaria con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo – Chiarimento (delibera 05.09.2018 n. 767 - link a www.anticorruzione.it).

PUBBLICO IMPIEGOIndicazioni per la miglior gestione delle segnalazioni di illeciti o irregolarità effettuate dai dipendenti pubblici nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 54-bis,del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165 (c.d. whistleblowers) (Comunicato del Presidente del 05.09.2018 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTIImprese aggregate, serve delegato al sopralluogo. Deliberazione dell’Anac sull’obbligo inserito in un bando.
In caso di raggruppamento non costituito tutte le imprese devono delegare uno dei soggetti raggruppati o un soggetto esterno a effettuare il sopralluogo.
È quanto ha stabilito l'Anac con il Parere di Precontenzioso 31.07.2018 n. 714 - rif. PREC 115/18/L su una vicenda relativa a una fattispecie in cui un concorrente era stato escluso dalla procedura di gara per aver effettuato il sopralluogo obbligatorio esclusivamente in nome proprio e non anche in nome e per conto della mandante.
Il concorrente che ha chiesto all'Anac il pronunciamento sosteneva che il disciplinare di gara stabiliva soltanto l'obbligo per ciascun partecipante, pena l'esclusione, di effettuare il sopralluogo, senza ulteriori specificazioni per il caso di raggruppamenti di concorrenti.
L'esclusione sarebbe stata quindi illegittima in quanto contraria all'art. 83, comma 8, del dlgs 50/2016 e al principio del favor partecipationis che impone, in presenza di clausole del bando non chiare, un'interpretazione non restrittiva, che avrebbe dovuto condurre a ritenere sufficiente, ai fini dell'ammissione alla gara, la produzione dell'attestazione di sopralluogo a nome della sola impresa mandataria.
Nel parere l'Anac, dopo avere evidenziato che l'obbligo di sopralluogo inserito negli atti di gara riguardava un'attività strumentale necessaria a consentire alle imprese partecipanti di valutare la prestazione richiesta e di formulare un'offerta seria, attendibile e consapevole, ha chiarito che le prescrizioni contenute nel disciplinare di gara apparivano chiare e puntuali nello stabilire gli oneri relativi al sopralluogo in caso di raggruppamento temporaneo non ancora costituito. Pertanto non si potevano richiamare i precedenti, pure esistenti, riferiti a casi nei quali le prescrizioni del bando erano lacunose o non chiare.
In particolare, il disciplinare prevedeva che il sopralluogo poteva «essere effettuato da uno degli operatori economici raggruppati, aggregati in rete o consorziati, purché munito delle deleghe di tutti i suddetti operatori» e che «i soggetti che effettueranno il sopralluogo in rappresentanza di raggruppamento temporaneo, Geie, aggregazione di imprese di rete o consorzio ordinario, sia già costituiti che non ancora costituiti, dovranno essere muniti delle deleghe di tutti i componenti redatte su carta intestata delle aziende medesime e sottoscritte con timbro e firma in originale dai rispettivi legali rappresentanti».
Ciò premesso, il parere ha affermato che la giurisprudenza ha più volte chiarito che l'obbligo di eseguire il sopralluogo non può che riferirsi a ciascun soggetto che costituirà il raggruppamento temporaneo di concorrenti e l'attestato di sopralluogo, la cui mancanza determina l'esclusione dalla gara, deve riferirsi a tutte le imprese partecipanti. Nel caso degli Rti costituendi in particolare, poiché il raggruppamento giuridicamente ancora non esiste, non essendo stato costituito, è necessario che ciascuna ditta sottoscriva le offerte e i documenti che ne fanno parte.
Tale impostazione è stata ribadita dall'Autorità con il Bando-tipo n. 1 e n. 2 dove si prevede che, in caso di Rti costituendo, il sopralluogo può essere effettuato da un rappresentante di uno dei soggetti raggruppati o da soggetto diverso, purché munito della delega di tutti detti operatori, cosa non avvenuta nel caso specifico che può essere oggetto di soccorso istruttorio per sanare le attestazioni di sopralluogo irregolari (articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).

QUESITI & PARERI

ATTI AMMINISTRATIVI: La firma digitale.
DOMANDA:
In attesa della firma digitale per tutti i cittadini si pensava di utilizzare la firma crittografica per la sottoscrizione di scritture private, quali ad esempio le concessioni cimiteriali o le concessioni di occupazione suolo pubblico (solo per citarne alcuni. In particolare, premesso che abbiamo installato un dispositivo di firma Wacon, chiedo di conoscere: Avremmo, però, la necessità di sciogliere alcuni dubbi prima di procedere fattivamente:
   1) Prima dell’acquisizione delle eventuali firme autografe da parte dei cittadini l’ente si trova nella necessità di dover informare in forma scritta i futuri sottoscrittori e di acquisirne un’autorizzazione sottoscritta per la gestione a norma Privacy? Come avviene per gli istituti di credito? A questo punto però, se così fosse, non avrebbe senso digitalizzare con conseguente duplicazione di atti e adempimenti, tenuto conto che per la maggior parte, chi sottoscrive concessioni cimiteriali lo fa una volta per trent’anni?
   2) Un documento può essere sottoscritto in parte con firma crittografica (cioè l'utente non ancora in possesso di firma digitale) e firma digitale (responsabile del servizio in possesso di firma digitale)?
RISPOSTA:
Il quesito in oggetto riguarda la firma crittografica. In particolare, dato che non tutti i cittadini sono in possesso della firma digitale, il Comune intende utilizzare la firma crittografica per la sottoscrizione di scritture private, ad esempio quelle relative alle concessioni cimiteriali o alle concessioni di occupazione suolo pubblico, e, a tal fine, ha installato un dispositivo di firma Wacon.
La questione principale sottesa al quesito è se, prima dell’acquisizione di eventuali firme, l’ente debba informare per iscritto i futuri sottoscrittori e acquisirne un’autorizzazione nel rispetto della normativa sulla privacy e se, in tal caso, non abbia più senso digitalizzare la procedura.
In effetti, pur essendo necessaria la c.d. verifica preliminare all’apposizione della sottoscrizione per motivi di privacy, non sembra abbia senso, almeno per il momento, digitalizzare le procedure che avete riportato come esempi dell’ambito di utilizzo della firma crittografica. Visto il ridotto numero di soggetti coinvolti nelle suddette procedure e la sporadicità delle stesse, infatti, è probabile che la digitalizzazione comporterebbe una complicazione e non un efficientamento per l’amministrazione.
Resta ferma la necessità per il Comune, in generale, di adeguarsi agli obblighi derivanti dalla normativa in tema di digitalizzazione. Una volta provveduto alla nomina del Responsabile per la gestione documentale e all’adozione di un Manuale per la gestione documentale, si tratterà di individuare quali siano i documenti e i procedimenti da digitalizzare (e con quali modalità) e quali siano destinati, almeno in una prima fase, a rimanere cartacei.
Con riguardo alla seconda questione, ossia se un documento possa essere sottoscritto in parte con firma crittografica (cioè l'utente non in possesso di firma digitale) e in parte con firma digitale (responsabile del servizio in possesso di firma digitale), la risposta è positiva derivando l’efficacia giuridica di un documento dalla validità della sua firma, in qualunque modo essa sia apposta.
Con riferimento alla tipologia di firma, bisognerà verificare -in concreto- la tipologia di atto da sottoscrivere per verificare se sia sufficiente quella che viene definita firma crittografica (senza specificare se sia una firma elettronica semplice o avanzata) oppure sia necessaria la firma digitale (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTI FORNITURE: Gli acquisti.
DOMANDA:
Dalle tabelle consip emerge che per gli acquisti informatici degli enti locali è possibile utilizzare il Mepa (strumenti di acquisto.. messi a disposizione da Consip ecc.). Si chiede se sia sufficiente procedere con rdo o gara secondo gli importi sul Mepa.
Per quanto riguarda le convenzioni Consip su prodotti diversi da forniture specifiche (carburanti, energia ecc) ad esempio efficientamento pubblica illuminazione si chiede se sia possibile aderire con eventuale personalizzazione senza procedere a nuova gara.
RISPOSTA:
   - Va ricordato che sul Mercato Elettronico della PA (MEPA) le Amministrazioni possono acquistare beni o servizi di valore inferiore alla soglia comunitaria tramite due alternativi canali d’acquisto e cioè o tramite Ordini Diretti d’Acquisto (ODA) o tramite Richieste di Offerta (RDO);
   - Con gli ODA, l’Amministrazione acquista il bene/servizio direttamente dal Catalogo del fornitore abilitato, compilando e firmando digitalmente l’apposito modulo d’ordine presente sul Portale;
   - Se procede con l’Ordine Diretto questo ha l’efficacia di accettazione dell’offerta contenuta nel Catalogo del fornitore, e quindi il contratto di fornitura si perfeziona nel momento in cui l’Ordine viene ricevuto e registrato nel sistema dall’Amministrazione;
   - La trattativa diretta si configura in sostanza come una modalità di negoziazione, semplificata rispetto alla tradizionale RDO, rivolta ad un unico operatore economico;
   - Tale trattativa può essere peraltro avviata da un’offerta a catalogo o da un oggetto generico di fornitura (metaprodotto) presente nella vetrina della specifica iniziativa merceologica;
   - Quindi non sussistendo l’esigenza di garantire pluralità di partecipazione, tale sistema non presenta le usuali e tipiche richieste di informative (criterio di aggiudicazione, parametri di peso/punteggio, invito dei fornitori, gestione dei chiarimenti, gestione delle Buste di Offerta, fasi di aggiudicazione), essendo indirizzata ad un unico Fornitore (dal punto di vista normativo il fondamento va individuato nella disciplina dell’affidamento diretto, con procedura negoziata di cui ai sensi dell’art. 36, comma 2, lettera A), del codice dei contratti pubblici e della procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando, con un solo operatore economico, di cui all’art. 63 d.lgs. 50/2016 (per importi fino al limite della soglia comunitaria nel caso di beni e servizi, per importi fino a 1 milione di € nel caso di lavori di manutenzione);
   - Con le Richieste d’Offerta (RDO), invece, l’Amministrazione individua e descrive i beni/servizi che intende acquistare, invitando i fornitori abilitati a presentare le specifiche offerte che saranno oggetto di confronto concorrenziale;
   - Il sistema predispone automaticamente una graduatoria delle offerte ricevute sulla base dei criteri di valutazione scelti dall'Amministrazione appaltante, che aggiudicherà la fornitura all'offerta risultata prima in graduatoria (in particolare ai sensi dell’art. 52 delle Regole di E-procurement della PA (disponibili sul Portale www.acquistinretepa.it), il Contratto di fornitura che segue ad una RDO si intende validamente perfezionato nel momento in cui il Documento di Accettazione dell’Offerta, sottoscritto digitalmente, risulta caricato a sistema dall’ente aggiudicatore;
   - Per quanto attiene all'altra problematica posta relativa all'efficientamento del servizio di pubblica illuminazione si rileva che, come osservato dall'ANAC, con il Comunicato del Presidente del 14.12.2016, trattasi di un servizio pubblico locale avente rilevanza economica ed il cui affidamento, come tale, risulta assoggettato alla disciplina comunitaria, mediante procedure ad evidenza pubblica (cd. esternalizzazione), attraverso l’appalto di lavori e/o servizi, la concessione di servizi con la componente lavori, il project financing ovvero il finanziamento tramite terzi (FTT);
   - Resta salvo l’affidamento ad una società mista pubblico-privata, nonché l’affidamento diretto a società a totale capitale pubblico corrispondente al modello cd. in house providing;
   - Inoltre, la scelta sulla gestione del servizio di pubblica illuminazione deve essere preceduta dalla pubblicazione della relazione di cui all’art. 34, comma 20, del D.L. 179/2012, da cui risultino le ragioni della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la forma di affidamento prescelta” (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

APPALTIComunicazioni ex art 76 e procedure telematiche.
Domanda
Nel caso di gare mediante piattaforme telematiche è possibile utilizzare le aree specifiche dei sistemi stessi anche per le comunicazioni di aggiudicazione ai sensi dell’art. 76, comma 5, del Codice?
Risposta
L’art. 76, co. 5, lett. a) del codice stabilisce che “Le stazioni appaltanti comunicano d’ufficio immediatamente e comunque entro un termine non superiore a cinque giorni:
   a) l’aggiudicazione, all’aggiudicatario, al concorrente che segue nella graduatoria, a tutti i candidati [rectius: a tutti gli offerenti] che hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso l’esclusione o sono in termini per presentare impugnazione, nonché a coloro che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se tali impugnazioni non siano state respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva;
   b) […]
”.
Al comma 6, si precisa “Le comunicazioni di cui al comma 5 sono fatte mediante posta elettronica certificata o strumento analogo negli altri Stati membri. Le comunicazioni di cui al comma 5, lettere a) e b), indicano la data di scadenza del termine dilatorio per la stipulazione del contratto”.
Si ritiene che al fine di utilizzare le corrispondenti aree dedicate alle comunicazioni delle piattaforme telematiche, sia opportuno specificarlo nel disciplinare di gara o lettera d’invito, ovvero prevedere espressamente che attraverso il sistema telematico verranno gestite tutte le fasi della procedura, tra cui le comunicazioni e gli scambi di informazioni, comprese le comunicazioni di esclusione e quelle di cui all’art. 76 del d.lgs. 50/2016, da rendersi, appunto, attraverso l’apposita area dello strumento telematico utilizzato. Analoga dichiarazione dovrà essere richiesta all’operatore in sede di affidamento, integrando opportunamente i modelli di gara.
Si suggerisce, tuttavia, nel caso di procedure di importo elevato, ferma restando la validità di tale forma (cfr. sentenza TAR Lazio, Roma, sez. II 19.07.2018), di effettuare la comunicazione di aggiudicazione di cui all’art. 76, comma 5, del codice anche a mezzo PEC, al fine di cristallizzare la decorrenza dei termini per la presentazione del ricorso (26.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGO: RPCT e valutazione conflitto d’interessi.
Domanda
È pervenuta agli uffici del responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza la comunicazione di un dipendente –responsabile di procedimento– che, dichiarando di trovarsi in una situazione di conflitto di interessi, chiede se debba proseguire nella sua attività istruttoria.
Spetta al RPCT esprimersi sulla richiesta?
Risposta
In virtù del nuovo art. 6-bis, della legge 07.08.990, n. 241, così come introdotto dalla legge 06.11.2012, n. 190, i dipendenti pubblici, ai quali è attribuita la responsabilità di procedimento o la titolarità di uffici competenti ad adottare pareri, valutazioni tecniche, atti endoprocedimentali e provvedimenti finali devono astenersi in caso di conflitto di interessi, segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale.
Il principio generale trova ulteriore dettaglio nelle disposizioni del Codice di comportamento nazionale, DPR 16.04.2013, n. 62, laddove, all’art. 7 è specificato che “il dipendente si astiene dal partecipare all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui esistano gravi ragioni di convenienza. Sull’astensione decide il responsabile dell’ufficio di appartenenza”.
La segnalazione del conflitto deve, quindi, essere indirizzata al dirigente (è consigliabile via e-mail), il quale, esaminate le circostanze, valuta se la situazione realizza un conflitto di interesse idoneo a ledere l’imparzialità dell’agire amministrativo. Il dirigente destinatario della segnalazione deve valutare espressamente la situazione sottoposta alla sua attenzione e deve rispondere per iscritto al dipendente medesimo, sollevandolo dall’incarico oppure motivando espressamente le ragioni che consentono, comunque, l’espletamento dell’attività da parte del dipendente.
La violazione delle disposizioni, che si realizza con il compimento di un atto illegittimo, dà luogo –come disposto dal DPR 62/2013– a responsabilità disciplinare del dipendente, suscettibile di essere punita con l’irrogazione di sanzioni all’esito del relativo procedimento, oltre a costituire fonte di illegittimità del procedimento e del provvedimento conclusivo dello stesso.
Il quadro normativo è pertanto chiaro: il Responsabile della prevenzione della corruzione della trasparenza non ha alcun compito specifico nell’ambito della procedura di verifica di eventuali situazioni di conflitto di interesse che possano interessare dipendenti dell’Ente, sempre che il Codice di comportamento interno dell’Ente non preveda diversamente. Ogni pubblica amministrazione infatti, nell’adottare gli atti integrativi al Codice nazionale di comportamento, potrebbe aver previsto procedure specifiche a cui sarebbe pertanto necessario conformarsi.
Alla luce di quanto sopra illustrato, si ritiene che il RPCT debba inoltrare la richiesta al dirigente di riferimento, competente ad esprimersi sull’ipotetico conflitto di interesse, auspicando, ad ogni modo, una piena collaborazione dello stesso nella risoluzione della questione sottoposta.
La valutazione del caso concreto, e la seguente risposta al dipendente, spetterà, invece allo stesso RPCT, incarico “di norma” rivestito dal Segretario Generale, nei casi in cui:
   1. la comunicazione pervenga da un titolare di posizione organizzativa, negli Enti privi di dirigenza;
   2. la comunicazione pervenga da un dirigente, sempre che la funzione non sia non sia attribuita espressamente, all’interno del codice di Comportamento dell’Ente, al dirigente sovraordinato o al Direttore Generale, ove esistente;
   3. la comunicazione pervenga da un dirigente apicale o dal Direttore Generale (25.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

TRIBUTINotifiche avvisi accertamento PEC.
Domanda
È possibile effettuare, da parte dell’ufficio tributi, la notifica degli avvisi di accertamento a mezzo posta elettronica certificata (PEC)?
Risposta
Occorre premettere che nel nostro ordinamento giuridico ci sono diverse disposizioni che consentono di effettuare la notifica a mezzo posta elettronica certificata (PEC).
La prima, di carattere generale, è contenuta nel codice di procedura civile. Si tratta dell’art. 149-bis del c.p.c. (disposizione introdotta nel 2010) che consente di effettuare la notifica a mezzo PEC, ma impone l’utilizzo dell’agente notificatore, quindi l’ufficio non può procedere direttamente nei confronti del contribuente.
La seconda, di carattere settoriale, è contenuta nell’art. 26 del Dpr 602/1973 e riguarda la notifica a mezzo PEC o con raccomandata AR della cartella di pagamento (la c.d. cartella esattoriale emessa da Equitalia, ora Agenzia delle Entrate-Riscossione).
Una terza disposizione, anch’essa di carattere settoriale, riguarda la notifica a mezzo PEC dei verbali al codice della strada ed è contenuta nell’art. 20 del d.l. 69/2013 conv. L. 98/2013, la cui attuazione è rimessa ad un decreto ministeriale, adottato solo recentemente (si veda il DM Interno del 20/2/2018).
Per quanto riguarda i tributi locali, il comma 161 della legge n. 296/2006 consente di effettuare la notifica degli avvisi di accertamento “anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento”. E’ quindi possibile notificare gli avvisi di accertamento dei tributi comunali con semplice raccomandata a.r. (busta bianca), in alternativa alla notifica a mezzo posta prevista per gli atti giudiziari (ex legge 20/11/1982 n. 890) effettuata con la busta verde.
Per quanto riguarda la notifica degli avvisi di accertamento a mezzo PEC, inizialmente la giurisprudenza si è mostrata piuttosto oscillante, in parte contraria (cfr. CTP di Milano n. 6087/2014), in parte favorevole (cfr. CTP Matera n. 447/2015, CTP Bergamo n. 16672016).
Poi nel 2016 è stata introdotta una disposizione che consente di effettuare la notifica degli atti tributari a mezzo PEC, a partire dal 01.07.2017. Si tratta dell’art. 7-quater commi da 6 a 8 del D.L. 193/2016 conv. L. 225/2016, norma tuttavia non riferita espressamente ai tributi locali trattandosi di un’integrazione all’art. 60 del DPR 600/1973, riguardante la notifica degli atti di accertamento delle imposte sui redditi. Risulta quindi dubbia la possibilità di effettuare la notifica a mezzo PEC per gli avvisi di accertamento dei tributi locali.
La questione è stata recentemente risolta dal d.lgs. n. 217 del 13/12/2017 (art. 7, comma 1-quater), in vigore dal 27.01.2018, secondo cui “I soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, notificano direttamente presso i domicili digitali di cui all’articolo 3-bis i propri atti, compresi i verbali relativi alle sanzioni amministrative, gli atti impositivi di accertamento e di riscossione e le ingiunzioni di cui all’articolo 2 del regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, fatte salve le specifiche disposizioni in ambito tributario. La conformità della copia informatica del documento notificato all’originale è attestata dal responsabile del procedimento in conformità a quanto disposto agli articoli 22 e 23-bis”.
La norma consente pertanto di notificare gli atti di accertamento e le ingiunzioni fiscali a mezzo PEC e quindi la risposta al quesito è positiva. In ordine al procedimento da seguire, va evidenziato in particolare che la relata di notifica, creata con word, open office, ecc., deve essere trasformata, senza scansione, direttamente in PDF testo e firmata digitalmente. Un’altra regola da osservare riguarda la questione degli allegati al messaggio.
Per essere valido, l’allegato deve essere firmato digitalmente e avere un’estensione del file p7m. Infine, la notifica via PEC può dirsi perfezionata per il soggetto notificante nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dall’articolo 6, comma 1, del D.P.R. 11.02.2005, n. 68, mentre, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’articolo 6, comma 2, del D.P.R. n. 68/2005 (art. 3-bis, comma 3, della L. 53/1994) (24.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Gruppi, decidono gli enti. Se possano essere costituiti da un consigliere. La materia è interamente demandata all’autonomia comunale.
La disciplina prevista dal regolamento sul funzionamento del consiglio comunale può condizionare la possibilità di costituire il gruppo misto alla circostanza che lo stesso sia composto da almeno due consiglieri, con ciò impedendo la formazione del gruppo misto monopersonale?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei singoli enti locali.
In materia, il ministero dell'interno ha già avuto modo di esprimere l'orientamento, peraltro confermato, secondo cui, «in assenza di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe accedere a un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire a un gruppo consiliare».
Nel caso di specie, però, il regolamento del consiglio comunale vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto unipersonale e, pertanto, va da sé che l'avviso espresso in altra circostanza non può essere adattato al diverso contesto normativo in vigore nel comune in oggetto.
In merito, appare utile richiamare le osservazioni formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle quali, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non previo ritiro.
Pertanto, poiché la materia dei gruppi consiliari è interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite modifiche alla normativa in questione
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

PUBBLICO IM PIEGOStaff sindaco ed esonero timbratura.
Domanda
Il sindaco ha istituito un ufficio di staff composto da una sola unità a 18 ore settimanale cat. C1. La persona incaricata chiede se può essere esonerata dall’obbligo di timbratura in quanto il suo impegno con il sindaco la occupa ben oltre le 18 ore e, comunque, molto spesso è impossibilitata logisticamente ad eseguire la timbratura.
Questo esonero può essere concesso?
Risposta
In riferimento alla questione posta ci sono due aspetti di cui tenere conto.
Il primo riguarda l’art. 53, comma 11, del CCNL del 21.05.2018 dove si precisa che: “La costituzione del rapporto a tempo parziale avviene con contratto di lavoro stipulato in forma scritta e con l’indicazione della data di inizio del rapporto di lavoro, della durata della prestazione lavorativa nonché della collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno e del relativo trattamento economico. Quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni, l’indicazione dell’orario di lavoro può avvenire anche mediante rinvio a turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite
La collocazione temporale dell’orario di lavoro, con riferimento al giorno, rimanda alla definizione di un orario teorico di lavoro da rispettare in determinate fasce orarie.
Non è escluso che anche ai part-time sia legittimato l’esercizio di ampia flessibilità, ma questo a condizione che l’ente lo abbia regolamentato e, alla luce delle nuove relazioni sindacali, la disciplina della flessibilità va definita in sede di contrattazione decentrata.
Questo aspetto ha a che fare con lo spazio di flessibilità oraria che va accordato alle figure di staff del sindaco, in ragione di diverse e impreviste esigenze che si possono configurare di presenza in servizio.
Il secondo aspetto, quello più rilevante ai fini della domanda, riguarda l’obbligo di timbratura.
Il cartellino segnatempo è l’unico mezzo per accertare la presenza del lavoratore in ufficio e la presenza nel luogo di lavoro è il parametro cui ancorare la retribuzione.
L’osservanza dell’orario di lavoro costituisce un obbligo del dipendente pubblico, anche di qualifica dirigenziale, quale elemento essenziale della prestazione retribuita dall’amministrazione pubblica e l’orario di lavoro deve essere documentato e accertato mediante controlli di tipo automatico ed obiettivi. (Corte dei Conti Sardegna n. 114 sezione giurisdizionale del 20.09.2017).
Le mancate timbrature sono sussumibili, pertanto, alla fattispecie di un mancato rispetto delle disposizioni in materia di orario di lavoro e di servizio e devono essere considerate quale fatto eccezionale.
I regolamenti sull’orario di lavoro, in genere, prevedono una modalità alternativa alla timbratura automatica ove la prestazione lavorativa sia resa in luoghi diversi dalla sede indicata nel contratto di lavoro.
Dal punto di vista giuridico e alla luce della più recente giurisprudenza in materia di attestazione della presenza in servizio, non esiste spazio ampio che possa essere legittimamente concesso alle mancate timbrature, al contrario, è ribadito il principio che timbrare costituisce un obbligo lavoratore (20.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIOggetto: decreto interministeriale n. 154 del 22.08.2017 recante: "Regolamento concernente gli appalti pubblici di lavori riguardanti i beni culturali tutelati ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42" — art. 22 — restauratori - direzione dei lavori (MIBAC, Ufficio Legislativo, nota 19.09.2018 n. 22280 di prot.).
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Si riscontra la nota, qui pervenuta in data 30 maggio u.s., con la quale codesta Federazione evidenzia l'insorgere di dubbi interpretativi relativi all'art. 22, comma 2, del regolamento in oggetto. Nello specifico in detta nota si rappresenta che "risulta non chiaro ad alcune Stazioni Appaltanti se il Restauratore possa assumere o meno la funzione di Direttore dei Lavori".
Al riguardo si osserva quanto segue.
L'art. 22, comma 2 cit. recita: "La direzione dei lavori, il supporto tecnico alle attività del responsabile unico del procedimento e del dirigente competente alla formazione del programma triennale comprendono un restauratore di beni culturali qualificato ai sensi della normativa vigente, ovvero, secondo la tipologia dei lavori, altro professionista di cui all'articolo 9-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio. In ambedue i casi sono richiesti un'esperienza almeno quinquennale e il possesso di specifiche competenze coerenti con l'intervento" ... (...continua).

APPALTIRapporti tra rotazione e pregresso affidatario.
Domanda
Diversi quesiti ritornano sovente sulla questione dei rapporti tra affidamento diretto/invito e rotazione. Soprattutto, in relazione alla figura del pregresso aggiudicatario (di un appalto “uguale” ai sensi di quanto chiarito nelle linee guida ANAC n. 4).
La necessità del chiarimento si pone perché, ad onor del vero, il documento ANAC e la giurisprudenza, su alcune questioni, non risultano perfettamente allineati. E, soprattutto, le linee guida n. 4 –aggiornate al decreto legislativo correttivo del codice– non hanno affatto “eliminato” l’esigenza di rispettare il principio (anzi il criterio) della rotazione. In sostanza, come occorre comportarsi in questi casi?
Risposta
Alla luce della recente giurisprudenza (es. TAR Puglia, n. 1322/2018) e di alcuni recenti riscontri dell’ANAC (v. di seguito) i rapporti tra affidamento diretto/pregresso aggiudicatario risultano fortemente condizionati dalla rotazione anche se la stazione appaltante (il RUP) procedesse con un procedimento “sostanzialmente” aperto.
L’unica certezza rimane –per ritenere non applicabile la rotazione– la gara classica con bando oppure le soglie di importo declinate nel regolamento interno (seguendo le indicazioni contenute nelle linee guida n. 4).
Il problema aperto è quello della procedura “sostanzialmente” aperta. Finora, si riteneva che la pubblicazione di un semplice avviso pubblico –senza limitazione di partecipazione– tanto con estrazione di un numero di partecipanti quanto nel caso di invito di ogni soggetto che abbia manifestato interesse, potesse integrare una procedura aperta con conseguente coinvolgimento anche del pregresso affidatario (e dei soggetti già invitati pur non aggiudicatari dell’appalto).
Tuttavia, dalla recentissima FAQ dell’ANAC (sotto riportata integralmente), la questione sembra porsi diversamente.
Come si può leggere, infatti, nonostante la pubblicazione di un avviso pubblico (a manifestare interesse) senza alcun limite di partecipazione, non è sufficiente che attraverso il sorteggio –per stabilire il numero degli inviti da effettuare– e, quindi, casualmente, sia stato estratto il pregresso affidatario per legittimarne la partecipazione alla competizione.
Secondo l‘ANAC –a parere di chi scrive anche condivisibilmente– l’invito del pregresso affidatario (e, di conseguenza, anche dei soggetti già invitati) deve essere motivato nella determinazione a contrattare.
Evidentemente, non siamo in presenza di una procedura sostanzialmente aperta ma di un procedimento comunque derogatorio che deve avvenire in sicurezza nei confronti della generalità degli appaltatori per evitare che il pregresso affidatario possa avvalersi della “rendita di posizione” determinata dalle conoscenze tecnico/economiche acquisite durante la gestione del pregresso appalto.
La recente giurisprudenza (si allude, in particolare, alla sentenza del TAR Puglia, della sezione di Lecce, n. 1322/2018) ha annullato un procedimento di gara (ritenuto “sostanzialmente aperto”) per violazione del principio di rotazione. Nel caso di specie, è accaduto che il RUP procedesse con l’invito –per una determinata fornitura (di cancelleria)– indiscriminatamente di tutti gli operatori iscritti sul MEPA (circa 4 mila soggetti). L’appalto è stato aggiudicato al pregresso affidatario.
Secondo il giudice –anche questa ad onor del vero, statuizione condivisibile– il procedimento corretto, per rendere il procedimento “sostanzialmente” aperto si caratterizza per il compimento di tre fasi:
   a) avviso con invito ad iscriversi sul MEPA;
   b) successivo invito a manifestare interesse;
   c) inviti veri e propri (RDO).
L’invito rivolto acriticamente, si legge in sentenza, non costituisce un procedimento aperto in quanto “ignora” totalmente i soggetti non iscritti al mercato elettronico.
D’altra parte, il giudice sottolinea che negli atti di gara non c’era neppure la motivazione per legittimare l’invito del pregresso affidatario.
Alla luce dell’attuale posizione si ritiene che –al netto delle deroghe certe di cui si è detto sopra– ance in procedure come quelle appena descritte è necessario che il RUP motivi (se motivi ci sono evidentemente) adeguatamente l’invito del pregresso affidatario e dei soggetti già invitati. Onde evitare ogni censura sulla procedura e ricondurla, al massimo sulla motivazione. Ecco perché, in tale certificazione, il RUP deve prestare la massima attenzione e rigore.
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Quesito all’ANAC
Con riguardo all’applicazione del principio di rotazione, sussistendo i presupposti di cui al paragrafo 3.6 delle Linee guida e al di fuori delle ipotesi eccezionali contemplate al successivo paragrafo 3.7, è legittimo nelle procedure negoziate il re-invito all’operatore uscente, che abbia manifestato interesse alla candidatura a seguito di avviso pubblico e sia stato poi estratto tramite sorteggio con estrazione casuale?
Risposta ANAC
Come previsto al paragrafo 3.7 delle Linee guida n. 4, il re-invito all’operatore uscente costituisce ipotesi di stretta eccezionalità, ammissibile al ricorrere delle circostanze ivi indicate. Fermo quanto previsto ai paragrafi 3.6 e 3.7, il meccanismo dell’estrazione casuale, sia pure a seguito di avviso pubblico, non assicura il rispetto del principio di rotazione, come declinato all’articolo 36, primo comma del Codice dei contratti pubblici, novellato dal decreto legislativo 19.04.2017, n. 56. Tale disposizione, infatti, rende doverosa la rotazione tanto in relazione agli affidamenti che agli inviti” (19.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

PUBBLICO IMPIEGOVerifiche OIV e novità ANAC.
Domanda
Ci sono delle novità da parte di ANAC sulle verifiche spettanti agli Organismi Indipendenti di Valutazione sulla corretta strutturazione del “sistema” anticorruzione all’interno delle singole amministrazioni?
Risposta
L’articolo 8-bis, della legge 06.11.2012, n. 190, così come introdotto dall’art. 41, del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, stabilisce che “l’Organismo Indipendente di Valutazione verifica, anche ai fini della validazione della Relazione sulla performance, che i piani triennali per la prevenzione della corruzione siano coerenti con gli obiettivi stabiliti nei documenti di programmazione strategico-gestionale e che nella misurazione e valutazione delle performance si tenga conto degli obiettivi connessi all’anticorruzione e alla trasparenza. Esso verifica i contenuti della Relazione di cui al comma 14 in rapporto agli obiettivi inerenti alla prevenzione della corruzione e alla trasparenza. A tal fine, l’Organismo medesimo può chiedere al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza le informazioni e i documenti necessari per lo svolgimento del controllo e può effettuare audizioni di dipendenti. L’Organismo medesimo riferisce all’Autorità nazionale anticorruzione sullo stato di attuazione delle misure di prevenzione della corruzione e di trasparenza.”
Agli OIV (o Nuclei di Valutazione nei comuni che hanno mantenuto la vecchia denominazione), spetterebbe, pertanto, oltre ai controlli sull’assolvimento degli obblighi di pubblicazione sulla sezione di Amministrazione Trasparente, previsti dall’art. 14, comma 4, lettera g), del d.lgs. n. 150/2009 e dalle deliberazioni di ANAC, una puntuale verifica sul “sistema” di prevenzione della corruzione e della trasparenza messo in piedi dalle singole amministrazioni.
Ciò al fine di accertare, in primis, che il PTPCT approvato, sia collegato agli strumenti di programmazione interni ed al Sistema di Valutazione della performance ed, in secondo luogo, che tale collegamento non resti formale o “sulla carta” dovendo l’OIV riferire all’ANAC sulla coerenza dei piani e sull’efficacia ed attuazione delle misure di anticorruzione.
Il condizionale in questo caso è d’obbligo, considerato che la norma, già in vigore dal maggio 2016, non ha trovato, fino ad ora, concreta applicazione; tanto nelle attestazioni degli OIV dell’anno 2016, quanto in quelle 2017, non appaiono infatti riferimenti in merito.
Ciò è dovuto sicuramente al silenzio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione dal quale ci si aspettava un’attività deliberativa di indirizzo al pari di quanto fatto annualmente in materia di trasparenza.
Ad oggi non ci sono pertanto novità, ma è bene ricordare che la stessa ANAC, a prescindere dall’attività ed eventuali segnalazioni degli OIV e degli RPCT, può svolgere d’ufficio verifiche ed ispezioni sulla corretta attuazione della normativa “anticorruzione”.
È sempre vigente, infatti, il “Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di prevenzione della corruzione”, emanato dall’autorità il 29.03.2017 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 91 del 19.04.2017, che consente all’Autorità di sanzionare le amministrazioni per mancata adozione di PTPCT, di misure di trasparenza o Codici di Comportamento; ben potendoci rientrare, nella prima fattispecie, anche gli adempimenti meramente formali o “vuoti di efficacia” .
Non si dimentichi, invero, che ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera g), del precedente “Regolamento in materia di esercizio del potere sanzionatorio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione per l’omessa adozione dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali di trasparenza, dei Codici di comportamento”, equivale ad omessa adozione dei piani, e quindi parimenti sanzionabile:
   a) l’approvazione di un provvedimento puramente ricognitivo di misure, in materia di anticorruzione, in materia di adempimento degli obblighi di pubblicità ovvero in materia di Codice di comportamento di amministrazione;
   b) l’approvazione di un provvedimento il cui contenuto riproduca in modo integrale analoghi provvedimenti adottati da altre amministrazioni, privo di misure specifiche introdotte in relazione alle esigenze dell’amministrazione;
   c) l’approvazione di un provvedimento privo di misure per la prevenzione del rischio nei settori più esposti, privo di misure concrete di attuazione degli obblighi di pubblicazione, di cui alla disciplina vigente, meramente riproduttivo del Codice di comportamento emanato con il decreto del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62 (18.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il tricolore è del sindaco. Il consigliere non può indossare la fascia. Non è prevista l’istituzione di un distintivo per i componenti dell’assemblea.
I consiglieri comunali possono dotarsi di una fascia tricolore da indossare in occasione di cerimonie ed eventi civili e religiosi, quale titolo del ruolo politico e amministrativo ricoperto?
La legge non prevede nulla, per quanto riguarda i simboli da indossare, nei riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Il decreto legislativo n. 267/00 all'art. 50, comma 12, infatti, dispone espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla». La stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente della provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della repubblica e lo stemma della provincia da portare a tracolla».
Il sistema delle autonomie ha, peraltro, un limite connaturato alla stessa essenza dell'autonomia: quello di dare luogo a ordinamenti liberi di autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e ad operare (cfr. circolare Ministero dell'interno 4 nov. 1998 n. 5/98 – fascia tricolore – pubbl. G.U. n. 270/1998).
La finalità della previsione di un distintivo è quella di rendere immediatamente individuabili i titolari di determinate cariche pubbliche attraverso la prescrizione di una medesima tipologia formale per ciascuna categoria di ente.
In assenza di specifiche previsioni normative, pertanto, l'istituzione di un distintivo anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, esiste, tuttavia, un'ampia possibilità, per le autonomie locali, di disciplinare, con normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo, quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo dell'amministrazione ed allo svolgimento delle proprie funzioni in conformità alle indicazioni di legge
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).

APPALTI: Termini e adempimenti pubblicazione gara comunitaria.
Domanda
Devo appaltare un servizio avente un valore superiore alla soglia comunitaria: quali sono i termini per la presentazione delle offerte nel caso di procedura aperta, e gli obblighi pubblicitari del bando?
Risposta
Per l’appalto di un servizio sopra soglia comunitaria nella forma della procedura aperta, occorre rifarsi in particolare agli artt. 60, 72 e 73 del codice, nonché al Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti 02.12.2016 “Definizione degli indirizzi generali di pubblicazione degli avvisi e dei bandi di gara, di cui agli artt. 70, 71 e 98 del d.lgs. 18.04.2016 n. 50”.
Di seguito si riportano in forma semplificata e tabellare i termini per la presentazione delle offerte nel caso di procedura aperta, nonché gli obblighi pubblicitari nella fase transitoria di attivazione della piattaforma ANAC desunti dalle normative sopra richiamate (che non brillano di chiarezza) e adattate alla realtà operativa.

Termini per la presentazione delle offerte

                                                               SENZA preinformazione                  CON preinformazione
Termine ordinario con atti accessibili
(art. 60, co. 1, del codice)
                                                               minimo 35 giorni
                                                               dalla data di trasmissione del bando alla GUUE

                                                                                                                   minimo 18 giorni
                                                                                                                   Ridotto di 15 giorni, ma condizioni di cui all’art. 60, co. 2 del codice

Con presentazione offerte per via elettronica
(art. 60, co. 2-bis, del codice)
                                                               minimo 30 giorni
                                                               dalla data di trasmissione del bando alla GUUE

                                                                                                                    minimo 15 giorni
                                                                                                                    ridotto di 15 giorni, ma condizioni di cui all’art. 60, co. 2 del codice

Urgenza
(art. 60, co. 3, del codice)
                                                                                           15 giorni
                                                                                           dalla data di invio del bando di gara

Pubblicazioni

1) GUUE
   • Redazione e trasmissione del Bando all’Ufficio pubblicazioni dell’Unione Europea, per via elettronica: http://simap.europa.eu/enotices/changeLanguage.do?language=it
   • Gli avvisi e i bandi sono pubblicati entro 5 giorni dalla loro trasmissione (art. 72, co. 2, del codice).
   • Comunicazione da parte dell’Ufficio Pubblicazioni dell’UE, a mezzo mail, dell’avvenuta ricezione dell’avviso, con attribuzione di un numero di riferimento.
   • Successiva comunicazione da parte dell’Ufficio Pubblicazioni dell’UE, a mezzo mail, di avviso di pubblicazione con indicazione del numero dell’avviso sulla GUUE.
   • La pubblicazione è gratuita.

2) PROFILO COMMITTENTE “Amministrazione trasparente” – ATTI ACCESSIBILI
   • Contestualmente alla pubblicazione sulla GUUE gli avvisi e i bandi, con tutta la documentazione tecnica ed amministrativa di gara, devono essere resi accessibili sul profilo committente, almeno fino alla loro scadenza.

3) GURI (fino alla data di funzionamento della piattaforma ANAC, art. 2, co. 5 e 6, d.m. 02.12.2016)
   • Gli avvisi e i bandi NON SONO pubblicati in ambito nazionale prima della pubblicazione in ambito comunitario (art. 73, co. 1, del codice).
   • Gli avvisi e i bandi non contengono informazioni diverse rispetto agli avvisi/bandi comunitari. Menzionano la data della trasmissione dell’avviso o bando all’Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione Europea (dalla quale decorrono i termini per la presentazione delle offerte).
   • Gli avvisi e i bandi di gara sono pubblicati entro 6 giorni feriali successivi a quello della trasmissione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana: www.libreriaipzs.com/Inserzioni-Telematiche.asp#
Si suggerisce di trasmettere il bando alla libreria concessionaria anche prima della pubblicazione sulla GUUE, per avere conferma della correttezza grafica dello stesso, e di confermare la pubblicazione mediante accettazione del preventivo successivamente.
   • La pubblicazione è a pagamento.

4) PIATTAFORMA informatica del MIT
   • I bandi e gli avvisi sono pubblicati entro i successivi DUE giorni lavorativi dalla pubblicazione sulla GURI, sulla piattaforma informatica del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti: www.serviziocontrattipubblici.it anche tramite i sistemi informatizzati delle regioni ad essa collegati

5) QUOTIDIANI (art. 3, D.M. 02.12.2016)
   • Pubblicazione per estratto degli avvisi e dei bandi, DOPO 12 giorni dalla trasmissione alla GUUE (ovvero 5 giorni in caso di riduzione di termini), su almeno due dei principali quotidiani a diffusione nazionale e su almeno due a maggiore diffusione locale nel luogo dove si eseguono i contratti.
   • Per area interessata, ai fini della pubblicazione su quotidiani locali, si intende il territorio della provincia cui afferisce l’oggetto dell’appalto e nell’ambito del quale si esplicano le competenze dell’amministrazione aggiudicatrice.

6) PIATTAFORMA ANAC (art. 2 D.M. 02.12.2016)
   • Ad oggi non ancora attivata.
   • In sede di perfezionamento del CIG, completare i dati relativi alla pubblicazione e allegare il Bando di gara e disciplinare (12.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso civico dati salute.
Domanda
È pervenuta all’ufficio protocollo una richiesta di accesso agli atti, presentata come accesso civico generalizzato (art. 5, comma 2, d.lgs. 33/2013). La richiesta riguarda una lettera –indirizzata ai servizi sociali del comune– nella quale il capo-famiglia descrive una serie di situazioni relative alla situazione socio-economica del nucleo familiare, con, anche, indicazioni sullo stato di salute di un componente.
E’ possibile accogliere la richiesta?
Risposta
L’accesso civico generalizzato, così come introdotto dal d.lgs. 97/2016, modificativo del d.lgs. 33/2013, introduce nel nostro ordinamento una vera e propria libertà di accesso alle informazioni detenute dalla pubblica amministrazione, risultando finalizzato ad assicurare al cittadino un controllo “sociale” sull’azione amministrativa e la verifica sul rispetto dei canoni dell’imparzialità e della trasparenza.
Tale libertà incontra, ad ogni modo, dei limiti stringenti individuati dal legislatore all’art. 5, comma 2-bis –laddove sono specificate le esclusioni poste a tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti– e specificati dall’Autorità Nazionale Anticorruzione con la delibera n. 1309, del 28.12.2016, di approvazione delle “Linee Guida recanti indicazioni operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti all’accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013”.
Tra i limiti privatistici, per quanto qui rileva, non può non essere tenuta in considerazione l’esclusione “relativa” –così denominata dall’ANAC in considerazione della valutazione caso per caso richiesta alle amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, a dispetto delle esclusioni “assolute” dove l’accesso generalizzato è inibito da norme di legge in via preventiva e generale– derivante dalla protezione dei dati personali.
L’Ente, dispone l’ANAC, con riferimento alle istanze di accesso generalizzato aventi ad oggetto dati e documenti relativi a (o contenenti) dati personali, “deve valutare, […] , se la conoscenza di da parte di chiunque del dato personale richiesto arreca (o possa arrecare) un pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali, in conformità alla disciplina legislativa in materia. La ritenuta sussistenza di tale pregiudizio comporta il rigetto dell’istanza, a meno che non si consideri di poterla accogliere, oscurando i dati personali eventualmente presenti e le altre informazioni che possono consentire l’identificazione, anche indiretta, del soggetto interessato”.
L’Ente è, quindi, tenuto obbligatoriamente, al pari dell’accesso agli atti ex legge 241/1990, ad interpellare eventuali soggetti controinteressati all’ostensione del documento e ad effettuare una valutazione generale del potenziale pregiudizio concreto, tenendo conto altresì di ulteriori elementi quali:
   • le conseguenze, legate alla sfera morale, relazionale e sociale, che potrebbero derivare dall’interessato dalla conoscibilità, da parte di chiunque del dato o del documento richiesto;
   • la ragionevole aspettativa dell’interessato al trattamento dei propri dati personali, specie in relazione ai così detti dati sensibili o giudiziari, da cui possono derivare rischi specifici per i diritti e le libertà fondamentali;
   • la circostanza che la richiesta di accesso generalizzato riguardi dati o documenti contenenti dati personali di soggetti minori, la cui conoscenza può ostacolare il libero sviluppo della loro personalità, in considerazione della particolare tutela dovuta alle fasce deboli.
Ciò premesso, si consiglia di attivare la procedura di notifica al controinteressato e, sulla base anche, delle eventuali osservazioni che perverranno, effettuare una specifica valutazione del caso.
Considerato che il documento oggetto della richiesta di accesso generalizzato, riguarda la libertà e segretezza della corrispondenza (diritto garantito dall’art. 15 della Costituzione – diritto di rango superiore alla legge ordinaria) e contiene una serie di dati personali delicati, quali la situazione di salute e quella socio-economica del nucleo familiare, rientranti nella categoria dei “sensibili”, si ritiene, ad ogni modo, che ben difficilmente possa essere accolta l’istanza.
La richiesta in oggetto appare, peraltro (ed in tal senso potrebbe muoversi l’Amministrazione nell’orientare il richiedente, così come previsto dalla circolare ministeriale n. 02/2017), meglio inquadrabile nell’ipotesi dell’accesso agli atti, ex legge 241/1990. Una richiesta debitamente motivata, ai sensi degli artt. 22 e seguenti, della legge sul procedimento amministrativo potrebbe, infatti, andare incontro ad un esito positivo, a condizione che sia presente un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, collegata al documento per il quale è richiesto l’accesso (11.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

COMPETENZE GESTIONALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Un ente locale con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti può derogare al principio della separazione dei poteri affidando al sindaco la presidenza della commissione edilizia comunale e nominando il responsabile dell'ufficio tecnico quale componente della stessa?
La costituzione della commissione edilizia costituiva parte del contenuto obbligatorio del regolamento edilizio comunale ai sensi dell'art. 33 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, poi abrogato dall'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni; l'art. 4, comma 2, del citato dpr che ha, peraltro, dettato una nuova disciplina dei regolamenti, ha reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della commissione edilizia è coerente con l'art. 41 della legge 27.12.1997, n. 449 che, imponendo all'organo di direzione politica di individuare ogni organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la relativa soppressione di quelli non identificati come indispensabili.
La Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/99 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato che «la presenza di organi politici nella commissione edilizia, deputata a pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza sia espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali dovranno provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si esponga, in materia, un principio generale, va parimenti evidenziato che l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29, comma 4 della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del principio di separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo da quelle di gestione, richiamato dal Consiglio di stato.
Tale norma, infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4, lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto dall'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e dall'art. 107 del citato testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare anche atti di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che «le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative
».
Il Consiglio di stato in sede giurisdizionale, con sentenza n. 3490 del 26/06/2013, ha ritenuto che «il sindaco potesse legittimamente presiedere la commissione edilizia integrata, in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel citato articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, concernente proprio i comuni con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, e nella stessa legge costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Lo stesso Consiglio di stato, con la medesima sentenza, richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009 che si è pronunciata su analoga questione, ha ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia urbanistica ed edilizia, a consentire a quei Comuni, nell'ambito dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato disposizioni regolamentari che affidano espressamente a un componente della giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico preposto alla gestione del settore edilizio (articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: CCNL e orario lavoro settimanale.
Domanda
Dopo il CCNL del 21.05.2018, l’ente è obbligato ad adottare un orario di lavoro su cinque giorni alla settimana?
Risposta
La disposizione contrattuale di riferimento è l’art. 22 che conferma, al pari della precedente previsione sostituita (art. 17, CCNL 06.07.1995), che l’orario di lavoro è di 36 ore settimanali, è funzionale all’orario di servizio e di apertura al pubblico ed è articolato su cinque giorni.
Vengono fatte salve le esigenze dei servizi da erogarsi con carattere di continuità, che richiedono orari continuativi prestazioni per tutti i giorni della settimana o che presentino particolari esigenze di collegamento con le strutture di altri uffici pubblici.
La previsione è del tutto coerente con la disposizione di legge contenuta all’art. 22, comma 2, della Legge 724/1994, secondo la quale, nelle amministrazioni pubbliche, l’orario di lavoro settimanale ordinario si articola su 5 giorni, anche nelle ore pomeridiane, fatte salve le particolari esigenze dei servizi pubblici.
Di fatto la previsione dei 5 giorni lavorativi non può essere considerata un vincolo oppure una previsione non derogabile. Questo in ragione non soltanto di una fonte legale di riferimento che lo consente, ma anche di un’esigenza di servizio che deve essere sempre soddisfatta attraverso l’articolazione dell’orario di lavoro e che da essa dipende.
Non ultimo, l’articolazione dell’orario di lavoro subisce l’ingerenza di un’articolazione dell’orario di servizio che compete alla autonoma valutazione organizzativa dell’ente, che vi provvede nel rispetto delle competenze.
Se l’esigenza organizzativa e operativa da soddisfare richiede una presenza su sei giorni, anziché su cinque, l’ente provvederà in questo senso, tenendo conto anche delle particolari caratteristiche dell’utenza. Uno dei criteri di cui tenere conto nella definizione dell’articolazione dell’orario di lavoro è infatti l’ampliamento delle fruibilità dei servizi da parte dell’utenza.
Nelle dinamiche relazionali da instaurare con le parti sindacali va ricordato che l’articolazione dell’orario di lavoro è materia oggetto di confronto mentre l’orario di servizio e di apertura al pubblico non sono in alcun modo oggetto di relazioni sindacali (06.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

APPALTI: Comuni non capoluogo e modalità autonoma.
Domanda
Sono responsabile di settore di un comune non capoluogo di provincia e devo appaltare un servizio ordinario pluriennale del valore indicativo di 200.000 euro. L’ente nel caso di specie può procedere autonomamente?
Risposta
Con riferimento al quesito in premessa occorre rifarsi all’art. 37 del codice dei contratti, che disciplina ai commi 1, 2 e 4 il sistema degli acquisti centralizzati con riferimento ai comuni non capoluogo di provincia.
In particolare per l’acquisizione di forniture e servizi di importo inferiore a 40.000 euro, o inferiore a 150.000 euro per lavori (manutenzione ordinaria, straordinaria, altri lavori), i comuni non capoluogo di provincia possono procedere in autonomia (comma 1).
Per forniture e servizi di importo pari o superiore a 40.000 euro e inferiore alla soglia comunitaria, e per lavori di manutenzione ordinaria di importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 1.000.000 di euro, i comuni non capoluogo possono procedere autonomamente solo utilizzando gli strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di committenza qualificate (comma 2). Ad esempio, nel caso di un comune lombardo, e solo per citare gli strumenti principali, utilizzando la piattaforma Sintel oppure mediante il MEPA nella forma della RDO o della trattativa diretta (nel caso in cui ricorrano i presupposti di cui all’art. 63 del codice).
Per forniture e servizi di importo pari o superiore alla soglia comunitaria, e per lavori di manutenzione straordinaria e altri lavori, di importo pari o superiore a 150.000 euro, e per lavori di manutenzione ordinaria di importo pari o superiore a 1.000.000 di euro, il comune deve ricorrere ai soggetti indicati al co. 4 dell’art. 37 (a– ricorrendo a una centrale di committenza o a soggetti aggregatori qualificati; b– mediante unioni di comuni costituite e qualificate come centrale di committenza, ovvero associandosi o consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste dall’ordinamento; c– ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita presso le province, le città metropolitane ovvero gli enti di area vasta ai sensi della legge 07.04.2014 n. 56).
L’ente può sempre procedere in autonomia, indipendentemente dall’importo, nel caso di adesione agli strumenti telematici di acquisto messi a disposizione da Consip o dal soggetto aggregatore di riferimento (adesione a convenzioni Consip o Regionale).
Si precisa, che accanto a questa normativa, che riguarda il problema della centralizzazione e della possibile autonomia negoziale dei comuni non capoluogo, si affianca tutta la disciplina in materia di ricorso agli strumenti telematici di acquisto e negoziazione prevista dalle varie spending review (05.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Atti dirigenziali e rotazione.
Domanda
Controllando i siti web dei comuni abbiamo notato che, alcuni, inseriscono nelle determinazioni dirigenziali, delle frasi relative alla rotazione degli incarichi e al conflitto d’interesse. Ci potete dare delle indicazioni su cosa eventualmente riportare nei nostri atti?
Risposta
L’esigenza di inserire nel testo delle determinazioni (e, più in generale, in tutti gli atti a valenza esterna) come vengono trattate, in chiave prevenzione della corruzione, le due questioni della rotazione e del conflitto d’interessi –ed eventuale obbligo di astensione– discendono da alcune norme di legge.
Per la rotazione, occorre fare riferimento all’art. 1, comma 5, della legge 190/2012.
Per il conflitto d’interessi all’art. 6-bis, della legge 241/1990, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 41, della legge 190/2012.
Questi due capitoli, inoltre, dovrebbero trovare il loro giusto spazio anche nel Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT) approvato a livello di ente, ed è in quella sede che, i due istituti, dovrebbero trovare la loro specifica disciplina attuativa, comprese le varie diciture da inserire negli atti amministrativi.
Per la rotazione degli incarichi –qualora non venga effettuata, come in effetti avviene negli enti piccoli e medi– occorre dare atto che il dirigente o il funzionario, non ruotante, che emette l’atto finale, avente valenza esterna, non abbia avuto il controllo esclusivo del provvedimento e che, almeno un altro soggetto, vi sia intervenuto, attraverso la resa di attività istruttoria interna, emanazione di pareri, valutazioni tecniche ed atti endoprocedimentali, di cui conservare traccia.
Per il conflitto d’interessi e obbligo di astensione, va reso palese ed evidente (trasparente, verrebbe da dire) che, colui che emette il provvedimento finale, non si trovi in nessuna condizione di conflitto d’interesse, anche di natura potenziale, come previsto dall’art. 6-bis, della legge 241/1990 e – se trattasi di dipendente pubblico o collaboratore o consulente – che non incorra nelle situazioni disciplinate dagli articoli 5, 6 e 7 del DPR 62/2013, recante il nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e nelle norme del Codice di comportamento approvate a livello di ente.
A completamento della risposta, a mero titolo di esempio e senza alcun valore di esaustività, si riportano due possibili locuzioni da inserire nel testo degli atti amministrativi, emessi con valenza esterna.
IN CASO DI MANCATA ROTAZIONE:
Visto il parere favorevole di regolarità tecnica, espresso dal responsabile dell’istruttoria interna, in data ... in merito all’adozione del presente atto: Servizio/Ufficio
PER IL CONFLITTO D’INTERESSI:
in relazione all’adozione del presente atto, per il sottoscritto e per il responsabile del procedimento interno, si attesta che:
[X] non ricorre conflitto, anche potenziale, di interessi a norma dell’art. 6-bis della legge 241/1990, dell’art. 6 del DPR 62/2013 e dell’art. ... del Codice di comportamento del comune di ...;
[X] non ricorre l’obbligo di astensione, previsto dall’art. 7 del DPR 62/2013 e dell’art. … del Codice di comportamento del comune di ...
(04.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Relazione inizio mandato.
Domanda
Sono l’assessore al bilancio di un’amministrazione comunale insediatasi nello scorso mese di giugno. Il mio ragioniere mi ha parlato dell’obbligo di predisporre una relazione di inizio mandato.
In che cosa consiste? C’è un termine entro cui debba essere approvata?
Risposta
La relazione di cui si parla nel quesito è prevista e disciplinata dall’art. 4-bis del DLgs. n. 149 del 06/09/2011 approvato dall’allora ‘governo Monti’. La norma stabilisce che le province e i comuni sono tenuti a redigere una relazione di inizio mandato, volta a verificare la propria situazione finanziaria e patrimoniale e la misura dell’indebitamento.
Essa è finalizzata a garantire il coordinamento della finanza pubblica, il rispetto dell’unità economica e giuridica della Repubblica ed il principio di trasparenza delle decisioni di entrata e di spesa. La relazione è predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario generale ed è sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco entro il novantesimo giorno dall’inizio del mandato. Qualora ne sussistano i presupposti, e sulla base delle risultanze della relazione medesima, il presidente della provincia o il sindaco neo eletti, possono ricorrere alle procedure di riequilibrio finanziario previste dalla normativa vigente.
A differenza di quanto fatto per l’analoga relazione di fine mandato, il Legislatore non ha previsto uno schema obbligatorio per gli enti chiamati ad adottarla, ma ne ha definito soltanto gli elementi essenziali. Ogni ente è pertanto libero di decidere quali dati e informazioni riportare e quali schemi, tabelle e prospetti inserire.
E’ sicuramente opportuno produrre uno strumento snello ed essenziale, ma al tempo stesso concreto, che faccia una sorta di fotografia della situazione dell’ente ad inizio mandato, con riguardo ai seguenti aspetti della sua gestione: la struttura organizzativa; la situazione finanziaria e le politiche fiscali e tariffarie; gli equilibri di bilancio; l’ammontare e l’anzianità dei residui attivi e passivi di bilancio; i saldi di finanza pubblica; l’indebitamento, con analisi prospettica; la situazione patrimoniale; le società ed enti partecipati e il loro stato di salute.
I dati e le tabelle da inserire nella relazione possono essere mutuati dai certificati al bilancio preventivo ed al rendiconto già redatti ai sensi dell’art. 161 del Tuel e dai questionari periodicamente inviati dall’organo di revisione economico finanziario alla competente sezione regionale di controllo della Corte dei Conti, ai sensi dell’articolo 1, comma 166 e seguenti, della legge n. 266/2005.
Tali dati troveranno pertanto riscontro anche in questi documenti, oltre che nella contabilità dell’ente. Il Legislatore non ha previsto neppure alcun obbligo di invio della relazione alla sezione regionale di controllo della Corte dei conti. In caso di mancata o tardiva predisposizione non sono previste sanzioni. La magistratura contabile, tuttavia, vigilerà sul corretto adempimento dell’obbligo, anche attraverso i consueti questionari che i revisori degli enti locali sono tenuti a compilare e ad inviare.
Il DLgs. 149/2011, così come anche il più recente DLgs. 33/2013, che disciplina la trasparenza e la diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni, non prevedono nulla circa la sua diffusione verso l’esterno. Tuttavia è sicuramente opportuno provvedervi mediante la sua pubblicazione nella sezione ‘Amministrazione trasparente’ del sito web dell’ente, nella sotto-sezione denominata ‘Provvedimenti degli organi di indirizzo politico’ o nella sotto-sezione residuale denominata ‘Altri contenuti’.
Quanto ai termini, il Legislatore –come detto– ha invece stabilito un termine preciso per la sua adozione: esso è fissato in novanta giorni dalla data di inizio del mandato amministrativo. Pertanto per le amministrazioni elette al primo turno nelle elezioni del 10 giugno scorso il termine è fissato all’8 settembre prossimo; per quelle elette al secondo turno il termine è invece fissato al 22 settembre. Resta pertanto poco tempo per adempiere a questo importante obbligo di legge (03.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Incentivi per funzioni tecniche e nomina del direttore dell’esecuzione.
Ai sensi dell’art. 113, c. 2, ultimo periodo, del D.Lgs. 50/2016 gli incentivi per appalti di servizi e forniture sono dovuti nel caso in cui sia stato nominato il direttore dell’esecuzione.
Atteso che la normativa di settore e le linee guida ANAC non chiariscono a chi competa la nomina del direttore dell’esecuzione, si ritiene che essa spetti al dirigente o, nei comuni privi di qualifiche dirigenziali, al titolare di posizione organizzativa, in virtù del generale principio di separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa sancito dall’art. 107 del D.Lgs. 267/2000.

Il Comune, richiamando il contenuto dell’art. 113, comma 2
[1], del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, chiede di conoscere:
   1) se gli incentivi per appalti di servizi e forniture sono dovuti anche nel caso in cui non sia stato nominato il direttore dell’esecuzione;
   2) se la nomina di direttore dell’esecuzione sia di stretta competenza del TPO in assenza di dirigenti o della giunta comunale con l’approvazione del progetto.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione centrale si esprimono le seguenti considerazioni.
Quanto al primo quesito, si ritiene che la risposta debba essere negativa, atteso che è la stessa norma citata dall’Ente a stabilire che essa trova applicazione agli appalti relativi a servizi o forniture «nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione» (ultimo periodo).
Relativamente alla seconda questione posta occorre, anzitutto, rammentare che:
   - il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture è, di norma, il responsabile unico del procedimento (RUP)
[2];
   - l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), nell’ambito delle linee guida n. 3
[3], adottate ai sensi dell’art. 31, comma 5, del D.Lgs. 50/2016, ha individuato i casi nei quali le due figure non coincidono [4].
Né la normativa primaria, né le predette linee guida e nemmeno il decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 07.03.2018, n. 49
[5], adottato ai sensi dell’art. 111, commi 1 [6] e 2 [7], del D.Lgs. 50/2016, chiariscono a chi competa la nomina del direttore dell’esecuzione.
Ne consegue che, in virtù del generale principio di separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa sancito dall’art. 107
[8] del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 (principio che informa anche la nomina del RUP [9]), la nomina del direttore dell’esecuzione del contratto compete al dirigente o, nei comuni privi di qualifiche dirigenziali, al titolare di posizione organizzativa [10].
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[1] «A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori, servizi e forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione.».
[2] V. art. 111, comma 2, del D.Lgs. 50/2016.
[3] Linee guida concernenti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni», approvate con deliberazione n. 1096 del 26 ottobre 2016 ed aggiornate al decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, con deliberazione n. 1007 dell’11.10.2017.
[4] «10.2. Il direttore dell’esecuzione del contratto è soggetto diverso dal responsabile del procedimento nei seguenti casi:
   a. prestazioni di importo superiore a 500.000 euro;
   b. interventi particolarmente complessi sotto il profilo tecnologico;
   c. prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione, vigilanza, socio sanitario, supporto informatico);
   d. interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per quanto riguarda la loro funzionalità;
   e. per ragioni concernente l’organizzazione interna alla stazione appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento.».
[5] «Regolamento recante: “Approvazione delle linee guida sulle modalità di svolgimento delle funzioni del direttore dei lavori e del direttore dell’esecuzione”.» il cui art. 16, comma 1, dispone che «L’incarico di direttore dell’esecuzione è, di norma, ricoperto dal RUP, tranne i casi indicati nelle linee guida adottate dall’Autorità ai sensi dell’articolo 31, comma 5, del codice.».
[6] «Con decreto del Ministro delle infrastrutture e trasporti, […] su proposta dell’ANAC, […] sono approvate le linee guida che individuano le modalità e, se del caso, la tipologia di atti, attraverso i quali il direttore dei lavori effettua l’attività di cui all’articolo 101, comma 3, […]. Con il decreto di cui al primo periodo, sono disciplinate, altresì, le modalità di svolgimento della verifica di conformità in corso di esecuzione e finale, la relativa tempistica, nonché i casi in cui il direttore dell’esecuzione può essere incaricato della verifica di conformità. […]».
[7] «Il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture è, di norma, il responsabile unico del procedimento e provvede, anche con l’ausilio di uno o più direttori operativi individuati dalla stazione appaltante in relazione alla complessità dell’appalto, al coordinamento, alla direzione e al controllo tecnico-contabile dell’esecuzione del contratto stipulato dalla stazione appaltante assicurando la regolare esecuzione da parte dell’esecutore, in conformità ai documenti contrattuali. Con il medesimo decreto, di cui al comma 1, sono altresì approvate linee guida che individuano compiutamente le modalità di effettuazione dell’attività di controllo di cui al periodo precedente, secondo criteri di trasparenza e semplificazione. […]».
[8] V. in particolare, il comma 1, secondo il quale «Spetta ai dirigenti la direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.».
[9] L’art. 31, comma 1, del D.Lgs. 50/2016 dispone che «il RUP è nominato con atto formale del soggetto responsabile dell’unità organizzativa, che deve essere di livello apicale».
Secondo le linee guida ANAC n. 3, il RUP è individuato dalle stazioni appaltanti «con atto formale del dirigente o di altro soggetto responsabile dell’unità organizzativa» (par. 2.1.).
[10] Ai sensi dell’art. 42 del CCRL 07.12.2006
(29.08.2018 - link a http://autonomielocali.regione.fvg.it).

NEWS

LAVORI PUBBLICIOpere pubbliche, sul Dup i comuni allungano i tempi. Anci e Ifiel: scadenza del 30 settembre non è perentoria.
La nota esordisce premettendo che il principio contabile applicato della programmazione (Allegato 4/1 al dlgs 118 del 2011) prevede che il Documento unico di programmazione (Dup) comprenda il programma triennale delle opere pubbliche nonché l'elenco annuale delle opere da realizzare. Nella nota si ricorda che per gli enti locali con meno di 5 mila abitanti, è stato peraltro esplicitamente chiarito che gli atti di programmazione, quale il programma triennale e l'elenco annuale dei lavori pubblici, possono essere inseriti direttamente nel Dup, senza necessità di ulteriori deliberazioni.
Possibile approvare il Dup (documento unico di programmazione) anche dopo il 30 settembre; il termine ministeriale non è perentorio.

È quanto hanno affermato l'Anci e Ifiel in merito all'adozione del programma delle opere pubbliche, disciplinato dal decreto del ministero delle infrastrutture del 16.01.2018, n. 14, che definisce, in base a quanto previsto dal codice appalti, le procedure con cui le amministrazioni aggiudicatrici adottano i programmi pluriennali per i lavori e i servizi pubblici ed i relativi elenchi ed aggiornamenti annuali.
In particolare, gli adempimenti a carico delle amministrazioni consistono nella pubblicazione sul proprio sito web del programma e dell'elenco annuale, nell'approvazione degli stessi entro 30 giorni dalla pubblicazione e nella successiva pubblicazione in formato «open» sui siti del Mit e sulla piattaforma digitale Anac. Tuttavia, ad oggi il ministero delle infrastrutture non ha ancora aggiornato, nell'applicativo web, le schede tipo per la pubblicazione sul proprio sito informatico con la conseguenza che gli enti locali sono costretti a utilizzare i vecchi schemi, obbligandoli quindi a formulare gli schemi stessi ricavandoli da fogli elettronici, con un maggior rischio di errori materiali ed omissioni.
L'Anci nota che se la giunta si fosse limitata a presentare il Dup 2019-2021 al consiglio, ad esempio, il 31.07.2018, la necessaria deliberazione consiliare del Dup dovrebbe avvenire non oltre il 30 settembre, stante il tenore della disposizione ministeriale.
Anci e Ifiel ritengono, tuttavia, che «il termine massimo dei 60 giorni intercorrente tra l'adozione e l'approvazione del programma triennale delle opere pubbliche e dell'elenco annuale, previsto dal decreto ministeriale n. 14/2018 non sia perentorio, alla stessa stregua della scadenza del 31 luglio per la presentazione del Dup al consiglio, non essendo prevista alcuna sanzione in caso di ritardo, come peraltro confermato dalla Faq n. 10 del 22.10.2015 della commissione Arconet».
Due le possibili strade da seguire: aggiornare la programmazione dei lavori pubblici con la nota di aggiornamento al Dup (da approvare entro il 15 novembre), oppure inserire nel Dup l'elenco annuale e il programma triennale delle opere pubbliche senza doverlo obbligatoriamente pubblicare; in questo caso viene suggerito di indicare in delibera di giunta che la pubblicazione avverrà dopo l'adozione della nota di aggiornamento del Dup così da tenere conto delle osservazioni del consiglio comunale e delle eventuali modifiche successive (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl commissariamento è un atto di sfiducia verso i segretari. IL DL SICUREZZA RIPRISTINA LA DIPENDENZA GERARCHICA DEI COMUNI DAL VIMINALE.
Il commissariamento dei settori amministrativi dei comuni e degli enti locali che risultino potenzialmente influenzati dalla criminalità organizzata è uno degli di maggiore impatto del decreto sicurezza che il governo si appresta ad approvare.
Il decreto introduce nel corpo dell'articolo 143 del dlgs 267/2000 un comma 7-bis che costituisce un forte ritorno di dipendenza gerarchica dei comuni dal Viminale ed al tempo stesso un indiretto atto di sfiducia nei confronti del ruolo e delle funzioni dei segretari comunali, che pure sono espressione di un Albo gestito dal ministero dell'interno.
L'articolo 143 del Tuel attribuisce al prefetto un ampio potere di accertamento di collegamenti diretti o indiretti tra la criminalità organizzata e non solo gli organi politici, ma anche quelli tecnici degli enti locali, cioè tutti i dipendenti, compreso, se incaricato, il direttore generale ed il segretario comunale. Qualora l'accertamento svolto dal prefetto confermi l'ipotesi di rilevanti condizionamenti della criminalità sull'azione amministrativa, è possibile avviare la procedura di scioglimento del consiglio comunale.
Ovviamente, lo scioglimento è un rimedio estremo ad una situazione piuttosto grave ed estesa di condizionamenti della criminalità. L'esperienza concreta, però, ha dimostrato che talvolta le intromissioni esterne criminali sono circoscritte a specifici settori organizzativi degli enti locali.
Nell'assetto normativo vigente, il comma 7 dell'articolo 143 del Tuel prevede che qualora il prefetto non ritenga di adottare il provvedimento drastico di scioglimento del comune, conclude le proprie attività con un provvedimento di archiviazione motivato. Non era stato preso in considerazione un rimedio parziale all'accertamento di situazioni critiche circoscritte a specifiche ripartizioni operative dell'ente.
Per questa ragione il decreto sicurezza introduce il comma 7-bis, per effetto del quale il prefetto, laddove ritenga di non poter giungere all'attivazione dello scioglimento dell'ente, potrà, comunque, intervenire sull'organizzazione locale, se emergano «situazioni anomale o comunque sintomatiche di condotte illecite o di eventi criminali tali da determinare un'alterazione delle procedure e da compromettere il buon andamento e l'imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati».
Il rimedio previsto è il commissariamento di ciascuno specifico settore organizzativo caratterizzato dalle anomalie registrate dal prefetto, che propone al ministro dell'interno un commissario scelto «fra funzionari dotati di qualificata e comprovata professionalità ed esperienza amministrativa, finanziaria e tecnica in servizio presso gli uffici centrali o periferici del ministero dell'interno o di altre amministrazioni dello stato, in quest'ultimo caso di concerto con il ministro competente».
Ci si sarebbe aspettato che primo destinatario dell'incarico di commissario potesse essere proprio il segretario comunale, vista la sua funzione di primo garante della legittimità, e, soprattutto, data la circostanza che si tratta di una figura terza, non dipendente del comune ma proprio del Viminale.
Si dà, probabilmente, per scontato che le modalità di assegnazione degli incarichi ai segretari comunali implicano un rapporto di fiduciarietà col sindaco e l'amministrazione tale da rendere opportuno che il commissariamento sia svolto da un soggetto totalmente estraneo all'organizzazione comunale (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOPiano fabbisogni senza ansie. Chi l’ha già adottato non deve riapprovarlo entro il 24/9. PERSONALE/ Per gli enti nessun rischio che possa scattare il divieto di assunzioni.
Gli enti locali che hanno già definito la programmazione del personale non devono approvare un nuovo piano triennale del fabbisogno entro il 24 settembre.
La questione sta suscitando molte discussioni (e qualche ansia) negli uffici, ma in molti casi senza un reale motivo.
Partiamo dalle norme. Ai sensi dell'art. 6 del dlgs 165/2001, come modificato da ultimo dal dlgs 75/2017, le pubbliche amministrazioni devono adottare annualmente un piano triennale dei fabbisogni di personale, in coerenza con la pianificazione pluriennale delle attività e della performance, nonché con le linee di indirizzo emanate dal ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione di concerto con il ministro dell'economia e delle finanze.
Per gli enti locali, il piano deve essere inserito nel Dup che la giunta deve presentare al consiglio entro il 31 luglio per le conseguenti deliberazioni. Come noto, il Dup può essere approvato in sede consiliare anche successivamente ala predetta data, compatibilmente con le previsioni regolamentati e comunque prima del bilancio di previsione.
In base al comma 6 del citato art. 6, «le amministrazioni pubbliche che non provvedono agli adempimenti di cui al presente articolo non possono assumere nuovo personale».
Da ultimo, occorre richiamare l'art. 22 del dlgs 75/2017, secondo cui «in sede di prima applicazione, il divieto di cui all'articolo 6, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come modificato dal presente decreto, si applica a decorrere dal 30.03.2018 e comunque solo decorso il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione delle linee di indirizzo di cui al primo periodo».
Ora, poiché le linee di indirizzo sono state pubblicate il 27 luglio scorso, i sessanta giorni scadono il 24 settembre: da qui la nuova scadenza e i connessi timori. Ma ad un lettura più approfondita, questi sono di norma infondati.
Di norma, infatti, la pianificazione relativa al triennio 2018-2020 è già stata adottata (e approvata). In tali casi, soccorre il punto 2.3 delle linee di indirizzo, che recitano: «sono fatti salvi, in ogni caso, i piani di fabbisogno già adottati». Per cui, nessun rischio si pone di blocco delle assunzioni. Discorso diverso per chi non si è ancora dotato del piano o deve modificarlo: in questi frangenti, ovviamente trova applicazione la nuova disciplina, ivi compresa la scadenza del 24 settembre.
Per quanto concerne la pianificazione 2019-2021, in ogni caso il divieto di assumere non potrebbe scattare prima del prossimo 1° gennaio. Lo confermando le linee di indirizzo, laddove affermano che «la sanzione del divieto di assumere si riflette sulle assunzioni del triennio di riferimento del nuovo piano senza estendersi a quelle disposte o autorizzate per il primo anno del triennio del piano precedente ove le amministrazioni abbiano assolto correttamente a tutti gli adempimenti previsti dalla legge per il piano precedente»
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

LAVORI PUBBLICIVerifica puntuale sulle risorse per la nuova programmazione delle opere pubbliche.
La realizzazione di opere pubbliche è spesso il fiore all'occhiello degli amministratori locali, in quanto da sempre considerate un modo per rendere evidente la propria capacità di governo e per dimostrare i risultati raggiunti.
Altrettanto spesso, tuttavia, le opere programmate non vengono realizzate o (peggio) ultimate, essendo concepito il piano delle opere come il «libro dei sogni» in cui scrivere le proprie intenzioni, anche se non si concretizzeranno per insufficienza di risorse.
Il piano 2019-21
Il nuovo programma delle opere pubbliche da adottarsi per il 2019-2021 in base al Dm Infrastrutture 16.01.2018 n. 14 scoraggia questo tipo di approccio, in quanto richiede alle amministrazioni una pianificazione puntuale delle opere da realizzare, che comprende anche l'acquisizione di servizi e forniture correlati e l'indicazione dei tempi di avvio delle procedure di affidamento. Inoltre è richiesto, nelle nuove schede B e F:
   • l'indicazione delle opere pubbliche incompiute, alle quali dovranno essere destinate in via prioritaria le risorse disponibili, per giungere al loro completamento. Se gli enti non fossero in grado di individuare le necessarie risorse finanziarie, dovranno indicare soluzioni alternative (come il cambio destinazione d'uso, la realizzazione di altra opera, la vendita, la demolizione), anche promuovendo il ricorso al partenariato pubblico-privato;
   • l'indicazione dei lavori inclusi nell'elenco annuale 2018 non avviati e non riproposti nel nuovo piano. In questo modo sarà reso evidente il cambio di rotta delle amministrazioni nelle scelte sulle opere da realizzare e le priorità da soddisfare, mettendo in condizione tutti i portatori di interesse di esprimere un giudizio e di valutare l'operato.
Il nodo delle risorse
Se quindi il piano delle opere pubbliche non può più essere considerato dagli amministratori come il libro dei sogni, occorre chiedersi quali siano le regole da seguire per poter inserire un'opera nel programma triennale e nell'elenco annuale.
Oltre all'approvazione del primo livello di progettazione (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 2 agosto), le risorse poste a copertura degli interventi devono essere già certe o solo previste? Dal Dm 14/2018 non è possibile trarre indicazioni puntuali, limitandosi lo stesso ad affermare (articolo 3, comma 8, lettera a) che l'inserimento di un'opera nell'elenco annuale è subordinata alla «previsione in bilancio della copertura finanziaria».
L'espressione non è delle più felici, in quanto il termine previsione lascia intendere che le risorse possano essere semplicemente previste, mentre la copertura finanziaria porta a ritenere che si debba trattare di risorse accertate per le quali sia già maturato il titolo giuridico. Siffatta interpretazione di rigore limiterebbe notevolmente la programmazione, impedendo agli enti di poter inserire le proprie opere non finanziate con risorse già certe. Riteniamo che l'interpretazione corretta sia quella di indicare nel piano, così come nel bilancio, le risorse finanziarie che possiedano il requisito dell'attendibilità e veridicità, fermo restando che l'opera potrà essere avviata solo quando le risorse saranno state effettivamente acquisite.
I contributi da altre amministrazioni
In questo contesto, uno snodo delicato è rappresentato dai contributi da altre amministrazioni pubbliche destinati agli investimenti che, per molti enti, sono il mezzo principale di finanziamento.
La nuova normativa non richiede più, come in passato facevano l’articolo 14, comma 9, della legge 109/1994 e l’articolo 128, comma 10, del Dlgs 163/2006, che l'inserimento di un'opera nell'elenco annuale, finanziata con contributi pubblici, fosse subordinata allo stanziamento nel bilancio dell'amministrazione erogante del relativo stanziamento, anche se le logiche dell'armonizzazione portano oggi a richiedere tale coerenza, a prescindere dalle regole specifiche previste per i lavori pubblici.
D'altro canto spesso nei bandi regionali l'inserimento di un'opera nel programma triennale delle opere pubbliche è condizione per richiedere il finanziamento (così come peraltro prevedeva lo stesso articolo 128 del Dlgs 163/2006). Come uscire da questo empasse? In attesa di chiarimenti integrativi sulle nuove modalità di programmazione delle opere pubbliche e mutuando gli orientamenti Anac emanati in precedenza, riteniamo che una soluzione operativa di buon senso possa essere quella di tenere distinti i due livelli della programmazione:
   • quella più generale, costituita dal programma triennale e, nello specifico, dagli interventi inseriti nel secondo e terzo anno della programmazione. Tale documento rappresenta la volontà dell'organo di indirizzo politico dell'ente sulla realizzazione delle opere e presupposto necessario per l'avvio dei successivi adempimenti procedurali da parte della Giunta comunale e dei dirigenti, compresa la definizione dei livelli successivi di progettazione. Esso contiene un primo dimensionamento economico degli interventi non vincolanti per il bilancio, che saranno oggetto di successive definizioni entro margini di flessibilità considerati non sostanziali (deliberazione Avcp n. 279/2001). Nel programma triennale potrebbero così essere inserite opere la cui fonte di finanziamento è costituita dalla previsione di contributi a cui si intende concorrere, ma non ancora concessi;
   • quella specifica costituita dall'elenco annuale, in cui sono inserite solamente le opere per le quali sia stato definito il quadro economico e individuata la copertura finanziaria, che deve trovare corrispondenza nel bilancio di previsione e coerenza con i bilanci delle altre pubbliche amministrazioni.
In questo modo lo slittamento di un'opera dalla seconda/terza annualità del programma alla prima (e quindi nell'elenco annuale) equivarrebbe alla puntuale definizione del quadro economico, all’individuazione di risorse finanziarie sufficientemente attendibili da rendere possibile l'avvio nel primo anno e quindi all'iscrizione in bilancio della relativa spesa di investimento, oltre a eventuali spese gestionali o di ammortamento mutui correlate (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.09.2018).

ENTI LOCALIDa fine mese la tagliola sugli Enti che non hanno alienato le quote.
Dopo il 30 settembre le amministrazioni pubbliche che non sono riuscite ad alienare partecipazioni non strategiche non possono più esercitare i diritti del socio nelle società di cui non sono riuscite a vendere azioni o quote.
Dall'inizio di ottobre, infatti, scatta la sanzione prevista dall’articolo 24, comma 5 del Dlgs 175/2016, che incide sia sui diritti patrimoniali sia su quelli amministrativi degli enti soci che non si sono liberati delle partecipazioni individuate come non coerenti con le proprie finalità istituzionali nel piano straordinario di razionalizzazione approvato un anno fa.
Nel Milleproroghe la maggioranza aveva provato a intervenire spostando in là la scadenza, con un emendamento che al Senato è stato ritirato tra le polemiche e non è stato più ripresentato alla Camera.
Le conseguenze
Le conseguenze per un ente che non ha venduto le quote o le azioni delle società ritenute non strategiche a fronte dei criteri previsti dall'articolo 20 del d.lgs. n. 175/2016 sono molto rilevanti anzitutto sotto il profilo amministrativo. L'amministrazione infatti non può più intervenire nei processi decisionali dei soci, a partire dall'assemblea, nella quale la mancata partecipazione del socio pubblico “inabilitato” va a incidere anche sui quorum costitutivi dell'organismo.
Con l'effetto, in molti casi, di impedire al socio di adottare deliberazioni che prevedano maggioranze qualificate o, qualora la partecipazione sia molto rilevante, anche deliberazioni a maggioranza assoluta. L'ente non può esercitare nemmeno i poteri di indirizzo e di controllo, non avendo quindi la possibilità di far valere le deliberazioni sugli obiettivi per le spese di funzionamento, comprensive delle regole sulle assunzioni di personale nella partecipata.
Canali chiusi
Anche in chiave passiva il divieto porta effetti pesanti, perché l'ente non ha la possibilità di far valere i diritti di tipo informativo né di essere informato dalla società sullo sviluppo delle sue attività. Il congelamento dei diritti sociali impedisce quindi all'amministrazione di avere le comunicazioni sul bilancio, ma vieta anche la possibilità di promuovere azioni nei confronti degli amministratori.
Proprio le situazioni critiche determinano il maggior quadro di rischio, poiché l'impossibilità di intervenire impedisce al socio pubblico di adottare atti che possano consentire il ripiano di perdite o, più semplicemente, l'erogazione di contributi straordinari (ad esempio in conto esercizio).
Diritti patrimoniali
Il divieto di esercitare i diritti del socio si riflette anche su quelli patrimoniali, per cui, qualora la società non strategica generi utili, l'ente che non è riuscito a venderne azioni o quote non può percepire gli eventuali dividendi. In base allo stesso articolo 24, comma 5 del Dlgs 175/2016, le amministrazioni possono comunque proseguire nel percorso per l'alienazione delle quote o delle azioni, che devono essere liquidate in denaro in base ai criteri stabiliti all'articolo 2437-ter, secondo comma, del Codice civile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.09.2018).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEOk agli incentivi tecnici per le concessioni.
Gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere erogati né ai commissari di gara né in caso di assenza di procedure concorsuali, mentre possono esserlo anche per le concessioni. Il regolamento, che non può avere decorrenza retroattiva, prevale sulla contrattazione e vanno esclusi, a partire dalle attività svolte dopo lo scorso 1° gennaio, dal tetto del fondo e dalla spesa del personale.

Queste indicazioni in alcuni recenti pareri delle sezioni regionali della Corte dei conti.
L’obbligo della gara
Il parere 06.07.2018 n. 57 della sezione regionale di controllo per il Lazio chiarisce che il presupposto per l’erogazione di questi compensi è aver effettuato una procedura concorsuale.
Si deve quindi escludere che essi possano essere corrisposti in caso di «procedure di somma urgenza o svolte mediante affidamento diretto»: è questa una condizione da considerare come imprescindibile e che si realizza nel caso di concessioni.
Lo stesso parere chiarisce che questi compensi spettano ai dipendenti dell'ente che sono nominati come componenti la commissione di gara, possibilità che peraltro l'Anac ritiene eccezionale. Alla base di questa esclusione c’è la considerazione che la norma non prevede queste attività tra quelle incentivabili e non si può arrivare, con un’interpretazione estensiva; a questa conclusione si giunge in quanto essa «non può essere qualificata come tecnico-esecutiva», avendo un carattere valutativo.
Il divieto si deve applicare, anche per la quota del 25% da destinare agli incentivi del personale della centrale unica di committenza, nel caso in cui l'incarico di componente la commissione di gara sia svolto presso la centrale unica di committenza. Al più questi compensi possono essere corrisposti ai membri della conferenza unificata tecnica della commissione, anche se dipendenti del Comune, perché l’attività è di tipo tecnico e non valutativo.
Regolamento non retroattivo
La delibera della sezione di controllo del Lazio, oltre a quelle del Piemonte, parere 23.05.2018 n. 56, e del Veneto, parere 21.06.2018 n. 198 e parere 25.07.2018 n. 264, spiegano che il regolamento approvato dall'ente non può avere decorrenza retroattiva. Ma ci dicono anche che le amministrazioni hanno l'obbligo di prevedere che gli incentivi per le funzioni tecniche siano inseriti nel conto economico dell'opera o dell'appalto di servizi o forniture, entro il tetto massimo del 2% dell'importo posto a base di gara.
Il regolamento, anche per attività svolte prima dell’entrata in vigore, può dare corso alla loro ripartizione, ma senza l’approvazione non si può arrivare all’erogazione. Il regolamento può essere adottato, quanto meno in via provvisoria, anche senza la contrattazione, precisa la Corte dei conti laziale. Non può essere adottato per disciplinare questi compensi per il periodo compreso tra l'entrata in vigore del Dl 90/2014 e del Dlgs 50/2016 e non può avere un effetto di sanatoria per pagamenti già disposti.
Tutte le pronunce (aggiungiamo anche il parere 21.06.2018 n. 199 ed il parere 25.07.2018 n. 265 della Corte dei conti del Veneto, le risorse necessarie per l’erogazione degli incentivi tecnici vanno sia al di fuori del tetto del fondo, sia al di fuori della spesa del personale.
La deroga è stata introdotta dalla legge di bilancio 2018 e si applica solo alle attività svolte dopo il 01.01.2018 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.09.2018).

APPALTIResponsabilità solidale sempre. I contratti collettivi non possono più introdurre deroghe. Il ministero del lavoro sulla riforma: vecchie norme valide solo per i crediti fino al 16/3/2017.
Inderogabili le norme sulla responsabilità solidale negli appalti. Dal 17.03.2017, infatti, i contratti collettivi non possono più prevedere deroghe allo speciale regime della solidarietà disciplinato dall'art. 29 del dlgs n. 276/2003 (che lega appaltatore e committente per i crediti retributivi e contributivi dei lavoratori dipendenti impiegati dell'appalto). Eventuali deroghe contrattuali vigenti a tale data continuano a produrre effetto limitatamente ai crediti maturati fino alla stessa data (non per quelli maturati successivamente).
A precisarlo è il ministero del lavoro nell'interpello 13.09.2018 n. 5/2018, spiegando la portata dell'art. 2 del dl n. 25/2017 (convertito dalla legge n. 49/2017).
Responsabilità solidale. La richiesta di chiarimenti è stata avanzata dall'Ugl Terziario e riguarda, come detto, il regime della responsabilità solidale operativo tra appaltatore e committenti, ai sensi dell'art. 29 del dlgs n. 276/2003.
In particolare, tale regime prevede che, in caso di appalto di opere o servizi, il committente è obbligato in solido con l'appaltatore e gli eventuali subappaltatori, nel limite di due anni dalla cessazione dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori le retribuzioni, incluse le quote di trattamento di fine rapporto (tfr), nonché i contributi e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione dell'appalto.
Fino al 16.03.2017, inoltre, era vigente l'ulteriore disposizione (comma 2 dell'art. 29) che attribuiva alla contrattazione collettiva la facoltà di derogare al regime di solidarietà, nel caso di individuazione di metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti.
Stop alle deroghe. L'ultima norma è stata abrogata dal decreto legge n. 25/2017, in vigore dal 17.03.2017, con la conseguenza di sopprimere la facoltà riconosciuta ai contratti collettivi di prevedere deroga al regime di solidarietà. L'Ugl-terziario ha chiesto di sapere la portata applicativa della novità, ossia se abbia o meno natura retroattiva, alla luce di quanto prevede il codice civile in materia di efficacia della legge nel tempo, in particolare per l'applicazione dei contratti collettivi che, in attuazione della norma abrogata (art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003), contengano misure di verifica e di controllo sulla regolarità degli appalti.
Il ministero fa presente, in primo luogo, che la modifica normativa ha effetto a partire dal 17.03.2017, data dell'entrata in vigore, senza che sia prevista alcuna disciplina transitoria, né in ordine agli effetti sui contratti collettivi in corso di validità, né sui contratti di appalto che siano sottoposti a misure di controllo ai sensi di eventuali previsioni di contratti collettivi. Il ministero aggiunge, quindi, che l'eliminazione della facoltà, precedentemente riconosciuta alla contrattazione collettiva, opera sui nuovi contratti collettivi, ai quali è precluso per il futuro la possibilità di inserire deroghe allo speciale regime di solidarietà.
Inoltre, le eventuali deroghe vigenti per effetto di contratti collettivi in corso di validità al 17.03.2017 non possono trovare applicazione negli appalti sottoscritti a partire dalla predetta data. Infine, quale ius superveniens, la norma di abrogazione opera nei confronti di situazioni e/o fatti che al 17.03.2017 (data dell'entrata in vigore del dl n. 25/2017) non erano sorte e non risultavano perfezionate nei loro elementi e nella loro esecuzione.
In altre parole, l'eventuale deroga contrattuale può continuare a trovare applicazione solo per i crediti maturati fino al 16.03.2017; mentre non può trovare applicazione per i crediti maturati a partire dal 17.03.2017
(articolo ItaliaOggi del 18.09.2018).

ATTI AMMINISTRATIVIMulte e atti, consegna aperta. Licenze speciali anche ai privati. Quattro le tipologie. Pubblicato in G.U. il decreto del Mise che interrompe il monopolio di Poste Italiane.
Via libera definitivo al rilascio delle licenze speciali (divise in quattro tipologie) per l'attività di notificazione degli atti giudiziari e dei verbali del codice della strada, non più riservata esclusivamente a Poste Italiane.
A distanza di un anno dalla legge sulla concorrenza n. 124/2017 è stato, infatti, pubblicato l'atteso decreto ministeriale che apre il mercato del recapito delle multe stradali, nell'ottica di una concorrenza che potrebbe comportare minori spese per l'utente finale.
Il decreto legislativo n. 261/1999. Prima delle modifiche introdotte dalla legge n. 124/2017, il decreto legislativo n. 261/1999 aveva previsto un unico fornitore del servizio universale postale, con una distinzione, non presente nell'ordinamento comunitario, tra fornitore del servizio e prestatori del medesimo servizio. Il primo fornisce il servizio integralmente su tutto il territorio nazionale, i secondi forniscono prestazioni singole e specifiche.
Fornitrice del servizio universale è riconosciuta ex lege la società Poste italiane spa e i rapporti con lo stato sono regolati da periodici contratti di programma. Per gli altri operatori è necessaria una licenza individuale, rilasciata dal ministero dello sviluppo economico, per le imprese che intendono fornire al pubblico servizi postali non riservati che rientrano nel campo di applicazione del servizio universale, e un'autorizzazione generale rilasciata dal ministero dello sviluppo economico.
La legge sulla concorrenza n. 124/2017. La legge n. 124 del 04.08.2017 ha disposto la soppressione a decorrere dal 10 settembre 2017 dell'attribuzione in esclusiva alla società Poste Italiane (quale fornitore del servizio universale postale) dei servizi inerenti alle notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari (ai sensi della legge n. 890/1982) e alle notificazioni delle violazioni del codice della strada (ai sensi dell'art. 201 del decreto legislativo n. 285/1992).
In particolare, modificando il decreto legislativo n. 261/1999, la legge sulla concorrenza del 2017 ha aveva disposto che entro novanta giorni dalla sua entrata in vigore (cioè dal 29.08.2017) l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dovesse determinare i requisiti e gli obblighi per il rilascio delle licenze individuali relative alle notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari e alle notificazioni delle violazioni del codice della strada.
I provvedimenti dell'Agcom. Con la deliberazione n. 77/18/Cons del 20.02.2018 l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato il previsto regolamento, precisando quali sono i requisiti per ottenere la licenza. Il regolamento contiene anche gli standard di qualità che devono essere garantiti per ogni invio.
In particolare, per almeno il 90% degli atti gli operatori privati devono eseguire la consegna del piego entro cinque giorni lavorativi e per almeno il 98% entro sette giorni lavorativi. Il corriere privato deve avere un «corner», uno spazio dedicato, chiaramente identificato con i segni distintivi del titolare della licenza speciale, nel quale i servizi di accettazione e ritiro della giacenza, sono offerti alla clientela secondo i metodi e le direttive previsti da un apposito manuale operativo presentato all'atto della domanda per il rilascio del titolo.
Per quanto riguarda l'articolazione della logistica delle strutture abilitate al deposito e al ritiro delle giacenze, viene richiesta almeno una struttura entro un raggio di 10 km dal centro del comune che ha popolazione fino a 15 mila abitanti, almeno una struttura nel comune con popolazione fra 15 mila e 50 mila abitanti, almeno una oppure almeno due strutture nel comune con popolazione tra 50 mila abitanti e 200 mila abitanti a seconda che la superficie sia rispettivamente minore o maggiore di 100 km/q, almeno tre strutture nel comune con più di 200 mila abitanti.
Le strutture dovranno essere aperte almeno due pomeriggi alla settimana e almeno dalle ore 15,30 alle ore 19,00, con la chiusura di sabato pomeriggio e nei festivi. Con la deliberazione n. 285/18/Cons del 27/6/2018, al fine di evitare l'adozione di stampati già utilizzati dal fornitore del servizio universale di non vincolare i processi tecnici dei nuovi operatori entranti, l'Agcom ha definito le caratteristiche uniformi delle buste e dei moduli che devono essere utilizzati dagli operatori postali e allegati alla domanda di rilascio della licenza speciale.
Il decreto del Mise. Il 19.07.2018 il ministro dello sviluppo economico Luigi Di Maio ha firmato il decreto che regolamenta le procedure per il rilascio delle licenze speciali. Tale decreto ministeriale è stato pubblicato sulla G.U. n. 208 del 7 settembre scorso.
Il provvedimento suddivide le licenze individuali speciali, rilasciabili ai corrieri privati, in quattro diverse tipologie: la licenza A1 per la notificazione a mezzo posta degli atti giudiziari e delle violazioni del codice della strada in ambito nazionale, la licenza A2 per la notificazione a mezzo posta degli atti giudiziari e delle violazioni del codice della strada in ambito regionale, la licenza B1 per la notificazione a mezzo posta di violazioni del codice della strada in ambito nazionale e la licenza B2 per la notificazione a mezzo posta di violazioni del codice della strada in ambito regionale. Gli operatori privati che intendono presentare l'istanza devono comprovare il possesso di alcuni requisiti,
Per avviare il servizio, il corriere privato deve necessariamente attendere il rilascio della licenza individuale speciale, che ha una validità non superiore a sei anni. Se successivamente viene meno il possesso dei requisiti prescritti oppure non viene presentata la richiesta di rinnovo almeno 90 giorni prima della scadenza, la licenza decade. E in caso di gravi violazioni sulle modalità di svolgimento del servizio, il ministero dello sviluppo economico, su richiesta o proposta dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, può inviare una diffida o disporre la sospensione o la revoca della licenza.
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Anche la Pec fa risparmiare i trasgressori.
Se, da un lato, il rilascio delle nuove licenze speciali per i corrieri privati contribuirà a favorire, grazie alla concorrenza, una riduzione delle spese del servizio, già da alcuni mesi la notificazione delle multe stradali via Pec sta avendo l'effetto di contenere le spese e quindi di ridurre l'importo totale che il trasgressore deve pagare per una violazione del codice della strada.
Con il decreto del ministero dell'interno del 18.12.2017 recante «Disciplina delle procedure per la notificazione dei verbali di accertamento delle violazioni del codice della strada, tramite posta elettronica certificata», gli organi accertatori devono notificare le multe stradali tramite la Posta elettronica certificata all'indirizzo di Pec dichiarato dal conducente o dal responsabile in solido o al domicilio digitale di cui all'art. 3-bis del codice dell'amministrazione digitale.
In caso di contestazione immediata della violazione stradale, la notificazione si intende eseguita, ma è opportuno far dichiarare al trasgressore e all'obbligato in solido presenti la casella personale di Pec. Invece, con la contestazione differita della violazione stradale va notificazione va fatta via Pec, senza oneri per il destinatario, alla casella ottenibile dagli elenchi di cui all'art. 16-ter del decreto legge n. 179 del 18.10.2012 e in ogni altro registro contenente i domicili digitali validi ai fini delle comunicazioni aventi valore legale.
Se la notificazione mediante Pec non è possibile, si segue la procedura ex art. 201 cds, con oneri a carico del destinatario. Il messaggio di Pec inviato al destinatario del verbale deve contenere nell'oggetto la dizione di «atto amministrativo relativo a una sanzione amministrativa prevista dal codice della strada» e in allegato una relazione di notificazione su documento informatico separato, sottoscritto con firma digitale, una copia per immagine su supporto informatico di documento analogico del verbale e ogni altra comunicazione o informazione utile al destinatario per esercitare il proprio diritto alla difesa e ogni altro diritto o interesse tutelato.
I termini per la notificazione sono quelli già previsti dal codice della strada. I verbali si considerano spediti, per gli organi di polizia stradale, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione della Pec
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGODipendenti sorvegliati speciali. Comuni infiltrati o malgestiti: commissari per un anno. È una delle novità del decreto legge Salvini sulla sicurezza che è ormai in dirittura.
Dipendenti comunali commissariati. In caso di condotte sospettate di illegalità o di cattiva gestione, il ministro dell’Interno su input del prefetto potrà inviare negli enti commissari straordinari da inserire per un anno nei posti burocratici chiave per accelerare le pratiche.
Dipendenti comunali commissariati. In caso di condotte sospettate di illegalità o di cattiva gestione, il ministro dell'Interno su input del prefetto potrà inviare negli enti commissari straordinari da inserire per un anno nei posti burocratici chiave per accelerare le pratiche. Ciò soprattutto allo scopo di contrastare l'infiltrazione criminale all'interno degli organi tecnici delle amministrazioni comunali e provinciali. Presto dunque saranno sorvegliati speciali non solo i politici ma anche tutti i tecnici e i dirigenti.
Lo prevede lo schema di decreto legge recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa, modifiche al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, nonché misure per la funzionalità del ministero dell'interno» ormai in dirittura, che contiene anche lo sblocco degli straordinari per le forze di polizia e una parziale apertura della banca dati (Ced) del Viminale alle necessità della polizia locale delle grandi città.
Sono dunque ambiziose le finalità del provvedimento annunciato a colpi di tweet da alcune settimane dal ministro Matteo Salvini e che nell'ultima versione disponibile si compone di ben 34 articoli. Oltre al potenziamento dei dispositivi di controllo elettronico dei detenuti, il provvedimento introduce controlli in materia di noleggio dei veicoli per finalità di prevenzione del terrorismo. Saranno le società di noleggio a comunicare tempestivamente alla polizia i dati dei clienti per verificare preliminarmente eventuali soggetti sospetti che potrebbero utilizzare i veicoli per compiere attentati.
Anche la polizia locale dei comuni più grandi potrà finalmente accedere alla banca dati interforze del Viminale per verificare le generalità delle persone controllate in relazione a provvedimenti di ricerca o di rintraccio. Ma si tratta sempre di una apertura parziale che non abilita tutti i comandi di polizia locale alle informazioni necessarie per lavorare serenamente. Verranno poi introdotte leggere modifiche sul daspo urbano e sportivo e potenziato il reato di blocco stradale.
Circa il contrasto e la prevenzione della criminalità mafiosa il provvedimento interviene sul codice antimafia, sul monitoraggio dei cantieri ma anche in materia di subappalti illeciti inasprendo le pene previste dalla legge Rognoni-La Torre. Per migliorare la circolarità informativa viene modificata anche la normativa antiriciclaggio e il Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza introducendo una accelerazione nella comunicazione delle sentenze di condanna per delitti di mafia al questore di riferimento.
Circa il contrasto dell'occupazione abusiva di immobili il provvedimento inasprisce le pene ed introduce un piano operativo nazionale dedicato specificamente al complesso tema. Si tratta in pratica di una nuova strategia di intervento che vedrà il prefetto al centro dell'azione di contrasto. La bozza di decreto punta poi i riflettori sulla gestione dei beni confiscati e sequestrati semplificando le attività burocratiche dell'agenzia nazionale e istituendo presso le prefetture eventuali tavoli permanenti sulle aziende sequestrate e confiscate.
Gli ultimi articoli del provvedimento sono dedicati al miglioramento delle attività del Viminale e delle forze di polizia. Gli straordinari delle forze di polizia dello stato non saranno più sottoposti ai vincoli introdotti dal decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, nei limiti dello stanziamento già esistente in bilancio. E verranno aumentati i fondi necessari per la retribuzione del personale volontario del corpo nazionale dei vigili del fuoco
(articolo ItaliaOggi del 15.09.2018).

VARIImmobiliare Periti doc.
Non basta avere un diploma o una laurea per svolgere l'attività di valutatore immobiliare. Ma è necessario essere iscritti ai rispetti albi professionali (per esempio quello di agronomi, architetti, geometri e ingegneri).

Lo chiarisce Accredia (l'ente italiano di accreditamento) con la circolare 28.08.2018 n. 12/2018.
Questa nuova e più stringente interpretazione impone agli organismi un accertamento puntuale, finalizzato:
   - ad accettare che, dal 28.08.2018, le domande di certificazione siano presentate solo da candidati valutatori immobiliari già iscritti ad albi e periti iscritti presso le camere di commercio nella specifica sezione inerente le stime immobiliari;
   - a rivalutare le certificazioni già emesse. E, in assenza di iscrizione a uno degli albi professionali, sospendere o revocare la certificazione interessata, in attesa che anche questo requisito venga soddisfatto. Questa rivalutazione dovrà essere completata entro fine 2018 per tutte le certificazioni già emesse (o per le pratiche in cui l'iter di certificazione fosse già stato avviato) (articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).

LAVORI PUBBLICINiente Fpv per i lavori allo stato di progetto.
Niente Fondo pluriennale vincolato per i lavori pubblici che si trovano ancora allo stato di progetto.

È la conseguenza della pubblicazione solo parziale del dm 29.08.2018, contenente l'ottavo decreto correttivo ai principi contabili.
Il testo (che ancora attende di atterrare sulla Gazzetta Ufficiale) è stato pesantemente sforbiciato rispetto alla versione più ampia licenziata dalla Commissione tecnica lo scorso 11 luglio.
In particolare, era prevista una profonda revisione dell'allegato 4/2, al fine di rendere più semplice il raccordo fra le norme contabili e quelle sugli appalti di lavori pubblici, introducendo numerose novità, soprattutto per quanto concerne l'impatto contabile della progettazione e della realizzazione delle opere e la possibilità di attivare il fondo pluriennale vincolato anche solo in presenza di un progetto almeno definitiva.
Questa parte non è stata ripresa nel testo ufficiale, perché il governo intende riconsiderarla alla luce della annunciata revisione del dlgs 50/2016. Lo stop, però, rischia di complicare la vita di molte amministrazioni, che speravano nella maggiore flessibilità promessa da tempo. Due i principali nodi critici: l'impossibilità di considerare «impegnato» l'intero quadro economico dell'opera quando si è ancora a livello di progetto e i tempi stretti per la riprogrammazione dei ribassi d'asta (articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).

APPALTI FORNITURE E SERVIZISopra i 40 mila acquisti dai soggetti aggregatori.
L'obbligo di fare ricorso ai soggetti aggregatori comprende nuove tipologie di servizi e di beni per le quali gli enti locali non possono più gestire direttamente le procedure di acquisto oltre specifiche soglie.

Il dpcm 11.07.2018 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 agosto e in vigore dalla stessa data) sostituisce il precedente decreto del 24.12.2015, definendo un quadro di prestazioni e forniture molto più ampio assoggettato alla disciplina dell'art. 9, comma 3, della legge n. 89/2014.
La disposizione stabilisce che le amministrazioni pubbliche (in particolare gli enti del servizio sanitario nazionale e gli enti locali) devono acquisire le tipologie di beni e servizi individuati dal decreto mediante i soggetti aggregatori, potendo sia fare riferimento a iniziative aggregative da essi sviluppate (es. le convenzioni quadro di Consip o di alcune centrali di committenza regionali) sia chiedendo agli stessi la gestione di gare specifiche.
Il nuovo decreto attuativo obbliga gli enti locali a ricorrere ai soggetti aggregatori sin dalla sua entrata in vigore per acquisire i servizi di trasporto scolastico di valore superiore ai 40.000 euro: tale soglia è riferita alla base d'asta annuale o, se il servizio ha sviluppo temporale superiore, pluriennale.
La classificazione del nuovo dpcm comporta per gli enti un'accurata revisione dei processi di esternalizzazione del particolare servizio, dovendo considerare anche la possibilità di iniziative aggregative coinvolgenti più amministrazioni, con possibile suddivisione in lotti funzionali territoriali. Il decreto dell'11 luglio individua nelle nuove categorie merceologiche anche le forniture di beni e i servizi per la manutenzione delle strade di valore superiore alla soglia comunitaria (221.000 euro), stabilendo tuttavia che per tali tipologie l'obbligo decorra dal 15.08.2019, fatta eccezione per le iniziative eventualmente già avviate dai soggetti aggregatori.
Il quadro attuativo dell'art. 9 della legge n. 89/2014 fa permanere nell'obbligo di ricorso ai soggetti aggregatori i servizi di guardiania e di vigilanza armata (entrambi per valori superiori ai 40.000 euro), nonché quelli di pulizia, di facility management e di manutenzione per gli immobili (in tutti e tre i casi quando la base d'asta annuale o pluriennale supera i 221.000 euro) (articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).

APPALTIL’imposta di bollo per gli acquisti PA sul mercato digitale. Incertezza sulle modalità con cui la Pa potrà provare l’assolvimento dell’obbligo.
Nell’acquisto di beni e servizi tramite mercato elettronico della pubblica amministrazione è dovuta l’imposta di bollo anche se resta incerta la modalità di assolvimento e le Pa stazioni appaltanti non hanno solo una funzione di vigilanza sul regolare adempimento del fornitore, ma sono solidalmente responsabili (articolo 22, Dpr 642/1972), in quanto solo alle amministrazioni dello Stato compete l’esenzione con obbligazione esclusiva a carico dei fornitori.

Queste le precisazioni che si ricavano dalla risposta delle Entrate ad interpello (n. 956-571/2018) di un’università statale dello scorso agosto, quindi non ancora pubblicata nella nuova sezione del sito, ma che impattano su tutte le innumerevoli Pa (Aziende sanitarie, enti pubblici non economici, enti locali, ecc.), diverse dalle amministrazioni dello Stato e sui loro fornitori.
L’università, in quanto Pa tenuta alla realizzazione di propri acquisti facendo riferimento al codice dei contratti pubblici (Dlgs 50/2016) e attraverso il mercato elettronico della pubblica amministrazione (Mepa), aveva chiesto chiarimenti sulla propria funzione di vigilanza rispetto all’imposta, nonché conferma di come dovesse ritenersi materialmente applicabile l’orientamento della risoluzione n. 96/E/2013 emanata in vigenza del Dlgs 163/2006 e del relativo Dpr 207/2010.
La risoluzione 96/E aveva affermato l’assoggettamento a imposta di bollo sulle transazioni Mepa, ritenendo il documento informatico di stipula, sottoscritto digitalmente dalla sola Pa, assimilabile ad un contratto non classificabile fra quelli conclusi nella forma dello scambio di corrispondenza secondo l’uso del commercio (per i quali l’imposta è dovuta solo in caso d’uso), ma non aveva indicato con quale modalità si dovesse procedere all’assolvimento.
All’epoca della predetta risoluzione l’articolo 139 del Dpr 207/2010 stabiliva chiaramente che l’imposta di bollo era a carico del fornitore, norma abrogata con l’avvento del Dlgs 50/2016, per cui l’Agenzia nega che vi possa essere una obbligazione concentrata nel solo fornitore e la riconduce solidalmente alle parti del contratto. Tale principio ha impatto generale e si ritiene trovi applicazione in tutti i contratti di acquisti di beni e servizi in qualunque forma stipulati (analogica o digitale) che vedano parte le Pa, stazioni appaltanti diverse dalle amministrazioni dello stato.
Resta incertezza sulla modalità di assolvimento del bollo: l’Agenzia ribadisce l’inapplicabilità dell’articolo 6 del Dm 17.06.2014 limitata ai documenti informatici fiscalmente rilevanti (libri, registri, fatture) e afferma che la Pa potrà comprovare l’assolvimento dell’imposta in modalità virtuale o indicando nel documento inviato il codice numerico di 14 cifre rilevabili dal contrassegno telematico (risoluzione n. 89/E/2016) addirittura ponendo prioritariamente l’onere sulla stazione appaltante.
Non viene considerata l’assenza di materialità e rigidità del procedimento Mepa, che rende tecnicamente complesso il legame documento digitale e imposta di bollo. Nessun accenno alla possibilità d’impiego della marca da bollo digitale (servizio@bollo), regolamentata dall’Agenzia nel 2014, con PagoPA che potrebbe essere idoneo per la fattispecie, ma stenta a trovare diffusione (articolo Il Sole 24 Ore del 13.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Equo indennizzo per tutti i vigili.  Viminale: non conta la popolazione.
La polizia municipale torna a beneficiare dell'equo indennizzo e del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio con esclusione delle cure termali e inalatorie. A prescindere dalla dimensione demografica dell'ente di appartenenza.
Lo ha evidenziato il dipartimento degli affari interni e territoriali del Viminale con la nota 23.08.2018 n. 97420690584 di prot..
La questione della cancellazione dell'equo indennizzo per la polizia locale nasce con il decreto salva Italia, approvato dal governo Monti. Trattandosi di una polizia comunale gli operatori di vigilanza urbana erano stati esclusi dalla deroga al taglio prevista in origine solo per le forze dell'ordine. La tutela è stata poi ripristinata, in parte, con la legge di conversione del decreto sicurezza.
Con la modifica introdotta dal dl 14/2017, infatti, il procedimento per l'accertamento della dipendenza da causa di servizio disciplinato dal dpr 461/2001, consente di attivare la richiesta di equo indennizzo all'operatore municipale rimasto vittima di un sinistro. Ovvero di accedere a un riconoscimento forfettario della menomazione patita per causa di servizio, in proporzione alla gravità della vicenda.
Allo stesso operatore coinvolto nella limitazione fisica per motivi di lavoro verrà anche riconosciuto il rimborso delle spese di degenza per causa di servizio. Ovvero le spese per ricoveri in istituti sanitari pubblici o privati convenzionati, «conseguenti a ferite o lesioni riportate nell'espletamento di servizi di polizia o di soccorso pubblico, ovvero nello svolgimento di attività operative o addestrative, riconosciute dipendenti da causa di servizio, con esclusione delle cure balneo-termali, idropiniche e inalatorie».
Non è stata invece ripristinata la pensione privilegiata per l'agente vittima di un evento invalidante al lavoro. In ogni caso le spese dovranno essere anticipate dai comuni. Ma non solo i comuni più grandi, come aveva indicato il ministero delle finanze al comune di Irsina con la nota del 24.05.2018. A parere del Viminale infatti l'istituto si applica a tutto il personale della polizia municipale. A prescindere dalla dimensione demografica dell'ente di appartenenza
(articolo ItaliaOggi del 13.09.2018).

ENTI LOCALI - VARIAtti giudiziari, notifiche anche da poste private.
Legittime anche le notifiche degli atti giudiziari (per esempio decreti ingiuntivi, sentenze ecc.) e delle multe per violazione al codice della strada, effettuate per il tramite di poste private che siano debitamente autorizzate.

È stato infatti disciplinato con il decreto del ministero dello sviluppo economico del 19.07.2018, pubblicato in G.U. n. 208 del 7 settembre scorso, il rilascio delle licenze individuali per i servizi di notificazione sino ad ora attribuito in esclusiva alla società Poste Italiane.
La legge annuale per il mercato e la concorrenza 2017 ha liberalizzato il settore postale mettendo fine al monopolio di Poste Italiane per la notifica degli atti giudiziari e delle multe. Il rilascio della licenza dovrà essere subordinato a specifici obblighi di servizio universale con riguardo alla sicurezza, alla qualità, alla disponibilità e all'esecuzione dei servizi medesimi.
La legge 04.08.2017, n. 124, all'art. 1, comma 57, lettera b), ha disposto, con decorrenza dal 10.09.2017, l'abrogazione dell'art. 4 del dlgs 22.07.1999, n. 261. Tale abrogazione espressa comporta, quindi, la soppressione dell'attribuzione in esclusiva alla società Poste Italiane quale fornitore del servizio postale universale, dei servizi inerenti le notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari, ai sensi della legge n. 890/1982, nonché dei servizi inerenti le notificazioni delle violazioni al codice della strada ai sensi dell'art. 201 del dlgs. n. 285/1992.
Tornando alle nuove regole, le domande per il rilascio delle licenze vanno inoltrate tramite raccomandata con avviso di ricevimento o tramite posta elettronica certificata; il termine per il rilascio della licenza individuale speciale (o per il rifiuto della stessa) è fissato in 45 giorni, decorrenti dalla data di ricevimento della domanda. Le licenze sono classificate in varie tipologie per la notificazione degli atti secondo ambiti regionali o nazionali.
Le licenze speciali, sia in ambito nazionale che regionale, durano sei anni e sono rinnovabili. Il rilascio della licenza speciale è, altresì, subordinato al possesso di determinati requisiti di affidabilità, di professionalità e di onorabilità; è, inoltre, assoggettato a determinati obblighi in materia di personale dipendente e di qualità del servizio (articolo ItaliaOggi del 12.09.2018).

LAVORI PUBBLICIDup e programma delle opere pubbliche insieme anche per i piccoli Comuni.
L'emanazione del decreto 29.08.2018 Economia e finanza di aggiornamento dei principi contabili allegati al Dlgs 118/2011 consente di fare un pò di chiarezza sul rapporto tra l'approvazione del documento unico di programmazione e gli atti di programmazione settoriale che stanno impegnando gli enti locali in queste settimane.
Gli antefatti
Il Dm 18.05.2018, nell'ambito delle disposizioni di semplificazione del Dup previste per i Comuni fino a 5.000 abitanti, aveva previsto che «fatti salvi gli specifici termini previsti dalla normativa vigente, si considerano approvati, in quanto contenuti nel DUP, senza necessitaÌ€ di ulteriori deliberazioni» tutti gli atti di programmazione settoriale.
Così facendo veniva data una scansione temporale anche all'iter di adozione e approvare del programma triennale delle opere pubbliche e del programma biennale forniture e servizi, per i quali il Dm 14/2018 non prevede autonomi termini di approvazione. La previsione è stata interpretata dalla Corte di conti Puglia (deliberazione n. 103/2018) come valevole solamente per i piccoli enti e non estendibile, in virtù di un processo di semplificazione amministrativa, anche a quelli di maggiori dimensioni (si veda il Quotidiano degli entilocali e della Pa del 25 luglio).
Sul punto si era espressa anche l'Anci che, con nota di orientamento del 24 luglio 2018, aveva ammesso la possibilità di unificare i due procedimenti amministrativi, salvo garantire i termini di pubblicazione del programma opere pubbliche per 30 giorni, prima di procedere alla sua definitiva approvazione.
Le novità del principio contabile allegato 4/1
Il Dm 29.08.2018, modificando il punto 8.2 dedicato alla programmazione degli enti di maggiori dimensioni, chiarisce definitivamente che gli atti di programmazione settoriale sono approvati «senza necessità di ulteriori deliberazioni» nel Dup. La modifica si spinge ancora oltre, precisando che:
   a) se la normativa di settore prevede termini di adozione o approvazione dei singoli documenti antecedenti a quelli del Dup, i documenti devono essere deliberati autonomamente dal documento unico, fermo restando l'obbligo di inserirli successivamente;
   b) se la normativa di settore prevede termini di adozione o approvazione dei singoli documenti successivi a quelli del Dup, i documenti devono essere deliberati autonomamente, fermo restando l'obbligo di inserirli successivamente nella nota di aggiornamento al Dup;
   c) se la normativa di settore non prevede specifici termini di adozione o approvazione, i documenti devono essere inseriti nel Dup e deliberati insieme a esso. È questo il caso del programma triennale delle opere pubbliche, del programma biennale delle forniture di beni e servizi, per i quali il decreto 14/2018 non indica termini autonomi, limitandosi a effettuare un semplice rinvio al Dlgs 118/2011 e al Tuel. Analogo discorso vale anche per la programmazione del fabbisogno di personale, per il programma degli incarichi e per il piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare.
Le conseguenze applicative
Grazie a queste modifiche, il Dup diventa il vero e proprio fulcro della programmazione degli enti e può dirsi compiuto il processo di unificazione e semplificazione avviato con la riforma. Non manca tuttavia il rovescio della medaglia. A questo punto diventa obbligatorio, per le amministrazioni, adottare e successivamente approvare gli atti di programmazione settoriale unitamente al Dup, tenuto conto del carattere prescrittivo e non facoltativo delle modifiche introdotte.
La scelta di deliberare i documenti con atti separati potrebbe essere dettata solamente da esigenze di citare atti diversi (ai fini, ad esempio, della pubblicazione del piano opere pubbliche e del programma beni e servizi), ma non certo di “guadagnare” tempo inserendo nel Dup di luglio una programmazione settoriale poco attendibile e rinviare al bilancio la loro definizione puntuale (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBasta la programmazione e l'assunzione si salva.
Non scatta la sanzione del divieto di assumere relative al 2018 per le amministrazioni che non adottino entro il 24 settembre il nuovo sistema del piano dei fabbisogni, se abbiano comunque adottato una programmazione secondo le vecchie regole.

Più si avvicina il termine per l'attuazione delle linee di indirizzo sulla programmazione dei fabbisogni, adottate dalla funzione pubblica applicando le previsioni dell'articolo 6-ter, del dlgs 165/2018, più cresce l'ansia nelle amministrazioni, nel timore che il mancato adempimento possa determinare conseguenze sulle assunzioni previste (ancora da effettuare) per il 2018.
Si tratta di un semplice allarmismo, che la lettura del paragrafo «sanzioni» delle linee di indirizzo deve far rientrare, ovviamente se si rispettano le semplici condizioni previste.
Le sanzioni previste dal documento sono sicuramente gravi, laddove si ricorda che «l'articolo 6, comma 6, del dlgs 165/2001 prevede che le amministrazioni pubbliche che non provvedono agli adempimenti indicati nell'articolo non possono assumere nuovo personale. Tale sanzione scatta sia per il mancato rispetto dei vincoli finanziari e la non corretta applicazione delle disposizioni che dettano la disciplina delle assunzioni, sia per l'omessa adozione del Prfp (il piano dei fabbisogni del personale) e degli adempimenti previsti dagli articoli 6 e 6-ter, comma 5, del decreto legislativo n. 165 del 2001».
Tuttavia, subito dopo le linee di indirizzo precisano che «sono fatti salvi, in ogni caso, i piani di fabbisogno già adottati». Pertanto, per il 2018, qualora gli enti abbiano adottato il piano dei fabbisogni sulla base delle regole operanti prima dell'entrata a regime della riforma Madia, non è operante alcuna sanzione.
Non c'è, in sostanza, nessun obbligo di «adeguamento» del piano dei fabbisogni già approvato, anche se da molte parti si insiste appunto per una presunta necessità di adeguare i piani. La circostanza che le linee di indirizzo siano state approvate a maggio da Palazzo Vidoni, con molto ritardo rispetto alle indicazioni del dlgs 75/2017, per essere poi pubblicate solo a fine luglio ed entrare in vigore il 24 settembre, rende inevitabile l'impossibilità che le sanzioni risultino operative per gli enti già dotati di una programmazione delle assunzioni.
Del resto, le linee di indirizzo precisano ulteriormente che «la sanzione del divieto di assumere si riflette sulle assunzioni del triennio di riferimento del nuovo piano senza estendersi a quelle disposte o autorizzate per il primo anno del triennio del piano precedente ove le amministrazioni abbiano assolto correttamente a tutti gli adempimenti previsti dalla legge per il piano precedente».
Quindi, l'impianto sanzionatorio derivante dalla mancata adozione della programmazione delle assunzioni secondo le nuove regole disposte dal decreto Madia scatta solo per gli enti che nel 2018 non abbiano ancora realizzato nessuna programmazione e solo per la programmazione 2019-2021. Non vi sono né sanzioni, né necessità di modifica allo scopo di conformare la programmazione adottata prima del 24 settembre alle nuove modalità, per gli enti che abbiano seguito le regole previgenti, ferme restando tutte le altre regole da rispettare: il tetto di spesa di personale massimo complessivo, i vincoli derivanti dal complesso calcolo delle quote assunzionali, gli adempimenti per le mobilità obbligatoria e volontaria.
Dunque, per gli enti già dotati di una programmazione dei fabbisogni, la scadenza del 24 settembre è solo finalizzata a predisporre il nuovo programma triennale per il 2019-2021 e le sanzioni scatteranno di conseguenza.
Per altro, per gli enti locali la programmazione delle assunzioni non può che tradursi in un atto della giunta volto a integrare il documento unico di programmazione (Dup) e, quindi, a dettarne i contenuti per la sua nota di aggiornamento, che va approvata dal consiglio entro il 15 novembre, insieme col bilancio.
Quindi, la scadenza del 24 settembre, a ben vedere, poiché spetta all'organo consiliare appostare le risorse mediante il bilancio di previsione e il Dup ha comunque un carattere soprattutto sollecitatorio, visto che sarà in ogni caso il bilancio a rendere disponibili e spendibili le risorse programmate per le assunzioni da effettuare a partire dal 2019 (articolo ItaliaOggi dell'11.09.2018).

APPALTIPer lavori e acquisti termine impossibile al 30 settembre. La scadenza di 60 giorni dal decreto Mit inciampa nel calendario finanziario.
La programmazione dei lavori pubblici inciampa sulle regole della programmazione finanziaria. L’articolo 21 del Codice dei contratti (Dl 50/2016) stabilisce per le amministrazioni aggiudicatrici l’obbligo di adozione del programma biennale degli acquisti e del programma triennale dei lavori pubblici e relativi aggiornamenti annuali, nel rispetto dei documenti programmatori e in coerenza con il preventivo e con le norme sulla programmazione economico-finanziaria.
Con il decreto 14/2018 del Mit sono state approvate le procedure per i programmi pluriennali dei lavori e servizi pubblici e degli elenchi e aggiornamenti annuali, obbligatorie dalla programmazione 2019.
L’ordinamento finanziario stabilisce l’obbligo di presentazione dello schema di Dup al consiglio entro il 31 luglio e dell’eventuale nota di aggiornamento entro il 15 novembre dell’anno antecedente al periodo di riferimento, con lo schema di bilancio di previsione, per l’approvazione entro il 31 dicembre.
Poiché i documenti di programmazione settoriale, tra i quali i programmi dei lavori pubblici e delle forniture, si considerano approvati senza ulteriori deliberazioni in quanto contenuti nel Dup (decreto Mef del 18.05.2018), l’atto presentato al Consiglio dalla giunta entro il 31 luglio assolve all’obbligo di adozione anche dei programmi su lavori e forniture. I documenti diventeranno definitivi con l’approvazione degli strumenti di programmazione per il triennio successivo entro il 31 dicembre.
Secondo il Codice, i programmi di lavori e forniture vanno pubblicati, oltre che nel sito del Mit e dell’Osservatorio dei contratti pubblici, anche in quello dell’ente. L’iter per la definitiva adozione di programma triennale ed elenco annuale prevede la possibilità di presentazione di osservazioni da parte dei soggetti interessati nei 30 giorni dalla pubblicazione sul sito dell’ente.
L’approvazione definitiva del programma triennale, con l’elenco annuale dei lavori e gli aggiornamenti, avviene entro i successivi 30 giorni dalla scadenza delle consultazioni, oppure, in assenza di queste, entro 60 giorni dalla pubblicazione (articolo 5, comma 5 del decreto 14/2018). Il percorso di approvazione del programma delle opere pubbliche si intreccia quindi con il Dup in tre passaggi: l’adozione della programmazione dei lavori pubblici da parte della giunta con l’inserimento nel Dup, la pubblicazione per 30 giorni per consentire eventuali osservazioni e l’approvazione in consiglio entro i termini previsti dal regolamento di contabilità, ma non oltre 60 giorni dalla prima pubblicazione.
Secondo questa scansione, il Dup 2019-21 presentato al consiglio entro il 31 luglio, e pubblicato entro i termini di legge, comporterebbe l’obbligo di approvazione dei documenti da parte del consiglio entro il 30.09.2018. Come ribadito anche da Anci con una nota informativa, il termine dei 60 giorni non va considerato perentorio, non essendo prevista alcuna sanzione in caso di ritardo. Con la nota di aggiornamento al Dup, prosegue la nota, sarebbe comunque possibile procedere all’eventuale aggiornamento della programmazione dei lavori pubblici (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.09.2018).

APPALTIScansare errori negli appalti. Check list di controlli prefissati in fase di aggiudicazione. La Commissione Ue stila una guida di buone prassi nelle gare pubbliche per p.a. e imprese.
Evitare errori nella gestione degli appalti pubblici, partendo innanzitutto da una accurata pianificazione studio dell'intervento; applicare una dettagliata check list di controlli sulle diverse fasi della procedura.
Sono queste alcune delle indicazioni contenute nella corposa guida (132 pagine) predisposta dai Servizi della Commissione responsabili degli appalti pubblici, in consultazione con gli esperti di appalti pubblici degli Stati membri.
Le best practices si rivolgono principalmente agli operatori del settore degli appalti che operano in seno alle amministrazioni aggiudicatrici nell'Unione europea e sono incaricati di pianificare ed effettuare l'approvvigionamento di lavori, forniture o servizi pubblici, ma anche alle imprese che dovranno applicare le clausole degli atti di gara.
Si tratta di una versione aggiornata dei cosiddetti «orientamenti» in materia di appalti pubblici di qualche mese fa su come evitare gli errori più comuni nei progetti finanziati dai Fondi strutturali e d'investimento europei, rivista per tenere conto delle nuove norme semplificate dell'Ue in materia di appalti pubblici e delle prime esperienze dirette della loro applicazione sul campo. Non si tratta di un manuale di istruzioni (ad esempio una circolare) su come adempiere alle prescrizioni delle direttive appalti pubblici ma di un supporto per orientare i funzionari responsabili degli appalti pubblici di enti locali e regioni.
Si parte quindi dalla fase preparatoria di una procedura di appalto mira all'elaborazione di una procedura solida per la consegna dei lavori, dei servizi o delle forniture richiesti, ed è la fase più cruciale in assoluto poiché le decisioni prese in tale sede determineranno la riuscita dell'intera procedura. La Guida sottolinea che ci possono volere anche mesi di programmazione ma «una buona pianificazione dovrebbe però consentire di ridurre al minimo il rischio di dover modificare o variare un appalto durante l'attuazione e può contribuire a evitare errori».
E proprio l'analisi delle procedure di finanziamento Ue hanno dimostrato alla Commissione che la scarsa pianificazione è la causa principale degli errori di una procedura di appalto. Ecco quindi che la Ue sottolinea come possa essere molto utile coinvolgere parti interessate esterne qualora la competenza richiesta non sia disponibile all'interno dell'amministrazione aggiudicatrice. Potrebbe trattarsi di esperti specializzati (ad esempio architetti, ingegneri, avvocati, economisti) o persino di organizzazioni imprenditoriali, altre autorità pubbliche o imprese. Sul fronte dei possibili conflitti di interesse si suggerisce che imprese e professionisti siano invitati a «dichiarare qualsiasi eventuale conflitto di interessi al momento della presentazione delle loro offerte.
Tale dichiarazione potrebbe rappresentare un requisito minimo fissato nei documenti di gara». Nella guida vengono poi trattati i profili relativi alle analisi di mercato, alle consultazioni preliminari di mercato, al calcolo della stima dei corrispettivi, alla suddivisione in lotti dell'appalto, alla definizione dei requisiti di accesso alla gara, alla presentazione delle offerte e alla loro valutazione, alle richieste dei chiarimenti formulate da imprese e concorrenti e alla fase di esecuzione del contratto, ivi compresa la fase di gestione di reclami e ricorsi.
Viene inoltre fornito uno strumentario in cui sono evidenziati gli errori più comuni, la lista di controllo per la stesura del Capitolato d'oneri, la lista di controllo per la verifica di appalti pubblici e un modello di dichiarazione di assenza di conflitti di interessi e di riservatezza
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).

ATTI AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALIUn designato privacy negli enti. Compiti: trattamento dati e risoluzione dei problemi. La previsione contenuta nel decreto 101/2018 di attuazione del regolamento Ue.
Il decreto legislativo 101/2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 205 del 04.09.2018, che adegua l'ordinamento italiano alla privacy europea (Regolamento 2016/679) introduce la figura del «designato per specifici compiti e funzioni» connessi al trattamento dei dati e risolve un po' di problemi organizzativi.
Proprio nell'assetto organizzativo trova posto, dunque, il designato per specifici compiti e funzioni.
Se ne occupa l'articolo 2-quaterdecies introdotto dal decreto 101/2018 nel codice della privacy (dlgs 196/2003). La norma ha colmato un vuoto aperto dal Regolamento Ue e lo ha fatto sostanzialmente recuperando i contenuti del codice della privacy. A dirci che si tratta di una conferma sostanziale del regime pregresso è la relazione illustrativa al decreto in esame.
Nella relazione si legge, infatti, che la disposizione in questione prevede il potere di titolare e responsabile, di delegare compiti e funzioni a persone fisiche che operano sotto la loro autorità e che, a tal fine, dovranno essere espressamente designati. Tale disposizione, prosegue la relazione illustrativa, permette di mantenere le funzioni e i compiti assegnati a figure interne all'organizzazione che, ai sensi del previgente codice in materia di protezione dei dati personali ma in contrasto con il regolamento, potevano essere definiti, a seconda dei casi, responsabili o incaricati.
Ricostruiamo, dunque, l'organigramma privacy di una azienda.
L'azienda è il titolare del trattamento. Nell'assetto organizzativo aziendale ci possono essere «designati», che operano sotto l'autorità diretta del titolare del trattamento. C'è, poi, un altro livello e cioè quello delle persone autorizzate al trattamento che operano sotto la «diretta» autorità del titolare del trattamento.
La parte più significativa di questo impianto, la cui astrattezza deriva dal fatto che si deve applicare a tutti i settori pubblici e privati, è spiegata dalle parole della relazione. Riprendiamole: si possono, dunque, recuperare responsabili e incaricati; soprattutto è interessante la parte in cui si dice che possono essere recuperati i responsabili interni, anche se non si possono assolutamente chiamare così.
L'attenzione a non denominare nessuno «responsabile interno» nasce dal fatto che il regolamento Ue (articolo 28) scrive una disciplina dei responsabili che si attaglia solo ai responsabili esterni.
Al di là di preoccupazioni, che a volte appaiono meramente nominalistiche, è importante che le imprese e le p.a. sappiano che hanno ora una base giuridica specifica per costruire un modello organizzativo articolato in figure apicali e in figure di base.
L'impresa può costituire funzioni privacy assegnando a queste funzioni un soggetto apicale; oppure l'impresa può attribuire specifici compiti siano assegnati a una persona fisica espressamente designata.
La norma spiega che le persone devono espressamente designate e, quindi, ci vuole l'indicazione analitica dei compiti (così come prevedeva tra l'altro il codice della privacy).
Il soggetto va designato, infatti, per specifici compiti e funzioni: l'atto di designazione non può essere generico, ma deve indicare con esattezza di quali adempimenti si deve occupare il designato.
La norma dice che le persone designate trovano posto nell'ambito dell'assetto organizzativo del titolare: la prassi si preoccuperà di chiarire se questo significhi che il designato sia solo una persona interna al titolare o se può anche essere un esterno (opzione non scartata dalla lettera della norma in esame).
Il soggetto designato per specifici compiti non va chiamato «responsabile», anche per evitare confusione con il responsabile della protezione dei dati (detto anche Dpo, data protection officer). Il Dpo ha altri compiti: informa, consiglia e soprattutto sorveglia il titolare a riguardo dell'esatta applicazione delle norme sulla privacy.
L'articolo 2-quaterdecies parla anche degli autorizzati al trattamento. Il testo della norma sugli «autorizzati» ha una differente formulazione rispetto a quella sui «designati». Mentre per i «designati» si parla di «autorità» del titolare, al di sotto della quale i designati operano, per gli «autorizzati» di parla di «diretta autorità». Peraltro, poiché, la relazione informa del recupero degli «incaricati», figura chiave del codice della privacy, è ragionevole accostare gli «autorizzati» agli «incaricati».
A proposito degli autorizzati la norma dice che sta al titolare individuare le modalità più opportune per l'autorizzazione al trattamento. È consigliabile, comunque, scegliere una modalità che consenta di dimostrare l'avvenuta autorizzazione. Si consideri, inoltre, che bisogna anche lasciare traccia di avere dati istruzioni a riguardo del trattamento e delle misure di sicurezza.
Le caselle dell'organigramma privacy sono, pertanto, le seguenti: titolare del trattamento, designati per specifici compiti e funzioni, autorizzati al trattamento dei dati; collegato al titolare, senza passaggi intermedi, è il responsabile della protezione dei dati (che può essere interno o esterno); all'esterno del titolare si colloca il responsabile del trattamento (articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).

LAVORI PUBBLICI: Dup più facile, ma saltano le modifiche pro-investimenti. L’OTTAVO CORRETTIVO AI PRINCIPI CONTABILI DELLE AMMINISTRAZIONI LOCALI.
Dup (Documento unico di programmazione) più facile, ma saltano le modifiche pro-investimenti.
Possono essere sintetizzati in questi termini i contenuti del dm 29.08.2018 recante l'ottavo decreto correttivo ai principi contabili degli enti territoriali appena pubblicato sul portale Arconet, che ospita tutta la normativa in materia. Il provvedimento recepisce solo in parte la proposta dell'omonima commissione tecnica, che nella seduta dello scorso 11 luglio aveva licenziato uno schema di più ampio respiro.
In particolare, era prevista una profonda revisione dell'allegato 4/2 al dlgs 118/2011 al fine di rendere più semplice il raccordo fra le norme contabili e quelle sugli appalti di lavori pubblici, introducendo numerose novità, soprattutto per quanto concerne l'impatto contabile della progettazione e della realizzazione delle opere e la possibilità di attivare il fondo pluriennale vincolato anche solo in presenza di un progetto almeno definitiva. Questa parte non è stata ripresa nel testo ufficiale, per ragioni al momento non esplicitate nelle premesse.
Confermata, invece, la semplificazione dell'iter di approvazione del Dup, che viene meglio raccordato con gli altri documenti programmatori. Questi ultimi possono ora essere approvati con il Dup, senza necessità di ulteriori deliberazioni. Nel caso in cui i relativi termini di adozione o approvazione precedano l'adozione o l'approvazione del Dup, tali documenti di programmazione dovranno essere adottati o approvati autonomamente, fermo restando il successivo inserimento degli stessi nel Dup.
Nel caso in cui la legge preveda termini di adozione o approvazione dei singoli documenti di programmazione successivi a quelli previsti per l'adozione o l'approvazione del Dup, tali documenti di programmazione potranno essere adottati o approvati autonomamente, fermo restando il successivo inserimento degli stessi nella nota di aggiornamento al Dup. I documenti di programmazione per i quali la legge non prevede termini di adozione o approvazione andranno senz'altro inseriti nel Dup.
In particolare, si richiamano i termini previsti per l'approvazione definitiva del programma triennale delle opere pubbliche dall'articolo 5, comma 5, del decreto del ministero delle infrastrutture n. 14 del 16.01.2018 concernente Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione e la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma biennale per l'acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi annuali e aggiornamenti annuali: «Successivamente alla adozione, il programma triennale e l'elenco annuale sono pubblicati sul profilo del committente. Le amministrazioni possono consentire la presentazione di eventuali osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione di cui al primo periodo del presente comma.
L'approvazione definitiva del programma triennale, unitamente all'elenco annuale dei lavori, con gli eventuali aggiornamenti, avviene entro i successivi trenta giorni dalla scadenza delle consultazioni, ovvero, comunque, in assenza delle consultazioni, entro sessanta giorni dalla pubblicazione di cui al primo periodo del presente comma, nel rispetto di quanto previsto al comma 4 del presente articolo, e con pubblicazione in formato open data presso i siti informatici di cui agli articoli 21, comma 7, e 29 del codice.
Le amministrazioni possono adottare ulteriori forme di pubblicità purché queste siano predisposte in modo da assicurare il rispetto dei termini di cui al presente comma
» (articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGOPrivacy, massima tutela per chi segnala illeciti. IL WHISTLEBLOWING E IL DECRETO 101/2018 DI ADEGUAMENTO AL REGOLAMENTO EUROPEO.
L'accesso ai dati personali contenuti o connessi a segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio o di illeciti (whistleblowing) può avvenire solo se vengono garantite specifiche misure di sicurezza ovvero con l'autorizzazione del Garante Privacy.
Lo prevede l'articolo 2-undecies del decreto legislativo 101 del 10.08.2018, pubblicato il 4 settembre scorso sulla Gazzetta Ufficiale (si veda ItaliaOggi di ieri), con il quale vengono dettate disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati).
Tra le novità di maggior rilievo si evidenziano quelle contenute nel citato articolo 2-undecies il quale prevede, appunto, la limitazione all'esercizio dei diritti dell'interessato qualora ne possa derivare un pregiudizio effettivo e concreto:
   - agli interessati tutelati in base alle disposizioni in materia di riciclaggio;
   - agli interessati tutelati in base alle disposizioni in materia di sostegno alle vittime di richieste estorsive;
   - alle attività svolte da un soggetto pubblico diverso dagli enti pubblici economici, in base ad espressa disposizione di legge per esclusive finalità inerenti la politica monetaria e valutaria, al sistema dei pagamenti al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e finanziari;
   - alla riservatezza dell'identità del dipendente che segnala ai sensi della legge 30.11.2017, n. 179, l'illecito di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio ufficio (Whistleblowing).
Il comma 3 della citata disposizione, nel disciplinare più in dettaglio le modalità con le quali i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del Regolamento Ue 2016/679 (ovvero il diritto di accesso, di rettifica, di cancellazione o oblio, di limitazione, di portabilità e di opposizione al trattamento del dato) potranno essere esercitati dal soggetto interessato, richiede il rispetto delle misure di tutela della riservatezza specificamente previste dalle rispettive normative (dlgs 231/2007 per quanto riguarda l'antiriciclaggio e dlgs 179/2017 per quanto riguarda il whisltleblowing).
L'esercizio dei diritti citati può, in ogni caso, essere ritardato, limitato o anche escluso con comunicazione motivata e resa senza ritardo all'interessato a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità della limitazione per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una misura necessaria e proporzionata. In tali casi i diritti dell'interessato possono essere esercitati anche tramite il Garante Privacy con le modalità previste dall'articolo 160 del dlgs 196/2003.
Tra le altre norme si segnala anche l'articolo 2-terdecies il quale prevede, tra l'altro, che l'esercizio dei diritti di accesso di ai dati personali concernenti le persone decedute spetta a chi ha un interesse proprio o agisce a tutela dell'interessato, in qualità di suo mandatario, o per ragioni familiari meritevoli di protezione. La volontà dell'interessato, sino a che risulti essere in vita, di vietare l'esercizio dei diritti deve risultare in modo non equivoco e deve essere specifica, libera e informata.
Si evidenzia inoltre che il predetto divieto non può produrre effetti pregiudizievoli per l'esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimoniali che derivano dalla morte dell'interessato nonché dal diritto di difendere in giudizio i propri interessi
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2018).

APPALTIAppalti, offerte in digitale. Credenziali aziendali esibite on-line alle p.a.. Dal 18 ottobre scatta il documento di gara unico europeo (via web).
Dal 18 ottobre semplificazioni per l'accesso ai bandi di gara pubblici in formato europeo. E possibilità di presentare le offerte online. Da questa data, infatti, sarà possibile presentare, elettronicamente, le offerte a tutte le amministrazioni aggiudicatrici dell'Unione, attraverso il documento di gara unico europeo (Dgue). Questo dovrà essere predisposto esclusivamente in conformità a regole tecniche, che saranno emanate da AgID (Agenzia per l'Italia digitale) ai sensi dell'articolo 58, 10° comma, del codice dei contratti pubblici. Per tutte le procedure di gara bandite a partire da tale data, eventuali Dgue di formati diversi da quelli definiti dalle regole tecniche dell'AgID saranno considerati quale documentazione illustrativa a supporto.

A ricordare l'entrata a regime degli appalti elettronici, che semplificano l'intero ciclo delle gare pubbliche, rendendolo più efficiente e trasparente, è stata la stessa Commissione europea, che ha divulgato nei giorni scorsi una nota tecnica sul tema. Ricordiamo che quest'obbligo è stato previsto dal codice appalti (articolo 85, comma 1, del dlgs n. 50/2016) e dal regolamento Ue n. 7/2016, che ha adottato il modello di Dgue per tutti gli stati membri dell'Unione.
Autodichiarazione su situazione economica. Il documento di gara unico elettronico europeo è un'autodichiarazione dell'impresa sulla propria situazione finanziaria, sulle proprie capacità e sulla propria idoneità per una procedura di appalto pubblico. Soltanto l'aggiudicatario è tenuto a fornire prove documentali complete. In futuro, potrebbe essere eliminato anche quest'obbligo qualora tali prove possano essere collegate elettronicamente a banche dati nazionali.
L'adozione del Dgue elettronico mira, dunque, a ridurre gli oneri documentali ed economici a carico dei soggetti partecipanti alle procedure di gara, e a semplificare le procedure di verifica da parte delle stazioni appaltanti. Così, a partire dal 18.10.2018, un operatore economico potrebbe non dover più fornire documenti amministrativi complementari nel caso in cui l'amministrazione aggiudicatrice possieda già tali documenti.
Perché il ricorso agli appalti elettronici serve a rendere la procedura più trasparente, a ridurre l'interazione sleale tra i funzionari responsabili degli appalti e gli operatori economici, a facilitare l'individuazione di irregolarità e corruzione grazie a piste di controllo trasparenti.
Ruolo strategico degli appalti. Le nuove direttive partono dall'idea che gli appalti abbiano un ruolo strategico. E questo non soltanto nel garantire che i fondi pubblici vengano spesi in maniera economicamente efficiente, assicurando il miglior rapporto qualità/prezzo per l'acquirente pubblico. Ma anche nel conseguire target in fatto di innovazione, ambiente e inclusione sociale. Come? In particolare, attraverso tre percorsi:
   - i documenti di gara elettronici dovranno richiedere esplicitamente agli operatori economici di rispettare obblighi sociali e in materia di diritto del lavoro, incluse le convenzioni internazionali;
   - le amministrazioni aggiudicatrici vengono incoraggiate a utilizzare al meglio, dal punto di vista strategico, gli appalti pubblici per stimolare l'innovazione. L'acquisto di prodotti, lavori e servizi innovativi, ad esempio, secondo Bruxelles svolge un ruolo fondamentale per migliorare l'efficienza e la qualità dei servizi pubblici e nell'affrontare le principali sfide a valenza sociale;
   - infine, le amministrazioni aggiudicatrici potranno riservare l'aggiudicazione di determinati appalti di servizi a mutue e imprese sociali per un periodo di tempo limitato (articolo ItaliaOggi del 06.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGOInterim per posizioni organizzative, il nuovo contratto aggancia i compensi al risultato.
Nell'ambito del contratto per le funzioni locali relativo al triennio 2016/2018, di notevole rilevanza è la scelta effettuata in ordine alla remunerazione degli incarichi ad interim, con i quali un dipendente con posizione organizzativa è investito transitoriamente della responsabilità di un altro servizio rispetto a quello di propria afferenza, per l'assenza del relativo titolare.
In passato, secondo una prassi non condivisa dall'Aran, la remunerazione di questi incarichi aggiuntivi avveniva mediante un transitorio adeguamento della retribuzione di posizione, con il ricorso ai criteri definiti dalla metodologia vigente alle grandezze espressive della complessità, congiuntamente, del servizio originario e del servizio transitoriamente acquisito.
La regola del nuovo contratto
Con il nuovo contratto è stata, invece, introdotta una regola precisa (articolo 15) in base alla quale «nell'ipotesi di conferimento ad un lavoratore, già titolare di posizione organizzativa, di un incarico ad interim relativo ad altra posizione organizzativa, per la durata dello stesso, al lavoratore, nell'ambito della retribuzione di risultato, è attribuito un ulteriore importo la cui misura può variare dal 15% al 25% del valore economico della retribuzione di posizione prevista per la posizione organizzativa oggetto dell'incarico ad interim».
Peraltro, la stessa disposizione evidenzia i criteri a cui devono fare riferimento gli enti per fissare la retribuzione di risultato effettivamente riconosciuta all'interno del range predefinito, dal momento che occorre tenere conto della complessità delle attività e del livello di responsabilità connessi all'incarico attribuito nonché del grado di conseguimento degli obiettivi.
È accolta, così, una soluzione che era già prevista dalla contrattazione relativa alla dirigenza, nell'ipotesi di interim, e che era già stata sostenuta dall'Aran (si veda l'orientamento applicativo RAL_1610 del 2013), la quale aveva affermato che «in tale ipotesi … dovrebbe trovare applicazione la medesima regola valevole nei casi di incarichi ad interim conferiti ai dirigenti per la sostituzione di altri dirigenti nei casi di assenza e impedimento di questi: attribuzione esclusivamente della retribuzione di risultato eventualmente non corrisposta (in tutto o in parte) al titolare di Po assente».
L'orientamento, peraltro, aveva anche chiarito che «l'ammontare della retribuzione di risultato corrisposta al sostituto sarà strettamente connessa agli obiettivi raggiunti nella misura in cui sia dimostrabile la riconduzione degli stessi al suo operato ed alla sua responsabilità». Naturalmente, in allora, il riconoscimento al dipendente già titolare di posizione organizzativa della retribuzione di risultato relativa alla posizione affidata ad interim poteva avvenire, sempre e, comunque, entro la misura massima consentita del 25%, in assenza di una diversa previsione contrattuale, dal momento che nessuna indicazione di segno diverso era presente.
Limite superabile
Ora con la specifica disposizione contenuta nel contratto relativo alle funzioni locali del 21.05.2018 il limite della retribuzione di risultato è comunque superabile, fermo restando che l'importo riconosciuto è destinato comunque a gravare sulle risorse complessivamente destinate al trattamento economico accessorio delle posizioni organizzative. Naturalmente, poi, tale importo non potrà essere riconosciuto automaticamente in funzione dell'interim svolto, ma implica comunque un percorso di valutazione, come ha sancito sempre l'Aran in relazione all'analogo trattamento da riconoscere ai dirigenti (si veda, in proposito, l'orientamento applicativo RAL_76).
In proposito, è chiarito che l'ente deve procedere alla valutazione annuale dei risultati conseguiti dai dirigenti interessati, anche con riferimento agli incarichi di cui sono titolari ad interim, tenendo conto dell’effettiva partecipazione al raggiungimento degli obiettivi prefissati per ciascuna posizione dirigenziale (quella di cui è titolare e quella oggetto dell'interim).
La necessità della positiva valutazione dell'effettivo apporto partecipativo al raggiungimento degli obiettivi e dei risultati connessi alla funzione dirigenziale vacante, che ha dato luogo al conferimento di tale incarico, consente di escludere che si possa operare un semplice riproporzionamento del maggiore importo della retribuzione di risultato stabilito in relazione alla durata temporale dell'incarico ad interim, con la conseguenza che un ridotto periodo dell'incarico “ad interim” non può non influire sul giudizio finale in ordine al conseguimento degli obiettivi assegnati (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.09.2018).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOSui fabbisogni di personale programmazione in sette mosse.
In mancanza dell'adeguamento del piano triennale del fabbisogno del personale, la formulazione dell'apparato sanzionatorio stabilito dall'articolo 22, comma 1, del Dlgs 75/2017 non lasciava grandi spazi a possibili differenti interpretazioni essendo previsto testualmente che «In sede di prima applicazione, il divieto di cui all'articolo 6, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001, come modificato dal presente decreto, si applica a decorrere dal 30.03.2018 e comunque solo decorso il termine di sessanta giorni dalla pubblicazione delle linee di indirizzo di cui al primo periodo».
In altri termini, i sessanta giorni previsti dalla normativa sembravano piuttosto orientati a inibire le assunzioni nel caso in cui le linee di indirizzo fossero state emanate prima del 30.03.2018, essendo il decreto legislativo entrato in vigore dal 22.06.2018.

Il ritardo nell'emanazione delle linee di indirizzo, emanate con decreto 08.05.2018, ma entrate in vigore solo dopo la loro pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale avvenuta il 27.07.2018, ha fatto sì che nelle linee di indirizzo fossero contenute norme di salvaguardia, tanto da rendere salve le assunzioni previste nei piani adottati prima della pubblicazione del decreto in Gazzetta.
Precisata la possibile discrasia tra decreto legislativo e decreto ministeriale, gli adempimenti posti in capo alle amministrazioni, che potrebbero riguardare anche eventuali modifiche e/o integrazioni ancora da effettuare nell'anno 2018, essendo disposte successivamente alla data del 27.07.2018, possono essere sintetizzate in sette adempimenti.
Gli adempimenti previsti dalla normativa
Al fine di adempiere alle prescrizioni previste dalle linee di indirizzo ministeriali, gli enti locali per sganciarsi dal divieto di assunzioni dovranno predisporre adempimenti che si articolano in sette steps.
Si comincia con l’invio della richiesta ai dirigenti sulla nuova programmazione del personale, tale da superare la semplice sostituzione del personale cessato, indicando le concrete necessità presenti e future di profili professionali specifici, le competenze e le conoscenze richieste e, soprattutto, come tali professionalità si coniughino con il piano della performance e con gli obiettivi strategici. I dirigenti dovranno, inoltre, confermare eventuali eccedenze di personale (articolo 33 del Dlgs 165/2001) ed eventuali servizi da esternalizzare o internalizzare.
Al dirigente del settore risorse umane spetterà invece il compito di elaborare la dotazione organica finanziaria, superando quella numerica, e aggiungendo tutte le altre spese del personale, verificare il rispetto dei limiti stanziati in bilancio, il non superamento della spesa media del triennio 2011-2013, indicando infine i limiti degli spazi assunzionali disponibili sia a tempo indeterminato che flessibile.
Il compito della giunta
Ricevute queste informazioni, spetterà alla giunta comunale, nella sua piena discrezionalità, verificare se e come le richieste e gli spazi finanziari e assunzionali disponibili si coniughino con gli obiettivi di mandato amministrativo, con i limiti delle risorse di bilancio e con le necessarie competenze richieste per potenziare determinati uffici.
In questa occasione potrebbe essere opportuno verificare eventuali modifiche degli assetti organizzativi, anche accorpando funzioni con riordino delle competenze, spingendo sulla digitalizzazione e semplificazione dei processi e, soprattutto verificare come l'ente locale si collochi rispetto alle analisi elaborate dal Sose sia in termini di fabbisogni standard sia quale rapporto con il livello qualitativo dei servizi resi.
Solo a seguito di questa analisi, cui bisognerà fornire riscontro in sede di programmazione delle risorse umane, sarà definito il programma delle assunzioni indicando sia il tipo di approvvigionamento (a tempo indeterminato o flessibile) sia le modalità attuative (concorso, mobilità interna ed esterna, comando, trasformazione del tempo parziale a tempo pieno, stabilizzazione, selezione interna). Il piano triennale del fabbisogno del personale dovrà quindi essere inserito quale modifica al documento unico di programmazione da sottoporre al consiglio comunale previa informativa sindacale;
Il nuovo programma triennale del fabbisogno del personale dovrà essere munito del parere dell'organo di revisione contabile sulla compatibilità delle spese di personale con i vincoli di bilancio e di finanza pubblica e sulla coerenza con le linee guida del ministero; spetta successivamente al consiglio comunale l'adozione del documento quale integrazione al Dup 2019-2021 (che avrebbe dovuto essere presentato entro il 31 luglio). A seguito della sua adozione si dovrà procedere alla sua pubblicazione sul sito istituzione dell'ente locale.
Ultimo adempimento è quello del suo invio al Sico entro 30 giorni dalla data di adozione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico impiego, l’elemento perequativo conta per la pensione ma non per il Tfr.
Con il messaggio 30.08.2018 n. 3224, l'Inps ha diffuso le istruzioni per gestire l'elemento perequativo dal punto di vista previdenziale. La nuova voce di trattamento economico è stata inserita dal contratto del 21.05.2018 ed è già stata corrisposta ai dipendenti da giugno, primo mese utile per riconoscere gli aumenti contrattuali. Arrivano solo ora i chiarimenti sull'assoggettabilità ai fini pensionistici e di fine servizio.
La natura dell’istituto
L'elemento perequativo è un istituto della retribuzione che ha fatto la comparsa in tutti i contratti nazionali stipulati nella scorsa primavera. È un emolumento che è erogato solo per un periodo limitato, con cadenza mensile, dal mese di marzo al mese di dicembre 2018.
Viene corrisposto per periodi di lavoro superiori a 15 giorni; non è dovuto, invece, per periodi di lavoro mensili inferiori a 15 giorni o nei mesi in cui non è corrisposto lo stipendio tabellare, per aspettative o congedi non retribuiti o altre cause di interruzione e sospensione della prestazione lavorativa.
L'Aran, nell'orientamento applicativo CFL1 (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa dell’8 agosto) ha affermato, inoltre, che l'elemento non è “stipendio” e, pertanto, non rientra in nessuna delle nozioni di retribuzione stabilite dall'articolo 10, comma 2, lettere a), b) e c), del contratto del 09.05.2006 e come conseguenza, quindi, non può essere considerato nella base di calcolo né del compenso per lavoro straordinario né dell'indennità di turno.
Le istruzioni sulle pensioni
Una volta chiariti questi aspetti, mancava di conoscere la corretta imposizione previdenziale ai fini dell'elaborazione delle buste paga. Come noto, sono due gli aspetti che entrano in gioco: l'imponibilità ai fini pensionistici e l'imponibilità ai fini del trattamento di fine servizio e fine rapporto.
Dal primo punto di vista, vengono richiamate le disposizioni degli articoli 49 e 51 del Dpr 917/1986 che stabiliscono l'onnicomprensività del concetto di reddito di lavoro dipendente e, quindi, la totale imponibilità di tutti gli emolumenti che il lavoratore riceve in relazione alla prestazione di lavoro resa con qualsiasi qualifica alle dipendenze e sotto la direzione del datore di lavoro.
L'elemento perequativo introdotto dai recenti contratti è, pertanto, imponibile ai fini pensionistici e concorre, conseguentemente, anche ai fini della determinazione dell'imponibile della gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali (da ultimo, il messaggio n. 4325/2014), nonché dell'Assicurazione sociale vita (gestione ex Enpdep).
Il compenso, inoltre, non rientra nel computo della cosiddetta «retribuzione virtuale», corrispondente a quella che avrebbe percepito il dipendente se fosse rimasto in servizio, nel caso di assenze per il verificarsi dell'evento malattia. Non va altresì computato nella retribuzione utile al calcolo della contribuzione figurativa nelle ipotesi di assenza dal servizio, con retribuzione ridotta o nulla, previste dal Dlgs 151/2001, dalla legge 104/1992, dall'articolo 20, comma 2, del Dl n. 112/2008.
Il fine servizio
Per quanto riguarda l'altro aspetto, ovvero il fine servizio, l'Inps precisa che l'elemento perequativo non concorre alla determinazione della prestazione, né ai fini del Tfs (Indennità di buonuscita e indennità premio di servizio) né ai fini del Tfr; pertanto, non rientra nella base imponibile contributiva del fondo ex Enpas ed ex Inadel.
L’esclusione si rifà ai principi generali sull'assoggettabilità solamente in caso di compensi fissi e continuativi ma anche al fatto che le medesime norme contenute nei contratti di rinnovo escludono il computo dell'elemento perequativo agli effetti dell'indennità di buonuscita o dell'indennità di anzianità, dell'indennità premio di servizio, del trattamento di fine rapporto.
Per le Funzioni Locali il riferimento è contenuto negli articoli 66, comma 2, e 65, comma 2, secondo periodo del contratto del 21.05.2018 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.09.2018).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Prevenzione antimafia e società a conduzione familiare.
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Informativa antimafia – Presupposti – Rapporti di parentela - Società a condizione familiare – Limiti.
La società a conduzione familiare assume particolare rilievo nell’ambito della prevenzione antimafia, poiché proprio quando dietro la singola realtà d’impresa vi è un nucleo familiare particolarmente compatto e coeso è statisticamente più facile che coloro i quali sono apparentemente al di fuori delle singole realtà aziendali possono curarne (o continuare a curarne la gestione) e, comunque interferire in quest’ultima facendo leva sui più stretti congiunti; proprio il nucleo familiare “allargato”, ma unito nel curare gli “affari” di famiglia, è uno degli strumenti di cui più frequentemente si serve la criminalità organizzata di stampo mafioso per la penetrazione legale nell’economia (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che il dato relativo alla parentela non deve essere assunto nella sua rigida materialità, ma per le implicazioni logico-presuntive che lo stesso, attentamente esaminato anche alla luce di tutte le circostanze caratterizzanti lo specifico contesto societario e familiare, così come enucleate (più o meno esplicitamente) dall’organo prefettizio, è suscettibile di generare: implicazioni che compete in primo luogo al giudice, in sede di sindacato sulla legittimità dell’informativa interdittiva, attentamente estrapolare dal provvedimento impugnato e dagli atti istruttori che ne hanno preceduto l’adozione.
In via di ulteriore sviluppo dei rilievi che precedono, la “famiglia”, anche da un punto di vista sociologico, in quanto gruppo di persone caratterizzato, in linea tendenziale, dalla condivisione di valori e finalità, costituisce il “naturale” canale di trasmissione di eventuali “propensioni” criminali, le quali finiscono per propagarsi dall’uno all’altro dei suoi membri, da un lato, in virtù dell’appartenenza degli stessi ad un unico habitat socio-economico, dall’altro lato, in forza del legame di solidarietà che, in misura più o meno marcata, li avvince (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 20.09.2018 n. 5480 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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Come si evince dall’analisi condotta sub 3, il nucleo motivazionale fondante l’informativa interdittiva oggetto di giudizio attiene ai rapporti di parentela intercorrenti tra i soci della società appellante e soggetti coinvolti in vicende (e conseguenti provvedimenti giudiziari) di carattere penale e/o preventivo.
Il dato, nella sua cruda oggettività, sembra effettivamente prestare il fianco ai rilievi di parte appellante, intesi a sostenere la sua insufficienza ai fini dimostrativi, anche su un piano meramente indiziario, della prognosi di permeabilità criminale da cui è scaturito il provvedimento interdittivo impugnato: è fin troppo semplice constatare, infatti, che la parentela attiene alla sfera “naturale” e “statica” della relazioni umane, mentre l’attività di prevenzione antimafia non può che incentrarsi su atti/fatti espressivi delle scelte che gli individui pongono in essere nell’esercizio della loro libertà di azione, imprenditoriale e non, siccome idonei a fornire la base per la prefigurazione attendibile del loro comportamento futuro, quanto in particolare alla creazione di margini efficaci alla (o all’opposto all’abbassamento di ogni difesa nei confronti della) penetrazione della criminalità nel tessuto imprenditoriale.
Il rilievo, per quanto elementare, consente tuttavia di formulare alcune osservazioni preliminari, le quali costituiranno l’indispensabile cornice entro cui inscrivere la successiva analisi della fattispecie in esame.
In primo luogo,
il dato relativo alla parentela non deve essere assunto nella sua rigida materialità, ma per le implicazioni logico-presuntive che lo stesso, attentamente esaminato anche alla luce di tutte le circostanze caratterizzanti lo specifico contesto societario e familiare, così come enucleate (più o meno esplicitamente) dall’organo prefettizio, è suscettibile di generare: implicazioni che compete in primo luogo al giudice, in sede di sindacato sulla legittimità dell’informativa interdittiva, attentamente estrapolare dal provvedimento impugnato e dagli atti istruttori che ne hanno preceduto l’adozione.
In secondo luogo, ed in via di ulteriore sviluppo dei rilievi che precedono,
la “famiglia”, anche da un punto di vista sociologico, in quanto gruppo di persone caratterizzato, in linea tendenziale, dalla condivisione di valori e finalità, costituisce il “naturale” canale di trasmissione di eventuali “propensioni” criminali, le quali finiscono per propagarsi dall’uno all’altro dei suoi membri, da un lato, in virtù dell’appartenenza degli stessi ad un unico habitat socio-economico, dall’altro lato, in forza del legame di solidarietà che, in misura più o meno marcata, li avvince.
Come recentemente posto in evidenza da questa Sezione (cfr. sentenza n. 5410 del 14.09.2018), invero, “la società l’appellante si caratterizza per essere una
società a conduzione familiare (come frequentemente avviene in Italia); tale caratteristica, come ha correttamente rilevato la difesa dell’Amministrazione, assume particolare rilievo nell’ambito della prevenzione antimafia, poiché proprio quando dietro la singola realtà d’impresa vi è un nucleo familiare particolarmente compatto e coeso (come appunto nel caso di specie), è statisticamente più facile che coloro i quali sono apparentemente al di fuori delle singole realtà aziendali possono curarne (o continuare a curarne la gestione) e, comunque interferire in quest’ultima facendo leva sui più stretti congiunti. E’ altrettanto noto che proprio il nucleo familiare “allargato”, ma unito nel curare gli “affari” di famiglia, è uno degli strumenti di cui più frequentemente si serve la criminalità organizzata di stampo mafioso per la penetrazione legale nell’economia, tanto è vero che in tempi recenti l’Adunanza Plenaria, riprendendo la giurisprudenza della Sezione, ha ribadito “che -quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose- l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del “più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza –su un’area più o meno estesa– del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito)” (Adunanza Plenaria sentenza 06.04.2018, n. 3 che richiama, a sua volta, i principi già espressi nella sentenza di questa Sezione n. 1743/2016 prima richiamata)”.
Si tratta quindi, alla luce dei rilievi che precedono e dell’acuta analisi operata con il citato precedente giurisprudenziale, non di prendere semplicisticamente atto che il provvedimento interdittivo de quo trae alimento dai rapporti di parentela esistenti tra i soci della società interdetta e soggetti terzi contigui alla criminalità, ma di verificare, attraverso la disamina di tutti gli elementi rilevanti emergenti dallo scrutinio della concreta fattispecie, se quei rapporti possano costituire il fondamento di una valutazione di permeabilità criminale logicamente attendibile e probatoriamente plausibile.

ENTI LOCALIZtl, clienti degli alberghi da tutelare.
Il comune che mette mano alla disciplina della zona a traffico limitato non può trascurare le esigenze degli albergatori impedendo il carico e lo scarico dei bagagli dai veicoli in prossimità della struttura ricettiva negli orari di maggior frequenza turistica. E costringendo gli utenti a lunghi trasferimenti a piedi con le valige.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 18.09.2018 n. 5454.
Il comune di Merano ha adottato una nuova disciplina del traffico urbano stabilendo una fascia oraria molto limitata di accesso veicolare al centro storico dalle 6 alle 10 di mattina.
Contro questa decisione un albergatore ha proposto con successo censure ai giudici di palazzo Spada. Gli arrivi e le partenze dei clienti di un albergo non possono essere concentrati in una rigida fascia oraria.
E non appare neppure ragionevole esigere che i clienti di un hotel possano effettuare le operazioni di carico e scarico dei bagagli ad una distanza di 300 metri dalla struttura. Specialmente se si tratta di una clientela in maggioranza matura (articolo ItaliaOggi del 22.09.2018).
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MASSIMA
5. L’appello è fondato.
Premesso che, prima dell’adozione dell’impugnata deliberazione comunale n. 586/2015, l’odierna appellante era titolare dell’autorizzazione di transito e di carico/scarico con una durata massima di 15 minuti, da ultimo rilasciata per l’Hotel Im.Ar. (ubicato al ..., n. 110) con validità fino al 10.11.2019, si osserva che l’abrogazione di tale regime autorizzatorio, al punto 5) della gravata delibera, e la contestuale introduzione, per il tratto dal civico n. 36 al civico n. 140 del ..., di un divieto generalizzato di circolazione e sosta, a pena di rimozione forzata, dalle ore 10.00 di ogni giorno alle ore 6.00 del giorno successivo, e quindi la limitazione della possibilità di un accesso motorizzato dei clienti dell’albergo in questione al solo arco temporale giornaliero ore 6.00 - ore 10.00, sono affette dai dedotti vizi di violazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione e di ragionevolezza e proporzionalità, sanciti dagli artt. 97 Cost. e 1 l. n. 241/1990, rispettivamente costituenti principi generali dell’ordinamento, di derivazione euro-unitaria.
5.1. Giova, al riguardo, precisare in linea di diritto che:
   - il principio di ragionevolezza postula la coerenza tra valutazione compiuta e decisione presa e la coerenza tra decisioni comparabili;
   - per il principio di proporzionalità, gli atti amministrativi non debbono andare oltre quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato e, qualora si presenta una scelta tra più opzioni, la pubblica amministrazione deve ricorrere a quella meno restrittiva, non potendosi imporre obblighi e restrizioni alla libertà del cittadino in misura superiore a quella strettamente necessaria a raggiungere gli scopi che l’amministrazione deve realizzare, sicché la proporzionalità comporta un giudizio di adeguatezza del mezzo adoperato rispetto all’obiettivo da perseguire e una valutazione della portata restrittiva e della necessità delle misure che si possono prendere;
   - pure il principio di buon andamento comporta l’obbligo della pubblica amministrazione di perseguire la migliore realizzazione dell’interesse pubblico, in modo che vi siano congruenza e congruità tra l’azione amministrativa e il fine che essa deve perseguire.

5.2. Ebbene, applicando le enunciate coordinate ermeneutiche alla fattispecie sub iudice, deve pervenirsi alla conclusione che le dedotte censure sono fondate, in quanto:
   - ancorché il provvedimento impugnato richiami le deliberazioni precedenti n. 171 del 29.04.2008 e n. 375 del 31.10.2013, con cui erano stati perseguiti gli stessi obiettivi di potenziamento della rete e delle zone pedonali, e nel secondo dei quali (che aveva esteso la zona pedonale anche al tratto superiore del ...) era stata prevista la possibilità per i clienti muniti di prenotazione dell’Hotel di accedere e sostare all’interno di tale zona per un tempo massimo di 15 minuti per le operazioni di carico e scarico dei bagagli con esposizione del contrassegno identificativo dell’albergo rilasciato dalla polizia municipale, lo stesso provvedimento qui gravato ha introdotto misure diverse e più restrittive, non consentendo più neppure la mera sosta temporanea per il carico e scarico dei bagagli, senza adeguata motivazione, con conseguente evidente incoerenza tra valutazione compiuta e decisione presa, rispettivamente tra deliberazioni comparabili;
   - appaiono, poi, privi di adeguata motivazione sia il carattere necessitato dell’imposizione delle misure più restrittive per conseguire lo scopo prefissato, sia la mancata scelta, tra più possibili opzioni (la cui fattibilità è rimasta confermata dalla deliberazione n. 375/2013, ad identità di obiettivi), di quella meno restrittiva;
   - è, al riguardo, indubitabile la portata gravemente pregiudizievole, per l’esercizio ricettivo gestito dalla ricorrente, della limitazione dell’accesso motorizzato dei clienti alla fascia oraria dalle ore 6.00 alle ore 10.00, rientrando nelle nozioni di comune esperienza che gli arrivi e le partenze dei clienti di un albergo non possono essere concentrate, sotto un profilo logistico-organizzativo, a una siffatta unica e rigida fascia oraria (mentre una tale limitazione può essere ritenuta adeguata e congrua per gli esercizi commerciali –quali, ad es., i vari tipi di negozi–, diversi dagli esercizi alberghieri);
   - né in sede procedimentale risultano allegati e comprovati, in modo puntuale, concreto e specifico, particolari ragioni di sicurezza (se non in via apodittica, e quindi immotivatamente), tanto più che il ... nel tratto in questione risulta dotato di un ampio marciapiede, nonché tenuto conto del ridotto numero di posti letto dell’albergo in oggetto (cfr. la documentazione versata in giudizio);
   - né appare ragionevolmente esigibile che i clienti dell’albergo siano costretti ad utilizzare parcheggi siti a distanza di 200-300 m dall’albergo, anche per le operazioni di carico/scarico di bagagli, tanto più se si tiene conto che una parte cospicua (se non preponderante) del pubblico dei turisti della città di Merano rientra notoriamente nella fascia d’età medio-alta.
5.3. Per le esposte ragioni, di natura assorbente, in accoglimento dell’appello e in riforma dell’impugnata sentenza, s’impone l’accoglimento del ricorso di primo grado nei limiti dell’interesse dell’odierna appellante.

APPALTI: Interdittiva antimafia e condizionamento mafioso per la presenza anche di un solo dipendente “infiltrato”.
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Informativa antimafia – Presupposti – Individuazione.
Il condizionamento mafioso, che porta all’interdittiva, può derivare dalla presenza di soggetti che non svolgono ruoli apicali all’interno della società, ma siano o figurino come meri dipendenti, entrati a far parte dell’impresa senza alcun criterio selettivo e filtri preventivi.
il condizionamento mafioso si può desumere anche dalla presenza di un solo dipendente “infiltrato”, del quale la mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno l’impresa, nonché dall’assunzione o dalla presenza di dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità organizzata, nonostante non emergano specifici riscontri oggetti sull’influenza nelle scelte dell’impresa.
Le imprese possono effettuare liberamente le assunzioni quando non intendono avere rapporto con le pubbliche amministrazioni: ove intendano avere, invece, tali rapporti devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi siano dipendenti contigui al mondo della criminalità organizzata (1).

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   (1) Ha chiarito la Sezione che l’interdittiva antimafia è volta alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della Pubblica amministrazione: l’interdittiva antimafia comporta che il Prefetto escluda che un imprenditore –pur dotato di adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione– meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti «affidabile») e possa essere titolare di rapporti contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri titoli abilitativi, individuati dalla legge.
Ai fini dell’adozione del provvedimento interdittivo, rileva il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del procedimento: una visione ‘parcellizzata’ di un singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame sistematico con gli altri. E’ estranea al sistema delle informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio (né –tanto meno– occorre l’accertamento di responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di prevenire un grave pericolo e non già quella di punire, nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente rilevante.
Il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato in base al criterio del più «probabile che non», alla luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere integrata da dati di comune esperienza, evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto, anche quello mafioso; pertanto, gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione.
Ha aggiunto la Sezione che quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia.
Nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14.09.2018 n. 5410 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La consistenza della falsa rappresentazione della situazione di fatto posta a base di una istanza edilizia non esige il dolo penale essendo sufficiente il dato in sé della consapevolezza della erronea rappresentazione di tale situazione.
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Il provvedimento di annullamento, motivato anche per relationem sulla base dell’istruttoria dell’Ufficio tecnico, non necessita di una compendiosa motivazione sull’interesse pubblico in quanto adottato a seguito della constatata falsa o erronea prospettazione dei fatti che hanno determinato a suo tempo il rilascio della concessione.
Per costante giurisprudenza, allorquando una concessione edilizia sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito all’Amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa.
Infatti, l’insegnamento giurisprudenziale prevalente ha individuato dei casi in cui la discrezionalità della P.A. in subiecta materia si azzera, vanificando sia l’interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo trascorso, e ciò si verifica quando il privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà.
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Quanto all’ultimo profilo di appello con il quale il ricorrente censura l’assenza di un interesse pubblico, va rilevato che non sussiste un obbligo per l’Amministrazione di darne conto.
Invero, la previsione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, anche nell’ultima versione seguente alla novella del 2015, legittima l’esercizio sine die dell’autotutela in presenza di provvedimenti basati su una falsa rappresentazione della realtà o, in alternativa, su dichiarazioni sostitutive o atti di notorietà la cui falsità è stata assodata da un giudicato penale.
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8. L’appello non è fondato.
9. Il comune di Calvi con il provvedimento n. 5914 del 02.10.2003 ha annullato la concessione edilizia n. 19 del 13.05.1992 rilasciata al signor Fr. per la ricostruzione di un fabbricato danneggiato dal sisma del 1962.
10. La motivazione posta a base dell’annullamento, come desumibile dal contenuto del provvedimento e per relationem dalla proposta del responsabile del procedimento, si è fondata sulla rilevata illegittimità della concessione edilizia rilasciata all’appellante per la ricostruzione di un fabbricato in realtà già ricostruito altrove.
11. Tale circostanza, come evidenziato dal giudice di primo grado, è stata anche accertata nel corso di un giudizio penale innanzi alla Pretura Circondariale di Benevento e alla Corte di Appello di Napoli (cfr. citate sentenze n. 159/98 e n. 1695/2000).
12. Ciò premesso, nei motivi di appello si contestano le conclusioni del Tar che hanno portato al rigetto del ricorso di primo grado.
13. Innanzitutto, l’appellante sostiene di non aver falsamente rappresentato nell’istanza di concessione la situazione di fatto.
13.1. Lo stesso ricorrente, tuttavia, ammette che il fabbricato oggetto del giudizio è stato ricostruito su altra particella, anche se poi afferma di non averne avuto conoscenza in quanto non avrebbe personalmente seguito le pratiche per il rilascio del contributo di cui alla legge n. 1442/1962.
13.2. In tale prospettiva non può però ritenersi fondata la prospettazione dell’appellante in ordine al fatto che l’infedeltà della domanda dovesse essere valutata in funzione dell’oggetto e delle finalità della domanda medesima.
In ogni caso, come risulta evidente, quanto rappresentato ha indotto in errore l’Amministrazione a rilasciare un titolo edilizio sulla base di presupposti non corrispondenti alla realtà.
13.3. Per completezza, giova sul punto evidenziare che la consistenza della falsa rappresentazione della situazione di fatto posta a base di una istanza edilizia non esige il dolo penale essendo sufficiente il dato in sé della consapevolezza della erronea rappresentazione di tale situazione (cfr. Sez. IV, n. 2693 del 2016; n. 4300 del 2014).
13.4. D’altra parte, se la legge consentiva in astratto la ricostruzione in altro sito del fabbricato risultato danneggiato dal sisma quando per motivi tecnici derivanti dall'osservanza delle norme di edilizia antisismica e di disciplina urbanistica si imponeva la ricostruzione dell'immobile su area diversa (cfr. art. 6, comma 3, della legge n. 1431/1962), va evidenziato che nel caso di specie, come rilevato dal Tar, non sussistevano ostacoli tecnici insuperabili per la ricostruzione in altro sito dell’immobile.
14. Anche i profili di censura relativi al difetto di motivazione del provvedimento impugnato non possono essere condivisi.
14.1. Secondo l’appellante, il Comune nel provvedimento di annullamento della concessione non avrebbe adeguatamente spiegato le ragioni per le quali veniva ritenuto prevalente l’interesse pubblico all’adozione dell’atto di autotutela rispetto a quello del privato.
L’onere di evidenziare tali ragioni, in aggiunta a quelle relative al mero ripristino della legalità, avrebbero dovuto essere soddisfatto soprattutto per il lungo tempo trascorso dal rilascio della concessione e per la parziale realizzazione delle opere edilizie oggetto della stessa.
14.2. Come rilevato dal Tar, il provvedimento di annullamento, motivato anche per relationem sulla base dell’istruttoria dell’Ufficio tecnico, non necessitava di una compendiosa motivazione sull’interesse pubblico in quanto adottato a seguito della constatata falsa o erronea prospettazione dei fatti che avevano determinato a suo tempo il rilascio della concessione.
14.3. Per costante giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV: 08.01.2013, n. 39; 06.05.2014, n. 4300; 14.12.2016, n. 5262), allorquando una concessione edilizia sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà materiale, è consentito all’Amministrazione di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi sussistente in re ipsa. Infatti, l’insegnamento giurisprudenziale prevalente ha individuato dei casi in cui la discrezionalità della P.A. in subiecta materia si azzera, vanificando sia l’interesse del destinatario del provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo trascorso, e ciò si verifica quando il privato istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione della realtà (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2885 del 14.06.2017).
15. Quanto, infine, all’ultimo profilo di appello con il quale il ricorrente censura l’assenza di un interesse pubblico anche in relazione al fatto che la destinazione della particella era comunque coerente con la realizzazione dell’immobile di cui è causa, va rilevato che non sussiste un obbligo per l’Amministrazione di darne conto, non potendosi ritenere rilevante, contrariamente a quanto affermato, la previsione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990, in quanto si tratta di una norma inapplicabile ratione temporis, essendo entrata in vigore dopo l’adozione del provvedimento di annullamento della concessione (l’art. 21-nonies è entrato in vigore nel febbraio 2005 mentre il provvedimento di annullamento è stato adottato nell’ottobre 2003).
In ogni caso la norma in esame, anche nell’ultima versione seguente alla novella del 2015, legittima l’esercizio sine die dell’autotutela in presenza di provvedimenti basati su una falsa rappresentazione della realtà o, in alternativa, su dichiarazioni sostitutive o atti di notorietà la cui falsità è stata assodata da un giudicato penale.
16. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e per l’effetto va confermata la sentenza di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 14.09.2018 n. 5408 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Configurandosi l’attività di repressione degli abusi edilizi quale attività vincolata, l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non produce, giusta quanto dispone l’articolo 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, effetti invalidanti
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L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha recentemente chiarito che la repressione degli abusi edilizi, in quanto attività vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, è insensibile al decorso del tempo, dovendovi l’Amministrazione provvedere anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dello stesso.
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La mancata notificazione dell’ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne comporta l’illegittimità, ma, coerentemente con la funzione di condizione di efficacia che assolve la notifica, ne determina l’inefficacia nei confronti del comproprietario pretermesso.
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Con il primo motivo di impugnazione, epigrafato “Violazione e falsa applicazione di norme di legge (L. n. 241/1990, in particolare artt. 7, 10). Eccesso di potere per difetto del presupposto, travisamento e mancata valutazione della situazione di fatto e di diritto”, la deducente stigmatizza il mancato invio della comunicazione di avvio del procedimento.
La doglianza è infondata.
Invero, configurandosi l’attività di repressione degli abusi edilizi quale attività vincolata, l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento non produce, giusta quanto dispone l’articolo 21-octies, comma 2, L. n. 241/1990, effetti invalidanti (cfr., TAR Lombardia–Milano, Sez. I, sentenza n. 847/2017). Con il secondo motivo di impugnazione, intitolato “Violazione e falsa applicazione di norme di legge (art. 3 L. 241/90). Eccesso di potere per difetto del presupposto, travisamento e mancata valutazione della situazione di fatto e di diritto. Assenza della motivazione”, la deducente lamenta un difetto di motivazione nel provvedimento gravato, specie in relazione al lungo lasso di tempo decorso dalla commissione dell’abuso.
La doglianza è infondata.
Al riguardo è sufficiente ricordare che l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha recentemente chiarito che la repressione degli abusi edilizi, in quanto attività vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, è insensibile al decorso del tempo, dovendovi l’Amministrazione provvedere anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dello stesso (sentenza n. 9/2017).
Con il quarto motivo di impugnazione, rubricato “Violazione e falsa applicazione di norma di legge (art. 31 DPR 380/2001). Eccesso di potere per difetto del presupposto, travisamento e mancata valutazione della situazione di fatto e di diritto. Assenza della motivazione. Erroneità dell’individuazione dei destinatari del provvedimento”, la deducente censura il fatto che l’ordinanza di demolizione non sia stata notificata a tutti i comproprietari del bene.
La doglianza è infondata.
Invero, la mancata notificazione dell’ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne comporta l’illegittimità, ma, coerentemente con la funzione di condizione di efficacia che assolve la notifica, ne determina l’inefficacia nei confronti del comproprietario pretermesso (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. III, sentenza n. 5212/2017) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.09.2018 n. 2070 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Hanno natura di opere precarie le opere che, in disparte le loro modalità costruttive, risultino destinate a soddisfare esigenze contingenti, improvvise e transeunti e ad essere presto eliminate, con il corollario che neppure la facile amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé, a farli ritenere provvisti del carattere della precarietà.
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Con l’ottavo motivo di impugnazione, la cui trattazione viene anticipata per la correlazione con il sesto motivo, la ricorrente deduce i vizi di “Violazione e falsa applicazione di norma di legge (art. 31 DPR 380/2001 in relazione agli artt. 3 e 6 DPR 380/2001 nonché all’art. 27 LR !2/2005). Eccesso di potere per difetto del presupposto, travisamento e mancata valutazione della situazione di fatto e di diritto. Illogicità della motivazione e carenza dell’istruttoria”.
Sostiene la signora Re. che nemmeno l’articolo 31 TU Edilizia possa trovare applicazione nel caso di specie, dal momento che i manufatti della cui demolizione si discute sono in realtà opere facilmente smontabili, come tali assoggettate al più a semplice DIA, la cui mancanza comporta l’applicazione di una sanzione pecuniaria e non di quella ripristinatoria.
La doglianza è infondata.
Costituisce, infatti, orientamento giurisprudenziale consolidato, cui la Sezione senz’altro aderisce, quello per cui «hanno natura di opere precarie le opere che, in disparte le loro modalità costruttive, risultino destinate a soddisfare esigenze contingenti, improvvise e transeunti e ad essere presto eliminate, con il corollario che neppure la facile amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé, a farli ritenere provvisti del carattere della precarietà» (così TAR Lazio–Latina, sentenza n. 389/2017).
Ebbene, nel caso di specie ci troviamo avanti a un complesso di opere finalizzate a utilizzare stabilmente come maneggio l’area della ricorrente, come dimostra il fatto che l’attività è ivi svolta da circa vent’anni.
Peraltro, la stessa molteplicità e consistenza dei manufatti abusi realizzati nel corso degli anni (segnatamente, cinque prefabbricati a diverso uso, un container, una casetta per il deposito di attrezzi, due casette in muratura, un chiosco di ristoro, tre recinti per cavalli, trentuno stalle-boxes, due canili, un fienile …) escludono che si possa classificare l’intervento come assoggettabile a DIA, trattandosi piuttosto di nuova costruzione (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.09.2018 n. 2070 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le opere abusivamente realizzate sono state sanzionate (anche) perché realizzate in assenza dei necessari titoli autorizzatori, sicché un’eventuale autorizzazione successiva all’edificazione di per sé non ne fa venire meno il carattere illecito.
Come è noto, infatti, l’accertamento di conformità ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 presuppone che l’opera da sanare sia conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda, ma anche a quella vigente al momento della sua realizzazione.
Pertanto, potrebbe risultare irrilevante la sopravvenienza di una provvedimento favorevole.

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Con il settimo motivo di impugnazione, intitolato “Violazione e falsa applicazione di norma di legge (art. 31 DPR 380/2001 in relazione agli artt. 3 e 6 DPR 380/2001 nonché all’art. 27 LR 12/2005). Eccesso di potere per difetto del presupposto, travisamento e mancata valutazione della situazione di fatto e di diritto. Illogicità della motivazione e carenza dell’istruttoria”, la deducente si duole del fatto che il Comune abbia adottato il provvedimento sanzionatorio de quo senza attendere la conclusione del procedimento di autorizzazione in corso ex art. 7-bis delle NTA del PTCP del Parco Nord Milano.
La doglianza è infondata.
Vero è, infatti, che le opere in questione sono state sanzionate (anche) perché realizzate in assenza dei necessari titoli autorizzatori, sicché un’eventuale autorizzazione successiva all’edificazione di per sé non ne fa venire meno il carattere illecito.
Come è noto, infatti, l’accertamento di conformità ex articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 presuppone che l’opera da sanare sia conforme non solo alla disciplina urbanistica vigente al momento della domanda, ma anche a quella vigente al momento della sua realizzazione. Pertanto, potrebbe risultare irrilevante la sopravvenienza di una provvedimento favorevole (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.09.2018 n. 2070 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sanzione ablativa della proprietà non può essere applicata nel caso in cui il proprietario sia incolpevole, per essere stato realizzato l’abuso da altri.
Nel caso di specie non è in contestazione che i manufatti abusivi siano stati costruiti dal signor En.Ga., che aveva la piena disponibilità dell’area in qualità di conduttore della stessa.
Pertanto, coerentemente con quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 345/1991, la signora Re., che era all’oscuro, quale comproprietaria dell’area locata, dell’intervenuto abuso, non può essere assoggettata all’ulteriore sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale.

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E’ di contro fondato il terzo motivo di impugnazione, epigrafato “Violazione e falsa applicazione di norme di legge (art. 31 DPR 380/2001). Eccesso di potere per difetto del presupposto, travisamento e mancata valutazione della situazione di fatto e di diritto. Assenza della motivazione. Erroneità della previsione dell’acquisizione dell’area al patrimonio del Comune”, con il quale la deducente fa valere la propria estraneità all’abuso e la propria buona fede.
Come già affermato da questo Tribunale (sentenza n. 1924/2013) in un caso analogo, che vedeva sempre coinvolta in qualità di proprietaria l’odierna ricorrente, la sanzione ablativa della proprietà non può essere applicata nel caso in cui il proprietario sia incolpevole, per essere stato realizzato l’abuso da altri.
Nel caso di specie non è in contestazione che i manufatti abusivi siano stati costruiti dal signor En.Ga., che aveva la piena disponibilità dell’area in qualità di conduttore della stessa. Pertanto, coerentemente con quanto statuito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 345/1991, la signora Re., che era all’oscuro, quale comproprietaria dell’area locata, dell’intervenuto abuso, non può essere assoggettata all’ulteriore sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area al patrimonio comunale (cfr., TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza n. 83/2017) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 14.09.2018 n. 2070 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAcquisti sotto i 40 mila senza confronto di offerte
Gli affidamenti di servizi, lavori e forniture di valore inferiore ai 40 mila euro possono essere sviluppati anche senza confronto di offerte.

Il TAR Molise, Sez. I, con la sentenza 14.09.2018 n. 533 ha chiarito i profili applicativi dell'affidamento diretto, regolato dall'art. 36, comma 2, lett. a), del codice dei contratti pubblici.
I giudici amministrativi contestualizzano il particolare dato normativo, evidenziando come il dlgs n. 50/2016 abbia interamente riformulato e riscritto i procedimenti contrattuali sotto-soglia comunitaria, introducendo un sistema di procedure negoziate semplificate, nell'ambito delle quali l'affidamento diretto per acquisizioni di valore inferiore ai 40 mila euro si distingue nettamente dalle procedure nella fascia di valore superiore, proprio in quanto non prevede il confronto comparativo tra gli operatori economici.
La sentenza chiarisce che l'affidamento diretto si pone come procedura in deroga rispetto ai principi della concorrenza, non discriminazione e similari che implicano sempre e comunque una procedura competitiva sia pur informale. Sulla base di questo presupposto, il percorso regolato dall'art. 36, comma 2, lett. a), del codice si connota come una procedura ultra-semplificata, nella quale la speditezza dell'acquisizione deve prevalere sul rigido formalismo.
Non può sfuggire che una procedura competitiva per importi elevati è cosa diversa da una procedura a inviti per assegnare forniture, servizi o lavori di importo contenuto. Il Tar molisano precisa che sino all'importo dei 40 mila euro il legislatore ha ritagliato una specifica disciplina che configura un micro-sistema esaustivo ed autosufficiente che non necessita di particolari formalità e sulla quale i principi generali non determinano particolari limiti.
L'affidamento diretto disciplinato dall'art. 36 si distingue, inoltre, dalla ipotesi di procedura negoziata con un solo operatore economico previste dall'art. 63 del codice stesso, per ricorrere alla quale la stazione appaltante è tenuta a sostenere la propria decisione con una motivazione coerente con le fattispecie individuate dalla norma.
Secondo i giudici amministrativi molisani, nel caso degli importi inferiori ai 40 mila euro non si pone neppure il problema di coniugare l'affidamento diretto con l'esigenza di una adeguata motivazione (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

APPALTISotto i 40mila euro affidamento diretto semplificato anche senza le motivazioni.
L'affidamento diretto entro i 40mila euro integra una procedura «ultra-semplificata» in cui, vista la previsione e la scelta legislativa, la speditezza dell'acquisizione prevale sul rigore formalistico classico della procedura a evidenza pubblica, con la conseguenza di rendere non necessaria un’adeguata motivazione.
Questo l'approdo cui giunge il TAR Molise con la sentenza 14.09.2018 n. 533.
L'affidamento diretto
La censura del ricorrente si è incentrata sull'affidamento diretto dei servizi di raccolta, trasporto e conferimento dei rifiuti differenziati, pulizia stradale, manutenzione e cura del verde pubblico, manutenzione del cimitero e scavo di fosse per tumulazione, oltre al servizio di trasporto persone-autista autista scuolabus.
Secondo l'appaltatore l'affidamento sarebbe avvenuto in violazione dei principi del codice, in quanto il responsabile del procedimento non avrebbe invito o consultato/coinvolto alcuna impresa potenzialmente interessata. Pur essendo l'appalto di valore inferiore a quello entro il quale è consentito l'affidamento diretto (entro i 40mila euro), sempre secondo il ricorrente, la stazione appaltante avrebbe dovuto favorire la partecipazione avviando un procedimento competitivo.
Le «accuse» consentono al Tar molisano di soffermarsi sulla natura/configurazione giuridica delle nuove procedure semplificate disciplinate nell'articolo 36 del codice dei contratti quale micro sistema normativo che ha sostituito le acquisizioni in economia del superato Dlgs 163/2006.
La decisione
Con il nuovo codice dei contratti -si legge nella sentenza- l'approccio verso la fattispecie dell'affidamento diretto sarebbe profondamente mutato rispetto alle superate acquisizioni in economia, essendo stati i procedimenti contrattuali sotto-soglia comunitaria interamente riformulati e riscritti.
L'affermazione, in effetti, esprime una profonda verità considerato che le acquisizioni in economia richiedevano un passaggio preliminare attraverso un regolamento interno della stazione appaltante (o altro provvedimento nell'ambito delle amministrazioni statali) che aveva la funzione, sostanziale, di abilitare i dirigenti/funzionari a procedere con l'acquisto nell'ambito delle soglie e delle commesse stabilite. Con il micro sistema normativo, contenuto nell'articolo 36, l'esigenza di un atto regolamentare propedeutico, oggettivamente, non emerge.
È pur vero che le linee guida dell'Anac (in particolare la n. 4) sembrano auspicare l'adozione del regolamento ma, sottolinea il giudice, esse sono «atti amministrativi» e in quanto tali non vincolanti per la stazione appaltante.
Attraverso la fattispecie dell'affidamento diretto, nell'ambito della micro soglia dei 40mila euro, pertanto, il codice degli appalti ha previsto un procedimento nuovo e «ultra-semplificato» in cui l'esigenza della speditezza dell'acquisizione viene considerata un valore superiore rispetto al rigore formale di una gara vera e propria o anche di un confronto competitivo tra appaltatori.
Il confronto tra preventivi
Non a caso, per effetto delle modifiche apportate dal decreto legislativo correttivo del codice appalti, l'affidamento diretto non richiede più neppure un confronto tra preventivi.
Lo stesso Consiglio di Stato (con il parere sullo schema di linee guida n. 4, dedicate al procedimento nel sotto soglia comunitario) ha sottolineato che il disegno normativo perseguito dall'articolo 36 appare «esaustivo e autosufficiente» che non necessita di altri atti/indicazioni attuativi/e e che i principi generali non contengono particolari limitazioni.
Pertanto, l'affidamento diretto nell'ambito dei 40mila euro -a differenza della fattispecie di assegnazione diretta in base all’articolo 63 attraverso la procedura negoziata senza pubblicazione di bando– non richiede adeguata motivazione.
Pur nel silenzio normativo, tuttavia, appare corretto che nella determina di affidamento venga indicato in che modo è stato individuato l'affidatario. La motivazione può sostanziarsi anche nel chiarimento sulla competitività del prezzo praticato e dell'adeguatezza tecnica della commessa rispetto ai desiderata della stazione appaltante (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.09.2018).
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MASSIMA
II – Il ricorso è infondato.
III - La ricorrente si duole del fatto che il Comune resistente si sia determinato nel senso di affidare in maniera diretta servizi tra di loro diversi e variegati (come la raccolta rifiuti, la tumulazione cimiteriale e lo scuolabus), in seguito all’invito limitato a quattro ditte a presentare un’offerta, precludendo la medesima possibilità agli altri operatori del mercato, come la ricorrente, specializzati in quel comparto di servizi.
La circostanza rivestirebbe rilievo anche poiché alla procedura è stata invitata una ditta con sede non in Molise ma nella provincia di Benevento (in Campania), la qual cosa porrebbe in maggior evidenza la lesione subita dalla posizione della ricorrente Ec., che ha sede in Molise ed è qualificata per quei servizi. Invero, la ricorrente, nel contestare l’intera procedura, sembra voler chiedere soltanto di potervi partecipare.
La Stazione appaltante richiama l’art. 36, comma 2 lett. a), del D.Lgs. n. 50/2016, al fine di giustificare il proprio operato ma –a dire della ricorrente– la giurisprudenza amministrativa, nelle proprie pronunce, e l’ANAC, con le proprie Linee-guida, hanno chiarito che l’istituto dell’affidamento diretto non può certamente essere più inteso o considerato come “zona franca” di libertà delle forme e dei modelli di partecipazione, rappresentando, anzi, un settore nel quale la vigilanza deve essere aumentata, anche in ragione del notevole numero di commesse affidate, in Italia, con tali modalità e del conseguente rischio di affidamenti irregolari.
IV – A tenore dell’art. 36, comma 1, lett. a) del Codice dei contratti pubblici, per gli affidamenti di importo inferiore a 40.000 euro, le Amministrazioni possono procedere “mediante affidamento diretto anche senza previa consultazione di due o più operatori economici o per i lavori in amministrazione diretta”, possono cioè fare a meno anche del confronto di offerte. La procedura negoziata previa consultazione è invece richiesta per gli importi tra i 40 mila e i 150 mila euro (lett. b).
Il nuovo Codice degli appalti (declinato nel D.Lgs. n. 50/2016) ha interamente riformulato e riscritto i procedimenti contrattuali sotto-soglia comunitaria, introducendo un sistema di procedure negoziate “semplificate”, in sostituzione delle pregresse dinamiche negoziali relative, in particolare, alla fattispecie delle acquisizioni in economia, fattispecie ormai totalmente espunte dall’ordinamento giuridico degli appalti.
Tra le procedure negoziate “semplificate”, evidentemente, particolare rilievo riveste l’affidamento nell’ambito dei 40 mila euro di lavori, servizi e forniture -come dimostra anche la recente giurisprudenza in materia (cfr.: Cons. Stato V, 03.04.2018 n. 2079; Tar Toscana Firenze I, 02.01.2018 n. 17)- soprattutto perché non può essere revocato in dubbio che il nuovo Codice muta sostanzialmente la dinamica degli affidamenti diretti rimessi in passato alla species dell’affidamento diretto delle acquisizioni in economia ovvero a limitati casi di procedura negoziata già disciplinati dall’articolo 57 del previgente Codice (oggi ribaditi e meglio specificati dall’articolo 63 dell’attuale Codice).
Le Linee-guida ANAC n. 4 del 07.04.2018, sugli appalti sotto la soglia comunitaria (aggiornate al correttivo appalti 2017, cioè al D.Lgs. 19.04.2017, n. 56), invero, non aggiungono molto al dettato di legge, indicando specifiche modalità di rotazione degli inviti e degli affidamenti e di attuazione delle verifiche sull’affidatario scelto senza gara, nonché di effettuazione degli inviti in caso di esclusione automatica delle offerte anormalmente basse, oltre che, più in generale, dell’attuazione dei principi generali in materia di procedure a evidenza pubblica e prendendo in considerazione la situazione del soggetto già invitato, ma che non aveva ottenuto un precedente affidamento.
Peraltro, come chiarito dal parere 12.02.2018 n. 361 del Consiglio di Stato,
le Linee-guida ANAC sulle procedure sotto-soglia non hanno carattere vincolante, essendo un atto amministrativo generale che, pur perseguendo lo scopo di fornire indirizzi e istruzioni operative alle stazioni appaltanti, dà ad esse modo di discostarsi dagli indirizzi medesimi.
Ciò detto,
è evidente che si tratta nel caso di specie di un affidamento diretto di servizi che, stante l’importo-base inferiore ai 40 mila euro, avrebbe persino potuto prescindere dal confronto di offerte.
Non si ravvisa alcuna anomalia nel fatto che si tratti di un plesso di servizi eterogenei tra loro: in realtà l’affidamento integrato per servizi analoghi o assimilabili o indipendenti riguarda una categoria aperta di servizi che, per ragioni di economicità, possono essere affidati in blocco con procedura unica, cosiddetta “multiservice” (cfr.: Cons. Stato V, n. 3220/2014; Tar Campania Napoli III, n. 1248/2017).
L’Amministrazione ha dato conto, nell’atto conclusivo della procedura, del fatto che non è stato possibile ricorrere agli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip S.p.A. e dal Mercato elettronico della P.A. (M.e.P.A.) poiché, a suo dire, tali strumenti presenterebbero “difficoltà nella comparazione dei prezzi e nella tipologia di servizi offerti rispetto a quelli necessari”.
La motivazione è laconica ma non incongrua, poiché in effetti, proprio l’eterogeneità dei servizi avrebbe reso difficoltoso e lento il ricorso a quegli strumenti di acquisto. Si tratta di modalità di acquisto idonee per approvvigionamenti di beni e servizi con caratteristiche standard, mentre -nella specie- i servizi richiesti sono piuttosto frastagliati e modellati sulle esigenze particolari del Comune appaltante.
È vero che l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’art. 35 (221.000 euro) devono avvenire nel rispetto dei principi di cui all’art. 30, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016 (economicità, efficacia, tempestività, correttezza, libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, pubblicità), nonché nel rispetto del principio di rotazione e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese. Il Decreto correttivo (D.Lgs. n. 56/2017) ha innestato nell’art. 36, comma 1, anche l’obbligo di rispettare, oltre ai principi di cui all’art. 30, i principi di cui agli articoli 34 e 42.
Tuttavia, i motivi del ricorso non illuminano a sufficienza i dedotti profili di violazione di tali principi, anche perché –come già rilevato– la procedura seguita appare coerente con il dettato di legge.
È evidente che l’affidamento diretto si pone come procedura in deroga rispetto ai principi della concorrenza, non discriminazione e similari che implicano sempre e comunque una procedura competitiva sia pur informale. Se così è, appare logico pensare che i principi in parola disciplinino l’affidamento e l’esecuzione in termini generali sul presupposto di una procedura ultra-semplificata, nella quale la speditezza dell’acquisizione deve prevalere sul rigido formalismo.
Non può sfuggire che una procedura competitiva per importi elevati è cosa diversa da una procedura a inviti per assegnare forniture, servizi o lavori di importo contenuto. Fino all’importo dei 40 mila euro –ferma restando la cornice dei principi generali– il legislatore ha ritagliato una specifica disciplina che il Consiglio di Stato (nel parere n. 1903/2016) ha ritenuto come micro-sistema esaustivo ed autosufficiente che non necessita di particolari formalità e sulla quale i principi generali, richiamati dall’articolo 36, comma 2, lett. a), non determinano particolari limiti.
Si è in presenza di una ipotesi specifica di affidamento diretto diversa ed aggiuntiva dalle ipotesi di procedura negoziata “diretta” prevista nell’articolo 63 del Codice che impone invece una specifica motivazione e che l’assegnazione avvenga in modo perfettamente adesivo alle ipotesi predefinite dal legislatore (si pensi in particolare all’unico affidatario o alle oggettive situazioni di urgenza a pena di danno), di guisa che, nel caso degli importi inferiori ai 40 mila euro non si pone neppure il problema di coniugare l’affidamento diretto con l’esigenza di una adeguata motivazione.

Infine, per quel che riguarda l’asserita violazione della clausola dello “stand still”, di cui all’art. 32, comma 9, del Codice, stante la stipula del contratto dal giorno successivo all’aggiudicazione, va evidenziato che, a tenore dell’art. 32, comma 10, lett. b), del Codice, “il termine dilatorio di cui al comma 9 non si applica nei seguenti casi: […] nel caso di affidamenti effettuati ai sensi dell’articolo 36, comma 2, lettera a) e b)”.
Pertanto, anche tale censura si appalesa infondata.
V – In conclusione, il ricorso è infondato (TAR Molise, sentenza 14.09.2018 n. 533 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Conferimento di incarico di Responsabile della protezione dei dati personali.
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Privacy - Responsabile della protezione dei dati personali – Conferimento incarico - Certificazione di Auditor/Lead Auditor per i Sistemi di Gestione per la Sicurezza delle Informazioni - Requisito di ammissione alla selezione – Esclusione.
In sede di conferimento, ai sensi dell’art. 7, d.lgs. n. 165 del 2001, dell’incarico di “responsabile della protezione dei dati personali” (D.P.O.), la certificazione di Auditor/Lead Auditor per i Sistemi di Gestione per la Sicurezza delle Informazioni, secondo la norma ISO/IEC/27001, non può costituire titolo abilitante ai fini dell’assunzione e dello svolgimento delle relative funzioni, il cui esercizio presuppone la minuziosa conoscenza e l’applicazione del Regolamento UE 2016/679 (G.D.P.R.) e della complessiva disciplina di settore; ne consegue che la certificazione in parola non può costituire requisito di ammissione alla selezione indetta (nel caso di specie, da un’azienda sanitaria) per il conferimento del suddetto incarico, né tanto meno assurgere, in tale contesto, a titolo equipollente al diploma di laurea richiesto (segnatamente in giurisprudenza, ovvero in informatica o in ingegneria informatica), proprio perché essa non inquadra la specifica funzione di garanzia, coessenziale all’esercizio dei compiti assegnati dalla normativa euro-unitaria al responsabile della protezione dei dati personali, il cui nucleo essenziale ed irriducibile non può che qualificarsi come eminentemente giuridico, in quanto polarizzato attorno alla necessità di tutelare il diritto fondamentale dell’individuo alla protezione dei dati personali, indipendentemente dalla qualificazione soggettiva del titolare delle informazioni, dalle modalità della loro propagazione e dalle forme di utilizzo (1).
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   (1) Il Tar ha preliminarmente ricordato il prevalente insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo cui “appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la controversia relativa ad una procedura concorsuale volta al conferimento di incarichi ex art. 7, comma 6, d.lgs. n. 165 cit., assegnati ad esperti, mediante contratti di lavoro autonomo di natura occasionale o coordinata e continuativa, per far fronte alle medesime esigenze cui ordinariamente sono preordinati i lavoratori subordinati della p.a.” (Cass. S.U. n. 13531 del 2016).
Tale indirizzo risulta ampiamente confermato e sviluppato negli arresti della più recente giurisprudenza amministrativa, la quale ha precisato che “vale un'interpretazione estensiva della nozione di «assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» fatta propria dall'art. 63, comma 4, d.lgs. 30.03.2001, n. 165, nella quale debbono ritenersi incluse non soltanto le procedure concorsuali volte all'assunzione di lavoratori subordinati, ma anche quelle aventi specificamente ad oggetto il conferimento di incarichi ex art. 7, comma 6, del medesimo d.lgs. n. 165 del 2001, assegnati a esperti mediante contratti di lavoro autonomo di natura occasionale, o coordinata e continuativa, per far fronte alle medesime esigenze cui ordinariamente sono preordinati i lavoratori subordinati della pubblica amministrazione. La giurisdizione amministrativa va affermata, pertanto, ogniqualvolta la controversia riguardi una procedura concorsuale indetta da un'amministrazione pubblica, quale che sia la tipologia dell'instaurando rapporto lavorativo. Il requisito della concorsualità sussiste in forza della natura comparativa della selezione, ancorché l'avviso di indizione si limiti a rinviare ad un atto di scelta motivata” (da ultimo, Tar Toscana, sez. I, n. 557 del 2018; Cons. St., sez. IV, 1176 del 2017).
Il Tar ha quindi concluso che l’attinenza dell’incarico alle esigenze proprie dell’Amministrazione e la procedimentalizzazione della fase di individuazione del soggetto incaricato, mediante l’espletamento di una procedura selettiva di tipo comparativo, costituiscono chiaro indice della manifestazione del potere organizzatorio dell’Amministrazione e del corrispondente insorgere della giurisdizione amministrativa (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 13.09.2018 n. 287 - commento tratto da link a www.giustizia-amministrativa.it).

PUBBLICO IMPIEGOLegittimo licenziare lo statale che si allontana dal lavoro.
Legittimo il licenziamento del dipendente pubblico che si allontani senza giustificato motivo dal lavoro. Tale condotta costituisce «un comportamento fraudolento diretto a far emergere falsamente la presenza in ufficio» che costituiva illecito disciplinare ancor prima dell'intervento della legge Madia.

Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, che nella sentenza 11.09.2018 n. 22075 ha respinto il ricorso di un dipendente dell'Università di Firenze licenziato per essersi ripetutamente allontanato dal lavoro dopo la timbratura del cartellino.
In primo grado il ricorso del lavoratore era stato accolto dal tribunale di Firenze con conseguente reintegro nel posto di lavoro. In secondo grado, tuttavia, la Corte d'appello di Firenze aveva ribaltato completamente la decisione, confermando il licenziamento. La Cassazione è stata dello stesso avviso.
Nella sentenza, depositata ieri in cancelleria, gli Ermellini hanno respinto tutti i motivi di ricorso presentati dal dipendente, tra i quali spicca la contestazione secondo cui la disciplina applicabile alla fattispecie doveva essere non già quella dell'art. 55-quater del Testo unico sul pubblico impiego, ma bensì quella contenuta nel Contratto collettivo per il personale del comparto università che sanziona con la sospensione sino a dieci giorni l'abbandono ingiustificato dal servizio, prevedendo che, in caso di recidiva, la sospensione possa essere elevata a sei mesi.
Secondo la Corte, tuttavia, rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata di cui all'art. 55-quater del dlgs 165/2001, nel testo vigente già prima delle modifiche introdotta dal decreto Madia (art. 3 dlgs n. 116/2016) «non solo il caso dell'alterazione del sistema di rilevamento delle presenze, ma anche l'allontanamento del lavoratore nel periodo intermedio tra le timbrature di entrata e uscita, trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a far emergere falsamente la presenza in ufficio». Tutto questo, secondo la Corte, valeva ancor prima della riforma Madia le cui disposizioni sono state introdotte «a fini chiarificatori».
Secondo i giudici di legittimità, quindi, deve escludersi che il decreto contro i furbetti del cartellino abbia portata innovativa, visto che già il testo originario dell'art. 55-quater consentiva di sanzionare condotte ulteriori rispetto ai soli casi tipizzati di alterazione/manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze (articolo ItaliaOggi del 12.09.2018).

PUBBLICO IMPIEGO: Rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata di cui all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo, applicabile ratione temporis, vigente già prima delle modifiche introdotte dall'art. 3 del d.lgs. n. 116 del 2016, non solo il caso dell'alterazione del sistema di rilevamento delle presenze, ma anche l'allontanamento del lavoratore nel periodo intermedio tra le timbrature di entrata ed uscita, trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a fare emergere falsamente la presenza in ufficio.
Si è osservato che «
la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita».
Utili elementi a conforto di detta esegesi possono desumersi dal d.lgs. n. 116/2016, art. 3, comma 1, che introducendo nell'art. 55-quater il comma 1-bis, ha precisato che «
costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso».
La disposizione è stata evidentemente introdotta dal legislatore a fini chiarificatori, per meglio esplicitare un precetto già desumibile dalla disciplina previgente, sicché deve escludersi che la stessa abbia portata innovativa, posto che il testo originario dell'art. 55-quater non consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del sistema automatico.
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3. Il secondo, il sesto, il settimo, l'ottavo, ed il nono motivo possono essere trattati congiuntamente, perché si fondano tutti sull'asserita applicabilità alla fattispecie della disciplina dettata dalla contrattazione collettiva (art. 46 del CCNL 16.10.2008 per il personale del comparto università che riproduce il codice disciplinare già introdotto dall'art. 45 del CCNL 27.01.2005), che sanziona con la sospensione sino a dieci giorni l'abbandono ingiustificato del servizio (art. 46, comma 3, lett. a), prevedendo che, in caso di recidiva, la sospensione stessa possa essere elevata sino a sei mesi (art. 46, comma 4, lett. a).
I motivi sono infondati alla luce dell'orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui «rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata di cui all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, nel testo, applicabile ratione temporis, vigente già prima delle modifiche introdotte dall'art. 3 del d.lgs. n. 116 del 2016, non solo il caso dell'alterazione del sistema di rilevamento delle presenze, ma anche l'allontanamento del lavoratore nel periodo intermedio tra le timbrature di entrata ed uscita, trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a fare emergere falsamente la presenza in ufficio» ( Cass. 14.12.2016 n. 25750 e negli stessi termini Cass. n. 17637/2016, Cass. n. 24574/2016).
Con le richiamate pronunce, alle quali il Collegio intende dare continuità, si è osservato che «la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita».
È stato evidenziato che utili elementi a conforto di detta esegesi possono desumersi dal d.lgs. n. 116/2016, art. 3, comma 1, che introducendo nell'art. 55-quater il comma 1-bis, ha precisato che «costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso».
La disposizione è stata evidentemente introdotta dal legislatore a fini chiarificatori, per meglio esplicitare un precetto già desumibile dalla disciplina previgente, sicché deve escludersi che la stessa abbia portata innovativa, posto che il testo originario dell'art. 55-quater non consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del sistema automatico (Cass. n. 24574/2016).
3.1. Dalla ritenuta riconducibilità alla fattispecie legale dell'addebito contestato al ricorrente discende l'infondatezza di tutti i motivi che fanno leva sulla disciplina contrattuale, giacché, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 150/2009, quest'ultima è stata sostituita di diritto, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 cod. civ., dalla normativa di legge, che sulla stessa prevale ex art. 55, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, nel testo applicabile ratione temporis.
Questa Corte ha già evidenziato che il legislatore, nell'introdurre fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, ha anche affermato con chiarezza la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale, che, quindi, non può essere più invocata, ove in contrasto con la norma inderogabile di legge (Cass. n. 24574/2016).
Detti principi di diritto sono stati richiamati dalla Corte territoriale a fondamento della decisione e vanno qui ribaditi, perché il ricorso non prospetta argomenti che possano indurre a rimeditare l'orientamento già espresso, al quale il Collegio intende dare continuità (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 11.09.2018 n. 22075).

APPALTI: Gara, sì all'esclusione per illecito professionale. Prima dell'accertamento giudiziale.
L'esclusione per grave errore professionale può essere disposta anche prima dell'accertamento giudiziale; la stazione appaltante che esclude il concorrente si pone in linea con le direttive Ue, mentre il codice appalti è in contrasto con la normativa euro-unitaria.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. III, con la sentenza 11.09.2018 n. 9263 riferendosi all'art. 80, comma 5, lettera c), del codice appalti (dlgs 50/2016) che prevede l'esclusione per grave errore professionale.
I giudici hanno rilevato che il decreto 50/2016, nel richiedere che il grave inadempimento dell'operatore sia incontestato o incontestabile in giudizio, «si è posto in contrasto con l'art. 57 par. 4 della Direttiva 2014/24/Ue sugli appalti pubblici e con il Considerando 101 della medesima direttiva». Le norme Ue prevedono che la stazione appaltante può escludere il concorrente, laddove sia in condizione di dimostrare la sussistenza di un grave illecito professionale «anche prima che sia adottata una decisione definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori».
Come affermato dal Consiglio di stato (ordinanza n. 5033 del 23.08.2018 che ha rimesso la questione di compatibilità della norma italiana alla Corte di giustizia), se obiettivo del legislatore nazionale è di alleggerire l'onere probatorio a carico dell'amministrazione per rendere più efficiente l'azione amministrativa attraverso l'elencazione di casi in cui è possibile escludere l'operatore economico lo strumento non appare adeguato: la necessaria subordinazione dell'azione amministrativa agli esiti del giudizio di cui al codice appalti, ancorché «astrattamente possibile», è ad avviso del Tar «non compatibile con i tempi effettivi dell'azione amministrativa in relazione alle finalità di interesse generale del settore, vale a dire l'utile realizzazione delle opere o acquisizione dei servizi da parte delle pubbliche amministrazioni».
Da ciò la decisione dei giudici di privilegiare una interpretazione della norma interna conforme al diritto dell'Unione, e, dunque, «a ritenere operante in questa circostanza (sebbene solo ai fini legati alla delibazione negativa della decidibilità nel merito del ricorso) la causa preclusiva di partecipazione alla gara della ricorrente» (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).

EDILIZIA PRIVATA: I rilevamenti tratti da Google Earth, non costituiscono, di per sé considerati, elementi idonei a comprovare lo stato dei luoghi sussistente ad una certa data e l’assenza di coincidenza tra il manufatto in questione e quello oggetto dell’istanza di sanatoria straordinaria e ciò, in particolare, tenuto conto della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito alla risalenza delle immagini (come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it– per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo.
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Ritenuto che:
   - il ricorso merita solo parziale e limitato accoglimento, nei termini di seguito indicati;
   - esclusivamente in relazione al primo dei manufatti indicati nell’ordinanza di demolizione impugnata, si ritengono fondate le deduzioni con le quali parte ricorrente ha lamentato l’illegittima irrogazione della sanzione demolitoria stante la pendenza di una domanda di condono presentata dalla precedente proprietaria, avente ad oggetto l’edificazione di un appartamento di 50 mq.;
   - non è in contestazione, infatti, che il procedimento avviato con la presentazione della sopra indicata istanza non è stato ancora definito dall’ente resistente, restando comunque precluse a questo Giudice valutazioni riferite a poteri amministrativi non ancora esercitati, in conformità alle previsioni di cui all’art. 34, comma 2 c.p.a.;
   - le valutazioni in merito alla ammissibilità della istanza di condono e alla sussistenza dei presupposti per il relativo accoglimento, incluso quello riferito alla realizzazione delle opere oggetto della domanda medesima entro il termine previsto dalla normativa di riferimento per l’ammissibilità del beneficio ed alla perdurante esistenza delle stesse –che dovranno essere poste a fondamento di una determinazione espressa conclusiva del procedimento di sanatoria straordinaria– costituiscono, infatti, presupposto per l’esercizio del potere sanzionatorio edilizio, correlato alla eventuale inammissibilità ovvero al rigetto dell’istanza in argomento;
   - per completezza di analisi, il Collegio ritiene anche di evidenziare che i rilevamenti tratti da Google Earth, non costituiscono, di per sé considerati, elementi idonei a comprovare lo stato dei luoghi sussistente ad una certa data e l’assenza di coincidenza tra il manufatto in questione e quello oggetto dell’istanza di sanatoria straordinaria e ciò, in particolare, tenuto conto della provenienza del suddetto rilevamento, delle incertezze in merito alla risalenza delle immagini (come emerge dallo stesso sito – alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it – per impostazione predefinita il software “visualizza le immagini di qualità migliore disponibili per una determinata località”, con la precisazione che “a volte potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle informazioni relative ai metodi di esecuzione del rilevamento medesimo (cfr. TAR Napoli, sez. II, sentenza n. 6118 del 27.11.2014; sentenza n. 5331 del 22.11.2013) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 10.09.2018 n. 9235 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Costituisce costruzione urbanisticamente rilevante anche la sistemazione di roulotte per periodi ripetuti nel tempo, giacché ciò che rileva è l'idoneità del manufatto ad incidere sul preesistente assetto edilizio in modo non occasionale.
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   - in relazione, per contro, alle ulteriori opere sanzionate, il ricorso si palesa infondato;
   - si evidenzia, infatti, che il secondo dei manufatti sanzionati, realizzato in muratura, è stato espressamente indicato nel provvedimento impugnato quale opera eseguita in prosecuzione (“prosieguo dei lavori”), emergendo per tabulas che detta opera non ha costituito oggetto di alcuna istanza di sanatoria, venendo in rilievo un intervento di nuova edificazione soggetto al regime del permesso di costruire, doverosamente e legittimamente sanzionato con l’irrogazione della sanzione demolitoria;
   - del pari, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza, costituisce costruzione urbanisticamente rilevante anche la sistemazione di roulotte per periodi ripetuti nel tempo, giacché ciò che rileva è l'idoneità del manufatto ad incidere sul preesistente assetto edilizio in modo non occasionale (in termini, TAR Toscana Firenze Sez. III Sent., 11.04.2008, n. 1020) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 10.09.2018 n. 9235 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del d.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse.
L'’ordine di demolizione, inoltre, è atto dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e, quindi, non necessita di particolare motivazione quanto all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi.
La sussistenza di particolari condizioni di salute, economiche e sociali non legittimano l’esecuzione di abusi edilizi né valgono a dispiegare una efficacia esimente, residuando il ricorso alle misure assistenziali previste dall’ordinamento.
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   - non meritano accoglimento neanche le deduzioni dirette a contestare l’assenza di preventiva valutazione della sanabilità delle opere da parte dell’amministrazione. Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del d.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n. 47/1985) si desume, infatti, che il rilascio del permesso di costruire in sanatoria consegue necessariamente ad un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai sensi dell’art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, l’esercizio della vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale. Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in assenza del prescritto permesso di costruire l’amministrazione comunale deve disporne senz’altro la demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003, n. 617);
   - l’ordine di demolizione, inoltre, è atto dovuto in presenza di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e, quindi, non necessita di particolare motivazione quanto all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso -che è in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti alternativi (ex multis, TAR Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246);
   - la sussistenza di particolari condizioni di salute, economiche e sociali non legittimano l’esecuzione di abusi edilizi né valgono a dispiegare una efficacia esimente, residuando il ricorso alle misure assistenziali previste dall’ordinamento (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 10.09.2018 n. 9235 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI FORNITURE E SERVIZIContratti, proroga legittima se è nel bando. Così non si viola l'obbligo di gara.
Nel codice appalti la proroga di un contratto deve essere temporanea, non imputabile a fatto dell'amministrazione e funzionale a garantire la continuità dell'azione amministrativa in attesa della scelta del nuovo contraente; sempre necessaria una adeguata motivazione, ma se si sceglie la via di una nuova gara la motivazione non serve.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la sentenza 10.09.2018 n. 9212 che, richiamando i contenuti di un parere dell'Anac del 2013, ha esaminato una fattispecie riferibile alla disciplina di cui all'articolo 106, del decreto n. 50 del 2016 che ammette la proroga soltanto quando ha carattere di temporaneità e rappresenta uno strumento atto esclusivamente ad assicurare il passaggio da un vincolo contrattuale ad un altro.
I giudici hanno richiamato un parere dell'Anac (parere AG 38/2013) che, anche se relativo alla previgente disciplina, ha comunque evidenziato che la proroga «è teorizzabile ancorandola al principio di continuità dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.) nei soli limitati ed eccezionali casi in cui (per ragioni obiettivamente non dipendenti dall'amministrazione) vi sia l'effettiva necessità di assicurare precariamente il servizio nelle more del reperimento di un nuovo contraente».
Sono quindi da ritenere legittime le clausole di proroga inserite fin dall'inizio negli atti di gara perché così facendo non risulta configurabile una violazione della par condicio, né si dà vita a una forma di rinnovo del contratto in violazione dell'obbligo di gara. Viceversa, se la stazione appaltante procedesse a prorogare il contratto oltre i limiti delle previsioni della lex specialis ovvero, in assenza di tali previsioni, alla scadenza naturale del contratto, sussisterebbe un'illegittima fattispecie di affidamento senza gara.
In ogni caso, dice la sentenza la facoltà di proroga del contratto di appalto, anche in presenza di una clausola del bando o del disciplinare, soggiace, comunque, a determinate condizioni e necessita di adeguata motivazione. Invece, se, come nella fattispecie oggetto di esame da parte del Tar, l'amministrazione opti per l'indizione di una nuova procedura, nessuna particolare motivazione è necessaria (articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).
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MASSIMA
2. E’ noto infatti che
in materia di rinnovo o proroga dei contratti pubblici di appalto di servizi non vi è alcuno spazio per l'autonomia contrattuale delle parti in quanto vige il principio inderogabile, fissato dal legislatore per ragioni di interesse pubblico, in forza del quale, salve espresse previsioni dettate dalla legge in conformità della normativa comunitaria, l'amministrazione, una volta scaduto il contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso tipo di prestazioni, effettuare una nuova gara pubblica (TAR Sardegna Cagliari n. 755/2014, confermata da Consiglio di Stato sez. III n. 1521/2017 con cui si è affermato che “La proroga, anzi, come giustamente evidenziato dal primo giudice, costituisce strumento del tutto eccezionale, utilizzabile solo qualora non sia possibile attivare i necessari meccanismi concorrenziali”).
2.1. Va peraltro ricordato che
la differenza tra rinnovo e proroga di contratto pubblico sta nel fatto che il primo comporta una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, che può concludersi con l'integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune di esse in quanto non più attuali; la seconda ha, invece, come solo effetto il differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il resto regolato dall'atto originario.
2.2. Come correttamente rilevato dalla difesa dell’amministrazione resistente,
la proroga, nell’unico caso oggi ammesso ai sensi dell’art. 106, del d.lgs. n. 50 del 2016, ha carattere di temporaneità e rappresenta uno strumento atto esclusivamente ad assicurare il passaggio da un vincolo contrattuale ad un altro.
Ciò, peraltro, è stato chiarito, conformemente all’univoco orientamento della giurisprudenza, anche dall’ANAC, pure in relazione al previgente impianto normativo; è stato, infatti, evidenziato (parere AG 38/2013) che
la prorogaè teorizzabile ancorandola al principio di continuità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) nei soli limitati ed eccezionali casi in cui (per ragioni obiettivamente non dipendenti dall’Amministrazione) vi sia l’effettiva necessità di assicurare precariamente il servizio nelle more del reperimento di un nuovo contraente (CdS, sez. V, sent. 11.05.2009, n. 2882).
2.3.
Se è vero, dunque, che sono considerate legittime le clausole di proroga inserite ab origine nella lex specialis (Cons. Stato, sez. III, 05.07.2013, n. 3580; sez. V, 27.04.2012, n. 2459; sez. VI, 16.02.2010, n. 850), giacché in tal modo non è configurabile una violazione della par condicio, né si dà vita ad una forma di rinnovo del contratto in violazione dell'obbligo di gara (laddove se la stazione appaltante procedesse a prorogare il contratto oltre i limiti delle previsioni della lex specialis ovvero, in assenza di tali previsioni, alla scadenza naturale del contratto, sussisterebbe un’illegittima fattispecie di affidamento senza gara), è altrettanto vero che la facoltà di proroga del contratto di appalto, anche in presenza di una clausola della lex specialis, soggiace, comunque, a determinate condizioni.
2.4.
La clausola di proroga inserita nel contratto conferisce, infatti, all’ente il diritto potestativo di richiedere al contraente privato la prosecuzione del contratto e, inoltre, come chiarito dalla unica giurisprudenza anche del Giudice d’Appello, il rapporto tra la regola, cioè la gara, e l’eccezione, cioè la possibilità di -limitata– proroga, se prevista, si riflette sul contenuto della motivazione, giacché ove, come nella fattispecie, l’amministrazione opti per l'indizione di una nuova procedura, nessuna particolare motivazione è necessaria; per contro, solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione si determini alla proroga del rapporto tale determinazione dovrà essere analiticamente motivata, dovendo essere chiarite le ragioni per le quali l’ente ritiene di discostarsi dal principio generale (Cons. Stato, sez. VI, 24.11.2011, n. 6194).
2.5. Giova precisare, altresì, per completezza di analisi e ferme le dirimenti considerazioni sopra svolte, che dalla documentazione versata in atti emerge che solo nel capitolato d'oneri è riportata la clausola che prevede la possibilità di proroga del contratto mentre nel contratto sottoscritto tra le parti rep. 4596 del 07/01/2014 (art. 6, comma 2) è stata prevista, conformemente alla normativa di riferimento, la sola proroga tecnica, eventualmente necessaria per completare la procedura della nuova gara pubblica.
2.6. Del tutto legittimamente, dunque, l’amministrazione comunale ha adottato le determinazioni impugnate, inerenti, come sopra esposto, al conferimento dell’incarico per la progettazione del servizio di igiene urbana integrata con implementazione della tariffa puntuale e per il supporto per la redazione dei relativi atti di gara, in funzione dell’affidamento del servizio medesimo, successivamente alla scadenza del contratto di appalto in corso di esecuzione, in esito ad una nuova procedura alla quale, peraltro, anche la ricorrente potrà partecipare.
3. Da quanto sopra esposto consegue l’infondatezza delle censure dedotte, dovendosi escludere che l’amministrazione fosse tenuta a svolgere prima ancora che a comunicare l’avvio di un procedimento nei termini prospettati da parte ricorrente.
4. Il conclusione, il ricorso va rigettato.

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Limiti alla vendita di alloggio di edilizia residenziale pubblica introdotti con la Convenzione comunale.
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Edilizia residenziale pubblica - Alloggi - Alienazione – Dopo 5 anni dal rilascio della licenza di abitabilità – Limiti introdotti dal Comune con la convenzione ex art. 35, l. n. 865 del 1971 - Possibilità.
Anche se l’art. 35, l. 22.10.1971, n. 865, nel testo modificato l. 17.02.1992, n. 179, ha ridotto da 20 a 5 anni -decorrenti dalla data del rilascio della licenza di abitabilità- i limiti inderogabili all'alienazione successiva dell'immobile di edilizia residenziale pubblica sovvenzionato, con la convenzione il comune, potendo pattuire che dopo i 5 anni l'immobile sia venduto solo a chi ha i requisiti per ottenere un alloggio agevolato, può di fatto introdurre limiti convenzionali alla successiva alienazione da parte dell'assegnatario (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che la convenzione di edilizia residenziale pubblica, ex art. 35, l. 22.10.1971, n. 865, avente ad oggetto il diritto di proprietà, è uno strumento di regolazione urbanistica di lunga durata esteso anche alla fissazione, con modalità normativamente predeterminate, dell’iniziale prezzo di cessione i vincoli all’alienazione contenuti nelle convenzioni ex art. 35, l. n. 865 del 1971 stipulate anteriormente all’entrata in vigore della l. 17.02.1992, n. 179 hanno piena efficacia nel primo quinquennio; nel prosieguo, possono essere rimossi, a titolo oneroso, previa stipula di un’ulteriore convenzione con il Comune, cui peraltro spetta di individuare gli elementi di calcolo della misura del corrispettivo che l’interessato deve versare; i vincoli all’alienazione contenuti nelle convenzioni ex art. 35 l. n. 865 stipulate posteriormente all’entrata in vigore della l. n. 179 del 1992 hanno efficacia limitata solamente al primo quinquennio e, comunque, sono superabili “previa autorizzazione della regione, quando sussistano gravi, sopravvenuti e documentati motivi”.
A tale alleggerimento dei vincoli normativi, tuttavia, non si accompagna la previsione della nullità di pattuizioni convenzionali che introducano, in varia forma, vincoli ulteriori a quelli contemplati dalla legislazione vigente. In altri termini, il tessuto ordinamentale ha registrato sì un oggettivo arretramento dei vincoli imposti ex lege, come tali imperativi ed assoluti, ma non ha contestualmente recato il divieto della previsione convenzionale di limiti all’alienazione diversi e ulteriori rispetto allo standard vincolistico attualmente stabilito.
Ha aggiunto la Sezione che la ratio legis non deve essere individuata nella volontà di impedire tout court vincoli alla disponibilità degli alloggi diversi da quelli imposti per legge: se così fosse stato, infatti, vi sarebbe stata l’apposita previsione della nullità di clausole convenzionali recanti vincoli ulteriori rispetto a quelli stabiliti dalla legge.
Al contrario, la finalità delle modifiche succedutesi nel tempo è con ogni ragionevolezza rappresentata dall’enucleazione di un più ampio margine di libertà operativa per lo strumento convenzionale: l’eliminazione del pesante apparato vincolistico in precedenza stabilito dalla legge, invero, rende l’istituto oggettivamente più agile, duttile e modulabile in base alle varie esigenze proprie dei diversi contesti urbani del Paese.
Del resto, la convenzione ex art. 35, l. n. 865 non può avere durata inferiore ai vent’anni e deve prevedere, tra l’altro, “la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi, sulla base del costo delle aree”: vale, in proposito, il richiamo operato dal novellato comma 13 all’art. 8, comma 1, l. n. 10 del 1977 (oggi confluito nell’art. 18, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2011) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.09.2018 n. 5300 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
... per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio–Sede di Roma, Sezione II-bis, n. 1686 del 04.02.2016, resa tra le parti, concernente approvazione del nuovo schema di convenzione per la concessione in diritto di superficie ovvero per la cessione della piena proprietà di terreni ai fini della realizzazione del II^ P.E.E.P.;
...
7. Venendo al merito, il Collegio osserva che la materia delle convenzioni urbanistiche propedeutiche alla realizzazione di alloggi di edilizia popolare ha visto, nel tempo, una serie notevole di modificazioni legislative.
7.1. Per quanto qui di interesse, si evidenzia:
   - che l’art. 35 l. 865 del 1971 prevedeva inizialmente, ai commi 15, 16, 17 e 19, che “L'alloggio costruito su area ceduta in proprietà non può essere alienato a nessun titolo, ne' su di esso può costituirsi alcun diritto reale di godimento per un periodo di tempo di 10 anni dalla data del rilascio della licenza di abitabilità. Decorso tale periodo di tempo, l'alienazione o la costituzione di diritti reali di godimento può avvenire esclusivamente a favore di soggetti aventi i requisiti per la assegnazione di alloggi economici e popolari, al prezzo fissato dall'ufficio tecnico erariale … Dopo 20 anni dal rilascio della licenza di abitabilità, il proprietario dell'alloggio può trasferirne la proprietà a chiunque o costituire su di essa diritto reale di godimento, con l'obbligo di pagamento a favore del comune o consorzio di comuni, che a suo tempo ha ceduto l'area, della somma corrispondente alla differenza tra il valore di mercato dell'area al momento dell'alienazione ed il prezzo di acquisizione a suo tempo corrisposto, rivalutato sulla base delle variazioni dell'indice dei prezzi all'ingrosso calcolato dall'Istituto centrale di statistica … Gli atti compiuti in violazione delle disposizioni contenute nei quattro precedenti commi sono nulli. Detta nullità può essere fatta valere dal comune o da chiunque altro vi abbia interesse e può essere rilevata d'ufficio dal giudice”;
   - che la successiva l. n. 179 del 1992 abrogava tali commi e stabiliva, in loro vece, che “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli alloggi di edilizia agevolata possono essere alienati o locati, previa autorizzazione della regione, quando sussistano gravi e sopravvenuti motivi e comunque quando siano decorsi cinque anni dall'assegnazione o dall'acquisto” (così l’art. 20, primo comma, della l. n. 179);
   - che la l. n. 85 del 1994 sostituiva il primo comma dell’art. 20 della l. n. 179 come segue: “A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli alloggi di edilizia agevolata possono essere alienati o locati, nei primi cinque anni decorrenti dall'assegnazione o dall'acquisto e previa autorizzazione della regione, quando sussistano gravi, sopravvenuti e documentati motivi. Decorso tale termine, gli alloggi stessi possono essere alienati o locati”;
   - che la l. n. 662 del 1996 novellava (tra l’altro) il comma 13 dell’art. 35 della l. n. 865, aggiungendovi il riferimento alla l. n. 10 del 1977; il comma così novellato recitava: “Contestualmente all'atto della cessione della proprietà dell'area, tra il comune, o il consorzio, e il cessionario, viene stipulata una convenzione per atto pubblico, con l'osservanza delle disposizioni di cui all'articolo 8, commi primo, quarto e quinto, della legge 28.01.1977, n. 10, la quale, oltre a quanto stabilito da tali disposizioni, deve prevedere…”;
   - che il d.l. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni con l. n. 106 del 2011, introduceva nel corpo dell’art. 31 della l. n. 448 del 1998 i commi 49-bis e 49-ter, ai sensi dei quali:
49-bis: I vincoli relativi alla determinazione del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all'articolo 35 della legge 22.10.1971, n. 865, e successive modificazioni, per la cessione del diritto di proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della legge 17.02.1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del singolo proprietario e soggetta a trascrizione per un corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di superficie, in misura pari ad una percentuale del corrispettivo risultante dall'applicazione del comma 48 del presente articolo. La percentuale di cui al presente comma e' stabilita, anche con l'applicazione di eventuali riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con decreto di natura non regolamentare del Ministro dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 3 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281.
49-ter: Le disposizioni di cui al comma 49-bis si applicano anche alle convenzioni previste dall'articolo 18 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380
”;
   - che il d.l. n. 216 del 2011, convertito con modificazioni con l. n. 14 del 2012, stabiliva che “A decorrere dal 01.01.2012, la percentuale di cui al comma 49-bis dell'articolo 31 della legge 23.12.1998, n. 448, e' stabilita dai comuni”.
7.2.
Dal combinato disposto di tali norme risulta:
   - che i vincoli all’alienazione contenuti nelle convenzioni ex art. 35 l. n. 865 stipulate anteriormente all’entrata in vigore della l. n. 179 del 1992 hanno piena efficacia nel primo quinquennio; nel prosieguo, possono essere rimossi, a titolo oneroso, previa stipula di un’ulteriore convenzione con il Comune, cui peraltro spetta di individuare gli elementi di calcolo della misura del corrispettivo che l’interessato deve versare;
   - che i vincoli all’alienazione contenuti nelle convenzioni ex art. 35 l. n. 865 stipulate posteriormente all’entrata in vigore della l. n. 179 del 1992 hanno efficacia limitata solamente al primo quinquennio e, comunque, sono superabili “previa autorizzazione della regione, quando sussistano gravi, sopravvenuti e documentati motivi”.

7.3. Questo, dunque, l’attuale quadro legislativo,
indubbiamente connotato da una tendenziale riduzione dei vincoli all’alienazione stabiliti dalla previgente normativa.
7.4.
A tale alleggerimento dei vincoli normativi, tuttavia, non si accompagna la previsione della nullità di pattuizioni convenzionali che introducano, in varia forma, vincoli ulteriori a quelli contemplati dalla legislazione vigente.
7.5. In altri termini,
il tessuto ordinamentale ha registrato sì un oggettivo arretramento dei vincoli imposti ex lege, come tali imperativi ed assoluti, ma non ha contestualmente recato il divieto della previsione convenzionale di limiti all’alienazione diversi e ulteriori rispetto allo standard vincolistico attualmente stabilito.
7.6. Questo elemento rappresenta un dato decisivo per la ricostruzione esegetica della sottesa ratio legis.
7.7.
Questa, ad avviso del Collegio, non deve essere individuata nella volontà di impedire tout court vincoli alla disponibilità degli alloggi diversi da quelli imposti per legge: se così fosse stato, infatti, vi sarebbe stata l’apposita previsione della nullità di clausole convenzionali recanti vincoli ulteriori rispetto a quelli stabiliti dalla legge.
7.8. Al contrario,
la finalità delle modifiche succedutesi nel tempo è con ogni ragionevolezza rappresentata dall’enucleazione di un più ampio margine di libertà operativa per lo strumento convenzionale: l’eliminazione del pesante apparato vincolistico in precedenza stabilito dalla legge, invero, rende l’istituto oggettivamente più agile, duttile e modulabile in base alle varie esigenze proprie dei diversi contesti urbani del Paese.
7.9. Del resto,
la convenzione ex art. 35 l. n. 865 non può avere durata inferiore ai vent’anni e deve prevedere, tra l’altro, “la determinazione dei prezzi di cessione degli alloggi, sulla base del costo delle aree”: vale, in proposito, il richiamo operato dal novellato comma 13 all’art. 8, comma primo, della l. n. 10 del 1977 (oggi confluito nell’art. 18, comma primo, d.p.r. n. 380 del 2011).
7.10. De jure condito, dunque,
la convenzione ex art. 35 resta uno strumento di regolazione urbanistica di lunga durata esteso anche alla fissazione, con modalità normativamente predeterminate, dell’iniziale prezzo di cessione.
7.11.
La previsione convenzionale di limiti prospettici all’alienazione degli alloggi ulteriori rispetto a quelli stabiliti ex lege, pertanto, non solo è consentita dalla normativa ma, per di più, si pone in sostanziale linea di continuità teleologica con le caratteristiche strutturali e funzionali proprie dello strumento.
8. Nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale i limiti all’alienazione stabiliti dalla delibera consiliare n. 60 del 2014 e destinati, nelle intenzioni del Comune, ad essere contenuti nelle convenzioni da stipulare con i soggetti assegnatari rispettano il disposto dell’art. 1379 c.c..
8.1. In primo luogo ricorre un evidente interesse di Roma Capitale, quale ente esponenziale della collettività locale, a riservare per un più lungo periodo di tempo gli alloggi di edilizia popolare alle fasce svantaggiate della popolazione, tanto più in considerazione della notoria difficoltà di reperire immobili ad uso abitativo a prezzi accessibili nella Città di Roma.
8.2. In secondo luogo, non si è in presenza di un radicale divieto di alienazione, ma di una mera perimetrazione contenutistica della facoltà di disposizione del titolare dell’alloggio, con particolare riferimento al prezzo di cessione ed alle qualità soggettive del compratore.
8.3. In terzo luogo, il termine ventennale costituisce un “conveniente limite di tempo”, sia perché è pari al termine di durata minima ex lege della convenzione, sia perché è del tutto logico che tale termine sia superiore a quello decennale previsto dalla l. n. 560 del 1993 per l’ipotesi di dismissione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, fenomeno generale da cui si distingue (proprio per le caratteristiche costruttive economiche, per il bacino di utenza popolare e per le modalità autoritative di acquisizione delle aree) la species dell’edilizia economica e popolare cui è, invece, specificamente rivolto l’art. 35 della l. n. 865 del 1971, che ha interamente riscritto l’art. 10 della l. n. 167 del 1962, recante appunto “Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree fabbricabili per l'edilizia economica e popolare”.
8.4. Di converso, la specialità dell’edilizia economica e popolare si evince anche in riferimento all’edilizia convenzionata (disciplinata dall’art. 7 della l. n. 10 del 1977, poi confluito nell’art. 17 del d.p.r. n. 380 del 2001), connotata dalla riduzione del contributo di costruzione a fronte dell’impegno del costruttore di applicare prezzi di vendita degli alloggi conformi a convenzioni stipulate con l’Amministrazione comunale: tali limitazioni, proprio in quanto corrispondenti ad una riduzione a monte del costo di costruzione, si applicano solo alla prima cessione da parte del costruttore e non seguono il bene nei successivi trasferimenti.
9. Le ricorrenti in prime cure lamentano, inoltre, una lesione del proprio diritto soggettivo di credito, in quanto l’indennità di esproprio sarebbe stata sostituita dalla cessione di diritti edificatori per un valore corrispondente: tale valore, tuttavia, sarebbe stato ex post significativamente intaccato dalla delibera n. 60 del 2014.
9.1. Sul punto il Collegio osserva che, in luogo della percezione dell’indennità, le ricorrenti in prime cure avevano a suo tempo pattuito con il Comune il riconoscimento di corrispondenti diritti edificatori: l’effettivo surrogato dell’indennità, dunque, è rappresentato da tali diritti in sé, non dal loro prospettico (e fisiologicamente mutevole) valore di mercato.
9.2. Con maggiore sforzo motivazionale, il Collegio comunque rileva:
   - che la delibera n. 60 non incide in alcun modo sulla spettanza di tali diritti edificatori;
   - che non è provato che l’attuale valore di questi diritti sia stato concretamente e sensibilmente ridotto dalle previsioni della delibera;
   - che, in ottica civilistica, le aspettative circa il potenziale lucro riveniente dalla futura cessione degli alloggi a prezzi di mercato una volta decorso il primo quinquennio si configurano quale mero motivo, come tale giuridicamente irrilevante (salva l’ipotesi eccezionale di cui all’art. 1345 c.c., nella specie non ricorrente).
9.3. Oltretutto, la modifica apportata dalla richiamata delibera n. 46 del 2017 consente comunque, a certe condizioni, il recupero della libera commerciabilità degli alloggi, almeno quanto alla fissazione del prezzo.
9.4. Peraltro, la società Pi.Sa.Du. –in disparte ogni considerazione sull’effettiva legittimazione ad intervenire in prime cure, posto che tale società riveste tutti i caratteri propri del soggetto co-interessato all’annullamento degli atti gravati, con conseguente onere di tempestiva impugnazione– ha precisato che “l'efficacia della cessione è stata sospensivamente condizionata alla sottoscrizione di detta convenzione”, di talché la stessa ricorrenza di una lesione attuale è revocabile in dubbio, giacché la stessa società sostiene di non aver ancora sottoscritto la convenzione con Roma Capitale.
10. Per gli esposti motivi, pertanto, deve accogliersi l’appello di Roma Capitale in quanto i ricorsi svolti in prime cure dalle società Eu.Ed. s.r.l., Co.Ed. Il Tr. s.r.l. e Co.Ed.Ca. 2004 s.r.l. erano infondati: lo schema di convenzione da ultimo approvato con la delibera consiliare n. 60 del 2014, infatti, reca previsioni di carattere obbligatorio pienamente conformi a legge.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOBando da pubblicare in Gazzetta anche per gli incarichi a contratto.
Anche il bando di concorso per selezionare responsabili dei servizi e degli uffici, qualifiche dirigenziali o posti di alta specializzazione (articolo 110 del Tuel) va obbligatoriamente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.

Lo afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la sentenza 10.09.2018 n. 5298.
La posizione del Tar
Per la mancata pubblicazione del bando in Gazzetta Ufficiale, un interessato chiede l'annullamento di una selezione pubblica relativa alla copertura a tempo determinato di un posto categoria D con la procedura prevista dall'articolo 110 del Tuel.
Il Tar Campania-Napoli gli dà ragione con la sentenza del 23.06.2017 n. 3433, annullando gli atti della procedura, considerata avere natura concorsuale presentandone gli «indici rivelatori» delineati dalla giurisprudenza: emanazione del bando, nomina della commissione esaminatrice, attribuzione del punteggio per i titoli posseduti e per la prova scritta e orale sulla base della previa fissazione dei criteri di valutazione, compilazione di una graduatoria finale di merito, nomina del primo classificato come vincitore.
Il principio costituzionale
Le norme generali discendenti dal principio scritto nel comma 3, articolo 97, della Costituzione, si legge nella sentenza, non hanno ragione di essere derogate per il solo fatto che l'assunzione sia stata effettuata con contratti a tempo determinato.
E l'obbligo di pubblicazione dei bandi nella Gazzetta Ufficiale ne costituisce una regola generale attuativa, in quanto ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità dell’indizione della selezione a tutti i cittadini, indipendentemente dalla loro residenza, e non è stata incisa dall'articolo 35, comma 3, lettera a), del Dlgs n. 165/2001, che ha fissato il criterio della «adeguata pubblicità» in aggiunta e non in sostituzione della norma di carattere generale.
Il Consiglio di Stato dixit
In appello, la quinta sezione del Consiglio di Stato avalla in pieno le posizioni del Tar, premettendo che la nozione di concorso non ha una propria definizione normativa, ma evoca genericamente una procedura selettiva di matrice concorrenziale aperta al confronto comparativo tra una pluralità di candidati in possesso dei requisiti di partecipazione, a prescindere dalla tipologia del posto messo a concorso e dalla natura, temporanea o meno, del relativo contratto.
Rientrano in questo schema anche le procedure in cui vi è una valutazione meramente fiduciaria dei candidati, con esclusione della formazione di una graduatoria di merito, quale quella prevista all'articolo 110 del Tuel per la copertura di posti di responsabili dei servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione.
Tale procedura, affermano i giudici di Palazzo Spada, è da considerarsi «selettiva ma non concorsuale» e rientra nell'alveo dell'articolo 97 della Costituzione anche se l'incarico è «a contratto» e ha natura temporanea, è destinato a essere risolto in caso di dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie, mancano la nomina di una commissione giudicatrice, lo svolgimento di prove e la formazione di una graduatoria.
Si tratta, dunque, di una procedura selettiva a tutti gli effetti, come tale affidata alla cognizione del giudice amministrativo e per la quale sono necessarie «indefettibili modalità pubblicitarie», in primo luogo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, come prevista dall'articolo 4 del Dpr n. 487/1994, che è sviluppo attuativo degli articoli 51 e 97 della Costituzione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.09.2018).
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MASSIMA
1.- Gli appelli sono infondati e meritano di essere respinti.
Le articolate ragioni di doglianza possono essere esaminate congiuntamente, in quanto incentrate sulla esatta e puntuale qualificazione della natura della procedura selettiva in contestazione, che il primo giudice ha ritenuto strutturare una vera e propria procedura concorsuale (facendone discendere:
   a) sul piano processuale, la sussistenza della giurisdizione amministrativa ex art. 63 d.lgs. n. 165/2001;
   b) sul piano sostanziale, la necessità di rispettare l’obbligo di previa pubblicazione del bando nella Gazzetta Ufficiale ex art. 4 del D.P.R. n. 487/1994) e che, per contro, gli appellanti ritengono, con diffusa argomentazione, procedura meramente idoneativa ex art. 110 d.lgs. n. 267/2000 (facendone, per l’appunto, coerentemente discendere:
      a) la rimessione della relativa controversia alla giurisdizione ordinaria;
      b) la sottrazione ai formalismi pubblicitari propri del concorso pubblico in senso stretto).
2.- Osserva il Collegio che
la nozione di “concorso” non riceve, nella materia della assunzione agli impieghi presso pubbliche amministrazioni, una propria definizione normativa, evocando genericamente (alla luce della direttiva costituzionale di cui all’art. 97, comma 4 Cost.) la sua attitudine a strutturale una procedura selettiva di matrice propriamente “concorrenziale”, come tale aperta al “confronto comparativo” tra una pluralità di candidati in possesso dei requisiti di partecipazione.
Se ne trae positiva conferma:
   a) dall’art. 1, comma 1 lettera a), del d.p.r. 09.05.1994, n. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), che ne scolpisce il requisito della generale “apertura” alla generalità dei soggetti interessati, in possesso dei necessari requisiti (“generali” ex art. 2 d.p.r. cit. e “particolari”, in relazione alla tipologia e qualifica del posto messo a concorso, ex art. 3);
   b) dall’art. 3 dello stesso regolamento, che impone l’adozione di apposito “bando” (non già genericamente inteso a prefigurare le modalità della selezione, ma) recante puntuale indicazione:
      b1) delle modalità anche temporali di presentazione delle “domande” di partecipazione;
      b2) del diario, della sede, delle materie e del contenuto delle “prove” che ne costituiscono la specifica modalità operativa (e vuoi che si tratti di prove scritte, anche orali ed eventualmente pratiche):
      b3) della “votazione” necessaria per l’ammissione alla fase orale;
      b4) degli eventuali “titoli” preferenziali, suscettibili di valutazione;
   c) dall’art. 6, comma 5 del regolamento, laddove rimette, in termini generali, ad una “commissione giudicatrice” appositamente costituita la formazione dell’elenco dei candidati esaminati, con indicazione dei voti da ciascuno riportati (la cui composizione e formazione è regolata dal successivo art. 9);
   d) dal successivo art. 15, che prefigura l’obbligatoria elaborazione, al termine delle prove, di una “graduatoria di merito dei candidati”, formata “secondo l'ordine dei punti della votazione complessiva riportata da ciascun[o]” e seguita dalla elaborazione della “graduatoria dei vincitori”, destinata alla successiva approvazione e pubblicizzazione secondo le scolpite formalità.
In definitiva, alla luce del complesso dei dati riassunti, deve ritenersi, in conformità all’orientamento ricevuto (cfr., ex permultis¸ Cass., sez. un., n. 8799/2017 e Cons. Stato, sez. III, n. 1631/2016) propriamente “concorsuale” (di là dal nomen utilizzato in concreto dall’Amministrazione, notoriamente non rilevante ai fini qualificatori) una procedura preordinata alla selezione concorrenziale nell’ambito di una platea indeterminata di potenziali canditati, mediante il programmatico svolgimento di prove rimesse all’apprezzamento comparativo di apposita commissione giudicatrice, destinato alla trasfusione in apposita graduatoria, inclusiva dei soggetti ritenuti idonei e di quelli dichiarati vincitori.
È evidente, per contro, che
nessun rilievo discretivo può essere conferito alla tipologia di posto messo a concorso e, segnatamente, alla natura temporanea o a tempo indeterminato del relativo contratto, a stipularsi a valle della procedura (arg., si paret, ex art. 1, comma 3, d.p.r. 487/1994 cit.).
3.- Alla luce delle considerazioni che precedono, risulta con evidenza che
la fattispecie del “concorso pubblico” rientra, come specie nel genere, nel più comprensivo alveo delle procedure “selettive”, all’interno delle quali si collocano anche le procedure (per le quali è invalsa la qualificazione come meramente “idoneative”) che –indipendentemente dalla prefigurazione e dall’esperimento di apposite prove– si caratterizzano per la valutazione meramente fiduciaria dei candidati, con esclusione della formazione –nei termini vincolanti dell’esercizio di una discrezionalità di ordine meramente tecnico, non a caso affidata a “tecnici esperti” (art. 9 d.p.r. cit.)– di una definitiva graduatoria di merito (la quale, per tal via, può essere riguardata come il vero e proprio elemento scriminante tra l’una e l’altra vicenda).
La distinzione, come è noto, non è di poco momento, incidendo sul riparto della giurisdizione (che, non a caso, è conferita al giudice amministrativo solo per le procedure propriamente concorsuali, in cui la posizione soggettiva di ciascuno dei candidati assume la consistenza dell’interesse legittimo).
Procedura meramente idoneativa deve, ai fini della controversia in esame, ritenersi quella prevista all’art. 110 del T.U.E.L. per la copertura, autorizzata dallo statuto dell’ente locale, di “posti di responsabili dei servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione”:
   - la natura di mero “incarico a contratto”;
   - la natura necessariamente temporanea dello stesso;
   - lo scolpito ancoraggio temporale ne ultra quem al “mandato elettivo del sindaco o del presidente della provincia”;
   - la prefigurata modalità di automatismo risolutorio in caso di dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie;
   - la possibilità di formalizzazione, sia pure eccezionalmente e motivatamente, di contratto propriamente “di diritto privato”;
   - la mancata previsione della nomina di una commissione giudicatrice, del (necessario) svolgimento di prove e della (correlata) formazione di formali graduatorie concorrono ad evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specialità e fiduciarietà che caratterizza la procedura in questione, che –per tal vi – deve ritenersi, in conformità al comune intendimento, bensì selettiva ma non concorsuale.

4.- Alla luce delle riassunte coordinate ermeneutiche,
deve allora condividersi, avuto riguardo alle concrete modalità di indizione e svolgimento della procedura in contestazione, la valutazione espressa dal primo giudice. Il quale ha esattamente valorizzato:
   a) l’espressa (auto)qualificazione in termini di concorso conferita alla selezione dal bando;
   b) il puntuale richiamo, ivi contenuto, alle previsioni del d.P.R. 09.05.1994 n. 487, ossia al Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni;
   c) la sussistenza di tutti gli indici rivelatori della natura concorsuale della procedura assunzionale, avuto segnatamente riguardo alla emanazione del bando, alla nomina della commissione esaminatrice, alla attribuzione del punteggio per i titoli posseduti e per la prova scritta ed orale, sulla base della previa fissazione dei criteri di valutazione, alla compilazione di una graduatoria finale di merito, alla stregua dei punteggi complessivi conseguiti dai candidati, e, infine, alla nomina del primo classificato come vincitore.

Ne discende de plano:
   a) che correttamente è stata ritenuta la giurisdizione amministrativa;
   b) che con pari correttezza
si è stigmatizzata –in adesione alle ragioni di doglianza di parte appellata– l’omissione delle indefettibili modalità pubblicitarie (in adesione al consolidato orientamento giurisprudenziale che fa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, prevista dall’art. 4 del d.p.r. n. 487/1994, una regola attuativa degli artt. 51 e 97 e, come tale, non incisa, neanche per incompatibilità, dall'art. 35, comma 3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001, che ha fissato il criterio della “adeguata pubblicità” in termini coerentemente aggiuntivi e non sostitutivi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.06.2015, n. 2801 e Id. 25.01.2016, n. 227.
5.- Le esposte considerazioni militano per la complessiva reiezione del gravame.

EDILIZIA PRIVATA: Secondo la costante giurisprudenza, “la presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria”.
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5. Col primo motivo di appello il Comune lamenta l’erroneità della sentenza di primo grado perché il Tar Puglia, piuttosto che dichiarare l’illegittimità dell’ordine di demolizione perché non preceduto dall’esame dell’istanza di sanatoria ex art. 13 l. n. 47/1985, avrebbe dovuto dichiarare inammissibile per carenza d'interesse ab origine il primo ricorso n. 2847/1996, in quanto lo stesso è stato avanzato contestualmente o nei sessanta giorni successivi alla istanza di accertamento di conformità ex art. 13 l. n. 47/1985.
5.1. La censura non è meritevole di accoglimento.
5.2. Al riguardo è sufficiente ricordare che, secondo la costante giurisprudenza, “la presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria” (Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2018, n. 1171; sez. VI, 25.09.2017, n. 4469; sez. VI, 05.07.2017, n. 3308; sez. VI, 04.04.2017, n. 1565).
5.3. Risulta pertanto meritevole di conferma la statuizione del primo giudice resa sul ricorso n. 2847/96, ad oggetto l’ordinanza di ingiunzione di demolizione n. 155 del 30.07.1996 delle opere abusive consistenti nella realizzazione del capannone a ridosso ed in ampliamento di altro già assentito con concessione edilizia n. 44/92 (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.09.2018 n. 5293- link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La previsione urbanistica dell’obiettivo di realizzazione di un’opera pubblica non può pertanto essere interpretata alla stregua di un mero vincolo conformativo, rilevando, al contrario, quale vincolo preordinato all'esproprio, soggetto, in quanto tale, al limite temporale di efficacia di un quinquennio ex art. 2 l. 19.11.1968, n. 1187 (si veda, ora, l’art. 9 del d.P.R. 08/06/2001, n. 327).
Invero, secondo la consolidata giurisprudenza, può essere attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di proprietà sui suoli, esclusivamente a quei vincoli, che non solo non sono esplicitamente preordinati all'esproprio in vista della realizzazione di un'opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da parte dei privati, e ciò in linea con quanto statuito dalla Corte costituzionale, per la quale non sono annoverabili tra i vincoli espropriativi quelli derivanti da scelte urbanistiche realizzabili anche a mezzo dell'iniziativa privata.
In sostanza sono conformativi -e al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo non comportano indennizzo, non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di ritipizzazione- i vincoli che importano una destinazione, anche di contenuto specifico, realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e, quindi, siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene.

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6. Con un secondo motivo l’appellante lamenta l’erroneità della sentenza di primo grado, sostenendo che il suolo sul quale la società SI.MA. ha realizzato l'ampliamento abusivo non era interessato da un vincolo preordinato all'esproprio, poiché lo strumento urbanistico si limitava a prevedere per quell'area una destinazione ad impianti di macellazione pubblici e ad attività (servizi) di carattere generale complementari a tale destinazione.
6.1. La censura non è meritevole di accoglimento.
6.2. Il Collegio rileva al riguardo che, con riferimento all’area in esame, unitamente alla descritta destinazione da parte dello strumento urbanistico ad impianti di macellazione pubblici e ad attività (servizi) di carattere generale ad essa complementari, le N.T.A. –vigenti ed applicabili ratione temporis alla fattispecie– prevedevano l’ampliamento dell’esistente macello comunale.
6.3. La previsione dell’obiettivo di realizzazione di un’opera pubblica non può pertanto essere interpretata alla stregua di un mero vincolo conformativo, rilevando, al contrario, quale vincolo preordinato all'esproprio, soggetto, in quanto tale, al limite temporale di efficacia di un quinquennio ex art. 2 l. 19.11.1968, n. 1187 (si veda, ora, l’art. 9 del d.P.R. 08/06/2001, n. 327).
6.4. Invero, secondo la consolidata giurisprudenza (da ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2017, n. 4748), può essere attribuita natura non espropriativa, ma conformativa del diritto di proprietà sui suoli, esclusivamente a quei vincoli, che non solo non sono esplicitamente preordinati all'esproprio in vista della realizzazione di un'opera pubblica, ma nemmeno si risolvano in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo al contrario la realizzazione di interventi da parte dei privati, e ciò in linea con quanto statuito dalla Corte costituzionale, per la quale non sono annoverabili tra i vincoli espropriativi quelli derivanti da scelte urbanistiche realizzabili anche a mezzo dell'iniziativa privata; in sostanza sono conformativi - e al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo non comportano indennizzo, non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere di ritipizzazione - i vincoli che importano una destinazione, anche di contenuto specifico, realizzabile ad iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o interventi ad esclusiva iniziativa pubblica e, quindi, siano attuabili anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione del bene.
6.5. In maniera del tutto condivisibile il primo giudice ha dunque ritenuto illegittimo il rigetto della domanda di condono di cui alla nota del 24.10.1996, attesa la decadenza del detto vincolo a causa dell’intervenuta scadenza del termine quinquennale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.09.2018 n. 5293- link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: In linea di principio, al provvedimento amministrativo si applica la regola del tempus regit actum, con la conseguenza che esso è sindacabile assumendo come parametro di legittimità le norme vigenti al tempo in cui è stato adottato.
Si è infatti ritenuto che ciascun atto della serie procedimentale deve uniformarsi alla normativa vigente al momento in cui il procedimento, o una sua fase, si sia concluso, intendendosi per procedimento concluso quello per il quale si sia esaurita la fase di decisione (fase costitutiva), anche se non si è ancora completata quella dell'integrazione dell'efficacia […] e che tale effetto si perfeziona soltanto nel momento in cui la fase costitutiva sia pervenuta alla sua conclusione, e cioè nel momento in cui tutti gli elementi costitutivi abbiano trovato la loro realizzazione, cosicché è a questo momento che deve aversi riguardo per identificare la norma applicabile all'atto.
Ciò comporta che la legittimità di un provvedimento amministrativo vada valutata in relazione alle norme vigenti al tempo in cui lo stesso è stato adottato. Se, dunque, in pendenza del procedimento interviene una nuova disposizione regolamentare, l'atto che ne è l'epilogo deve ad essa disposizione adeguarsi, salvo che incida su situazioni giuridiche già consolidatesi.
Può aggiungersi che tutti gli atti della sequenza procedimentale sono certamente insensibili alle modifiche normative sui requisiti formali del procedimento di formazione di ciascuno di essi, sicché, se alla data della sopravvenienza normativa erano già stati adottati nelle forme previgenti, non dovranno essere rinnovati.
Tuttavia, sul piano sostanziale essi producono i loro effetti al momento in cui viene adottato il provvedimento conclusivo e saranno pertanto soggetti al regime normativo a quella data vigente nella parte in cui esso introduce una diversa valutazione degli interessi pubblici.
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Occorre premettere, in linea di principio, che al provvedimento amministrativo si applica la regola del tempus regit actum, con la conseguenza che esso è sindacabile assumendo come parametro di legittimità le norme vigenti al tempo in cui è stato adottato (Consiglio di Stato, sez. IV, 28.09.2009, n. 5835).
Si è infatti ritenuto che ciascun atto della serie procedimentale deve uniformarsi alla normativa vigente al momento in cui il procedimento, o una sua fase, si sia concluso, intendendosi per procedimento concluso quello per il quale si sia esaurita la fase di decisione (fase costitutiva), anche se non si è ancora completata quella dell'integrazione dell'efficacia […] e che tale effetto si perfeziona soltanto nel momento in cui la fase costitutiva sia pervenuta alla sua conclusione, e cioè nel momento in cui tutti gli elementi costitutivi abbiano trovato la loro realizzazione, cosicché è a questo momento che deve aversi riguardo per identificare la norma applicabile all'atto. Ciò comporta che la legittimità di un provvedimento amministrativo vada valutata in relazione alle norme vigenti al tempo in cui lo stesso è stato adottato. Se, dunque, in pendenza del procedimento interviene una nuova disposizione regolamentare, l'atto che ne è l'epilogo deve ad essa disposizione adeguarsi, salvo che incida su situazioni giuridiche già consolidatesi (TAR Lombardia Milano, sez. III, 26.05.2009, n. 3839; TAR Abruzzo-Pescara, sez. I, 24.05.2012, n. 234; Consiglio di Stato, sez. V, 10.04.2018 n. 2171).
Può aggiungersi che tutti gli atti della sequenza procedimentale sono certamente insensibili alle modifiche normative sui requisiti formali del procedimento di formazione di ciascuno di essi, sicché, se alla data della sopravvenienza normativa erano già stati adottati nelle forme previgenti, non dovranno essere rinnovati.
Tuttavia, sul piano sostanziale essi producono i loro effetti al momento in cui viene adottato il provvedimento conclusivo e saranno pertanto soggetti al regime normativo a quella data vigente nella parte in cui esso introduce una diversa valutazione degli interessi pubblici (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 10.09.2018 n. 362 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Per giurisprudenza consolidata di legittimità, in presenza di una nota specifica delle spese prodotta dalla parte vittoriosa, il giudice non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l'onere di dare adeguata motivazione dell'eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e dalle tariffe, in relazione alla inderogabilità dei relativi minimi, a norma dell'art. 24 legge n. 794 del 1942.
Pertanto, il giudice è tenuto ad indicare dettagliatamente le singole voci che riduce, perché richieste in misura eccessiva, o che elimina, perché non dovute, in modo da consentire l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe in relazione alla inderogabilità dei minimi.
Tuttavia, possono essere denunciate in sede di legittimità solo quelle che non rispettano le tariffe professionali, ma il ricorrente deve indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità, senza necessità di ulteriori indagini6.
Sussiste, quindi, un onere per il ricorrente di specificare analiticamente in ricorso le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la precisazione delle voci di tabelle degli onorari e dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonché le singole spese contestate o dedotte come omesse.

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1. Con un unico motivo di impugnazione il ricorrente deduce "violazione dell'art. 91 e ss., in relazione all'art. 360 n. 3 c.p.c.", in quanto pur avendo il contribuente presentato una nota spese, elaborata "secondo le tariffe professionali", indicando "tutte le voci di diritto.., nell'ammontare obbligatorio prescritto per la fascia di riferimento" e mantenendo gli onorari "sempre al di sotto del massimo, anzi appena al di sopra della metà tra il minimo ed il massimo", la Commissione tributaria, nella liquidazione delle spese (per il primo grado € 600,00 per i diritti ed € 800,00 per gli onorari; per il secondo grado € 500,00 per i diritti ed € 500,00 per gli onorari"), "è andata ben al di sotto dei minimi tariffari".
Inoltre, la Commissione "ha omesso di liquidare le spese vive seppure ritualmente documentate" ed ha "arbitrariamente ridotto diritti ed onorari, conglobandoli, senza fornire spiegazioni di sorta". A fronte di una liquidazione complessiva per € 4.617,94 più Iva e CPA, la Commissione regionale ha liquidato, nulla per le spese, a globalmente € 2.400,00 per diritti ed onorari.
1.1.Tale motivo è inammissibile.
Anzitutto, si rileva che il motivo non è autosufficiente, in quanto il ricorrente non ha indicato né lo scaglione di riferimento per la determinazione delle singole voci della tariffa professionale, né la nota spese nel suo contenuto integrale, né l'ammontare delle spese vive che non sarebbe stato liquidato dalla Commissione regionale.
Inoltre, si rileva che per giurisprudenza consolidata di legittimità, in presenza di una nota specifica delle spese prodotta dalla parte vittoriosa, il giudice non può limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di procuratore e degli onorari di avvocato, in misura inferiore a quelli esposti, ma ha l'onere di dare adeguata motivazione dell'eliminazione e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti e dalle tariffe, in relazione alla inderogabilità dei relativi minimi, a norma dell'art. 24 legge n. 794 del 1942 (Cass. Civ., 30.03.2011, n. 7293; Cass. Civ., 30.10.2009, n. 23059).
Pertanto, il giudice è tenuto ad indicare dettagliatamente le singole voci che riduce, perché richieste in misura eccessiva, o che elimina, perché non dovute, in modo da consentire l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe in relazione alla inderogabilità dei minimi (Cass. Civ., 08.02.2007, n. 2748).
Tuttavia, possono essere denunciate in sede di legittimità solo quelle che non rispettano le tariffe professionali, ma il ricorrente deve indicare le singole voci contestate, in modo da consentire il controllo di legittimità, senza necessità di ulteriori indagini (Cass. Civ., 19.11.2014, n. 24635).
Sussiste, quindi, un onere per il ricorrente di specificare analiticamente in ricorso le voci e gli importi considerati in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in errore, con la precisazione delle voci di tabelle degli onorari e dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonché le singole spese contestate o dedotte come omesse (Cass. Civ., 26.06.2007, n. 14744).
Nella specie, non è stata in alcun modo riprodotta nel testo la nota spese, né è stato indicato lo scaglione di valore della controversia, né sono state individuate le singole voci contestate e l'importo preteso, scomposto appunto nelle analitiche voci delle tabelle professionali (Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 07.09.2018 n. 21827).

EDILIZIA PRIVATA: Il pergolato rilevante ai fini edilizi, e perciò assentibile con SCIA, deve essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di stabile ancoraggio al suolo, che funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni.
Ne discende che non è riconducibile alla nozione di pergolato una struttura, come quella di specie, non avente funzione ornamentale ma di sostanziale tettoia, costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni e stabilmente ancorata alle parti murarie, tale da presentarsi come costruzione solida e robusta, idonea ad una permanenza prolungata nel tempo.

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Il Collegio ritiene che l’intervento di copertura del terrazzo realizzato in concreto debba essere sussunto nell’ambito del concetto di nuova costruzione soggetta al regime del permesso di costruire, poiché la manutenzione straordinaria sussiste solo quando viene modificato un immobile nel rispetto dei volumi e delle superfici delle unità immobiliari già esistenti (cfr. art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001, nella versione vigente ratione temporis), mentre nel caso di specie è stata aggiunta al precedente fabbricato un’ingombrante struttura di copertura in sopraelevazione, con conseguente creazione non solo di un consistente aumento di superficie ma anche di un disegno sagomale con connotati affatto diversi da quelli dell’edificio originario, il che esclude in radice che possa trattarsi di opere manutentive.
Ne deriva che la fattispecie in commento non si presta affatto ad essere regolata dal regime semplificato della SCIA, ma deve essere correttamente ricondotta alla cornice normativa propria del permesso di costruire.
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3.1 Con una pregnante censura, parte ricorrente denuncia l’erroneità del giudizio classificatorio reso dall’amministrazione in sede di diniego, la quale avrebbe indebitamente ricondotto il manufatto posto in essere dal Sig. Fr.Na. alla tipologia del pergolato, di per sé assentibile con SCIA, mentre nella specie si tratterebbe propriamente di un’opera architettonica assolutamente non rientrante nella nozione tecnica di pergolato, essendo dotata di un’intelaiatura di importanti dimensioni ben fissata al suolo, tale da predisporla per un uso continuativo nel tempo, con conseguente necessità del previo rilascio del permesso di costruire.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Rileva il Collegio, in base alle odierne emergenze processuali (cfr. in particolare il corredo fotografico in atti e gli stessi elaborati progettuali allegati alla SCIA), che il manufatto in questione è di una notevole imponenza dimensionale, quanto a lunghezza e spessore delle travi e dei pilastri, risulta ancorato al suolo in maniera stabile mediante bullonatura alla pavimentazione e appare destinato a rendere permanentemente più agevole la fruizione degli spazi adibiti a pizzeria, attraverso la predisposizione di una terrazza coperta da un telo non agevolmente rimuovibile (fissato, infatti, all’intelaiatura mediante anelli in ferro e corda elastica: cfr. relazione di sopralluogo del 19.04.2013).
Ebbene, il pergolato rilevante ai fini edilizi, e perciò assentibile con SCIA, deve essere inteso come un manufatto avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente amovibile in quanto privo di stabile ancoraggio al suolo, che funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di modeste dimensioni; ne discende che non è riconducibile alla nozione di pergolato una struttura, come quella di specie, non avente funzione ornamentale ma di sostanziale tettoia, costituita da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni e stabilmente ancorata alle parti murarie, tale da presentarsi come costruzione solida e robusta, idonea ad una permanenza prolungata nel tempo (orientamento consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.01.2017 n. 306; Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.09.2011 n. 5409).
Pertanto, si palesa assolutamente condivisibile l’assunto attoreo che il manufatto in questione doveva, per la sua capacità di apportare trasformazione edilizio-urbanistica del territorio, essere autorizzato mediante permesso di costruire, con la conseguenza che non può non essere tacciato di erronea valutazione dei fatti il diverso percorso argomentativo seguito dall’amministrazione in sede di emanazione del diniego di autotutela.
3.2 Né appaiono convincenti le eccezioni formulate al riguardo dalla difesa dei controinteressati, essenzialmente appuntate sul rilievo che la struttura realizzata sarebbe di modeste dimensioni e di natura precaria, nonché sulla tesi che l’intervento posto in essere rientrerebbe nell’ambito della manutenzione straordinaria, con conseguente sottoposizione, in entrambi i casi, delle opere al regime della SCIA.
Invero, quanto al primo profilo, il Collegio si è già diffusamente soffermato sulle rilevanti dimensioni del manufatto e sulla sua attitudine a rimanere infisso stabilmente alle opere murarie.
Quanto al secondo, il Collegio ritiene che l’intervento di copertura del terrazzo realizzato in concreto debba essere sussunto nell’ambito del concetto di nuova costruzione soggetta al regime del permesso di costruire, poiché la manutenzione straordinaria sussiste solo quando viene modificato un immobile nel rispetto dei volumi e delle superfici delle unità immobiliari già esistenti (cfr. art. 3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001, nella versione vigente ratione temporis), mentre nel caso di specie è stata aggiunta al precedente fabbricato un’ingombrante struttura di copertura in sopraelevazione, con conseguente creazione non solo di un consistente aumento di superficie ma anche di un disegno sagomale con connotati affatto diversi da quelli dell’edificio originario, il che esclude in radice che possa trattarsi di opere manutentive.
Ne deriva che la fattispecie in commento non si presta affatto ad essere regolata dal regime semplificato della SCIA, ma deve essere correttamente ricondotta alla cornice normativa propria del permesso di costruire (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 07.09.2018 n. 5424 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Autotutela, anche parziale, in materia edilizia.
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Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento d’ufficio – Presupposti – Individuazione.
  
Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento d’ufficio – Disposto a distanza di anni dal rilascio della sanatoria – Motivazione in ordine all’interesse pubblico comparato con quello del privato - Necessità - Limiti.
  
Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento d’ufficio – Parziale – Omessa esplicita valutazione – Illegittimità.
  
Presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.
L'esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione (1).
  
L’annullamento d'ufficio di un titolo edilizio, successivamente valutato come illegittimo, è possibile anche ad una distanza temporale considerevole dal titolo medesimo, ma deve essere adeguatamente motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, tenuto anche conto degli interessi dei privati coinvolti (2).
  
E’ illegittimo l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio se il Comune non ha dedicato alcun passaggio motivazionale alla possibilità, non implausibile, di annullare soltanto parzialmente i titoli edilizi rilasciati al fine di contemperare le contrapposte esigenze recando il minore sacrificio possibile alla posizione giuridica del privato (3).
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   (1) Cons. St., sez. IV, 29.03.2018, n. 1991.
   (2) Cons. St., A.P., 17.10.2017, n. 8.
Ancora prima dell’intervento dell’Adunanza plenaria la sez. IV (16.08.2017, n. 4008) aveva affermato il potere ex art. 39, d.P.R. n. 380 del 2001, per come esso vive nell'interpretazione giurisprudenziale amministrativa, non può dirsi assimilabile o riconducibile, in un rapporto di species a genus, a quello di cui all'art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, il quale è, per espressa previsione di diritto positivo, sottoposto al principio del bilanciamento dei contrapposti interessi.
   (3) Cons. St., sez. IV, 29.02.2016, n. 816 (
Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 07.09.2018 n. 5277 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
11. L’appello non merita accoglimento.
12. I cinque motivi d’appello articolati con il gravame in esame, volti ad affermare la legittimità dell’atto di autotutela, in quanto intimamente connessi possono essere congiuntamente esaminati e disattesi, per le seguenti ragioni:
   - non convince in primis quanto argomentato dall’appellante nel senso della insussistenza in radice della posizione di affidamento ascrivibile al privato stante il contrasto dei titoli edilizi rilasciati con la previsione urbanistica che impone la realizzazione dello standard afferente ai parcheggi pubblici contemplato dalla legge generale (art. 41-quinquies della legge urbanistica nazionale) oltre che dalla disciplina di P.R.G., in quanto,
anche i provvedimenti di annullamento in autotutela sono attratti all’alveo normativo dell’art. 21-nonies che, per effetto delle riforme introdotte dal legislatore (da ultimo, la legge n. 124 del 2015), ha riconfigurato il relativo potere attribuendo all’Amministrazione un coefficiente di discrezionalità che si esprime attraverso la valutazione dell’interesse pubblico in comparazione con l’affidamento del destinatario dell’atto;
   - come è noto,
l’Adunanza plenaria (sentenza 17.10.2017, n. 8) ha, da un lato, escluso che sussista ex se l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata per effetto del rilascio di un titolo edilizio illegittimo, dovendo essere espressamente circostanziato, e, dall’altro, ha negato la “teoria dell'inconsumabilità del potere”, altrimenti nota come “perennità della potestà amministrativa di annullare in via di autotutela gli atti invalidi” , con la conseguenza che il decorso del tempo “onera l’amministrazione del compito di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere concreto e attuale”;
   - questa Sezione, nel fare applicazione di tali principi, ha quindi di recente rilevato che
i “presupposti dell'esercizio del potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari; l'esercizio del potere di autotutela è dunque espressione di una rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione (cfr. sentenza 29.03.2018, n. 1991);
   - non coglie nel segno altresì quanto dedotto dal Comune appellante -attraverso il richiamo dell’orientamento pretorio secondo cui la ragionevolezza del termine che governa il potere di autotutela va commisurato utilizzando, quale tertium comparationis, il potere regionale di annullamento del permesso di costruire ex art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001, fissato in dieci anni- avuto riguardo all’insegnamento dell’Adunanza plenaria, espresso con la su citata pronuncia, secondo cui
è da escludere che tale termine sia suscettibile di applicazione nei casi di autotutela;
   - secondo il Collegio in composizione allargata, infatti,
l’annullamento d'ufficio di un titolo edilizio, successivamente valutato come illegittimo, è possibile anche “ad una distanza temporale considerevole dal titolo medesimo”, ma deve essere adeguatamente motivato "in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale", tenuto anche conto degli interessi dei privati coinvolti;
   - del resto questa Sezione aveva già rilevato, poco prima dell’intervento dell’A.p., che “
il potere ex art. 39, D.P.R. n. 380 del 2001, per come esso vive nell'interpretazione giurisprudenziale amministrativa, non può dirsi assimilabile o riconducibile, in un rapporto di species a genus, a quello di cui all'art. 21-nonies L. n. 241 del 1990, il quale è, per espressa previsione di diritto positivo, sottoposto al principio del bilanciamento dei contrapposti interessi” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.08.2017, n. 4008);
   - ebbene non si evince, dal pur complesso quadro motivazionale che connota il provvedimento impugnato in prime cure, una adeguata valutazione del sacrificio imposto al privato derivante dal ritiro degli atti autorizzativi, in quanto, come evidenziato di recente da questo Consiglio, “
l'interesse pubblico che legittima e giustifica la rimozione d'ufficio di un atto illegittimo deve consistere nell'esigenza che quest'ultimo cessi di produrre i suoi effetti, siccome confliggenti, in concreto, con la protezione attuale di valori pubblici specifici, all'esito di un giudizio comparativo in cui questi ultimi vengono motivatamente giudicati maggiormente preganti di (e prevalenti su) quello privato alla conservazione dell'utilità prodotta da un atto illegittimo” (cfr. sentenza sez. VI, 27.01.2017, n. 341);
   - peraltro la società ha documentato, nel corso del procedimento di autotutela, il parallelo giudizio civile instauratosi nei suoi confronti su iniziativa dell’ASL di Benevento per la condanna al pagamento della penale di € 1.343.200,00 contrattualmente prevista;
   - non va altresì trascurato il comportamento della società improntato a criteri di lealtà e chiarezza avendo ab initio rappresentato al Comune (vedi delibera di Giunta municipale n. 242 del 23.09.2003) di avere interesse al mutamento della destinazione d’uso al fine di dar seguito al rapporto contrattuale instaurato con l’ASL di Benevento;
   - per giunta, sia gli originari proprietari, signori Ve.–Fu., che i successivi aventi causa, società Ed.Lu., manifestavano la propria disponibilità, negli anni 2001 e 2002, a concedere in locazione l’uso dei locali del blocco “A” senza trovare alcun riscontro di un qualsivoglia interesse da parte dell’Amministrazione (come si evince dalle note del 01.03.2001 e del 31.12.2002);
   - nemmeno vanno trascurate le circostanze relative al rilascio, ad opera del Comune, del certificato di agibilità dell’immobile in data 10.05.2011, nonché al notevole lasso temporale decorso non solo dal rilascio dei titoli edilizi oggetto della determinazione repressiva del Comune (circa 10 anni, circostanza questa che “imponeva una motivazione particolarmente convincente circa l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto” cfr. Cons. Stato, sez. VI, 13.07.2017, n. 3462), ma anche dall’atto che ha innescato il procedimento di autotutela, essendo il provvedimento finale intervenuto dopo ben tre anni dalla comunicazione del relativo avviso di avvio procedimentale;
   - dalla dinamica della complessa vicenda di causa è dato rilevare che la reazione del Comune si registra soltanto dopo aver avuto cognizione, nel corso dell’anno 2010, stante il coinvolgimento degli uffici comunali da parte degli organi inquirenti (vedi nota dell’Ufficio tecnico prot. n. 5489 del 05.05.2014), della pendenza di un procedimento penale presso la Procura della Repubblica di Benevento in ordine al mutamento della destinazione d’uso dell’autorimessa;
   - dagli atti della Conferenza di Servizi, svoltasi tra il 15 marzo ed il 19.04.2012 dopo l’approvazione, con delibera di C.C. n. 4 del 23.01.2012, dello schema di accordo procedimentale, si evince come il Comune abbia optato per il mantenimento della destinazione d’uso a servizi impegnandosi al rilascio di un permesso in deroga (vedi art. 1 dello schema di accordo procedimentale fra il Comune, la società Te. e la ASL BN1), disponibilità confermata fino ad epoca immediatamente antecedente all’adozione del provvedimento auto-annullatorio con la determinazione n. 109 del 17.06.2013 di approvazione di detto schema;
   - la volontà espressa dall’Ente comunale di sanare le irregolarità urbanistiche della struttura al fine di subentrare nel rapporto contrattuale con l’ASL di Benevento manifesta l’implicito riconoscimento del notevole interesse pubblico al mantenimento di tale destinazione (a distretto sanitario) della struttura medesima e, al contempo, il disinteresse per la originaria destinazione a parcheggio pubblico;
   -
il Comune non ha dedicato alcun passaggio motivazionale alla possibilità, non implausibile, di annullare soltanto parzialmente i titoli edilizi rilasciati al fine di contemperare le contrapposte esigenze recando il minore sacrificio possibile alla posizione giuridica del privato (Cons. Stato, sez. IV, 29.02.2016, n. 816; sez. VI, 18.07.2017, n. 3524; sez. III, 28.07.2017, n. 3780).
15. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.
In tale sede dovrà appurarsi se si possa procedere a demolizione delle opere, per come richiesto dal Comune, senza pregiudizio alla parte dell’immobile eseguita in conformità, ovvero se (come si legge nelle deduzioni a firma del CTP allegato al fascicolo dell’appellante) ciò finirebbe per «compromettere gravemente la struttura portante della porzione di fabbricato non oggetto di demolizione, in quanto le vibrazioni causate dalle attrezzature per l’esecuzione di quanto previsto potrebbero formare delle lesioni irreversibili nella restante parte della struttura portante, le quali andrebbero a causare il collasso della struttura stessa».
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 3.‒ Parimenti infondata è la censura secondo cui il Comune non avrebbe valutato che la demolizione degli interventi reca pregiudizio anche alle opere conformi al titolo edilizio.
3.1.‒ Vale la pena ricordare che l’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione (ex plurimis: Consiglio di Stato, sez. VI 29.11.2017, n. 5585; sez. VI, 12.04.2013, n. 2001).
In tale sede dovrà appurarsi se si possa procedere a demolizione delle opere, per come richiesto dal Comune, senza pregiudizio alla parte dell’immobile eseguita in conformità, ovvero se (come si legge nelle deduzioni a firma del CTP allegato al fascicolo dell’appellante) ciò finirebbe per «compromettere gravemente la struttura portante della porzione di fabbricato non oggetto di demolizione, in quanto le vibrazioni causate dalle attrezzature per l’esecuzione di quanto previsto potrebbero formare delle lesioni irreversibili nella restante parte della struttura portante, le quali andrebbero a causare il collasso della struttura stessa» (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.09.2018 n. 5273 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento non costituisce una ragione idonea a determinare l’annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l’assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all’edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento «non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990).
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1.‒ Gli appellanti ripropongono la censura di violazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, in quanto non sarebbero stati messi in condizione di contraddire in ordine alla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione, anche con riguardo alla concreta eseguibilità del provvedimento demolitorio.
1.1.‒ Il motivo è infondato.
In primo luogo ‒come correttamente rilevato dal giudice di primo grado‒ gli interessanti sono stati resi edotti dell’avvio del procedimento finalizzato ad accertare e sanzionare l’abuso edilizio (cfr. con nota n. 21637 del 09.07.2013 in atti), senza presentare alcuna memoria di replica.
A ciò deve aggiungersi come, alla luce della consolidata giurisprudenza della Sezione, la violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento non costituisce una ragione idonea a determinare l’annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l’assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all’edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento «non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990).
Gli appellanti non hanno peraltro indicato quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe eventualmente introdotto nel procedimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.09.2018 n. 5271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.
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1.2.‒ Quanto all’argomento secondo cui il Comune -sempre a cagione della mancata interlocuzione procedimentale‒ non avrebbe valutato che la demolizione degli interventi reca pregiudizio anche alle opere conformi al titolo edilizio, vale la pena ricordare che l’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che «quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione (ex plurimis: Consiglio di Stato, sez. VI 29.11.2017, n. 5585; sez. VI, 12.04.2013, n. 2001) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 07.09.2018 n. 5271 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Le ordinanze di demolizione e, più in generale, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, per il loro carattere strettamente vincolato e per la loro attinenza alla tutela di interessi primari, di caratura costituzionale, riguardando la tutela del paesaggio (art. 9 Cost.) e, in generale, del territorio (art. 117, co. 3), non necessitano, per la loro legittima emanazione, dell’espletamento di un necessario contraddittorio procedimentale e di un’esaustiva motivazione.
Invero, “L'ordine di demolizione di un immobile edificato in assenza di titolo è atto vincolato al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto. Esso non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che impongono la rimozione dell'abuso, né richiede di prendere in considerazione gli interessi degli eventuali controinteressati. L'inerzia della pubblica amministrazione protratta nel tempo non ingenera un legittimo affidamento in capo al privato che abbia costruito senza titolo. Pertanto è legittima l'ingiunzione di demolizione intervenuta a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, anche se il titolare attuale dell'immobile non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”.
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8. Possono esaminarsi congiuntamente anche il terzo, quarto e quinto motivo di ricorso.
8.1 Anch’essi sono infondati, considerato che, per l’oramai pacifica giurisprudenza amministrativa, le ordinanze di demolizione e, più in generale, i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, per il loro carattere strettamente vincolato e per la loro attinenza alla tutela di interessi primari, di caratura costituzionale, riguardando la tutela del paesaggio (art. 9 Cost.) e, in generale, del territorio (art. 117, co. 3), non necessitano, per la loro legittima emanazione, dell’espletamento di un necessario contraddittorio procedimentale e di un’esaustiva motivazione (cfr., da ultimo, Adunanza Plenaria 17.10.2017, n. 9 “L'ordine di demolizione di un immobile edificato in assenza di titolo è atto vincolato al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto. Esso non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che impongono la rimozione dell'abuso, né richiede di prendere in considerazione gli interessi degli eventuali controinteressati. L'inerzia della pubblica amministrazione protratta nel tempo non ingenera un legittimo affidamento in capo al privato che abbia costruito senza titolo. Pertanto è legittima l'ingiunzione di demolizione intervenuta a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, anche se il titolare attuale dell'immobile non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino”) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 06.09.2018 n. 1245 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Obbligo di rimozione dei rifiuti - Responsabilità penale e obbligati in solido - Sussistenza di dolo o colpa - Soggetti destinatari dell'ordinanza sindacale - Annullamento - Artt. 192, 255 e 256 d.lgs. n. 152/2006.
L'obbligo di rimozione dei rifiuti sorge in capo al responsabile dell'abbandono come conseguenza della sua condotta e, nei confronti degli obbligati in solido, quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o, almeno, della colpa, mentre i soggetti destinatari dell'ordinanza sindacale sono obbligati in quanto tali e, in caso di inosservanza del provvedimento, ne subiscono, per ciò solo, le conseguenze se non hanno provveduto ad impugnare l'ordinanza sindacale per ottenerne l'annullamento o non forniscono al giudice penale dati significativi valutabili ai fini di una eventuale disapplicazione del provvedimento impositivo dell'obbligo.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abbandono dei rifiuti e ripristino dello stato dei luoghi - Procedura amministrativa - Operazioni finalizzate all'adempimento degli obblighi conseguenti alla violazione del divieto - Effetti dell'inutile decorso del termine - Recupero delle somme anticipate - Ordine di bonifica dei terreni contaminati - Reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale - Natura di reato permanente - Artt. 244 e 245 d.lgs. 152/2006.
L'abbandono dei rifiuti obbliga chiunque contravvenga al divieto a provvedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi. Obbligati in solido sono anche il proprietario ed i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali la violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa.
Le operazioni finalizzate all'adempimento degli obblighi conseguenti alla violazione del divieto, sono disposte dal sindaco con ordinanza, che contiene anche l'indicazione di un termine entro il quale provvedere. L'inutile decorso del termine determina l'esecuzione in danno dei soggetti obbligati ed il recupero delle somme anticipate.
Presupposto per l'emanazione del provvedimento è l'esistenza di un deposito incontrollato di rifiuti, a prescindere dalla loro potenzialità inquinante, poiché tale ulteriore dato fonda il diverso provvedimento consistente nell'ordine di bonifica dei terreni contaminati ex artt. 244 e 245 d.lgs. 152/2006
(Cons. Stato Sez. V, n. 5609, del 26/11/2013).
Infine il reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale di rimozione dei rifiuti ha natura di reato permanente, nel quale la scadenza del termine per l'adempimento non indica il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l'inizio della fase di consumazione che si protrae sino al momento dell'ottemperanza all'ordine ricevuto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.09.2018 n. 39430 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Disciplina antisismica e singoli interventi - Valutazione di un'opera con riferimento al suo complesso - Artt. 36, 44, 83, 93 e 95 d.P.R. 380/2001 - articolo 181, comma 1-quinquies, d.lgs. 42/2004.
Anche per quanto riguarda la disciplina antisismica, la valutazione di un'opera va effettuata con riferimento al suo complesso, non potendosi considerare separatamente i singoli interventi, anche successivi, non rilevando, peraltro, l'entità delle difformità realizzate né eventuali deroghe per particolari categorie di opere (anche se stabilite da disposizioni amministrative regionali).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Regime dei titoli abilitativi edilizi - Sanatoria degli abusi edilizi - Opere considerate unitariamente nel suo complesso - Sanatoria c.d. parziale - Sanatoria condizionata all'esecuzione di interventi - Sanatoria giurisprudenziale" o "impropria - Sanatoria postuma - Costruzioni in zone sismiche - Giurisprudenza.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale, l'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e considerare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva (Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo; Sez. 3, n. 16622 del 08/04/2015, Pmt in proc. Casciato; Sez. 3, n. 15442 del 26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto e altri; Sez. 3, n. 5618 del 17/11/2011 (dep.2012), Forte; Sez. 3 n. 34585 del 22/04/2010 Tulipani; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010, Marrella; Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci).
Ciò, é stato ripetutamente specificato anche con riferimento alla sanatoria degli abusi edilizi, escludendo l'ammissibilità di una «sanatoria parziale», dovendo l'atto abilitativo postumo contemplare gli interventi eseguiti nella loro integrità (cfr.. Sez. 3, n. 22256 del 28/04/2016, Rongo; Sez. III n. 19587, 18.05.2011; n. 45241, 05/12/2007; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003 (dep. 2004), P.M. in proc. Fammiano) ed escludendo, altresì, la sanatoria condizionata all'esecuzione di interventi volti a ricondurre il manufatto a conformità urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, Carratu' e altroe prec. conf.), nonché quella "giurisprudenziale" o "impropria" (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973 e prec. conf.) sempre sulla base della necessità di una valutazione unitaria delle opere a tal fine. In conclusione, ai fini dell'integrazione delle violazioni della disciplina prevista per le costruzioni in zone sismiche, non rileva la concreta entità delle opere realizzate in difformità rispetto a quelle assentite, poiché essa non prevede esenzioni o tetti minimi di difformità, ma trova applicazione in ogni caso di violazione (così Sez. 3, n. 36576 del 21/06/2011, Licastro e altro).

DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Opere edilizie soggette alla normativa antisismica - Assenza della prescritta autorizzazione antisismica - Ininfluenza delle disposizioni regionali - Pericolo la pubblica incolumità - Procedimento autonomo - Controllo preventivo della pubblica amministrazione.
Il reato previsto dall'art. 95 d.P.R. 380/2001 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di interventi ed escludendo espressamente la possibilità di individuazione di "opere minori" non soggette alla disciplina antisismica, poiché ciò costituisce aperta violazione del disposto dell'art. 83 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità sono soggette alla normativa antisismica (così, Sez. 3, n. 19185 del 14/01/2015, Garofano, Rv. 263376).
Da ciò consegue, che non può ammettersi la possibilità di interventi non conformi all'opera progettata, valutandone singolarmente la consistenza ai fini della necessità o meno del rilascio di un titolo abilitativo.

DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Assenza della prescritta autorizzazione antisismica - Natura di reato permanente - Momento della cessazione della permanenza.
La natura di reato permanente evidenzia, che la consumazione dello stesso si protrae sino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia con l'allegato progetto ovvero non termina l'intervento edilizio (Sez. 3, n. 29737 del 04/06/2013, Vella).
Il principio è stato successivamente ribadito (Sez. 3, n. 12235 del 11/02/2014, Petraia, Rv. 258738; Sez. 3, n. 2209 del 03/06/2015 (dep. 2016), Russo e altro, Rv. 266224; Sez. 3, n. 1145 del 08/10/2015 (dep.2016). Stabile, Rv. 266015; Sez. 3, n. 24574 del 23/06/2016 (dep. 2017), Sorbello)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.09.2018 n. 39428 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissione rumorose - Diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione - Risarcimento del danno non patrimoniale - Art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo - Artt. 844, 2043, 2059, 1226 c.c. - Giurisprudenza.
In tema di immissione rumorose, il danno alla salute non può ritenersi sussistente in re ipsa.
Tuttavia, l'assenza di un danno biologico documentato, non osta al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite, allorché siano stati lesi il diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo
(Cass. Ss.Uu. 2611/2007).

RISARCIMENTO DEL DANNO - Liquidazione del danno da immissioni ex art. 844 cod. civ. - Determinazione dell'ammontare del risarcimento - Criteri di determinazione del danno - Contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell'uso - Illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi e danno non patrimoniale risarcibile.
L'art. 844 cod. civ. impone, infatti, nei limiti della valutazione della normale tollerabilità e dell'eventuale contemperamento delle esigenze della proprietà con quelle della produzione, l'obbligo di sopportazione di quelle inevitabili propagazioni attuate nell'ambito delle norme generali e speciali che ne disciplinano l'esercizio.
Viceversa, l'accertamento del superamento della soglia di normale tollerabilità di cui all'articolo 844 cod. civ., comporta nella liquidazione del danno da immissioni, l'esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di interessi contrastanti e di priorità dell'uso, in quanto venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi, si rientra nello schema dell'azione generale di risarcimento danni di cui all'articolo 2043 del codice civile e, specificamente, per quanto concerne il danno non patrimoniale risarcibile, dell'articolo 2059 cod. civ.
(Cass. 5844/2007)
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 03.09.2018 n. 21554 - link a www.ambientediritto.it).

INCARICHI PROFESSIONALINiente pagamento al professionista se la spesa non era prevista in bilancio.
Il pagamento della prestazione professionale resa a favore di un Comune, ma in violazione delle regole contabili e in assenza di copertura, va preteso nei confronti del funzionario responsabile della conclusione del contratto nullo e non dell'ente.

Questa l'interpretazione puntuale dell'articolo 23 del Dl 66/1989 fornita ieri dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con l’ordinanza 03.09.2018 n. 21551.
La violazione contabile
L'assenza dell'iscrizione di una spesa nel bilancio di previsione pone la responsabilità, della mancata erogazione del compenso, sul funzionario che ha concluso il contratto con il professionista. E non ricade alcuna responsabilità contrattuale sul Comune. Neanche, come nel caso specifico, se la spesa per l'incarico professionale prevedeva l'intera copertura attraverso finanziamenti europei, poi mai di fatto erogati.
Infatti, la violazione contabile di autorizzare una spesa non preventivata in bilancio è un'insanabile nullità che esclude la creazione di qualsiasi vincolo contrattuale tra ente locale e professionista. Viene ribadita in questa occasione la linea delle sezioni Unite espressa nel 2014.
La clausola finanziaria
La clausola finanziaria che sottopone il pagamento della prestazione all’effettiva erogazione di finanziamenti non vanifica la necessità della copertura finanziaria attraverso la corretta previsione di bilancio. Proprio ciò che difettava, determinando la nullità del contratto tra professionista e Comune. Il contratto di conferimento di incarico in base a delibera senza iscrizione contabile lascia aperta solo la strada di far valere la responsabilità del funzionario.
Infatti, dalla violazione contabile non si determina una carenza di legittimazione passiva dell’ente locale chiamato in giudizio, ma la nullità del contratto stesso. La Corte ha anche confermato la legittimità della compensazione delle spese, operata dal giudice di merito e contestata dal Comune. Infatti, il comportamento dell’amministrazione aveva indotto il professionista a eseguire la prestazione «pur consapevole» della nullità dovuta alla mancata iscrizione in bilancio della spesa (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.09.2018).

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MASSIMA
Il motivo non è fondato.
La corte territoriale ha ampiamente motivato su tale aspetto, ritenendo che l'inserimento nel contratto d'opera professionale di una clausola di c.d "copertura finanziaria", in base alla quale l'ente pubblico territoriale subordinava il pagamento del compenso al professionista alla concessione di un finanziamento non consente di derogare alle procedure di spesa di cui all'art. 23, comma III e IV, D.Lgs 66/1989, le quali non possono essere differite al momento dell'erogazione del finanziamento. Ne consegue che è irrilevante il contenuto del decreto del Coordinatore Generale dell'Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Sardegna n. 1394 del 19.12.1996.
Coerentemente con la giurisprudenza di legittimità, confermata dalla sentenza n. 26657/2014 resa da questa Corte a Sezioni Unite, l'art. 23, commi 3 e 4, D.Lgs. 66/1989 rende estraneo l'ente pubblico all'attività posta in essere dal suo funzionario o amministratore senza le modalità procedimentali previste.
In base a tale norma, il divieto per i comuni di effettuare spese in assenza di impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio di previsione trova applicazione anche qualora la spesa dell'ente territoriale sia interamente finanziata da altro ente, dovendo anche in tal caso avere luogo la verifica della copertura della spesa nel bilancio del comune che assume l'impegno di spesa.

Non si sottrae alla richiamata disciplina il contratto d'opera professionale con il quale un ente pubblico territoriale abbia affidato la progettazione di un'opera pubblica, subordinando con apposita clausola il pagamento del compenso al professionista alla concessione di un finanziamento per la realizzazione dell'opera da progettarsi.
In particolare la previsione della clausola c.d. di copertura finanziaria non consente di rinviare all'ottenimento del finanziamento l'osservanza delle modalità procedimentali, inderogabilmente dettate dalla norma citata, con la conseguenza che, in difetto, il rapporto obbligatorio non è riferibile all'ente, intercorrendo, ai fini della controprestazione, tra il privato e l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno.
Il ricorso va pertanto rigettato.

APPALTISe la gara è in lotti deve essere garantita la partecipazione delle Pmi.
La suddivisione degli appalti in lotti è finalizzata a garantire l’accesso al mercato degli appalti pubblici alle piccole e medie imprese, pertanto è illegittimo il bando di gara se, immotivatamente, consente la partecipazione alla competizione solo ad imprese di grandi dimensioni.

Lo stabilisce il TAR Campania–Napoli, Sez. V, con la sentenza 03.09.2018 n. 5357.
Il caso
Il casus belli si riferisce ad una gara di servizi. Nella specie l’affidamento aveva ad oggetto la gestione di servizi di pulizia e sanificazione ambientale dei locali della stazione appaltante. La società ricorrente impugnava la legge di gara denunciando la violazione degli articoli 51 ed 83 del Codice dei contratti pubblici.
In particolare il bando di gara richiedeva in capo ai partecipanti il possesso di requisiti di accesso irragionevoli e sproporzionati rispetto alle prestazioni da eseguire e tali da precludere alle imprese di piccole e di medie dimensioni, sia singolarmente che in forma associata, la possibilità di partecipazione alla competizione concorrenziale, in palese violazione del principio di massima partecipazione alle gare pubbliche.
Il Giudice amministrativo accogliendo il ricorso rilevava la violazione delle norme citate, riscontrando che il bando di gara consentiva la partecipazione alla competizione solo ad imprese di grandi dimensioni senza che la stessa stazione appaltante avesse esposto in motivazione le ragioni di interesse pubblico, da ritenersi prevalenti rispetto a quella del favor partecipationis, che avevano determinato la scelta di dividere l’appalto lotti prevedendo tuttavia in capo alle imprese partecipanti requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa non compatibili con le esigenze partecipative delle imprese di più ridotte dimensioni.
La decisione
Il Tar Campania stabilisce che negli appalti pubblici deve garantirsi la partecipazione delle imprese di più ridotte dimensioni secondo le regole e gli obiettivi del legislatore europeo in favore delle Pmi, recepite anche dal Dlgs n. 50 del 2016. Il Giudice territoriale ribadisce che il nuovo Codice degli appalti reca disposizioni destinate a salvaguardare in modo concreto ed efficace «l’esigenza di tutela della libertà di concorrenza e di non discriminazione delle imprese».
Più specificamente, a garantire da un lato l’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile per la salvaguardia dell’interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, e per altro verso l’interesse stesso dell’Amministrazione ad acquisire, in virtù di una consistente partecipazione delle imprese alle procedure ad evidenza pubblica, l’offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica.
A tale scopo è stato concepito lo strumento della suddivisione in lotti, oggi previsto dall’articolo 51 del Codice che in combinato con l’articolo 83, comma 2, la quale norma prevede che i requisiti di idoneità professionale e le capacità economica e finanziaria e tecniche-professionali devono essere attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, costituisce uno istituto finalizzato a garantire l’accesso della Pmi al mercato degli appalti pubblici.
Istituto a cui l’Amministrazione può derogare stabilendo requisiti di partecipazione più gravosi, purché, a tal fine, esterni le ragioni della scelta, attraverso una decisione adeguatamente motivata, espressione di scelta discrezionale, sindacabile soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità (in questo senso anche Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.09.2014, n. 4669; Sez. V, 16.03.2016, n. 1081) (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.09.2018).
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MASSIMA
4. Tanto premesso in fatto, nel merito, il ricorso è fondato.
4.1 Il Collegio, intende richiamare consolidati principi giurisprudenziali, in forza dei quali
gli appalti pubblici debbono risultare coerenti all’esigenza di garantire la partecipazione delle imprese di più ridotte dimensioni secondo le regole e gli obiettivi del legislatore europeo in favore delle PMI, recepite anche dal d.lgs. n. 50 del 2016, che all’art. 51 prevede: “al fine di favorire l’accesso alle microimprese, piccole e medie imprese, le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti funzionali……. in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore dei lavori, servizi e forniture”.
Il ricorso allo strumento della suddivisione in lotti, effettuabile su base quantitativa o su base qualitativa, in conformità alle varie categorie e specializzazioni esistenti, risulta peraltro suscettibile di deroga, purché, a tal fine, la S.A. esterni le ragioni della scelta, attraverso una decisione adeguatamente motivata, espressione di scelta discrezionale, sindacabile soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.09.2014, n. 4669; Sez. V, 16.03.2016, n. 1081).
4.2 Coerentemente con gli obiettivi di garantire la più ampia concorrenza, in particolare, in favore delle imprese di più ridotte dimensioni, il successivo art. 83, comma 2, del medesimo decreto, del pari richiamato dalla ricorrente, prevede che
i requisiti di idoneità professionale e le capacità economica e finanziaria e tecniche–professionali sono attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto, “tenendo presente l’interesse pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”.
4.3 Come rimarcato da una recente pronuncia del TAR Salerno (Sez. I, 12.07.2018, n. 1071), relativa ad una vicenda del tutto similare a quella oggetto dell’odierno ricorso, «
Le previsioni in argomento costituiscono espressione del nuovo orientamento normativo, di origine, tra l’altro, comunitaria, volto a salvaguardare in modo concreto ed efficace “l’esigenza di tutela della libertà di concorrenza e di non discriminazione delle imprese”. Più specificamente, la normativa vigente costituisce e, pertanto, deve essere correttamente intesa come espressione della volontà del legislatore di perseguire non più soltanto l’esigenza del controllo della spesa pubblica per il migliore utilizzo del danaro della collettività (c.d. “concezione contabilistica”, tipica del R.D. 23.05.1924, n. 827), bensì anche l’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile per la salvaguardia dell’interesse comunitario alla libera circolazione dei prodotti e dei servizi, nell’interesse stesso dell’amministrazione ad acquisire, in virtù di una consistente partecipazione delle imprese alle procedure ad evidenza pubblica, l’offerta più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica».
4.4 Nel caso in esame, gli atti di gara appaiono violativi delle norme citate in quanto consentono la partecipazione alla competizione solo ad imprese di grandi dimensioni che hanno una organizzazione di mezzi e di persone tale da poter espletare un servizio su vastissime zone di territorio, in carenza dell’indicazione delle ragioni tecnico-giuridiche funzionali alla scelta operata.
4.5 Peraltro, il valore economico dei singoli lotti, in ragione del ridotto numero degli stessi, è tanto elevato che ad esso inevitabilmente corrispondono elevati requisiti economici di partecipazione normalmente non posseduti da imprese di medie dimensioni.
Con riguardo a tale ultimo aspetto,
la stazione appaltante non ha adeguatamente motivato sulle ragioni di interesse pubblico, da ritenersi prevalenti rispetto a quella del favor partecipationis, che hanno determinato la scelta di dividere l’appalto in due macrolotti e da cui è dipesa la previsione in capo alle imprese partecipanti di requisiti di capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa non compatibili con le esigenze partecipative delle imprese di più ridotte dimensioni.
Né in senso contrario possono farsi valere le argomentazioni spese dalla difesa dell’Amministrazione resistente per dare contezza delle ragioni giustificatrici della scelta censurata, non essendo consentita l’integrazione postuma della motivazione in giudizio.
5. In conclusione, dalla fondatezza del primo motivo di ricorso, con assorbimento delle ulteriori censure, discende l’accoglimento del ricorso.

PATRIMONIOConcessioni demaniali senza gara.
Un ente locale può concedere un bene appartenente al proprio demanio a un soggetto privato in deroga ai principi comunitari, se tale decisione consente di salvaguardare superiori interessi pubblici in campo ambientale o storico-culturale.

Il Consiglio di Stato, Sez. V, nella sentenza 03.09.2018 n. 5157 ha ritenuto legittimo il rinnovo della concessione per un ristorante in un immobile storico di particolare importanza, in deroga ai principi che in linea generale impongono la procedura ad evidenza pubblica per l'assegnazione di beni appartenenti al demanio.
Il titolare dell'attività ristorativa aveva impugnato una deliberazione del comune proprietario dell'immobile che annullava il rinnovo, fondata su un parere dell'Autorità nazionale anticorruzione (richiesto dalla stessa amministrazione), che evidenziava l'obbligo di mettere a gara i locali di quell'immobile. Il parere dell'Anac ribaltava la linea originariamente adottata dal comune, il quale aveva sostenuto le scelte di rinnovo fondandole sulle specificità socio-culturali e storiche dell'immobile e delle attività in esso sviluppate, caratterizzanti il particolare ambito.
Il Consiglio di stato, invece, fa rilevare come la scelta originaria dell'amministrazione, correlata a specifici indirizzi, riconoscesse la sussistenza di motivi imperativi per derogare all'obbligo di gara, trattandosi di un locale storico che aveva contribuito in modo rilevante a costruire l'identità culturale e il prestigio dell'immobile e dell'area in cui esso è inserito.
La sentenza fa rilevare come l'amministrazione sia tenuta a valutare i singoli casi per riscontrare l'effettiva sussistenza o meno, per il locale interessato, di esigenze imperative di interesse generale collegate alla necessità di conservare, per ragioni storiche, culturali e identitarie, la continuità gestionale degli esercizi commerciali (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).
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MASSIMA
16. Gli appelli non meritano accoglimento.
17. I provvedimenti con i quali il Comune di Milano ha deciso di non rinnovare alle odierne appellate le concessioni demaniali (e ha conseguentemente indetto la gara pubblica per l’assegnazione delle stesse) risultano viziati da eccesso di potere, in particolare sotto i profili di difetto di istruttoria, carenza di motivazione e disparità di trattamento.
I provvedimenti dirigenziali di diniego si limitano, infatti, a recepire il parere ANAC, senza compiere alcuna verifica concreta sulla sussistenza, nel caso di specie, delle caratteristiche qualificanti per riconoscere il valore storico, culturale e identitario dei locali in questione.
18. Va premesso sul piano generale che
il principio di evidenza pubblica è suscettibile di eccezionale deroga (come riconosce anche l’ANAC nel parere reso in merito alla vicenda oggetto del giudizio) in presenza di esigenze imperative connesse alla tutela di un interesse generale: queste figure di preminente interesse generale, di matrice comunitaria (e ora trasposte al nel nuovo Codice degli appalti pubblici del 2016) consentono, per un’esigenza stimata in sé superiore, di derogare al principio della gara perché si riferiscono ad interessi prioritari che prevalgono sulle esigenze stesse che sono a base della garanzia di concorrenza.
È pacifico (e non è contestato fra le parti del presente giudizio, né disconosciuto dal più volte richiamato parere dell’ANAC) che fra le ipotesi di deroga possa rientrare anche la salvaguardia del patrimonio culturale e in genere dell’interesse storico-culturale (cfr. per tutti il Considerando 40 e l’art. 4 della direttiva 2006/123/CE e conseguente art. 8 l. 26.03.2010, n. 59), nel quale per sua natura rientra il profilo storico-identitario, quand’anche su supporto commerciale: sia come valore culturale in sé, dunque indipendentemente dalla considerazione economica; sia anche come qualificatore e attrattore turistico del contesto, e dunque come apprezzabile elemento di valorizzazione dell’immateriale economico dell’intero ambiente circostante: nel caso, dell’intera galleria Vittorio Emanuele II, essendo – a voler considerare i soli aspetti di mercato - patente il deprezzamento che si irradierebbe anche sui restanti locali a causa del venir meno di siffatti storici attrattori.
Nel caso di specie, viene in particolare in rilievo la tutela della tradizione storico-culturale di un città, la quale si realizza anche attraverso la salvaguardia e la conservazione dei c.d. locali storici, ovvero di quegli esercizi commerciali che, oltre a qualificare spesso in maniera determinante il tessuto urbano del centro cittadino, costituiscono un importante elemento di memoria e connotazione storica ed una preziosa testimonianza di tradizione e cultura.
19. In questo contesto, il provvedimento di diniego, anziché richiamare genericamente il principio (di per sé pacifico) secondo cui anche per il rilascio delle concessioni demaniali vi è l’obbligo di gara che esclude la possibilità di rinnovo diretto, avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le quali per i due locali in questione (“Il ga. ro.” e “Il sa.”) non si sono ritenute presenti quelle peculiarità che hanno, invece, consentito al Comune di Milano di rinnovare la concessione senza gara la concessioni ad altri esercizi commerciali presenti all’interno della Galleria Vittorio Emanuele II.
Che il richiamato parere ANAC non sia incondizionatamente ostativo al rinnovo delle concessioni senza gara, trova, infatti, conferma nella circostanza che, successivamente a detto parere, vi è stato da parte del Comune di Milano il rinnovo della concessione a favore della Da.Ca. s.p.a. per il locale denominato “Il Ca.”, nonché (sia pure sulla base della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia n. 1271 del 2017, non impugnata dal Comune, né dall’ANAC) a favore del ristorante “Sa.”, a sua volta riconosciuto locale storico.
In tale situazione, allora, la circostanza che nel caso dei locali gestiti dalle odierne appellate, il Comune abbia escluso la possibilità di rinnovo, senza procedere ad alcuna valutazione sulle concrete peculiarità dell’esercizio commerciale (al fine, appunto, di verificare la sussistenza dei requisiti per qualificarlo in termini di negozio avente valore storico-identitario) evidenzia la sussistenza dei già richiamati profili di eccesso di potere per difetto di motivazione, difetto di istruttoria e disparità di trattamento.
20. La portata del difetto motivazione è, peraltro, amplificata dal fatto che le impugnate determinazioni dirigenziali si inseriscono in una cornice caratterizzata dalla previa adozione, da parte della Giunta del Comune di Milano, di “linee indirizzo” (cfr. la già citata deliberazione n. 2000 del 2015) favorevoli al rinnovo delle concessioni a favore dei precedenti gestori: in esse, la Giunta, riconosceva la sussistenza di motivi imperativi per derogare all’obbligo di gara, trattandosi di locali storici che hanno contribuito in modo rilevante a costruire l’identità culturale ed il prestigio della galleria, la cui scomparsa o sostituzione con altre insegne intaccherebbe sensibilmente l’immagine e l’identità storica della galleria.
Tali linee di indirizzo sono state disattese dal provvedimento dirigenziale impugnato senza alcuna specifica motivazione, né adeguato approfondimento istruttorio sulle reali caratteristiche (dal punto di vista storico e identitario) dei locali in questione. L’unica base motivazionale –certamente insufficiente– è rappresentata dal richiamato al parere reso dall’ANAC, il quale, però, ha sua volta, in realtà si è limitato a ricostruire il quadro normativo dell’evidenza pubblica e a ricordare l’eccezionalità delle ipotesi che consentono di derogare all’obbligo di gara, senza, tuttavia, compiere alcuna concreta e specifica valutazione (del resto esulante la stessa competenza dell’ANAC, perché implicante compiti di amministrazione attiva che nella specie spettano al Comune) circa la l’effettiva sussistenza, nel caso concreto, per ciascuno dei locai interessati, di esigenze imperative di interesse generale collegate alla necessità di conservare, per ragioni storiche, culturali e identitarie, la continuità gestionale degli esercizi commerciali.
21. Sotto questo profilo, quindi, meritano conferma le sentenze appellate, che hanno annullato per difetto di motivazione e di istruttoria, il diniego di rinnovo delle concessione (e i successivi atti di indizione e svolgimento della gara per l’assegnazione delle nuovo concessioni).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: E' legittima, se ben motivata, la soppressione dell'avvocatura comunale.
È legittima la delibera con cui la giunta comunale sopprime l'avvocatura civica e affida all'esterno la difesa dell'ente, in quanto il potere di organizzazione contempla ampi margini di apprezzamento discrezionale, riservato al potere politico, che si sostiene nella misura in cui risulta sufficientemente motivato ed è frutto di una complessiva riorganizzazione degli uffici.
La determinazione delle linee fondamentali di organizzazione degli uffici pubblici (con l’individuazione di quelli di maggiore rilevanza, dei modi di conferimento della relativa titolarità e di determinazione delle dotazioni organiche complessive) è rimessa –sulla base di “principi generali” fissati dalla legge– a ciascuna amministrazione pubblica, che vi provvedere mediante “atti organizzativi” (cfr. artt. 2 e 5 d.lgs. n. 165/2001), complessivamente ispirati a criteri di funzionalità, flessibilità, trasparenza ed imparzialità, idonei a tradurre e compendiare, in prospettiva programmatica, i principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità (art. 97 Cost.) e a perseguire la complessiva efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990).
Sebbene non sia revocabile in dubbio che siffatti “atti organizzativi” rientrino pienamente nel novero del provvedimenti amministrativi e siano, in quanto tali, soggetti al relativo statuto (che ne impone la complessiva verifica di legittimità, la soggezione alle norme sulla competenza, il rispetto dei canoni di ragionevolezza, la garanzia di imparzialità e ne legittima il corrispondente sindacato giurisdizionale da parte del giudice amministrativo, anche in punto di adeguatezza delle premesse istruttorie e di idoneità giustificativa sul piano motivazionale, è vero, tuttavia, che gli ampi margini della scolpita logica di auto organizzazione postulano ed impongono, per tradizionale e consolidato intendimento, il riconoscimento di una lata discrezionalità programmatica.
La conclusione discende, del resto, dal rilievo che –pur essendo anche l’attività amministrativa organizzativa assoggettata al principio di legalità (art. 97 Cost., nella parte in cui postula una base legale ad ogni attribuzione competenziale)– i relativi procedimenti (di matrice caratteristicamente infrastrutturale o interna o programmatoria) non sono destinati ad incidere, se non in via mediata, sulle posizioni soggettive dei consociati, in quanto destinatari dell’azione amministrativa: a livello macroorganizzativo, l’amministrazione non entra in relazione diretta con i titolari di situazioni giuridiche soggettive, ma crea soltanto presupposti alla instaurazione di rapporti giuridicamente rilevanti con tali soggetti. Ne risulta corrispondentemente attutito (se pur non eliso, non trattandosi propriamente di autonomia) il profilo garantistico del momento giustificativo, che legittima –come tale– un sindacato limitato al travisamento del fatto o al manifesto eccesso di potere.
Si dovrà cioè osservare che sussiste, nella adozione dei provvedimenti in questione, una discrezionalità che, per un verso –non strutturandosi in termini di confronto comparativo di posizioni e di interessi pubblici e privati, nella logica della determinazione conclusiva dei procedimenti ad efficacia esterna– ridimensiona, pur senza elidere, l’intensità dell’onere motivazionale e, per altro e consequenziale verso, limita il sindacato giudiziale alle ipotesi di conclamata ed evidente abnormità.
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A livello di enti locali, gli esposti principi hanno trovato conferma positiva a partire dalla legge n. 127 del 1997 che, nel modificare l’art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha cambiato la competenza ad adottare il regolamento degli uffici e dei servizi, attribuendolo (unico, non a caso, fra tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti locali è vicenda intrinsecamente collegata con il potere operativo.
In siffatto contesto, anche l'Avvocatura Comunale, malgrado le consistenti guarentigie rivenienti dalla legge professionale in relazione alla qualificata attività dispiegata, rappresenta a tutti gli effetti un ufficio comunale e, come tale, è soggetto al generale potere di auto-regolamentazione dell’ente.
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Alla luce delle esposte premesse deve ritenersi che la sentenza impugnata –nella parte in cui ha imputato alle contestate scelte organizzative di non aver idoneamente vagliato la possibilità di non rinunciare “completamente” alla difesa interna dell’Ente– ha obiettivamente travalicato i limiti di un sindacato estrinseco di legalità, di fatto sovrapponendosi ad una opzione organizzativa di per sé né arbitraria, né irragionevole, né sproporzionata, ove confrontata con i canoni di funzionalità e flessibilità (art. 2 d.lgs. n. 165/2001 cit.).
Del resto, la scansione degli atti, così come sintetizzata nella narrativa in fatto che precede, dimostra che, nel caso di specie, la decisione di sopprimere l’ufficio legale –lungi dal rappresentare il frutto di una decisione improvvisata, poco meditata o superficiale– ha costituito l’esito della progressiva maturazione, elaborata attraverso un complesso iter istruttorio, di riorganizzare e rivisitare, per esigenze finanziarie e di “semplificazione” organizzativa, la macro-struttura dell’ente.
Né risulta pretermessa la stima dei prevedibili impatti economici rinvenienti dalla necessità di affidare all’esterno gli incarichi legali: stima operata nel quadro di un complessivo bilanciamento di costi e benefici, che di per sé –in difetto di emergenti incongruenze o contraddizioni– non può essere doppiato e superato da un difforme apprezzamento giudiziale.
Del resto, dovrà pur notarsi –di là da ogni altro rilievo– che la soppressione dell’Avvocatura civica non risulta operata ut sic, ma costituisce il frutto di un più comprensivo “accorpamento” degli uffici (con significativa riduzione dei servizi preesistenti) e di una reciproca “internalizzazione” della (deficitaria) gestione dell’accertamento tributario e della relativa riscossione. Le cui complessive motivazioni di fondo emergono con sufficiente chiarezza dagli atti dei relativi procedimenti decisionali.
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... per la riforma della sentenza breve del TAR Calabria–Catanzaro, Sez. II n. 99/2017, resa tra le parti;
...
1.- L’appello è fondato e merita di essere accolto.
2.- Con due ragioni di gravame, che possono essere esaminate congiuntamente, il Comune appellante lamenta –denunziando error in judicando, eccesso di potere per presupposto erroneo, travisamento, manifesta illogicità ed irragionevolezza, sviamento, violazione dell’art. 97 Cost. e degli artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 165/2001, nonché dell’art. 89, comma 1 del d.lgs. n. 267/2000, oltre a eccesso di potere per violazione della discrezionalità amministrativa– che la sentenza impugnata abbia giustificato la decisione assunta sul non corretto presupposto che le scelte organizzative dell’Ente, con le quali –nei sensi della narrativa in fatto che precede– si era decisa la riorganizzazione degli uffici e dei servizi e la soppressione dell’Avvocatura civica– non fossero state idoneamente motivate (sotto il duplice e concorrente profilo della preventiva valutazione dell’impatto economico rinveniente dalla necessità di affidare il contenzioso a legali esterni e della possibilità di non escludere “completamente” una difesa interna dell’Ente).
Assume, in proposito: a) che –per un verso ed in termini generali– le scelte di ordine macroorganizzativo non richiedono, per natura, motivazione puntuale e specifica (il cui pregnante sindacato si risolverebbe, come occorso nella specie, in un giudizio sovrappositorio del giudice su scelte ampiamente riservate alla sfera discrezionale dell’amministrazione; b) che –per altro verso ed in particolare– le decisioni in contestazione erano state il frutto di ampio e diffuso apprezzamento istruttorio, dal quale era lecito indurre con puntualità le ragioni giustificative.
3.- Il motivo è fondato.
Importa premettere che la determinazione delle linee fondamentali di organizzazione degli uffici pubblici (con l’individuazione di quelli di maggiore rilevanza, dei modi di conferimento della relativa titolarità e di determinazione delle dotazioni organiche complessive) è rimessa –sulla base di “principi generali” fissati dalla legge– a ciascuna amministrazione pubblica, che vi provvedere mediante “atti organizzativi” (cfr. artt. 2 e 5 d.lgs. n. 165/2001), complessivamente ispirati a criteri di funzionalità, flessibilità, trasparenza ed imparzialità, idonei a tradurre e compendiare, in prospettiva programmatica, i principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità (art. 97 Cost.) e a perseguire la complessiva efficacia ed efficienza dell’azione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990).
Sebbene non sia revocabile in dubbio che siffatti “atti organizzativi” rientrino pienamente nel novero del provvedimenti amministrativi e siano, in quanto tali, soggetti al relativo statuto (che ne impone la complessiva verifica di legittimità, la soggezione alle norme sulla competenza, il rispetto dei canoni di ragionevolezza, la garanzia di imparzialità e ne legittima il corrispondente sindacato giurisdizionale da parte del giudice amministrativo, anche in punto di adeguatezza delle premesse istruttorie e di idoneità giustificativa sul piano motivazionale: cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.06.2009, n. 3728), è vero, tuttavia, che gli ampi margini della scolpita logica di auto organizzazione postulano ed impongono, per tradizionale e consolidato intendimento, il riconoscimento di una lata discrezionalità programmatica.
La conclusione discende, del resto, dal rilievo che –pur essendo anche l’attività amministrativa organizzativa assoggettata al principio di legalità (art. 97 Cost., nella parte in cui postula una base legale ad ogni attribuzione competenziale)– i relativi procedimenti (di matrice caratteristicamente infrastrutturale o interna o programmatoria) non sono destinati ad incidere, se non in via mediata, sulle posizioni soggettive dei consociati, in quanto destinatari dell’azione amministrativa: a livello macroorganizzativo, l’amministrazione non entra in relazione diretta con i titolari di situazioni giuridiche soggettive, ma crea soltanto presupposti alla instaurazione di rapporti giuridicamente rilevanti con tali soggetti. Ne risulta corrispondentemente attutito (se pur non eliso, non trattandosi propriamente di autonomia) il profilo garantistico del momento giustificativo, che legittima –come tale– un sindacato limitato al travisamento del fatto o al manifesto eccesso di potere.
Si dovrà cioè osservare che sussiste, nella adozione dei provvedimenti in questione, una discrezionalità che, per un verso –non strutturandosi in termini di confronto comparativo di posizioni e di interessi pubblici e privati, nella logica della determinazione conclusiva dei procedimenti ad efficacia esterna– ridimensiona, pur senza elidere, l’intensità dell’onere motivazionale e, per altro e consequenziale verso, limita il sindacato giudiziale alle ipotesi di conclamata ed evidente abnormità.
A livello di enti locali, gli esposti principi hanno trovato conferma positiva a partire dalla legge n. 127 del 1997 che, nel modificare l’art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha cambiato la competenza ad adottare il regolamento degli uffici e dei servizi, attribuendolo (unico, non a caso, fra tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti locali è vicenda intrinsecamente collegata con il potere operativo.
In siffatto contesto, anche l'Avvocatura Comunale, malgrado le consistenti guarentigie rivenienti dalla legge professionale in relazione alla qualificata attività dispiegata, rappresenta a tutti gli effetti un ufficio comunale e, come tale, è soggetto al generale potere di auto-regolamentazione dell’ente.
Alla luce delle esposte premesse deve ritenersi che la sentenza impugnata –nella parte in cui ha imputato alle contestate scelte organizzative di non aver idoneamente vagliato la possibilità di non rinunciare “completamente” alla difesa interna dell’Ente– ha obiettivamente travalicato i limiti di un sindacato estrinseco di legalità, di fatto sovrapponendosi ad una opzione organizzativa di per sé né arbitraria, né irragionevole, né sproporzionata, ove confrontata con i canoni di funzionalità e flessibilità (art. 2 d.lgs. n. 165/2001 cit.).
Del resto, la scansione degli atti, così come sintetizzata nella narrativa in fatto che precede, dimostra che, nel caso di specie, la decisione di sopprimere l’ufficio legale –lungi dal rappresentare il frutto di una decisione improvvisata, poco meditata o superficiale– ha costituito l’esito della progressiva maturazione, elaborata attraverso un complesso iter istruttorio, di riorganizzare e rivisitare, per esigenze finanziarie e di “semplificazione” organizzativa, la macro-struttura dell’ente.
Né –contrariamente all’assunto del primo giudice– risulta pretermessa la stima dei prevedibili impatti economici rinvenienti dalla necessità di affidare all’esterno gli incarichi legali: stima operata nel quadro di un complessivo bilanciamento di costi e benefici, che di per sé –in difetto di emergenti incongruenze o contraddizioni– non può essere doppiato e superato da un difforme apprezzamento giudiziale.
Del resto, dovrà pur notarsi –di là da ogni altro rilievo– che la soppressione dell’Avvocatura civica non risulta operata ut sic, ma costituisce il frutto di un più comprensivo “accorpamento” degli uffici (con significativa riduzione dei servizi preesistenti) e di una reciproca “internalizzazione” della (deficitaria) gestione dell’accertamento tributario e della relativa riscossione. Le cui complessive motivazioni di fondo emergono con sufficiente chiarezza dagli atti dei relativi procedimenti decisionali.
4.- Le esposte considerazioni sono sufficienti ai fini dell’accoglimento dell’appello, con conseguente riforma della statuizione impugnata e reiezione del ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.09.2018 n. 5143 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Non è possibile il riconoscimento del debito fuori bilancio -per prestazione professionale resa- laddove risulta la mancanza dei relativi presupposti e cioè:
   a) il contratto non era stato stipulato nelle forme di rito, trattandosi di incarico conferito sulla sola base di delibera di Giunta comunale;
   b) in ogni caso, il pagamento dell’eventuale corrispettivo era stato subordinato al conseguimento di un finanziamento, che non era stato mai riconosciuto, con il conseguente venir meno della relativa condizione.
Invero, i contratti con la Pubblica amministrazione devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta e -salva la deroga prevista dall'art. 17 r.d. 18.11.1923 n. 2440 per i contratti con le ditte commerciali, che possono essere conclusi a distanza, a mezzo di corrispondenza “secondo l'uso del commercio”- con la sottoscrizione, ad opera dell'organo rappresentativo esterno dell'ente, in quanto munito dei poteri necessari per vincolare l'amministrazione, e della controparte, di un unico documento, in cui siano specificamente indicate le clausole disciplinanti il rapporto.
Tali regole formali sono funzionali all'attuazione del principio costituzionale di buona amministrazione in quanto agevolano l'esercizio dei controlli e rispondono all'esigenza di tutela delle risorse degli enti pubblici contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza l'adeguata copertura e senza la valutazione dell'entità delle obbligazioni da adempiere (ciò che vale ad escludere l’idoneità di una mera delibera comunale, deputata ad altra funzione e priva del relativo impegno di spesa, nonché dell'indicazione dei mezzi per far fronte al compenso del professionista).
Sotto distinto e concorrente profilo, in una convenzione tra un ente pubblico territoriale e un professionista, al quale il primo abbia affidato la progettazione di un'opera pubblica, la clausola con cui il pagamento del compenso per la prestazione resa è condizionato alla concessione di un finanziamento per la realizzazione di detta opera deve qualificarsi come “condizione potestativa mista”, il cui mancato avveramento preclude l'azionabilità del credito.
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1.- Con atto di appello notificato nei tempi e nelle forme di rito, Vi.Vi., come in atti rappresentato e difeso, impugnava la sentenza n. 130 del 06.02.2017, distinta in epigrafe, con la quale il TAR per la Basilicata aveva respinto il proprio ricorso inteso a censurare, nelle forme di cui agli artt. 31 e 116 c.p.a., il silenzio serbato dal Comune di Baragiano in ordine alla propria istanza di riconoscimento, mercé auspicata delibera consiliare di approvazione del relativo debito fuori bilancio, del credito pretesamente maturato in relazione alla attività professionale dispiegata a favore dell’Ente.
...
3.- Osserva la Sezione che l’assunto secondo cui sarebbe precluso –nella “azione avverso il silenzio”– l’accertamento, in concreto, della sostanziale fondatezza della pretesa, trova puntuale e positiva smentita, in termini generali, nell’art. 31, comma 3, del codice del processo amministrativo, il quale –al termine di un diuturno itinerario concettuale maturato sul piano non meno pretorio che normativo, sul quale non mette conto indugiare– ha, da ultimo, riconosciuto (nella più complessiva prospettiva della tendenziale trasformazione del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto) il potere del giudice di “pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio”, sia pure nei soli casi in cui “si tratta di attività vincolata”, ovvero risulti comunque e a vario titolo preclusi all’Amministrazione “ulteriori margini di esercizio della discrezionalità” e non siano necessari “adempimenti istruttori”.
3.1.- Ciò posto, nel caso di specie non è revocabile in dubbio che la pretesa azionata –che assume la consistenza di una posta creditoria rinveniente dall’espletamento, a titolo negoziale, di attività professionale in favore dell’Amministrazione– è suscettibile, per sua natura, di essere apprezzata, come ha fatto il primo giudice, nei termini della sua concreta fondatezza, trattandosi di situazione di diritto soggettivo che, di per sé, non ammette, dal lato passivo, spazi di discrezionalità a latere debitoris (il che va puntualizzato non senza soggiungere che le possibili implicazioni in punto di giurisdizione sono, nella specie, precluse dal giudicato interno, correlato alla mancata impugnazione del capo della sentenza che ne ha argomentato la sussistenza: cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 17.11.2015, n. 5272).
3.2.- Orbene, costituiscono principio pacifico, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi (cfr., tra le tante, Cass., sez. I, 20.03.2014, n. 6555), quello per cui i contratti con la Pubblica amministrazione devono essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta e -salva la deroga prevista dall'art. 17 r.d. 18.11.1923 n. 2440 per i contratti con le ditte commerciali, che possono essere conclusi a distanza, a mezzo di corrispondenza “secondo l'uso del commercio”- con la sottoscrizione, ad opera dell'organo rappresentativo esterno dell'ente, in quanto munito dei poteri necessari per vincolare l'amministrazione, e della controparte, di un unico documento, in cui siano specificamente indicate le clausole disciplinanti il rapporto; tali regole formali sono funzionali all'attuazione del principio costituzionale di buona amministrazione in quanto agevolano l'esercizio dei controlli e rispondono all'esigenza di tutela delle risorse degli enti pubblici contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza l'adeguata copertura e senza la valutazione dell'entità delle obbligazioni da adempiere (ciò che vale ad escludere l’idoneità di una mera delibera comunale, deputata ad altra funzione e priva del relativo impegno di spesa, nonché dell'indicazione dei mezzi per far fronte al compenso del professionista).
Sotto distinto e concorrente profilo, in una convenzione tra un ente pubblico territoriale e un professionista, al quale il primo abbia affidato la progettazione di un'opera pubblica, la clausola con cui il pagamento del compenso per la prestazione resa è condizionato alla concessione di un finanziamento per la realizzazione di detta opera deve qualificarsi come “condizione potestativa mista”, il cui mancato avveramento preclude l'azionabilità del credito (cfr. Cass., sez. un., 18.12.2014, n. 26657).
Orbene, nel caso di specie, l’amministrazione, nel riscontrare la richiesta di riconoscimento del debito fuori bilancio formulata dall’odierno appellante, ha rilevato, sotto entrambi gli evidenziati profili, la mancanza dei relativi presupposti, in quanto:
   a) il contratto non era stato stipulato nelle forme di rito, trattandosi di incarico conferito sulla sola base di delibera di Giunta comunale;
   b) in ogni caso, il pagamento dell’eventuale corrispettivo era stato subordinato al conseguimento di un finanziamento, che non era stato mai riconosciuto, con il conseguente venir meno della relativa condizione.
Tanto appare sufficiente, come già ritenuto dal primo giudice ed in difetto di contrarie allegazioni, per confermare l’insussistenza del credito vantato in danno dell’Amministrazione e, di conserva, l’inesistenza del preteso obbligo di attivare il procedimento per il riconoscimento del relativo debito fuori bilancio.
4.- Le considerazioni che precedono sono sufficienti ai fini della complessiva reiezione dell’appello (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 03.09.2018 n. 5138 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Se l’inosservanza dei termini di inizio e fine lavori comporti automaticamente la decadenza del permesso di costruire ovvero se, per determinare questo effetto, sia comunque richiesto un apposito provvedimento da parte del competente organo comunale.
La giurisprudenza più recente di questo giudice di appello è prevalentemente orientata nel senso che l'operatività della decadenza della concessione edilizia necessita dell'intermediazione di un formale provvedimento amministrativo di carattere dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge e da adottare previa apposita istruttoria.
Sulle stesse conclusioni è attestata anche la giurisprudenza del giudice di primo grado, per la quale la decadenza del permesso di costruire non opera di per sé, ma deve necessariamente tradursi in un provvedimento espresso che ne accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti; che, sebbene a contenuto vincolato, ha carattere autoritativo e, come tale, non è sottratto all'obbligo di motivazione di cui all’art. 3 l. 07.08.1990, n. 241; può essere adottato solo previa formale ed apposita contestazione, esplicazione di una potestà provvedimentale.
Il Giudice d’Appello ha, altresì, ricordato una precedente pronuncia in cui si è specificato che “la ragione, che giustificherebbe l'obbligo per l'ente locale di adottare un atto che formalmente dichiari l'intervenuta decadenza del permesso di costruire, è stata individuata nella necessità di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine all'esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che giustifichino la pronuncia stessa”.
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E’ necessario, preliminarmente, esaminare la questione relativa alla pretesa improcedibilità del ricorso, sollevata dal Comune resistente, alla luce della mancata realizzazione delle opere di cui al permesso di costruire impugnato, con conseguente decadenza.
La questione, in buona sostanza, consiste nel verificare se l’inosservanza dei termini di inizio e fine lavori da parte del beneficiario comporti automaticamente la decadenza del permesso di costruire che gli era stato rilasciato –operando questa di diritto ex art. 15, comma 2, del T.U. dell’edilizia e rivestendo il provvedimento, eventualmente adottato, carattere meramente dichiarativo di un effetto già verificatosi-, ovvero se, per determinare questo effetto, sia comunque richiesto un apposito provvedimento da parte del competente organo comunale.
Il Consiglio di Stato ha avuto modo di affrontare questa tematica e, pur dando atto dell’esistenza di due orientamenti, ha comunque precisato che “la giurisprudenza più recente di questo giudice di appello è prevalentemente orientata nel senso che l'operatività della decadenza della concessione edilizia necessita dell'intermediazione di un formale provvedimento amministrativo di carattere dichiarativo, che deve intervenire per il solo fatto del verificarsi del presupposto di legge e da adottare previa apposita istruttoria. Sulle stesse conclusioni è attestata anche la giurisprudenza del giudice di primo grado, per la quale la decadenza del permesso di costruire non opera di per sé, ma deve necessariamente tradursi in un provvedimento espresso che ne accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti; che, sebbene a contenuto vincolato, ha carattere autoritativo e, come tale, non è sottratto all'obbligo di motivazione di cui all’art. 3 l. 07.08.1990, n. 241; può essere adottato solo previa formale ed apposita contestazione, esplicazione di una potestà provvedimentale” (Consiglio di Stato, sez. IV, 22.10.2015, n. 4823).
Il Giudice d’Appello ha, altresì, ricordato una precedente pronuncia (sez. VI, 17.02.2006, n. 671) in cui si è specificato che “la ragione, che giustificherebbe l'obbligo per l'ente locale di adottare un atto che formalmente dichiari l'intervenuta decadenza del permesso di costruire, è stata individuata nella necessità di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine all'esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che giustifichino la pronuncia stessa”.
Il Collegio non ritiene che vi siano ragioni per discostarsi da tale orientamento e, pertanto, in mancanza di un formale provvedimento che dichiari l’intervenuta decadenza del permesso di costruire, il ricorso non può essere dichiarato improcedibile (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.09.2018 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Va sospesa in via generale ogni determinazione sulle domande di permesso di costruire, in caso di contrasto tra l'intervento oggetto della domanda e le previsioni di uno strumento urbanistico adottato.
Il comma 3 dell’art. 12 del T.U. edilizia attribuisce rilevanza ostativa, ai fini dell'accertamento di conformità, anche alle misure di salvaguardia di uno strumento urbanistico in itinere, e ciò si rivela assolutamente logico, non essendovi ragioni per differenziare la disciplina delle istanze di concessione in sanatoria da quelle di concessione edilizia per interventi ancora da realizzare.
È stato osservato, altresì, che la "salvaguardia" si verifica a prescindere dal fatto che detta domanda sia stata presentata anteriormente alla data di adozione dello strumento urbanistico, poiché l'amministrazione deve tenere conto della situazione di fatto e di diritto esistente al momento in cui la determinazione relativa all'istanza di titolo abilitativo viene assunta.
In altri termini, la mera presentazione della domanda di permesso di costruire non basta a rendere irrilevanti la variazioni di strumento urbanistico sopravvenute nelle more del rilascio del provvedimento.

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Passando al merito, il ricorso va accolto.
Risulta, invero, fondato il primo motivo di ricorso, con cui si denuncia la violazione dell’art. 12 del d.P.R. n. 380/2001.
Il Comma 3 dell’art. 12 del T.U. edilizia dispone che “In caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di permesso di costruire con le previsioni di strumenti urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi in cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto all'amministrazione competente all'approvazione entro un anno dalla conclusione della fase di pubblicazione”.
Ebbene, nel caso in esame, non è in contestazione tra le parti che il PGT adottato nel corso dell’anno 2010 ha classificato l’area in cui si sarebbe dovuto realizzare l’intervento di cui al permesso impugnato in zona “EA –Area di rispetto ambientale”, vietando ogni nuova costruzione.
L’Amministrazione, dunque, a fronte della richiesta di permesso di costruire, avrebbe dovuto sospendere il relativo procedimento, giusta il contrasto con lo strumento urbanistico adottato.
Questo Tribunale, anche di recente, ha avuto modo di precisare che ai sensi della ricordata disposizione “va sospesa in via generale ogni determinazione sulle domande di permesso di costruire, in caso di contrasto tra l'intervento oggetto della domanda e le previsioni di uno strumento urbanistico adottato. La citata disposizione attribuisce rilevanza ostativa, ai fini dell'accertamento di conformità, anche alle misure di salvaguardia di uno strumento urbanistico in itinere, e ciò si rivela assolutamente logico, non essendovi ragioni per differenziare la disciplina delle istanze di concessione in sanatoria da quelle di concessione edilizia per interventi ancora da realizzare (TAR Sardegna, sez. II, 20/05/2014, n. 368).
È stato osservato, altresì, che la "salvaguardia" si verifica a prescindere dal fatto che detta domanda sia stata presentata anteriormente alla data di adozione dello strumento urbanistico, poiché l'amministrazione deve tenere conto della situazione di fatto e di diritto esistente al momento in cui la determinazione relativa all'istanza di titolo abilitativo viene assunta. In altri termini, la mera presentazione della domanda di permesso di costruire non basta a rendere irrilevanti la variazioni di strumento urbanistico sopravvenute nelle more del rilascio del provvedimento (TAR Basilicata – 05/05/2014, n. 312)
” (In tal senso TAR Brescia, sez. I, 15.11.2017, n. 1354).
Il Comune, pertanto, non avrebbe potuto rilasciare il titolo edilizio, ma avrebbe dovuto sospendere il relativo procedimento.
La censura di cui al primo motivo è, dunque, fondata e va accolta con conseguente accoglimento del ricorso, potendo restare assorbite le ulteriori questioni sollevate dalla ricorrente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II, sentenza 03.09.2018 n. 825 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione e caratteristiche preesistente edificio crollato o demolito - Limiti e vincoli della discrezionalità tecnica - Provvedimenti autorizzativi falsi - Configurabilità del reato di falso ideologico - Art. 3, c. 1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001
L’accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del d.P.R. 380/2001 non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
Pertanto, la c.d. discrezionalità tecnica deve essere vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative.
Sicché, il reato di falso ideologico è pienamente configurabile quando detto giudizio di conformità non sia rispondente, ai parametri normativi richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, alla veridicità di determinate situazioni fattuali quali necessari presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è propria
(Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ristrutturazione edilizia - Provvedimenti autorizzativi rilasciati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi - Procedura - Esclusione degli apprezzamenti meramente soggettivi - Criterio oggettivo della preesistente "consistenza".
Nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva che deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie, volumetria, altezza, struttura complessiva, etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente.
Pertanto, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio
(Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione tecnica falsa - Mancata attività ricognitiva - Concorso nel reato di falso - Responsabile dell'ufficio tecnico - Sussistenza dei presupposti giuridico­fattuali - Obblighi di verifica.
Si configura il concorso nell'illecito rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione tecnica, integrativa della domanda presentata dal progettista, nella quale si attesta falsamente che le opere previste nella proposta progettuale non comportano variazione di sagoma né aumenti delle volumetrie esistenti.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma.
Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.
Nella specie, si fa riferimento al più grave reato di cui all'art. 479 cod. pen., che si configura con il rilascio dell'autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico­fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.

PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Falso ideologico nella valutazione tecnica - Pubblico ufficiale libero nella scelta dei criteri di valutazione - Parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi - Configurabilità del reato - Giurisprudenza.
E' configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri; Cass. Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro).
Mentre, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011, Gulino; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro)
(Corte di Cassazione, Sez. III, sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio.
Detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili.
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Va esclusa la possibilità di risalire alla originaria consistenza dell'edificio, ormai ridotto a rudere, attraverso lo "studio storico" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato.
Si tratta, invero, di un assunto che non può essere assolutamente condiviso, non soltanto perché si pone in evidente contrasto con i principi dianzi richiamati, che, lo si ribadisce, impongono estremo rigore nella verifica della consistenza del preesistente manufatto, da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e completi, ma anche perché si risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano analoghe e note.
Va conseguentemente ribadito che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione però che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire.
Va tuttavia ulteriormente affermato che l'accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del d.PR. 380/2001 non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza.
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1. Il ricorso è inammissibile.
2. Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che i fatti contestati risultano accertati in data antecedente alle modifiche del 2013 all'art. 3 del d.P.R. 380/2001, quando, in considerazione della disciplina allora vigente, veniva esclusa la possibilità che la ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di un intervento del tutto nuovo (v. Sez. 3, n. 45240 del 26/10/2007, Scupola, Rv. 238464; Sez. 3, n. 15054 del 23/01/2007, Meli e altro, Rv. 236338; Sez. 3, n. 20776 del 13/01/2006, P.M. in proc. Polverino, Rv. 234467 ed altre prec. conf.), ritenendosi che la mancanza dei suddetti elementi strutturali, rendesse impossibile qualsiasi valutazione circa l'esistenza e la consistenza dell'edifico da consolidare.
Le decisioni dei giudici del merito sono successive alle modifiche e di esse ha evidentemente tenuto conto la decisione impugnata, la quale risulta conforme ai principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione all'ambito di operatività della disciplina attualmente in vigore.
Come è noto, il d.l. 69/2013 (conosciuto anche come «decreto del fare»), intervenendo sull'art. 3, comma 1, lett. d), del d.P.R. 380/2001, ha considerevolmente ampliato il concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed introducendo la possibilità di ristrutturazione degli edifici crollati o demoliti.
L'articolo 3, comma primo, lettera d), del d.P.R. 380/2001, nella formulazione attualmente vigente, così definisce gli interventi di ristrutturazione: «interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli ai se9si del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente».
A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che, considerata la disciplina ora vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è possibile accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma dell'edificio (Sez. 3, n. 40342 del 03/06/2014, Quarta, Rv. 260551).
Si è anche ricordato che detti interventi impongono, quale imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza del manufatto preesistente (cfr. Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Moretti e altri, Rv. 258597; Sez. 3 n. 26713 del 25/06/2015, Petitto, non massimata. V. anche Sez. 3, n. 48947 del 13/10/2015, P.M. in proc. Pompa, Rv. 266031).
Si è ulteriormente stabilito che l'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001 inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente apprezzabili (Sez. 3, n. 45147 del 08/10/2015, Marzo e altri, Rv. 265444).
3. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato atto del significativo dato fattuale della obiettiva impossibilità di individuare le originarie caratteristiche costruttive dell'immobile crollato, che definisce (pag. 5 della sentenza impugnata) come "un mero ammasso di pietre a secco con un accenno di andamento solo di due muri perimetrali e di piccola parte di un terzo muro".
Una tale evenienza giustifica, di per sé, la possibilità di qualificare l'intervento come ristrutturazione ed evidenzia la correttezza delle conclusioni cui sono pervenuti i giudici dell'appello.
4. Il ricorrente pone tuttavia, a sostegno delle proprie ragioni, un ulteriore questione, che è quella della possibilità di risalire alla originaria consistenza dell'edificio, ormai ridotto a rudere, attraverso lo "studio storico" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che presentino maggiori elementi identificativi della struttura per delineare la consistenza del manufatto crollato, possibilità che è stata correttamente esclusa dai giudici dell'appello.
Si tratta, invero, ad avviso del Collegio, di un assunto che non può essere assolutamente condiviso, non soltanto perché si pone in evidente contrasto con i principi dianzi richiamati, che, lo si ribadisce, impongono estremo rigore nella verifica della consistenza del preesistente manufatto, da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e completi, ma anche perché si risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano analoghe e note.
La sentenza impugnata ha, dunque, giustamente escluso la correttezza della soluzione prospettata dalla difesa, proprio sulla base della impossibilità di "dare contezza specifica degli esatti limiti del preesistente" ed escludendo, altrettanto correttamente, ogni validità del mero richiamo dell'esistenza del manufatto nell'atto di compravendita del terreno per la genericità del richiamo e l'assenza di descrizione dello stesso.
Va conseguentemente ribadito che l'art. 30 del d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona non vincolata, a condizione però che sia possibile accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva, etc.), con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito che la citata disposizione richiede per escludere, in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di preventivo permesso di costruire.
5. Va tuttavia ulteriormente affermato che l'accertamento della preesistente consistenza di un edificio crollato o demolito che si intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del d.PR. 380/2001 non può ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39340).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Si è ricordato, con riferimento al più grave reato di cui all'art. 479 cod. pen. (Falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), come lo stesso si configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Ancora, è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi.
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative, il reato di falso ideologico è pienamente configurabile quando detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri normativi richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, che la veridicità di determinate situazioni fattuali richiedono quali necessari presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i fatti rappresentati negli elaborati progettuali, sul difetto dell'elemento soggettivo ovvero sostenendo che la valutazione oggetto di imputazione, essendo correlata alla mera interpretazione della normativa di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella funzione informativa in forza della quale l'enunciato può essere predicato di falsità.
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso, perché, come si è affermato in una recente pronuncia, nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
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Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, si è sempre attribuito decisivo rilievo alla piena conoscenza della normativa di settore, da parte dei soggetti coinvolti, trattandosi di tecnici, alla insostenibilità della tesi difensiva della difficoltà della normativa edilizia riferita alle zone agricole ed al fatto che la procedura seguita rientrasse in una "prassi" seguita dagli uffici comunali, alla sistematicità del meccanismo ideato per aggirare la disciplina urbanistica e paesaggistica, rilevando, in definitiva, come i giudici del merito avessero del tutto legittimamente riconosciuto la piena consapevolezza, da parte degli imputati, della illiceità delle loro azioni e, segnatamente, della non compatibilità dell'intervento edilizio con la destinazione di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la Corte territoriale, ponendo in evidenza come l'atto del quale è stata riconosciuta la falsità "contiene qualificazioni decisive per la produzione degli effetti giuridici ad esso assegnato dall'ordinamento platealmente false laddove attesta la congruità dell'intervento con il preesistente, con supino recepimento delle indicazioni, parimenti false, contenute nella relazione in cui la proprietaria committente ed il tecnico progettista quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le stesse (...)" ed escludendo la possibilità di un mero errore tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione concernente la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa l'originaria consistenza del manufatto crollato era evidente per le modalità con le quali si assumeva verificata ed immediatamente percepibile dall'imputato in quanto soggetto tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo, quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale non riscontrabile in questa sede.
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6. Quanto al secondo e terzo motivo di ricorso, osserva il Collegio che gli stessi riguardano la sussistenza del falso in relazione al titolo abilitativo paesaggistico e sollevano questioni analoghe a quelle più volte affrontate da questa Corte con riferimento alla vicenda delle illecite cessioni di cubatura, che hanno visto coinvolto anche l'odierno ricorrente, sicché pare opportuno richiamare, anche in questa occasione, i precedenti arresti giurisprudenziali.
Nei diversi casi sottoposti all'attenzione di questa Corte la condotta attribuita agli imputati veniva originariamente qualificata come violazione dell'art. 479 cod. pen. e poi riqualificata ai sensi dell'art. 480 cod. pen.
In una recente decisione (Sez. 3, n. 28713 del 19/04/2017, Colella ed altri, non massimata) riguardante una vicenda relativa al comune di Morciano di Leuca, richiamate altre decisioni attinenti a procedimenti aventi ad oggetto fatti analoghi (Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta e altri, Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv. 267953), si è ricordato, con riferimento al più grave reato di cui all'art. 479 cod. pen., in quell'occasione contestato, come lo stesso si configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal richiedente circa la sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza delle relative condizioni.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è configurabile il delitto di falso ideologico nella valutazione tecnica formulata in un contesto implicante l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una verifica di conformità della situazione fattuale a parametri predeterminati, con conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv. 254305; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 dell 05/07/2011, Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro, Rv. 249858).
Tali principi sono stati anche recentemente ribaditi (Sez. 3, n. 9881 del 08/02/2018, Costantini ed altri, cit.; Sez. 3, n. 2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano ed altri, cit.. V. anche Sez. 3, n. 57120 del 29/09/2017, Borrello ed altro, non massimata; Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna, non massimata. V. anche Sez. 3 n. 18890 del 08/11/2017 (dep. 2018), Renna non ancora massimata).
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della conformità della situazione fattuale alle previsioni normative, il reato di falso ideologico è pienamente configurabile quando detto giudizio di conformità non sia rispondente, come nei casi esaminati, ai parametri normativi richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, che la veridicità di determinate situazioni fattuali richiedono quali necessari presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i fatti rappresentati negli elaborati progettuali (Sez. 3, n. 4566 del 10/10/2017 (dep. 2018), Morciano ed altro, non massimata), sul difetto dell'elemento soggettivo (v. Sez. 5 n. 37915 del 26/04/2017, Baglivo, non massimata) ovvero sostenendo che la valutazione oggetto di imputazione, essendo correlata alla mera interpretazione della normativa di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella funzione informativa in forza della quale l'enunciato può essere predicato di falsità (Sez. 5, n. 19384 del 12/2/2018, De Micheli ed altri, non massimata; Sez. 5, n. 7879 del 16/01/2018, Daversa e altri, Rv. 272457).
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso, perché, come si è affermato in una recente pronuncia (Sez. 3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna ed altro, non massimata, la quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017, Renna, cit. Negli stessi termini, Sez. 3, n. 8852 del 18/01/2018, Dilonardo ed altri, non massimata), nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto, piuttosto, da una verifica oggettiva.
Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, nei casi esaminati si è sempre attribuito decisivo rilievo alla piena conoscenza della normativa di settore, da parte dei soggetti coinvolti, trattandosi di tecnici, alla insostenibilità della tesi difensiva della difficoltà della normativa edilizia riferita alle zone agricole ed al fatto che la procedura seguita rientrasse in una "prassi" seguita dagli uffici comunali (Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017, Nespoli ed altri, citata), alla sistematicità del meccanismo ideato per aggirare la disciplina urbanistica e paesaggistica, rilevando, in definitiva, come i giudici del merito avessero del tutto legittimamente riconosciuto la piena consapevolezza, da parte degli imputati, della illiceità delle loro azioni e, segnatamente, della non compatibilità dell'intervento edilizio con la destinazione di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la Corte territoriale, ponendo in evidenza come l'atto del quale è stata riconosciuta la falsità "contiene qualificazioni decisive per la produzione degli effetti giuridici ad esso assegnato dall'ordinamento platealmente false laddove attesta la congruità dell'intervento con il preesistente, con supino recepimento delle indicazioni, parimenti false, contenute nella relazione in cui la proprietaria committente ed il tecnico progettista quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le stesse (...)" ed escludendo la possibilità di un mero errore tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione concernente la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa l'originaria consistenza del manufatto crollato era evidente per le modalità con le quali si assumeva verificata ed immediatamente percepibile dall'imputato in quanto soggetto tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo, quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale non riscontrabile in questa sede (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39340).

EDILIZIA PRIVATA: Edificazione in zona agricola e sottoposta a vincolo paesaggistico - Oggettiva correlazione tra immobile realizzato e conduzione del fondo - Elementi di conformità ai fini del rilascio della sanatoria - Artt. 15, 31, 34 e 44, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1, d.lgs. 42/2004.
L'edificazione in zona agricola si riferisce ad interventi edilizi in evidente collegamento funzionale con la destinazione del fondo e la posizione soggettiva di chi lo realizza, elementi che assumono entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell’opera alle prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza, anche per l’eventuale valutazione di conformità ai fini del rilascio della sanatoria.
A tale proposito, con riferimento ad una ipotesi di lottizzazione, si era rilevato come la realizzazione di un intervento edilizio in zona agricola è finalizzato alla conduzione del fondo in ragione della sua destinazione ed è a tale dato essenziale della oggettiva correlazione tra immobile realizzato e conduzione del fondo che deve farsi riferimento e non anche alle condizioni soggettive di chi richiede il titolo abilitativo.
Pertanto, ciò che rileva è la effettiva destinazione del manufatto, richiamando tuttavia l'attenzione sul fatto che non si è mai escluso il rilievo assunto, in tali casi, dal requisito soggettivo, tanto da affermare che, in tema di reati edilizi, non è sufficiente il possesso temporaneo di fatto della qualifica di imprenditore agricolo professionale (ai sensi dell'art. 1, comma 5-ter, D.Lgs. 29.03.2004, n. 99) ai fini del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, in quanto i requisiti soggettivi per il rilascio di tale permesso devono esistere al momento della richiesta ed al momento del rilascio del titolo abilitativo
(Sez. 3, n. 46085 del 29/10/2008, Monetti e altro), ritenendo, altresì, che il possesso dei requisiti soggettivi di imprenditore agricolo deve sussistere non solo al momento del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, ma anche al momento della voltura del titolo abilitativo in favore di terzi, al fine di garantire l'effettiva destinazione delle opere all'agricoltura (Sez. 3, n. 33381 del 05/07/2012, Pmt in proc. Murgioni e altri; Sez. 3, n. 7681 del 13/01/2017, Innamorati e altri).
Fattispecie: realizzazione di una villa disposta su due livelli e tre ulteriori corpi di fabbrica ed una piscina con finalità tipicamente residenziali in assenza o, comunque, in totale difformità dal progetto approvato con permesso di costruire
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere - Regime dei titoli abilitativi edilizi - Opera considerata unitariamente nel suo complesso.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi non può essere eluso attraverso la suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di forme di controllo preventivo più limitate per la loro più modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso, senza che sia consentito scindere e apprezzare separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel caso di interventi su preesistente opera abusiva
(Cass. Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo).
Si è inoltre specificato che l'unitarietà dell'intervento edilizio è tale quando riferita ad un insieme di opere, realizzate anche in tempi diversi, le quali, pur non essendo parte integrante o costitutiva di un altro fabbricato, costituiscano, di fatto, un complesso unitario rispetto al quale ciascuna componente contribuisce a realizzarne la destinazione (Cass. Sez. 3, n. 23183 del 29/03/2018, Erbaggio)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Indicazione dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori - Inosservanza dei termini - Effetti - Decadenza del permesso di costruire.
L'indicazione dei termini di inizio e di ultimazione dei lavori è finalizzata a dare certezza temporale all'attività edificatoria, allo scopo di evitare che una edificazione, autorizzata in un dato momento, venga realizzata quando la situazione fattuale e normativa è mutata, per tale ragione i lavori devono quindi essere iniziati ed ultimati nel termine prescritto nel permesso di costruire.
L'inosservanza dei termini determina la decadenza del permesso di costruire che, come indicato dalla lettera della legge, opera di diritto per il mero decorso del termine, senza necessità di adozione di un atto formale.
I lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto sono illeciti, perché realizzati senza valido titolo, come si desume dal comma terzo dell'articolo 15 d.P.R. 380/2001, il quale stabilisce che la realizzazione della parte dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra quelle realizzabili mediante segnalazione di inizio attività e che si procede, ove necessario, anche al ricalcolo del contributo di costruzione
(Cass. Sez. 3, n. 43175 del 04/05/2017, Botti)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere abusive e sanatoria c.d. condizionata - Condizioni e limiti - Doppia conformità - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Attività vincolata della P.A. e provvedimenti di rilascio illegittimi - Giurisprudenza.
Nei casi in cui le opere abusivamente realizzate, non sono in ogni caso suscettibili di sanatoria, deve escludersi anche la possibilità della cosiddetta sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia che non posseggono.
Tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad interventi già ultimati e stabilisce come la doppia conformità debba sussistere sia al momento della realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad un'attività vincolata della P.A., consistente nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima spazi per valutazioni di ordine discrezionale
(Cass. Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015 - dep. 29/12/2015, Carratù e altro; Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota; Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, Montini e altro; Sez. 3 n. 23726 del 24/02/2009, Peoloso; Sez. 3, n. 41567 del 04/10/2007, P.M. in proc. Rubechi e altro; Sez. 3, n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in proc. Dall'Oro ed altre prec. conf.)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reato urbanistico - Natura di reato permanente - Momento della consumazione e cessazione della permanenza - Fattispecie.
Il reato urbanistico ha natura di reato permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione dell'attività edificatoria abusiva (Cass. Sez. U., n. 17178 del 27/02/2002, Cavallaro).
La cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei lavori per completamento dell'opera, con la sospensione dei lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data del giudizio (Cass. Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, P.M. in proc. Sullo).
Deve trattarsi, di un edificio concretamente funzionale che possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come si ricava dal disposto del primo comma dell'articolo 25 del d.PR. 380/2001, che fissa "entro quindici giorni dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il termine per la presentazione allo sportello unico della domanda di rilascio del certificato di agibilità.
Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di costruzione, considerare separatamente i singoli componenti. Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che costituiscono annessi dell'abitazione
(Sez. 3, n. 8172 del 27/01/2010, Vitali).
Nel caso di specie, è stato escluso l'ultimazione delle opere sulla base dell'inequivoco dato fattuale dell'assenza, all'atto del sequestro, di "regolare e funzionante impianto elettrico", dando conto dell'assenza "non solo delle mascherine e dei corpi interni ma anche il collegamento tra tutti i cavi".

DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Demolizione delle opere abusive e rimessione in pristino dello stato dei luoghi - Subordine della sospensione condizionale della pena - Funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso - Obbligo di specifica motivazione - Esclusione - Motivazione implicita - Natura di provvedimento accessorio alla condanna - Ostinata inottemperanza all'esecuzione dell'ordine di demolizione - Effetti - Revoca della sospensione condizionale della pena.
Il giudice penale, può subordinare l'applicazione della sospensione condizionale della pena alla demolizione delle opere abusive.
Il discorso non muta con riferimento alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi, cui pure può essere subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi, in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze dannose o pericolose e che la sanzione specifica della rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso.
Inoltre, l'obbligo di specifica motivazione è stato espressamente escluso, ricordando come detta motivazione debba ritenersi implicita nella stessa emanazione dell'ordine di demolizione contenuto nella sentenza e sul presupposto che detto ordine ha natura di provvedimento accessorio alla condanna ed è emesso sulla base dell'accertamento della persistente offensività dell'opera nei confronti dell'interesse tutelato, con la conseguenza che, quando il giudice del merito subordina la concessione della sospensione condizionale della pena alla demolizione dell'opera abusiva, egli non fa altro che rafforzare il contenuto della statuizione accessoria, esaltando contemporaneamente la funzione sottesa alla ratio dell'articolo 165 del codice penale finalizzata all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato, persistenti nel caso di ostinata inottemperanza all'esecuzione dell'ordine di demolizione, circostanza che rende perciò il condannato immeritevole della sospensione condizionale della pena
(così Sez. 7, n. 9847 del 25/11/2016 (dep. 2017), Palma; Conf. Sez. 3 n. 7283 del 09/02/2018, Mistretta)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATAIn zona sismica lavori registrati. Ogni progetto va depositato in comune.
È sempre obbligatorio il deposito del progetto edilizio allo sportello unico comunale per gli interventi effettuati in zona sismica. Anche se questi non sono strutturali.
La stessa trasformazione di un sottotetto in vano abitabile, in zona sismica, esige il deposito preventivo del progetto, poiché il concetto di costruzione va esteso a qualsiasi intervento edilizio, così come per l'apertura di finestre o per interventi su parti di muratura che non siano strutturali.

È l'importante principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 31.08.2018 n. 39335 la quale sottolinea l'obbligatorietà in zona sismica del deposito allo sportello unico del comune del progetto per qualsiasi tipo di intervento edilizio.
Nel caso di specie, i lavori edilizi avevano comportato, secondo quanto esaminato dal giudice del merito, l'emersione, previo sbancamento del terreno, di tre lati, precedentemente interrati, di un preesistente edificio, con la realizzazione di un piazzale di circa 1.000 metri quadrati, il terrazzamento della parete di terra rimasta alle spalle di uno di tali tre lati e fino ad un'altezza di sei metri e lo spostamento di una rampa di accesso la fondo.
Tali lavori avevano quindi fatto emergere un manufatto in precedenza interrato. Per la difesa, la costruzione (il manufatto originario) era regolare e l'intervento edilizio non riguardava parti strutturali dell'opera. Per i giudici di Cassazione no. La norma (articolo 93 dpr n. 380/2001) ricordano gli Ermellini ha la finalità di salvaguardare la pubblica incolumità. La natura del materiale usato e delle strutture realizzate è irrilevante.
In concreto, per la Cassazione, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo. Conseguendone, in difetto, l'applicazione delle relative sanzioni (articolo ItaliaOggi del 06.09.2018).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia, deposito del progetto allo sportello unico del Comune sempre obbligatorio in zona sismica.
In zona sismica va comunicato allo sportello unico del Comune, con deposito del progetto, qualsiasi intervento edilizio. Si considera, cioè, a rischio di impatto sulla stabilità della struttura tutto quello che non è manutenzione ordinaria: non conta il materiale utilizzato, il tipo di opera realizzata, la natura pertinenziale o precaria dell’intervento. Tutto è da considerare potenzialmente a rischio.

Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 31.08.2018 n. 39335, allargando così al massimo i confini dell’obbligo di comunicazione previsto dal Testo unico edilizia (articolo 93 del Dpr 380/2001).
La vicenda
Il caso esaminato dai giudici riguardava movimenti terra, terrazzamenti e sbancamenti che in zona sismica avevano fatto emergere un manufatto in precedenza interrato: la linea di difesa degli imputati sottolineava che la costruzione (il manufatto originario) era regolare e che l’intervento edilizio non riguardava parti strutturali. L’opinione della Cassazione è, però, diversa.
La norma intende salvaguardare la pubblica incolumità: la natura del materiale usato e delle strutture realizzate è irrilevante. Altrettanto irrilevante è, poi, la precarietà dell’intervento, perché la comunicazione in questione è pensata per consentire un controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione su tutto ciò che è realizzato in zona sismica.
Con questo ragionamento, anche la realizzazione di una semplice pertinenza è soggetta a comunicazione, così come la collocazione di un cartello stradale (Cassazione 24086/2012). Le modalità di collocazione del manufatto, la morfologia del sito, la pendenza del terreno, le caratteristiche delle strutture di sostegno, possono infatti generare o accrescere una situazione di pericolo.
Anche la trasformazione di un sottotetto in vano abitabile, in zona sismica, esige quindi il deposito preventivo del progetto, poiché il concetto di «costruzione» va esteso a qualsiasi intervento edilizio. Stesso discorso va fatto, ad esempio, per l’apertura di finestre o per interventi su parti di muratura che non siano strutturali: dovranno passare tutti dal deposito del progetto.
La decisione
L’intervento della Cassazione chiarisce uno dei passaggi più contestati, in fase applicativa, del Dpr 380/2001. In alcune Regioni, nella pratica quotidiana, c’è stata la tendenza ad allargare il perimetro degli interventi che non devono passare dal deposito sismico del progetto: la definizione di legge, infatti, lascia ampio spazio alle interpretazioni. Per limitare queste oscillazioni, i giudici adottano adesso un’impostazione semplice: la comunicazione riguarda «qualsiasi intervento in zona sismica».
Peraltro, va sottolineato che in zona sismica c’è oltre il 70% dei Comuni italiani. Chi non adempie a questo onere si espone a un’ammenda: l’omesso preavviso d’inizio attività, in quanto reato istantaneo, si consuma nel momento in cui inizia l’attività e si prescrive in cinque anni. Questa impostazione, comunque, è allineata al parere della maggioranza dei tecnici: gli interventi sulle parti non strutturali sono comunque ad alto rischio, in zona sismica, e possono incidere sulla stabilità dell’edificio.
Vanno, per questo, tenuti sotto stretta osservazione. L’interpretazione più rigorosa, allora, dovrebbe essere la base per la revisione del Testo unico edilizia, al quale lavora ormai da mesi una commissione di esperti: probabile che, in futuro, si vada per legge verso un’applicazione molto più estesa delle pratiche di deposito sismico (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.09.2018).
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MASSIMA
2. Occorre preliminarmente osservare che, secondo quanto è dato rilevare dalla sentenza impugnata e dal ricorso, unici atti ai quali  questa Corte ha accesso, i fatti addebitati ai ricorrenti riguardano la realizzazione delle opere descritte nel capo di imputazione in violazione della disciplina antisismica.
Detti interventi hanno comportato, secondo quanto ritenuto dal giudice del merito, la emersione, previo sbancamento del terreno, di tre lati, precedentemente interrati, di un preesistente edificio regolarmente assentito, con la realizzazione di un piazzale di circa 1.000 metri quadrati, il terrazzamento della parete di terra rimasta alle spalle di uno di tali tre lati e fino ad un'altezza di sei metri e lo spostamento di una rampa di accesso la fondo.
3. Tale ricostruzione è contestata in ricorso, segnatamente nel primo motivo, sostenendosi, in sintesi, la regolarità delle opere perché originariamente assentite quelle relative alla realizzazione del manufatto originario e non soggette a titolo abilitativo quelle successive, in quanto riguardanti interventi non strutturali, non realizzati in cemento armato ed in parte resi necessari da improvvisi e significativi eventi atmosferici.
L'assunto è, tuttavia, manifestamente infondato, perché non tiene conto del consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, la quale ha ripetutamente delimitato l'ambito di applicazione della normativa sulle costruzioni in zona sismica con riferimento alla natura degli interventi realizzati.
Seppure, in un primo tempo, si sia affermato che la funzione di salvaguardia della pubblica utilità perseguita porta ad escluderne l'applicazione per gli interventi che non interessano la pubblica incolumità, quali quelli di manutenzione ordinaria o straordinaria del patrimonio edilizio già esistente (Sez. 3, n. 10188 del 10/07/1981, Filloramo, Rv. 150961), si è successivamente chiarito che la natura delle opere è irrilevante e ciò in quanto la violazione delle norme antisismiche richiede soltanto l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica (Sez. 3, n. 46081 del 8/10/2008, Sansone, Rv. 241783). Il principio è stato successivamente ribadito (Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330).
Altrettanto inconferente è stata ritenuta la natura dei materiali usati e delle strutture realizzate, in quanto le disposizioni relative alla disciplina antisismica hanno una portata particolarmente ampia e si applicano a tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità (cfr. Sez. 3, n. 24086 del 11/4/2012, Di Nicola, Rv. 253056; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011 (dep. 2012), D'Onofrio, Rv. 252441; Sez. 3, n. 30224 del 21/6/2011, Floridia, Rv. 251284; Sez. 3, n. 23076 del 27/4/2011, Coppa, non massimata; Sez. 3, n. 33767 del 10/5/2007, Puleo, Rv. 237375; Sez. 3, n. 38142 del 26/9/2001, Tucci, Rv. 220269).
È stata inoltre ritenuta irrilevante la eventuale precarietà dell'intervento, attesa la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo preventivo, da parte della pubblica amministrazione, di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche (Sez. 3 n. 23076/2011, cit.; Sez. 3, n. 38405 del 9/7/2008, Di Benedetto, Rv. 241288; Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia, Rv. 237842; Sez. 3, n. 48684 del 28/10/2003, Noto, Rv. 226561; Sez. 3, n. 33158 del 29/05/2002, Bianchini, Rv. 222254).
Per le stesse ragioni si è ritenuto non assuma neppure rilevo la natura pertinenziale dell'intervento (Sez. 3, n. 7353 del 03/05/1995, Catanzariti, Rv. 202079).
In un caso, riguardante la collocazione di cartellonistica autostradale, si è avuto modo di precisare ulteriormente che
anche interventi apparentemente «minori» possono assumere concreto rilievo sul piano della pericolosità e che nella valutazione relativa a tale aspetto concorrono, con l'elemento dimensionale, anche altri elementi, quali, ad esempio, le modalità di collocazione del manufatto, la morfologia del sito, la pendenza del terreno, le modalità di realizzazione delle strutture di sostegno, ecc. in quanto suscettibili di accrescere il grado di pericolo per l'incolumità pubblica. Aggiungendo, altresì, che da tale valutazione non si può prescindere neppure per le zone in cui il grado di sismicità non sia particolarmente elevato (così Sez. 3 n. 24086/2012, cit.).
I richiamati principi sono stati successivamente ribaditi con riferimento a muri di semplice recinzione costruiti con "forati" (Sez. 3, n. 9126 del 16/11/2016 (dep. 2017), Aliberti, Rv. 269303) ed alla chiusura di una veranda mediante mattoni del medesimo tipo (Sez. 3, n. 48950 del 04/11/2015, Baio, Rv. 266033), escludendosi anche ogni possibilità di deroga per particolari categorie di opere stabilite da disposizioni amministrative regionali (Sez. 3, n. 19185 del 14/1/2015, Garofano, Rv. 263376).
Si è anche espressamente escluso che l'applicabilità della disciplina antisismica riguardi i soli edifici in cemento armato
(Sez. 3, n. 48005 del 17/09/2014, Gulizzi e altro, Rv. 261155; Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330, cit.)
4. La sentenza impugnata non è, dunque, errata sul punto, risultando, al contrario, perfettamente allineata ai principi sopra enunciati, mentre del tutto errate risultano le affermazioni contenute in ricorso.
Va conseguentemente ribadito che
qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio amato, indipendentemente dalla natura dei materiali usati, dalla tipologia delle strutture realizzate, dalla natura pertinenziale o precaria, deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, conseguendone, in difetto, l'applicazione delle relative sanzioni, sfuggendo a tale disciplina solo gli interventi di semplice manutenzione ordinaria.

EDILIZIA PRIVATA: Opere in area sismica.
Qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio amato, indipendentemente dalla natura dei materiali usati, dalla tipologia delle strutture realizzate, dalla natura pertinenziale o precaria, deve essere previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo, conseguendone, in difetto, l'applicazione delle relative sanzioni, sfuggendo a tale disciplina solo gli interventi di semplice manutenzione ordinaria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 31.08.2018 n. 39335).

EDILIZIA PRIVATAReati edilizi, responsabile il proprietario del fondo.
Responsabile per i reati edilizi il proprietario del fondo sul quale sono stati effettuati lavori in assenza di autorizzazione salvo che abbia negato il consenso.

La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con sentenza 31.08.2018 n. 39313 ha esaminato la questione della ripartizione delle responsabilità, nel caso di reati commessi nel corso di lavori edilizi.
Viene presa in considerazione ed esaminata la posizione della proprietaria di un terreno non committente, a seguito della contestazione della violazione del dpr n. 380/2001 per avere consentito, che sul suo fondo venisse realizzato uno stabile senza autorizzazione. Assumeva la ricorrente, che la decisione della Corte d'Appello, era infondata, posto che la sua responsabilità era insussistente nei fatti, ed era stata dedotta dalla sua posizione di proprietaria del fondo sul quale era stato edificato lo stabile.
La Corte suprema, tuttavia ha ritenuto il motivo infondato rigettando il relativo ricorso sulla base delle seguenti argomentazioni. dapprima, viene ricordata la giurisprudenza prevalente della stessa Corte suprema di cassazione, in materia di abusi edilizi conseguenti al difetto di autorizzazioni amministrative, la quale vuole che la responsabilità del proprietario non committente, possa essere esclusa, nel solo caso in cui sia possibile dimostrare che egli abbia palesemente negato il consenso alle attività sul suo fondo.
È pacifico, ad avviso degli ermellini, che la responsabilità del proprietario non committente del fondo possa essere desunta anche da elementi di mero valore indiziario, quali ad esempio l'interesse alla realizzazione dell'opera, ovvero la presenza in loco dello stesso durante l'esecuzione dei lavori, od ancora l'esistenza di rapporti di parentela, con chi materialmente aveva eseguito l'opera. Nel caso di specie poi la proprietaria del fondo, era effettivamente legata da un rapporto di coniugio con l'esecutore dei lavori e aveva comunque la piena disponibilità del fondo sul quale erano stati eseguiti i lavori, trovandosi addirittura in loco al momento di esecuzione degli stessi (articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2018).
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MASSIMA
1. Il ricorso è basato su motivo manifestamente infondato.
2. Va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema si è stabilmente assestata nell'affermare che
in tema di reati edilizi, ai fini del disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente dei lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 è necessario escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio ovvero dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione (così questa sez. 3, n. 33540 del 19.06.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri Rv. 253169; conforme sez. 4 n. 19714 del 3.2.2009, Izzo F., Rv. 243961).
Questa Corte di legittimità non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato, che il proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori.
Perché il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre qualcosa in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse all'abuso e non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
E', dunque, pacifico che in tema di reati edilizi, l'individuazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria: piena disponibilità giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale della stessa (Sez. 3, 27.09.2000, n. 10284, Cutaia; 03.05.2001, n. 17752, Zorzi; 10.08.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n. 9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo; 15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400 del 21/03/2013, Rv. 257676; Sez.3, n. 52040 del 11/11/2014, Rv. 261522).
Inoltre, è stato affermato che la valutazione del comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al sindacato di legittimità della Suprema Corte, in quanto comporta un giudizio di merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della prova né con le massime di esperienza (sez. 3, n. 35631 dell'11.07.2007, Leone ed altri, Rv. 237391).

PATRIMONIOVa indennizzato chi si infortuna andando al lavoro in bici. Corte di cassazione.
Chi s'infortuna in bici per andare al lavoro ha sempre diritto al risarcimento dell'Inail. Perché l'uso della bici è da ritenersi sempre necessitato, equiparato cioè a quello del mezzo pubblico o al percorso a piedi.

Lo stabilisce la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la sentenza 31.08.2018 n. 21516.
La questione. La Corte di cassazione è chiamata a decidere una causa tra un lavoratore e l'Inail, con il primo che ha impugnato la sentenza della Corte di appello ritenendo illegittimo il rigetto della sua richiesta di condanna dell'Inail a riconoscergli l'indennizzo per una menomazione dell'8% sofferta in seguito all'infortunio capitatogli nel corso del tragitto casa-lavoro percorso in bicicletta. La Corte di appello ha ritenuto che l'uso della bici, quale mezzo privato, non fosse «necessitato» (che è la condizione fondamentale affinché sia possibile il riconoscimento della tutela Inail, in caso di utilizzo di mezzi non pubblici).
Infortunio in itinere. La tutela dell'infortunio in itinere è disciplinata dall'art. 12 del dlgs n. 38/2000 e prevede che l'Inail tuteli i lavoratori nel caso d'infortuni avvenuti durante il normale tragitto di andata e ritorno tra l'abitazione e il luogo di lavoro. L'infortunio in itinere può verificarsi, inoltre, nel normale percorso che il lavoratore deve fare per recarsi da un luogo di lavoro a un altro, nel caso di rapporti di lavoro plurimi, oppure durante il tragitto abituale per la consumazione dei pasti, se non esiste una mensa aziendale.
Qualsiasi modalità di spostamento è compresa nella tutela (mezzi pubblici, a piedi ecc.) a patto che siano verificate le finalità lavorative, la normalità del tragitto e la compatibilità degli orari. Al contrario, il tragitto effettuato con uso di un mezzo privato è coperto dalla tutela dell'Inail solo e soltanto se tale uso è «necessitato». In ogni caso, invece, è prevista l'esclusione della tutela in «caso d'interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate», per tali intendendosi quelle non dovute a cause di forza maggiore, di esigenze essenziali e improrogabili o dall'adempimento di obblighi penalmente rilevanti.
La decisione. Tornando alla vicenda giudiziaria, la Corte di cassazione dà ragione al lavoratore: la Corte di appello non ha adeguatamente interpretato la nozione di «utilizzo necessitato». Tal è, spiega la Cassazione, l'uso determinato da ragioni d'impedimento per la percorrenza a piedi del tragitto casa-lavoro e viceversa. Per ragioni d'impedimento devono intendersi non solo le situazioni in cui l'impossibilità è assoluta, ma anche quelle in cui la deambulazione sia motivo di pena e di eccesso di fatica (come nel caso del lavoratore interessato alla causa), oltre che di rischio per l'integrità psicofisica, alla luce dei principi di tutela della dignità della persona (ex art. 2 della carta costituzionale).
Peraltro, aggiunge ancora la Cassazione, l'uso della bici per il tragitto casa-lavoro e viceversa può essere consentito anche «secondo un canone di necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume sociale, e per tutelare l'esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell'attività svolta». Soprattutto però, conclude la Corte di cassazione, l'uso della bicicletta deve ormai intendersi sempre necessitato per quanto previsto all'art. 5, comma 5, della legge n. 221/2015, vale a dire «per i positivi riflessi ambientali». La bici, in altre parole, è da considerarsi mezzo pubblico e non mezzo privato (articolo ItaliaOggi dell'01.09.2018).

INCARICHI PROFESSIONALIRimborso illegittimo se sotto i minimi.
È illegittimo liquidare i rimborsi spese dei legali in fase di ricorso al di sotto dei minimi stabiliti per legge.

Lo spiega la II Sez. civile della Suprema corte di Cassazione, nella sentenza 31.08.2018 n. 21487, in cui i legali avevano impugnato la sentenza dei giudici di secondo grado per aver liquidato il rimborso spese corrispettivo ben al di sotto dei minimi tabellari.
Una somma che ammontava a 900 euro per la fase di rinvio, giudicata al di sotto del valore della causa che oscillava tra 1.000 e 5mila euro circa. In particolare la vicenda si lega al un decreto che Ministero della giustizia (n. 55 del 10.03.2014) nella parte in cui determina un limite minimo ai compensi previsti, che non può considerarsi derogativo del decreto n. 140, emesso dallo stesso Ministero il 20.07.del 2012, il quale, «stabilendo in via generale i compensi di tutte le professioni vigilate dal Ministero della giustizia, al suo art. 1, comma 7, dispone che in nessun caso -si legge nella memoria prodotta dai legali- le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa».
Questa ammissione, tuttavia, non è stata accolta dalla Corte perché «il dm n. 140 risulta essere stato emanato (dl n. 1/2012, conv. nella legge n. 27/2012) allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, adempiendo alle indicazioni della Ue, a tal fine rimuovendo i limiti massimi e minimi, così da lasciare le parti contraenti (nella specie, l'avvocato e il suo assistito) libere di pattuire il compenso per l'incarico professionale; per contro, il giudice resta tenuto ad effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal dm n. 55, il quale non prevale sul dm n. 140 per ragioni di mera successione temporale, bensì nel rispetto del principio di specialità».
E i porporati di piazza Cavour, esaminando in punto di diritto le lamentele dei professionisti, accolsero la richiesta dei legali e anche le motivazioni di contrasto tra i due decreti ministeriali circa il rimborso spese da erogare (articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2018).

EDILIZIA PRIVATAAbusi edilizi da demolire.
L'ordine di demolizione di un immobile costruito abusivamente va sempre emesso. La possibilità di sostituire la demolizione di un edificio abusivo col pagamento di una multa deve essere valutata nella fase esecutiva del procedimento. In concreto, l'amministrazione comunale deve emettere l'ordine di demolizione e poi valutare se, nel caso concreto, è più opportuna una sanzione pecuniaria.

Il principio di diritto è stato espresso dal Consiglio di Stato -Sez. IV- con la sentenza 31.08.2018 n. 5128. I giudici di palazzo Spada spiegano quando la multa può sostituire una demolizione.
Il fatto in sintesi. Il comune respingeva una richiesta di condono, presentata dopo l'ampliamento di un immobile e ordinava il ripristino dello stato dei luoghi. I proprietari dell'immobile sostenevano che, invece dell'ordine di demolizione, il comune avrebbe dovuto irrogare una sanzione pecuniaria (articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).
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MASSIMA
9.4. Con il terzo motivo d’appello si lamenta che il Tribunale ha trascurato la disamina della deduzione relativa alla violazione e falsa applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia) insistendo quindi per il suo accoglimento.
9.4.1. Preliminarmente il Collegio rileva che un’eventuale omissione di pronuncia su una o più delle censure articolate con il ricorso di primo grado non giustifica la rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 105 c.p.a..
Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata del giudice di appello -che la Sezione condivide e fa propria- “Nel processo amministrativo l'omessa pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all' art. 112 c.p.c. , che è applicabile al processo amministrativo con il correttivo secondo il quale l'omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile; peraltro, l'omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo, tale da comportare l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado ex art. 105, comma 1, c.p.a., ma solo un vizio dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul merito della causa; non rientrando l'omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su un motivo del ricorso, nei casi tassativi di annullamento con rinvio, ne consegue che, in forza del principio devolutivo (art. 101, comma 2 c.p.a .), il Consiglio di Stato decide, nei limiti della domanda riproposta, anche sui motivi di ricorso non affrontati dal giudice di prime cure” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 07.02.2018, n. 782).
9.4.2. Fatta questa doverosa premessa, si deve ravvisare l’infondatezza del rilievo in esame, col quale si assume che l’Amministrazione, ai sensi dell’art. 34 cit., avrebbe omesso la doverosa preventiva verifica circa la materiale possibilità di demolire senza pregiudizio delle parti del fabbricato edificate legittimamente, in quanto, come da costante orientamento di questo Consiglio, “
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: il dato testuale della legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va senz'altro emesso” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 23.11.2017 n. 5472).
Inoltre l’art. 34 invocato dall’appellante disciplina gli interventi alle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo al secondo comma che "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione"; la norma presuppone che vengano in rilievo gli stessi lavori edilizi posti in essere a seguito del rilascio del titolo e in parziale difformità da esso e non è quindi applicabile alle opere realizzate senza titolo per ampliare un manufatto preesistente (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 01.06.2016, n. 2325; n. 3371 cit.).

EDILIZIA PRIVATAL'onere della prova circa l'ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso.
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Una perizia di parte, ancorché giurata, non è dotata di efficacia probatoria e pertanto non è qualificabile come mezzo di prova.
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Ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30.09.2003, convertito con modificazioni nella l. 24.11.2003, n. 326, devono intendersi espressamente escluse dal condono edilizio le opere che siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
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9. L’appello, discusso all’udienza pubblica del 19.07.2018, non merita accoglimento.
9.1. Col primo motivo d’appello, come sinteticamente esposto in narrativa, l’appellante critica la sentenza impujgnata evidenziando l’erroneità della statuizione di merito del Tribunale in ordine all’infondatezza delle censura, avente rilievo centrale nell’economia del ricorso di primo grado, della preesistenza delle opere rispetto all’imposizione del vincolo di inedificabilità di cui al P.T.P. del 1999, richiamato dall’Amministrazione in sede di diniego.
L’appellante soggiunge che il vincolo paesaggistico, interessante l’intero territorio comunale, introdotto ai sensi della legge n. 1497 del 1939 con il D.M. del 1957, non avrebbe carattere ostativo secondo quanto previsto dall’art. 32 della legge n. 47 del 1985.
9.1.1. La disamina del rilievo sollevato dall’appellante non può prescindere dalla preliminare ricognizione del criterio distributivo dell’onere della prova; sul punto, secondo consolidato orientamento di questo Consiglio, vale il principio secondo cui “L'onere della prova circa l'ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2018, n. 1837; 19.03.2018, n. 1711; 05.03.2018, n. 1391; 11.10. 2017, n. 4703).
9.1.2. Orbene, alla luce di tale criterio, che risulta peraltro coerente con il principio della vicinanza della prova ormai unanimemente riconosciuto, assume rilievo dirimente il mancato raggiungimento della dimostrazione circa l’anteriorità dell’intervento oggetto di condono alla data in cui è stata introdotta la disciplina vincolistica richiamata in seno alla motivazione del diniego, e ciò in considerazione delle risultanze che provengono dalla stessa documentazione versata in atti.
Difatti quanto evidenziato dall’appellante ai fini della sospirata retrodatazione delle opere non è in grado di superare l’univoco valore probatorio del provvedimento di sequestro del 29.11.2002, col quale la Polizia Municipale di Pozzuoli attestava, a quella data, l’esecuzione di opere edilizie in corso di realizzazione (“parzialmente intonacato e con predisposizione di impianto elettrico e porte scrigno”).
Circa la collocazione temporale delle opere abusive in questione, la parte appellante si è infatti limitata a ricorrere ad affermazioni del tutto generiche (“durante gli anni ottanta vennero effettuate alcune opere di chiusura perimetrale”) ovvero a richiamare la perizia giurata del 21.07.1990 già prodotta in prime cure.
Fermo restando che una perizia di parte, ancorché giurata, non è dotata di efficacia probatoria e pertanto non è qualificabile come mezzo di prova (Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 20.11.2014, n. 640), la relazione peritale in questione si limita a valorizzare sul piano documentale quanto descritto nella relazione tecnica asseverata del 21.07.1990, ove si dichiara al Comune di Pozzuoli, allegando documentazione fotografica, l’intenzione di eseguire sull’immobile, tra i vari interventi ivi descritti, la realizzazione di “nuovi intonaci alle murature esterne di chiusura del loggiato”.
L’insufficienza di tale documentazione si deve innanzitutto al fatto che trattasi di una semplice manifestazione di volontà proveniente dalla stessa parte interessata (segnatamente il signor Pr.Ba., padre dell’appellante) in quanto tale priva di ogni attitudine probatoria. Inoltre, la consistenza delle opere descritte nel citato verbale di sequestro non comprende soltanto la tompagnatura del loggiato ma anche la “realizzazione di un manufatto in aderenza ad una preesistenza edilizia le cui dimensioni risultano essere 6x3x5” assumendo così caratteristiche diverse da quelle descritte nella menzionata dichiarazione.
La portata probatoria di tale reperto documentale non può essere inficiata da generiche ed irrituali contestazioni, formulate dall’appellante circa l’erroneità della descrizione dei luoghi in esso contenuta, trattandosi di un atto pubblico assistito da fede privilegiata ai sensi dell'art. 2700 c.c. e pertanto, in assenza di querela di falso, idoneo a fornire piena prova.
9.1.3. Considerata la mancata dimostrazione circa l’esatta collocazione temporale della consumazione dell’illecito edilizio non può non tenersi conto della data cui risale la domanda di condono dell’appellante, ovverosia il 14.12.2004, con la conseguenza che essa si inquadra nella cornice normativa della legge n. 326 del 2003, c.d. terzo condono edilizio, al fine di verificare la sussistenza dei presupposti di legge per il suo accoglimento.
9.2. Ordunque, nel prevedere la sanabilità degli abusi edilizi, la legge n. 326 del 2003 ha circoscritto l’ambito applicativo del condono rispetto a quello previsto dalla legge n. 47 del 1985, contenente la disciplina generale in materia, e dall’art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724. In particolare, sono rimasti esclusi dalla sanabilità gli abusi edilizi realizzati nelle zone vincolate o in violazione degli strumenti urbanistici (art. 32, commi 26 e 27).
Nel caso di specie, l’opera abusiva insiste sul territorio del Comune di Pozzuoli, che nella sua interezza è stato dichiarato di “notevole interesse pubblico” con D.M. del 12.09.1957. Inoltre ogni opera realizzata su detto territorio che comporti la creazione di volumi, ricade in area sottoposta ai vincoli di Protezione Integrale del P.T.P.. Le opere oggetto della domanda di sanatoria avanzata dall’appellante, quindi, sono state realizzate su un territorio sottoposto a vincolo paesaggistico e comportano un indubbio aumento volumetrico risultando così per entrambe tali ragioni non condonabili.
9.2.1. Per il primo profilo, questa Sezione ha avuto modo di rilevare che “Ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30.09.2003, convertito con modificazioni nella l. 24.11.2003, n. 326, devono intendersi espressamente escluse dal condono edilizio le opere che siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (cfr. sez. IV, 12.03.2018, n. 1528).
Ne consegue che il D.M. del 1957 assume autonomo carattere ostativo ai fini dell’ammissibilità a condono delle opere de quibus, trattandosi di un vincolo senz’altro introdotto prima dell’esecuzione dell’intervento edilizio.
9.2.2. La rilevanza plano-volumetrica di questo a sua volta assume rilievo ostativo, in quanto ai sensi dell’art. 32, comma 26, del d.l. n. 269 del 2003 convertito nella legge n. 326 del 2003, gli interventi edilizi effettuati su immobili situati in territori sottoposti a vincoli di notevole interesse pubblico paesaggistico possono essere condonati solo se siano consistiti in interventi minori quali opere di restauro, di risanamento conservativo e di manutenzione straordinaria.
9.2.3. Conclusivamente, l’abuso edilizio in questione non è suscettibile di essere condonato secondo le disposizioni della normativa di riferimento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.08.2018 n. 5128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La repressione di abusi edilizi costituisce un atto vincolato, la cui motivazione soddisfa i requisiti di legge anche quando si riduce all’affermazione dell’accertata irregolarità dell’intervento, risultando superflua ogni specifica comparazione tra l’interesse pubblico e gli interessi privati coinvolti o sacrificati.
La natura vincolata del potere esercitato comporta inoltre che non sia dovuta la previa comunicazione dell’avvio del procedimento.
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L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento
, né un'ampia motivazione
.
Né può rilevare la circostanza relativa al decorso di un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso, in quanto “
La repressione degli abusi edilizi costituisce espressione di attività strettamente vincolata, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Non sussiste quindi alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato "contra legem"”.
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Nemmeno può configurarsi la violazione delle garanzie procedimentali integrate dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, norma che l’appellante assume obliterata ai fini dell’adozione del provvedimento di diniego della domanda di condono, in quanto, per le suesposte ragioni che hanno condotto alla reiezione delle critiche sollevate dall’appellante, non si configura la possibilità di un qualsiasi apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
La ricaduta patologica di tale lamentata violazione è quindi sterilizzata dall’applicazione dell’art. 21-octies del medesimo corpus normativo, norma che ben si attaglia anche alla pretermissione del preavviso di diniego.
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9.4.3. Destituiti di fondamento sono anche gli ultimi due motivi d’appello, suscettibili per il loro tenore di trattazione congiunta, coi quali si lamenta il difetto di motivazione, anche in punto di interesse pubblico, e di partecipazione procedimentale.
9.4.4. Occorre premettere che ai sensi dell’art. 27, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titoli su aree vincolate, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi. La norma fonda quindi un potere che l’Amministrazione è chiamata ad esercitare senza la previsione di alcun margine di discrezionalità.
In data 30.03.2009, facendo seguito alla richiesta di condono avanzata dall’appellante, il Comune di Pozzuoli adottava un provvedimento, con il quale la richiesta era dichiarata “irricevibile e improcedibile” e si ordinava il ripristino dello stato dei luoghi, secondo quando previsto dall’art. 27, co. 2 cit..
9.4.5. In sede motivazionale l’Amministrazione evidenziava che l’abuso edilizio insisteva su un territorio dichiarato sin dal 1957 di notevole interesse pubblico nonché il fatto che “l’area interessata in riferimento al P.R.G. vigente ricade in zona – M12 – Parco archeologico naturale del lago d’Averno, del lago Lucrino e del Monte Nuovo la cui normativa è riportata all’art. 59 delle norme di attuazione annesse a detto piano che non consente tale tipo di intervento. In riferimento al P.T.P. vigente l’area ricade in zona P.I. Protezione Integrale regolamentata dall’art. 11 delle norme di tutela che vieta qualsiasi intervento che comporti incremento dei volumi esistenti”. L’intervento edilizio era quindi ritenuto “non assentibile ai sensi dell’art. 36 T.U. del testo unico e non è per niente configurabile in alcuna delle ipotesi di condono”.
9.4.6. La formula sintattica che accompagna il provvedimento risulta quindi ampiamente articolata e dalla indubbia efficacia ostensiva, con conseguente insussistenza del lamentato difetto motivazionale, evidenziandosi il contrasto delle opere sia con la disciplina urbanistica che paesaggistica così come esattamente individuate.
Per costante e consolidato orientamento di questa Sezione la repressione di abusi edilizi costituisce un atto vincolato, la cui motivazione soddisfa i requisiti di legge anche quando si riduce all’affermazione dell’accertata irregolarità dell’intervento, risultando superflua ogni specifica comparazione tra l’interesse pubblico e gli interessi privati coinvolti o sacrificati (Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529; recentemente 28.02.2017, n. 908).
9.4.7. La vista natura vincolata del potere esercitato comporta inoltre che non sia dovuta la previa comunicazione dell’avvio del procedimento.
Ma l’infondatezza dei rilievi afferenti al difetto di motivazione ed alla obliterazione delle garanzie procedimentali si deve anche all’insegnamento della recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595 nonché Cons. Stato n. 2799 del 2018), secondo cui “
l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
Né può rilevare la circostanza relativa al decorso di un notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso, in quanto “La repressione degli abusi edilizi costituisce espressione di attività strettamente vincolata, potendo la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso. Non sussiste quindi alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del privato "contra legem"” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 03.10.2017, n. 4580).
9.4.8. Nemmeno può configurarsi la violazione delle garanzie procedimentali integrate dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, norma che l’appellante assume obliterata ai fini dell’adozione del provvedimento di diniego della domanda di condono, in quanto, per le suesposte ragioni che hanno condotto alla reiezione delle critiche sollevate dall’appellante, non si configura la possibilità di un qualsiasi apporto collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda. La ricaduta patologica di tale lamentata violazione è quindi sterilizzata dall’applicazione dell’art. 21-octies del medesimo corpus normativo, norma che ben si attaglia anche alla pretermissione del preavviso di diniego (Cons. Stato, sez. IV, 16.06.2017, n. 2953).
10. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.08.2018 n. 5128 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non determina l'inefficacia sopravvenuta dell'ingiunzione di demolizione emessa.
Si afferma più precisamente che la presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
Infatti, se si sostenesse che l’amministrazione, nell'ipotesi in cui debba operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di accertamento di conformità, avesse l'obbligo di riadottare l’ordinanza di demolizione, ciò equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
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8.3. Infondato è anche il secondo motivo d’appello, col quale, nel contestare la legittimità del contestuale ordine demolitorio, si lamenta la mancata riattivazione del procedimento sanzionatorio con conseguente pretesa violazione delle regole procedimentali, censura sulla quale il Tribunale non si sarebbe adeguatamente soffermato.
8.3.1. Anche tale critica non può essere condivisa in quanto il Tar, nel disattendere tale deduzione, ha opportunamente richiamato l’orientamento giurisprudenziale, coltivato anche da questo Consiglio, secondo cui “La presentazione della domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non determina l'inefficacia sopravvenuta dell'ingiunzione di demolizione emessa” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3417).
Si afferma più precisamente che la presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d'interesse, dell’impugnazione proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria. Infatti, se si sostenesse che l’amministrazione, nell'ipotesi in cui debba operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di accertamento di conformità, avesse l'obbligo di riadottare l’ordinanza di demolizione, ciò equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento (Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2018, n. 1171).
Dal diniego di sanatoria, quindi, non consegue la necessità di innescare un nuovo iter procedimentale, come assume l’appellante, inteso alla riedizione del potere sanzionatorio, con conseguente infondatezza del rilievo sollevato che appunto postula tale (insussistente) necessità (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.08.2018 n. 5124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Nell'ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale.
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8.3.2. Nel contesto di altro profilo di censura, l’appellante lamenta altresì la mancata individuazione dell’area di sedime da acquisire in caso di inottemperanza, ma trattasi di motivo inammissibile per violazione del divieto di nova in appello, ex art. 104, comma 2, c.p.a., non rinvenendosi una censura di siffatto tenore nel libello introduttivo della lite.
Il rilievo è comunque destituito di fondamento, in quanto, come da consolidato orientamento di questo Consiglio, “Nell'ingiunzione di demolizione è necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente realizzate, in modo da consentire al destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento, non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione; elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 11.12.2017, n. 5788) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.08.2018 n. 5124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento.
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8.4. Infondato è anche il terzo motivo d’appello, col quale si ripropone il quarto motivo del ricorso di primo grado (pagina 6), ove si contesta la pronuncia di primo grado in ordine alla statuizione reiettiva della censura del difetto di avviso dell’avvio procedimentale ex art. 7 della legge n. 241 del 1990, in quanto tale modulo partecipativo, come correttamente rilevato dal Tribunale, non si attaglia ai procedimenti ad istanza di parte.
Ad opinare diversamente, infatti, “l'avviso dell'avvio sarebbe una mera duplicazione di attività” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.09.2003, n. 5034) e comunque il rilascio dell’accertamento di conformità urbanistica, richiedendo solo la verifica delle possibili ragioni di contrasto con la relativa disciplina, non implica l’espletamento di apprezzamenti di natura discrezionale che possano giovarsi del contributo partecipativo dell’interessato.
8.4.1. Né residuano margini in favore dell’applicazione del principio partecipativo nel procedimento che conduce all’emissione dell’ordine demolitorio, in quanto, come ha avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio (in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595 nonché Cons. Stato n. 2799/2018), “l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
9. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.08.2018 n. 5124 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione della domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non determina l'inefficacia sopravvenuta dell'ingiunzione di demolizione emessa.
Si afferma più precisamente che la presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt’al più, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria.
Infatti, se si sostenesse che l'amministrazione, nell'ipotesi in cui debba operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di accertamento di conformità, avesse l'obbligo di riadottare l'ordinanza di demolizione, ciò equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento.
Dal diniego di sanatoria, quindi, non consegue la necessità di innescare un nuovo iter procedimentale, come assume l’appellante, inteso alla riedizione del potere sanzionatorio, con conseguente infondatezza del rilievo sollevato che appunto postula tale (insussistente) necessità.
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L'ingiunzione di demolizione di un manufatto abusivo, emessa successivamente all'adozione di un diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto vincolato e meramente conseguenziale nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario.
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Non sussiste la pretermissione del diaframma dialogico costituito dall’avviso di avvio procedimentale ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 nell’ambito del procedimento che ha condotto all’emissione del diniego di sanatoria trattandosi di un procedimento ad istanza di parte.
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8.2. Infondato è anche il secondo motivo d’appello, col quale l’appellante lamenta la mancata riattivazione del procedimento sanzionatorio dopo il diniego di sanatoria.
La critica non può essere condivisa in quanto il Tar, nel disattendere tale deduzione, ha opportunamente richiamato l’orientamento giurisprudenziale, coltivato anche da questo Consiglio, secondo cui “La presentazione della domanda di accertamento di conformità, ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque, non determina l'inefficacia sopravvenuta dell'ingiunzione di demolizione emessa” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3417).
Si afferma più precisamente che la presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l’improcedibilità, per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tutt’al più, un arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della domanda di sanatoria. Infatti, se si sostenesse che l'amministrazione, nell'ipotesi in cui debba operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di accertamento di conformità, avesse l'obbligo di riadottare l'ordinanza di demolizione, ciò equivarrebbe a riconoscere in capo a un soggetto privato, destinatario di un provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare, attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo provvedimento (Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2018, n. 1171).
Dal diniego di sanatoria, quindi, non consegue la necessità di innescare un nuovo iter procedimentale, come assume l’appellante, inteso alla riedizione del potere sanzionatorio, con conseguente infondatezza del rilievo sollevato che appunto postula tale (insussistente) necessità.
8.2.1. Né ricorre la dedotta violazione dell’art. 7 della legge 241 del 1990, in quanto, come da orientamento di questo Consiglio, “L'ingiunzione di demolizione di un manufatto abusivo, emessa successivamente all'adozione di un diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto vincolato e meramente conseguenziale nell'ambito di un procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario” (Cons. Stato sez. IV, 12.03.2013, n. 1480).
8.3. Infondato è, infine, il terzo motivo di gravame, col quale si lamenta la pretermissione del diaframma dialogico costituito dall’avviso di avvio procedimentale ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 anche nell’ambito del procedimento che ha condotto all’emissione del diniego di sanatoria trattandosi di un procedimento ad istanza di parte.
Ad opinare diversamente, infatti, “l'avviso dell'avvio sarebbe una mera duplicazione di attività” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.09.2003, n. 5034) e comunque il rilascio dell’accertamento di conformità urbanistica, richiedendo solo la verifica delle possibili ragioni di contrasto con la relativa disciplina, non implica l’espletamento di apprezzamenti di natura discrezionale che possano giovarsi del contributo partecipativo dell’interessato.
9. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 31.08.2018 n. 5123 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Laboratorio di panificazione - Svolgimento di attività rumorosa - Condotta idonea ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone - Mancata redazione della valutazione di impatto acustico (c.d. VIAC) - Natura di reato di pericolo - Art. 659, commi 1 e 2 cod. pen. (capo A), art. 674 cod. pen. (capo B), art. 279 d.lgs. n. 152/2005.
In tema di immissioni, non può ritenersi escluso il disturbo della quiete pubblica, nel caso di immobile condominiale, nel caso in cui abbia interessato esclusivamente gli abitanti sovrastanti il laboratorio di panificazione.
Ritenuta pacifica la natura di reato di pericolo della contravvenzione prevista dall'articolo 659 cod. pen., tanto che la violazione può configurarsi anche in assenza di offesa a soggetti determinati, quando venga posta in essere una condotta idonea ad arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone
(cfr. Sez. 1, n. 7748, del 28/02/2012; Sez. 1 n. 44905, del 02/12/2011; Sez. 1, n. 246, del 07/01/2008; Sez. 1, n. 40393, del 14/10/2004; Sez. 3, n. 27366, del 06/07/2001); è parimenti pacifico, che l'accertamento del disturbo è questione di fatto che sorretta da congrua motivazione non è sindacabile in cassazione.

INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività o mestieri rumorosi - Disturbo dell'occupazione e del riposo delle persone - Ambito di operatività dell'art. 659 cod. pen. - Violazione di disposizioni di legge o prescrizioni dell'autorità - Superamento dei limiti di emissione fissati - Effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone - Accertamento di fatto - Competenza del giudice di merito.
L'ambito di operatività dell'art. 659 cod. pen., con riferimento ad attività o mestieri rumorosi, deve essere individuato nel senso che, qualora si verifichi esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione fissati secondo i criteri di cui alla legge 447/1995, mediante impiego o esercizio delle sorgenti individuate dalla legge medesima, si configura il solo illecito amministrativo di cui all'art. 10, comma 2 della legge quadro; quando, invece, la condotta si sia concretata nella violazione di disposizioni di legge o prescrizioni dell'autorità che regolano l'esercizio del mestiere o dell'attività, sarà applicabile la contravvenzione sanzionata dall'art. 659, comma 2 cod. pen., mentre, nel caso in cui l'attività ed il mestiere vengano svolti eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete, sarà configurabile la violazione sanzionata dall'art. 659, comma 1 cod. pen., indipendentemente dalla fonte sonora dalla quale i rumori provengono, quindi anche nel caso in cui l'abuso si concretizzi in un uso smodato dei mezzi tipici di esercizio della professione o del mestiere rumoroso (da ultimo Sez. 3, n. 25424 del 05/06/2015 (dep. 20/06/2016), Pastore).
In tale ambito si è poi precisato che l'effettiva idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero indeterminato di persone costituisce un accertamento di fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il quale non è tenuto a basarsi esclusivamente sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete (Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montali)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 30.08.2018 n. 39261 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La demolizione viene ingiunta al proprietario ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 non in forza di una sua responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell'illecito edilizio, bensì in ragione del suo rapporto giuridico con la res.
In particolare, la sanzione demolitoria degli abusi edilizi ha natura oggettiva e ripristinatoria. Essa colpisce il bene abusivo, indipendentemente da chi abbia commesso l'abuso e, dunque, il proprietario ne subisce gli effetti indipendentemente dal suo ruolo di responsabile effettivo. Così, ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell'ordine di demolizione, l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001, nell'individuare i soggetti destinatari delle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell'abuso, considera quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Le questioni relative al rapporto tra proprietario e detentore/occupante del bene (e in generale l’effettivo responsabile dell’abuso) non rilevano ai fini dell’applicazione della sanzione demolitoria; mentre i profili relativi alle eventuali difficoltà nell’eseguire la demolizione, da parte del proprietario, e alla possibile successiva acquisizione coattiva del bene, attengono alla fase successiva della procedura sanzionatoria e non attengono alla legittimità del provvedimento demolitorio in sé considerato.

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Il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato, non deve infatti necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia.
Detto provvedimento, i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione, è infatti distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate.
Né al riguardo valgono, ad avviso del Collegio, gli argomenti diretti a valorizzare le valutazioni di convenienza del privato, in quanto l’interesse alla reintegrazione dell’assetto territoriale è immanente all’ordinamento e prevale su considerazioni economiche o di convenienza, ove le stesse non siano recepite dal legislatore.
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In linea generale, l'ordine di demolizione costituisce provvedimento che non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, ed i cui presupposti sono costituti unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo.
Invero, <<L'adozione di provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non deve essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime. La violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce una ragione idonea a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato); né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, ciò in quanto, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione>>.
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Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino.
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1. La società ricorrente impugna l'ordinanza prot. n. 1954 n. 9/2017 del 01.02.2017 del Comune di Rignano Flaminio avente ad oggetto la demolizione opere edilizie abusive ai sensi dell’art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, unitamente al presupposto verbale di sopralluogo della Polizia Locale.
Le opere in questione riguardano una unità immobiliare collocata nell'immobile censito nel N.C.E.U. al Foglio 4, Particella 1014, Subalterno 568, edificato sul terreno in Catasto al Foglio 4, Particella 1014 (edificio B) e situato in Zona B di P.R.G., in area non vincolata paesaggisticamente.
Esse hanno comportato il mutamento della destinazione d'uso a soffitta-lavatoio-stenditoio, risultante dagli elaborati progettuali dei Permessi di Costruire, in destinazione residenziale, a seguito di un insieme sistematico di opere accessorie realizzate per rendere i vari ambienti dell'unità immobiliare adatti ad un uso abitativo, le quali sono così descritte:
   - Installazione di un termosifone e fornitura del gas nel vano denominato "soffitta C 1" adibito a cucina con gli appositi arredi.
   - Installazione di due termosifoni, realizzazione di una presa TV e telefono nonché di prese della corrente nel vano principale denominato "soffitta C" ora adibito a soggiorno.
   - Installazione di un termosifone, realizzazione di una presa TV nonché di prese della corrente, nel vano denominato "Soffitta C2" ora adibito a camera da letto matrimoniale con armadio.
   - Installazione di un termosifone, realizzazione di un wc, doccia e prese della corrente nel vano denominato “lavatoio” ora adibito a bagno.
   - Realizzazione di una presa TV e della corrente nello stenditoio scoperto lato sud.
   - Realizzazione di un vano caldaia nello stenditoio scoperto lato est.
...
4. Con il primo mezzo di impugnazione la ricorrente lamenta il fatto che, mentre nella comunicazione di avvio del procedimento –effettuata nei confronti della sola signora Sp., i contestati abusi sono stati imputati a due soggetti, ossia alla Soc. To. S.r.l. in qualità di proprietaria e alla medesima signora Sp. in qualità di occupante- residente nell’immobile, di cui ha l’esclusiva disponibilità, l'ordinanza di demolizione impugnata è stata invece indirizzata e notificata esclusivamente alla società ricorrente.
A prescindere dai profili relativi alla posizione dell’attuale occupante (le cui vicende sono oggetto di contenzioso in sede civile), la ricorrente afferma che il destinatario dell’ordine di demolizione è anzitutto il responsabile dell’abuso, figura riferibile -secondo la giurisprudenza- non solo all’autore materiale dell’opera, bensì a colui che ha la materia disponibilità della stessa e quale detentore è in grado di provvedere alla demolizione; il che rileva anche in vista della futura acquisizione gratuita, che finirebbe col sanzionare ingiustamente il proprietario.
4.1 Il motivo è infondato.
La demolizione viene ingiunta al proprietario ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 non in forza di una sua responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell'illecito edilizio, bensì in ragione del suo rapporto giuridico con la res (TAR Campania-Napoli, sez. II, 09.03.2018, n. 1501).
In particolare, la sanzione demolitoria degli abusi edilizi ha natura oggettiva e ripristinatoria. Essa colpisce il bene abusivo, indipendentemente da chi abbia commesso l'abuso e, dunque, il proprietario ne subisce gli effetti indipendentemente dal suo ruolo di responsabile effettivo. Così, ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell'ordine di demolizione, l'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001, nell'individuare i soggetti destinatari delle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell'abuso, considera quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta (TAR Lazio, sez. II-bis, 01.12.2017, n. 11903; Consiglio di Stato, sez. VI 30.06.2017, n. 32109).
Le questioni relative al rapporto tra proprietario e detentore/occupante del bene (e in generale l’effettivo responsabile dell’abuso) non rilevano ai fini dell’applicazione della sanzione demolitoria; mentre i profili relativi alle eventuali difficoltà nell’eseguire la demolizione, da parte del proprietario, e alla possibile successiva acquisizione coattiva del bene, attengono alla fase successiva della procedura sanzionatoria e non attengono alla legittimità del provvedimento demolitorio in sé considerato.
5. Con il secondo mezzo di impugnazione, la ricorrente lamenta la mancanza dell’indicazione preventiva dell’area che verrà acquisita di diritto: ciò comporta l’incertezza delle conseguenze della propria condotta (avuto riguardo, in particolare, al fatto che le opere abusive si collocano all’ultimo piano dell’edificio condominiale), anche con riferimento, richiamato da una parte della giurisprudenza, alla possibilità di valutare l’opportunità di adempiere, in termini di “costo-beneficio”, all’ordine demolitorio; nonché al rispetto dei limiti dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal legislatore.
5.1 Il motivo è infondato.
Il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel termine fissato, non deve infatti necessariamente contenere l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia. Detto provvedimento, i cui requisiti essenziali sono l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente ordine di demolizione, è infatti distinto dal successivo ed eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece, è necessario che sia puntualmente specificata la portata delle sanzioni irrogate (Consiglio di Stato, sez. VI, 06/02/2018, n. 755; TAR Lazio, sez. II-quater, 25.07.2018, n. 8411).
Né al riguardo valgono, ad avviso del Collegio, gli argomenti diretti a valorizzare le valutazioni di convenienza del privato, in quanto l’interesse alla reintegrazione dell’assetto territoriale è immanente all’ordinamento e prevale su considerazioni economiche o di convenienza, ove le stesse non siano recepite dal legislatore.
...
7. Col quarto motivo in diritto la ricorrente lamenta l’omissione della garanzia procedimentale di cui all’art. 7 della L. n. 241/1990, in quanto la comunicazione di avvio è stata effettuata solamente nei confronti dell’occupante dell’immobile.
7.1 Il motivo è infondato.
In linea generale, infatti, l'ordine di demolizione costituisce provvedimento che non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, ed i cui presupposti sono costituti unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 16/03/2018, n. 1688, secondo cui: <<L'adozione di provvedimenti repressivi degli abusi edilizi non deve essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico della consistenza delle opere realizzate e del carattere abusivo delle medesime. La violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce una ragione idonea a determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del 1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento impugnato); né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che dia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, ciò in quanto, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa” l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione>>).
Nel caso di specie, poi il fatto che la società odierna ricorrente avrebbe potuto far presente di non essere nella disponibilità del bene in pendenza di un procedimento giudiziario civile non sarebbe comunque stata circostanza rilevante, attese le considerazioni che hanno condotto il Collegio a dichiarare l’infondatezza del primo mezzo di impugnazione.
...
8. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta anzitutto il difetto di motivazione, in quanto il verbale citato nel provvedimento non è stato messo a disposizione della ricorrente: circostanza, questa, per la quale la medesima propone anche istanza incidentale di accesso ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a..
8.1 Sul punto il Collegio rileva da un lato che il provvedimento è correttamente motivato per relationem, richiamando il verbale in questione e indicando i presupposti di fatto e di diritto dell’applicazione della sanzione.
Per quanto attiene all’esibizione del verbale, va rilevata la sopravvenuta carenza di interesse in parte qua, anche sotto il profilo del diritto di accesso, in quanto il verbale è stato esibito in atti alla difesa del Comune.
8.2 Parte ricorrente si riferisce anche a uno più stringente dovere di motivazione con riferimento ai casi in cui sia trascorso un ampio lasso di tempo tra la realizzazione dell’abuso e il momento della repressione degli stessi.
8.3 A prescindere da ogni altra considerazione, il profilo di censura è infondato, alla luce della giurisprudenza nomofilattica del Consiglio di Stato (ad. plen. 17.10.2017, n. 9), secondo la quale il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino.
9. Conclusivamente il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 30.08.2018 n. 9074 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANuovi edifici, 10 anni al Comune per chiedere gli oneri extra.
Dieci anni di tempo perché il Comune possa ripensarci. E chiedere all’impresa che ha ottenuto il permesso di costruire un obolo extra, a integrazione di quanto già pagato. Ma solo in caso di erronea determinazione del contributo. Con la possibilità (teorica) di procedere anche a rimborsi, in caso di pagamenti in eccesso.

Ha detto questo, in estrema sintesi, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza 30.08.2018 n. 12, appena depositata. Un intervento sollecitato dal Consiglio di giustizia amministrativa della Regione Sicilia e diventato necessario per le molte pronunce contrastanti in materia.
La questione
Si parla di contributo di costruzione, agganciato al permesso di costruire, secondo quanto stabilisce l’articolo 16 del Dpr 380/2001 (Testo unico edilizia). Il contributo, articolato in due voci relative agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, rappresenta una «compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione».
In altre parole, l’impresa che chiede di costruire finanzia in parte le opere extra che il Comune dovrà realizzare, per effetto della presenza del nuovo edificio nel suo territorio. Questi contributi sono corrisposti sulla base di tabelle parametriche, predisposte dalle Regioni, che devono poi essere recepite dal Comune in una propria deliberazione.
Può accadere, però, che vengano commessi degli errori nella quantificazione di questo pagamento. Si discute, allora, spesso in giurisprudenza se l’amministrazione comunale abbia la possibilità di tornare sui suoi passi, entro che termini possa farlo e con quale modalità. Un’alternativa, ad esempio, è che l’atto sia annullabile soltanto in autotutela.
Un potere che, in base alle norme sul procedimento amministrativo (legge 241/1990), può essere attivato solo sulla base di alcuni presupposti. Altra ipotesi è che gli oneri siano cristallizzati «nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe suscettibile di modifiche successive». Una volta fissato il contributo, cioè, non si potrebbe tornare indietro.
La decisione
L’adunanza plenaria, invece, opta per un’impostazione che lascia molti margini di manovra ai sindaci. E spiega che la pubblica amministrazione «nel corso del rapporto concessorio, può sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo del contributo di concessione, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (articolo 2946 del codice civile) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza». In altre parole, a queste situazioni si applicano le normali regole dei rapporti tra privati.
«Certamente, il Comune -dice ancora la sentenza- ha l’obbligo di adoperarsi affinché la liquidazione del contributo di costruzione venga eseguita nel modo più corretto, sollecito, scrupoloso e preciso, sin dal principio». Qualora l’amministrazione sbagli, c’è però la possibilità di intervenire in un momento successivo.
Possibilità riservata anche al privato che, per ottenere quanto versato in più, «non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo», quindi il permesso di costruire, ma potrà, anche lui entro il termine di dieci anni, fare ricorso davanti al giudice amministrativo (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.09.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Responsabilità per contaminazione di un sito e prinicipio del più probabile che non.
Alla luce di uno stato di inquinamento latamente preesistente, quanto meno l’Amministrazione ha il dovere di farsi carico della dimostrazione –anche a livello meramente indiziario– del fatto che l’attuale operatore economico è (non già solo il “probabile” ma) il “più probabile” autore o di un aggravamento del tasso di inquinamento precedentemente rilevato o addirittura di un proprio ed autonomo inquinamento, che a quello precedente si era andato a sommare.
Il corretto ricorso al canone del “più probabile che non” presuppone o che un sedime sia stato certamente vergine (dal punto di vista dell’inquinamento) prima dell’insediamento su di esso di un’attività produttiva o, qualora il terreno fosse invece già parzialmente inquinato, che un diverso e nuovo agente inquinante si sia aggiunto (autonomamente aggravandoli) a quelli precedentemente presenti, quale conseguenza appunto della nuova attività produttiva insediatasi su un sottosuolo già compromesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 29.08.2018 n. 5076 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).

APPALTI: i) l'onere di immediata impugnativa dell'altrui ammissione alla procedura di gara senza attendere l'aggiudicazione, prevista dal comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a., è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l'impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso "al buio";
   ii)
nella materia degli appalti, l’applicabilità del principio della piena conoscenza ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, presuppone un particolare rigore nell’accertamento della sussistenza di tale requisito;
   iii)
si deve tener conto, infatti, sia della specialità della normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sia dei presupposti cui il legislatore ha ricondotto la decorrenza del termine per l’impugnazione: in base al comma 2-bis, dell’art. 120 c.p.a., infatti, il termine inizia a decorrere solo dopo la pubblicazione, ex art. 29 d.lgs. 50/2016, della determinazione sulle ammissioni/esclusioni dei concorrenti, pubblicazione che assicura la piena ed effettiva conoscenza degli atti di gara; da ciò consegue che, il principio della piena conoscenza acquisita aliunde può applicarsi solo ove vi sia una concreta prova dell’effettiva conoscenza degli atti di gara, acquisita in data anteriore alla pubblicazione o comunicazione degli atti della procedura medesima;
   iv) pertanto,
non può ritenersi sufficiente a far decorrere l’onere di impugnare il provvedimento di ammissione alla gara la mera presenza di un rappresentante della ditta alla seduta in cui viene decretata l’ammissione, in mancanza della specifica prova sulla percezione immediata ed effettiva di tutte le irregolarità che, ove sussistenti, possano aver inficiato le relative determinazioni.
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2. Confermandosi quanto già esplicitato nell’ordinanza n. 503 del 2018, il ricorso presentato della società Vu. non è tardivo come, invece, eccepito da Trenitalia e Fe., secondo le quali la società ricorrente avrebbe dovuto impugnare tempestivamente la determinazione della stazione appaltante di ammissione degli RTI odierni resistenti alla procedura, al fine di non far decorrere il termine di trenta giorni previsto per l’impugnazione delle ammissioni alle gare dall’art. 120, co. 2-bis c.p.a.
2.1. Il Collegio ribadisce che l’eccezione di irricevibilità non appare fondata posto che il citato comma 2-bis stabilisce espressamente che “il provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua pubblicazione sul profilo del committente della stazione appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice dei contratti pubblici”.
L’art. 29 d.lgs. 50/2016, pertanto, introduce un preciso onere di comunicazione a carico delle stazioni appaltanti “al fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai sensi dell' articolo 120, comma 2-bis, del codice del processo amministrativo”, per cui i provvedimenti che determinano le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni all'esito della verifica della documentazione attestante l’assenza dei motivi di esclusione di cui all’articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti, economico-finanziari e tecnico-professionali, sono pubblicati nei successivi due giorni dalla data di adozione dei relativi atti e di tale incombente, entro il medesimo termine di due giorni, viene “dato avviso ai candidati e ai concorrenti, con le modalità di cui all’articolo 5-bis del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82”.
Tale incombente è a carico della stazione appaltante anche sotto il profilo formale, posto che deve indicarsi “l’ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti”, e ciò al fine di far decorrere il termine per l’impugnativa di cui al citato articolo 120, comma 2-bis dal momento in cui gli atti di cui al secondo periodo sono resi in concreto disponibili, corredati di motivazione.
Pertanto, come pure già chiarito nell’ordinanza cautelare 501/2018 emessa in relazione al ricorso RG 1078/2018, il combinato–disposto degli artt. 29 d.lgs. 50/2016 e 120, comma 2-bis, c.p.a. è tale da escludere la tardività di un ricorso presentato oltre i suindicati termini “accelerati” in casi analoghi a quello oggetto del presente giudizio, posto che l’onere di ordinaria di diligenza nell’acquisire la documentazione da parte del soggetto interessato all’impugnazione della procedura non può prevalere sugli obblighi imposti appositamente dal legislatore in capo alla stazione appaltante, i quali, a loro volta, non possono essere considerati assolti attraverso l’espletamento di incombenze formali diverse da quelle prescritte dalla disposizione suindicata.
Vale a dire, in conclusione, che la comunicazione “ufficiale” in seduta pubblica delle imprese le cui offerte sono ammesse al prosieguo della procedura non può sortire l’effetto di surrogare tale avviso agli incombenti di cui all’art. 29 d.lgs. 50/2016., pur se avvenuta alla presenza dei rappresentanti dell’impresa che successivamente agisce in giudizio, anche in ragione del fatto che se dalla irrituale enunciazione resa in sede di seduta di gara si facesse derivare in capo alle concorrenti l’onere di accedere agli atti della procedura onde procedere alla contestazione del provvedimento di ammissione (o di esclusione), si finirebbe con l’eludere il sistema disegnato dalla norma che impone alla Stazione Appaltante di rendere disponibili, come descritto, i relativi atti.
Sul punto si veda, recentissima, la decisione n. 1902 del 27.03.2018 della III sezione del Consiglio di Stato, la quale ha, per l'appunto, ribadito che:
   i) l'onere di immediata impugnativa dell'altrui ammissione alla procedura di gara senza attendere l'aggiudicazione, prevista dal comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a., è ragionevolmente subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura, perché diversamente l'impresa sarebbe costretta a proporre un ricorso "al buio" (Cons. St., sezz. III, 26.01.2018, n. 565; id., sez. III 20.03.2018 n. 1765);
   ii) nella materia degli appalti, l’applicabilità del principio della piena conoscenza ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, presuppone un particolare rigore nell’accertamento della sussistenza di tale requisito (TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 18.01.2018 n. 394);
   iii) si deve tener conto, infatti, sia della specialità della normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sia dei presupposti cui il legislatore ha ricondotto la decorrenza del termine per l’impugnazione: in base al comma 2-bis, dell’art. 120 c.p.a., infatti, il termine inizia a decorrere solo dopo la pubblicazione, ex art. 29 d.lgs. 50/2016, della determinazione sulle ammissioni/esclusioni dei concorrenti, pubblicazione che assicura la piena ed effettiva conoscenza degli atti di gara; da ciò consegue che, il principio della piena conoscenza acquisita aliunde può applicarsi solo ove vi sia una concreta prova dell’effettiva conoscenza degli atti di gara, acquisita in data anteriore alla pubblicazione o comunicazione degli atti della procedura medesima;
   iv) pertanto, non può ritenersi sufficiente a far decorrere l’onere di impugnare il provvedimento di ammissione alla gara la mera presenza di un rappresentante della ditta alla seduta in cui viene decretata l’ammissione, in mancanza della specifica prova sulla percezione immediata ed effettiva di tutte le irregolarità che, ove sussistenti, possano aver inficiato le relative determinazioni.
2.1.1. Nel caso di specie, dal verbale della seduta di gara del 06.10.2017 si apprende solo che le imprese di cui si apriva l’offerta tecnica erano state ammesse alla gara, ma da questo non era possibile trarre alcun elemento da cui desumere eventuali motivi di esclusione di taluna delle imprese partecipanti, per cui deve ritenersi che la conoscenza acquisita dalla società ricorrente, come da altre, mediante la partecipazione alla detta seduta, non fosse idonea a far decorrere il termine d’impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 28.08.2018 n. 5292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: L'“interpretazione autentica” del bando di gara è sempre possibile nelle ipotesi in cui non è ravvisabile un conflitto tra le delucidazioni fornite dalla stazione appaltante e il tenore delle clausole chiarite, senza funzione integrativa della lex specialis e senza essere vincolante per la commissione aggiudicatrice.
Infatti, la stazione appaltante non può discostarsi dalle regole da essa stessa fissate e alle quali si è autovincolata, e nemmeno può interpretare le suddette regole in modo palesemente contrario al suo chiaro tenore testuale.
Tuttavia, può intervenire nei casi in cui il chiarimento rivesta caratteri, per così dire, di “neutralità” rispetto ai contenuti del bando e alla partecipazione alla gara, o meglio quando “è l’oggettiva incertezza della legge a far sì che la risposta della pubblica amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata dai concorrenti non costituisca un'indebita e perciò illegittima modifica delle regole di gara, ma una sorta d'interpretazione autentica con cui la stazione appaltante chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis; in effetti i chiarimenti operano a beneficio di tutti e -laddove trasparenti, tempestivi, ispirati al principio del favor partecipationis e, resi pubblici- non comportano, se giustificati da un'oggettiva incertezza della legge di gara, alcun pregiudizio per gli aspiranti offerenti, tale da rendere preferibile, a dispetto del principio di economicità, l'autoannullamento del bando e la sua ripubblicazione“.
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La ratio del raggruppamento di imprese è quella di ampliare la platea dei possibili concorrenti, consentendo ai soggetti privi dei requisiti necessari di partecipare singolarmente alla procedura competitiva oppure di accedervi in associazione con altri operatori economici, anche al fine di acquisire esperienze e elementi curriculari da poter spendere in successivi affidamenti.
Non avrebbe quindi senso limitare la partecipazione alle sole ATI i cui membri siano già in possesso singolarmente dei requisiti di capacità economica di accesso; una clausola di tal guisa, inoltre, sarebbe in contrasto col principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 83, co. 8, d.lgs. 50/2016.
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5. Con il primo motivo di ricorso la CAR ha contestato ad entrambe le prime due imprese classificate, quindi anche alla Vu., la violazione dell’art. 83 del codice dei contratti, e del punto III.1.3 del bando di gara.
La Vu. sarebbe stata priva dei requisiti di capacità professionale e tecnica richiesti dal bando di gara, con riguardo al possesso di un fatturato specifico, in quanto, secondo la ricorrente, in caso di RTI (e di Consorzio) i requisiti devono essere posseduti da tutti i componenti del raggruppamento e non possono essere frazionati in proporzione alle quote di partecipazione al raggruppamento delle imprese facenti parte dello stesso.
Ciò in quanto, base al tenore letterale del bando di gara, sarebbero frazionabili solo i requisiti di capacità economica e finanziaria (il punto III.1.2 richiede, ai fini della dimostrazione della capacità economica e finanziaria, il possesso di un fatturato medio annuo, riferito al triennio 2014-2016, non inferiore ad € 6.724.602,00, con la precisazione che “in caso di concorrenti costituiti da raggruppamenti o Consorzi, il suddetto requisito dovrà essere posseduto da ciascuna impresa componente il raggruppamento, ovvero dai consorziati, in misura proporzionale alla quota di partecipazione”) ma non i “livelli minimi” di capacità professionale e tecnica, che, a ben vedere, sono stati determinati in misura pari ad appena 1/4 dell’importo contrattuale (al punto III.1.3 si richiede, ai fini della dimostrazione della capacità professionale e tecnica, il possesso di un fatturato specifico, quale livello minimo di capacità richiesto, e in caso di partecipazione alla gara di operatori economici di cui all’art. 45, comma d, lettere d), e), f) e g) -così come pure dei Consorzi- i livelli minimi di capacità professionale e tecnica “dovranno essere posseduti da tutti i membri di detti operatori economici” ovvero “dal consorzio e da ciascuno dei consorziati per conto dei quali il consorzio partecipa alla gara.”
5.1. Il Collegio, in sede cautelare, aveva condiviso la censura articolata dalla CAR e per tale motivo aveva sospeso la gara in attesa della decisione sul merito.
In particolare, nel confermare la correttezza dell’interpretazione data dal confronto dei due paragrafi del bando (III.1.2. e III.1.3.) rispetto alla non frazionabilità dei requisiti di capacità professionale e tecnica, si era ritenuta non rilevante, ai fini di una diversa decisione in quella fase, la risposta data da Trenitalia al quesito n. 1 posto dalle imprese partecipanti, con il quale la stazione appaltante confermava che “in caso di partecipazione alla gara da parte di raggruppamenti temporanei, il requisito tecnico del fatturato medio annuo di cui all’art. III.1.3 lettera a) dovrà essere posseduto da tutti i membri del raggruppamento in misura proporzionale alla quota di partecipazione, analogamente a quanto prescritto per il requisito di capacità economica e finanziaria”.
5.2. Melius re perpensa, il Collegio attribuisce una rilevanza diversa al chiarimento fornito dalla stazione appaltante in data 25.07.2017, la quale, in risposta ad apposito quesito, aveva confermato senza indugio la possibilità di frazionare tra le partecipanti al raggruppamento, in misura proporzionale alla quota di partecipazione, anche il requisito della capacità tecnica (fatturato medio annuo).
Il chiarimento era stato reso quando il termine per la presentazione delle offerte (4 agosto) era ancora aperto, essendo stato prorogato al 07.09.2017 sin dal 28 luglio, sicché qualsiasi impresa avesse desiderato partecipare, anche in RTI, avrebbe potuto farlo tenendo conto dell’avvenuto chiarimento.
Pertanto, a differenza di quanto ritenuto ad una prima delibazione dell’affare, non può ravvisarsi violazione della par condicio posto che le modalità di pubblicazione del chiarimento (sito della stazione appaltante) erano visibili a tutte le imprese interessate alla partecipazione, e l’ampia proroga dei termini consentiva a qualsiasi potenziale concorrente di calibrare l’offerta sulla base di quanto comunicato da Trenitalia in risposta al quesito.
Tanto è che sia la Vu. che la Car hanno presentato le rispettive offerte il 04.09.2017 (cfr. atti).
5.2.1. Convince inoltre l’ulteriore riflessione, sviluppata nella memoria difensiva dell’RTI Vu. depositata in vista dell’udienza di discussione del merito, in ordine alla corretta interpretazione da dare al bando laddove dispone che in caso di partecipazione in RTI, i requisiti di capacità tecnico-professionale “dovranno essere posseduti da tutti i membri di detti operatori economici”, intendendosi con ciò che tutti i componenti di un RTI debbano essere in possesso del requisito, ma non –come sostiene la ricorrente– che tutti debbano possedere il requisito per intero, potendo lo stesso essere frazionato e, quindi, posseduto anche pro quota.
In quest’ottica, la risposta positiva fornita da Trenitalia al quesito sulla frazionabilità non potrebbe in alcun modo assumere le caratteristiche di integrazione esterna del bando (normalmente vietata come affermato da giurisprudenza costante e nota al Collegio, tra cui Cons. St., sez. V, 05.02.2018, n. 730; id., sez. V, 24.04.2017 n. 1903; id., 23.09.2015, n. 4441; id., sez. III, 26.08.2016 n. 3708; id., sez. VI, 15.12.2014, n. 6154), bensì va considerata per quella che effettivamente è, una “interpretazione autentica” del testo, sempre possibile nelle ipotesi in cui non è ravvisabile un conflitto tra le delucidazioni fornite dalla stazione appaltante e il tenore delle clausole chiarite (Cons. St., sez. IV, 14.04.2015, n. 1898), senza funzione integrativa della lex specialis e senza essere vincolante per la commissione aggiudicatrice.
Infatti, la stazione appaltante non può discostarsi dalle regole da essa stessa fissate e alle quali si è autovincolata (TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 21.11.2016, n. 11560), e nemmeno può interpretare le suddette regole in modo palesemente contrario al suo chiaro tenore testuale (TAR Lazio, sez. I-quater, 22.02.2018 n. 2058); tuttavia, può intervenire nei casi in cui il chiarimento rivesta caratteri, per così dire, di “neutralità” rispetto ai contenuti del bando e alla partecipazione alla gara, o meglio quando “è l’oggettiva incertezza della legge a far sì che la risposta della pubblica amministrazione appaltante ad una richiesta di chiarimenti avanzata dai concorrenti non costituisca un'indebita e perciò illegittima modifica delle regole di gara, ma una sorta d'interpretazione autentica con cui la stazione appaltante chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile, precisando e meglio delucidando le previsioni della lex specialis; in effetti i chiarimenti operano a beneficio di tutti e - laddove trasparenti, tempestivi, ispirati al principio del favor partecipationis e, resi pubblici - non comportano, se giustificati da un'oggettiva incertezza della legge di gara, alcun pregiudizio per gli aspiranti offerenti, tale da rendere preferibile, a dispetto del principio di economicità, l'autoannullamento del bando e la sua ripubblicazione“ (così Cons. St., sez. III 07.02.2018 n. 781).
Questo è quanto avvenuto nel caso concreto, posto che l’interpretazione letterale a contrario offerta dalla ricorrente, e in un primo momento condivisa dal Collegio, ben può disattendersi laddove si dia al testo il senso che tutti i candidati debbano possedere il requisito in questione, ma non necessariamente per l’intero; il che, sotto un profilo logico, non contrasta affatto né con la ratio della costituzione di RTI/ATI, né con una possibile differenza tra requisiti di partecipazione tecnici ed economici in termini di frazionabilità delle quote possedute da ciascun associato, così come ritenuto da Trenitalia.
5.2.2. D’altro canto, la ratio del raggruppamento di imprese è quella di ampliare la platea dei possibili concorrenti, consentendo ai soggetti privi dei requisiti necessari di partecipare singolarmente alla procedura competitiva oppure di accedervi in associazione con altri operatori economici, anche al fine di acquisire esperienze e elementi curriculari da poter spendere in successivi affidamenti.
Non avrebbe quindi senso limitare la partecipazione alle sole ATI i cui membri siano già in possesso singolarmente dei requisiti di capacità economica di accesso; una clausola di tal guisa, inoltre, sarebbe in contrasto col principio di tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 83, co. 8, d.lgs. 50/2016.
Discorso diverso deve essere fatto, invece, per gli altri elementi previsti dall’art. III.1.3 del bando che riguardano il possesso di certificazioni di qualità, ambientali e tecniche che per la loro stessa natura non sono frazionabili e che, comunque, riguardano determinate abilitazioni e certificazioni di cui, ovviamente, devono essere in possesso tutti i partecipanti.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, la censura va disattesa (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 28.08.2018 n. 5292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Se l’avvalimento consiste nella messa a disposizione di mezzi finanziari, infatti, esso costituisce comunque un avvalimento di garanzia, nel quale la prestazione oggetto specifico dell'obbligazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell'impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire con le proprie complessive risorse economiche, il cui indice è costituito dal fatturato, l’impresa ausiliata munendola, così, di un requisito che altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal bando.
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La giurisprudenza recente qualifica come “impegno contrattuale a prestare ed a mettere a disposizione dell'ausiliata la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio esperienziale della prima, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità; l'impresa ausiliaria, per effetto del contratto di avvalimento, deve quindi diventare, di fatto, un garante dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario, poiché solo in caso di avvalimento c.d. tecnico o operativo (che quindi abbia ad oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste l'esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di determinate risorse.
Tuttavia tale impegno a diventare un garante dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario non può risultare nel contratto in modo generico e quale semplice formula di stile, ma deve essere in qualche modo determinato o, quantomeno, determinabile, poiché l'impegno contrattualmente assunto dall'ausiliaria deve ritenersi completo, concreto, serio e determinato, nella misura in cui attesta la messa a disposizione del fatturato e delle risorse eventualmente necessarie e contenga un vincolante impegno finanziario nei confronti della stazione appaltante, non risultando invece necessari “la quantificazione ed il trasferimento delle risorse finanziarie oggetto del predetto impegno finanziario, anche considerato che quest'ultimo appare del tutto imprevedibile nel contenuto al momento della sottoscrizione del contratto di avvalimento”
(così Cons. St., sez. III, 05.03.2018 n. 1339, ma vedi, dettagliatamente, sez. V, 14.02.2018 n. 953, la quale ha chiaramente enunciato la differenza che corre tra i due tipi di avvalimento e i contenuti dei rispettivi contratti:
   i)
l’avvalimento di garanzia ricorre nel caso in cui l’ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata la sua solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di inadempimento; è tale l’avvalimento che ha ad oggetto i requisiti di carattere economico–finanziario e, in particolare, il fatturato globale o specifico;
   ii)
l’avvalimento operativo ricorre invece quando l’ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto. È tale l’avvalimento che ha ad oggetto i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione di personale dell’ausiliaria;
   iii)
nell’avvalimento di garanzia non è necessario che nel contratto siano specificatamente indicati i beni patrimoniali o gli indici materiali della consistenza patrimoniale dell’ausiliaria, essendo sufficiente che essa si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio di esperienza;
   iv)
nell’avvalimento operativo è imposto alle parti di indicare nel contratto i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto con la precisazione per cui “l’articolo 88 del d.P.R. 207 del 2010, per la parte in cui prescrive che il contratto di avvalimento debba riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente […] le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico, non legittim[a] né un’interpretazione volta a sancire la nullità del contratto a fronte di un oggetto che sia stato esplicitato in modo (non determinato, ma solo) determinabile, né un’interpretazione volta a riguardare l’invalidità del contratto connessa alle modalità di esplicitazione dell’oggetto sulla base del c.d. “requisito della forma-contenuto”.
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L’invalidità di un contratto di avvalimento andrà individuata, secondo l'ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1325 e 1346 c.c., soltanto nelle ipotesi in cui l'oggetto del contratto non risulti determinato, né determinabile.
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6. Anche il secondo motivo di ricorso non è fondato.
La CAR contesta alla Vu.Ta. la violazione dell’art. 89 d.lgs. 50/2016 nell’ambito dell’avvalimento “interno” posto in essere con la società mandante Me., una prima volta in qualità di ausiliaria (la Vu. ha fornito ausilio sul fatturato specifico relativo ai lavori di smontaggio e montaggio arredi, per un importo medio annuo di € 265,000,00, e sul fatturato specifico relativo alle attività di carpenteria cassa per un importo medio annuo di € 80.000,00), una seconda volta in qualità di ausiliata (con separato contratto la Me. s.r.l., quale ausiliaria, ha messo a disposizione della Vu. il fatturato specifico relativo alle attività di verniciatura arredi e pellicolatura, per un importo medio annuo di € 700.000,00).
Secondo la ricorrente, questo tipo di avvalimento riguarderebbe i requisiti di capacità tecnica e professionale e sarebbe nullo in quanto non sarebbero state messe a disposizione risorse materiali, ma solo finanziarie: il che sarebbe legittimo in caso del cd. “avvalimento di garanzia” (ovvero quando l’avvalimento riguardi il fatturato, globale o specifico, inteso quale requisito di capacità economica e finanziaria) ma non nel caso di ausilio per i requisiti tecnici e professionali.
6.1. La censura è priva di pregio e muove dall’erroneo presupposto che, nel caso di specie, il requisito in parola riguardi la capacità tecnico-professionale e non quella economico-finanziaria. Infatti, se pure l’indicazione è contenuta nel già citato punto III.1.3) del bando (“Capacità professionale e tecnica”), esso mette in diretta correlazione capacità e fatturato.
In particolare, tra i “livelli minimi di capacità richiesti”, oltre a tutta una serie di certificazioni, al punto a) si richiede un “fatturato medio annuo, realizzato nel triennio 2014-2016, riferito ad attività analoghe a quelle oggetto della gara svolte su mezzi destinati al trasporto viaggiatori, non inferiore al seguente importo: € 3.362.301,00 (al netto dell’IVA) suddiviso come segue: - Smontaggio e montaggio arredi: nella misura pari al 52,50%, equivalente a € 1.765.208,00; - Verniciatura arredi e pellicolatura cassa: nella misura pari al 52%, equivalente a € 1.075.956,52; - Carpenteria cassa: nella misura pari al 15,50%, equivalente a € 521.156,68;”, con la precisazione che in caso di partecipazione alla gara da parte di RTI, detti requisiti dovranno essere posseduti da tutti i membri di detti operatori economici.
Ne discende che è legittimo e validamente prestato l’avvalimento interno e reciproco, per cui la Me. s.r.l. si è obbligata a fornire all'impresa ausiliata Vu. l’integrazione al fatturato specifico medio annuo di impresa conseguito nel triennio 2014-2016 per le attività di “verniciatura arredi e pellicolatura cassa”, e, viceversa, la Vu. ha integrato il fatturato della Me., per il medesimo triennio, per le attività di “smontaggio e montaggio arredi” nonché di “carpenteria cassa”. Il tutto proporzionato a quanto previsto in base alle rispettive quote di partecipazione al Raggruppamento (85% per Vu., 15% per Me.) e come dettagliatamente illustrato dalla difesa di parte (cfr. docc. 15 e 16 prod. Vu.).
Infatti, l’assunzione dell’obbligo di messa a disposizione del fatturato specifico mancante in relazione alle singole attività è più che sufficiente per considerare rispettata la previsione del bando, e quindi non coglie nel segno la censura di parte ricorrente la quale ha affermato che, nel caso di specie, il prestito del fatturato specifico richieda anche la elencazione, all’interno del contratto di avvalimento, di tutti i mezzi aziendali offerti dalla ditta ausiliaria a sostegno del prestito del requisito.
Se l’avvalimento consiste nella messa a disposizione di mezzi finanziari, infatti, esso costituisce comunque un avvalimento di garanzia, nel quale la prestazione oggetto specifico dell'obbligazione è costituita non già dalla messa a disposizione da parte dell'impresa ausiliaria di strutture organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a garantire con le proprie complessive risorse economiche, il cui indice è costituito dal fatturato, l’impresa ausiliata munendola, così, di un requisito che altrimenti non avrebbe e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle condizioni poste dal bando (Cons. St., sez. V, 15.03.2016, n. 1032).
È evidente che la serietà dell’impegno non può essere messa in discussione in quanto ciò emerge dal rispettivo duplice impegno assunto dalle imprese in questione (che non solo hanno sottoscritto reciproci contratti di avvalimento, ma sono anche legate dall’accordo interno al raggruppamento).
Emerge con chiarezza, in sintesi, quella che la giurisprudenza recente qualifica come “
impegno contrattuale a prestare ed a mettere a disposizione dell'ausiliata la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio esperienziale della prima, così garantendo una determinata affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità; l'impresa ausiliaria, per effetto del contratto di avvalimento, deve quindi diventare, di fatto, un garante dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario, poiché solo in caso di avvalimento c.d. tecnico o operativo (che quindi abbia ad oggetto requisiti diversi rispetto a quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste l'esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di determinate risorse; tuttavia tale impegno a diventare un garante dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario non può risultare nel contratto in modo generico e quale semplice formula di stile, ma deve essere in qualche modo determinato o, quantomeno, determinabile, poiché l'impegno contrattualmente assunto dall'ausiliaria deve ritenersi completo, concreto, serio e determinato, nella misura in cui attesta la messa a disposizione del fatturato e delle risorse eventualmente necessarie e contenga un vincolante impegno finanziario nei confronti della stazione appaltante, non risultando invece necessari “la quantificazione ed il trasferimento delle risorse finanziarie oggetto del predetto impegno finanziario, anche considerato che quest'ultimo appare del tutto imprevedibile nel contenuto al momento della sottoscrizione del contratto di avvalimento” (così Cons. St., sez. III, 05.03.2018 n. 1339, ma vedi, dettagliatamente, sez. V, 14.02.2018 n. 953, la quale ha chiaramente enunciato la differenza che corre tra i due tipi di avvalimento e i contenuti dei rispettivi contratti:
   i) l’avvalimento di garanzia ricorre nel caso in cui l’ausiliaria mette a disposizione dell’ausiliata la sua solidità economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di inadempimento (Cons. St., sez. III, 07.07.2015 n. 3390; id., 07.06.2014 n. 3057); è tale l’avvalimento che ha ad oggetto i requisiti di carattere economico–finanziario e, in particolare, il fatturato globale o specifico;
   ii) l’avvalimento operativo ricorre invece quando l’ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del contratto di appalto. È tale l’avvalimento che ha ad oggetto i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i quali, ad esempio, la dotazione di personale dell’ausiliaria;
   iii) nell’avvalimento di garanzia non è necessario che nel contratto siano specificatamente indicati i beni patrimoniali o gli indici materiali della consistenza patrimoniale dell’ausiliaria, essendo sufficiente che essa si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata la sua complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio di esperienza (cfr. con specifico riguardo al requisito del fatturato globale o specifico, Cons. St., sez. V, 30.10.2017, n. 4973; id., sez. III, 11.07.2017, n. 3422; id., sez. V, 22.12.2016, n. 5423; id., sez. III, 17.11.2015, n. 5703 e 04.11.2015, nn. 5038 e 5041);
   iv) nell’avvalimento operativo è imposto alle parti di indicare nel contratto i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata per eseguire l’appalto con la precisazione, di cui a Cons. Stato, Ad. plen., 04.11.2016, n. 23, per cui “l’articolo 88 del d.P.R. 207 del 2010, per la parte in cui prescrive che il contratto di avvalimento debba riportare in modo compiuto, esplicito ed esauriente […] le risorse e i mezzi prestati in modo determinato e specifico, non legittim[a] né un’interpretazione volta a sancire la nullità del contratto a fronte di un oggetto che sia stato esplicitato in modo (non determinato, ma solo) determinabile, né un’interpretazione volta a riguardare l’invalidità del contratto connessa alle modalità di esplicitazione dell’oggetto sulla base del c.d. “requisito della forma-contenuto
”.
6.1.1. I suddetti principi valgono anche con riferimento a quanto richiesto dal punto III.1.3. del bando, in quanto i livelli minimi di capacità risultano attestati dal possesso del relativo fatturato senza che sia necessario indicare i mezzi mediante i quali tale fatturato si è realizzato, e questo conformemente ai principi sopra enunciati sull’avvalimento di garanzia.
6.1.2. Va altresì ribadito che l’Adunanza plenaria 23 del 2016 ha ritenuto che l’invalidità di un contratto di avvalimento andrà individuata, secondo l'ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1325 e 1346 c.c., soltanto nelle ipotesi in cui l'oggetto del contratto non risulti determinato, né determinabile.
Il Consiglio di Stato ha quindi fornito una interpretazione rispettosa dei principi di concorrenza e non formalista, confermando il ruolo dell’avvalimento ai fini della massima partecipazione delle imprese alle gare indette dalle amministrazioni, e evidenziando che l’interpretazione del contratto deve tener conto del caso concreto e della peculiarità e degli interessi che lo caratterizzano
Pertanto, fermo restando che, come detto, la questione della determinabilità dell’oggetto del contratto riguarda per lo più il cd. avvalimento operativo e non quello di garanzia, va comunque evidenziato che nel caso di specie è perfettamente delineato nei contenuti il doppio avvalimento interno al raggruppamento in cui l’ausiliaria (Vu.Ta. s.r.l. in un caso, e Me. s.r.l. nell’altro) esegue direttamente, secondo le quote di partecipazione all’RTI, le attività per le quali è richiesta la capacità ex art. III.1.3.) lett. a) del bando (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 28.08.2018 n. 5292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Dies a quo per impugnare le esclusioni dalla gara - Soccorso istruttorio in caso omesso deposito di una valida cauzione provvisoria.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super accelerato – Impugnazione di ammissioni e esclusioni – Dies a quo – Individuazione.
  
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso istruttorio - Valida cauzione provvisoria – Deposito - Omissione – Esclusione dalla gara – Obbligo di soccorso istruttorio – Non sussiste.
  
Nella materia degli appalti, l’applicabilità del principio della piena conoscenza ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, presuppone un particolare rigore nell’accertamento della sussistenza di tale requisito; si deve tener conto, infatti, sia della specialità della normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sia dei presupposti cui il legislatore ha ricondotto la decorrenza del termine per l’impugnazione: in base al comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., infatti, il termine inizia a decorrere solo dopo la pubblicazione, ex art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, della determinazione sulle ammissioni/esclusioni dei concorrenti, pubblicazione che assicura la piena ed effettiva conoscenza degli atti di gara; da ciò consegue che il principio della piena conoscenza acquisita aliunde può applicarsi solo ove vi sia una concreta prova dell’effettiva conoscenza degli atti di gara, acquisita in data anteriore alla pubblicazione o comunicazione degli atti della procedura medesima (1).
  
Non può essere attivato il soccorso istruttorio in caso di omesso deposito di una valida cauzione provvisoria, e ciò in quanto la cauzione provvisoria non costituisce elemento formale della domanda ma correda e completa l’offerta, stante il chiaro disposto dell’art. 93, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 che al comma 1, stabilisce che “l'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata garanzia provvisoria” (2).
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   (1) Tar Napoli, sez. VIII, 18.01.2018, n. 394.
Ha chiarito il Tar che l’onere di ordinaria di diligenza nell’acquisire la documentazione da parte del soggetto interessato all’impugnazione della procedura non può prevalere sugli obblighi imposti appositamente dal legislatore in capo alla stazione appaltante. Vale a dire, in conclusione, che la comunicazione “ufficiale” in seduta pubblica delle imprese le cui offerte sono ammesse al prosieguo della procedura non può sortire l’effetto di surrogare tale avviso agli incombenti di cui all’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 pur se avvenuta alla presenza dei rappresentanti dell’impresa che successivamente agisce in giudizio, anche in ragione del fatto che se dalla irrituale enunciazione resa in sede di seduta di gara si facesse derivare in capo alle concorrenti l’onere di accedere agli atti della procedura onde procedere alla contestazione del provvedimento di ammissione (o di esclusione), si finirebbe con l’eludere il sistema disegnato dalla norma che impone alla Stazione appaltante di rendere disponibili, come descritto, i relativi atti.
   (2) Ha precisato il Tar che l’integrazione a mezzo di soccorso istruttorio sarebbe potuta avvenire solo prima dell’esame definitivo delle offerte e solo su irregolarità formali attinenti la cauzione provvisoria e il documento comprovante la stessa, ma certamente non consentendosi la produzione successiva e a gara aggiudicata di una nuova cauzione provvisoria una volta appurato da parte della stazione appaltante che la precedente cauzione integrava un’ipotesi di irregolarità “essenziale”.
In sintesi, non può utilizzarsi il soccorso istruttorio, sia contestuale che postumo, per consentire la produzione tardiva di un requisito sostanziale (o richiesto a corredo/garanzia dell’offerta) inesistente al momento di deposito dell’offerta presso la stazione appaltante (Cons. St., sez. V, 27.12.2017, n. 6078; id. 11.12.2017, n. 5826).
Un significativo ausilio interpretativo all’istituto nella sua nuova versione successiva all’aggiornamento delle Direttive europee è dato dalla sentenza della Corte giustizia comm. UE, sez. VIII, 28.02.2018, n. 523, la quale, nell’evidenziare che il soccorso istruttorio di cui all’art. 51 della direttiva 2004/18 si limita a prevedere la semplice possibilità, per l'amministrazione aggiudicatrice, di invitare coloro che presentano un'offerta nell'ambito di una procedura di gara d'appalto a integrare o a chiarire la documentazione da fornire in sede di valutazione delle condizioni di ricevibilità della loro offerta, che dimostri la loro capacità economica e finanziaria e le loro conoscenze o capacità professionali e tecniche, e nel precisare che la Direttiva non specifica le modalità o le condizioni in base alle quali una siffatta regolarizzazione può avvenire, al pt. 48 sancisce che “quando si avvalgono della facoltà prevista all'art. 51 della direttiva 2004/18, gli Stati membri devono fare in modo di non compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da tale direttiva e di non pregiudicare né l'effetto utile delle sue disposizioni né le altre disposizioni e gli altri principi pertinenti del diritto dell'Unione, in particolare i principi di parità di trattamento e di non discriminazione, di trasparenza e di proporzionalità”.
Il meccanismo del soccorso istruttorio infatti non può essere interpretato nel senso di consentire all'Amministrazione aggiudicatrice di ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni della legge di gara, devono portare all'esclusione dell'offerente, dovendo l'Amministrazione aggiudicatrice osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati (v. in tal senso: Corte giustizia comm. UE 06.11.2014, in C-42/13, Cartiera dell'Adda; id. 10.11.2016, in C-199/15 Ciclat, C-199/15; id. 10.10.2013, in C-336/12, Manova; id. 11.05.2017, in C-131/16, Archus e Gama), né può agevolare un solo concorrente il quale presenta così una nuova offerta (Corte giustizia comm. UE 29.03.2012, SAG ELV Slovensko e a., C-599/10, pt. 40; id., 11.05.2017, C-131/16, Archus e Gama, punto 31).”
Inoltre, rileva la Corte, “conformemente al principio di proporzionalità, che costituisce un principio generale del diritto dell'Unione e cui l'aggiudicazione di appalti conclusi negli Stati membri deve conformarsi, come risulta sia dal considerando 9 della direttiva 2004/17 sia dal considerando 2 della direttiva 2004/18, le misure adottate dagli Stati membri non devono andare al di là di quanto è necessario per raggiungere tale obiettivo (v., in tal senso, sentenze del 16.12.2008, Michaniki, C-213/07, pt. 48 e 61; id. 19.05.2009, C-538/07, Assitur, pt. 21 e 23; id. 23.12.2009, C-376/08, Serrantonie Consorzio stabile edili, pt. 33, nonché 22 ottobre 2015, Impresa Edilux e SICEF, C-425/14, punto 29)” (
TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 28.08.2018 n. 5292 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3.3. Venendo al merito della questione, la produzione della nuova fideiussione supera le varie deduzioni delle parti in ordine alla valutazione della cauzione garantita dalla Ma.: è direttamente la stazione appaltante che, avviando una procedura di soccorso istruttorio in data successiva all’ordinanza cautelare, ha espressamente ammesso l’esistenza di “un’irregolarità essenziale” relativamente alla cauzione prodotta dalla Fe.e costituita dalla Ma.Fi.Ca., chiedendone la sostituzione e con ciò confermando la correttezza della delibazione del collegio che in sede cautelare aveva escluso che l’offerta della Fe. fosse validamente munita di cauzione provvisoria come richiesto dal bando.
Parimenti, la Fe., procurandosi una nuova e diversa garanzia a firma di un diverso intermediario, ha nei fatti rinunciato a insistere nelle tesi difensive in favore della legittimità della cauzione provvisoria originariamente prodotta in giudizio.
3.4. Deve quindi passarsi ad esaminare la diversa questione dell’ammissibilità della nuova fideiussione prestata da Fi. per Fe., a seguito dell’avvio d’ufficio della menzionata procedura di soccorso istruttorio da parte di Trenitalia in data 26.04.2018 (doc. 1 Trenitalia produzione del 02.05.2018).
La nota in questione, successiva alla pubblicazione dell’ordinanza cautelare di questa Sezione (che, di fatto, ha sospeso l’aggiudicazione in attesa della decisione definitiva), ha ritenuto necessaria, al fine di sanare l’irregolarità essenziale costituita dalla cauzione provvisoria presentata a mezzo polizza rilasciata dalla Ma.Fi.Ca., la produzione di “una nuova cauzione, di pari importo in sostituzione della precedente, da costituire in una delle forme previste al paragrafo III.1.6 lettera a) del Bando di Gara e quindi: all’atto della presentazione dell’offerta, da parte di tutti i concorrenti, con validità per almeno 180 giorni dalla data di scadenza del termine fissato per la presentazione dell’offerta, costituita, alternativamente o mediante versamento in contanti presso Unicredit S.p.A. [….]" oppure “mediante fideiussione a prima domanda – bancaria o assicurativa o rilasciata da un intermediario iscritto nell’elenco speciale di cui all’articolo 106 del decreto legislativo 01.09.1993, n. 385, abilitato a prestare garanzie nei confronti del pubblico, ai sensi del DM n. 53/2015, che svolge in via esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie [….]“.
Ciò, come detto, è avvenuto attraverso il deposito della nuova polizza rilasciata da Fi. in favore del RTI Fe., ed è stato oggetto di puntuale contestazione da parte della ricorrente nelle memorie difensive e repliche depositate in vista dell’udienza del 23.05.2018.
3.4.1. Il Collegio ritiene, in primo luogo, che la (nuova) cauzione provvisoria costituita dalla polizza Fi. non sia valida, in quanto allegata all’offerta all’esito di una procedura di soccorso istruttorio illegittima, che Trenitalia non avrebbe in alcun modo potuto attivare.
L’art. 83, co. 9, del d.lgs. 50/2016, infatti, autorizza l’espletamento della procedura di soccorso istruttorio per sanare le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda, ma non contempla l’ipotesi di integrazione delle offerte o degli elementi a corredo delle stesse, come lo è la cauzione provvisoria.
A conferma della relazione esistente tra soccorso istruttorio e forma della domanda, l’ultimo periodo della medesima disposizione qualifica come irregolarità essenziali non sanabili le “carenze della documentazione” che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa.
Per contro, la cauzione provvisoria non costituisce elemento formale della domanda ma essa correda e completa l’offerta, stante il chiaro disposto dell’art. 93 d.lgs. 50/2016 che al comma 1, stabilisce: “l'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata "garanzia provvisoria”.
Nella gara oggetto di giudizio ciò è peraltro evincibile sia dal par. III.1.6 del bando che inequivocabilmente collega la costituzione della cauzione provvisoria alla presentazione dell’offerta, che dal par. IV) del Disciplinare, che la inserisce tra la documentazione a corredo dell’offerta.
È quindi evidente che l’integrazione a mezzo di soccorso istruttorio sarebbe potuta avvenire solo prima dell’esame definitivo delle offerte e solo su irregolarità formali attinenti la cauzione provvisoria e il documento comprovante la stessa (peraltro trattandosi di gara telematica il documento per la presentazione della cauzione era allegato al Disciplinare di gara- all. D.1.), ma certamente non consentendosi la produzione successiva e a gara aggiudicata di una nuova cauzione provvisoria una volta appurato da parte della stazione appaltante, per effetto della decisione sia pur cautelare del giudice amministrativo, che la precedente cauzione integrava un’ipotesi di irregolarità “essenziale”.
A bene vedere, tale ultima qualificazione è del tutto arbitraria e pressoché irrilevante ai fini dell’attivazione della procedura di soccorso istruttorio, e questo non solo per evidenti motivi di violazione di qualsiasi forma di par condicio tra i concorrenti nella sanatoria dei vizi dell’offerta, ma anche alla luce del chiaro disposto del par. VI del Disciplinare di gara che tra i “motivi di esclusione delle offerte” prevede espressamente alla lett. i) la “mancata costituzione della cauzione provvisoria”.
Né Trenitalia può appellarsi al proprio Disciplinare di gara laddove, al par. X), prevede che “ai sensi di quanto previsto dall’art. 83, comma 9, del d.lgs. 50/2016 si comunica che nel caso in cui Trenitalia riscontri la mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni rese dal concorrente, lo stesso sarà tenuto al pagamento, in favore di Trenitalia medesima, di una sanzione pecuniaria pari a euro 5.000,00. Nel caso in cui il concorrente non provveda ad integrare e/o regolarizzare la documentazione risultata carente entro il termine indicato in sede di soccorso istruttorio Trenitalia provvederà ad escludere il concorrente dalla gara.”
Infatti, il testo del Disciplinare si discosta dal contenuto del comma 9 dell’art. 83, che menziona la carenza dei soli elementi formali della domanda, e si ispira ai contenuti del comma 2-bis dell’art. 38 del Codice dei contratti previgente (d.lgs. 163 del 2006), più permissivi in termini di ammissibilità del soccorso istruttorio anche in relazione al comma 1-ter dell’art. 46, ma ormai ampiamente superati sia dalla normativa nazionale che, prima ancora, da quella comunitaria.
3.4.1.1.
Sotto la vigenza della precedente disposizione e in relazione alle gare assoggettate al Codice del 2006, la giurisprudenza amministrativa, accanto a casi nei quali ha consentito la sanatoria delle irregolarità concernenti la cauzione provvisoria purché prestata nei termini previsti dal bando di gara (Cons. St., sez. V, 15.10.2015, n. 4764), ha altresì ammesso il soccorso istruttorio sia nei casi di mancata presentazione della cauzione provvisoria sia in quelli di presentazione di una cauzione provvisoria invalida (vedi, con riguardo a una gara del 2015, Cons. St., sez. V, 23.03.2018 n. 1846), e ha persino consentito all’aggiudicataria la sostituzione della garanzia (caso analogo a quello oggetto del presente giudizio) laddove fosse stata rilevata l'esistenza di una obiettiva situazione di incertezza al tempo della presentazione dell'offerta, accertandosi solo in un momento successivo all’aggiudicazione, e per effetto di un comunicato interpretativo dell’ANAC, l’inidoneità dell’intermediario prescelto a rilasciare garanzie nei confronti del pubblico (Cons. St., sez. V, 29.01.2018 n. 591) (in argomento, anche in relazione al rapporto tra soccorso istruttorio e principio di tassatività della cause di esclusione di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 163/2016 vedi Cons. St., sez. III, 13.11.2017, n. 5226; TAR Liguria, sez. I, 24.07.2017, n. 668).
In concreto,
i casi di soccorso istruttorio postumo, consistenti nell’attivazione, da parte della stazione appaltante, del soccorso istruttorio rispetto ai requisiti di partecipazione anche in un momento successivo all'aggiudicazione in favore della medesima impresa, sono sempre collegati a situazioni di carenza documentale, sanabile in base ai principi del Codice Appalti previgente, e comunque conformi all’allora vigente art. 46, co. 1-ter (vedi Cons. St., Sez. V, 14.07.2017 n. 3645, in un caso nel quale il soccorso istruttorio veniva attivato “per ottenere l'integrazione dell'omessa dichiarazione relativa ai procuratori in fase di prequalifica e in sede di offerta”, dichiarazione che non vi era stata in ragione dell'incertezza sui soggetti che potessero renderla, alla luce di un dibattito giurisprudenziale esistente all’epoca circa la riconducibilità dei procuratori speciali (o ad negotia) alla categoria degli “amministratori muniti dei poteri di rappresentanza”).
In particolare, può evincersi a contrario dalla giurisprudenza emessa vigente il precedente Codice dei contratti pubblici, che
il soccorso istruttorio cd. processuale era sì istituto la cui applicazione da parte delle stazioni appaltanti era auspicabile e incentivata (e questo, per Cons. St., Sez. III, 02.03.2017 n. 976, avrebbe evitato effetti eccessivamente gravosi, irragionevoli e sproporzionati sia per la P.A. che per l’impresa: quest’ultima sarebbe privata della possibilità di stipulare il contratto, pur disponendo, in via sostanziale, dei necessari requisiti, col rischio, per la stazione appaltante, di dover risarcire l’impresa aggiudicataria, privata del contratto e della possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio) ma sempre in casi di acclarata carenza documentale e comunque quando era certa l’esistenza del requisito sostanziale sanabile mediante la produzione postuma del documento.
In questi casi, la giurisprudenza ha escluso espressamente un vulnus alla par condicio tra i concorrenti, in quanto vi sarebbe una “sostanziale disapplicazione della disciplina introdotta dal legislatore, al fine di evitare le esclusioni dalle gare di appalto per ragioni meramente formali, quando sussiste in concreto, e fin dal momento del rilascio della dichiarazione irregolare, il requisito soggettivo richiesto in sede di gara (così Cons. St. 976/2017, cit.)
3.4.1.2. Orbene, fermo restando quanto già precisato in ordine alle differenze tra il soccorso istruttorio precedente e quello disciplinato dal comma 9 dell’art. 83 del nuovo Codice dei contratti,
il caso oggetto del presente giudizio non avrebbe potuto essere oggetto di soccorso istruttorio processuale neppure sotto la vigenza del d.lgs. 163 del 2006, in quanto la cauzione provvisoria rilasciata da un operatore non abilitato equivale a cauzione provvisoria mancante e, come tale, non può in alcun modo essere sanata alla stregua di una mera irregolarità documentale, trattandosi di una precisa carenza degli elementi a corredo dell’offerta, prevista a pena di esclusione dalla lex specialis.
Ritenere che il soccorso istruttorio postumo si risolva nella produzione di un documento nuovo, oltretutto formatosi dopo che questa Sezione aveva chiaramente enunciato che la precedente cauzione provvisoria era inutilizzabile (e questo nonostante le parti resistenti avessero tentato in giudizio di difenderne la validità) tradisce non solo il dettato normativo e lo spirito dell’istituto, ma incorre nel marchiano errore di considerarlo alla stregua di una irregolarità documentale, intesa come vizio di forma di un documento già esistente anche se non prodotto e comunque riferibile a una situazione anch’essa esistente e attestabile ex post, assimilabile alla produzione di un documento formato ex novo che in realtà è solo il simulacro formale di un elemento sostanziale dell’offerta che la parte non possedeva al momento della scadenza del termine di presentazione delle offerte stesse.
In sintesi,
non può utilizzarsi il soccorso istruttorio, sia contestuale che postumo, per consentire la produzione tardiva di un requisito sostanziale (o richiesto a corredo/garanzia dell’offerta) inesistente al momento di deposito dell’offerta presso la stazione appaltante (vedi Cons. St., sez. V, 27.12.2017 n. 6078; Id., Sez. V, 11.12.2017 n. 5826).
3.4.1.3.
Un significativo ausilio interpretativo all’istituto nella sua nuova versione successiva all’aggiornamento delle Direttive europee è dato dalla sentenza della Corte giustizia UE, sez. VIII, 28.02.2018, n. 523, la quale, nell’evidenziare che il soccorso istruttorio di cui all’art. 51 della direttiva 2004/18 si limita a prevedere la semplice possibilità, per l'amministrazione aggiudicatrice, di invitare coloro che presentano un'offerta nell'ambito di una procedura di gara d'appalto a integrare o a chiarire la documentazione da fornire in sede di valutazione delle condizioni di ricevibilità della loro offerta, che dimostri la loro capacità economica e finanziaria e le loro conoscenze o capacità professionali e tecniche, e nel precisare che la Direttiva non specifica le modalità o le condizioni in base alle quali una siffatta regolarizzazione può avvenire, al pt. 48 sancisce che “quando si avvalgono della facoltà prevista all'articolo 51 della direttiva 2004/18, gli Stati membri devono fare in modo di non compromettere la realizzazione degli obiettivi perseguiti da tale direttiva e di non pregiudicare né l'effetto utile delle sue disposizioni né le altre disposizioni e gli altri principi pertinenti del diritto dell'Unione, in particolare i principi di parità di trattamento e di non discriminazione, di trasparenza e di proporzionalità”.
Il meccanismo del soccorso istruttorio infatti non può essere interpretato nel senso di consentire all'Amministrazione aggiudicatrice di ammettere qualsiasi rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni della legge di gara, devono portare all'esclusione dell'offerente, dovendo l'Amministrazione aggiudicatrice osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati (v. in tal senso: CGUE 06.11.2014, in C-42/13, Cartiera dell'Adda; Id., 10.11.2016, in C-199/15 Ciclat, C-199/15; Id., 10.10.2013, in C-336/12, Manova; Id., 11.05.2017, in C-131/16, Archus e Gama), né può agevolare un solo concorrente il quale presenta così una nuova offerta (CGUE 29.03.2012, SAG ELV Slovensko e a., C-599/10, pt. 40; id., 11.05.2017, C-131/16, Archus e Gama, punto 31).”
Inoltre, rileva la Corte, “
conformemente al principio di proporzionalità, che costituisce un principio generale del diritto dell'Unione e cui l'aggiudicazione di appalti conclusi negli Stati membri deve conformarsi, come risulta sia dal considerando 9 della direttiva 2004/17 sia dal considerando 2 della direttiva 2004/18, le misure adottate dagli Stati membri non devono andare al di là di quanto è necessario per raggiungere tale obiettivo (v., in tal senso, sentenze del 16.12.2008, Michaniki, C-213/07, pt. 48 e 61; id., 19.05.2009, C-538/07, Assitur, pt. 21 e 23; id., 23.12.2009, C-376/08, Serrantonie Consorzio stabile edili, pt. 33, nonché 22.10.2015, Impresa Edilux e SICEF, C-425/14, punto 29)”.
Nello specifico,
in linea con la nuova tipologia di soccorso istruttorio regolamentata dal Codice del 2016, il campo applicativo dell’istituto ai vizi della cauzione provvisoria si è molto ristretto e circoscritto ai vizi formali quali, ad esempio, l'allegazione del foglio recante l'autentica notarile della sottoscrizione della cauzione provvisoria presentata da un concorrente (TAR Campania Napoli, sez. III, 27.07.2017 n. 3990).
Che non sia possibile procedere al soccorso istruttorio in casi analoghi a quello oggetto del presente giudizio, ossia per il caso di cauzione prestata da intermediari non iscritti o cancellati dall'albo di cui all'art. 106 TUB, lo confermano anche ulteriori interventi giurisprudenziali (Cons. St., sez. IV, 05.05.2016, n. 1803).
3.4.2. In secondo luogo, va ribadito che nel caso di specie l’obbligatorietà dell’allegazione della cauzione provvisoria all’offerta era direttamente desumibile dal combinato disposto del par. III.1.6. del bando e dal par. VI del Disciplinare, laddove si prevede che “si procederà all’esclusione delle offerte nei seguenti casi: [….] i) mancata costituzione della cauzione provvisoria”.
Non vi sono quindi dubbi in ordine alla circostanza che la legge di gara abbia richiesto come obbligatoria l’esistenza di una regolare cauzione provvisoria costituita già al momento della valutazione delle offerte, e rilevante ai fini dell’esclusione.
3.4.3. Per completezza, trattandosi di argomento assai attuale e controverso, il Collegio evidenzia che
l’incertezza giurisprudenziale sulla obbligatorietà della costituzione della cauzione provvisoria sin dal momento della presentazione dell’offerta (e, di conseguenza, sulla sanzione applicabile in caso di omissione) è legata al fatto che il Codice dei contratti (anche nella precedente formulazione) non stabilisce una sanzione specifica in ordine all’omissione di tale adempimento, limitandosi a affermare che “l'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata garanzia provvisoria” (art. 93, comma 1, d.lgs. 50/2016; art. 75 d.lgs. 163 del 2016).
Sul punto,
diverse pronunce dei giudici amministrativi sono favorevoli a ritenere che la cauzione provvisoria non assume la configurazione di un requisito di ammissione alla gara, che deve essere già posseduto entro il termine di presentazione delle offerte, ma costituisce una garanzia di serietà dell’offerta e di liquidazione preventiva e forfettaria del danno, in caso di mancata sottoscrizione del contratto di appalto imputabile al concorrente a titolo di dolo o colpa e/o di esclusione dalla gara per l’assenza dei requisiti di ammissione (Cons. St., sez. IV, 06.04.2016 n. 1377 che conferma Tar Lazio Sez. III-ter, 10.06.2015 n. 8143; Tar Basilicata 27.07.2017 n. 531); di conseguenza non possono essere esclusi dalla gara gli offerenti che hanno stipulato la cauzione provvisoria dopo la presentazione dell’offerta e/o dopo la scadenza del termine di presentazione delle offerte, quando il periodo di 180 giorni della sua efficacia retroagisce dalla data di presentazione dell’offerta.
Per contro,
la giurisprudenza maggioritaria (Corte cost., ord., 13.07.2011, n. 211; Cons. St., sez. V, 24.11.2011, n. 6239; id., sez. V, 09.11.2010, n. 7963; id., sez. V, 05.08.2011, n. 4712; id., sez. V, 12.06.2009, n. 3746; id., sez. V, 08.09.2008, n. 4267; id., sez. V, 09.12.2002, n. 6768) nonché le Autorità di settore (Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici, determinazione n. 1 del 2010), così come richiamati e condivisi dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella decisione n. 34 del 10.12.2014, ritengono che la cauzione costituisca parte integrante dell’offerta e non mero elemento di corredo della stessa; sicché essa si pone come strumento di garanzia della serietà ed affidabilità dell’offerta che vincola le imprese partecipanti ad una gara pubblica all’osservanza dell’impegno assunto a rispettarne le regole, responsabilizzandole, mediante l’anticipata liquidazione dei danni subiti; l’escussione della cauzione provvisoria si profila quindi come garanzia del rispetto dell’ampio patto di integrità cui si vincola chi partecipa ad una gara pubblica.
Discende da ciò (vedi Determinazione dell’Autorità Nazionale Anticorruzione n. 1 dell’08.01.2015 e successivo Comunicato del Presidente del 01.07.2015) che,
pur ritenendosi sanabili (dopo l’entrata in vigore del combinato disposto dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del d.lgs. 163 del 2016) le ipotesi di mancanza, incompletezza o irregolarità riferita alla cauzione provvisoria, ciò è escluso qualora quest’ultima non sia stata già costituita alla data di presentazione dell’offerta e non rispetti la previsione di cui all’art. 75, comma 5 del Codice, vale a dire decorra da tale data, pena l’alterazione della parità di trattamento tra i concorrenti.
Sotto la vigenza dell’art. 93 si segnalano, in senso conforme, Cons. St., sez. V, n. 2181 del 10.04.2018, TAR Lazio, sez. I, 18.01.2017 n. 878, Tar Sardegna, sez. I, 21.04.2017, n. 275 (che esclude anche il soccorso istruttorio, posto, infatti, che, “ai sensi dell'art. 83, Nuovo Codice degli Appalti, il soccorso istruttorio è previsto solo per le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda, tale non potendosi qualificare l'impegno del fideiussore a rilasciare la garanzia fideiussoria”, per cui rispetto a tale impegno, “è posto, in capo alle ditte partecipanti alle gare per l'aggiudicazione dei contratti pubblici, un preciso obbligo, a pena di esclusione”).
3.4.3.1.
Il Collegio aderisce a quest’ultimo orientamento, in quanto più aderente al testo del Codice dei contratti, più conforme alla funzione dell’istituto e più coerente rispetto alla nuova disciplina dettata in tema di soccorso istruttorio, non dovendosi più giustificare, sotto un profilo sistematico, il previgente art. 75 con gli artt. 38, comma 2-bis, e 46, co. 1-ter, del d.lgs. 163/2016; infatti, attualmente, la disciplina del soccorso istruttorio di cui all’art. 83, co. 9, d.lgs. 50/2016 non giustifica, come già detto, regolarizzazioni postume che non abbiano carattere meramente formale, sì che in caso di omessa prestazione della cauzione provvisoria o di allegazione di una cauzione invalida nessun rimedio postumo è esercitabile, e l’esclusione dell’impresa inadempiente dalla gara è l’unica soluzione possibile per la stazione appaltante.
3.5. Le vicende di gara, la conferma –da parte di Trenitalia nella nota di avvio del soccorso istruttorio postumo- in ordine alla necessità della sostituzione della cauzione originaria e la circostanza che sin dall’inizio la Ma.Fi.Ca. non potesse rilasciare alcun tipo di garanzia in quanto cancellata dall’elenco di cui all’art. 106 TUB, non lasciano dubbi in ordine all’assenza della allegazione della cauzione provvisoria a corredo della domanda dell’RTI aggiudicatario Fe..
Ne discende che Fe., fin dall'inizio della procedura di gara e per tutto il suo svolgimento, non era in possesso del prescritto requisito della polizza, così come richiesta dal bando e dal disciplinare di gara a pena di esclusione.
3.6. In forza delle motivazioni rese in precedenza dal Collegio in ordine all’inapplicabilità del soccorso istruttorio postumo, alla natura della cauzione provvisoria e al regime al quale è assoggettata l’impresa che non l’abbia prodotta nei termini o ne abbia prodotta una invalida, deve essere accolto il ricorso dell’RTI Vu.Ta. (RG 1023/18) e decretata l’esclusione dell’RTI Fe. dalla gara oggetto del presente giudizio (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 28.08.2018 n. 5292 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: - il regime proprio dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della c.i.l.a., a differenza di quello proprio dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della s.c.i.a., non prevede una fase di controllo successivo (con eventuale esito inibitorio), da esperirsi entro il termine perentorio ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, che è inapplicabile alla prima delle indicate categorie di interventi;
   - in relazione alla tipologia di interventi ex art. 6-bis del d.p.r. n. 380/2001, l'amministrazione dispone, dunque, di un unico potere, che è quello sanzionatorio da esercitarsi nel caso in cui le opere realizzate risultino in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia;
   - eventuali pronunciamenti anticipati dell’amministrazione in ordine alla legittimità degli interventi comunicati con c.i.l.a. non rivestono, quindi, carattere provvedimentale;
   - ciò non esclude, tuttavia, in radice un interesse concreto e attuale dei relativi soggetti destinatari a tutelarsi in via giurisdizionale immediatamente avverso essi, nella misura in cui prefigurano, a guisa di contestazioni preventive, le susseguenti determinazioni sfavorevoli dell’amministrazione.
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Considerato, in limine, che:
   - il regime proprio dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della c.i.l.a., a differenza di quello proprio dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della s.c.i.a., non prevede una fase di controllo successivo (con eventuale esito inibitorio), da esperirsi entro il termine perentorio ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, che –a dispetto degli assunti di parte ricorrente– è inapplicabile alla prima delle indicate categorie di interventi;
   - in relazione alla tipologia di interventi ex art. 6-bis del d.p.r. n. 380/2001, l'amministrazione dispone, dunque, di un unico potere, che è quello sanzionatorio da esercitarsi nel caso in cui le opere realizzate risultino in contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia;
   - eventuali pronunciamenti anticipati dell’amministrazione in ordine alla legittimità degli interventi comunicati con c.i.l.a. –quali quelli in questa sede impugnati– non rivestono, quindi, carattere provvedimentale (cfr., in tal senso, TAR Veneto, Venezia, sez. II, n. 415/2015; TAR Toscana, Firenze, sez. III, n. 1625/2016);
   - ciò non esclude, tuttavia, in radice un interesse concreto e attuale dei relativi soggetti destinatari a tutelarsi in via giurisdizionale immediatamente avverso essi, nella misura in cui –come, appunto, nella specie– prefigurano, a guisa di contestazioni preventive, le susseguenti determinazioni sfavorevoli dell’amministrazione;
   - di qui, dunque, l’ammissibilità delle censure rassegnate dalla ricorrente in ordine ai presupposti di ritenuta illegittimità della c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647 (TAR Campabia-Salerno, Sez. II, sentenza 28.08.2018 n. 1215 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di abuso edilizio, il provvedimento che ordina la demolizione può avere una motivazione succinta affermando che "l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.
Tale indirizzo è stato autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di demolizione che siano intervenuti a distanza di tempo dal verificarsi dell’abuso.
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Con riferimento specifico ad un provvedimento relativo all’Ente Parco si è puntualizzato che “L'ordine di rimozione di opere abusive è atto vincolato e necessitato che non richiede nessun'altra motivazione se non l'accertamento del carattere abusivo dell'opera. Pertanto, l'Ente Parco, nell'adottare siffatto provvedimento, non deve compiere alcuna particolare valutazione circa la concreta incidenza dell'intervento sull'assetto del territorio né una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico che è in re ipsa, consistendo quest'ultimo nel ripristino dei valori naturalistici, paesaggistici ed ambientali violati; né infine sussiste la possibilità di adottare provvedimenti alternativi.”

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Lamenta poi il ricorrente un vizio di motivazione dei provvedimenti impugnati. Il gravame risulta privo di pregio.
La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio ritiene che, in caso di abuso edilizio, il provvedimento che ordina la demolizione può avere una motivazione succinta affermando che "l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Tale indirizzo è stato autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di demolizione che siano intervenuti a distanza di tempo dal verificarsi dell’abuso (Cons. di stato, A.P. n. 9/2017). Con riferimento specifico ad un provvedimento relativo all’Ente Parco Vesuvio si è puntualizzato TAR Napoli (Campania) sez. III 28.08.2017 n. 4142 “L'ordine di rimozione di opere abusive è atto vincolato e necessitato che non richiede nessun'altra motivazione se non l'accertamento del carattere abusivo dell'opera. Pertanto, l'Ente Parco Nazionale del Vesuvio, nell'adottare siffatto provvedimento, non deve compiere alcuna particolare valutazione circa la concreta incidenza dell'intervento sull'assetto del territorio né una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico che è in re ipsa, consistendo quest'ultimo nel ripristino dei valori naturalistici, paesaggistici ed ambientali violati; né infine sussiste la possibilità di adottare provvedimenti alternativi" (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.08.2018 n. 2059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione di istanza di accertamento in sanatoria, successiva all’ordinanza di demolizione, produce effetti sull’ordine di demolizione generando un arresto temporaneo dell’esecutività delle misure ripristinatorie. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, una volta presentata l’istanza di accertamento in sanatoria, si verificano effetti interruttivi sino al provvedimento dell’amministrazione. Tale provvedimento può avere natura tacita e configurarsi come un silenzio rigetto trascorso il termine per l’emanazione del provvedimento.
Invero, “In adesione ad un diffuso orientamento giurisprudenziale rileva che il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria e sulla istanza di accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del testo unico sull’edilizia ha un valore legale tipico di rigetto e cioè costituisce una ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego. La natura provvedimentale è poi confermata da un elemento pure esso rilevante, quello letterale: la norma di cui all’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 riprende il contenuto prescrittivo già recato dall’articolo 13, comma 2, della legge n. 47/1985, secondo cui sulla richiesta di sanatoria si pronuncia il dirigente o il responsabile entro sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata. È evidente che l’inutile decorso del predetto termine comporta la reiezione della domanda de qua e quindi si invera un vero e proprio provvedimento tacito di diniego”.
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Nel caso di specie si era formato il silenzio provvedimentale, di per sé idoneo a configurare un’ipotesi di silenzio-rigetto e tuttavia, come sopra indicato, con provvedimento espresso l’amministrazione aveva comunicato, successivamente alla presentazione del ricorso, il diniego all’istanza di accertamento in sanatoria. Il silenzio e poi il provvedimento comportano la cessazione degli effetti sospensivi, restituendo piena efficacia all’ordine di demolizione senza che sia necessaria l’adozione di un nuovo provvedimento.
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Lamenta poi il ricorrente difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati. Secondo la giurisprudenza di questo consiglio in caso di abuso edilizio il provvedimento che ordina la demolizione può avere una motivazione succinta trattandosi di atto vincolato. Tale indirizzo è stato confermato dall’ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di demolizione intervenuti a distanza di tempo dal verificarsi dell’abuso.
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Con ordinanza n. 47/2011 l’Ente Parco Vesuvio ordinava la demolizione di opere abusive. Con accertamento da parte del Corpo Forestale dello Stato si accertava l’inottemperanza all’ordine di demolizione e si rinvenivano ulteriori opere abusive in assenza dei prescritti nulla osta ed autorizzazione.
Con ordinanza di demolizione n. 28 del 16.05.2014 il Comune di Terzigno ordinava al ricorrente l’immediata sospensione dei lavori edilizi abusivi, ingiungendo la demolizione delle opere entro 90 giorni.
Con nota prot. 2269 del 04/06/2014 l’Ente Parco Vesuvio provvedeva ad inviare al ricorrente la comunicazione di avvio del procedimento ai sensi della legge 241/1900 art. 7.
Con ordinanza n. 16/2014 del 05/09/2014 prot. G.3617 del 05.09.2014 notificata in data 17.09.2014, l’Ente Parco Vesuvio ordinava la demolizione delle opere.
Con nota prot. n. 4640 del 03.11.2014 il ricorrente depositava istanza di autorizzazione in sanatoria
Il 15.11.2014 il signor An. presentava il ricorso al Consiglio di Stato.
Con nota successiva n. prot. 229 del 30/01/2015 l’Ente Parco comunicava al ricorrente, al Comune di Terzigno ed al CTA del Corpo forestale dello Stato le ragioni ostative dell’inammissibilità della domanda di autorizzazione in sanatoria.
Dalla relazione presentata dall’ amministrazione risulta che il ricorrente ricevuta la comunicazione del diniego, intervenuta successivamente alla presentazione del ricorso, non abbia proposto motivi aggiunti o proposto nuovo ricorso contro il provvedimento di diniego. Il diniego dell’istanza di autorizzazione in sanatoria fa venir meno l’interesse a ricorrere. Il ricorso deve dunque ritenersi improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse.
Il ricorso deve comunque ritenersi infondato nel merito.
...
Si può ora procedere ad analizzare gli effetti della presentazione dell’istanza di costruzione in sanatoria ai sensi dell’articolo 36 d.p.r. 380 sull’ordinanza di demolizione.
La presentazione di istanza di accertamento in sanatoria, successiva all’ordinanza di demolizione, produce effetti sull’ordine di demolizione generando un arresto temporaneo dell’esecutività delle misure ripristinatorie. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, una volta presentata l’istanza di accertamento in sanatoria, si verificano effetti interruttivi sino al provvedimento dell’amministrazione. Tale provvedimento può avere natura tacita e configurarsi come un silenzio rigetto trascorso il termine per l’emanazione del provvedimento.
Afferma in proposito la giurisprudenza di questo Consiglio “In adesione ad un diffuso orientamento giurisprudenziale rileva che il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria e sulla istanza di accertamento di conformità di cui all’articolo 36 del testo unico sull’edilizia ha un valore legale tipico di rigetto e cioè costituisce una ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (cfr. ex multis, Cons. Stato Sez. IV 06/06/2008 n. 2691; idem 374/2006 n. 1710; Sez. V 11/02/2003 n. 706). La natura provvedimentale è poi confermata da un elemento pure esso rilevante, quello letterale: la norma di cui all’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 riprende il contenuto prescrittivo già recato dall’articolo 13, comma 2, della legge n. 47/1985, secondo cui sulla richiesta di sanatoria si pronuncia il dirigente o il responsabile entro sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata. È evidente che l’inutile decorso del predetto termine comporta la reiezione della domanda de qua e quindi si invera un vero e proprio provvedimento tacito di diniego” (Cons. di Stato, sez. IV, n. 410/2017).
Nel caso di specie si era formato il silenzio provvedimentale, di per sé idoneo a configurare un’ipotesi di silenzio-rigetto e tuttavia, come sopra indicato, con provvedimento espresso l’amministrazione aveva comunicato, successivamente alla presentazione del ricorso, il diniego all’istanza di accertamento in sanatoria. Il silenzio e poi il provvedimento comportano la cessazione degli effetti sospensivi, restituendo piena efficacia all’ordine di demolizione senza che sia necessaria l’adozione di un nuovo provvedimento.
Lamenta poi il ricorrente difetto di motivazione dei provvedimenti impugnati. Secondo la giurisprudenza di questo consiglio in caso di abuso edilizio il provvedimento che ordina la demolizione può avere una motivazione succinta trattandosi di atto vincolato (Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908). Tale indirizzo è stato confermato dall’ Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di demolizione intervenuti a distanza di tempo dal verificarsi dell’abuso (Cons. di stato, A.P. n. 9/2017).
Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato risultando il gravame privo di pregio.
Per le ragioni su esposte la Sezione esprime il parere che il ricorso vada considerato in parte improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse in relazione al silenzio rigetto e in parte infondato nel merito con riferimento ai vizi di motivazione dell’ordinanza di demolizione e della nota informativa del corpo forestale dello stato (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.08.2018 n. 2061 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In caso di abuso edilizio, il provvedimento che ordina la demolizione può avere una motivazione succinta. Invero, "l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.
Tale indirizzo è stato autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di demolizione che siano intervenuti a distanza di tempo dal verificarsi dell’abuso.
Con riferimento specifico ad un provvedimento relativo all’Ente Parco si è puntualizzato: “L'ordine di rimozione di opere abusive è atto vincolato e necessitato che non richiede nessun'altra motivazione se non l'accertamento del carattere abusivo dell'opera. Pertanto, l'Ente Parco Nazionale del Vesuvio, nell'adottare siffatto provvedimento, non deve compiere alcuna particolare valutazione circa la concreta incidenza dell'intervento sull'assetto del territorio né una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico che è in re ipsa, consistendo quest'ultimo nel ripristino dei valori naturalistici, paesaggistici ed ambientali violati; né infine sussiste la possibilità di adottare provvedimenti alternativi”.

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Lamenta poi il ricorrente un vizio di motivazione dei provvedimenti impugnati. Il gravame risulta privo di pregio.
La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio ritiene che, in caso di abuso edilizio, il provvedimento che ordina la demolizione può avere una motivazione succinta affermando che "l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora– una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare” (Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Tale indirizzo è stato autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di demolizione che siano intervenuti a distanza di tempo dal verificarsi dell’abuso. (Cons. di stato, A.P. n. 9/2017). Con riferimento specifico ad un provvedimento relativo all’Ente Parco Vesuvio si è puntualizzato TAR Napoli (Campania) sez. III 28.08.2017 n. 4142 “L'ordine di rimozione di opere abusive è atto vincolato e necessitato che non richiede nessun'altra motivazione se non l'accertamento del carattere abusivo dell'opera. Pertanto, l'Ente Parco Nazionale del Vesuvio, nell'adottare siffatto provvedimento, non deve compiere alcuna particolare valutazione circa la concreta incidenza dell'intervento sull'assetto del territorio né una comparazione tra l'interesse del privato e quello pubblico che è in re ipsa, consistendo quest'ultimo nel ripristino dei valori naturalistici, paesaggistici ed ambientali violati; né infine sussiste la possibilità di adottare provvedimenti alternativi.”
Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato risultando il gravame privo di pregio (Consiglio di Stato, Sez. II, parere 27.08.2018 n. 2059 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissione rumorose - Dovere d'impedire gli strepiti degli animali a prescindere dal formale titolo di proprietà - Concorso nel reato ex art. 659 cod. pen. - Disturbo del riposo, occupazioni e della pubblica quiete delle persone - Superamento della soglia della normale tollerabilità - Verifica del fenomeno - Conferma del compendio probatorio - Disturbo di un numero indeterminato di persone - Diffusività del rumore - Necessità.
Configura l'art. 659 cod. pen., la detenzione presso la propria abitazione di alcuni cani che abbaiano continuamente nottetempo, impedendo il riposo e le occupazioni delle persone residenti nelle adiacenze.
Sicché, il dovere d'impedimento di strepiti di animali deriva dal mero possesso degli animali medesimi, a prescindere dal formale titolo di proprietà, essendo l'obbligo di impedimento collegato all'effettiva signoria sugli animali, i cui strepiti non sono impediti.
Inoltre, la verifica del superamento della soglia della normale tollerabilità non deve essere necessariamente effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e gli effetti dei rumori percepiti, occorrendo, ciò nondimeno accertare la diffusa capacità offensiva del rumore in relazione al caso concreto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.08.2018 n. 38901 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENT6E-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività di trasporto di rifiuti prodotti da terzi - Assenza della comunicazione e/o iscrizione all'Albo Nazionale delle Imprese - Trasporto e modalità di accertamento della condotta non occasionale - Configurabilità del reato - Indici sintomatici (usura di parti del mezzo di trasporto) - Artt. 183, 212 e 256 d.lgs. n. 152/2006.
Ai fini della configurabilità del reato di attività di trasporto di rifiuti, rileva la concreta attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta occasionalità (Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, Isoardi).
Sicché, il carattere non occasionale della condotta di trasporto illecito di rifiuti può essere desunto anche da indici sintomatici, quali la provenienza del rifiuto, la eterogeneità, la loro quantità, le caratteristiche del rifiuto indicative di precedenti attività preliminari di prelievo, raggruppamento, cernita, deposito, l'usura di parti del mezzo di trasporto dimostrativa di una precedente ed analoga utilizzazione di trasporto illecito di rifiuti (Sez. 3, n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
Nella specie, è stato possibile desumere la non occasionalità del trasporto di rifiuti dall'usura del "cassone" del mezzo, già verosimilmente utilizzato anche in altre occasioni per la medesima e illecita attività.

DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Emissione del sequestro preventivo - Presupposti - Sussistenza del "fumus delicti" in concreto.
Ai fini dell'emissione del sequestro preventivo, non occorre un compendio indiziario che si configuri come grave ai sensi dell'art. 273 cod. proc. pen., ma è comunque necessario che il giudice valuti la sussistenza del "fumus delicti" in concreto, verificando in modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali desumere l'esistenza del reato astrattamente configurato, in quanto la "serietà degli indizi" costituisce presupposto per l'applicazione delle misure cautelari (Sez. 3, n. 37851 del 04/06/2014, Parrelli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.08.2018 n. 38859 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Realizzazione di una pista e parco tematico di motocross con ristorante - Mancanza o illegittimità dell'autorizzazione paesaggistica - VIA VAS AIA - Assenza della valutazione di impatto ambientale - Verifica dell'impatto urbanistico e ambientale dell'intero complesso - Necessità - Piano Territoriale Provinciale (PTP) Art. 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004 - Esame del giudice penale - Giurisprudenza.
Poiché la mancanza dell'autorizzazione paesaggistica o la sua illegittimità costituisce, analogamente a quanto si ritiene per i reati urbanistici, un elemento normativo della fattispecie incriminatrice, di cui all'articolo 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004 - non viene in rilievo, nel caso in cui vengano eseguiti lavori su beni paesaggistici, il potere dell'autorità giudiziaria di disapplicare un atto amministrativo illegittimo, ma il potere di accertamento giurisdizionale, inteso quale diretta espressione del principio di legalità come declinato dall'articolo 101, comma 2, Cost., potere che compete pieno iure al giudice penale - l quale "risolve ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito" (articolo 2, comma 1, del codice di procedura penale)- e dunque detto potere deve essere esercitato anche in ordine a un provvedimento (amministrativo) quando l'atto costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato o incide(rebbe) su di essi.
Cosicché l'esame del giudice penale non tende alla disapplicazione o meno dell'atto e non riguarda l'esistenza "ontologica" del provvedimento amministrativo, ma l'integrazione o meno della fattispecie penale in vista dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale convergono organicamente, assumendo una valenza descrittiva
(Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, Tantillo).
Nella specie, sul rilievo che sino a quando le amministrazioni preposte non avrebbero svolto l'attività di valutazione dell'impatto ambientale dell'intero complesso, non poteva dirsi cessato il serio, concreto ed effettivo pericolo di aggravamento, protrazione o duplicazione del nocumento ai beni ambientali e paesaggistici già ritenuto, con effetto preclusivo di ulteriori rimostranze, in forza del provvedimento genetico di sequestro
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.08.2018 n. 38856 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La falsità della rappresentazione della situazione di fatto nell’istanza di concessione edilizia determina le seguenti conseguenze:
   - non può dirsi a monte sorto alcun legittimo affidamento in capo ai ricorrenti, la cui condizione di buona fede è smentita per tabulas;
   - non si pone in radice un problema di ragionevolezza del termine per la spendita del potere di annullamento: non ricorrono, invero, ragioni di tutela del privato (sottese alla previsione legislativa della ragionevolezza del termine) allorché l’annullamento sia ascrivibile proprio alla condotta tenuta illo tempore dall’interessato al momento della richiesta del provvedimento;
   - l’edificazione di un fabbricato in luogo totalmente diverso dal precedente manufatto non integra una ristrutturazione, bensì una nuova costruzione o, al più, una ricostruzione previa demolizione su diversa area di sedime;
   - la locale disciplina urbanistica, tuttavia, esclude, salvo particolari circostanze non rilevanti nella specie, la possibilità di nuove costruzioni nelle zone agricole: l’interesse pubblico all’annullamento, indicato nel contrasto con il P.R.G., si palesa pertanto in re ipsa; di converso, i ricorrenti non possono fondatamente sostenere che sia “irrilevante” la diversa ubicazione, posto che la locale disciplina non pone limiti minimi sotto i quali la violazione delle previsioni urbanistiche non rilevi;
   - la domanda di risarcimento del danno, priva dell’elemento oggettivo dell’ingiustizia del danno stesso, è infondata.
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7. Ciò premesso, il Collegio osserva che costituisce fra le parti res judicata la veridicità ideologica degli accertamenti svolti dall’Ente locale e confluiti nell’atto di constatazione prot. n. 583 del 23.06.2000: la sentenza del Tribunale di Bologna n. 2731 del 27.09.2004, infatti, è intercorsa fra le stesse parti del presente giudizio, afferisce specificamente all’atto in questione e non è stata impugnata.
7.1. Risulta, pertanto, incontestabile il fatto che nelle istanze afferenti ai due condoni ai sensi delle leggi n. 47 del 1985 e n. 724 del 1994 i ricorrenti avessero correttamente indicato la posizione reale del manufatto, mentre nella domanda di concessione edilizia avanzata nel 1998 avessero indicato il manufatto da ristrutturare come ubicato sull’area ove lo si intendeva ricostruire, non su quella dove si trovava effettivamente.
7.2. I ricorrenti, conseguentemente, non hanno margini per sostenere che, in realtà, l’attuale fabbricato occupi lo stesso sedime dell’originario manufatto e che la rilevata distonia consegua all’erronea indicazione, all’atto della formulazione della prima domanda di condono, della posizione di quest’ultimo: da un punto di vista processuale, infatti, il giudicato formatosi sulla sentenza n. 2731 rende irrefragabile in ogni successivo giudizio la questione della veridicità sostanziale degli esiti degli accertamenti svolti sul punto dal Comune e sulla base dei quali sono stati emanati gli atti impugnati.
7.3. Peraltro, rileva ad abundantiam il Collegio, l’affermazione dei ricorrenti non si fonda su alcun dato ulteriore rispetto a quelli già compulsati dal c.t.u. nominato nel corso della causa dinanzi al giudice ordinario, atto a lumeggiare, con carattere di prova liquida, la fondatezza delle loro prospettazioni.
8. La falsità della rappresentazione della situazione di fatto nell’istanza di concessione edilizia determina le seguenti conseguenze:
   - non può dirsi a monte sorto alcun legittimo affidamento in capo ai ricorrenti, la cui condizione di buona fede è smentita per tabulas;
   - non si pone in radice un problema di ragionevolezza del termine per la spendita del potere di annullamento: non ricorrono, invero, ragioni di tutela del privato (sottese alla previsione legislativa della ragionevolezza del termine) allorché l’annullamento sia ascrivibile proprio alla condotta tenuta illo tempore dall’interessato al momento della richiesta del provvedimento; oltretutto, nella specie il Comune ha iniziato gli accertamenti finalizzati ad acclarare la legittimità del titolo edilizio sin dal 2000 ed il decorso, da allora, di alcuni anni è dovuto all’instaurazione, da parte dei ricorrenti, di un giudizio di falso avverso il contenuto della nota recante gli esiti di tali accertamenti;
   - l’edificazione di un fabbricato in luogo totalmente diverso dal precedente manufatto non integra una ristrutturazione, bensì una nuova costruzione o, al più, una ricostruzione previa demolizione su diversa area di sedime;
   - la locale disciplina urbanistica, tuttavia, esclude, salvo particolari circostanze non rilevanti nella specie, la possibilità di nuove costruzioni nelle zone agricole: l’interesse pubblico all’annullamento, indicato nel contrasto con il P.R.G., si palesa pertanto in re ipsa; di converso, i ricorrenti non possono fondatamente sostenere che sia “irrilevante” la diversa ubicazione, posto che la locale disciplina non pone limiti minimi sotto i quali la violazione delle previsioni urbanistiche non rilevi;
   - difettano, inoltre, in radice i requisiti per rilasciare l’ulteriore sanatoria richiesta dai ricorrenti nel 2004, sia perché la normativa regionale dispone che “in tutto il territorio della Regione non è ammesso il rilascio dei titoli in sanatoria per la costruzione di nuovi manufatti edilizi fuori terra o interrati realizzati in contrasto con la legislazione urbanistica”, sia, per di più, perché la citata normativa regionale vieta specificamente il rilascio di titoli in sanatoria in relazione ad edifici in passato già condonati; consta, inoltre, l’incompletezza documentale dell’istanza (cfr. nota prot. n. 11731 del 02.03.2007, §§ 4 e 6);
   - il carattere sostanziale del vizio che affligge ab interno ed ab initio la concessione n. 183 osta all’applicazione dell’art. 38 d.lgs. n. 380 del 2001, disposizione che presuppone l’emendabilità dei vizi di illegittimità, nella specie, viceversa, intrinseci all’atto ed insanabili, in quanto l’organismo edilizio è incompatibile con le previsioni urbanistiche;
   - non rileva, in senso contrario, il fatto che il giudizio penale nell’ambito del quale i ricorrenti erano stati condannati in primo grado si sia concluso con la dichiarazione, in appello, dell’intervenuta prescrizione: l’intervento di una causa di estinzione del reato, infatti, opera di diritto e prescinde dall’effettivo accertamento di non colpevolezza dell’imputato (che, viceversa, ove evincibile dagli atti impedisce la pronuncia di proscioglimento ed impone l’assoluzione - cfr. art. 129, comma 2, c.p.p.);
   - la domanda di risarcimento del danno, priva dell’elemento oggettivo dell’ingiustizia del danno stesso, è infondata (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 22.08.2018 n. 5004 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Illecita la delibera condominiale contro i lavori antisismici. Per la Cassazione violare la normativa comporta rischi per tutti i cittadini.
L'amministratore del condominio è garante della sicurezza del condominio sia sotto il profilo del sicuro utilizzo delle parti comuni dell'edificio, sia della tutela della pubblica incolumità con riferimento alla rovina dell'edificio. Tuttavia, quando propone all'assemblea l'adozione di misure antisismiche per rendere sicuro l'edificio la stessa può negare tali interventi? La risposta è negativa in quanto, atteso che la mappatura antisismica riguarda quasi tutto il territorio nazionale, suddiviso in zone di gradata rischiosità, l'omessa regolarizzazione dell'edificio non è conforme alla normativa del Dpr 380/2001 e ai principi del nostro ordinamento giuridico
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Tale principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione (Sez. III penale, sentenza 21.08.2018 n. 38717) che ha rigettato il ricorso avverso un'ordinanza del Tribunale del riesame che confermava il decreto di sequestro preventivo di una costruzione irregolare per la normativa antisismica.
La Corte conferma che consiste in un "periculum in mora" l'accertata violazione della normativa antisismica che comporta un elevato rischio per l'incolumità dei cittadini. La Corte richiama la propria precedente giurisprudenza per cui l'aggravamento del reato, presupposto del sequestro preventivo, è insito nella violazione della normativa antisismica.
Infatti, a causa del carattere imprevedibile dei terremoti la regola tecnica di edificazione è ispirata alle finalità di contenimento del rischio di verificazione dell'evento che deve essere apprezzato su tutto il territorio nazionale, classificato per zone con indicazione, per ciascuna, della percentuale di esposizione all'evento sismico. Per ciascuna costruzione è indicato un fattore di "rischio di collasso" calcolato in ragione dell'esposizione al rischio sismico. L'inosservanza della tecnica di edificazione proporzionata al rischio sismico di zona, anche quando quest'ultimo si attesti su percentuali basse di verificabilità, è un aggravamento del pericolo e consente il sequestro preventivo dell'immobile.
La Corte richiama gli articoli 83, 93 e 94 del Dpr 380/2001 per cui chi intenda procedere, in zone sismiche, a costruzioni, riparazioni o sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico e non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
L'inosservanza di tali norme è sanzionata dall'articolo 95 del Dpr 380/2001. La giurisprudenza della Corte di cassazione afferma che la normativa antisismica si applica a qualsiasi manufatto, indipendentemente dai materiali usati e delle relative strutture, in zona dichiarata sismica. Quindi ricorre l'esigenza di maggiore rigore e proprio l'impiego di materiali strutturali meno solidi rendono più necessari i controlli e le cautele prescritte.
La Corte enuncia il seguente principio di diritto: «La ratio della normativa antisismica fonda sulla necessità, rivolta a tutela della pubblica incolumità, di dettare i criteri che devono essere obbligatoriamente seguiti per la costruzione di qualsiasi struttura realizzata nelle parti del territorio nazionale individuata dalla normativa di settore come zone a rischio sismico, in modo da ridurre la tendenza della costruzione a subire un danno cui, a seguito di un evento sismico, la costruzione stessa, secondo un giudizio prognostico ex ante, rischierebbe comunque di essere sottoposta» (articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2018).
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MASSIMA
5. La Corte, come è stato sottolineato dalla dottrina che si è occupata della materia, ha già eseguito una ricognizione del quadro normativo in tema di costruzioni nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 50624 del 17/09/2014, Baldolini, non mass.), premettendo come l'articolo 93 T.U.E. prescriva, tra l'altro, che, nelle zone sismiche, di cui all'articolo 83 T.U.E., chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmettere al competente ufficio tecnico della regione copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere allegato.
L'articolo 94 T.U.E. prescrive poi che nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
L'inosservanza delle predette disposizioni è appunto sanzionata dall'articolo 95 T.U.E., contestato nel caso in esame.
Il preavviso allo sportello unico (cui va depositato il progetto) adempie, infatti, ad una funzione informativa, in relazione all'attività da intraprendere, in modo da assicurare la vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche e garantire la cooperazione fra le amministrazioni, coinvolte nel procedimento, e gli interessati.
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha avuto modo di precisare che,
nelle zone sismiche, l'obbligo di informativa e di produzione degli atti progettuali non è limitato in relazione alle dimensioni e alle caratteristiche dell'opera, ma riguarda tutte le opere indicate dalla disposizione normativa, nessuna esclusa e dunque anche le opere c.d. "minori", perché diversamente verrebbe frustrato il fine di rendere possibile il controllo preventivo e documentale dell'attività edilizia nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 8140 del 06/07/1992, Di Scala, Rv. 191390).
Sul punto, è stato anche affermato che
le prescrizioni per le costruzioni in zona sismica si applicano a qualsiasi manufatto indipendentemente dai materiali impiegati e dalle relative strutture in quanto nelle zone dichiarate sismiche ricorre l'esigenza di maggiore rigore e proprio l'eventuale impiego di materiali strutturali meno solidi rende ancor più necessari i controlli e le cautele prescritte (Sez. 3, n. 38142 del 26/09/2001, Tucci R., Rv. 220269) sicché ricorre il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 94 T.U.E.) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 T.U.E.), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Floridia, Rv. 251284).
Siccome gli obblighi previsti dagli artt. 93 e 94 T.U.E. sono finalizzati a consentire il controllo preventivo della pubblica amministrazione, non rileva, ai fini della sussistenza del reato, l'effettiva pericolosità o meno della costruzione realizzata, in violazione degli adempimenti e in assenza delle prescritte autorizzazioni, perché le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica, rientrando nel novero dei reati di pericolo presunto, puniscono inosservanze formali, con la conseguenza che neppure la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo incidono sulla illiceità della condotta, in quanto gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio dell'attività (Sez. 3, n. 5738 del 13/05/1997, Petroni, Rv. 208299).
E' stato in quella sede ricordato che
la normativa antisismica è ispirata a preservare la pubblica incolumità in zone particolarmente soggette al verificarsi di movimenti tellurici, prescrivendo, da un lato, necessari obblighi burocratici e particolari prescrizioni tecniche costruttive e costituendo, dall'altro, un'anticipazione della tutela dell'interesse cui la norma incriminatrice appresta protezione (pubblica incolumità).
In definitiva,
la ratio della normativa antisismica fonda sulla necessità, rivolta a tutela dell'incolumità pubblica, di dettare i criteri che devono essere obbligatoriamente seguiti per la costruzione di qualsiasi struttura realizzata nelle parti del territorio nazionale individuate dalla normativa di settore come zone a rischio sismico, in modo da ridurre la tendenza della costruzione a subire un danno cui, a seguito di un evento sismico, la costruzione stessa, secondo un giudizio prognostico ex ante, rischierebbe comunque di essere sottoposta.
Da ciò consegue che detto rischio, nel caso di mancata conformazione delle costruzioni alle norme di settore, è destinato ad ampliarsi perché, a causa delle ricadute che dalla violazione della normativa antisismica scaturiscono, aumenta il pericolo di danno sulla incolumità delle persone che usano il bene o che, con esso, si trovino in contatto.

Perciò da questa breve ricognizione del dettato legislativo, il quale va necessariamente completato con la normativa, anche secondaria, di settore che definisce compiutamente gli obblighi cui sono soggetti coloro che eseguono costruzioni (anche cd. minori) in zone sismiche, si desume pienamente il fondamento dell'indirizzo giurisprudenziale in precedenza richiamato, derivando da ciò l'infondatezza dei ricorsi perché, in siffatti casi, non occorre verificare, qualora si sia in presenza di un'opera ultimata, se dall'opera stessa derivi o meno un aggravio del carico urbanistico, in quanto il pericolo, collegato all'uso della cosa, non è stato individuato dai Giudici cautelari esclusivamente sulla base delle violazioni urbanistiche e/o paesaggistiche (valutazione che, sotto tale specifico profilo, sarebbe, come fondatamente lamentano i ricorrenti, errata) ma è stato anche e soprattutto sostenuto sulla base dei reati edilizi collegati alla violazione della normativa antisismica, rispetto alla quale la motivazione del tribunale, quantunque stringata, deve ritenersi sussistente e sufficiente a rendere comprensibile l'iter argomentativo posto a fondamento della conferma del vincolo cautelare (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.08.2018 n. 38717).

EDILIZIA PRIVATA: Violazione disciplina antisimica - Regola tecnica di edificazione - Applicazione su tutto il territorio nazionale - Pericolo di aggravamento del reato e applicabilità del sequestro preventivo - Artt. 44, 83, 93, 94 e 95, D.Lgs. 380/2001.
In materia di sequestro preventivo, ove venga in considerazione il pericolo di aggravamento del reato con riguardo al perdurante utilizzo di un immobile la cui realizzazione sia soggetta al rispetto della normativa antisismica, la nozione di concreta possibilità del pericolo, che va scrutinata in ragione della natura del bene e di tutte le circostanze che connotino il fatto, è insita nella violazione della normativa di settore perché, nel carattere non prevedibile dei terremoti, la regola tecnica di edificazione è ispirata alla finalità di contenimento del rischio di verificazione dell'evento che va apprezzato in chiave generale su tutto il territorio nazionale, classificato per zone con indicazione, per ciascuna, della percentuale di esposizione all'evento sismico, attività che si traduce nella mappatura dell'intero patrimonio immobiliare con attribuzione alle singole costruzioni di un indicatore del "rischio di collasso", calcolato in ragione dell'esposizione al rischio sismico di zona, cosicché l'inosservanza della regola tecnica di edificazione proporzionata al rischio sismico di zona, anche ove quest'ultimo si attesti su percentuali basse di verificabilità, integra pur sempre la violazione di una norma di aggravamento del pericolo e come tale va indagata ed assume perciò rilevanza ai fini dell'applicabilità del sequestro preventivo (Cass. Sez. 6, n. 190 del 14/11/2017, dep. 2018).
Per cui, in caso di sequestro preventivo di un immobile, la cui realizzazione sia soggetta al rispetto della normativa antisismica, il pericolo di aggravamento del reato, con riferimento al suo perdurante utilizzo, è insito nella violazione della disciplina antisismica (Sez. 6, n. 190 del 14/11/2017, dep. 2018, Limatola).

Costruzioni nelle zone sismiche - Preavviso scritto allo sportello unico - Preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione - Reati edilizi in zona vincolata - Art. 181, c. 1, D.Lgs. 42/2004.
In tema di costruzioni nelle zone sismiche, l'articolo 93 T.U.E. prescriva, tra l'altro, che, nelle zone sismiche, di cui all'articolo 83 T.U.E., chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmettere al competente ufficio tecnico della regione copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere allegato (Sez. 3, n. 50624 del 17/09/2014, Baldolini). L'articolo 94 T.U.E. prescrive poi che nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione.
Pertanto, nelle zone sismiche, l'obbligo di informativa e di produzione degli atti progettuali non è limitato in relazione alle dimensioni e alle caratteristiche dell'opera, ma riguarda tutte le opere indicate dalla disposizione normativa, nessuna esclusa e dunque anche le opere c.d. "minori", perché diversamente verrebbe frustrato il fine di rendere possibile il controllo preventivo e documentale dell'attività edilizia nelle zone sismiche
(Sez. 3, n. 8140 del 06/07/1992, Di Scala).

Costruzioni in zona sismica - Le prescrizioni per le si applicano a qualsiasi manufatto indipendentemente dai materiali impiegati e dalle relative strutture - Reato antisismico - Configurabilità - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Disciplina antisismica e tutela dell'incolumità pubblica - Controllo preventivo della pubblica amministrazione.
Le prescrizioni per le costruzioni in zona sismica si applicano a qualsiasi manufatto indipendentemente dai materiali impiegati e dalle relative strutture in quanto nelle zone dichiarate sismiche ricorre l'esigenza di maggiore rigore e proprio l'eventuale impiego di materiali strutturali meno solidi rende ancor più necessari i controlli e le cautele prescritte (Sez. 3, n. 38142 del 26/09/2001, Tucci) sicché ricorre il reato antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 94 T.U.E.) e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (art. 94 T.U.E.), a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Floridia).
Pertanto, gli obblighi previsti dagli artt. 93 e 94 T.U.E. sono finalizzati a consentire il controllo preventivo della pubblica amministrazione, non rileva, ai fini della sussistenza del reato, l'effettiva pericolosità o meno della costruzione realizzata, in violazione degli adempimenti e in assenza delle prescritte autorizzazioni, perché le contravvenzioni previste dalla normativa antisismica, rientrando nel novero dei reati di pericolo presunto, puniscono inosservanze formali, con la conseguenza che neppure la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il rilascio del provvedimento abilitativo incidono sulla illiceità della condotta, in quanto gli illeciti sussistono in relazione al momento di inizio dell'attività.
In definitiva, la ratio della normativa antisismica fonda sulla necessità, rivolta a tutela dell'incolumità pubblica, di dettare i criteri che devono essere obbligatoriamente seguiti per la costruzione di qualsiasi struttura realizzata nelle parti del territorio nazionale individuate dalla normativa di settore come zone a rischio sismico, in modo da ridurre la tendenza della costruzione a subire un danno cui, a seguito di un evento sismico, la costruzione stessa, secondo un giudizio prognostico ex ante, rischierebbe comunque di essere sottoposta.

Violazione della normativa antisismica in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Sequestro preventivo di cosa pertinente al reato in ipotesi criminosa già perfezionatasi - Pericolo della libera disponibilità - Art. 321 cod. proc. pen. - Integrazione del periculum in mora e vulnus al bene paesaggio.
Il sequestro preventivo di cosa pertinente al reato è consentito anche nel caso di ipotesi criminosa già perfezionatasi ma esige, in tal caso, che il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa, va accertato dal giudice con adeguata motivazione, presenti i requisiti della concretezza e dell'attualità, perché la legge ha inteso contenere il sacrificio dei diritti patrimoniali dei cittadini nei ristretti limiti dettati dalle effettive esigenze di prevenzione connesse al processo penale - la sussistenza del periculum in mora può essere legittimamente sostenuta quando dalla violazione della normativa antisismica derivino conseguenze dannose o pericolose sull'incolumità di terzi.
Ai fini dell'integrazione del periculum in mora, che l'accertata violazione della normativa antisismica, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico, consente di ipotizzare possibili conseguenze sull'incolumità di terzi, incidendo direttamente sulla pianificazione territoriale cagionando un vulnus al bene paesaggio e ritenendo perciò la sussistenza delle esigenze cautelari ed indifferente il fatto che le opere fossero ultimate.

DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sequestro preventivo - Periculum in mora in violazione della disciplina antisismica.
Ai sensi del primo comma dell'art. 321 cod. proc. pen., legittima il sequestro preventivo, deve intendersi come concreta possibilità che il bene assuma carattere strumentale rispetto all'aggravamento o alla protrazione delle conseguenze del reato ipotizzato o all'agevolazione della commissione di altri reati e, in forza di tale principio, è stato ritenuto sussistente il presupposto per l'adozione della misura cautelare nella realizzazione di opere (nel caso di specie si trattava di cartelloni pubblicitari) eseguite in violazione della normativa antisismica, atteso che la libera disponibilità del bene avrebbe potuto determinare un aggravamento del reato (Sez. 3, n. 43249 del 22/10/2010, Barbagallo) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.08.018 n. 38717 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIDichiarazioni sostitutive ferree. L’allegazione del documento in copia è inderogabile. GARE/ Per il Consiglio di stato l’omissione non è sanabile col soccorso istruttorio
Nella dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell'art. 38 del dpr n. 445/2000, l'allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore è un adempimento inderogabile, atto a conferire legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza all'autocertificazione, e la sua eventuale omissione in sede di gara non può essere sanata con il ricorso al soccorso istruttorio.

Così il consiglio di Stato,
Sez. V, con la sentenza 20.08.2018 n. 4959.
Il dipartimento per l'editoria della presidenza del consiglio dei ministri indiceva una procedura aperta per l'affidamento di servizi giornalistici per gli organi centrali e periferici delle amministrazioni dello stato, specificando come la valida formulazione di un'offerta tecnica avrebbe richiesto il possesso di alcuni requisiti da attestare con dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà, ex art. 47 del dpr 445/2000.
Nel corso dello scrutinio, la commissione di gara riscontrava l'incompletezza dell'offerta tecnica di una delle partecipanti, in quanto alla dichiarazione sostitutiva dell'atto di notorietà non era stato allegato il documento di identità del dichiarante. Ritenuta l'insanabilità del vizio, si disponeva l'esclusione dalla gara della società, successivamente confermata anche con sentenza del Tar Lazio.
Avverso tale decisione proponeva appello la società esclusa, rilevando come, nel caso di specie, non si sarebbe potuto dubitare della provenienza del documento oggetto di autocertificazione e che, comunque, la carenza non sarebbe stata tale da incidere sulla regolarità e legittimità della dichiarazione, traducendosi in un'irregolarità di carattere meramente formale, sanabile attraverso l'integrazione del documento mancante o il ricorso a chiarimenti, anche in ossequio ai principi di economicità e proporzionalità dell'attività amministrativa, nonché di massima partecipazione alle gare.
Chiamato a decidere la controversia, il consiglio di stato ha respinto l'appello, osservando come l'allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prescritta dall'art. 38 dpr 445/2000, sia un adempimento inderogabile, atto a conferire in considerazione della sua introduzione come forma di semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Detta allegazione, pertanto, costituisce un elemento integrante della fattispecie normativa, teso a stabilire, data l'unità della fotocopia del documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra dichiarazione e documento, consentendo di comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, anche l'imputabilità soggettiva della dichiarazione al soggetto che la presta.
L'assenza della copia del documento di identità non determina mera incompletezza del documento idonea a far scattare il potere di soccorso della stazione appaltante tramite la richiesta di integrazioni o chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua giuridica inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al principio della par condicio e della parità di trattamento tra le imprese partecipanti, l'impresa deve essere esclusa per mancanza della prescritta dichiarazione, così come disposto dall'art. 83, comma 9, dlgs 50/2016, laddove prevede che costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa (articolo ItaliaOggi Sette del 03.09.2018).

APPALTI SERVIZIServizi sociali, se gratis no gara. Convenzioni: la p.a. deve motivare perché non fa il concorso. La gratuità delle prestazioni esclude l’applicazione del codice dei contratti pubblici.
Il ricorso alle convenzioni con i soggetti operanti nel terzo settore deve essere sempre adeguatamente motivato e tale da non rendere conveniente l'affidamento con gara; la gratuità delle prestazioni dei servizi sociali giustifica l'esclusione dell'applicazione del codice dei contratti pubblici se risulta assente ogni forma di remunerazione con risorse pubbliche del costo dei fattori produttivi.
Lo ha affermato il Consiglio di Stato, commissione speciale, con il parere 20.08.2018 n. 2052 sulla normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali.
Il parere, che origina da una richiesta formulata dall'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), evidenzia che di regola l'affidamento dei servizi sociali, comunque sia disciplinato dal legislatore nazionale, deve rispettare la normativa pro-concorrenziale di origine europea, in quanto rappresenta una modalità di affidamento di un servizio (in termini euro-unitari, un appalto) che rientra nel perimetro applicativo dell'attuale diritto euro-unitario.
Nel codice del terzo settore (decreto 117 del 2017), l'art. 55 prevede che «le amministrazioni pubbliche... assicurano il coinvolgimento attivo degli enti del terzo settore attraverso forme di co-programmazione e co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi della legge 07.08.1990, n. 241», mentre l'art. 56 è dedicato all'istituto delle convenzioni che le amministrazioni possono stipulare con alcune specifiche tipologie di enti del terzo settore, ossia le organizzazioni di volontariato e le associazioni di promozione sociale, al fine di «svolgere in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale».
Per il Consiglio di stato le procedure di affidamento dei servizi sociali contemplate nel codice del terzo settore (in particolare, accreditamento, co-progettazione e partenariato) «sono estranee al codice dei contratti pubblici ove prive di carattere selettivo, ovvero non tese all'affidamento del servizio, ovvero ancora ove il servizio sia prospetticamente svolto dall'affidatario in forma integralmente gratuita».
A tale proposito si è in presenza di gratuità (con conseguente fuoriuscita dall'ambito oggettuale del codice dei contratti pubblici) se le risorse pubbliche non coprono il costo dei fattori produttivi utilizzati dall'ente e se non vi è alcuna forma di incremento patrimoniale, anche se finalizzato al servizio stesso. In questi casi si dimostra «l'oggettiva assenza dell'economicità».
Per le convenzioni (art. 56) il parere afferma che «ove le circostanze di fatto pongano in evidenza che il ricorso alla convenzione concreti un comportamento vietato in quanto distorsivo del confronto competitivo tra operatori economici in un mercato aperto alla concorrenza, piuttosto che ricorrere a improprie forzature logico-interpretative, appare corretto valutare la disapplicazione dell'art. 56 del dlgs n. 117 del 2017».
In generale però i giudici hanno affermato che «è ragionevole ritenere che le amministrazioni debbano volta per volta motivare la scelta di ricorrere agli stilemi procedimentali delineati dal codice del terzo settore, in luogo dell'indizione di una ordinaria gara d'appalto». Infatti, l'attivazione di una delle forme enucleate dal codice del terzo settore priva de facto le imprese profit della possibilità di affidamento del servizio e, in termini più generali, determina una sostanziale segregazione del mercato.
L'amministrazione dovrà in particolare, evidenziare la maggiore idoneità di tali procedure a soddisfare i bisogni genericamente «sociali» ricorrenti nella fattispecie, alla luce dei principi generali sul buon andamento dell'azione amministrativa
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).

ATTI AMMINISTRATIVINo allo sgombero del centro sociale se il Comune ha tollerato l'occupazione per anni.
No allo sgombero del centro sociale se il comune tollera l'occupazione per venti anni, di fatto legittimandola.

La Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 10.08.2018 n. 38483 respinge il ricorso del Pm e dà partita vinta ai centri sociali. Nello specifico a beneficiare del principio tolleranza uguale legittimazione, è il centro sociale il “Tempo Rosso” di Pignataro Maggiore nel casertano. Un ex macello comunale nel quale si riuniscono attivisti impegnati da anni in un'azione di contrasto contro l'inquinamento dell' immensa discarica abusiva della “terra dei fuochi”.
La pubblica accusa aveva fatto ricorso contro l'ordinanza con la quale il Gip aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo del Pm. Per l'immobile “invaso” erano finiti sotto accusa dieci attivisti, con l'imputazione di occupazione abusiva, imbrattamento, e mancati interventi su edifici pericolanti. Ma nessuna contestazione resta in piedi. Gli indagati erano bambini quando l'ex macello è stato occupato e “il comune aveva prestato ventennale acquiescenza all'occupazione sostanzialmente legittimandola, e impedendo la configurazione del reato”.
Quanto all'imbrattamento è un concetto nel quale non possono rientrare i murales in questione, né si conosce l'identità degli autori. Non passa neppure la censura sulla mancata manutenzione. Non esiste una prova della precarietà dell'immobile e, in ogni caso, lavori di consolidamento e manutenzione spetterebbero al comune proprietario della struttura e non agli indagati.
Per la Cassazione la tolleranza dell'amministrazione locale aveva indotto le persone a considerare lecita l'occupazione. Una convinzione indotta anche attraverso atti positivi come il pagamento dell'utenza relativa al consumo di energia elettrica (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.09.2018).

APPALTIL’iscrizione camerale garantisce congruità. Su requisiti delle imprese per gli appalti.
In una gara di appalto pubblico l'iscrizione alla camera di commercio ha la funzione di filtrare l'ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell'affidamento pubblico; non è necessaria la perfetta sovrapposizione fra oggetto sociale e oggetto dell'appalto.
È quanto ha chiarito il TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter con la sentenza 09.08.2018 n. 8948 rispetto all'esclusione di un'impresa per la quale sarebbe stata falsamente attestata l'iscrizione alla Camera di commercio per attività pertinente all'oggetto dell'appalto.
Il Tar ha ricordato che nell'impostazione del nuovo codice appalti, l'iscrizione camerale assurge a requisito di idoneità professionale (art. 83, commi 1, lett. a, e 3 dlgs n. 50/2016), anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara, di cui alle successive lettere b) e c) del medesimo comma. Anche in base alla giurisprudenza precedente è chiaro che l'utilità sostanziale della certificazione camerale è quella di filtrare l'ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell'affidamento pubblico.
Da qui, deriva, hanno detto i giudici, la necessità non tanto di una verifica formale, quanto di una congruenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell'impresa, come riportate nell'iscrizione alla Camera di commercio, e l'oggetto del contratto d'appalto, desumibile dal complesso di prestazioni in esso previste. Ciò in quanto l'oggetto sociale viene inteso come la «misura» della capacità di agire della persona giuridica, la quale può validamente acquisire diritti ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello stesso, come riportate nel certificato camerale.
Ciò detto, dice la sentenza, non vi è necessità di una perfetta ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento: la stazione appaltante deve effettuare una verifica «non già atomistica e frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto»
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).
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MASSIMA
Deve evidenziare il Collegio che, nell’odierna particolare controversia, non si controverte in ordine alla idoneità della iscrizione camerale a consentire alla ricorrente l’accesso alla gara e la definitiva attribuzione dell’aggiudicazione, perché a fondamento del provvedimento di revoca di quest’ultima, l’Amministrazione ha considerato la rilevanza della non veridicità dell’autodichiarazione.
A tale proposito, rileva il Collegio che, invero, la dichiarazione autografa, redatta a penna e sottoscritta dalla legale rappresentante della ditta non riproduce l’”oggetto” dell’attività come risultante dalla iscrizione camerale, ma appare più propriamente descrittiva dell’oggetto sociale della ditta (“attività di cantiere navale, produzione di imbarcazioni, alaggio, varo e riparazione di imbarcazioni”), come emerge dall’esame della certificazione camerale (vedasi documento allegato 10 del ricorso); attività che, del resto, è attestata anche dalle precedenti commesse svolte (e che erano puntualmente descritte nella documentazione allegata all’offerta a comprova del possesso dei requisiti di qualificazione) una delle quali su incarico della stessa Amministrazione procedente.
La revoca dell’aggiudicazione, alla luce di tale circostanza, si rivela erronea in quanto, nel particolare caso all’esame odierno del Collegio, non è dato rinvenire una vera e propria dichiarazione mendace, essendo la divergenza riscontrata riconducibile ad una stesura “atecnica” dell’autodichiarazione che non assurge ai requisiti minimi della mendacità o falsità (sostanziale) dell’atto e che, quindi, è riconducibile ad una imprecisione di redazione, come un vero e proprio errore scusabile, privo di conseguenze sul piano sostanziale degli effetti.
Del resto, non è senza significato osservare come, secondo la giurisprudenza (vedasi Cons. St. sez. III, 08/11/2017, n. 5170)
nell’impostazione del nuovo codice appalti, l’iscrizione camerale assurge a requisito di idoneità professionale (art. 83, commi 1, lett. “a” e 3 d.lgs n. 50/2016), anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara, di cui alle successive lettere b) e c) del medesimo comma.
Tuttavia, la medesima giurisprudenza è chiara nel ritenere che
l’utilità sostanziale della certificazione camerale è quella di filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento pubblico; ratio dalla quale –nell’ottica di una lettura del bando fedele ai principi vigenti in materia di contrattualistica pubblica, che tenga cioè conto dell’oggetto e della funzione dell’affidamento (1363, 1367 e 1369)– si desume la necessità (non tanto di una verifica formale, quanto) di una congruenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate nell'iscrizione alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste, in quanto l’oggetto sociale viene inteso come la "misura" della capacità di agire della persona giuridica, la quale può validamente acquisire diritti ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello stesso, come riportate nel certificato camerale (Cons. St., n. 648/2012 e n. 4457/2015); si evidenzia altresì che la corrispondenza contenutistica -tra risultanze descrittive del certificato camerale e oggetto del contratto d'appalto- non debba tradursi in una perfetta ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento, ma che la stessa vada appurata secondo un criterio di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità professionale, e quindi in virtù di una considerazione non già atomistica e frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in contratto (TAR L'Aquila, Abruzzo, sez. I 26.02.2018 n. 71, Consiglio di Stato sez. III 08.11.2017 n. 5170, TAR Catania, Sicilia, sez. III 06.12.2016 n. 3165).
Sotto questi profili, non viene revocato in dubbio, nell’odierna fattispecie, che sussista in concreto l’effettiva capacità tecnica e di esperienza della ricorrente; inoltre, l’errore nella dichiarazione è evidentemente scaturito da una mera asincronia, ovvero dalla circostanza che non era stato ancora adeguato dalla ricorrente l’”oggetto” dell’attività nella iscrizione camerale allo svolgimento effettivo delle prestazioni rese in precedenza sulla base dell’oggetto sociale che pure risultava dalla medesima certificazione camerale (adeguamento che, a seguito della rilevazione dell’Amministrazione, è stato invero prontamente eseguito).
Per queste ragioni, i ricorsi sono fondati e meritano accoglimento, con l’annullamento degli atti impugnati e con salvezza di ogni altra motivata decisione dell’Autorità.

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Viene eccepita la violazione del termine di diciotto mesi, decorrente dagli atti oggetto di annullamento. Ebbene:
   - la censura va disattesa, dovendosi osservare che l’art. 21-nonies, comma 2-bis, L. n. 241 del 1990 stabilisce che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445”;
   - nel caso in esame, l’annullamento consegue infatti all’accertamento della falsa rappresentazione degli elementi fattuali posti alla base dei titoli edilizi e, in particolare, della circostanza che essi sarebbero stati conseguiti dai ricorrenti “avendo omesso di rappresentare le distanze dai fabbricati esistenti e dalla strada esistente”;
   - detta circostanza legittima, quanto meno sotto il profilo fattuale e salvo quanto sarà osservato tra breve, l’esercizio del potere di autotutela oltre il termine sancito dal primo comma dell’art. 21-nonies, L. n. 241 del 1990.
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Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, “il potere, nelle forme dell'autotutela ex art. 21-nonies, esercitato a distanza di un periodo compreso tra i tre e i sei anni su una s.c.i.a asseritamente illegittima, a fronte della consistenza dell'affidamento ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della loro efficacia, impone una motivazione particolarmente convincente circa l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto, in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell'interesse pubblico alla eliminazione d'ufficio del titolo.
È necessario, infatti, non solo che l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto viziato non possa coincidere con la mera esigenza della restituzione all'azione amministrativa della legalità violata, ma anche che non possa risolversi nella semplice e astratta ripetizione delle stesse esigenze regolative sottese all'ordine giuridico infranto: una motivazione siffatta finirebbe logicamente proprio per esaurire l'apprezzamento del presupposto discrezionale in un esame nel mero riscontro della condizione vincolante (l'illegittimità dell'atto da annullare d'ufficio), con un palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del legislatore”.
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Considerato che:
   - viene impugnato il provvedimento con cui il Comune di San Giorgio di Nogaro ha disposto l’annullamento, ai sensi dell’art. 21-nonies, L. n. 241 del 1990 della D.I.A. prot. n. 15270/2011, della susseguente D.I.A. prot. n. 7878/2012 e della comunicazione di inizio lavori prot. n. 2607/2015 per la realizzazione di un manufatto, pertinenziale ad un edificio esistente, ad uso autorimessa, e ha contestualmente revocato la relativa agibilità;
   - il provvedimento è motivato sulla base dei seguenti presupposti:
   - “la SCIA presentata è illegittima per la non veritiera prospettazione da parte del privato delle circostanze in fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto a lui favorevole, avendo omesso di rappresentare la distanza dai fabbricati esistenti e dalla strada esistente …”;
   - “il … provvedimento di autotutela adottato oltre sei anni dalla presentazione della Denuncia di Inizio attività 19/12/2011, si ritiene ragionevole in rapporto alla data della scoperta, da parte di questa amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto, al fine di assicurare la tutela delle norme in concreto violate, nella preminenza dell’interesse pubblico che nella fattispecie deve essere riconosciuta alla disciplina urbanistica”;
   - sono proposti molteplici motivi di impugnazione, con i quali vengono contestati, sotto distinti profili, l’esistenza del potere esercitato dall’Amministrazione, in relazione alla scadenza del termine di cui all’art. 21-nonies, L. n. 241 del 1990, l’assolvimento degli oneri motivazionali e l’assenza dei presupposti di fatto, posti a sostegno del provvedimento censurato;
...
Rilevato inoltre che:
   - devono essere esaminati il primo e il terzo motivo di ricorso, da trattarsi in unico contesto in quanto strettamente connessi;
   - nell’ambito di tali censure viene unicamente contestata, benché sotto diverse angolazioni, l’inosservanza del termine previsto per l’adozione del provvedimento di annullamento, di cui all’art. 21-nonies, L. n. 241 del 1990, disposizione a sua volta richiamata dal precedente art. 19, comma 4 allo scopo di determinare i presupposti per l’esercizio dei poteri inibitori dell’Amministrazione, nei casi di S.C.I.A., dichiarazione e denuncia di inizio attività, successivamente allo spirare del termine indicato nel comma 3 (sessanta giorni);
   - viene, in particolare, eccepita la violazione del termine di diciotto mesi, decorrente dagli atti oggetto di annullamento;
   - la censura va disattesa, dovendosi osservare che l’art. 21-nonies, comma 2-bis, L. n. 241 del 1990 stabilisce che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, possono essere annullati dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28.12.2000, n. 445”;
   - nel caso in esame, l’annullamento consegue infatti all’accertamento della falsa rappresentazione degli elementi fattuali posti alla base dei titoli edilizi e, in particolare, della circostanza che essi sarebbero stati conseguiti dai ricorrenti “avendo omesso di rappresentare le distanze dai fabbricati esistenti e dalla strada esistente”;
   - detta circostanza legittima, quanto meno sotto il profilo fattuale e salvo quanto sarà osservato tra breve, l’esercizio del potere di autotutela oltre il termine sancito dal primo comma dell’art. 21-nonies, L. n. 241 del 1990;
   - il secondo motivo di ricorso è invece manifestamente fondato;
   - i ricorrenti, in particolare, eccepiscono “violazione di legge (art. 3 L. n. 241/1990 e art. 4 L.R. FVG n. 7/2000) ed eccesso di potere per omessa o comunque carente motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale e specifico che giustifichi l’esercizio dell’autotutela”, in quanto l’Amministrazione non avrebbe fornito alcun riscontro motivazionale in merito al doveroso raffronto tra la posizione dei destinatari dell’atto e l’affermata preminenza dell’interesse pubblico volto all’eliminazione d’ufficio del titolo edilizio che si assume illegittimo;
   - sul punto, il provvedimento impugnato contiene esclusivamente la seguente laconica enunciazione: “il presente provvedimento di autotutela adottato oltre sei anni dalla presentazione della Denuncia di Inizio attività … si ritiene ragionevole … al fine di assicurare la tutela delle norme in concreto violate, nella preminenza dell’interesse pubblico che nella fattispecie deve essere riconosciuta alla disciplina urbanistica”;
   - secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, “il potere, nelle forme dell'autotutela ex art. 21-nonies, esercitato a distanza di un periodo compreso tra i tre e i sei anni su una s.c.i.a asseritamente illegittima, a fronte della consistenza dell'affidamento ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della loro efficacia, impone una motivazione particolarmente convincente circa l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto, in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell'interesse pubblico alla eliminazione d'ufficio del titolo. È necessario, infatti, non solo che l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto viziato non possa coincidere con la mera esigenza della restituzione all'azione amministrativa della legalità violata, ma anche che non possa risolversi nella semplice e astratta ripetizione delle stesse esigenze regolative sottese all'ordine giuridico infranto: una motivazione siffatta finirebbe logicamente proprio per esaurire l'apprezzamento del presupposto discrezionale in un esame nel mero riscontro della condizione vincolante (l'illegittimità dell'atto da annullare d'ufficio), con un palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del legislatore” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 3462 del 2017);
   - alla luce dell’insegnamento richiamato, la motivazione allegata dall’Amministrazione, focalizzata sulla generica esigenza di dare corso al ripristino della legalità violata, va ritenuta inidonea a delineare le ragioni dell’operato bilanciamento tra l’interesse pubblico alla rimozione della situazione che si è giudicata illegittima e il coesistente affidamento dei privati, da essi riposto nella stabilità dei titoli edilizi formatisi a loro favore;
   - all’accoglimento del motivo d’impugnazione consegue l’annullamento, entro il delineato perimetro, dell’atto impugnato (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 09.08.2018 n. 277 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA  -LAVORI PUBBLICI: BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - Nozione di disboscamento - FAUNA E FLORA - Apertura di un varco boschivo - Bosco: conversione ad un altro tipo di sfruttamento del suolo - VIA VAS AIA - valutazione dell’impatto ambientale - Direttiva 2011/92/UE - DIRITTO DELL'ENERGIA - Installazione e sfruttamento di una linea elettrica aerea.
Il punto 1, lettera d), dell’allegato II alla direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13.12.2011, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, deve essere interpretato nel senso che rientra nella nozione di «disboscamento a scopo di conversione ad un altro tipo di sfruttamento del suolo», ai sensi di tale disposizione, l’apertura di un varco boschivo ai fini dell’installazione e dello sfruttamento di una linea elettrica aerea, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, per la durata della legittima permanenza della stessa (Corte di Giustizia UE, Sez. VIII, sentenza 07.08.2018 C-329/17 - link a www.ambientediritto.it).

TRIBUTIAlloggi contigui, sgravi Imu ko. La giurisprudenza Ici non si trasmette al nuovo tributo. La Corte di cassazione pone uno sbarramento all’estensione della nozione di prima casa.
Con l'ordinanza 31.07.2018 n. 20368 la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, interviene sulla possibilità o meno di estendere la nozione di abitazione principale, nell'Imu, agli alloggi contigui per i quali la Corte aveva espresso parere favorevole in diverse occasioni in ambito Ici.
Ricordiamo, infatti, che con le pronunce nn. 12666/2017, 12665/2017, 3011/2017, 14389/2010, 12269/2010, 12050/2010, 3393/2010, 25731/2009, 25279/2009 e 25902/2008 la Corte aveva ritenuto ammissibile la qualificazione di abitazione principale Ici a tutte le unità abitative contigue utilizzate dal medesimo nucleo familiare, giudicando del tutto irrilevante il fatto che esse fossero censite separatamente, ovvero intestate a soggetti diversi (n. 12269/2010).
Con l'avvento dell'Imu la Corte rileva che lo scenario normativo è profondamente cambiato e, dovendo applicare il principio inderogabile di stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte in tema di Ici, vedasi le sentenze della Corte di cassazione nn. 23833/2017 e 3011/2017), non si può non rilevare la diversa definizione di abitazione principale dettata dall'articolo 13, comma 2, decreto-legge n. 201/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, e successive modifiche e integrazioni.
In particolare, la Corte si sofferma sull'inciso normativo dell'Imu, del tutto assente nell'Ici, che qualifica come abitazione principale «l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente». Tale nuova formulazione della definizione impedisce, di fatto, l'applicabilità all'Imu della giurisprudenza formatasi nell'Ici in riguardo alle unità immobiliari contigue che, pur diversamente accatastate, siano destinate ad essere in concreto utilizzate come abitazione principale dall'intero nucleo familiare.
Questa prima pronuncia dei giudici ha il pregio di confermare in toto la tesi degli enti locali i quali, in presenza di unità contigue occupate dal medesimo nucleo, attribuiscono la qualifica di abitazione principale ad una sola delle unità occupate, pretendendo il versamento dell'Imu ordinaria dalle altre.
Resterà da verificare se siffatta tesi potrà essere assunta e ribadita dalla Corte anche nel caso in cui i contribuenti abbiano provveduto alla fusione catastale ai fini fiscali delle due o più unità contigue, in conformità a quanto previsto dalla Circolare dell'Agenzia del territorio n. 15232 del 21/02/2002 e dalla Circolare dell'Agenzia delle entrate n. 27/E del 13/06/2016
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).
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MASSIMA
4. Il secondo motivo è invece manifestamente fondato.
Giova premettere in fatto che la presente controversia trae origine da istanza di rimborso formulata dai contribuenti sul presupposto che dovessero entrambi beneficiare dell'agevolazione prevista dall'art. 13, comma 2, del d.l. 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella l. 24.12.2011, n. 214, in relazione al fatto che essi, padre e figlia, possedessero come abitazione principale, ivi dimorandovi stabilmente ed avendo lì la propria residenza anagrafica, l'unità immobiliare di proprietà l'una dell'altro.
4.1. Osserva la Corte che il tenore letterale della norma in esame è chiaro, diversificandosi in modo evidente dalla previsione in tema di ICI in tema di agevolazione relativa al possesso di abitazione principale, oggetto di diversi interventi normativi.
L'art. 13, comma 2, del citato d.l. n. 201/2011, per quanto qui rileva, statuisce che «
L'imposta municipale propria non si applica al possesso dell'abitazione principale e delle pertinenze della stessa, ad eccezione di quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9 [... J. Per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore ed il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente».
Ciò comporta, per un verso, la non applicabilità della giurisprudenza della Corte formatasi in tema di ICI, riferita, peraltro, ad unità immobiliari contigue che, pur diversamente accatastate, fossero destinate ad essere in concreto utilizzate come abitazione principale del compendio nel suo complesso (cfr. Cass. sez. 5, 29.10.2008, n. 25902; Cass. sez. 5, 09.12.2009, n. 25279; Cass. sez. 5, 12.02.2010, n. 3393; Cass. sez. 6-5, ord. 03.02.2017, 3011), per altro la necessità che in riferimento alla stessa unità immobiliare tanto il possessore quanto il suo nucleo familiare dimorino ivi stabilmente e vi risiedano anagraficamente.
4.2. Ciò, d'altronde, è conforme all'orientamento costante espresso da questa Corte, in ordine alla natura di stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte, in tema di ICI, più di recente, cfr. Cass. sez. 5, 11.10.2017, n. 23833; Cass. sez. 6-5, ord. 03.02.2017, n. 3011), condiviso anche dalla Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 20.11.2017, n. 242).
4.3. D'altronde, come indiretta conferma di quanto sopra osservato, rileva anche la modifica introdotta, nel contesto del citato 13 del d.l. n. 201/2011, con l'aggiunta, ad opera dell'art. 1, comma 10, della l. n. 208/2015, della previsione, al comma 3, del comma Oa), secondo cui, solo con decorrenza dal 01.01.2016, la base imponibile dell'imposta municipale propria è ridotta del 50% «per le unità immobiliari, fatta eccezione per quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, concesse in comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado che le utilizzano come abitazione principale, a condizione che il contratto sia registrato e che il comodante possieda un solo immobile in Italia e risieda anagraficamente nonché dimori stabilmente nello stesso comune in cui è situato l'immobile concesso in comodato [...]».
5. Il ricorso del Comune di Torino va pertanto accolto in relazione al secondo motivo, con conseguente cassazione dell'impugnata sentenza.

APPALTIIl Rup può escludere l’offerta anomala anche senza parere della commissione di gara.
Il responsabile unico del procedimento può condurre il procedimento di verifica dell'anomalia dell'offerta secondo le proprie valutazioni tecniche e non può ritenersi obbligato a richiedere il supporto della commissione di gara. Inoltre, una volta ricevute e valutate le giustificazioni, il Rup non ha alcun obbligo di avviare ulteriori contraddittori con l'impresa interessata.

Così il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, nella sentenza 31.07.2018 n. 1904, che dà un’importante lettura anche delle linee guida Anac n. 3/2018 sui compiti del Rup.
La verifica dell'anomalia
Il ricorrente impugna il provvedimento del Rup che ha disposto l'esclusione dal procedimento di gara per anomalia dell'offerta, perché la verifica espletata sarebbe incompleta e illegittima per non aver chiesto il supporto della commissione di gara come previsto dal codice e dalle linee guida Anac.
Ulteriore illegittimità, secondo il ricorrente, va riscontrata anche nella conduzione del procedimento in quanto il responsabile unico, verificate le giustificazioni, non ha attivato ulteriori contraddittori procedendo subito con le esclusioni.
La decisione
Il giudice non è persuaso dalle ragioni del ricorrente. In primo luogo, in sentenza si rileva che il supporto di cui il Rup potrebbe avvalersi non deve essere inteso come obbligatorio, né come un parere che deve esprimere l'organo valutatore.
Il riferimento al supporto, invece, per il Tar Lombardia va inteso in senso atecnico «trattandosi di un termine che può essere inteso in vario modo, fra cui anche come un mero ausilio di svariato contenuto, volto appunto a “supportare” il Rup nella propria attività, che quest'ultimo è libero però di attivare se lo reputa opportuno, quindi senza la configurabilità di un obbligo giuridico di coinvolgimento della commissione di gara».
A bene vedere, lo stesso riferimento -contenuto anche nelle linee guida Anac n. 3 sulle funzioni del Rup- prefigurano, in relazione al procedimento di verifica della congruità dell'offerta, una funzione “servente” della commissione di gara rispetto ai compiti del responsabile del procedimento.
In definitiva, la lettura corretta della disposizione «sembra piuttosto orientata a imporre alla commissione stessa di fornire, se richiesta dal responsabile, la propria cooperazione, senza che la stessa possa opporvi l’estraneità ai propri compiti». E in ogni caso, la nozione di supporto che emerge dalle linee guida «non deve essere confusa con quella di “parere”, che appare invece giuridicamente più chiara, essendo ad esempio espressamente contemplata nella legge 241/1990 sul procedimento amministrativo».
La questione del contraddittorio
Circa la questione del contraddittorio ulteriore -successivo alla produzione delle giustificazioni- il giudice ne conferma il superamento considerato che l’attuale articolo 97 del codice dei contratti, innovando rispetto alla previgente disciplina del D.Lgs. 163/2006, «ha semplificato il sub procedimento di verifica dell’anomalia», stabilendo solo che la stazione appaltante è tenuta a richiedere «per iscritto spiegazioni sull’offerta, senza però che sia previsto l’obbligo di una ulteriore interlocuzione con il partecipante dopo la trasmissione delle giustificazioni».
La stessa giurisprudenza è concorde sul carattere innovativo dell'articolo 97, che non delinea una rigida scansione procedimentale e che ha abbandonato il procedimento trifasico di cui all'abrogato articolo 88 del Dlgs 163/2006 (Tar Campania, Napoli, sezione VI, sentenza 05.03.2018 n. 1406 e sezione IV, 30.05.2018 n. 3584, oltre a Tar Lombardia, Milano, sezione IV, sentenza 21.07.2017 n. 1654).
Va ritenuto legittimo, quindi, il comportamento del Rup che esprime la propria valutazione di anomalia dopo aver proceduto con la verifica completa delle giustificazioni (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.09.2018).

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MASSIMA
La doglianza, per quanto suggestiva, è infondata, per le ragioni che seguono.
In primo luogo, gli articoli 31 e 77 del codice, riguardanti rispettivamente le figure del RUP e della commissione giudicatrice, non contengono la previsione espressa che il RUP, allorché deve valutare l’anomalia di un’offerta, ha comunque l’obbligo di avvalersi del parere della commissione di gara, posto che nessuno dei due articoli lo prevede espressamente.
Neppure l’art. 97 del codice, sulle offerte anormalmente basse, contempla un simile obbligo, anzi si riferisce semplicemente, allorché disciplina il procedimento di verifica dell’anomalia, alla “stazione appaltante”, senza altro aggiungere.
Al contrario, il citato art. 31 assegna al RUP (comma 3) lo svolgimento di tutti i compiti relativi alle procedure previste dal codice, che non siano specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti (cfr. sul punto la recente sentenza del TAR Veneto, sez. I, 27.06.2018 n. 695, che qualifica il RUP quale “dominus della procedura di gara, in quanto titolare di tutti i compiti prescritti”).
L’art. 77 del codice, poi, attribuisce alla commissione il compito di valutazione delle offerte tecniche ed economiche, ma nulla dice sulla eventuale verifica di anomalia, che deve reputarsi quindi di spettanza esclusiva del RUP, stante l’art. 31 sopra indicato.
Quanto alle linee guida ANAC, anche ammesso che il giudice ne sia pur indirettamente vincolato, il riferimento della ricorrente è a quelle di cui al n. 3 del 2016, approvate con deliberazione n. 1096/2016, nel testo che viene ritenuto applicabile ratione temporis alla presente fattispecie, nelle quali è previsto che il RUP effettui la verifica di anomalia “con il supporto della commissione”.
Il richiamo al “supporto”, secondo la ricorrente –che cita sul punto anche un precedente giurisprudenziale– implica che il parere della commissione sulla verifica di anomalia svolta dal RUP debba considerarsi obbligatorio.
Tale tesi non convince però il Collegio, considerato che la nozione di “supporto” non appare giuridicamente univoca, e sembra invece atecnica, trattandosi di un termine che può essere inteso in vario modo, fra cui anche come un mero ausilio di svariato contenuto, volto appunto a “supportare” il RUP nella propria attività, che quest’ultimo è libero però di attivare se lo reputa opportuno, quindi senza la configurabilità di un obbligo giuridico di coinvolgimento della commissione di gara: la disposizione sembra piuttosto orientata a imporre alla commissione stessa di fornire, se richiesta dal responsabile, la propria cooperazione, senza che la stessa possa opporvi l’estraneità ai propri compiti.
In ogni caso, la nozione di “supporto” –contenuta nelle linee guida ANAC– non deve essere confusa con quella di “parere”, che appare invece giuridicamente più chiara, essendo ad esempio espressamente contemplata nella legge 241/1990 sul procedimento amministrativo (cfr. l’art. 16 di quest’ultima).
Se ANAC avesse voluto subordinare l’operato del RUP al parere obbligatorio della commissione, avrebbe presumibilmente utilizzato un diverso lessico, con l’espresso riferimento all’istituto giuridico, ben noto nel diritto amministrativo, del “parere”.
A conferma di quanto sopra, si rileva ancora che le linee guida n. 3/2016 sono state modificate dalla stessa ANAC nel 2017 e, per quanto ivi interessa, il richiamo al “supporto” della commissione è stato accompagnato dall’introduzione dell’aggettivo “eventuale”, riferito al supporto stesso (cfr. il punto 5.3 della versione aggiornata delle linee guida citate).
Tale modifica però non vale a confermare la tesi della ricorrente, dovendosi ritenere che, per il profilo sopra indicato, ANAC abbia soltanto voluto meglio chiarire e spiegare la portata della precedente disposizione, nel senso cioè della non obbligatorietà del “supporto”.
Infatti, nella relazione illustrativa di ANAC agli aggiornamenti delle linee guida n. 3/2016 (cfr. il doc. 16 della ricorrente), la stessa Autorità (cfr. pag. 5), evidenzia che per effetto dell’aggiornamento i compiti svolti dal RUP con riferimento alla verifica di congruità delle offerte “sono stati meglio esplicitati”, quindi non modificati o variati ma semplicemente chiariti, il che conferma che anche prima dell’aggiornamento il supporto non aveva carattere obbligatorio.
L’obbligatorietà non può neppure essere desunta dalla citata disposizione del disciplinare di gara che si riferisce anch’essa al “supporto” della commissione.
L’interpretazione della lex specialis, infatti, deve essere condotta nel rispetto di criteri di proporzionalità ed adeguatezza, evitando anche inutili aggravi o appesantimenti del procedimento, per cui correttamente la nozione di “supporto” è stata intesa come ausilio facoltativo al RUP, in conformità alla disciplina normativa sopra indicata.
Da ultimo preme evidenziare che il TAR Veneto, sez. III, con sentenza n. 348/2018, a proposito dei citati aggiornamenti delle linee guida n. 3/2016, ha espressamente stabilito che: «4.- Con l’ultima doglianza, infine, parte ricorrente contesta l’omessa acquisizione, in sede di valutazione della congruità dell’offerta dell’aggiudicataria, del parere della Commissione giudicatrice, conformemente a quanto asseritamente prescritto dalle linee guida ANAC in attuazione della disposizione contenuta nell’art. 31, V comma, del codice dei contratti. L’infondatezza della doglianza è conseguente alla considerazione che le linee guida ANAC, aggiornate con deliberazione consiliare 11.10.2017 n. 1007 –tale disposizione ha carattere procedimentale, con conseguente immediata validità-, prevedono che “nel caso di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, il RUP verifica la congruità delle offerte con l’eventuale supporto della commissione giudicatrice” (cfr. il predetto documento, pag. 9, punto 5.3): pertanto, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, il supporto della commissione giudicatrice è soltanto eventuale, a discrezionalità del RUP».
Nel caso di specie il subprocedimento di verifica dell’anomalia è stato avviato il 06.12.2017 (cfr. il doc. 2 della ricorrente), mentre la delibera ANAC di aggiornamento è quella n. 1007 dell’11.10.2017 (cfr. il doc. 16 della ricorrente), per cui anche sotto tale profilo la doglianza appare infondata.
Si conferma, in definitiva, il rigetto del primo motivo di ricorso.
1.2 Nel secondo motivo l’esponente lamenta la violazione del contraddittorio procedimentale in sede di verifica dell’anomalia, in quanto il RUP, dopo avere esaminato le giustificazioni, ha disposto l’esclusione senza interpellare nuovamente la ricorrente.
Sul punto occorre evidenziare che l’art. 97 del codice, innovando rispetto alla previgente disciplina del D.Lgs. 163/2006, ha semplificato il sub procedimento di verifica dell’anomalia, stabilendo soltanto (cfr. il comma 5), che la stazione appaltante debba chiedere per iscritto spiegazioni sull’offerta, senza però che sia previsto l’obbligo di una ulteriore interlocuzione con il partecipante dopo la trasmissione delle giustificazioni.
Il codice ha quindi sostituito integralmente la vecchia disciplina, che ai commi da 1-bis a 7 dell’art. 88 dell’abrogato codice dei contratti, fissava una minuziosa scansione procedimentale, che prevedeva, dopo le precisazioni fornite dal partecipante, la convocazione del medesimo per un’audizione.
La giurisprudenza è concorde sul carattere innovativo dell’art. 97, che non delinea una rigida scansione procedimentale e che ha abbandonato il procedimento c.d. trifasico di cui all’abrogato art. 88 del D.Lgs. 163/2006 (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2018 n. 1406 e sez. IV, 30.05.2018, n. 3584, oltre a TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 21.07.2017, n. 1654).
Non essendovi più alcun obbligo di contraddittorio ulteriore dopo la presentazione delle giustificazioni, non può essere reputata illegittima la decisione dell’amministrazione che, valutate in ogni modo complete le giustificazioni stesse, si determina immediatamente sulla valutazione di anomalia, anche ritenendo l’offerta non congrua e procedendo di conseguenza alla sua esclusione.
Fermo restando quanto sopra esposto, deve anche rilevarsi che, come meglio sarà illustrato esaminando il terzo mezzo di gravame, il provvedimento di esclusione appare in ogni modo adeguatamente motivato ed esaustivo, per cui la presunta violazione procedimentale non darebbe comunque luogo ad illegittimità del provvedimento finale ai sensi dell’art. 21-octies della legge 241/1990.
Si conferma quindi il rigetto del secondo motivo.

EDILIZIA PRIVATA: Notai - Trasferimento di beni immobili abusivi e verifica in concreto della gravità dell'irregolarità urbanistica - Notaio abusivismo edilizio e doverosa assunzione di responsabilità - Commercio giuridico degli immobili e nullità urbanistica - Nullità di un contratto di compravendita - Rimessione della questione alle sezioni unite - Art. 46 d.p.r. 380/2001.
La nozione di irregolarità urbanistica è nozione assai ampia, che presenta un esteso ventaglio di articolazioni, dall'immobile edificato in assenza di concessione all'immobile edificato in totale difformità dalla concessione all'immobile che presenta una variazione essenziale rispetto alla concessione o, ancora, a quello che presenta una parziale difformità dalla concessione.
Pertanto, la natura sostanziale della nullità urbanistica finisce con il far dipendere la validità del contratto di trasferimento da valutazioni -quali quelle legate alla differenza tra variazione essenziale e variazione non essenziale, natura primaria o secondaria dell'abuso, condonabilità o meno dell'abuso stesso- che, se sul piano teorico possono considerarsi sufficientemente nitide, nella loro applicazione in una fattispecie concreta possono implicare non pochi margini di opinabilità.
Tanto più che la questione della verifica in concreto della gravità dell'irregolarità urbanistica di uno specifico fabbricato, ai fini della loro sanatoria e dell'applicazione delle sanzioni di carattere pubblicistico previste dalla legge per contrastare il fenomeno dell'abusivismo, è demandata dalla legge alle amministrazioni municipali (le cui normative ed i cui orientamenti interpretativi non sempre forniscono criteri di valutazione idonei ad orientare con chiarezza e certezza le valutazioni dei tecnici delle parti contraenti e dello stesso notaio rogante), oltre che, in seconda battuta, al giudice amministrativo.
Per cui, si rende opportuna la rivalutazione, da parte delle Sezioni Unite, della natura formale o sostanziale della nullità urbanistica è, in ultima analisi, una ragione di bilanciamento tra le esigenze del contrasto all'abusivismo (che potrebbero ritenersi sufficientemente tutelate dalla nullità formale derivante dalla mancata menzione nell'atto di trasferimento degli strumenti concessori dell'immobile ivi dedotto) e le esigenze di tutela dell'acquirente nel caso di una difformità dell'immobile dal titolo concessorio menzionato nell'atto che, al momento dell'acquisto, egli (o i suoi tecnici o il notaio rogante) non abbiano rilevato o, pur rilevandola, abbiano qualificato come difformità parziale e non essenziale.
In questo caso -ferma restando la possibilità dell'acquirente di chiedere, se ne ricorrano i presupposti, la risoluzione del contratto o la tutela redibitoria o quella risarcitoria- potrebbe ritenersi, e si rimette la relativa valutazione alle Sezioni Unite, che la sanzione della nullità, con la conseguente perdita della proprietà dell'immobile da parte dell'acquirente che lo abbia pagato, risulti sproporzionata rispetto al fine pubblicistico che la legge intende tutelare.

DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica - Principio generale della nullità (di carattere sostanziale) - Art. 46 d.p.r. 380/2001.
Il «principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiunge una nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi».
Conferma di tale principio viene tratta dal rilievo che la possibilità che l'atto nullo venga confermato mediante un atto successivo contenente le menzioni omesse risulta prevista dall'articolo 40, terzo comma, l. 47/1985 (nonché, può aggiungersi, dall'articolo 17, quarto comma, l. 47/1985 e, ora, dall'articolo 46, quarto comma, d.p.r. 380/2001) solo nella ipotesi in cui la mancanza delle dichiarazioni non sia dipesa dall'insussistenza della licenza o della concessione o dall'inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo della stipula dell'atto stesso.
Nella specie, ai fini della composizione del rilevato contrasto diacronico sulla natura della nullità urbanistica, sono stati rimessi gli atti al Primo Presidente per l'assegnazione alle Sezioni Unite
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Il primo motivo di ricorso pone una questione di diritto su cui il Collegio ritiene di dover svolgere le seguenti considerazioni.
La previsione della nullità degli atti relativi a costruzioni abusive venne introdotta nell'ordinamento dalla legge n. 10/1977 (c.d. legge Bucalossi); già precedentemente, peraltro, la sanzione della nullità era stata prevista la legge n. 765/1967 (c.d. "legge ponte"), all'articolo 10, per gli atti di compravendita di terreni abusivamente lottizzati.
L'articolo 15, comma 7, della legge n. 10/1977 (poi abrogato dall'articolo 2 della legge n. 47/1985) recitava: "gli atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite in assenza di concessione sono nulli ove da essi non risulti che l'acquirente era a conoscenza della mancanza della concessione". La ratio di tale disposizione era la protezione dell'acquirente più che il contrasto all'abusivismo e, coerentemente con tale ratio, la nullità negoziale ivi comminata venne qualificata dalla giurisprudenza come relativa (Cass. n. 8685/1999 e altre).
Con la successiva legge n. 47 del 1985 (articoli 17, primo comma, e 40, secondo comma) il legislatore introdusse la sanzione della nullità ("sono nulli e non possono essere stipulati") degli atti tra vivi di trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali -relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione fosse iniziata dopo l'entrata in vigore della legge- che non contenessero, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi della concessione ad edificare (art. 17) o del condono edilizio o della domanda di condono edilizio con gli estremi dei prescritti versamenti (art. 40).
La nullità di cui alla legge 47/1985 (oggi riprodotta nella disposizione del primo comma dell'articolo 46 del d.p.r. 380/2001) si collocava, come è stato osservato in dottrina, a cavallo di prospettive eterogenee.
Per un verso il legislatore, rimuovendo qualunque riferimento alla mancata conoscenza della concessione da parte dell'acquirente dell'immobile, potenziava il profilo della tutela dell'interesse pubblico al contrasto all'abusivismo; donde la riconosciuta natura assoluta, e non relativa, di tale nullità (Cass. 8685/1999, Cass. 630/2003, Cass. 23541/2017).
Per altro verso, tuttavia, il medesimo legislatore mostrava un'attenzione all'esigenza di non paralizzare il commercio giuridico degli immobili maggiore di quella mostrata con la legge n. 10/1977.
Infatti, sotto un primo profilo, il regime di incommerciabilità assoluta degli immobili abusivi previsto da quest'ultima legge (che attingeva qualunque atto "atto giuridico" avente ad oggetto immobili costruiti in assenza di concessione) veniva sostituito da un regime in cui la nullità derivante dalla natura abusiva dell'immobile dedotto in contratto non incideva né sugli atti concernenti diritti reali di garanzia e di servitù (per effetto di previsione normativa espressa), né sugli atti mortis causa (per effetto della limitazione della previsione della nullità agli atti tra vivi).
Sotto un secondo profilo, il rigore della sanzione della nullità risulta attenuato dal rimedio della conferma dell'atto nullo di cui al quarto comma dell'articolo 17 e al terzo comma dell'articolo 40 della legge n. 47/1985 (e al quarto comma dell'articolo 46 del d.p.r. 380/2001).
All'evidenziata ambiguità della disciplina introdotta dalla legge n. 47/1985 e ripresa dal d.p.r. 380/2001 -la quale, se da un lato mira a sanzionare l'abusivismo edilizio precludendo la possibilità che immobili abusivi possano essere venduti in forza di accordi fra le parti, dall'altro appare non insensibile all'esigenza di garantire una qualche forma di tutela del traffico giuridico e dell'interesse dell'acquirente di evitare la nullità dell'atto di trasferimento- sembra potersi ricondurre la dicotomia diacronicamente sviluppatasi nella giurisprudenza di questa Corte sul modo di intendere la nullità urbanistica.
Secondo un più risalente orientamento, che privilegia un'interpretazione letterale della norma, gli artt. 17 e 40 della legge 28.02.1985, n. 47 comminano la nullità degli atti tra vivi con i quali vengano trasferiti diritti reali su immobili nel caso in cui tali atti non contengano la dichiarazione degli estremi della concessione edilizia dell'immobile oggetto di compravendita, ovvero degli estremi della domanda di concessione in sanatoria, mentre non prendono in considerazione l'ipotesi della irregolarità sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico, ossia della conformità o meno della realizzazione edilizia rispetto alla licenza o alla concessione; tale conformità, pertanto, rileva sul piano dell'adempimento del venditore ma non su quello della validità dell'atto di trasferimento.
L'indicazione nell'atto degli estremi dello strumento concessorio costituisce quindi, secondo questo orientamento, una tutela per l'acquirente, il quale tramite tale indicazione viene messo in condizione di controllare la conformità dell'immobile alle risultanze dalla concessione edilizia o della concessione in sanatoria; solo la mancanza di tale indicazione (e non anche la difformità dell'immobile) comporta, quindi, la nullità del negozio, giacché impedisce il suddetto controllo all'acquirente (cfr. sentt. nn. 14025/1999, 8147/2000, 5068/2001, 5898/2004, 26970/2005; si veda anche, per l'affermazione dell'irrilevanza della non veridicità della dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante l'inizio dell'opera in data anteriore al 02.09.1967, sent. n. 16876/2013).
Tale orientamento ha formato oggetto di un radicale riesame critico nelle sentenze della seconda sezione di questa Corte nn. 23591/2013 e 28194/2013 (decise nella medesima udienza del 18.06.2013), le quali hanno ritenuto di trarre dal testo del secondo comma dell'articolo 40 della legge n. 47/1985 (e ad onta della «non perfetta formulazione della disposizione») il «principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si aggiunge una nullità (di carattere formale) per gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi».
Conferma di tale principio viene tratta, nelle citate sentenze, dal rilievo che la possibilità che l'atto nullo venga confermato mediante un atto successivo contenente le menzioni omesse risulta prevista dall'articolo 40, terzo comma, l. 47/1985 (nonché, può aggiungersi, dall'articolo 17, quarto comma, l. 47/1985 e, ora, dall' articolo 46, quarto comma, d.p.r. 380/2001) solo nella ipotesi in cui la mancanza delle dichiarazioni non sia dipesa dall'insussistenza della licenza o della concessione o dall'inesistenza della domanda di concessione in sanatoria al tempo della stipula dell'atto stesso.
Alla base di questo più recente orientamento vi è:
   - in primo luogo, il rilievo che la tesi della nullità formale produrrebbe il risultato -contrastante con la ratio di impedire il trasferimento degli immobili abusivi- di far giudicare nullo un contratto avente ad oggetto un immobile urbanisticamente regolare (per il vizio formale della mancata menzione nell'atto del titolo concessorio) e valido un contratto avente ad oggetto un immobile anche totalmente difforme dallo strumento concessorio menzionato nel contratto;
   - in secondo luogo, il rilievo che dal tenore letterale dell'art. 40, comma 2, l. n. 47/1985 sarebbe possibile desumere (nonostante la "non perfetta formulazione della disposizione in questione") la previsione di due differenti ipotesi di nullità: una, di carattere sostanziale, che colpisce "gli atti di trasferimento di immobili non in regola con la normativa urbanistica" e una, di carattere formale, che colpisce "gli atti di trasferimento di immobili in regola con la normativa urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione, ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi" (i virgolettati sono tratti da Cass. 23591/2013, pagina 14, primo capoverso).
Nelle citate sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013 si è altresì affermato il principio che la summenzionata nullità «sebbene riferita agli atti di trasferimento con immediata efficacia reale, si estende al preliminare, con efficacia meramente obbligatoria, in quanto avente ad oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per contrarietà a norma imperativa».
Questa seconda affermazione non ha trovato seguito nella successiva giurisprudenza di legittimità (salvo che, tra le pronunce massimate, nella sentenza n. 18261/2015, anch'essa della seconda sezione, la quale ha affermato la nullità ex art. 40 l. 47/1985 di un contratto qualificato dalla corte di merito come preliminare senza tuttavia, soffermarsi espressamente sulla questione della applicabilità di tale disposizione ai contratti con effetti obbligatori); l'esclusione dei contratti obbligatori dall'ambito di operatività della nullità ex art. 40 l. 47/1985 -costantemente affermata nella giurisprudenza anteriore alle citate sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013 (cfr., tra le tante, le sentenze nn. 6018/1999, 14489/2005, 9849/2007, 15734/2011)- è stata infatti ribadita, pur dopo le sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013, nelle sentenze della terza sezione nn. 28456/2013 e 21942/2017 e nelle sentenze della seconda sezione nn. 9318/2016 e 11659/2018.
Ai fini del presente giudizio, in cui si discute della nullità di un contratto di compravendita, rileva tuttavia soltanto la prima delle suddette affermazioni, ossia quella relativa alla natura "sostanziale" della nullità di cui agli articoli 17 e 40 della legge n. 47/1985 (ora articolo 46, d. p. r. 380/2001); affermazione successivamente ribadita nelle sentenze 25811/2014 e 18261/2015. Tale orientamento, in sostanza, riconduce la nullità urbanistica al disposto del primo comma dell'articolo 1418 c.c., ossia nell'ambito delle nullità c.d. "virtuali", laddove l'orientamento precedente considerava tale nullità come una nullità "testuale" ai sensi dell'ultimo comma del medesimo articolo 1418 c.c..
Ad avviso del Collegio, l'orientamento inaugurato dalle sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013 merita una riconsiderazione da parte delle Sezioni Unite.
La tesi della nullità virtuale, oltre a non trovare un solido riscontro nella lettera della legge (nella quale si sanziona con la nullità l'assenza di una dichiarazione negoziale dell'alienante avente ad oggetto gli estremi dei provvedimenti concessori relativi all'immobile dedotto in contratto, senza alcun riferimento alla necessità che la consistenza reale di tale immobile sia conforme a quella risultante dai progetti approvati con detti provvedimenti concessori) può risultare foriera di notevoli complicazioni nella prassi applicativa e, conseguentemente, rischia di pregiudicare in maniera significativa gli interessi della parte acquirente; quest'ultima, infatti, si vede esposta, con la dichiarazione di nullità dell'atto di trasferimento, alla perdita dell'immobile (con la conseguente necessità di procedere al recupero del prezzo versato) pure in situazioni nelle quali aveva fatto incolpevole affidamento sulla validità dell'atto.
Al riguardo il collegio rileva che la nozione di irregolarità urbanistica è nozione assai ampia, che presenta un esteso ventaglio di articolazioni, dall'immobile edificato in assenza di concessione all'immobile edificato in totale difformità dalla concessione all'immobile che presenta una variazione essenziale rispetto alla concessione o, ancora, a quello che presenta una parziale difformità dalla concessione.
La giurisprudenza di questa Corte ha espresso un orientamento "alquanto prudente" (così viene definito in Cass. 11659/2018, pag. 5) nell'uso dello strumento della incommerciabilità del bene quale riflesso della nullità negoziale dipendente dalla irregolarità urbanistica dell'immobile; si considerino al riguardo, con riferimento ai contratti a effetti reali, Cass. 52/2010, che giudica irregolari e, come tali, non commerciabili quei fabbricati che abbiano subito "modifiche nella sagoma o nel volume rispetto a quello preesistente"; nonché, con riferimento all'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere un contratto ex art. 2392 c.c., la stessa sentenza n. 11659/2018 e le sentenze nn. 20258/2009 e 8081/2014, secondo le quali, ai sensi dell'art. 40 della legge n. 47/1985, può essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex art. 2932 c.c. nel caso in cui l'immobile abbia un vizio di regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della parziale difformità rispetto alla concessione.
Tali ultime tre sentenze enunciano principi di particolare interesse ai fini che ci occupano.
In Cass. n. 20258/2009, pur richiamandosi l'indirizzo, all'epoca dominante, della natura formale della nullità urbanistica e della relativa riconduzione alla categoria delle nullità testuali di cui all'ultimo comma dell'articolo 1418 c.c. ("la legge eleva a requisito formale del contratto la presenza in esso di alcune dichiarazioni ed è la loro assenza che di per sé comporta la nullità dell'atto, a prescindere cioè dalla regolarità dell'immobile che ne costituisce l'oggetto", pag. 16) si afferma che la ratio legis è quella di "garantire che il bene nasca e si trasmetta nella contrattazione soltanto se privo di determinati caratteri di abusivismo" (pag. 18) e, richiamando Cass. 9647/2006, si stabilisce che il presupposto dell'obbligo di dichiarare in contratto gli estremi della concessione edilizia (o della documentazione alternativa, rappresentata dalla concessione in sanatoria) è che tali documenti effettivamente esistano, concludendo quindi (sul rilievo che la presenza o la mancanza dello strumento concessorio non possono essere affermate in astratto, ma devono essere affermate in relazione all' immobile concretamente dedotto in contratto) nel senso della nullità di un atto di trasferimento (o della non eseguibilità in forma specifica di un obbligo di trasferire) avente ad oggetto immobili costruiti in maniera così diversa dalla previsione contenuta nella licenza o nella concessione da non potere essere ricondotti alla stessa.
Con la sentenza n. 20258/2009 si è quindi, in sostanza, aperto un primo varco nella concezione della natura formale della nullità urbanistica, affermandosi che, ai fini della validità dell'atto di trasferimento (e della suscettibilità di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre) non è sufficiente che nell'atto sia menzionato (o nel giudizio di esecuzione in forma specifica venga prodotto) lo strumento concessorio, ma è altresì necessario che tale strumento sia effettivamente riferibile alla concreta consistenza dell'immobile dedotto in contratto, fermo restando che a tali fini non è rilevante la mera difformità parziale dell'immobile rispetto al progetto approvato con lo strumento concessorio.
I principi espressi nella sentenza n. 20258/09 sono stati poi ripresi e specificati, in materia di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre, nelle sentenze (successive al revirement di cui alle sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013) n. 8081/2014 e 11659/2018.
Nella sentenza n. 8081/2014 -con riguardo alla possibilità di eseguire in forma specifica un contratto preliminare relativo ad un immobile difforme dal progetto approvato con la concessione o il condono- si è valorizzata la distinzione tra l'ipotesi di difformità totale o variazione essenziale (artt. 7 e 8 della legge n. 47/1985) e l'ipotesi di variazione parziale e non essenziale (art. 12 della legge n. 47/1985).
Nella sentenza n. 11659/2018 -sempre con riguardo alla possibilità di eseguire in forma specifica un contratto preliminare relativo ad un immobile difforme dal progetto approvato con la concessione o il condono- si è poi affermato che l'applicazione della regola della nullità come sanzione va preceduta dalla verifica della esistenza di norme che consentono alla fattispecie di sfuggire alla norma imperativa apparentemente applicabile e si è evidenziato come, in tema di vendita di immobili, il sovrapporsi della legislazione speciale introdotta a partire dal 1985 imponga di tener conto della distinzione tra ipotesi di abuso primario (relativo a beni immobili edificati o resi abitabili in assenza di concessione e alienati in modo autonomo rispetto all'immobile principale di cui in ipotesi facevano parte) e abuso secondario (caratterizzato dalla circostanza che solo una parte di unità immobiliare già esistente abbia subito modifica o mutamento di destinazione d'uso) e si è sottolineato come proprio la normativa in materia di condoni edilizi costituisca una delle ipotesi di "disposizioni di legge" che limitano la nullità ex art. 1418, primo comma, quale effetto di qualsivoglia irregolarità urbanistica.
Tornando allo specifico tema del presente giudizio, vale a dire quello della invalidità del contratto ad effetti reali, il Collegio in primo luogo evidenzia che né nelle sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013 né nelle sentenze nn. 25811/2014 e 18261/2015 (che a quelle hanno dato seguito), si distingue tra le ipotesi di difformità totale o variazione essenziale e l'ipotesi di variazione parziale non essenziale, giacché in tali pronunce si enuncia il principio generale della nullità (di carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di "immobili non in regola con la normativa urbanistica" (così a pag. 14 di Cass. n. 23591/2013, a pag. 12 di Cass. n. 28194/2013 e a pag. 4 di Cass. n. 25811/2014; di immobili che "non siano in regola con la normativa urbanistica" si parla, infine, nella sentenza n. 18261/2015 a pag. 8).
Sotto un primo profilo sarebbe quindi auspicabile un chiarimento, da parte delle Sezioni Unite, sulla portata della nozione di irregolarità urbanistica, ai fini che ci occupano, e sulla possibilità di applicare, in tema di validità degli atti traslativi, la distinzione -elaborata in tema di esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre- tra variazione essenziale e variazione non essenziale dell'immobile dedotto in contratto rispetto al progetto approvato dall'amministrazione comunale.
Sotto un secondo profilo, il Collegio evidenzia come la tesi della natura sostanziale della nullità urbanistica finisca con il far dipendere la validità del contratto di trasferimento da valutazioni -quali quelle legate alla differenza tra variazione essenziale e variazione non essenziale, natura primaria o secondaria dell'abuso, condonabilità o meno dell'abuso stesso- che, se sul piano teorico possono considerarsi sufficientemente nitide, nella loro applicazione in una fattispecie concreta possono implicare non pochi margini di opinabilità.
Tanto più che la questione della verifica in concreto della gravità dell'irregolarità urbanistica di uno specifico fabbricato, ai fini della loro sanatoria e dell'applicazione delle sanzioni di carattere pubblicistico previste dalla legge per contrastare il fenomeno dell'abusivismo, è demandata dalla legge alle amministrazioni municipali (le cui normative ed i cui orientamenti interpretativi non sempre forniscono criteri di valutazione idonei ad orientare con chiarezza e certezza le valutazioni dei tecnici delle parti contraenti e dello stesso notaio rogante), oltre che, in seconda battuta, al giudice amministrativo.
La ragione che, ad avviso del Collegio, rende opportuna la rivalutazione, da parte delle Sezioni Unite, della natura formale o sostanziale della nullità urbanistica è, in ultima analisi, una ragione di bilanciamento tra le esigenze del contrasto all'abusivismo (che potrebbero ritenersi sufficientemente tutelate dalla nullità formale derivante dalla mancata menzione nell'atto di trasferimento degli strumenti concessori dell'immobile ivi dedotto) e le esigenze di tutela dell'acquirente nel caso di una difformità dell'immobile dal titolo concessorio menzionato nell'atto che, al momento dell'acquisto, egli (o i suoi tecnici o il notaio rogante) non abbiano rilevato o, pur rilevandola, abbiano qualificato come difformità parziale e non essenziale.
In questo caso -ferma restando la possibilità dell'acquirente di chiedere, se ne ricorrano i presupposti, la risoluzione del contratto o la tutela redibitoria o quella risarcitoria- potrebbe ritenersi, e si rimette la relativa valutazione alle Sezioni Unite, che la sanzione della nullità, con la conseguente perdita della proprietà dell'immobile da parte dell'acquirente che lo abbia pagato, risulti sproporzionata rispetto al fine pubblicistico che la legge intende tutelare.
Il Collegio ritiene quindi di rimettere gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ai fini della composizione del rilevato contrasto diacronico sulla natura della nullità urbanistica (Corte di Cassazione, Sez. II civile, ordinanza 30.07.2018 n. 20061 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: La giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica ed edilizia (art. 134, primo comma, lett. f, c.p.a.) comprende anche la riscossione, mediante cartella di pagamento o ingiunzione ex art. 2 del regio decreto n. 639/2010, degli oneri di urbanizzazione con applicazione delle relative sanzioni, restando esclusa dall'ambito di cognizione di tale giudice la sola procedura esecutiva in senso stretto, che ha inizio con il pignoramento o, quanto ai beni mobili registrati, con l'eventuale provvedimento di fermo.
La giurisdizione amministrativa non viene meno a seguito dell'emissione dell'ingiunzione di pagamento ai sensi dell'articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910, in quanto, “in materia di opposizione all'ingiunzione per la riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la disposizione di cui all'art. 3 del R.D. 14.04.1910, n. 639 non reca deroga alle norme regolatrici della giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto, non può essere invocata per ricondurre nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla cognizione di altro giudice”.
Pertanto, anche i vizi formali dell’ingiunzione di pagamento e la sussistenza di fatti estintivi del credito sottostante all’ingiunzione stessa rientrano nella cognizione esclusiva del giudice amministrativo.

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1. In via preliminare occorre soffermarsi sulle questioni in rito.
Il Comune di Prato ha eccepito l’inammissibilità, per difetto di giurisdizione, della quarta e della quinta censura proposta con i motivi aggiunti, trattandosi da un lato di questioni dedotte dalla ricorrente in relazione alla validità formale dell’impugnata ingiunzione e non di contestazioni del momento autoritativo del rapporto tra pubblica amministrazione e privato, e dall’altro della attuale persistenza del credito per decorso del termine di prescrizione, appartenente alla cognizione del giudice civile.
L’eccezione è infondata.
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (fra le più recenti, TAR di Cagliari, Sez. II, n. 555/2016, Cass. Civ. Sez. Un., n. 15209/2015 e TAR Lombardia, Milano, IV, n. 389/2014), la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia urbanistica ed edilizia (art. 134, primo comma, lett. f, c.p.a.) comprende anche la riscossione, mediante cartella di pagamento o ingiunzione ex art. 2 del regio decreto n. 639/2010, degli oneri di urbanizzazione con applicazione delle relative sanzioni, restando esclusa dall'ambito di cognizione di tale giudice la sola procedura esecutiva in senso stretto, che ha inizio con il pignoramento o, quanto ai beni mobili registrati, con l'eventuale provvedimento di fermo (TAR Sicilia, Catania, II, 11.10.2016, n. 2531; TAR Campania, Salerno, II, 04.04.2008, n. 474).
La giurisdizione amministrativa non viene meno a seguito dell'emissione dell'ingiunzione di pagamento ai sensi dell'articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910, in quanto, “in materia di opposizione all'ingiunzione per la riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la disposizione di cui all'art. 3 del R.D. 14.04.1910, n. 639 non reca deroga alle norme regolatrici della giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto, non può essere invocata per ricondurre nella sfera di competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla cognizione di altro giudice” (Cons. Stato, VI, 29.11.2005, n. 6748).
Pertanto, anche i vizi formali dell’ingiunzione di pagamento e la sussistenza di fatti estintivi del credito sottostante all’ingiunzione stessa rientrano nella cognizione esclusiva del giudice amministrativo.
Ciò premesso, entrando nel merito della trattazione del ricorso e dei motivi aggiunti, valgono le seguenti considerazioni (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I crediti dell’Ente relativi agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione normativa, soggiacciono al termine prescrizionale ordinario di dieci anni ex art. 2946 c.c..
Il "dies a quo", in generale, decorre dal rilascio del titolo edilizio, e, quindi, dal momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo.
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9. Con la quarta censura in cui si articolano i motivi aggiunti (ottava doglianza, considerando anche quelle dedotte in via principale) l’esponente ha eccepito la prescrizione quinquennale degli oneri di urbanizzazione e del costo di costruzione.
Il rilievo è infondato.
I crediti dell’Ente relativi agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione normativa, soggiacciono al termine prescrizionale ordinario di dieci anni ex art. 2946 c.c. (ex multis: TAR Puglia, Bari, III, 09.05.2018, n. 678; TAR. Sicilia, Palermo, Sez. II, 11.06.2014 n. 1493, 11.02.2014 n. 412 e 16.10.2014 2013 n. 1888; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 152). Il "dies a quo", in generale, decorre dal rilascio del titolo edilizio, e, quindi, dal momento in cui sono esattamente noti tutti gli elementi utili alla determinazione dell'entità del contributo.
Nel caso di specie anche considerando, ai fini del decorso del termine di prescrizione, la comunicazione di variante in corso d’opera, datata 09.03.2005, l’impugnata ingiunzione, notificata il 06.07.2011, risulta tempestiva. In ogni caso, ad avviso del Collegio, il dies a quo è in realtà successivo al 09.03.2005, ovvero è dato dal giorno 14.04.2006 (indicato nell’impugnata determinazione come scadenza di pagamento del conguaglio dovuto), in quanto la ricorrente non ha indicato, nella citata variante, la nuova destinazione d’uso, di cui l’Ente ha avuto contezza solo in sede di successivo sopralluogo della Polizia Municipale (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d'uso, anche senza realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale, integra il passaggio da una categoria funzionale autonoma all’altra, tra loro non omogenee, che determina un incremento del carico urbanistico, facendo soggiacere pertanto la parte istante all'onere di sopportare gli oneri concessori conseguenti all'aggravio del carico urbanistico.
L'incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da un mutamento di destinazione d'uso senza opere, è dunque presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in considerazione del vantaggio economico che ritrae il richiedente e dell'aggravio urbanistico insito nella destinazione commerciale rispetto all'iniziale destinazione industriale.
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3. Con il secondo mezzo l’istante sostiene che, in assenza di piano di distribuzione e localizzazione delle funzioni, il cambiamento di destinazione d’uso senza opere è sempre consentito e non richiede il pagamento del costo di costruzione, come si evince anche dall’allegato Y del regolamento edilizio, in virtù del quale tale costo non è esigibile in caso di variazione di funzioni incluse all’interno della categoria delle attività industriali e artigianali, comprendente i magazzini e i depositi coperti e scoperti.
La censura è infondata.
Il fatto che in assenza del piano di distribuzione delle funzioni sia sempre consentito il mutamento di destinazione senza opere non incide sull’obbligo di pagare oneri di urbanizzazione e costo di costruzione, obbligo che consegue al diverso (maggiore) carico urbanistico derivante dalla nuova destinazione dell’immobile.
Rileva al riguardo l’art. 125, comma 3, della L.R. n. 1/2005, che assoggetta l’interessato agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione propri della nuova destinazione, anche se impressa senza opere, a fronte del maggior carico urbanistico della stessa.
Orbene, l’art. 19 del d.p.r. n. 380/2001 (già art. 10 della legge n. 10/1977) e l’art. 125, comma 1, della L.R. n. 1/2005 riconoscono il beneficio dell’esonero dal costo di costruzione per gli immobili adibiti all’attività industriale. Quest’ultima è contraddistinta da funzioni strettamente produttive o da attività ad esse collegate.
Rilevano al riguardo il profilo oggettivo (costituito dagli elementi tecnico-organizzativi) ed il profilo soggettivo (concernente il soggetto che svolge l’attività economica nell’immobile); pertanto il fabbricato in questione, detenuto in affitto da Es. s.p.a. (che notoriamente non è un soggetto titolare di attività industriale) e utilizzato dalla stessa come magazzino di merci da trasferire ai negozi della catena commerciale o all’altro magazzino in località Osmannoro (si vedano la relazione della Polizia Municipale del 14.07.2005 e la nota del Commissario della Polizia Municipale del 24.09.2005 –documento n. 3 depositato in giudizio dal Comune-), non è assimilabile all’edificio industriale ma all’edificio a destinazione commerciale, in quanto l'attività del soggetto che vi svolge, con autonomia, un'attività di gestione dei magazzini di beni finiti, prodotti da altra azienda, regolando il flusso ed il deflusso delle scorte sulla base di valutazioni legate al ciclo di commercializzazione del bene prodotto, è attratta nell'ambito dell'intermediazione commerciale (Cons. Stato, V, 27.12.2001, n. 6411).
Nel caso di specie, mancando qualsiasi collegamento o accessorietà tra il magazzino cui fa riferimento l’impugnata determinazione e l’attività produttiva (Cons. Stato, V, 13.07.1994, n. 752) e trattandosi di magazzino funzionale all’attività commerciale di Esselunga, non può trovare applicazione l’esenzione dal costo di costruzione, costituente beneficio eccezionalmente ancorato alla destinazione industriale e non esteso, dal legislatore, agli immobili commerciali.
Occorre altresì considerare che, ai sensi dell’art. 59 della L.R. n. 1/2005, costituiscono categorie urbanistiche non assimilabili tra loro la destinazione industriale e quella commerciale.
Pertanto il mutamento di destinazione d'uso, anche senza realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale, integra il passaggio da una categoria funzionale autonoma all’altra, tra loro non omogenee, che determina un incremento del carico urbanistico, facendo soggiacere pertanto la parte istante all'onere di sopportare gli oneri concessori conseguenti all'aggravio del carico urbanistico. L'incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da un mutamento di destinazione d'uso senza opere, è dunque presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, in considerazione del vantaggio economico che ritrae il richiedente e dell'aggravio urbanistico insito nella destinazione commerciale rispetto all'iniziale destinazione industriale (TAR Lazio, Roma, II, 19.09.2017, n. 9818).
In siffatto contesto l’art. 15, comma 4, del regolamento urbanistico, laddove colloca nella medesima categoria le industrie, i magazzini e i depositi, non può che riguardare i depositi a servizio di attività industriale, funzionali al ciclo produttivo e non a quello commerciale, talché il mutamento di destinazione da industriale a magazzino funzionale all’attività commerciale comporta il passaggio da un immobile che non era soggetto al pagamento del costo di costruzione ad un immobile commerciale, invece tenuto ex lege al pagamento di tale contributo e degli oneri di urbanizzazione corrispondenti alla nuova destinazione.4. Con la terza censura la società istante sostiene che nel caso di specie non si è determinato un maggior carico urbanistico, in quanto la variazione d’uso dell’immobile è ricaduta all’interno della stessa categoria generale prefissata nel regolamento urbanistico; aggiunge che il conguaglio degli oneri di urbanizzazione, cui fa riferimento l’atto impugnato, era dovuto, ai sensi della convenzione di lottizzazione, dal Consorzio e non dal singolo consorziato. Sotto quest’ultimo profilo la ricorrente lamenta la disparità di trattamento.
I rilievi sono infondati.
Il cambio di destinazione d’uso è stato realizzato dalla deducente (che ha presentato, il 09.03.2005, la variante al permesso di costruire ed ha comunicato, il 31.01.2005, la variazione di titolarità della concessione edilizia), e non dal Consorzio lottizzante Macrolotto Industriale n. 2 di Prato. Pertanto, è appropriata la richiesta del conguaglio rivolta al ricorrente (ovvero al soggetto che ha attuato l’intervento modificativo della destinazione d’uso) anziché al Consorzio (che aveva a suo tempo lottizzato l’area per scopi prevalentemente industriali).
Né può rilevare la dedotta disparità di trattamento (peraltro sfornita di adeguato supporto probatorio in ordine alla sussistenza di caso analogo a quello in questione e trattato diversamente dal Comune), essendo l’Amministrazione vincolata ad individuare nella ricorrente il soggetto tenuto al pagamento degli oneri concessori a conguaglio.
Per il resto rileva nel caso di specie, come visto, la trasformazione della categoria di destinazione dell’immobile in una diversa categoria, non assimilabile all’originaria e contraddistinta da un maggior carico urbanistico, il quale comporta maggiori oneri di urbanizzazione, oltre al costo di costruzione originariamente non dovuto (Cons. Stato, IV, 23.06.2015, n. 3145) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati edilizi - Varianti in senso proprio e varianti essenziali - Caratteristiche e differenze - Artt. 22, 23-ter, 29, 31, 32, 34, 37 e 44 dpr n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, mentre le "varianti in senso proprio", ovvero le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare ed accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le "varianti essenziali", ovvero quelle caratterizzate da incompatibilità quali-quantitativa con il progetto edificatorio originario rispetto ai parametri indicati dall'art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo rispetto a quello originario e per il quale valgono le disposizioni vigenti al momento di realizzazione della variante.
Nozione di "variante" - Titoli autorizzatori - Incidenza dell'aspetto qualitativo e quantitativo rispetto all'originario progetto.
La nozione di "variante" deve ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto all'originario progetto e che gli elementi da prendere in considerazione, al fine di discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante ad altro preesistente, riguardano la superficie coperta, il perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento (da rilasciarsi con il medesimo procedimento previsto per il rilascio del permesso di costruire) rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario ed in questo rapporto di complementarietà e di accessorietà deve ravvisarsi la caratteristica distintiva del permesso in variante, che giustifica -tra l'altro- le peculiarità del regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale.
Rimangono sussistenti, infatti, tutti i diritti quesiti e ciò rileva specialmente nel caso di sopravvenienza di una nuova contrastante normativa che, se non fosse ravvisabile l'anzidetta situazione di continuità, renderebbe irrealizzabile l'opera.
Mentre, costituisce "variante essenziale", soggetta al rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo, ogni variante incompatibile con il disegno globale ispiratore del progetto edificatorio originario, sia sotto l'aspetto qualitativo che sotto l'aspetto quantitativo
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2018 n. 34148 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Cessione di cubatura - Natura negoziale - Asservimento di un terreno - Presupposti e condizioni.
La cessione di cubatura è un istituto di fonte negoziale in forza del quale è consentita, a prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la "cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura complessiva risultante, il fondo cessionario sarà caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a quello originariamente goduto.
Tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione della corretta gestione del territorio è soggetto a determinate condizioni
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2018 n. 34148 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Modifica di destinazione d'uso - Configurabilità e consumazione del reato.
La modifica di destinazione d'uso è integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne, quali gli impianti tecnologici sottotraccia, e che, quando la modifica della destinazione d'uso si realizza attraverso l'esecuzione di opere edili il reato si consuma sin dall'inizio dei lavori, non essendo necessario attenderne il completamento (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2018 n. 34148 - link a www.ambientediritto.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Affidamento del servizio di responsabile della protezione dei dati personali.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi - Servizio di “responsabile della protezione dei dati personali” - Fase preliminare di esplorazione del mercato – Omessa pubblicità – Illegittimità.
E’ illegittimo il provvedimento con il quale la stazione appaltante (nella fattispecie, un’azienda sanitaria) ha avviato la procedura per l’affidamento, mediante procedura negoziata, del servizio di “responsabile della protezione dei dati personali” (D.P.O., Data Protection Officer) previsto dall’art. 37 del Regolamento UE 2016/679 (G.D.P.R.), allorché, in contrasto con le indicazioni contenute nel par. 5.1.4 delle Linee Guida ANAC n. 4 (deliberazione n. 206 del 2018), non sia stata data pubblicità alla fase preliminare di esplorazione del mercato, con conseguente violazione dell’art. di cui all’art. art. 36, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016, così da precludere la più ampia partecipazione degli operatori e la selezione di soggetti titolari di effettiva conoscenza specialistica della normativa e delle prassi in materia di protezione dei dati (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che non sussistono, nel caso di specie, i presupposti per dare corso all’affidamento diretto, ai sensi dell’art. 63, d.lgs. n. 50 del 2016 né l’Amministrazione ha indicato quelle ragioni di “estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice” che, se sussistenti, avrebbero consentito di derogare agli adempimenti previsti dalla procedura adottata. Ha aggiunto che la deroga appare del tutto incompatibile con la prevista facoltà di proroga annuale dell’affidamento, dovendosi considerare che l’esenzione dall’obbligo di pubblicazione appare consentita solo “nella misura strettamente necessaria” ad affrontare la specifica situazione emergenziale, la quale costituisce la causa ovvero l’occasione dell’affidamento, ciò che precluderebbe la possibilità di disporre un eventuale rinnovo a favore dell’aggiudicatario, allorché le condizioni di urgenza siano inevitabilmente venute meno (TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza 18.07.2018 n. 252 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Niente appalto per gli evasori, inglobate incluse. L’impresa perde l’appalto se non è in regola col pagamento delle tasse al momento della domanda. E ciò si verifica anche se a non aver pagato è la società che essa ha incorporato.
L'impresa perde l'appalto perché la società che ha incorporato non era in regola con i tributi al momento in cui risulta presentata la domanda per partecipare alla gara. E ciò anche se, per ipotesi, in seguito ha ottenuto di poter pagare a rate all'erario il debito della compagine inglobata. Da una parte la società che procede alla fusione per incorporazione subentra in tutti gli obblighi dell'altra società che partecipa all'operazione. E dall'altra l'autorità nazionale anticorruzione ha escluso che il requisito della regolarità fiscale posso essere acquisito con il soccorso istruttorio quando è già in corso la procedura di selezione per l'affidamento dell'appalto.

È quanto emerge dalla sentenza 17.07.2018 n. 8011, pubblicata dalla Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
Soggetto composito. Casca male, l'impresa: si era assicurata l'appalto di servizio per l'ex Equitalia, ma scatta la revoca dell'aggiudicazione perché l'Ader, l'attuale Agenzia delle entrate riscossione, non può consentire che a curare la manutenzione sia una società che ha pendenze con l'erario, per quanto dovute alla compagine incorporata. Si applica infatti l'articolo 2504-bis, primo comma, cc: la società che ingloba non è un successore universale ma neppure un soggetto altro e dunque le compagini partecipanti all'operazione proseguono la loro esistenza nel soggetto composito. Insomma: l'incorporante subentrata nella titolarità delle posizioni giuridiche soggettive facenti capo all'incorporata.
Par condicio. Per i debiti col fisco non risulta possibile una regolarizzazione postuma rispetto alla presentazione delle offerte perché sarebbe contro il principio della par condicio e autoresponsabilità dei concorrenti. I requisiti per partecipare alla gara, precisa l'Anac, devono essere mantenuti fino all'aggiudicazione dell'appalto senza che sia possibile strumentalizzare il soccorso istruttorio in corso d'opera. La domanda di pagare a rate il debito con il fisco deve essere stata accettata prima della presentazione dell'offerta affinché l'impresa possa partecipare alla procedura. Nella specie la società avrebbe dovuto segnalare la carenza del requisito e sarebbe stata esclusa.
Dichiarazione in veritiera. In ogni caso l'estromissione sarebbe comunque scattata perché l'impresa aggiudicataria ha reso una dichiarazione non veritiera rispetto ai presupposti per partecipare alla gara secondo quanto dispone l'articolo 80, comma 5, lettera f-bis) del codice dei contratti pubblici, come introdotto dal decreto legislativo 56/2017: il dlgs correttivo al codice appalti risulta applicabile in questo caso perché «l'avviso di indagine di mercato» risale al 12.07.2017. All'ormai ex aggiudicataria non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 04.09.2018).
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MASSIMA
La ricorrente, quale incorporante, è subentrata nella titolarità delle posizioni giuridiche soggettive facenti capo all’incorporata Ka. s.r.l.; la circostanza, esplicitamente ammessa nel ricorso e nella comunicazione trasmessa dalla Gl. s.r.l. con nota del 28/02/2018 (allegato 17 all’atto introduttivo), è coerente con il disposto dell’art. 2504-bis, comma 1 c.c., secondo cui “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.
Come ha avuto modo di precisare l’Adunanza Plenaria, richiamando la giurisprudenza del giudice di legittimità (SS.UU. ord. n. 2637/2006), dalla norma in esame si evince che
la fusione per incorporazione di una società in un'altra è “un evento da cui consegue non già l'estinzione della società incorporata, bensì l'integrazione reciproca delle società partecipanti all'operazione, ossia di una vicenda meramente evolutiva del medesimo soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto organizzativo…Infatti la società incorporante o risultante dalla fusione, -se non è, in base a tale ricostruzione, un successore universale,- tuttavia nemmeno è un soggetto "altro" e "diverso", ma semmai un soggetto composito in cui proseguono la loro esistenza le società partecipanti all'operazione societaria (A.P. n. 21/12).
Ne consegue che la società incorporante risponde anche dei requisiti per conto dell’incorporata vieppiù in fattispecie, quale quella in esame, in cui l’incorporazione è avvenuta prima della scadenza del termine di presentazione delle domande di partecipazione alla gara.
Secondo, poi, l’art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50/2016 “le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1, 2, 4 e 5”.
Contrariamente a quanto prospettato nel gravame, la disposizione citata non ha un ambito applicativo diverso rispetto al comma 4 del medesimo articolo (secondo cui “un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una procedura d'appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e tasse o dei contributi previdenziali”), che ad avviso della ricorrente riguarderebbe solo la fase di presentazione delle domande di partecipazione alla gara, ma si coordina con essa sancendo in maniera inequivoca, come norma di chiusura, il principio (già codificato dal previgente art. 38, comma 1, d.lgs. n. 163/2006) secondo cui i requisiti di partecipazione devono essere posseduti dai concorrenti “in qualunque momento della procedura” e, quindi, non solo nella fase di presentazione delle domande ma fino all’aggiudicazione.
L’opzione ermeneutica sostenuta da parte ricorrente, secondo cui dopo la scadenza del termine di presentazione delle domande, l’esclusione dalla gara sarebbe possibile nelle sole ipotesi di carenza attuale dei requisiti di partecipazione, collide con i principi generali di continuità nel possesso dei requisiti di partecipazione alla gara, di concorrenza, par condicio e autoresponsabilità dei concorrenti (Cons. Stato A.P. n. 5/2016 e n. 9/2014).
Nel senso dell’impossibilità di configurare una regolarizzazione postuma del requisito di partecipazione mancante ab origine o venuto meno nel corso della procedura si è, del resto, espressa l’ANAC con la determinazione n. 1/2015 in cui ha evidenziato che l’istituto del soccorso istruttorio, all’epoca previsto in una versione non dissimile, quanto a meccanismo di operatività, da quello disciplinato dall’art. 83 d.lgs. n. 50/2016, "non può, in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per l'acquisizione, in gara, di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla scadenza del termine di presentazione dell'offerta. Resta fermo, in sostanza, il principio per cui i requisiti di partecipazione devono essere posseduti dal concorrente -che deve essere, altresì, in regola con tutte le altre condizioni di partecipazioni- alla scadenza del termine fissato nel bando per la presentazione dell'offerta o della domanda di partecipazione, senza possibilità di acquisirli successivamente".
Ciò spiega perché
la giurisprudenza ha sempre ritenuto, sia nel vecchio codice (da ultimo Cons. Stato n. 856/2018) che sotto la vigenza del d.lgs. n. 50/2016 (Cons. Stato n. 3614/2017) che i requisiti di partecipazione alle procedure di appalto debbano essere posseduti, non solo alla data di presentazione della domanda di partecipazione, ma anche successivamente fino all'aggiudicazione definitiva della gara e alla stipulazione del contratto; proprio per questo motivo il Consiglio di Stato ha escluso l’applicabilità dell’istituto della regolarizzazione ex art. 31 d.l. n. 69/2013 nell’ipotesi di regolarità contributiva mancante al momento della presentazione della domanda di partecipazione alla gara (Cons. Stato n. 816/2018; Cons. Stato A.P. n. 6/2016)
Quanto fin qui evidenziato induce, poi, il Collegio a ritenere non pertinente il richiamo, presente nella censura, all’art. 21-quinquies l. n. 241/1990 che non costituisce idoneo parametro di legittimità della fattispecie in quanto deve escludersi che l’esclusione dalla gara per l’accertata carenza dei requisiti di partecipazione sia atto connotato da discrezionalità.
In realtà,
il provvedimento nella specie adottato dalla stazione appaltante con la disposizione n. 19 del 15.03.2018 e denominato “revoca”, rientra nella categoria degli atti di “mero ritiro”, in quanto avente ad oggetto un atto, quale l’aggiudicazione, non ancora efficace in mancanza dell’accertamento dei requisiti dichiarati, e, come tale, la sua adozione non è subordinata all’accertamento dei presupposti che la normativa vigente richiede per gli atti di autotutela (Cons. Stato n. 4620/2006; Cons. Stato n. 114/02).
L’atto in esame, pertanto, risulta essere stato emesso in pedissequa applicazione dell’art. 32 comma 7, d.lgs. n. 50/2016 (espressamente richiamato nel provvedimento di aggiudicazione del 26/02/18) che condiziona l’efficacia della disposta aggiudicazione al positivo riscontro, nella fattispecie mancante, dei requisiti di partecipazione dichiarati dal concorrente e della permanenza degli stessi fino all’aggiudicazione.
Il comma 8 dell’art. 32 d.lgs. n. 50/2016 che fa salvi i poteri di autotutela, richiamato dalla ricorrente, riguarda, invece, le ipotesi, diverse da quella oggetto di causa, nelle quali, una volta divenuta efficace l’aggiudicazione con la verifica dei requisiti, l’amministrazione, anche per ragioni di opportunità, non intenda addivenire alla stipula del contratto.
Nella fattispecie la ricorrente era priva, sin dalla scadenza del termine di presentazione delle domande, del requisito di regolarità fiscale prescritto dall’art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50/2016 in quanto, come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza,
il requisito sussiste solo se la domanda di rateizzazione è stata accettata prima della scadenza del termine di partecipazione alla gara (da ultimo Cons. Stato n. 1028/2018; Cons. Stato n. 856/2018) di talché, se la stessa avesse tempestivamente segnalato (come era tenuta a fare) la circostanza, avrebbe dovuto essere immediatamente esclusa dalla gara.
Per altro, nella fattispecie l’esclusione della ricorrente è imposta anche dall’avere la stessa reso una dichiarazione non veritiera in ordine al possesso dei requisiti di partecipazione in ossequio a quanto disposto dall’art. 80, comma 5, lettera f-bis), d.lgs. n. 50/2016, come introdotto dal d.lgs. n. 56/2017, applicabile “ratione temporis” alla procedura in esame in cui l’“avviso di indagine di mercato” è del 12/07/2017.
...
Con la terza censura la ricorrente prospetta la violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, degli artt. 32 e 80 d.lgs. n. 50/2016 ed eccesso di potere per difetto di motivazione e d’istruttoria ed errata valutazione dei presupposti contestando, in particolare, la definitività del debito tributario in quanto le cartelle di pagamento sarebbero state notificate a Ka. s.r.l. a mezzo posta elettronica certificata ma non risulterebbe che la destinataria ne abbia preso visione, mancando qualsiasi ricevuta di lettura; inoltre, le cartelle sarebbero state notificate “esclusivamente in copia digitale con formato .pdf. e, dunque, prive della sottoscrizione digitale dell’autore, quale attestata soltanto nei file con estensione .p7m” (pag. 15 dell’atto introduttivo).
Il motivo è infondato in quanto
l'omessa sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l'invalidità dell'atto, la cui esistenza non dipende tanto dall'apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all'organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, tanto più che, a norma del D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 25 la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell'esattore, ma solo la sua intestazione e l'indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (Cass. n. 26142/2017; Cass. n. 26053/2015; Cass. n. 25773/2014).
Per quanto attiene, poi, al vizio di notifica delle cartelle il Tribunale rileva che tale circostanza è stata dedotta per la prima volta solo con il presente ricorso laddove, nella precedente comunicazione del 28/02/18 inviata alla stazione appaltante, la ricorrente aveva essa stessa esplicitamente affermato che la notifica delle cartelle era avvenuta nelle date ivi indicate.
A ciò si aggiunga, comunque, che
la notifica della cartella di pagamento a mezzo pec non richiede, ai fini del suo perfezionamento, l’avviso di lettura.
Infatti, secondo l’art. 60 d.p.r. n. 600/1973, richiamato dall’art. 26 d.p.r. n. 602/1973, “
ai fini del rispetto dei termini di prescrizione e decadenza, la notificazione si intende comunque perfezionata per il notificante nel momento in cui il suo gestore della casella di posta elettronica certificata gli trasmette la ricevuta di accettazione con la relativa attestazione temporale che certifica l'avvenuta spedizione del messaggio, mentre per il destinatario si intende perfezionata alla data di avvenuta consegna contenuta nella ricevuta che il gestore della casella di posta elettronica certificata del destinatario trasmette all'ufficio”.
Né sulla definitività del debito fiscale incide il ricorso davanti alla Commissione tributaria proposto con atto notificato solo il 31/05/2018 e, quindi, ben oltre il termine decadenziale d’impugnazione di sessanta giorni previsto dall’art. 21, comma 1, d.lgs. n. 546/1992 (gli atti impugnati erano sicuramente a conoscenza della ricorrente alla data del 20.02.2018 in cui è stata presentata l’istanza di rateizzazione).
...
Con la quarta censura la ricorrente prospetta ancora la violazione degli artt. 32 e 80 d. lgs. n. 50/2016 ed eccesso di potere per sviamento lamentando, in particolare, che la stazione appaltante avrebbe illegittimamente ammesso alla gara la seconda classificata Ni. & Pa. s.p.a. in quanto:
   - all’interno del plico presentato dalla controinteressata i sigilli in ceralacca della busta B, contenente l’offerta tecnica, sarebbero risultati danneggiati;
   - il DGUE presentato dalla controinteressata non sarebbe stato sottoscritto in originale. Sul punto, il bando tipo n. 1/2017, richiamato dalla stazione appaltante per ammettere alla gara la Ni. & Pa. s.p.a., sarebbe inapplicabile “ratione temporis” alla fattispecie;
   - l’offerta tecnica e l’offerta economica sarebbero state prive della sottoscrizione autografa il che avrebbe dovuto comportare l’esclusione dalla gara come espressamente previsto dalla lettera d’invito;
   - in sede di verifica delle offerte economiche, la commissione non avrebbe dato immediata lettura in seduta pubblica dell’offerta presentata dalla Ni. & Pa. s.p.a. ma avrebbe comunicato tale dato solo alcuni giorni dopo, una volta deliberata l’ammissione dell’offerta stessa.
In relazione alle illegittimità in esame, la ricorrente deduce che, “se i provvedimenti impugnati trovassero ragione nel tentativo di modificare la graduatoria di gara, anche a tacere di ulteriori risvolti di competenza di altri ordini giudiziari, se ne dovrebbe dedurre un evidente eccesso di potere nella figura sintomatica dello sviamento” (pag. 21 dell’atto introduttivo).
Il motivo è, innanzi tutto, inammissibile per carenza d’interesse.
L’accertata legittimità, in sede di scrutinio delle precedenti doglianze, dell’esclusione della ricorrente dalla gara priva la stessa dell’interesse all’esame della censura il cui ipotetico accoglimento non arrecherebbe, comunque, alcun vantaggio all’esponente, nemmeno in termini di interesse strumentale alla ripetizione della gara, essendo rimasta inoppugnata la posizione in graduatoria del terzo concorrente SO. s.p.a..
In ogni caso la censura sarebbe irricevibile nella parte in cui lamenta l’illegittimità dell’ammissione della ricorrente per la mancata sottoscrizione del DGUE dal momento che la circostanza in esame è stata conosciuta sin dal 12.02.2018, data della seduta (successiva all’ammissione) a cui ha partecipato il rappresentante della società ricorrente e che il termine per impugnare il provvedimento di ammissione è dall’art. 120, comma 2-bis, d.lgs. n. 104/2010 fissato in trenta giorni (la notifica del ricorso introduttivo è stata spedita a mezzo posta il 14/04/2018).
Per altro, anche nel merito,
la censura è destituita di fondamento in quanto:
   - l’applicabilità del soccorso istruttorio all’ipotesi di totale mancanza del DGUE è espressamente riconosciuta dall’art. 83, comma 9, secondo periodo d.lgs. n. 50/2016 con conseguente irrilevanza della questione prospettata nel gravame circa l’applicabilità del bando tipo n. 1/2017 alla presente fattispecie;

   - il danneggiamento dei sigilli della busta contenente l’offerta tecnica e la mancata lettura, nella prima seduta pubblica disponibile, dell’offerta economica della controinteressata costituiscono circostanze che non hanno influito sul regolare svolgimento della gara, come si evince dal fatto che la ricorrente è risultata prima in graduatoria;
 
  - dall’esame dei verbali n. 5 del 17.01.2018 e n. 9 del 12.02.2018 emerge che l’offerta tecnica della controinteressata è stata timbrata in ogni pagina e che la stessa reca nell’ultima pagina il timbro della società e la scansione ma non la sottoscrizione autografa del legale rappresentante. L’offerta economica, poi, riporta una sigla autografa in ogni pagina e “nell’ultima pagina, in calce al contenuto dell’offerta economica, oltre alla predetta sigla, risulta apposto un timbro recante i dati identificativi del concorrente e la scansione del suo legale rappresentante”.
Con riferimento a tale ultimo profilo va, innanzi tutto, rilevato che l’offerta economica, presentando una sigla autografa in tutte le pagine e in calce all’atto stesso con annesso timbro, risulta ritualmente sottoscritta dal momento che “
nelle gare pubbliche la funzione della sottoscrizione della documentazione e dell'offerta è quella di renderla riferibile al presentatore dell'offerta vincolandolo all'impegno assunto, con la conseguenza che laddove tale finalità risulta in concreto conseguita, con salvaguardia del sotteso interesse dell'Amministrazione, non vi è spazio per interpretazioni puramente formali delle prescrizioni di gara…Pertanto, il requisito della sottoscrizione dei documenti che costituiscono parte integrante dell'offerta può essere soddisfatto anche da forme equipollenti, quali l'apposizione della sola sigla, unitamente al timbro dell'impresa e alle generalità del legale rappresentante" (Cons. Stato n. 2063/2015; nello stesso senso Cons. Stato n. 8933/2010; Cons. Stato n. 7016/2010).
Con riferimento, poi, all’offerta tecnica la presenza di una sottoscrizione non autografa ma scansionata non consente di ritenere la presente fattispecie assimilabile all’ipotesi di carenza assoluta di firma specie se si considera che l’apposizione del timbro della società in ogni pagina consente di ritenere l’offerta stessa riconducibile alla controinteressata.
In quest’ottica la presenza di una clausola espulsiva, prevista dalla lettera d’invito, non è dirimente ai fini della valutazione di fondatezza della censura dal momento che l’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50/2016 prevede la nullità delle clausole di esclusione non conformi a legge.
Per questi motivi il ricorso è infondato e deve essere respinto.

EDILIZIA PRIVATA: Responsabilità dell'esecutore dei lavori edilizi (in concorso con il committente e il direttore dei lavori) - Obbligo di verifica delle prescritte autorizzazioni - Elemento soggettivo del reato - Rilevanza del dolo o della colpa - Art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati urbanistici, l'esecutore dei lavori edilizi ha il dovere di controllare preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del reato di cui all'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in caso di inizio delle opere nonostante l'accertamento negativo, e a titolo di colpa, nell'ipotesi in cui tale accertamento venga omesso, dovendosi ribadire che, trattandosi di una fattispecie contravvenzionale, l'elemento soggettivo può essere integrato anche dalla colpa, nei termini appena indicati (Cass. Sez. 3, n. 16802 del 08/04/2015).
Fattispecie: realizzazione, in concorso con il committente e il direttore dei lavori, di un box auto assentito come interrato ma in realtà fuori terra e più alto di quanto previsto
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.07.2018 n. 32478 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTI SERVIZI E FORNITUREForniture, requisiti soft. A maglie larghe la nozione di servizi analoghi. Per il Tar Palermo non può essere assimilata a quella di beni identici.
La nozione di «servizi analoghi» non può essere assimilata a quella di «servizi identici», dovendo ritenersi soddisfatta la prescrizione della legge di gara sulla sussistenza dei requisiti di capacità tecnica tutte le volte in cui il concorrente abbia dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce l'appalto.
Così si è pronunciato il TAR Sicilia-Palermo, Sez. II, con la sentenza 12.07.2018 n. 1609.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, il dipartimento regionale delle infrastrutture, della mobilità e dei trasporti della regione siciliana indiceva una gara di appalto con accordo quadro per la fornitura, «chiavi in mano», di n. 5 treni automotori a trazione elettrica per il trasporto di persone su rete ferroviaria, specificando che il possesso del requisito di capacità tecnica avrebbe richiesto apposita dichiarazione ex dpr n. 445/2000 attestante la produzione negli ultimi tre esercizi di almeno 30 convogli per il trasporto di passeggeri su rete ferroviaria con caratteristiche analoghe a quelle dei convogli oggetto della gara.
Nel corso dello scrutinio delle offerte, la commissione di gara riscontrava la carenza dei requisiti di capacità tecnica per una delle concorrenti e, per l'effetto, ne disponeva l'esclusione. L'impresa, infatti, nonostante l'oggetto dell'appalto fosse la fornitura di soli convogli a trazione elettrica, aveva fondato la ricorrenza dei propri requisiti di capacità tecnica sulla produzione di treni a trazione diesel.
Avverso tale decisione insorgeva la concorrente esclusa, rilevando come, nel caso di specie, non fosse in contestazione la tipologia di treno oggetto della procedura di gara, quanto il diverso giudizio circa l'analogia tra i convogli a trazione diesel e quelli a trazione elettrica ai fini dell'integrazione dei requisiti di capacità tecnica richiesti dal bando di gara.
Chiamato a decidere la controversia, il Tar Palermo ha accolto il ricorso dell'impresa esclusa, osservando che secondo la lex specialis ai fini dell'ammissione alla gara non è necessario dimostrare la fornitura di convogli per il trasporto di passeggeri su rete ferroviaria identici a quelli oggetto della gara (ovverosia convogli a trazione elettrica), ma solo con caratteristiche analoghe.
La nozione di «servizi analoghi», precisa il collegio, non può essere assimilata a quella di «servizi identici», dovendo ritenersi soddisfatta la prescrizione della legge di gara tutte le volte in cui il concorrente abbia dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce l'appalto.
Il concetto di servizio o di fornitura analoga, infatti, deve essere inteso non come identità, ma come mera similitudine tra le prestazioni richieste, tenendo conto che l'interesse pubblico sottostante non è certamente la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già presenti sul mercato ma, al contrario, l'apertura del mercato attraverso l'ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità.
Quella fornita, conclude la sentenza, è l'unica interpretazione che, nell'ottica del bilanciamento tra l'esigenza di selezionare un imprenditore qualificato e il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche, si dimostra idonea a delineare i contenuti della cd. analogia ai fini della valutazione dei servizi dichiarati in sede di gara per la dimostrazione del requisito di capacità tecnica
(articolo ItaliaOggi del 22.09.2018).
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MASSIMA
La censura è fondata.
In proposito l’art. III.2.3 del bando di gara e l’art. 8.1, lett. e), punti 3 e 4, del disciplinare imponevano ai concorrenti di provare il possesso del requisito di capacità tecnica a mezzo della dimostrazione di aver fornito almeno 30 convogli per il trasporto di passeggeri su rete ferroviaria con caratteristiche analoghe di quelli di cui alla presente gara.
Secondo la lex specialis, dunque, ai fini dell’ammissione alla gara era necessario dimostrare la fornitura di “convogli per il trasporto di passeggeri su rete ferroviaria” non già identici a quelli oggetto della gara (ovverosia convogli a trazione elettrica) bensì con caratteristiche “analoghe”.
Secondo condivisibile indirizzo giurisprudenziale dal quale non v’è motivo di discostarsi,
la nozione di “servizi analoghi” non deve essere assimilata a quella di “servizi identici”, dovendo ritenersi soddisfatta la prescrizione della legge di gara tutte le volte in cui il concorrente abbia dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce l’appalto (cfr., Cons. Stato, sez. IV, 05.03.2015, n. 1122 che a sua volta richiama Cons. Stato, sez. III, 05.12.2014, nr. 6035; id., sez. IV, 11.11.2014, nr. 5530; id., sez. V, 25.06.2014, nr. 3220; id., 08.04.2014, nr. 1668; id., sez. III, 25.06.2013, nr. 3437; TAR Toscana, Firenze, sez. II, 21/02/2017 n. 287).
Inoltre il concetto di “servizio analogo”, e parimenti quello di “fornitura analoga”, deve essere inteso non come identità, ma come mera similitudine tra le prestazioni richieste, tenendo conto che l’interesse pubblico sottostante non è certamente la creazione di una riserva a favore degli imprenditori già presenti sul mercato ma, al contrario, l’apertura del mercato attraverso l’ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità (cfr. da ultimo, TAR Toscana, sez. I, 26.01.2018, n. 132; in termini, Cons. Stato, Sez. V, 06.04.2017, n. 1608; Cons. Stato, Sez. V, 28/07/2015, n. 3717).
Il Giudice amministrativo ha, quindi, chiaramente delineato i contenuti della cd. “analogia” ai fini della valutazione dei servizi dichiarati in sede di gara per la dimostrazione del requisito di capacità tecnica ricomprendendo tutti quei servizi/forniture resi nel medesimo settore imprenditoriale.
Ed infatti, è principio altrettanto pacifico in giurisprudenza quello in base al quale “
Nelle gare pubbliche, laddove il bando di gara richieda quale requisito il pregresso svolgimento di «servizi analoghi», tale nozione non può essere assimilata a quella di «servizi identici» dovendosi conseguentemente ritenere, in chiave di favor partecipationis, che un servizio possa considerarsi analogo a quello posto a gara se rientrante nel medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce l'appalto in contestazione, cosicché possa ritenersi che grazie ad esso il concorrente abbia maturato la capacità di svolgere quest'ultimo” (cfr. da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 18.12.2017 n. 5944).
L’orientamento sopra riportato è conforme a quanto già statuito dalla Sezione che ha avuto modo di chiarire che: “
quando la lex specialis di gara richiede, come nella fattispecie, di dimostrare il pregresso svolgimento di servizi simili, non è consentito alla stazione appaltante di escludere i concorrenti che non abbiano svolto tutte le attività rientranti nell'oggetto dell'appalto, né le è consentito di assimilare impropriamente il concetto di servizi analoghi con quello di servizi identici, considerato che la ratio di siffatte clausole è proprio quella di perseguire un opportuno contemperamento tra l'esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche” (Cons. Stato, V, 25.06.2014, n. 3220)” (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 18.11.2014, n. 2892).
In ogni caso va precisato che, secondo parte della giurisprudenza,
quand’anche un singolo servizio (o fornitura) non possa considerarsi pienamente “analogo” a quello oggetto di gara, la valutazione che dovrà compiere la stazione appaltante non potrà che essere di tipo complessivo e ciò in quanto la sommatoria di tutti i servizi o forniture dichiarate può “ragionevolmente essere considerata quale indice di idoneità tecnica alla corretta esecuzione dell’appalto (cfr. anche TAR Toscana, sez. I. 18.01.2016, n. 85).
Né vale a superare tale conclusione l’argomentazione utilizzata dalla difesa della ST. secondo cui la legge di gara, ai fini della dimostrazione del possesso dei requisiti, avrebbe individuato, nel “genus” dei mezzi adibiti al trasporto di passeggeri su rete ferroviaria (all’interno dei quali, come chiarito dalla stazione appaltante, potevano essere fatti rientrare anche i treni ad alta velocità), la più particolare “species” dei convogli aventi analoghe caratteristiche – ovvero a trazione elettrica e alimentazione a 3kVcc.
Tale argomentazione, oltre a ricevere smentita dalla giurisprudenza sopra menzionata -che, nell’ottica del bilanciamento tra l’esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche, ha delineato i contenuti della cd. analogia ai fini della valutazione dei servizi dichiarati in sede di gara per la dimostrazione del requisito di capacità tecnica- è stata da ultimo confermata dalla stessa CTU.

EDILIZIA PRIVATA: L’affermata precarietà non sussiste sia per ragioni di carattere strutturale, in quanto alcuni containers hanno aperture e tamponature laterali e le tettoie hanno stabili ancoraggi al muro dell’edificio, sia perché sono utilizzati in modo stabile ed ininterrotto da lungo tempo.
Come è noto infatti non è solo l’amovibilità di un manufatto a determinarne la sua ascrivibilità alla categoria degli interventi edilizi che non necessitano di un titolo edilizio, ma anche la sua attitudine a soddisfare o meno esigenze meramente temporanee.
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. b), del DPR 06.06.2001, n. 380, possono infatti essere eseguite senza alcun titolo abilitativo solo “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingibili e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
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La Società G. Srl, odierna ricorrente, è un’azienda siderurgica che svolge l’attività di commercio e taglio di lamiere leggere nel Comune di Rosà, in area soggetta a vincolo paesaggistico.
Con il ricorso in epigrafe impugna l’ordinanza n. 51 del 21.04.2017, con la quale gli è stata imposta la demolizione e la remissione in pristino degli interventi abusivi realizzati nelle aree all’esterno del fabbricato.
In tale area sono stati realizzati senza alcun titolo abilitativo molteplici volumi e strutture adibiti a ricovero e deposito di materiali, che nel sopralluogo eseguito dalla polizia locale il 10.01.2017, sono così descritti:
   - container con pareti metalliche delle dimensioni di metri 12,10 x 2,40, altezza metri 2,70 adibito a ricovero di materiali inerenti l’attività produttiva (semilavorati metallici). Lo stesso presenta l’apertura completa di un lato ove risulta collocata una tenda in Pvc scorrevole;
   - container con pareti metalliche delle dimensioni di metri 12,10 x 2,40, altezza metri 2,70, adibito come il precedente a ricovero di materiali inerenti l’attività produttiva (semilavorati); presenta apertura laterale con tenda in Pvc scorrevole;
   - container dalle dimensioni di metri 6,70 x 2,40, altezza metri 2,80, adibito a ricovero di materiali inerenti l’attività produttiva (semilavorati metallici); lo stesso presenta telaio metallico, tamponature laterali e coperture in Pvc;
   - container delle dimensioni di metri 6,70 x 2,40, altezza metri 2,80 con caratteristiche come punto 3;
   - container con pareti metalliche delle dimensioni di metri 12,10 x 2,40, altezza metri 2,70, con caratteristiche come punto 1 e 2;
   - container con pareti metalliche dalle dimensioni di metri 12,10 x 2,40, altezza metri 2,70, con caratteristiche come punto 1 e 2;
   - struttura aderente ed ancorata al corpo di fabbrica dell’edificio produttivo, realizzata con telaio metallico, copertura in lamiera grecata e tamponature laterali in Pvc adibita a magazzino, delle dimensioni di metri 24,00 x 1,85, altezza minima metri 3,30 e massima 3,55;
   - struttura aderente e ancorata al corpo di fabbrica dell’edificio produttivo, realizzato con tubo metallico a sezione quadrata, tamponature laterali in Pvc, adibita a magazzino, delle dimensioni di metri 11,60 x 3,40 altezza minima metri 3,70 massima 4,10”.
...
Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Il primo motivo con il quale la parte ricorrente lamenta la mancata considerazione da parte del Comune della circostanza che si tratta di opere precarie di modesta entità è infondato in fatto.
L’affermata precarietà non sussiste sia per ragioni di carattere strutturale, in quanto alcuni containers hanno aperture e tamponature laterali e le tettoie hanno stabili ancoraggi al muro dell’edificio, sia perché sono utilizzati in modo stabile ed ininterrotto da lungo tempo.
Come è noto infatti non è solo l’amovibilità di un manufatto a determinarne la sua ascrivibilità alla categoria degli interventi edilizi che non necessitano di un titolo edilizio, ma anche la sua attitudine a soddisfare o meno esigenze meramente temporanee.
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. b), del DPR 06.06.2001, n. 380, possono infatti essere eseguite senza alcun titolo abilitativo solo “le opere dirette a soddisfare obiettive esigenze contingibili e temporanee e ad essere immediatamente rimosse al cessare della necessità e, comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni” (sul punto ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 23.05.2017, n. 2438).
Poiché è pacifico che nel caso di specie le predette strutture di rilevante entità sono volte a soddisfare le esigenze connesse alle lavorazioni dell’attività produttiva in modo stabile, e peraltro sono state realizzate in assenza dell’autorizzazione paesaggistica, il primo motivo deve essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 03.07.2018 n. 718 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'onere della prova circa l'ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso.
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Poiché le conclusioni cui è giunto il Comune risultano corrette e condivisibili atteso che, come afferma costantemente la giurisprudenza “l'onere della prova circa l'ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 22.03.2018, n. 1837; Consiglio di Stato, Sez. IV, 03.02.2017, n. 463; Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.06.2014, n. 2960), il primo motivo del ricorso introduttivo deve pertanto essere respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 21.06.2018 n. 665  - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La normativa di cui al d.p.r. n. 160 del 2010 nel concentrare in capo al S.u.a.p. la gestione del procedimento unico per il rilascio di atti autorizzatori relativi allo svolgimento di attività produttive, non può valere ad esautorare le competenze e le funzioni demandate per legge agli altri enti od organi deputati o preposti all’adozione di atti inerenti interessi pubblici a vario titolo coinvolti nel procedimento.
Come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, lo Sportello Unico costituisce una sorta di “procedimento dei procedimenti”, ovvero un iter procedimentale unico in cui confluiscono e si coordinano atti ed adempimenti, rientranti nella competenza di Amministrazioni diverse, ma tutti richiesti dalla normativa vigente affinché l’esercizio dell’attività ovvero l’impianto produttivo possano essere legittimamente realizzati. In questa prospettiva, quelli che in precedenza erano provvedimenti autonomi, ciascuno dei quali adottato con un procedimento a sè stante, diventano “atti istruttori” finalizzati all’adozione dell’unico provvedimento conclusivo, costituente titolo per la realizzazione dell’intervento richiesto.
Dal punto di vista procedurale, quindi, la responsabilità dell’intero procedimento è trasferita allo sportello unico che trasforma, in forza di un collegamento funzionale, i singoli procedimenti gestiti da Amministrazioni diverse in fase endoprocedimentali di un procedimento unitario.
Esso costituisce pertanto l’unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti la sua attività produttiva e fornisce, altresì, una risposta unica e tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni comunque coinvolte nel procedimento. In sostanza la normativa dello sportello unico si è limitata ad introdurre esclusivamente un modello procedimentale, ossia uno strumento di raccordo tra le Amministrazioni competenti a determinare la decisione finale e a consentire di concentrare in una sola struttura la responsabilità dell’unico procedimento.
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L’art. 4, comma 2, del d.p.r. n. 160/2010, in tema di funzioni ed organizzazione del Suap, costituisce una norma di raccordo tra le funzioni del Suap e quelle degli altri uffici comunali e le amministrazioni pubbliche diverse dal Comune interessato deputate al rilascio di atti autorizzatori, nulla osta e pareri o atti di consenso, anche a contenuto negativo, ma giammai può incidere sulla distribuzione delle competenze fra i vari organi.
Ed infatti il successivo comma 6 nell’attribuire al Suap le competenze dello Sportello Unico dell’edilizia produttiva fa comunque salva ogni diversa disposizione dei Comuni interessati.

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... per l'annullamento:
   - del provvedimento prot. n. 9138 del 05.07.2016 del Responsabile del 3° Settore-Urbanistica ed Edilizia del Comune di Fossacesia di diniego di rilascio del parere urbanistico richiesto dalla società ricorrente per la realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio di un fabbricato adibito a ricettività turistica;
   - della nota prot. n. 9995 del 21.07.2016 con cui lo stesso responsabile di Settore comunica alla società che i lavori inerenti la realizzazione della suddetta piattaforma debbano ritenersi eseguiti in assenza del titolo abilitativo e quindi abusivi.
...
1. Con ricorso iscritto al n. 298/2016 la società ricorrente, quale comodataria di un immobile sito in Fossacesia località Lungomare, oggetto di ristrutturazione assentita con permesso di costruire prot. 28 del 12.06.2013, e successive varianti, nonché con il parere favorevole della Sovrintendenza prot. n. 1091 del 23.01.2013, avendo inoltrato presso il S.u.a.p. del patto territoriale sangroaventino una s.c.i.a. n. 82736 in data 11.05.2016 per la realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio del fabbricato adibito ad attività turistica, impugnava, chiedendone l’annullamento, la nota prot. n. 9138 del 05.07.2016 con cui si comunicava l’avvio delle procedure di repressione di cui all’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 per opere realizzate in assenza di titolo abilitativo e la successiva del 21.07.2016 con cui si acclarava la natura abusiva dell’intervento.
...
2. Il ricorso è fondato e merita accoglimento come di seguito argomentato.
Nel giudizio si controverte in ordine alla legittimità degli atti inibitori e del parere urbanistico sfavorevole adottati dal Comune di Fossacesia sulla s.c.i.a inoltrata in data 11.05.2016 dalla società ricorrente al Suap dell’associazione di Comuni del patto territoriale sangroaventino, per la realizzazione, ai sensi della legge n. 13/1989, di una piattaforma elevatrice a servizio di un fabbricato da destinare ad attività ricettiva, situato in località lungomare del Comune di Fossacesia, in area assoggettata a vincolo paesaggistico e già oggetto di oggetto di ristrutturazione edilizia con p.c. prot. 28/2013, e successive varianti, nonché con il parere favorevole della Sovrintendenza prot. n. 1091 del 23.01.2013.
2.1 Preliminarmente va esaminata rivestendo carattere pregiudiziale, la censura con cui si contesta l’incompetenza del Comune di Fossacesia poiché intervenuto in luogo del S.u.a.p. cui era stata inoltrata l’istanza.
Il motivo è infondato, dal momento che, la normativa di cui al d.p.r. n. 160 del 2010 nel concentrare in capo al S.u.a.p. la gestione del procedimento unico per il rilascio di atti autorizzatori relativi allo svolgimento di attività produttive, non può valere ad esautorare le competenze e le funzioni demandate per legge agli altri enti od organi deputati o preposti all’adozione di atti inerenti interessi pubblici a vario titolo coinvolti nel procedimento.
Come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale (cfr. da ultimo, Corte Cost. 21.01.2010 n. 15), lo Sportello Unico costituisce una sorta di “procedimento dei procedimenti”, ovvero un iter procedimentale unico in cui confluiscono e si coordinano atti ed adempimenti, rientranti nella competenza di Amministrazioni diverse, ma tutti richiesti dalla normativa vigente affinché l’esercizio dell’attività ovvero l’impianto produttivo possano essere legittimamente realizzati. In questa prospettiva, quelli che in precedenza erano provvedimenti autonomi, ciascuno dei quali adottato con un procedimento a sé stante, diventano “atti istruttori” finalizzati all’adozione dell’unico provvedimento conclusivo, costituente titolo per la realizzazione dell’intervento richiesto.
Dal punto di vista procedurale, quindi, la responsabilità dell’intero procedimento è trasferita allo sportello unico che trasforma, in forza di un collegamento funzionale, i singoli procedimenti gestiti da Amministrazioni diverse in fase endoprocedimentali di un procedimento unitario. Esso costituisce pertanto l’unico punto di accesso per il richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti la sua attività produttiva e fornisce, altresì, una risposta unica e tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni comunque coinvolte nel procedimento. In sostanza la normativa dello sportello unico si è limitata ad introdurre esclusivamente un modello procedimentale, ossia uno strumento di raccordo tra le Amministrazioni competenti a determinare la decisione finale e a consentire di concentrare in una sola struttura la responsabilità dell’unico procedimento (cfr. Tar Lazio, Sez. II, 05.10.2010 n. 32684).
L’art. 4, comma 2, del d.p.r. n. 160/2010, in tema di funzioni ed organizzazione del Suap, costituisce una norma di raccordo tra le funzioni del Suap e quelle degli altri uffici comunali e le amministrazioni pubbliche diverse dal Comune interessato deputate al rilascio di atti autorizzatori, nulla osta e pareri o atti di consenso, anche a contenuto negativo, ma giammai può incidere sulla distribuzione delle competenze fra i vari organi. Ed infatti il successivo comma 6 nell’attribuire al Suap le competenze dello Sportello Unico dell’edilizia produttiva fa comunque salva ogni diversa disposizione dei Comuni interessati.
La censura di incompetenza del Comune intimato va quindi disattesa.
2.2 Va altresì esclusa la fondatezza del rilievo circa la tardività dell’intervento comunale in presenza di un’inibitoria che, nella ricostruzione di parte ricorrente, sarebbe intervenuta oltre il termine perentorio di trenta giorni sancito dall’art. 19, comma 6, della legge n. 241/1990.
In materia edilizia, l’art. 23-bis del d.p.r. n. 380/2001, stabilisce che, nei casi in cui si applica la disciplina della segnalazione certificata di inizio attività di cui all'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241, prima della presentazione della segnalazione, l'interessato può richiedere allo sportello unico di provvedere all'acquisizione di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, necessari per l'intervento edilizio, o presentare istanza di acquisizione dei medesimi atti di assenso contestualmente alla segnalazione.
Lo sportello unico comunica tempestivamente all'interessato l'avvenuta acquisizione degli atti di assenso. Se tali atti non vengono acquisiti entro il termine di cui all'articolo 20, comma 3 (sessanta giorni), si applica quanto previsto dal comma 5-bis del medesimo articolo. In caso di presentazione contestuale della segnalazione certificata di inizio attività e dell'istanza di acquisizione di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, necessari per l'intervento edilizio, l'interessato può dare inizio ai lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello unico dell'avvenuta acquisizione dei medesimi atti di assenso o dell'esito positivo della conferenza di servizi.
Nella specie rispetto alla realizzazione della piattaforma elevatrice in argomento è mancato il necessario atto di assenso comunale richiesto dal S.u.a.p. con nota prot. n. 6792 del 10.06.2016, e su cui il Comune è tempestivamente intervenuto, entro i prescritti sessanta giorni, con la comunicazione dei motivi ostativi prot. n. 9138 del 05.07.2016 ex art. 10-bis di cui all’atto prot. n. 8290 del 16.06.2016 e con il successivo parere negativo prot. n. 8290 del 16.06.2016, confluito nell’accertamento prot. n. 9995 del 21.07.2016 della natura abusiva dell’intervento che risultava interamente eseguito come da nota prot. 9862 del 19.07.2916.
In tale sede, pertanto, il parere tecnico conclusivo del procedimento edilizio, pur avendo natura endoprocedimentale all’interno dell’iter avviato innanzi al S.u.a.p., costituisce atto avente autonoma e diretta efficacia lesiva e suscettibile di immediato gravame (TAR Abruzzo-Pescara, sentenza 09.04.2018 n. 134 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il cambio di destinazione d'uso di un immobile… da magazzino ad esercizio commerciale, ancorché compatibile nella medesima zona omogenea, interviene tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee e, quindi, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico soggetta a regime concessorio onerosa indipendentemente dall'esecuzione di opere.
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Tali censure non sono fondate e devono essere rigettate.
Come evidenziato dalla giurisprudenza maggioritaria, che questo Collegio ritiene di condividere, “il cambio di destinazione d'uso di un immobile… da magazzino ad esercizio commerciale, ancorché compatibile nella medesima zona omogenea, interviene tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee e, quindi, integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico soggetta a regime concessorio onerosa indipendentemente dall'esecuzione di opere” (TAR Puglia, Bari, Sez. III 22.02.2006 n. 571; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 11.04.2011 n. 3171) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 01.12.2017 n. 11910 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Questa Corte ha in passato, per un verso, ritenuto che fosse soggetta a permesso di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse determinato una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era proprio e, per altro verso, che la realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio.
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il descritto intervento edilizio alla nozione di "ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire; sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia correttamente configurato, nel caso di specie, la contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima.

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La legittimità di una procedura di rilascio di un titolo abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente al giudice penale verificare se siano state effettivamente rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di assentire un determinato intervento edilizio.
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Gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. citato- ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto.
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi già realizzati possano essere successivamente assentiti soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del più pregnante controllo richiesto alla pubblica amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si proceda ad una valutazione di doppia conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
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E' illegittimo e non determina l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica.
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1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Osserva, in primo luogo, il Collegio come la Corte territoriale abbia adeguatamente dato conto del fatto che le opere realizzate -consistenti in una pavimentazione eseguita previa spianatura del terreno esistente e con posa in opera di erborelle amovibili, in un'area dell'ampiezza di 700 metri quadri, parzialmente destinata a viabilità secondo la variante al P.R.G., in due muri divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché in un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30- avessero significativamente inciso sull'assetto urbanistico della zona de qua attraverso una trasformazione permanente del suolo; e che, come tali, esse fossero qualificabili come "nuova costruzione", tanto da richiedere il preventivo rilascio di un permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001.
Sul punto, il ricorso introduttivo argomenta nel senso che l'intervento dovesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia", realizzata a servizio del fabbricato. E da tale qualificazione sarebbe derivato che le opere avrebbero potuto essere assentite con permesso di costruire ai sensi dell'art. 10, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 ovvero con la D.I.A. sostitutiva o Super-D.I.A. che ai sensi dell'art. 22, comma 3, lett. a), del predetto decreto, nella versione all'epoca vigente, poteva essere adottata, in luogo del permesso di costruire, proprio in relazione agli "interventi di ristrutturazione di cui all'articolo 10, comma 1, lettera c)".
2.1. La tesi difensiva è, però, manifestamente infondata.
In primo luogo è opportuno osservare che la stessa D.I.A. presentata dalle due imputate aveva qualificato l'intervento edificatorio non come "ristrutturazione edilizia", quanto piuttosto come "manutenzione straordinaria"; ciò a riprova del fatto che la denominazione prospettata in ricorso configuri, all'evidenza, un tentativo di giustificare ex post il ricorso allo strumento della D.I.A. in luogo del permesso di costruire. Tanto è vero che la sentenza di secondo grado non si è in alcun modo confrontata, sia pure criticamente, con tale tesi, mai avanzata nel corso del giudizio di appello.
Al di là di tale osservazione preliminare, rileva il Collegio che la illegittimità della D.I.A. presentata dalle ricorrenti fosse stata correttamente riscontrata dai giudici di appello sulla base di una serie di concreti elementi, che le argomentazioni critiche sviluppate nel ricorso introduttivo non sono riuscite a confutare.
Secondo la previsione dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, infatti, costituiscono interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a) gli interventi di nuova costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione urbanistica; c) gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d'uso. E secondo l'art. 3, comma 1, lett. d), del medesimo d.P.R. sono qualificati come "interventi di ristrutturazione edilizia", gli interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica".
In questa prospettiva, deve risolutamente escludersi che l'intervento edilizio contestato a Ma. e Ti. Di Re. potesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia".
Secondo quanto, infatti, emerso in sede istruttoria, in luogo dell'originaria corte costituente pertinenza del fabbricato circostante, era stata realizzata, mediante livellamento e successiva pavimentazione, una vasta area destinata a parcheggio, con l'erezione di due muri divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché di un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per 0,30.
Un intervento complessivo, quello appena descritto, pacificamente riconducibile, secondo la consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, alla nozione di "nuova costruzione", secondo quanto ricavabile dal combinato disposto dell'art. 3, comma 1, lett. d) ed e), del citato d.P.R., avuto riguardo alla significativa incidenza delle opere sull'assetto urbanistico del territorio, riscontrata dai giudici di appello anche alla stregua della documentazione fotografica in atti.
In passato, del resto, questa Corte ha, per un verso, ritenuto che fosse soggetta a permesso di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a realizzare un piazzale mediante livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse determinato una modificazione permanente dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era proprio (Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, dep. 12/01/2017, Palma, Rv. 268847) e, per altro verso, che la realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del previo rilascio del permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla sua struttura e all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da modificare, come avvenuto nel caso di specie, l'assetto urbanistico del territorio (Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, dep. 15/12/2014, Langella e altro, Rv. 261521).
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il descritto intervento edilizio alla nozione di "ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire; sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia correttamente configurato, nel caso di specie, la contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001. Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio del committente, del titolare del permesso di costruire, del direttore dei lavori e del costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A. illegittima (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, dep. 11/03/2016, Torzini, Rv. 266291).
2.2. Né potrebbe argomentarsi, in contrario, seguendo il percorso ricostruttivo svolto dalle ricorrenti che la legittimità del ricorso alla D.I.A. possa ritenersi dimostrata dal fatto che il comune di Chieri aveva assentito la presentazione della D.I.A. in sanatoria, ancorché subordinatamente al rilascio del menzionato atto d'obbligo.
In proposito, è appena il caso di rilevare che la legittimità di una procedura di rilascio di un titolo abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente al giudice penale verificare se siano state effettivamente rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di assentire un determinato intervento edilizio.
3. Parimenti infondato è, poi, il secondo profilo di doglianza, con il quale le ricorrenti deducono che in ogni caso l'approvazione della D.I.A. in sanatoria avrebbe realizzato sostanzialmente un accertamento di conformità.
Secondo quanto può ricavarsi dalla lettura della sentenza e dai motivi di ricorso, infatti, Ma. e Ti. Di Re. avevano presentato una D.I.A. in sanatoria secondo la procedura stabilita dall'art. 37 del d.P.R. n. 380 del 2001, a norma del quale "la realizzazione di interventi edilizi di cui all'articolo 22, commi 1 e 2, in assenza della o in difformità dalla denuncia di inizio attività" consente al responsabile dell'abuso o al proprietario dell'immobile di "ottenere la sanatoria dell'intervento versando la somma, non superiore a 5164 euro e non inferiore a 516 euro stabilita dal responsabile del procedimento in relazione all'aumento di valore dell'immobile valutato dall'agenzia del territorio", sempre che l'intervento realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda (comma 4).
Tale disciplina, invero, si presenta del tutto distinta da quella dettata dall'art. 36 dello stesso decreto, a mente del quale "in caso di interventi realizzati in assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso ovvero in assenza di denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui all'articolo 22, comma 3, o in difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui agli articoli 31, comma 3, 33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione delle sanzioni amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale proprietario dell'immobile, possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda" (comma 1).
Permesso in sanatoria il cui rilascio "è subordinato al pagamento, a titolo di oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia, ovvero, in caso di gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista dall'articolo 16".
Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale difformità, l'oblazione è calcolata con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso (comma 2). Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata (comma 3).
Ed anzi, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, cui deve essere data assoluta continuità, gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una denuncia di inizio attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità della denuncia di inizio attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R. citato- ma richiedono la procedura di accertamento di conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36 del citato decreto (Sez. 3, n. 41425 del 29/09/2011, dep. 14/11/2011, Eramo, Rv. 251327; Sez. 3, n. 28048 del 19/05/2009, dep. 09/07/2009, Barbarossa, Rv. 244580; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, dep. 05/03/2009, Tarallo, Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, dep. 20/12/2006, Cariello, Rv. 235413).
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi già realizzati possano essere successivamente assentiti soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del più pregnante controllo richiesto alla pubblica amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si proceda ad una valutazione di doppia conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
Sotto altro profilo, deve altresì osservarsi, con riferimento all'atto d'obbligo sottoscritto dalla legale rappresentante della società committente, il quale, secondo le ricorrenti avrebbe concorso al perfezionamento della fattispecie sanante, che anche con riferimento tale aspetto il consolidato indirizzo interpretativo di questa Corte ritiene che sia illegittimo e non determini l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e 45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici, in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015, dep. 29/12/2015, Carratù e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 19587 del 27/04/2011, dep. 18/05/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003, dep. 09/01/2004, P.M. in proc. Fannmiano, Rv. 226871).
Ne consegue la mancata integrazione della fattispecie sanante, anche a prescindere dal fatto che l'intervento edilizio incidesse su un'area parzialmente destinata a tratti di viabilità e che, per tale motivo, le opere realizzate si ponessero in conflitto con la disciplina della relativa macrozona del Piano di edilizia economica popolare; ciò che avrebbe, comunque, impedito, anche sotto tale concorrente profilo, l'accertamento di conformità, richiedendo l'art. 36 del d.P.R. citato la piena conformità alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento della presentazione della domanda (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.09.2017 n. 43155).

EDILIZIA PRIVATA: Come noto il frazionamento di un’unica unità abitativa in due distinte unità, stante l'autonoma distinta utilizzabilità delle stesse, determina un aumento del carico urbanistico anche in assenza di ampliamento delle superfici e dei volumi e ancorché realizzato con mere opere interne, deve ritenersi soggetto al previo rilascio di concessione edilizia e corresponsione del contributo di urbanizzazione in relazione all'aumentato carico urbanistico, ciò anche in assenza di aumenti di superfici utili e di volumi ed in presenza di sole opere interne, atteso che l'aumento dei benefici predetti è conseguenza della mera utilizzabilità autonoma delle due distinte unità abitative.
Analogamente è a dirsi per quanto concerne il consistente ampliamento del manufatto originariamente adibito a legnaia, risultato rifinito e pavimentato, che resta assoggettato, al regime della concessione edilizia, ai sensi dell'art. 1 della L. n. 10/1977 applicabile ratione temporis in quanto, pur volendo riconoscergli carattere pertinenziale rispetto all'immobile principale, incide in senso innovativo e trasformativo sull'assetto edilizio preesistente
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2. Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito argomentato.
In primo luogo va esclusa la dedotta legittimità degli interventi edilizi oggetto dell’impugnato ordine di demolizione n. 146 del 22.11.2000 sul presupposto che si tratterebbe di opere già assentite dal Comune di Capri con concessione edilizia n. 27/1996 rilasciata per il cambio di destinazione d’uso del manufatto esistente in abitazione e per effetto della variante in corso d’opera per l’apertura di un nuovo vano ingresso rilasciata con autorizzazione dell’01.07.1998.
A ben vedere, dalla lettura dei medesimi atti allegati al fascicolo da parte ricorrente, l’Ufficio tecnico del Comune intimato in sede di sopralluogo effettuato in data 28.09.2000, ha dato atto dell’esistenza dei predetti titoli abilitativi, evidenziando tuttavia che, sulla base di una verifica dello stato dei luoghi, risultavano eseguite ulteriori opere modificative dell’assetto preesistente dei luoghi, consistenti nell’ampliamento del locale originariamente adibito a legnaia, e nella chiusura di una scala di collegamento interna con il superiore livello, con creazione di un’ulteriore unità abitativa.
Come noto il frazionamento di un’unica unità abitativa in due distinte unità, stante l'autonoma distinta utilizzabilità delle stesse, determina un aumento del carico urbanistico anche in assenza di ampliamento delle superfici e dei volumi e ancorché realizzato con mere opere interne, deve ritenersi soggetto al previo rilascio di concessione edilizia e corresponsione del contributo di urbanizzazione in relazione all'aumentato carico urbanistico, ciò anche in assenza di aumenti di superfici utili e di volumi ed in presenza di sole opere interne, atteso che l'aumento dei benefici predetti è conseguenza della mera utilizzabilità autonoma delle due distinte unità abitative. Analogamente è a dirsi per quanto concerne il consistente ampliamento del manufatto originariamente adibito a legnaia, risultato rifinito e pavimentato, che resta assoggettato, al regime della concessione edilizia, ai sensi dell'art. 1 della L. n. 10/1977 applicabile ratione temporis in quanto, pur volendo riconoscergli carattere pertinenziale rispetto all'immobile principale, incide in senso innovativo e trasformativo sull'assetto edilizio preesistente (cfr. ex multis C.d.S., Sez. II, 05.02.1997, n. 336) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.07.2017 n. 3960 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La presentazione dell'istanza di sanatoria implica, comunque, un effetto confessorio, costituendo la perpetrazione dell'abuso il presupposto dal punto di vista sia logico che giuridico per la sua presentazione. Tale istanza non può essere considerata come un atto meramente cautelativo, e il suo effetto confessorio non può assolutamente considerarsi come tamquam non esset, qualora l'interessato muti parere.
Il comportamento della parte -il quale non può che essere anch'esso improntato ai principi di trasparenza, lealtà e correttezza- implica una precisa scelta strategica. L'interessato con la domanda di sanatoria, da un lato, infatti, riconosce il carattere abusivo delle opere, in quanto esso è l'unico presupposto che giustifica la sua presentazione, dall'altro, avvia una attività amministrativa, caratterizzata da distinte e autonome istruttoria e valutazione, volta alla verifica delle condizioni di sanabilità dell'abuso.
Va comunque escluso il rilievo, rispetto alla legittimità dell’ordine di demolizione, dell’istanza di accertamento di conformità inoltrata ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, come documentato in atti. Ed infatti, l’intervenuta presentazione di un’istanza di sanatoria non comporta, come affermato in ricorso, la perdita di “efficacia” dell’ordinanza impugnata.
Il Collegio non ignora l’orientamento espresso da una parte della giurisprudenza amministrativa, compreso questo Tar, secondo cui la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, in epoca successiva all’adozione dell'ordinanza di demolizione, produce in via automatica la caducazione di tale ordinanza, rendendola inefficace. Più precisamente, secondo quest’orientamento, la presentazione dell’istanza di sanatoria rende improcedibile l’impugnazione contro l’atto demolitorio per sopravvenuta carenza d’interesse, posto che il riesame, provocato dall’istanza, del carattere abusivo dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto) o implicito (di rigetto), idoneo comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto di ricorso.
Il Collegio condivide, tuttavia, il diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui la proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 13 della legge n. 47/1985, ora art.36, d.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, peraltro per un tempo limitato fino alla sua definizione espressa o tacita, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione.
Inoltre, in aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, va ricordato che il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un’ipotesi di silenzio-significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego.
Di contro, non risulta che il ricorrente abbia gravato l’effetto legale tipico di diniego delineato dalla fattispecie in commento, che, pertanto, dovrebbe essersi oramai consolidato, sì da rendere intangibili le misure repressive disposte. Di qui l’irrilevanza dell’autorizzazione in sanatoria rilasciata, sul parere favorevole della C.e.i., con atto n. 36 del 17.03.2004 avente ad oggetto, ai sensi dell’art. 151 d.lgs. 490/1999 il solo accertamento di compatibilità ambientale e paesistico, ma non anche la sanatoria edilizia.
Il procedimento sanzionatorio ha, quindi, ripreso il suo corso una volta scaduto il termine di 90 giorni previsto per la demolizione, consentendo legittimamente all’Ente l’accertamento dell’inottemperanza alla demolizione e l’adozione degli atti conseguenziali.
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2.1 In ogni caso rispetto alle opere in contestazione è da rilevarsi che, successivamente all’ordine di demolizione gravato è stata inoltrata in data 18.01.2001 istanza di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985.
Peraltro la presentazione dell'istanza di sanatoria implica, comunque, un effetto confessorio, costituendo la perpetrazione dell'abuso il presupposto dal punto di vista sia logico che giuridico per la sua presentazione. Tale istanza non può essere considerata come un atto meramente cautelativo, e il suo effetto confessorio non può assolutamente considerarsi come tamquam non esset, qualora l'interessato muti parere.
Il comportamento della parte -il quale non può che essere anch'esso improntato ai principi di trasparenza, lealtà e correttezza- implica una precisa scelta strategica. L'interessato con la domanda di sanatoria, da un lato, infatti, riconosce il carattere abusivo delle opere, in quanto esso è l'unico presupposto che giustifica la sua presentazione, dall'altro, avvia una attività amministrativa, caratterizzata da distinte e autonome istruttoria e valutazione, volta alla verifica delle condizioni di sanabilità dell'abuso.
2.2 Va comunque escluso il rilievo, rispetto alla legittimità dell’ordine di demolizione, dell’istanza di accertamento di conformità inoltrata ai sensi dell’art. 13 della legge n. 47/1985, come documentato in atti. Ed infatti, l’intervenuta presentazione di un’istanza di sanatoria non comporta, come affermato in ricorso, la perdita di “efficacia” dell’ordinanza impugnata.
Il Collegio non ignora l’orientamento espresso da una parte della giurisprudenza amministrativa, compreso questo Tar, secondo cui la presentazione dell’istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, in epoca successiva all’adozione dell'ordinanza di demolizione, produce in via automatica la caducazione di tale ordinanza, rendendola inefficace. Più precisamente, secondo quest’orientamento, la presentazione dell’istanza di sanatoria rende improcedibile l’impugnazione contro l’atto demolitorio per sopravvenuta carenza d’interesse, posto che il riesame, provocato dall’istanza, del carattere abusivo dell'opera, sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità, comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito (di accoglimento o di rigetto) o implicito (di rigetto), idoneo comunque a superare il provvedimento sanzionatorio oggetto di ricorso (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 19.05.2015, n. 2763; Tar Sicilia, Palermo, sez. I, 02.04.2015, n. 813; Tar Liguria, Genova, sez. I, 26.02.2015, n. 235).
Il Collegio condivide, tuttavia, il diverso orientamento giurisprudenziale secondo cui la proposizione di un'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 13 della legge n. 47/1985, ora art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la sanzione, peraltro per un tempo limitato fino alla sua definizione espressa o tacita, ma non si riverbera sulla legittimità del precedente provvedimento di demolizione (cfr. ex multis Tar Napoli Campania sez. VI n. 5519 del 04.12.2013; Tar Campania, VI Sezione, 24.09.2009 n. 5071).
Inoltre, in aderenza ad un diffuso orientamento giurisprudenziale, più volte fatto proprio da questo Tribunale, va ricordato che il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce un’ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione quarta, 06.06.2008, n. 2691, 03.04.2006, n. 1710 e 14.02.2006 n. 598; sezione quinta, 11.02.2003, n. 706; Tar Campania-Napoli, questa sesta sezione, sentenze 06.09.2010, n. 17306, 15.07.2010, n. 16805).
Di contro, non risulta che il ricorrente abbia gravato l’effetto legale tipico di diniego delineato dalla fattispecie in commento, che, pertanto, dovrebbe essersi oramai consolidato, sì da rendere intangibili le misure repressive disposte. Di qui l’irrilevanza dell’autorizzazione in sanatoria rilasciata, sul parere favorevole della C.e.i., con atto n. 36 del 17.03.2004 avente ad oggetto, ai sensi dell’art. 151 d.lgs. 490/1999 il solo accertamento di compatibilità ambientale e paesistico, ma non anche la sanatoria edilizia.
Il procedimento sanzionatorio ha, quindi, ripreso il suo corso una volta scaduto il termine di 90 giorni previsto per la demolizione, consentendo legittimamente all’Ente l’accertamento dell’inottemperanza alla demolizione e l’adozione degli atti conseguenziali (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.07.2017 n. 3960 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per orientamento costante di questo Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, rispetto al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo. In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che sia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
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3. Infondate sono altresì le censure di natura formale attinenti la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990 e la mancata comunicazione del nominativo del responsabile del procedimento.
Va rimarcato che, per orientamento costante di questo Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, rispetto al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo. In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010, n. 7129).
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica motivazione che sia conto della valutazione delle ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art. 3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione dell'accertata abusività dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr, ex plurimis, Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010 , n. 3955).
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso affidamento circa la legittimità dell'opera, che il protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo (trattandosi di illecito permanente), il che preserva il potere-dovere dell'amministrazione di intervenire nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che il provvedimento demolitorio non richiede una congrua motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 26.07.2017 n. 3960 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO: Il dirigente o il responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune è titolare di una posizione di garanzia, e dunque dell'obbligo di impedire l'evento, discendente dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ne determina la responsabilità ai sensi dell'art. 40, comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari.
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7. E' fondato anche il sesto motivo di ricorso, che ha ad oggetto il reato di cui al capo D.
7.1. La rubrica imputa ai due dirigenti del Comune di Firenze di aver concorso nel reato edilizio di cui al capo A omettendo di adottare le misure amministrative necessarie a impedire l'esecuzione delle opere.
7.2. Al di là del tipo di addebito (doloso o colposo poco importa, attesa la natura contravvenzionale del reato contestato e il fatto storicamente contestato, non avendo rilevanza alcuna l'utilizzo nella rubrica dell'art. 110, cod. pen., piuttosto che 113, cod. pen.), il tema accusatorio, così come articolato, esclude dal proprio orizzonte la necessaria natura dolosa del concorso dei due pubblici ufficiali, men che meno la sussistenza di omissioni intenzionalmente orientate a procurare ai privati un ingiusto vantaggio o atteggiamenti collusivi.
7.3. E' sufficiente richiamare (e ribadire) il principio già affermato da questa Corte secondo cui il dirigente o il responsabile dell'ufficio urbanistica del Comune è titolare di una posizione di garanzia, e dunque dell'obbligo di impedire l'evento, discendente dall'art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ne determina la responsabilità ai sensi dell'art. 40, comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti interdittivi e cautelari (Sez. 3, n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv. 249785; si veda, sul punto, anche Sez. 3, n. 19566 del 25/03/2004, D'Ascanio, Rv. 228888).
7.4. Non ha perciò alcun fondamento la decisione del Tribunale di assolvere i due pubblici ufficiali sul solo dato della inesistenza in capo ad essi di una posizione di garanzia e della mancanza di addebiti di natura collusiva (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2017 n. 6873).

EDILIZIA PRIVATA: Più volte questa Corte ha affermato il principio che solo le planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificazioni o autorizzazioni, redatte, secondo le vigenti disposizioni, dall'esercente una professione necessitante speciale autorizzazione dello Stato, hanno natura di certificato, poiché assolvono la funzione di dare alla pubblica amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi. Ne consegue che rispondono del delitto previsto dall'articolo 481 cod. pen. il professionista che redige le planimetrie e la committente che firma la domanda fondata sulla documentazione infedele.
Esula dall'ambito dell'ipotizzato delitto ogni attività valutativa.
Il concetto è stato bene espresso da Sez. 2, n. 3628 del 12/12/2006, che, pronunciando in tema di delitto di falsità ideologica dell'esercente un servizio di pubblica necessità, ha affermato il principio, condiviso dal Collegio, che non rientrano nella nozione di "certificati" quegli atti che, nell'ambito di un procedimento amministrativo per il rilascio di un'autorizzazione, non hanno la funzione di dare all'Amministrazione un'esatta informazione su circostanze di fatto e, quindi, di provare la verità di quanto in essi affermato, ma sono espressivi di un giudizio, di valutazioni e convincimenti soggettivi, sia pure erronei, ma che non alterano i fatti.
Quel che conta è l'esatta rappresentazione e descrizione grafica dell'intervento; la valutazione che ne compie il professionista non è assistita da alcuna presunzione di veridicità, essendo sempre riservata al dirigente o al responsabile dell'ufficio comunale, nell'ambito dell'attività di vigilanza di cui all'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, ogni valutazione sulla conformità dell'opera progettata alle norme di legge e di regolamento e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, ivi compresa la qualificazione stessa dell'intervento ed il suo regime edilizio.
Occorre piuttosto precisare che l'art. 20, comma 13, d.P.R. n. 380 del 2001, punisce con pena ancor più severa di quella prevista dall'art. 481, cod. pen., la condotta di «chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni di cui al comma 1, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al medesimo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni».
In questo caso, oggetto materiale della falsità non è il progetto allegato alla domanda di permesso di costruire, bensì la specifica dichiarazione del progettista abilitato «che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienicosanitarie, alle norme relative all'efficienza energetica».
E' evidente il diverso ambito applicativo delle due fattispecie poiché alla prima (art. 481, cod. pen.) è estraneo l'ambito valutativo; la seconda fattispecie, invece, incrimina una specifica falsa attestazione che presuppone necessariamente un giudizio di conformità.
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8. Il quinto motivo di ricorso (che riguarda i fatti-reato di cui al capo B della rubrica; artt. 81, cpv., 481, cod. pen.) non è fondato.
8.1. Le contestate falsità, infatti, sostanzialmente ricadono sulla "qualificazione" delle opere da eseguire come "restauro".
8.2. Più volte questa Corte ha affermato il principio che solo le planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificazioni o autorizzazioni, redatte, secondo le vigenti disposizioni, dall'esercente una professione necessitante speciale autorizzazione dello Stato, hanno natura di certificato, poiché assolvono la funzione di dare alla pubblica amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi. Ne consegue che rispondono del delitto previsto dall'articolo 481 cod. pen. il professionista che redige le planimetrie e la committente che firma la domanda fondata sulla documentazione infedele (Sez. 5, n. 5098 del 08/03/2000, Stenico, Rv. 216056; Sez. 5, n. 15860 del 21/03/2006, Stivalini, Rv. 234601; Sez. 3, n. 30401 del 23/06/2009, Zazzaro, Rv. 244588).
8.3. Esula dall'ambito dell'ipotizzato delitto ogni attività valutativa.
8.4. Il concetto è stato bene espresso da Sez. 2, n. 3628 del 12/12/2006, Pinto, Rv. 235934 che, pronunciando in tema di delitto di falsità ideologica dell'esercente un servizio di pubblica necessità, ha affermato il principio, condiviso dal Collegio, che non rientrano nella nozione di "certificati" quegli atti che, nell'ambito di un procedimento amministrativo per il rilascio di un'autorizzazione, non hanno la funzione di dare all'Amministrazione un'esatta informazione su circostanze di fatto e, quindi, di provare la verità di quanto in essi affermato, ma sono espressivi di un giudizio, di valutazioni e convincimenti soggettivi, sia pure erronei, ma che non alterano i fatti.
8.5. Quel che conta è l'esatta rappresentazione e descrizione grafica dell'intervento; la valutazione che ne compie il professionista non è assistita da alcuna presunzione di veridicità, essendo sempre riservata al dirigente o al responsabile dell'ufficio comunale, nell'ambito dell'attività di vigilanza di cui all'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, ogni valutazione sulla conformità dell'opera progettata alle norme di legge e di regolamento e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, ivi compresa la qualificazione stessa dell'intervento ed il suo regime edilizio.
8.6. Occorre piuttosto precisare che l'art. 20, comma 13, d.P.R. n. 380 del 2001, punisce con pena ancor più severa di quella prevista dall'art. 481, cod. pen., la condotta di «chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o asseverazioni di cui al comma 1, dichiara o attesta falsamente l'esistenza dei requisiti o dei presupposti di cui al medesimo comma è punito con la reclusione da uno a tre anni».
In questo caso, oggetto materiale della falsità non è il progetto allegato alla domanda di permesso di costruire, bensì la specifica dichiarazione del progettista abilitato «che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienicosanitarie, alle norme relative all'efficienza energetica».
8.7. E' evidente il diverso ambito applicativo delle due fattispecie poiché alla prima (art. 481, cod. pen.) è estraneo l'ambito valutativo; la seconda fattispecie, invece, incrimina una specifica falsa attestazione che presuppone necessariamente un giudizio di conformità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 14.02.2017 n. 6873).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: E’ infatti pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale gli atti amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato, cosicché occorre prescindere dal nomen iuris ad essi attribuito al momento della adozione.
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In punto di diritto l’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241/1990 nel testo attualmente in vigore (comma così modificato dall'art. 25, comma 1, lett. b-quater), nn. 1) e 2), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, e, successivamente, dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124) dispone: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Il ricorso all'autotutela (mediante annullamento d'ufficio) può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui all'art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990, ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce della novella di cui all'art. 6 della legge 07.08.2015, n. 124, sussiste ora uno sbarramento temporale all'esercizio del potere di autotutela, fissato in “diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
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Il Collegio ritiene che la norma introdotta dalla legge n. 07.08.2015, n. 124 sia applicabile in ogni caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente.
Inoltre l'annullamento d'ufficio del permesso di costruire richiede necessariamente un'espressa motivazione in ordine all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante, ai sensi dell'art. 21-nonies della L. n. 241/1990, preminente su quello privato alla conservazione del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di autotutela della P.A., entro un termine ragionevole, non essendo, pure nella materia edilizia, sufficiente l'intento di operare un mero astratto ripristino della legalità violata.
Nel caso in esame, al contrario, il Comune resistente non ha fornito alcuna ragione, per quanto succinta, di interesse pubblico in base alla quale giustificare l’esercizio del potere di autotutela, né ha valutato il grado di incisione del suddetto potere sugli interessi dei suddetti ricorrenti, in bilanciamento con quelli pubblici. Nella specie manca il requisito rappresentato dalla valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del provvedimento. Inoltre, come condivisibilmente prospettato da parte ricorrente, il suo affidamento era particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione del permesso di costruire annullato, risultando trascorsi undici anni dal rilascio del titolo edilizio oggetto di annullamento.
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Il ricorso è fondato e, in quanto tale, va accolto.
Il Collegio deve innanzitutto qualificare la determina dirigenziale prot. n. 12 del 16.02.2016, oggetto di impugnazione, con la quale il Comune di Sessa Aurunca ha annullato in autotutela il permesso di costruire n. 2 del 13.01.2005, rilasciato in variante alla concessione edilizia n. 320 del 16.10.1992, in quanto il Comune resistente, nell’oggetto del provvedimento stesso, dopo averlo qualificato “revoca in autotutela” ha rappresentato espressamente di averlo adottato “ai sensi dell'art. 21-nonies della L. 241/1990”, che disciplina l’annullamento d’ufficio, e, nella parte dispositiva del provvedimento, ha disposto “l’annullamento in autotutela del permesso di costruire n. 2 del 13/01/2005”.
E’ infatti pacifico in giurisprudenza il principio, condiviso dal Collegio, secondo il quale gli atti amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato, cosicché occorre prescindere dal nomen iuris ad essi attribuito al momento della adozione (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 09.06.2015, n. 2836, Consiglio di Stato, Sez. V, 28.06.2004, n. 4756, 15.10.2003, n. 6316, Adunanza Plenaria Consiglio di Stato, 23.01.2003, n. 3, TAR Lombardia Milano Sez. II, 18.09.2013, n. 2170).
Nella fattispecie oggetto di gravame deve ritenersi che il provvedimento sia stato effettivamente adottato ai sensi dell'art. 21-nonies della L. 241/1990, che disciplina l’annullamento d’ufficio, in quanto risulta annullato per violazione delle distanze previste dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 e dall’art. 907 c.c. e per essere stato rilasciato sulla scorta della documentazione tecnica presentata dall’odierno ricorrente che non rappresentava la distanza tra la finestra di proprietà del sig. Si. e gli edifici di progetto, inducendo pertanto in errore la P.A., e, quindi, dopo aver riscontrato un vizio di legittimità del permesso di costruire oggetto di autotutela, circostanza risolutiva ai fini della qualificazione del provvedimento quale annullamento d’ufficio.
Premesso quanto sopra, nel merito si ritiene di confermare quanto già sostenuto da questa Sezione nell’ordinanza cautelare di accoglimento n. 1133 dell’11.07.2016 in relazione alla mancanza delle condizioni per disporre l’annullamento del permesso di costruire.
Colgono infatti nel segno le censure di cui al secondo motivo di ricorso con le quali parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241/1990 per insussistenza dei presupposti richiesti dalla suddetta disposizione normativa.
Ad avviso di parte ricorrente l’adozione del provvedimento di annullamento d’ufficio presuppone, unitamente al riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la valutazione della rispondenza della sua rimozione ad un interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche prevalente rispetto all’interesse del privato che ha riposto affidamento nella legittimità e stabilità del titolo medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco temporale.
Nel caso di specie sarebbe stato adottato un provvedimento di annullamento in autotutela dopo ben 11 anni (nonostante un ulteriore permesso di costruire in variante rilasciato nel 2008 e rinnovato nel 2012), senza indicare o motivare quale sia l'interesse pubblico specifico e senza minimamente tenere in considerazione l'affidamento del privato nella conservazione del titolo abilitativo, consolidatosi nell'arco temporale cospicuo trascorso tra il rilascio e l'annullamento e, conseguentemente, con l’ordinanza di demolizione oggetto di impugnazione, sarebbe stata ordinata illegittimamente la demolizione delle opere realizzate.
In punto di diritto l’art. 21-nonies, comma 1, della legge n. 241/1990 nel testo attualmente in vigore (comma così modificato dall'art. 25, comma 1, lett. b-quater), nn. 1) e 2), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, e, successivamente, dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124) ed applicabile ratione temporis alla fattispecie per cui è causa, dispone: “1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Il ricorso all'autotutela (mediante annullamento d'ufficio) può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui all'art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990, ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce della novella di cui all'art. 6 della legge 07.08.2015, n. 124, sussiste ora uno sbarramento temporale all'esercizio del potere di autotutela, fissato in “diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762, 10.12.2015, n. 5625).
Nel caso di specie l’annullamento d’ufficio è intervenuto il 16.02.2016 e, quindi, ben oltre il termine dei diciotto mesi dal rilascio, il 13.01.2005, indicato dal citato art. 21-nonies della legge n. 241/1990, così come modificato dalla legge 07.08.2015, n. 124, quale limite per procedere all’annullamento in autotutela dei titoli autorizzativi, senza che sia stata dimostrata la sussistenza delle circostanze di cui al comma 2-bis del medesimo articolo, che prevedono la possibilità di procedere ugualmente all’annullamento ex officio.
Al riguardo il Collegio ritiene che la norma introdotta dalla legge n. 07.08.2015, n. 124 sia applicabile in ogni caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente (TAR Puglia Bari, Sez. III, 17.03.2016, n. 351, TAR Campania Napoli, Sez. III, 22.09.2016, n. 4373).
Inoltre l'annullamento d'ufficio del permesso di costruire richiede necessariamente un'espressa motivazione in ordine all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante, ai sensi dell'art. 21-nonies della L. n. 241/1990, preminente su quello privato alla conservazione del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di autotutela della P.A., entro un termine ragionevole, non essendo, pure nella materia edilizia, sufficiente l'intento di operare un mero astratto ripristino della legalità violata (TAR Puglia Lecce Sez. III, 20.10.2016, n. 1602; TAR Campania Salerno Sez. I, 24.02.2016, n. 446).
Nel caso in esame, al contrario, il Comune resistente non ha fornito alcuna ragione, per quanto succinta, di interesse pubblico in base alla quale giustificare l’esercizio del potere di autotutela, né ha valutato il grado di incisione del suddetto potere sugli interessi dei suddetti ricorrenti, in bilanciamento con quelli pubblici.
Nella specie manca il requisito rappresentato dalla valutazione motivata della posizione dei soggetti destinatari del provvedimento. Inoltre, come condivisibilmente prospettato da parte ricorrente, il suo affidamento era particolarmente qualificato in ragione del lungo tempo trascorso dall’adozione del permesso di costruire annullato, risultando trascorsi undici anni dal rilascio del titolo edilizio oggetto di annullamento (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762, 10.12.2015, n. 5625 cit., TAR Lombardia Brescia Sez. II, 09.05.2016, n. 634) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 03.01.2017 n. 60 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il costruttore risponde del cattivo isolamento acustico.
Del cattivo isolamento acustico l'appaltatore risponde per i danni, purché la denunzia del vizio avvenga entro un anno dalla scoperta. Ma soprattutto ne risponde anche oltre il confine del rapporto committente-appaltatore: due sentenze assai poco note, infatti, aiutano a comprendere questo principio.

Il TRIBUNALE di Milano, con sentenza 13.11.2015, ha riconosciuto, in primo luogo, la legittimazione attiva a far valere i vizi costruttivi non solo al committente e ai suoi aventi causa, ma anche all'acquirente dell'immobile. E ha classificato l'inadeguatezza dell'isolamento acustico come «grave difetto costruttivo» tutelato dall'articolo 1669 del Codice civile.
Poi ha chiarito come, dal lato passivo, concorrano con l'appaltatore tutti quei soggetti, quali il progettista e il direttore dei lavori che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione dell'opera, abbiano contribuito, per colpa professionale, alla determinazione dell'evento dannoso, costituito dall'insorgenza dei vizi in questione.
Il Tribunale di Milano ha poi ribadito come la "scoperta del vizio", da cui decorrono i termini per la denuncia, debba essere completa, ricomprendendo quindi anche l'esatta conoscenza della gravità dei difetti costruttivi e l'esistenza del nesso causale tra i vizi e l'attività progettuale e costruttiva espletata. L'adeguatezza o meno dell'isolamento acustico dell'edificio potrà essere valutata con riferimento ai parametri contenuti del Dpcm del 05.12.1997, certamente utili a verificare il rispetto delle regole dell'arte da parte del costruttore (in tal senso anche si è espresso anche il Tribunale di Vicenza con sentenza del 10.02.2016).
Quanto al danno patrimoniale conseguente al difetto di insonorizzazione, il giudice meneghino ritiene che lo stesso possa essere quantificato tenendo in considerazione il minor valore dell'immobile rispetto a quello di mercato, considerati i costi necessari per effettuare gli interventi utili a ripristinare un corretto isolamento acustico del bene (articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2018).

EDILIZIA PRIVATA: D.i.a. e regime sanzionatorio.
Nei casi previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 22 del TU n. 380/2001 —in cui la DIA si pone come titolo abilitativo esclusivo (non alternativo, cioè, al permesso di costruire)— la mancanza della denunzia di inizio dell’attività o la difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA effettivamente presentata non comportano l’applicazione di sanzioni penali ma sono sanzionate soltanto in via amministrativa (art. 37, 6° comma, del TU. n. 380/2001).
Dovendo ritenersi, però, che sia comunque punibile ai sensi dell’art. 44, lett. a), del T.U. n. 380/2001 —pure se preceduta da rituale denuncia d’inizio— l’esecuzione di interventi sostanzialmente difformi da quanto stabilito da strumenti urbanistici e regolamenti edilizi.
Nei casi previsti dal 3° comma dell’art. 22 del T.U. n 380/2001, invece —in cui la DIA si pone come alternativa al permesso di costruire— (ai sensi del comma 2-bis del successivo art. 44) l’assenza sia del permesso di costruire sia della denunzia di inizio dell’attività ovvero la totale difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA effettivamente presentata integrano il reato di cui al successivo art. 44, lett. b).
Non trova comunque sanzione penale la difformità parziale
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 08.09.2010 n. 32947 - link a www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sull’omessa previa acquisizione del parere della commissione edilizia, va confermato l’orientamento giurisprudenziale che esonera l’amministrazione procedente dall’assunzione del parere nel caso in cui, come nel caso di specie, sia acclarata la mancanza del presupposto di fatto per fruire del condono, qual è per -l’appunto- l’ultimazione dei lavori oltre il termine perentorio.
In tale evenienza, venendo meno il presupposto di storico di fatto, è preclusa alla radice, anche per ragioni d’economia del procedimento, ogni altra valutazione che cognita causa condiziona ordinariamente lo scrutinio d’ammissibilità del condono.

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Qualora non ricorrano le ipotesi previste dal codice civile (artt. 1324 e 1427 e ss c.c.) che consentono l’astratta rittrattabilità della dichiarazione negoziale (ndr: istanza di condono edilizio), essa produce irrevocabilmente per la parte istante -fatto salvo ovviamente il potere di verifica dell’amministrazione- tutti gli effetti conseguenti, primi fra tutti l’individuazione dei termini e delle condizioni di definizione del condono.
Certo è che in ordine ai fatti indicati essa integra a tutti gli effetti la c.d. “contra se pronuntiatio” sull’entità effettiva delle opere realizzate, oggetto della sanatoria legale.
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Il ricorso è infondato.
Sull’omessa previa acquisizione del parere della commissione edilizia, va confermato l’orientamento giurisprudenziale, da cui non v’è motivo per discostarsi, che esonera l’amministrazione procedente dall’assunzione del parere nel caso in cui, come nel caso di specie, sia acclarata la mancanza del presupposto di fatto per fruire del condono, qual è per -l’appunto- l’ultimazione dei lavori oltre il termine perentorio (cfr., Cons. St., sez. V, 03.07.2003 n. 3974; Tar Sardegna, sez. II; 18.09.2007 n. 1753).
In tale evenienza, venendo meno il presupposto di storico di fatto, è preclusa alla radice, anche per ragioni d’economia del procedimento, ogni altra valutazione che cognita causa condiziona ordinariamente lo scrutinio d’ammissibilità del condono.
Anche le residue censure non meritano migliore sorte.
È fuor d’opera in questa sede soffermarsi sulla qualificazione negoziale dell’istanza di condono, con il corollario che, qualora non ricorrano le ipotesi previste dal codice civile (artt. 1324 e 1427 e ss c.c.) che consentono l’astratta rittrattabilità della dichiarazione negoziale, essa produce irrevocabilmente per la parte istante -fatto salvo ovviamente il potere di verifica dell’amministrazione- tutti gli effetti conseguenti, primi fra tutti l’individuazione dei termini e delle condizioni di definizione del condono.
Certo è che in ordine ai fatti indicati essa integra a tutti gli effetti la c.d. “contra se pronuntiatio” sull’entità effettiva delle opere realizzate, oggetto della sanatoria legale.
Del resto strutturamente la domanda si compone di una parte nella quale si indicano le opere abusivamente realizzate e, sulla cui scorta, s’esprime, nella residua parte, la volontà di corrispondere la somma necessaria per fruire del provvedimento clemenziale.
Sicché “il fatto” dichiarato dal ricorrente nell’istanza di condono del 03.13.2004, oltretutto espresso ai sensi dell’art. 47 d.P.R. n. 445/2000, ossia il cambio di destinazione d’uso in abitativo dei manufatti già destinati a fienile magazzino e serra, circoscrive irretrattabilmente l’oggetto del procedimento amministrativo di condono: l’amministrazione, a quella stregua, effettua le verifiche conseguenti per accogliere o meno l’istanza.
Qualora, come nel caso che ne occupa, sia stata respinta, nessun rilievo assumono gli argomenti che, in quello stesso procedimento, comportano una totale capovolgimento dei fatti come originariamente dichiarati.
Conclusivamente il secondo motivo di censura impostato sul registro della ritrattazione dei fatti dichiarati nell’istanza di condono deve essere respinto.
In ordine alla data di ultimazione dei lavori, vale a dire al completamento funzionale delle opere strumentali al mutamento di destinazione d’uso, sono decisive le acquisizioni istruttorie riprodotte per tabulas nel provvedimento impugnato.
Le dichiarazioni del direttore dei lavori (29.07.2003), il certificato di collaudo (25.07.2003) e la richiesta del certificato di agibilità (29.07.2003) univocamente attestano che al 31.03.2003, oltre a non essere stato effettuato il completamento funzionale ai fini residenziale, non era stata ultimata nemmeno la copertura della serra (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.10.2008 n. 1862 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il mutamento di destinazione d’uso da agricolo ad abitativo, realizzato con opere edilizie, senza titolo, con incidenza negativa sugli standards edilizi, integra illecito edilizio di cui al combinato disposto degli artt. 31 e 32, comma 1, lett. a) d.P.R. n. 380/2001 sanzionato con la misura ripristinatoria.
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Da ultimo sulla censura avente ad oggetto la sanzione della demolizione in luogo di quella pecuniaria.
Il mutamento di destinazione d’uso da agricolo ad abitativo, realizzato con opere edilizie, senza titolo, con incidenza negativa sugli standards edilizi, integra illecito edilizio di cui al combinato disposto degli artt. 31 e 32, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380/2001 sanzionato con la misura ripristinatoria.
Conclusivamente il ricorso deve essere respinto (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 29.10.2008 n. 1862 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AGGIORNAMENTO AL 03.09.2018

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IN EVIDENZA

APPALTI: L’Adunanza plenaria pronuncia sulla corretta applicazione del computo del cd. ”fattore di correzione.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte - Cd. ”fattore di correzione” – Computo - Art. 97, comma 2, lett. b), secondo alinea, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio.
L’art. 97, comma 2, lett. b), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 si interpreta nel senso che la locuzione “offerte ammesse” (al netto del c.d. ‘taglio delle ali’) da prendere in considerazione ai fini del computo della media aritmetica dei ribassi e la locuzione “concorrenti ammessi” da prendere in considerazione al fine dell’applicazione del fattore di correzione fanno riferimento a platee omogenee di concorrenti; conseguentemente, la somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi (finalizzata alla determinazione del fattore di correzione) deve essere effettuata con riferimento alla platea dei concorrenti ammessi, ma al netto del c.d. ‘taglio delle ali’” (1).
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La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria da Cons. St., sez. V, ord., 08.06.2018, n. 3472.
   (1) Ha chiarito l’Adunanza plenaria che la previsione di cui all’art. 97, comma 2, lett. b), del nuovo Codice dei contratti ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti.
Secondo un primo orientamento (condiviso dalla Sezione remittente) le due parti di cui si compone la disposizione in esame dovrebbero essere interpretate ed applicate secondo un criterio di carattere –per così dire– ‘dissociativo’.
In base a tale opzione interpretativa, il Legislatore avrebbe consapevolmente tenuto distinte: i) (da un lato) la platea dei concorrenti in relazione ai quali determinare la media aritmetica dei ribassi (platea che andrebbe individuata previo il ‘taglio delle ali’) e ii) dall’altro, la platea dei concorrenti da prendere in considerazione al fine della determinazione del c.d. ‘fattore di correzione’ (platea che andrebbe identificata con l’intero novero dei concorrenti ammessi, senza ‘taglio delle ali’).
In base a un secondo orientamento la disposizione in esame dovrebbe invece essere intesa secondo un criterio di carattere –per così dire– ‘associativo’.
Secondo tale opzione la locuzione ‘offerte ammesse’ (al netto del ‘taglio delle ali’) di cui alla prima parte del comma 2, lett. b), e la locuzione ‘concorrenti ammessi’ di cui alla seconda parte della disposizione farebbero riferimento a platee omogenee (ambedue da individuare previo il ‘taglio delle ali’).
L’Adunanza plenaria ritiene che prevalenti ragioni inducano a propendere per la seconda delle richiamate opzioni, alla quale aderisce la prevalente giurisprudenza di secondo grado (Cons. St., sez. V, 23.01.2018, n. 435; id. 17.05.2018, n. 2959).
Elementi di carattere teleologico e sistematico militino nel senso di “[ritenere] corretta l'interpretazione secondo cui la previa esclusione (c. d. taglio delle ali) va inclusa anche nel calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali superiori alla media”. Non emergono valide ragioni per cui, una volta eliminate alcune offerte dal criterio di calcolo, le stesse possano successivamente rientrare a farne parte. In modo parimenti condivisibile si è escluso che il Legislatore abbia inteso applicare il calcolo della media limitatamente ai ribassi ammessi dopo il taglio delle ali per poi successivamente calcolare, all’opposto, la somma dei ribassi prendendo in considerazione tutti i ribassi originali, seppur già esclusi.
Ragioni di coerenza sistematica inducono a ritenere che la sostanziale presunzione su cui si fonda lo stesso meccanismo del ‘taglio delle ali’ è tale da non soffrire eccezioni o intermittenze nello sviluppo logico ed aritmetico della determinazione della soglia di anomalia. Ne consegue che un metodo di calcolo il quale prendesse in considerazione tale presunzione ai fini della prima operazione, ma la escludesse dalla seconda, risulterebbe intrinsecamente contraddittorio (Consiglio di Stato, A.P., sentenza 30.08.2018 n. 13 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3. E’ quindi possibile esaminare il merito della questione devoluta a questa Adunanza plenaria
Giova premettere alcune puntualizzazioni in fatto e alcune in diritto.
3.1. In punto di fatto va qui premesso
   - che la gara all’origine dei fatti di causa è stata indetta da ANAS s.p.a. quale soggetto attuatore di protezione civile per la realizzazione degli interventi di ripristino e messa in sicurezza della viabilità delle infrastrutture stradali di propria competenza (e di competenza di altri soggetti pubblici) a seguito degli eventi sismici che hanno colpito il territorio delle Regioni Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo a partire dal 24.08.2016;
   - che la gara in questione aveva ad oggetto la realizzazione di lavori urgenti di ripristino sulla S.S. 685 (‘Tre Valli Umbre’) delle reti a contatto, di perlustrazione dei versanti e disgaggio ed installazione di barriere paramassi;
   - che la gara si è svolta attraverso una procedura aperta accelerata ai sensi del comma 3 dell’articolo 60 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (recante il ‘Codice dei contratti pubblici’), con il criterio del massimo ribasso;
   - che la lex specialis prevedeva l’esclusione automatica delle offerte anomale ai sensi del comma 8 dell’articolo 97 del richiamato decreto legislativo n. 50 del 2016 (tale previsione era possibile trattandosi di affidamento sotto la soglia di rilevanza comunitaria);
   - che, ai sensi del comma 2 dell’articolo 97 del ‘Codice dei contratti pubblici’ e al fine di rendere non predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento della soglia di anomalia, la stazione appaltante procedeva a sorteggiare uno dei criteri di cui al medesimo comma 2. Veniva quindi sorteggiato il criterio di cui alla lettera b) (sul punto, v. infra);
   - che, ritenendo di applicare nel modo più corretto la richiamata previsione legislativa, la stazione appaltante procedeva: i) ad ordinare le offerte ammesse ponendole in ordine crescente di ribasso offerto; ii) ad escludere (rectius: ad accantonare) il venti per cento delle offerte caratterizzate –rispettivamente– dal maggiore e dal minore ribasso (c.d. ‘taglio delle ali’); iii) a calcolare la media aritmetica dei ribassi delle offerte ammesse residuate dopo il ‘taglio delle ali’; iv) a calcolare la somma dei ribassi di tutti i concorrenti ammessi; v) a lasciare invariata la media sub iii in quanto la somma dei ribassi sub iv presentava la prima cifra dopo la virgola dispari; vi) a fissare, quindi, la soglia di anomalia nella percentuale già individuata sub iii); vi) ad escludere i via automatica dalla procedura tutti i concorrenti (fra cui l’appellante) che presentassero un ribasso percentuale superiore alla soglia di anomalia; vii) ad aggiudicare la gara all’A.T.I. Pr./Ci., che aveva proposto in gara la prima delle offerte non anomale
3.2. In punto di diritto va qui osservato che, a seguito delle modifiche apportate dal decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 (recante ‘Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50’), il comma 2 dell’articolo 97 del Codice (articolo rubricato ‘Offerte anormalmente basse’) stabilisce che: “Quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di anomalia determinata; al fine di non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento per il calcolo della soglia, il RUP o la commissione giudicatrice procedono al sorteggio, in sede di gara, di uno dei seguenti metodi: (…)
b) media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del venti per cento rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso arrotondato all'unità superiore, tenuto conto che se la prima cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi è pari ovvero uguale a zero la media resta invariata; qualora invece la prima cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi è dispari, la media viene decrementata percentualmente di un valore pari a tale cifra
”.
Il c.d. ‘decreto correttivo’ del 2017 ha apportato una duplice modifica alle disposizioni che qui vengono in rilievo:
   - in primo luogo, ha chiarito che la determinazione della soglia di anomalia secondo le previsioni in parola e le conseguenti operazioni di sorteggio sono operate dal RUP ovvero dalla commissione giudicatrice;
   - in secondo luogo, ha chiarito che il c.d. ‘taglio delle ali’ finalizzato alla determinazione della media da assumere quale base di calcolo per la fissazione della soglia di anomalia debba interessare il venti per cento delle offerte ammesse –rispettivamente- con il maggiore e il minore ribasso, con arrotondamento all’unità superiore (nella precedente formulazione veniva semplicemente sancita una “esclusione del 10%”, senza ulteriori indicazioni).
Sempre dal punto di vista normativo va qui chiarito che il criterio di determinazione della soglia di anomalia di cui all’articolo 97, comma 2, lettera b), del nuovo ‘Codice dei contratti’, pur presentando alcuni punti di contatto con il pregresso criterio determinativo di cui al comma 1 dell’articolo 86 del decreto legislativo 12.04.2006, n 163, presenta altresì caratteri di indubbia novità, sì da rendere non utilizzabili (almeno, non in modo integrale) le acquisizioni conseguite nella vigenza di tale decreto legislativo.
Come è noto, infatti, il comma 1 dell’articolo 86, cit. stabiliva che, nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso, la verifica di anomalia avrebbe riguardato le offerte che presentassero “un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all’unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media”.
Pertanto, per ciò che riguarda la determinazione della soglia di anomalia nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso, le principali novità che qui mette conto di segnalare rispetto all’attuale comma 2 dell’articolo 97 sono in particolare due.
In primo luogo si segnala che, mentre nel ‘Codice’ del 2006 la determinazione della soglia di anomalia veniva affidata a un criterio matematico sostanzialmente univoco (sia pure temperato dal c.d. ‘taglio delle ali’ e dal meccanismo dell’incremento dello scarto medio aritmetico); al contrario il ‘Codice’ del 2016 ha affidato il compito di rendere non predeterminabile la richiamata soglia al meccanismo del sorteggio fra i diversi possibili metodi di computo di cui all’articolo 97.
In secondo luogo si segnala che, mentre nel ‘Codice’ del 2006 era palese che le uniche offerte da prendere in considerazione ai fini del computo della media aritmetica (e quindi, della soglia di anomalia) fossero quelle ‘ammesse’, ma al netto del c.d. ‘taglio delle ali’; al contrario il nuovo ‘Codice’ non fornisce immediata chiarezza circa le offerte da prendere in considerazione ai fini delle operazioni di computo di cui al più volte richiamato articolo 97, comma 2, lettera b).
Ed infatti:
   - mentre (ai fini della fissazione della prima media aritmetica dei ribassi) è del tutto chiaro che essa debba essere determinata prendendo in considerazione le sole offerte ammesse a seguito del ‘taglio delle ali’;
   - al contrario, non è del tutto chiaro se (ai fini dell’applicazione del c.d. ‘fattore di correzione’ di cui al comma 2, lettera b) la locuzione “somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi” debba essere riferita a tutti i concorrenti ammessi in gara, ovvero ai soli concorrenti residuati all’esito del ‘taglio delle ali’ di cui alla medesima lettera b).
4. La questione interpretativa appena richiamata risulta rilevante ai fini della definizione della presente controversia in quanto (almeno nella prospettazione dell’appellante)
   - laddove si opti (come ha fatto l’appellata ANAS) per l’interpretazione secondo cui la locuzione “somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi” include i soli concorrenti che residuano al ‘taglio delle ali’, allora la soglia di anomalia resterebbe fissata nella misura del 29,310 per cento (con la conseguenza di determinare l’esclusione automatica dell’appellante, il cui ribasso percentuale offerto era del 29,497 per cento);
   - laddove invece si opti (come auspicato dall’appellante, con opzione di fatto condivisa dall’ordinanza di rimessione –sul punto, v. infra-) per l’interpretazione secondo cui la richiamata locuzione farebbe riferimento, per la determinazione del fattore di correzione, a tutti i concorrenti ammessi (i.e.: anche a quelli interessati dal ‘taglio delle ali’), allora la soglia di anomalia resterebbe fissata nella misura del 29,606 per cento (con la conseguenza che la gara dovrebbe essere aggiudicata alla stessa appellante, la quale avrebbe formulato la prima delle offerte non anomale).
L’ANAS ha peraltro obiettato che l’appellante avrebbe tenuto sul punto un contegno ondivago, affermando in un primo momento che l’adesione alla tesi invocata dalla stessa appellante avrebbe portato a una soglia di anomalia del 29,393 per cento e, in un secondo momento, che l’adesione a tale tesi avrebbe portato a una soglia di anomalia del 29,606 per cento.
Si tratta di un aspetto che potrà essere valutato in sede di decisione di merito e che non impedisce di affrontare la questione di diritto demandata a questa Adunanza plenaria nei suoi termini generali.
5. Ora, come puntualmente riferito nell’ambito dell’ordinanza di rimessione, la previsione di cui all’articolo 97, comma 2, lettera b), del ‘Codice’ ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti.
5.1. Secondo un primo orientamento (condiviso dal Collegio remittente) le due parti di cui si compone la disposizione in esame dovrebbero essere interpretate ed applicate secondo un criterio di carattere –per così dire– ‘dissociativo’.
In base a tale opzione interpretativa, il Legislatore avrebbe consapevolmente tenuto distinte:
   i) (da un lato) la platea dei concorrenti in relazione ai quali determinare la media aritmetica dei ribassi (platea che andrebbe individuata previo il ‘taglio delle ali’) e
   ii) dall’altro, la platea dei concorrenti da prendere in considerazione al fine della determinazione del c.d. ‘fattore di correzione’ (platea che andrebbe identificata con l’intero novero dei concorrenti ammessi, senza ‘taglio delle ali’).
L’opzione interpretativa in questione è stata di fatto condivisa dall’ANAS (che vi si è conformata al fine di determinare la soglia di anomalia), dal primo Giudice e dallo stesso Collegio remittente.
Fra i principali argomenti a sostegno di tale tesi (peraltro, puntualmente indicati dall’ordinanza di rimessione), si richiamano qui:
   - l’argomento (di carattere testuale) secondo cui se il Legislatore avesse inteso escludere le offerte che residuano dopo il taglio delle ali, oltre che nel calcolo della media, anche ai fini della determinazione del ‘fattore di correzione’, avrebbe dovuto stabilirlo in maniera espressa, senza far ricorso alla generica locuzione “ribassi offerti dai concorrenti ammessi”;
   - l’argomento (di carattere sostanziale) secondo cui le offerte ‘tagliate’ ai fini della media matematica di cui alla prima parte della disposizione sono e restano offerte ‘ammesse’ ai fini del ‘fattore di correzione’ di cui alla seconda parte della medesima disposizione;
   - l’argomento (di carattere logico) secondo cui, siccome l’articolo 97, comma 2, lettera b), richiede di effettuare due operazioni ontologicamente distinte (una media nella prima parte della disposizione e una sommatoria nella seconda parte di essa), del tutto coerentemente i termini da tenere in considerazione ai fini di tali distinte operazioni dovrebbero restare anch’essi distinti fra loro;
   - l’argomento (di carattere sistematico) secondo cui se la ratio della disposizione nel suo complesso è quella di rendere il più possibile non predeterminabile la soglia di anomalia, allora il richiamato criterio ‘dissociativo’ risulterebbe quello più coerente con la ratio legis, rendendo ancora più difficilmente predeterminabile la soglia di anomalia.
5.2. In base a un secondo orientamento (non condiviso dal Collegio remittente) la disposizione in esame dovrebbe invece essere intesa secondo un criterio di carattere –per così dire– ‘associativo’.
Secondo tale opzione la locuzione ‘offerte ammesse’ (al netto del ‘taglio delle ali’) di cui alla prima parte del comma 2, lettera b) e la locuzione ‘concorrenti ammessi’ di cui alla seconda parte della disposizione farebbero riferimento a platee omogenee (ambedue da individuare previo il ‘taglio delle ali’).
6. L’Adunanza plenaria ritiene che prevalenti ragioni inducano a propendere per la seconda delle richiamate opzioni.
6.1. Si osserva in primo luogo al riguardo che l’opzione in questione risulta ad oggi del tutto prevalente nella giurisprudenza di appello e che gli assunti logici e sistematici su cui si fondano i precedenti giurisprudenziali specifici risultano del tutto persuasivi.
In particolare, le sentenze della Quinta Sezione di questo Consiglio 23.01.2018, n. 435 e 17.05.2018, n. 2959 hanno aderito alla soluzione secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’articolo 97, comma 2, lettera b) del ‘Codice dei contratti pubblici’, l’esclusione (rectius: accantonamento) delle offerte interessate dal taglio delle ali operi sia in relazione al calcolo della media aritmetica dei ribassi, sia in relazione alla somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi.
In particolare, la seconda delle richiamate decisioni ha condivisibilmente affermato (richiamando peraltro Cons. Stato, VI, 17.10.2017, n, 4803) che elementi di carattere teleologico e sistematico militino nel senso di “[ritenere] corretta l'interpretazione secondo cui la previa esclusione (c. d. taglio delle ali) va inclusa anche nel calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali superiori alla media”.
Nell’occasione si è sottolineato che non emergono valide ragioni per cui, una volta eliminate alcune offerte dal criterio di calcolo, le stesse possano successivamente rientrare a farne parte.
In modo parimenti condivisibile si è escluso che il Legislatore abbia inteso applicare il calcolo della media limitatamente ai ribassi ammessi dopo il taglio delle ali per poi successivamente calcolare, all’opposto, la somma dei ribassi prendendo in considerazione tutti i ribassi originali, seppur già esclusi.
Si è inoltre osservato che ragioni di coerenza sistematica inducono a ritenere che la sostanziale presunzione su cui si fonda lo stesso meccanismo del ‘taglio delle ali’ è tale da non soffrire eccezioni o intermittenze nello sviluppo logico ed aritmetico della determinazione della soglia di anomalia. Ne consegue che un metodo di calcolo il quale prendesse in considerazione tale presunzione ai fini della prima operazione, ma la escludesse dalla seconda, risulterebbe intrinsecamente contraddittorio (in tal senso: Cons. Stato, VI, 4803 del 2017)
Un tale effetto –come già stabilito con il precedente da ultimo richiamato– si rivelerebbe irragionevolmente contraddittorio, “poiché farebbe perno su due giudizi di valore giuridico tra loro antitetici e incompatibili e, dunque, comprometterebbe la stessa ragion d'essere del primo accantonamento, peraltro indubitabilmente voluta dalla legge”.
6.2. Si osserva poi che l’opposta soluzione (dinanzi compendiata nella formula del ‘criterio dissociativo’) non risulta suffragata –e contrariamente a quanto affermato nell’ordinanza di rimessione- da elementi testuali di portata dirimente.
Se infatti il Legislatore, nell’ambito della medesima disposizione, ha dapprima utilizzato la locuzione “offerte ammesse” (abbinata al meccanismo del ‘taglio delle ali’) e poco oltre ha fatto riferimento ai “concorrenti ammessi”, non se ne inferisce in via necessaria che la seconda di tali locuzioni risulti incompatibile con il riferimento al meccanismo del taglio delle ali.
Al contrario, elementi di carattere testuale sembrano deporre nell’opposto senso per cui l’omogeneo riferimento ad offerte e concorrenti “ammessi” stia a significare che in entrambi i casi il sintagma si riferisca a una platea parimenti omogenea (determinata all’esito del ‘taglio delle ali’).
6.3. Non risulta poi risolutivo al fine di suffragare la tesi opposta a quella qui indicata l’argomento secondo cui le offerte ‘tagliate’ ai fini della media matematica di cui alla prima parte dell’articolo 97, comma 2, lettera b), sono e restano offerte ‘ammesse’ ai fini del ‘fattore di correzione’ di cui alla seconda parte della medesima disposizione.
Ed infatti, la circostanza secondo cui la disposizione fa riferimento in ambo i casi ad offerte ‘ammesse’ non esclude (ma anzi, rafforza) l’esigenza di coerenza interna volta ad assicurare che in entrambi i casi si faccia riferimento a una platea di carattere omogeneo.
6.4. Per ragioni del tutto analoghe, il fatto che le due parti della disposizione facciano riferimento ad operazioni distinte (la determinazione di una media nel primo caso e di una sommatoria nel secondo) non indebolisce in alcun modo –ma semmai rafforza- l’esigenza per cui i termini di computo siano assunti in modo omogeneo per ciascuna delle due operazioni
6.5. Non appare inoltre risolutivo l’argomento secondo cui il criterio di carattere ‘dissociativo’ andrebbe preferito atteso che la ratio della disposizione nel suo complesso è quella di rendere il più possibile non predeterminabile la soglia di anomalia.
Si osserva in senso contrario che l’argomento in parola poteva risultare persuasivo nella vigenza di un quadro normativo (quale quello di cui al decreto legislativo n. 163 del 2006) il quale contemplava un’unica modalità per determinare le offerte anomale nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso (ci si riferisce al criterio di cui all’articolo 86, comma 1, di quel ‘Codice’). Solo nella vigenza di tale corpus normativo infatti (e a fronte di dubbi interpretativi) poteva risultare effettivamente persuasiva l’adesione al criterio che impedisse in massimo grado la predeterminazione delle medie di gara da parte dei concorrenti, anche ricorrendo a basi di computo fra loro disomogenee.
Si osserva tuttavia che, nel diverso sistema introdotto dal nuovo ‘Codice dei contratti pubblici’, le richiamate esigenze risultano adeguatamente soddisfatte attraverso la scelta di demandare al sorteggio l’individuazione del criterio determinativo della soglia di anomalia.
Non risulta quindi necessario, ai fini di cui sopra, il ricorso ad ulteriori meccanismi volti ad introdurre elementi di disomogeneità fra le basi di computo. Il ricorso a siffatti meccanismi introdurrebbe infatti elementi di disomogeneità nell’applicazione di una disposizione sotto ogni altro aspetto coerente, senza che ciò risulti funzionale all’obiettivo di rendere non predeterminabili le medie di gara (obiettivo il cui perseguimento è invece affidato al meccanismo del sorteggio).
6.6. Si osserva infine che anche l’ANAC (sia pure con atti di portata non vincolante) ha aderito all’opzione interpretativa di cui sopra.
In particolare, le Linee Guida n. 4 (recanti “Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori economici”, nel testo aggiornato con la delibera n, 206 del 01.03.2018), al punto 5.2.6, sub k) hanno stabilito che “nel caso di sorteggio del metodo di cui all’articolo 97, comma 2, lettera b), del Codice dei contratti pubblici, una volta operato il cosiddetto taglio delle ali, occorre sommare i ribassi percentuali delle offerte residue e, calcolata la media aritmetica degli stessi, applicare l’eventuale decurtazione stabilita della norma tenendo conto della prima cifra decimale del numero che esprime la sommatoria dei ribassi”.
Si tratta, in definitiva, di un approccio del tutto coincidente con quello condiviso dall’orientamento giurisprudenziale ad oggi prevalente.
7. In conclusione l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato enuncia il seguente principio di diritto: “
l’articolo 97, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 50 del 2016 (‘Codice dei contratti pubblici’) si interpreta nel senso che la locuzione “offerte ammesse” (al netto del c.d. ‘taglio delle ali’) da prendere in considerazione ai fini del computo della media aritmetica dei ribassi e la locuzione “concorrenti ammessi” da prendere in considerazione al fine dell’applicazione del fattore di correzione fanno riferimento a platee omogenee di concorrenti.
Conseguentemente, la somma dei ribassi offerti dai concorrenti ammessi (finalizzata alla determinazione del fattore di correzione) deve essere effettuata con riferimento alla platea dei concorrenti ammessi, ma al netto del c.d. ‘taglio delle ali
’”.

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: L’Adunanza plenaria pronuncia sulla rideterminazione del contributo di costruzione e sulla tutela del privato con l’azione di accertamento.
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Edilizia – Oneri di costruzione – Determinazione – Termine di prescrizione decennale.
  
Edilizia – Oneri di costruzione – Rideterminazione – Termine di prescrizione decennale – Tutela del privato – Azione di accertamento.
  
Edilizia – Oneri di costruzione – Rideterminazione – Art. 1431 c.c. – Inapplicabilità – Ratio.
  
Edilizia – Oneri di costruzione – Rideterminazione – Buona fede del privato – Riconoscimento – Limiti.
  
Gli atti con i quali la Pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio (1).
  
La Pubblica amministrazione, nel corso del rapporto concessorio, può sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo del contributo di concessione, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento (2).
  
L’amministrazione comunale, nel rideterminare l’importo del contributo di concessione con atti non aventi natura autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241 del 1990, senza che sia applicabile la disciplina dell’errore riconoscibile di cui all’art. 1431 c.c., in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica (3).
  
La tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione dell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione in caso di rideterminazione del contributo di costruzione nella quale, ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui all’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal Comune.
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La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria da C.g.a. 27.03.2018, n. 175.
   (1) Ha chiarito l’Alto Consesso che la peculiare natura del titolo edilizio –la concessione edilizia della l. n. 10 del 1977 e, ora, il permesso di costruire del d.P.R. n. 380 del 2001– induce a ritenere che esso, al di là del suo carattere sostanzialmente autorizzatorio, sia comunque, direttamente o indirettamente, attributivo, per il privato, di rilevanti benefici economici, a fronte dei quali è previsto in termini di controprestazione il pagamento di una somma di danaro, appunto il contributo di costruzione (sulla cui natura v. Cons. St., A.P., 07.12.2016, n. 24), non altrimenti qualificabile che come corrispettivo di diritto pubblico.
L’Adunanza plenaria ha quindi affermato che al quesito inerente alla natura, privatistica o pubblicistica, degli atti con i quali l’amministrazione comunale determina o ridetermina il contributo di costruzione, di cui all’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001, debba rispondersi con la riaffermazione della loro natura privatistica.
Il contributo per gli oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione dell’insieme dei benefici che la nuova costruzione acquista, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall’ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere (Cons. St., sez. IV, 05.05.2017, n. 2055). L’obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell’entità del contributo (Cons. St., sez. IV, 30.11.2015, n. 5412; id., sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
L’atto di imposizione e di liquidazione del contributo, quale corrispettivo di diritto pubblico richiesto per la compartecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, in applicazione di rigidi e prestabiliti parametri regolamentari e tabellari. Gli oneri di urbanizzazione, ai sensi dell’art. 16, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001, sono corrisposti sulla base delle tabelle parametriche, predisposte dalle Regioni, tabelle che devono essere recepite dal Comune in una propria deliberazione, atto amministrativo generale impugnabile solo con il concreto provvedimento applicativo.
La costante giurisprudenza del Consiglio di Stato ha sempre ribadito che il contributo per gli oneri di urbanizzazione, per quanto non abbia natura tributaria, costituisce, comunque, un corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore, connesso al rilascio della concessione edilizia, a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, e che «per la determinazione di esso deve essere fatto necessario ed esclusivo riferimento alle norme di legge che regolano i relativi criteri di conteggio, norme che vanno rigorosamente rispettate anche in osservanza del principio di cui all’art. 23 della Costituzione , secondo il quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge» (Cons. St., sez. V, 21.04.2006, n. 2228).
L’affermazione secondo cui il contributo di costruzione costituisce una prestazione patrimoniale imposta e rientra a tale titolo nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico in quanto necessariamente legata al rilascio del titolo edilizio, tuttavia, non comporta ex se che i relativi atti di determinazione abbiano necessariamente carattere autoritativo, si colorino, per così dire, di imperatività e siano espressione di potestà pubblicistica. Il privato che intende ottenere il permesso di costruire ha avanti a sé la scelta di corrispondere il contributo di costruzione o di rinunciare al rilascio del titolo. Effettuata questa scelta, che comporta la necessaria corresponsione del corrispettivo di diritto pubblico, il pagamento di questo, esclusa pacificamente la sua natura tributaria, non può che costituire l’oggetto di un ordinario rapporto obbligatorio, disciplinato dalle norme di diritto privato, come prescrive l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241 del 1990, salvo che la legge disponga diversamente.
È vero che il credito dell’amministrazione, per la sua particolare finalità, è assistito da particolari sanzioni e da speciali procedure coattive di riscossione, come ha pure ricordato la stessa Adunanza plenaria nella sentenza n. 24 del 2016 richiamando le disposizioni di cui agli artt. 42 e 43, d.P.R. n. 380 del 2001, ma ciò non contrasta con la fondamentale natura del rapporto obbligatorio paritetico inerente al pagamento del contributo e accessorio al rilascio del permesso di costruire. Anche la disciplina degli atti non autoritativi della pubblica amministrazione può conoscere, infatti, previsioni derogatorie rispetto alla ordinaria disciplina privatistica, come prevede chiaramente l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241 del 1990, senza che ciò comporti lo snaturamento del rapporto paritetico che ne è alla base, la loro integrale attrazione alla sfera pubblicistica o, nel caso di specie, l’assimilazione ad una fattispecie paraimpositiva di stampo tributario.
L’Adunanza plenaria ha quindi escluso che a tali rapporti di natura meramente obbligatoria e agli atti iure gestionis, di carattere contabile e aventi finalità liquidatoria, adottati dal Comune, si applichi la disciplina dell’autotutela di cui all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 o, più in generale, la disciplina dettata dalla stessa l. n. 241 del 1990 per gli atti provvedimentali espressivi di potestà pubblicistica.
   (2) Ha ricordato l’Adunanza plenaria che la natura paritetica dell’atto di determinazione consente che la pubblica amministrazione possa apportarvi modifiche, sia in favore del privato che in senso contrario, purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione decennale del relativo diritto di credito (Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033; id. 17.09.2010, n. 6950). Si tratta, infatti, di una determinazione che obbedisce a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione comunale si limita ad applicare dei parametri, aventi per la stessa natura cogente, laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa (Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033).
Ha ancora ricordato l’Alto Consesso come la giurisprudenza è consolidata nell’affermare che la controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16, l. n. 10 del 1977 e, oggi, dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini di decadenza.
   (3) L’Adunanza plenaria ha escluso che in caso di rideterminazione del quantum del contributo di costruzione sia applicabile la disciplina dell’errore riconoscibile, di cui all’art. 1431 c.c.. l’applicazione delle tabelle parametriche da parte dell’amministrazione comunale, per quanto complessa, costituisce comunque una operazione contabile che, essendo al privato ben note dette tabelle, questi può verificare nella sua esattezza, anzitutto con l’ausilio del progettista che l’assiste nella presentazione della propria istanza, con un ordinario sforzo di diligenza, richiedibile secondo il canone della buona fede al debitore già solo, e anzitutto, nel suo stesso interesse, per evitare che gli venga richiesto meno o più del dovuto.
La complessità delle operazioni di calcolo o l’eventuale incertezza nell’applicazione di alcune tabelle o coefficienti determinativi, dovuti a ragioni di ordine tecnico, non sono eventi estranei o ignoti alla sfera del debitore, che invece con l’ordinaria diligenza, richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c., può e deve controllarne l’esattezza sin dal primo atto di loro determinazione.
Certamente, e a sua volta, il Comune ha l’obbligo di adoperarsi affinché la liquidazione del contributo di costruzione venga eseguita nel modo più corretto, sollecito, scrupoloso e preciso, sin dal principio, ma la collaborazione tra l’autorità comunale e il privato richiedente, in una visione del diritto amministrativo improntata al principio di buon andamento e alla legalità sostanziale, è imprescindibile in questa materia, già solo sul piano dell’interlocuzione procedimentale, e non può certo affermarsi, proprio per questo, una incomunicabilità o inconoscibilità tra la sfera dell’una e quella dell’altro che porti all’applicazione dell’art. 1431 c.c., quasi che l’iniziale errore nell’applicazione delle tabelle o dei coefficienti, da parte dell’autorità comunale, sia un fatto “del tutto naturalmente” incomprensibile o imponderabile dal privato perché puramente interno alla sfera dell’amministrazione creditrice (
Consiglio di Stato, A.P., sentenza 30.08.2018 n. 12 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1. L’Adunanza plenaria ritiene che ai tre quesiti posti dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana con l’ordinanza n. 175 del 17.03.2018 debbano darsi le risposte che seguono.
2. Con il primo quesito, come si è accennato nell’esposizione del fatto (v., supra, §4), il Consiglio chiede all’Adunanza se la rideterminazione degli oneri concessori sia estrinsecazione di un potere autoritativo, da parte della pubblica amministrazione, nell’ambito dell’autotutela pubblicistica soggetta ai presupposti e ai requisiti dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 o sia espressione di una sua legittima facoltà, nell’ambito del rapporto paritetico di natura creditizia, conseguente al rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso, sottoposto nelle sue forme di esercizio al termine prescrizionale ordinario.
2.1. A tale quesito si deve rispondere che la rideterminazione degli oneri concessori costituisce l’esercizio di una legittima facoltà nell’ambito di un rapporto paritetico tra la pubblica amministrazione e il privato.
2.2. Questa Adunanza non ignora, invero, come non sia tuttora sopito il dibattito in ordine alla natura giuridica e al corretto inquadramento del contributo di costruzione, previsto dal vigente art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, dibattito legato, inscindibilmente, anche alla vexata quaestio dell’inerenza del c.d. ius aedificandi al diritto di proprietà (su cui v., per tutte, Corte cost., 30.01.1980, n. 5, Cons. St., sez. V, 19.02.1982, n. 122).
2.3. Non è questa ovviamente la sede per ripercorrere siffatta questione, ora comunque superata dalla ormai riconosciuta natura autorizzatoria del permesso di costruire, ma basti dire, ai fini che qui rilevano, che la peculiare natura del titolo edilizio –la concessione edilizia della l. n. 10 del 1977 e, ora, il permesso di costruire del d.P.R. n. 380 del 2001– induce a ritenere che esso, al di là del suo carattere sostanzialmente autorizzatorio, sia comunque, direttamente o indirirettamente, attributivo, per il privato, di rilevanti benefici economici, a fronte dei quali è previsto in termini di controprestazione il pagamento di una somma di danaro, appunto il contributo di costruzione, non altrimenti qualificabile che come corrispettivo di diritto pubblico.
2.4. La stessa ordinanza n. 175 del 27.03.2018 ha ricordato, in modo completo e approfondito, quale sia la consolidata giurisprudenza amministrativa in questa materia, seppure con alcune significative divergenze, di cui si dirà oltre, in ordine alla disciplina civilistica da applicare alla rideterminazione del contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001.
3. Occorre qui richiamare in premessa, salvo poi soffermarsi su di essi con maggiore attenzione nel prosieguo della trattazione, i principî affermati di recente da questa Adunanza plenaria nella sentenza n. 24 del 07.12.2016 riguardo alla natura del contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria.
3.1. Detto contributo, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001 e articolato nelle due voci inerenti agli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione (prescindendo qui dalla singola funzione, e natura, di dette voci), rappresenta, secondo la qualificazione datane da questa stessa Adunanza plenaria, una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione.
3.2. In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a costruire (art. 1 della l. n. 10 del 1977), la ragione della compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del richiedente il titolo edilizio.
3.3. Il contributo per il rilascio del permesso di costruire ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario, ed ha carattere generale, prescindendo totalmente delle singole opere di urbanizzazione che devono in concreto eseguirsi, venendo altresì determinato indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
3.4. In sostanza, le opere di urbanizzazione –per la cui remunerazione il contributo viene imposto– hanno spesso portata più ampia rispetto a quelle strettamente necessarie ad urbanizzare il nuovo insediamento edilizio posto in essere da chi abbia ottenuto il titolo edilizio ed hanno quindi sovente natura indivisibile, nel senso che non sono frazionabili in porzioni funzionali al soddisfacimento delle esigenze dei singoli nuovi insediati.
3.5. In ragione di tanto, per l’esecuzione di dette opere, da realizzare in conseguenza del fatto edificatorio in sé considerato, l’amministrazione comunale attinge normalmente alla fiscalità generale, senza necessariamente attendere il pagamento del contributo da parte dell’obbligato, e quindi a prescindere dal suo puntuale adempimento.
3.6. Per tale motivo, quand’anche risultino trasfuse in una apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica.
3.7. L’amministrazione comunale, infatti, è tenuta ad eseguire le opere di urbanizzazione e a dotare degli indispensabili standard il comparto ove viene allocato il nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale pagamento del contributo di costruzione da parte del soggetto che abbia ottenuto il titolo edilizio; per parte sua, questi è tenuto al pagamento del contributo senza poter pretendere la previa realizzazione delle opere di urbanizzazione.
3.8. Da ciò discende che il soggetto obbligato sia tenuto a corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei termini convenuti e che l’amministrazione comunale deve eseguire le opere di urbanizzazione in coerenza, anche sul piano temporale, allo sviluppo edilizio del territorio.
3.9. Tali, in sintesi, sono i principî che l’Adunanza plenaria ha affermato in subiecta materia sulla scorta, peraltro, di un consolidato indirizzo ermeneutico del giudice amministrativo.
4. Occorre adesso esaminare, proprio alla luce di questi fondamentali principî, il primo quesito posto dall’ordinanza di rimessione.
4.1. Questa ricorda che secondo una prima tesi, seguita dallo stesso Consiglio di giustizia amministrativa (nelle sentenze nn. 64, 188, 244, 373, 422 e 790 del 2007), la determinazione del contributo darebbe luogo ad un rapporto paritetico che, seppur azionabile da ambo le parti nel rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni, si cristallizzerebbe nel quantum al momento del rilascio del titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe suscettibile di modifiche successive (se non nei casi di manifesto errore di calcolo), in quanto, in applicazione dei principi desumibili dalla disciplina dei contratti, non darebbe mai luogo ad un errore riconoscibile (donde l’intangibilità pressoché assoluta della originaria determinazione amministrativa).
4.2. In base a tale approccio ermeneutico, come pure ben rammenta l’ordinanza di rimessione, non vi sarebbe ragione per l’applicazione dell’istituto dell’autotutela amministrativa per la eventuale rideterminazione del contributo, proprio perché il rapporto inter partes è di natura paritetica, né vi sarebbe spazio per una modifica successiva per errore perché questo, in quanto maturato nella sfera riservata della pubblica amministrazione, sarebbe per definizione non riconoscibile e quindi irrilevante, con la conseguenza che si dovrebbe sempre salvaguardare la tutela dell’affidamento della parte privata.
4.3. Un’altra tesi, fatta propria in alcune sentenze della sez. IV di questo Consiglio di Stato (cfr., in particolare, Cons. St., sez. IV, 27.09.2017 n. 4515, Cons. St., sez. IV, 12.06.2017 n. 2821), benché muova da una analoga impostazione sulla natura paritetica del rapporto, giunge tuttavia a conclusioni opposte.
4.4. Si è osservato, infatti, che proprio perché si tratta di un rapporto di debito-credito di natura paritetica, soggetto a prescrizione decennale, la rettifica sarebbe sempre possibile sia in bonam che in malam partem, entro il limite della prescrizione del diritto reciproco delle parti alla correzione delle esatte somme dovute, perché per un verso il procedimento sarebbe svincolato dal rispetto delle condizioni legali di esercizio dell’autotutela amministrativa (in particolare, di quelle previste all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990) e, per altro verso, la rideterminazione del contributo dovuto secondo rigidi parametri regolamentari o tabellari non soltanto sarebbe possibile, ma costituirebbe atto dovuto, residuando altrimenti un indebito oggettivo, inammissibile nei rapporti di diritto amministrativo.
4.5. Più in particolare, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, nella sentenza n. 2821 del 2017 di questo Consiglio di Stato si afferma che, in sostanza, l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta altro non è che un errore di calcolo della tariffa, sicché vi sarebbe sempre spazio per la rettifica, purché si tratti della tariffa vigente all’epoca del rilascio del titolo edilizio (con esclusione quindi di ogni forma di applicazione di regimi tariffari in via retroattiva).
4.6. Entrambe le tesi, osserva il Consiglio di giustizia amministrativa, muoverebbero dal rilievo, ampiamente diffuso nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui le controversie in tema di determinazione della misura dei contributi edilizi concernono l’accertamento di diritti soggettivi che traggono origine direttamente da fonti normative, sicché sarebbero proponibili, a prescindere dall’impugnazione di provvedimenti dell’amministrazione, nel termine di prescrizione (Cons. St., sez. IV, 20.11.2012 n. 6033; Cons. St., sez. V, 04.05.1992, n. 360) e ribadiscono che si tratta di rapporto creditorio paritetico, ma pervengono, come detto, a conclusioni assai diversificate sul piano della tutela da apprestare alla parte privata che, come nel caso di specie, abbia subito una rideterminazione in peius.
5. L’ordinanza di rimessione individua, tuttavia, una posizione diversa e innovativa rispetto ai riferiti orientamenti giurisprudenziali, quantomeno in ordine alla impostazione teorica delle questioni, in un’altra sentenza della quarta sezione del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St., sez. IV, 21.12.2016, n. 5402).
5.1. Nella vicenda esaminata da detta pronuncia il rapporto nascente dalla determinazione del contributo (nel caso esaminato, di costruzione) è attratto nell’orbita del regime di diritto pubblico, in quanto qualificato prestazione patrimoniale imposta di carattere non tributario, con la conseguente applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela amministrativa.
5.2. E tuttavia, sul piano della tutela dell’affidamento della parte privata rispetto ad una delibera di giunta comunale di rideterminazione del contributo di costruzione (sia pur di adeguamento alla soglia minima del 5% fissata dalla legge nazionale all’art. 16, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001), si afferma che le garanzie partecipative (in particolare quelle di cui all’art. 10-bis della l. n. 241 del 1990) devono essere pur sempre coordinate con le previsioni dell’art. 21-octies della l. cit. e con le esigenze di finalizzazione del procedimento con l’applicazione della tariffa dovuta.
5.3. Si richiama al proposito la giurisprudenza del Consiglio di Stato sul recupero di somme indebitamente corrisposte dalla amministrazione (Cons. St., sez. V, 30.12.2015, n. 5863), fattispecie che viene assimilata a quella di causa, relativa a somme dovute dal privato e non riscosse dall’ente comunale.
5.4. Al di là del contenuto negativo delle statuizioni sui singoli capi di domanda, osserva ancora l’ordinanza di rimessione, la decisione si segnalerebbe per il «cambio di passo» rispetto ai precedenti arresti della medesima sezione in ordine all’inquadramento generale nei sensi anzidetti dell’istituto del contributo previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001.
5.5. In tale contesto, aggiunge ancora l’ordinanza di rimessione, non potrebbe non farsi menzione di quanto affermato dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza n. 24 del 2016, di cui si è già detto in premessa.
5.6. In tale decisione, resa sulla diversa questione della applicabilità delle sanzioni per ritardo nel pagamento dei contributi, pur in presenza di una polizza fideiussoria a garanzia del debito del contributo ammesso a dilazione, si è tra l’altro affermato –per quel che qui rileva– che il contributo dovuto dal privato in occasione del ritiro di un permesso di costruire, quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico.
5.7. Si è in particolare affermato che il contributo di costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria rappresenta una compartecipazione del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di urbanizzazione e ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere non tributario.
5.8. Per tale motivo, dunque, le prestazioni da adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in posizione sinallagmatica, con la conseguenza che il soggetto obbligato è tenuto a corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei termini stabiliti.
5.9. Il suo mancato pagamento legittima quindi l’Amministrazione ad esercitare il suo potere-dovere in ordine all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo, ai sensi dell’art. 42 del d.P.R. n. 380 del 2001, e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate, ai sensi dell’art. 43 dello stesso d.P.R. n. 380 del 2001.
6. Le conclusioni raggiunte dall’Adunanza plenaria, secondo l’ordinanza di rimessione, meriterebbero condivisione, quantomeno se restano ferme le conclusioni sulla natura di prestazione patrimoniale imposta del contributo di cui si controverte e sul suo carattere non sinallagmatico rispetto agli interventi di urbanizzazione che mettono capo all’ente pubblico, secondo un livello di programmazione temporale e qualitativo sul quale il privato non avrebbe titolo per interferire.
6.1. L’ascrizione all’alveo dei rapporti di diritto pubblico del contributo in questione imporrebbe quindi, in via consequenziale, l’applicazione del regime proprio dell’autotutela amministrativa all’attività di rideterminazione delle somme dovute a tal titolo dalla parte privata, quantomeno nei casi in cui non si tratti di por mano ad un semplice errore materiale di calcolo desumibile dagli atti del procedimento ovvero non si tratti di rideterminazione imposta dall’adozione di un nuovo provvedimento abilitativo edilizio, anche semplicemente per effetto della intervenuta decadenza temporale del primo (ma qui si resterebbe in ogni caso fuori dall’ambito dell’autotutela).
6.2. L’ordinanza di rimessione esprime una preferenza rispetto alle suindicate opzioni ermeneutiche e osserva che la soluzione da ultimo proposta, oltre a recuperare coerenza sul piano dogmatico con il sistema giuridico di riferimento, si rivelerebbe più appropriata anche in ordine al miglior grado di contemperamento delle esigenze pubblicistiche sottese alla corretta determinazione del contributo dovuto (e alla salvaguardia degli interessi erariali), anche in sede di emenda di precedenti errori di quantificazione, e le esigenze di tutela della parte privata riguardo all’affidamento riposto nella originaria determinazione dell’ente.
6.3. A tale ultimo proposito, infatti, soccorrerebbero gli istituti posti a presidio delle garanzie partecipative previsti per l’attività amministrativa di secondo grado, oltre che naturalmente il rispetto delle stesse condizioni legali di legittimo esercizio dell’autotutela, avuto riguardo ai tempi, alle forme ed ai contenuti motivazionali dell’atto espressivo del c.d. ius poenitendi (cfr., in particolare, artt. 21-quinquies, 21-octies e 21-nonies della l. n. 241 del 1990).
7. L’Adunanza plenaria osserva che al quesito inerente alla natura, privatistica o pubblicistica, degli atti con i quali l’amministrazione comunale determina o ridetermina il contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, debba rispondersi con la riaffermazione della loro natura privatistica, sin qui ribadita dalla giurisprudenza di questo Consiglio.
7.1. E in particolare, per quanto attiene alla specifica vicenda di cui è causa, va qui ribadito, in conformità all’orientamento sin qui ricordato, che il contributo per gli oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione dell’insieme dei benefici che la nuova costruzione acquista, senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla concreta utilità che il concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e dall’ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere (Cons. St., sez. IV, 05.05.2017, n. 2055).
7.2. L’obbligazione di corrispondere il contributo nasce, come è noto, nel momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la determinazione dell’entità del contributo (Cons. St., sez. IV, 30.11.2015, n. 5412, ma v. anche Cons. St., sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
7.3. L’atto di imposizione e di liquidazione del contributo, quale corrispettivo di diritto pubblico richiesto per la compartecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione, non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto ricognitivo e contabile, in applicazione di rigidi e prestabiliti parametri regolamentari e tabellari.
7.4. Va ricordato, infatti, che gli oneri di urbanizzazione, ai sensi dell’art. 16, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, sono corrisposti sulla base delle tabelle parametriche, predisposte dalle Regioni, tabelle che devono essere recepite dal Comune in una propria deliberazione, atto amministrativo generale impugnabile solo con il concreto provvedimento applicativo.
7.5. La determinazione degli oneri di urbanizzazione si correla ad una precisa disciplina regolamentare, con la conseguenza che, per costante orientamento giurisprudenziale, i provvedimenti applicativi della stessa non richiedono alcuna puntuale motivazione allorché le scelte operate dalla pubblica amministrazione si conformino ai criterî stessi di cui alle tabelle parametriche (Cons. St., sez. V, 09.02.2001, n. 584).
7.6. Per l’altrettanto consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato, la natura paritetica dell’atto di determinazione consente che la pubblica amministrazione possa apportarvi modifiche, sia in favore del privato che in senso contrario, purché ciò avvenga nei limiti della prescrizione decennale del relativo diritto di credito (v., inter multas, Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033, Cons. St., sez. IV, 17.09.2010, n. 6950).
7.7. Si tratta, infatti, di una determinazione che obbedisce a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione comunale si limita ad applicare dei parametri, aventi per la stessa natura cogente, laddove è esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa (Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033).
7.8. La giurisprudenza è consolidata, per parte sua, nell’affermare, che la controversia in ordine alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16 della l. n. 10 del 1977 e, oggi, dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai rispettivi termini di decadenza.
7.9. La natura non autoritativa dei relativi atti e l’assenza di discrezionalità, nell’ambito di un rapporto paritetico tra la pubblica amministrazione e il privato, rendono perciò concettualmente inconfigurabile l’esercizio dell’autotutela pubblicistica, quale potere di secondo grado che viene incidere, secondo determinati presupposti e limiti, su un primigenio episodio di esercizio del potere autoritativo, che qui non sussiste ab origine (cfr., sul punto, Cons. St., sez. IV, 12.06.2017, n. 2821; Cons. St., sez. IV, 27.09.2017, n. 4515).
8. E del resto, anche in riferimento alla contigua fattispecie del recupero delle somme indebitamente percepite dal pubblico dipendente, la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha ritenuto non accettabile il richiamo alla teoria, secondo la quale il recupero di una somma da parte della pubblica amministrazione presupporrebbe l’annullamento, in sede di autotutela, del provvedimento recante la determinazione dell’emolumento in misura maggiore di quella dovuta.
8.1. Invero, ove pure si prescinda dalla considerazione che tale teoria si concreta, sovente, in una fictio iuris, mancando del tutto un provvedimento siffatto, «quest’ultimo, anche ove esistente, si risolve nella rideterminazione della somma effettivamente spettante per legge (o per contratto), in luogo di quella erroneamente corrisposta, onde, una volta affermata la doverosità della sua adozione, esso non può che partecipare della stessa natura paritetica dell’atto che va a rimuovere, concretandosi in null’altro che in un diverso accertamento dell’entità del debito retributivo della p.a. e del correlato credito del dipendente» (Cons. St., sez. VI, 20.04.2004, n. 2203).
9. L’Adunanza plenaria ritiene che, peraltro, al nuovo indirizzo interpretativo, che sembrerebbe delinearsi nella sentenza n. 5402 del 21.12.2016 della IV sezione di questo Consiglio di Stato e nella stessa pronuncia n. 24 del 2016 di questa Adunanza, non possa attribuirsi il significato sistematico, con tutte le conseguenti ricadute applicative in termini di disciplina applicabile, che l’ordinanza di rimessione loro annette.
9.1. Nella sentenza n. 5402 del 21.12.2016 della IV sezione di questo Consiglio di Stato si fa riferimento, è vero, all’istituto dell’autotutela pubblicistica per giustificare ad abundantiam la correttezza della rideterminazione del contributo relativo al costo di costruzione da parte del Comune, ma si ribadisce, ancora una volta, il noto principio (cfr., per tutti, Cons. St., sez. IV, 06.06.2016 n. 2394) «secondo cui l’azione volta alla declaratoria di insussistenza o di diversa entità del debito contributivo correlato al rilascio del permesso di costruire può essere intentata senza onere d’impugnazione o di esistenza dell’atto con il quale è richiesto il pagamento (essendo un giudizio d’accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario paritetico e bilaterale) ed è proponibile nel termine prescrizionale avanti a questo Giudice in sede di cognizione esclusiva ex art. 133, co. 1, lett. f), c.p.a.».
9.2. Parimenti, nella sentenza n. 24 del 07.12.2016 di questa Adunanza, si afferma, nel § 5.3, che il contributo di costruzione, quale prestazione patrimoniale imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si colloca pacificamente «nell’alveo dei rapporti di diritto pubblico», come sarebbe dimostrato dal fatto che il suo mancato pagamento legittima l’amministrazione all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in rapporto all’entità del ritardo (art. 42 d.P.R. n. 380 del 2001) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate (art. 43 d.P.R. del d.P.R. n. 380 del 2001).
9.3. Da queste considerazioni, tuttavia, non è possibile trarre alcuna conclusione sul piano sistematico in ordine alla natura pubblicistica del rapporto tra l’amministrazione e il soggetto obbligato.
9.4. Il contributo di costruzione è e rimane, infatti, un corrispettivo di diritto pubblico, proprio per il fondamentale principio dell’onerosità del titolo edilizio introdotto dall’art. 1 della l. n. 10 del 1977 –lo ricorda la stessa Adunanza plenaria nel § 5.2 della sentenza n. 24 del 2016– e poi recepito dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2011, e come tale, benché esso non sia legato da un rigido vincolo di sinallagmaticità rispetto del rilascio del permesso di costruire, rientra anche, e coerentemente, nel novero delle prestazioni patrimoniali imposte di cui all’art. 23 Cost.
9.5. La costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha sempre ribadito che il contributo per gli oneri di urbanizzazione, per quanto non abbia natura tributaria, costituisce, comunque, un corrispettivo di diritto pubblico posto a carico del costruttore, connesso al rilascio della concessione edilizia, a titolo di partecipazione del concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in proporzione all’insieme dei benefici che la nuova costruzione ne ritrae, e che «per la determinazione di esso deve essere fatto necessario ed esclusivo riferimento alle norme di legge che regolano i relativi criteri di conteggio, norme che vanno rigorosamente rispettate anche in osservanza del principio di cui all’art. 23 della Costituzione , secondo il quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge» (Cons. St., sez. V, 21.04.2006, n. 2228).
10. L’affermazione secondo cui il contributo di costruzione costituisce una prestazione patrimoniale imposta e rientra a tale titolo nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico in quanto necessariamente legata al rilascio del titolo edilizio, tuttavia, non comporta ex se che i relativi atti di determinazione abbiano necessariamente carattere autoritativo, si colorino, per così dire, di imperatività e siano espressione di potestà pubblicistica.
10.1. Il privato che intende ottenere il permesso di costruire ha avanti a sé la scelta di corrispondere il contributo di costruzione o di rinunciare al rilascio del titolo.
10.2. Effettuata questa scelta, che comporta la necessaria corresponsione del corrispettivo di diritto pubblico, il pagamento di questo, esclusa pacificamente la sua natura tributaria, non può che costituire l’oggetto di un ordinario rapporto obbligatorio, disciplinato dalle norme di diritto privato, come prescrive l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, salvo che la legge disponga diversamente.
10.3. È vero che il credito dell’amministrazione, per la sua particolare finalità, è assistito da particolari sanzioni e da speciali procedure coattive di riscossione, come ha pure ricordato questa stessa Adunanza plenaria nella sentenza n. 24 del 2016 richiamando le disposizioni di cui agli artt. 42 e 43 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma ciò non contrasta con la fondamentale natura del rapporto obbligatorio paritetico inerente al pagamento del contributo e accessorio al rilascio del permesso di costruire.
10.4. Anche la disciplina degli atti non autoritativi della pubblica amministrazione può conoscere, infatti, previsioni derogatorie rispetto alla ordinaria disciplina privatistica, come prevede chiaramente l’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, senza che ciò comporti lo snaturamento del rapporto paritetico che ne è alla base, la loro integrale attrazione alla sfera pubblicistica o, nel caso di specie, l’assimilazione ad una fattispecie paraimpositiva di stampo tributario.
11. Deve quindi escludersi che a tali rapporti di natura meramente obbligatoria e agli atti iure gestionis, di carattere contabile e aventi finalità liquidatoria, adottati dal Comune, si applichi la disciplina dell’autotutela di cui all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 o, più in generale, la disciplina dettata dalla stessa l. n. 241 del 1990 per gli atti provvedimentali espressivi di potestà pubblicistica.
11.1. Il carattere paritetico del rapporto, va solo qui aggiunto, non esclude la doverosità della rideterminazione quante volte la pubblica amministrazione si accorga che l’iniziale determinazione degli oneri di urbanizzazione sia dipesa da un’inesatta applicazione delle tabelle o anche da un semplice errore di calcolo.
11.1. Il Comune è pur sempre, infatti, titolare del potere-dovere di richiedere il contributo di costruzione secondo i parametri e nei limiti fissati dalla legge e dalle disposizioni regolamentari integrative fissate dalle Regioni, facendone una applicazione vincolata alla predeterminazione di coefficienti, che il privato deve conoscere e ben può verificare.
12. Discende da quanto detto che gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio.
12.1. Si è cioè al cospetto di un rapporto obbligatorio, di contenuto essenzialmente pecuniario (salva l’ipotesi di opere a scomputo di cui all’art. 16, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001), al quale si applicano le disposizioni di diritto privato, salve le specifiche disposizioni previste dalla legge (come, ad esempio, i già citati artt. 42 e 43 del d.P.R. n. 380 del 2001) per la peculiare finalità del credito vantato dall’amministrazione comunale in ordine al pagamento del contributo (oneri di urbanizzazione e costo di costruzione).
13. Quanto al secondo quesito, posto dall’ordinanza di rimessione n. 175 del 27.03.2018, la qui riaffermata natura non autoritativa degli atti con i quali l’autorità comunale provvede alla determinazione degli oneri, atti non riconducibili –come detto– all’espressione di una potestà pubblicistica, comporta che nell’ordinario termine decennale di prescrizione, decorrente dal rilascio del titolo edilizio, essa sia sempre possibile, e anzi doverosa, da parte della pubblica amministrazione, nell’esercizio delle facoltà connesse alla propria posizione creditoria, la rideterminazione del contributo, quante volte la pubblica amministrazione si accorga che l’originaria liquidazione di questo sia dipesa dall’applicazione inesatta o incoerente di parametri e coefficienti determinativi, vigenti al momento in cui il titolo fu rilasciato, o da un semplice errore di calcolo, con l’ovvia esclusione della possibilità di applicare retroattivamente coefficienti successivamente introdotti, non vigenti al momento in cui il titolo fu rilasciato.
14. L’ordinanza di rimessione pone, infine, un terzo quesito e intende conoscere se in alternativa, e a prescindere dall’inquadramento giuridico della fattispecie, secondo le categorie sopra richiamate, e quale che sia la categoria giuridica da riconnettere al provvedimento determinativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, e in quali limiti, perché possa trovare applicazione nella fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principî desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per l’annullamento del contratto per errore o per altra causa.
14.1. Al quesito deve rispondersi anzitutto, in conformità con quanto prevede in via generale il già richiamato art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, inserito dall’art. 1, comma 1, lett. b), della l. n. 15 del 2005, il quale stabilisce che la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente.
14.2. E tuttavia il quesito, di fronte ad un evidente contrasto interpretativo sussistente tra il Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con le pronunce del 2007, e al giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, mira specificamente a comprendere, e ad enucleare, le regole che siano o meno applicabili al rapporto obbligatorio di cui si discute.
14.3. Ritiene questa Adunanza plenaria che la disciplina dell’errore riconoscibile, di cui all’art. 1431 c.c., non sia applicabile all’atto con il quale la pubblica amministrazione ridetermini l’importo del contributo.
14.4. Il contrario indirizzo seguito dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana riposa sull’assunto secondo il quale, applicandosi la disciplina dell’art. 1431 c.c., sarebbe lecito dubitare che ricorra la riconoscibilità dell’errore considerando che la determinazione del contenuto dell’obbligazione incombe alla pubblica amministrazione e, in particolare, all’ente territoriale, che istituzionalmente provvede alla disciplina dei criterî generali e all’applicazione di questi ai singoli casi.
14.5. In questa situazione, salvi errori macroscopici di evidenza ictu oculi, sarebbe «difficile ipotizzare che l’eventuale errore dell’Amministrazione sia riconoscibile dal privato che, del tutto naturalmente, viene indotto a prestare affidamento alla correttezza dell’autoliquidazione del proprio credito da parte dell’Amministrazione creditrice» (così, ad esempio, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 07.09.2007, n. 790).
14.6. Un simile ragionamento, tuttavia, tralascia di considerare che l’applicazione delle tabelle parametriche da parte dell’amministrazione comunale, per quanto complessa, costituisce comunque una operazione contabile che, essendo al privato ben note dette tabelle, questi può verificare nella sua esattezza, anzitutto con l’ausilio del progettista che l’assiste nella presentazione della propria istanza, con un ordinario sforzo di diligenza, richiedibile secondo il canone della buona fede al debitore già solo, e anzitutto, nel suo stesso interesse, per evitare che gli venga richiesto meno o più del dovuto.
14.7. La complessità delle operazioni di calcolo o l’eventuale incertezza nell’applicazione di alcune tabelle o coefficienti determinativi, dovuti a ragioni di ordine tecnico, non sono eventi estranei o ignoti alla sfera del debitore, che invece con l’ordinaria diligenza, richiesta dagli artt. 1175 e 1375 c.c., può e deve controllarne l’esattezza sin dal primo atto di loro determinazione.
14.8. Certamente, e a sua volta, il Comune ha l’obbligo di adoperarsi affinché la liquidazione del contributo di costruzione venga eseguita nel modo più corretto, sollecito, scrupoloso e preciso, sin dal principio, ma la collaborazione tra l’autorità comunale e il privato richiedente, in una visione del diritto amministrativo improntata al principio di buon andamento e alla legalità sostanziale, è imprescindibile in questa materia, già solo sul piano dell’interlocuzione procedimentale, e non può certo affermarsi, proprio per questo, una incomunicabilità o inconoscibilità tra la sfera dell’una e quella dell’altro che porti all’applicazione dell’art. 1431 c.c., quasi che l’iniziale errore nell’applicazione delle tabelle o dei coefficienti, da parte dell’autorità comunale, sia un fatto “del tutto naturalmente” incomprensibile o imponderabile dal privato perché puramente interno alla sfera dell’amministrazione creditrice.
14.9. La tutela del legittimo affidamento e il principio della buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione nell’attuazione del rapporto obbligatorio (v., sul punto, Cass., sez. L, 07.04.1992, n. 4226), possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione rende vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con il normale sforzo richiesto al debitore, secondo appunto buona fede, nell’ottica di una leale collaborazione finalizzata all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio.
15.
In conclusione, e riassumendo quindi i principî di diritto sin qui diffusamente enunciati, si può quindi affermare che:
   a)
gli atti con i quali la pubblica amministrazione determina e liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio;
   b)
la pubblica amministrazione, nel corso di tale rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in principio erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci anni, anche con un’azione di mero accertamento;
   c)
l’amministrazione comunale, nel richiedere i detti importi con atti non aventi natura autoritativa, agisce quindi secondo le norme di diritto privato, ai sensi dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, ma si deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice rettifica;
   d)
la tutela dell’affidamento e il principio della buona fede, che in via generale devono essere osservati anche dalla pubblica amministrazione dell’attuazione del rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame nella quale, ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il conteggio da parte della pubblica amministrazione, consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta all’attuazione del rapporto obbligatorio e al soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal Comune.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

PATRIMONIOOggetto: Occupazione arbitraria di immobili. Indirizzi [Ministero dell'Interno, nota 01.09.2018 n. 11001/123/111(1)].

APPALTI SERVIZIOggetto: Comune di Castellanza (VA) - Proroga affidamento gestione campi da calcio (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, decisione 04.06.2018 n. AS-1520).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

APPALTI: G.U. 27.08.2018 n. 198 "Proroga dell’ordinanza 06.08.2013, e successive modificazioni, concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero della Salute, ordinanza 25.06.2018).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 16.08.2018 n. 189 "Individuazione delle categorie merceologiche, ai sensi dell’articolo 9, comma 3, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 23.07.2014, n. 89" (D.P.C.M. 11.07.2018).
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Consip sopra i 40 mila euro.
Acquisiti centralizzati tramite convenzioni Consip (o altri soggetti aggregatori) per 24 categorie merceologiche su 25.
Lo prevede il dpcm 11.07.2018, pubblicato sulla G.U. n. 189 del 16/08/2018 il quale stabilisce l'obbligo della procedura aggregata quando il valore delle forniture e dei servizi supera i 40 mila euro.
L'obbligo entra in vigore dal giorno della pubblicazione in Gazzetta per tutte le categorie menzionate nel dpcm tranne la manutenzione delle strade per la quale l'obbligo slitta di un anno
(articolo ItaliaOggi del 18.08.2018).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 33 del 14.08.2018 "Assestamento al bilancio 2018-2020 con modifiche di leggi regionali" (L.R. 10.08.2018 n. 12).
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Di interesse, si leggano:
  
● Art. 16 - (Modifiche all’art. 16 della l.r. 28/2016)
1. All’articolo 16 della legge regionale 17.11.2016, n. 28 (Riorganizzazione del sistema lombardo di gestione e tutela delle aree regionali protette delle altre forme di tutela presenti sul territorio) sono apportate le seguenti modifiche:
  
● Art. 21 - (Disposizioni in materia di usi delle acque. Modifica degli articoli 3 e 4 del r.r. 2/2006)

INCARICHI PROFESSIONALI - PATRIMONIO: G.U. 11.08.2018 n. 186 "Testo del decreto-legge 12.07.2018, n. 87, coordinato con la legge di conversione 09.08.2018, n. 96, recante: «Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese»".
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Di interesse, si leggano:
● Art. 12. Split payment
● Art. 13. Società sportive dilettantistiche

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 09.08.2018 n. 184 "Regolamento recante la definizione dei contenuti minimi e i formati dei verbali di accertamento, contestazione e notificazione dei procedimenti di cui all’articolo 29 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152, come modificato dall’articolo 18 del decreto legislativo 16.06.2017, n. 104" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 28.03.2018 n. 94).
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Il decreto individua i contenuti minimi dei verbali di accertamento, contestazione e notificazione dei procedimenti di valutazione di impatto ambientale di cui all’articolo 29 del decreto legislativo 03.04.2006, n. 152.

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 09.08.2018 "Modifiche alla d.g.r. 09.06.2017, n. X/6698 inerente il riordino e la razionalizzazione delle disposizioni attuative della disciplina regionale in materia di distribuzione carburanti e rettifica della d.g.r. 28.06.2018 n. XI/278" (deliberazione G.R. 02.08.2018 n. 434).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 07.08.2018 "Elenco dei criteri di gestione obbligatori e delle buone condizioni agronomiche e ambientali ai sensi dell’articolo 94 del Reg. (CE) n. 1306/2013 (regime di condizionalità) e del d.m. 18.01.2018, n. 1867: modifiche e integrazioni alla delibera della Giunta regionale X/3351 del 01.04.2015" (deliberazione G.R. 02.08.2018 n. 421).

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 06.08.2018 "Determinazioni in ordine agli incarichi attribuiti ai componenti della Giunta regionale" (decreto P.G.R. 01.08.2018 n. 87).

INCARICHI PROFESSIONALI - PATRIMONIO: G.U. 13.07.2018 n. 161 "Disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese" (D.L. 12.07.2018 n. 87).
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Di interesse, si leggano:
● Art. 12. Split payment
● Art. 13. Società sportive dilettantistiche

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ I gruppi cambiano nome. Anche se statuto e regolamento tacciono. La chance rientra nelle scelte proprie delle formazioni politiche.
Se le norme statutarie e regolamentari vigenti in un comune prevedono solo la modifica della composizione dei gruppi consiliari, è possibile modificarne anche la denominazione?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente dalle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia deve, comunque, essere disciplinata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa riconosciuta ai consigli comunali dall'art. 38 del citato Testo unico degli enti locali.
È da ritenersi consentita la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, a seguito dei mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, a dover dettare, in materia, norme statutarie e regolamentari.
Nel caso di specie, il mutamento di denominazione del gruppo consiliare, anche se in assenza di una specifica disposizione statutaria o regolamentare, sembra rientrare nelle scelte proprie delle formazioni politiche presenti nel consiglio che sono, in genere, da ritenersi ammissibili.
Peraltro, sebbene sia lo statuto che il regolamento dell'ente locale presentino una certa rigidità nella formazione dei gruppi, ancorandola alla denominazione della corrispondente lista di elezione, lo stesso statuto comunale consente la costituzione di gruppi non corrispondenti alle liste elettorali, purché siano composti da almeno tre membri.
Pertanto, può ritenersi che tale valore numerico costituisca il limite per la costituzione di gruppi con denominazioni diverse da quelle originarie
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2018).

NEWS

LAVORI PUBBLICIGrandi opere, progetti nel Dup. Vanno individuati l’investimento e la copertura finanziaria. L’effetto dell’ottavo decreto correttivo dell’armonizzazione contabile licenziato da Arconet.
Per le opere maggiori gli enti locali dovranno obbligatoriamente programmare e progettare.
È una delle novità più importanti previste dall'ottavo decreto correttivo dell'armonizzazione contabile (dlgs 118/2011), licenziato prima delle ferie dalla Commissione Arconet e in corso di pubblicazione.
Le modifiche all'allegato 4/2 principio contabile applicato sulla contabilità finanziaria), in particolare, mirano a rendere più semplice il raccordo fra le norme contabili e quelle sugli appalti di lavori pubblici, introducendo numerose novità, soprattutto per quanto concerne l'impatto contabile della progettazione e della realizzazione delle opere. Non sono norme di facile lettura e presuppongono, anche per essere comprese, una forte sinergia fra uffici finanziari e uffici tecnici.
In primo luogo, viene disciplinata la registrazione del livello minimo di progettazione richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale e nell'elenco annuale. Parliamo, quindi, di opere di taglio pari o superiore a 100 mila euro: in tali casi, le spese di progettazione devono essere registrate a bilancio prima dello stanziamento riguardante l'opera cui la progettazione si riferisce. Per tale ragione, affinché la spesa di progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario che i documenti di programmazione dell'ente (e segnatamente il Dup) individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione è destinata e la relativa copertura finanziaria.
In ogni caso, la progettazione esterna deve essere spesata al titolo II, mentre quella interna a Titolo I o al Titolo II a seconda della natura economica della spesa: ad esempio, gli stipendi al personale sono classificati tra le spese di personale (Titolo I), mentre l'acquisto di macchinari necessari è classificato tra gli «impianti e macchinari» (Titolo II).
A seguito della validazione del livello di progettazione minima previsto dall'art. 21 del dlgs 50/2016, gli interventi sono inseriti nel programma triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate nel Titolo II del bilancio di previsione nel rispetto del principio della competenza finanziaria potenziata. In particolare, nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita da entrate esigibili nel medesimo esercizio in cui sono esigibili le spese correlate, nel bilancio di previsione gli stanziamenti di entrata e di spesa sono iscritti distintamente con imputazione ai singoli esercizi di esigibilità. Nei casi in cui la copertura di tali spese risulti costituita da entrate esigibili anticipatamente rispetto all'esigibilità delle spese correlate, nel bilancio di previsione è iscritto il fondo pluriennale vincolato di spesa.
Gli stanziamenti sono interamente prenotati a seguito dell'avvio del procedimento di spesa, e sono via via impegnati a seguito della stipula dei contratti concernenti le fasi di progettazione successive al minimo o la realizzazione dell'intervento.
Anche gli impegni sono imputati contabilmente nel rispetto del principio della competenza finanziaria potenziata. Non rileva più, quindi, il momento dell'aggiudicazione dei lavori (tranne che nei casi di esecuzione anticipata), ma quella della stipula dei diversi contratti.
Per gli interventi di valore stimato inferiore a 100 mila euro, invece, la spesa può essere stanziata in bilancio senza dover attendere l'inserimento degli interventi nel programma triennale dei lavori pubblici.
La spesa di progettazione riguardante i livelli successivi a quello minimo richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale dei lavori pubblici è registrata nel titolo secondo della spesa, con imputazione agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di progettazione interna che di progettazione esterna.
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Più tempo per riprogrammare i ribassi.
Più tempo per riprogrammare i ribassi d'asta. È un'altra delle novità previste dall'ottavo decreto correttivo del dlgs 118/2011. La materia è disciplinata dal punto 5.4. del principio contabile applicato sulla contabilità finanziaria (allegato 4/2 del dlgs 118/2011).
Nella sua versione originaria, esso disponeva che «a seguito dell'aggiudicazione definitiva della gara, le spese contenute nel quadro economico dell'opera prenotate, ancorché non impegnate, continuano a essere finanziate dal Fondo pluriennale vincolato, mentre gli eventuali ribassi di asta, costituiscono economie di bilancio e confluiscono nella quota vincolata del risultato di amministrazione a meno che, nel frattempo, sia intervenuta formale rideterminazione del quadro economico progettuale da parte dell'organo competente che incrementa le spese del quadro economico dell'opera finanziandole con le economie registrate in sede di aggiudicazione».
Tale periodo era già stato sostituito dal seguente a opera dell'art. 6-ter del ddl 91/2017): «A seguito dell'aggiudicazione definitiva della gara, le spese contenute nel quadro economico dell'opera prenotate, ancorché non impegnate, continuano ad essere finanziate dal Fondo pluriennale vincolato, mentre gli eventuali ribassi di asta costituiscono economie di bilancio e confluiscono nella quota vincolata del risultato di amministrazione se entro il secondo esercizio successivo all'aggiudicazione non sia intervenuta formale rideterminazione del quadro economico progettuale da parte dell'organo competente che incrementa le spese del quadro economico dell'opera stessa finanziandole con le economie registrate in sede di aggiudicazione e l'ente interessato rispetti i vincoli di bilancio definiti dalla legge 24.12.2012, n. 243».
Come si nota, quindi, mentre in precedenza la riprogrammazione doveva avvenire prima dell'aggiudicazione definitiva (o comunque entro l'esercizio in cui questa è avvenuta), nel testo vigente essa rimane aperta fino alla fine del secondo esercizio a essa successivo. Solo dopo tale termine, le somme devono essere riportate in avanzo (vincolato) e non possono più essere conservate nel fondo pluriennale vincolato.
L'emanando decreto allungherà ancora i tempi, consentendo di mantenere finanziate da Fondo pluriennale vincolato le economie derivanti da ribasso d'asta se non si provvede all'approvazione di nuovo quadro economico entro due anni dalla stipula del contratto, non più entro due anni dall'aggiudicazione.
Da notare, infine, sempre in materia di fondo pluriennale vincolato, la revisione della disciplina riguardante le variazioni da apportare a seguito di economie. Il nuovo paragrafo 5.4.13 precisa che, ove nel corso dell'esercizio sia cancellato un impegno finanziato dal Fpv dopo l'approvazione del rendiconto dell'esercizio precedente, ciò comporta la necessità di procedere alla contestuale dichiarazione di indisponibilità di una corrispondente quota del Fpv iscritto in entrata e in occasione del rendiconto dell'esercizio in corso alla riduzione di pari importo del Fpv di spesa con corrispondente liberazione delle risorse a favore del risultato di amministrazione
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2018).

APPALTI SERVIZIConcessioni, la proroga richiede sempre la gara. Per l’Antitrust è necessario rispettare i principi della Ue.
Illegittima la proroga di una concessione per la gestione di campi sportivi; è sempre necessario esperire una gara per assicurare il rispetto dei principi Ue e la contendibilità del mercato.

È quanto ha affermato l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, con la decisione 04.06.2018 n. AS-1520 pubblicata sul bollettino n. 26 del 09.07.2018) in merito a una fattispecie concernente la proroga di una concessione decennale per la gestione di campi sportivi. Il quesito riguardava la possibile proroga della gestione di tre impianti sportivi comunali di calcio, affidati per il periodo 01.01.2016-30.06.2020, di durata pari al periodo decennale di ammortamento del mutuo necessario per la realizzazione degli investimenti a carico del gestore.
L'Autorità, preliminarmente, ha osservato che l'affidamento in questione rientra nel quadro della concessione di servizi, trattandosi della gestione di un servizio di rilevanza economica e poi ha rilevato che per il servizio in questione esiste un mercato (perlomeno potenziale) di interesse per altri operatori economici. Nel provvedimento si evidenzia, inoltre, come in questo schema contrattuale l'eventuale gestione in perdita, anche a fronte del corrispettivo pubblico, formalmente destinato alla copertura delle spese di gestione, rientra nella normale alea connessa all'esercizio di un'attività economica in un contesto di mercato. È infatti la stessa convenzione-contratto a lasciare al titolare del contratto margini di redditività nella gestione del servizio, oltre alla determinazione del livello tariffario.
L'Antitrust ritiene quindi che il comune debba applicare la disciplina di cui alla prima e seconda parte del codice dei contratti pubblici e, in particolare, anche l'articolo 30 (nella prima parte del codice) che per quanto attinente alla fattispecie considerata dall'Autorità impone all'ente concedente il rispetto dei «principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice». Questa disposizione, unitamente all'articolo 164 che la richiama, fa dire all'Antitrust che il comune non può sottrarsi all'applicazione dei principi di matrice comunitaria, quali quelli di concorrenza, parità di trattamento e non discriminazione, anche alle concessioni di servizi.
Rispetto alla possibilità di una proroga decennale a favore del gestore, oltre i termini fissati dall'originaria procedura, l'Antitrust ha rilevato che «tale scelta dovrebbe rappresentare una circostanza del tutto eccezionale e temporalmente limitata, in ragione della sua portata potenzialmente contraria ai principi sopra richiamati». Dieci anni, conclude, non possono essere considerati un tempo proporzionato rispetto alla durata originaria dell'affidamento, in quanto concessa per un arco temporale ben più ampio della stessa.
Occorre poi assicurare la piena contendibilità del mercato e la parità di trattamento di tutti gli operatori economici interessati e una proroga così estesa di fatto «produce, in ogni caso, l'effetto di chiudere il mercato alla concorrenza e frustrare, per tale via, una delle finalità cui è volta la normativa di matrice comunitaria dettata dal codice dei contratti pubblici»
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2018).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICIValutazione ambientale via web. Moduli unificati in tutta Italia. E tempi certi per il rilascio. Il ministero dell’ambiente detta tempi e istruzioni per la Via. Il rilascio entro due mesi.
La valutazione di impatto ambientale (Via) viaggia on-line. Con una modulistica unificata ed elettronica utilizzabile sull'intero territorio nazionale. E con tempi certi per il suo rilascio. Infatti, il ministro dell'ambiente dovrà adottare il provvedimento di Via entro 60 giorni dall'acquisizione dello schema di provvedimento predisposto dalla direzione valutazione ambientale (Dva). Il tutto previa acquisizione del concerto del ministro dei beni e delle attività culturali che dovrà essere reso entro 30 giorni dalla richiesta da parte della Dva.
Con una guida, redatta dai tecnici del dicastero guidato da Sergio Costa, vengono dettate le istruzioni operative per il rilascio della Via. Il documento reca in allegato la modulistica da presentare, alla luce delle modifiche apportate dal dlgs 16.06.2017 n. 104, in attuazione della direttiva 2014/52/Ue alla parte II del codice dell'ambiente (dlgs 152/2006).
Ricordiamo che per i progetti di competenza statale, il proponente potrà chiedere, in alternativa alla Via, il rilascio di un «provvedimento unico ambientale», che coordini e sostituisca tutti i titoli abilitativi o autorizzativi riconducibili ai fattori ambientali (si veda ItaliaOggi del 18.08.2018).
Valutazione di impatto ambientale obbligatoria. Sono soggetti alla valutazione di impatto ambientale obbligatoria:
   • gli impianti termici per la produzione di energia elettrica;
   • il vapore e acqua calda con potenza termica complessiva superiore a 150 mW;
   • la realizzazione di autostrade e strade extraurbane principali;
   • gli impianti eolici per la produzione di energia elettrica sulla terraferma con potenza complessiva superiore a 30 mW.
Presentazione dell'istanza. Il proponente trasmette alla Dva l'istanza per l'avvio del procedimento di valutazione di impatto ambientale utilizzando l'apposito modulo disponibile nella sezione «specifiche tecniche e modulistica» del portale delle valutazioni ambientali. All'istanza deve essere allegata la seguente documentazione in formato digitale:
   • il progetto di fattibilità tecnico-economica (o eventuale diverso livello di progettazione);
   • lo studio di impatto ambientale;
   • la sintesi non tecnica;
   • le informazioni sugli eventuali impatti transfrontalieri del progetto;
   • l'avviso al pubblico;
   • la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante il valore delle opere da realizzare e l'importo del contributo versato;
   • copia della ricevuta di avvenuto pagamento del contributo per gli oneri istruttori;
   • i risultati della procedura di dibattito pubblico eventualmente svolta.
La documentazione trasmessa dal proponente viene acquisita dalla Dva che effettua la verifica amministrativa sulla completezza dell'istanza e della documentazione allegata, incluso l'avvenuto pagamento del contributo per gli oneri istruttori. Parallelamente, viene verificata la conformità della documentazione in formato digitale, requisito indispensabile per la pubblicazione della stessa nel portale delle valutazioni ambientali.
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Le novità legate alla Via
  
La valutazione di impatto ambientale (Via) viaggia telematicamente. Con una modulistica unificata ed elettronica utilizzabile sull'intero territorio nazionale. E con tempi certi per il suo rilascio. Requisito indispensabile per la pubblicazione della stessa nel portale delle valutazioni ambientali.
  
Qualora la documentazione risulti incompleta, la Dva richiede al proponente la documentazione integrativa con un termine perentorio per la trasmissione fissato entro 30 giorni. Scaduto tale termine, ovvero, qualora dall’esito della verifica la documentazione risulti ancora incompleta, l’istanza sarà archiviata
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2018).

APPALTI: Commissari gare in albo.
Dal 10.09.2018 al via l'iscrizione all'albo nazionale dei commissari di gara gestito dall'Anac. I commissari iscritti nell'albo potranno essere utilizzati per le gare la cui scadenza delle offerte è fissata dal 15.01.2019. A partire da tale data, le stazioni appaltanti non potranno più nominare commissari di gara in modo discrezionale.

Con il Comunicato del Presidente 18.07.2018 scorsi l'autorità nazionale anticorruzione ha chiarito i temi dell'entrata in vigore delle linee guida (attuative del dlgs 18.04.2016, n. 50) contenenti l'elenco delle sottosezioni per l'iscrizione all'albo nazionale obbligatorio dei commissari di gara.
Per formare la commissione giudicatrice, la stazione appaltante dovrà fornire all'Anac il Cig (Codice identificativo gara) della procedura di affidamento e una serie di informazioni. Tra cui quelle per determinare se si tratti di un affidamento di particolare complessità.
L'Anac, previa verifica, fornirà la lista degli esperti sorteggiati tra quelli con minor numero di nomine e livello di esperienza adeguata. La lista dei commissari verrà poi pubblicata dalla stazione appaltante per ragioni di trasparenza
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2018).

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Omissione dell'indicazione dei costi della manodopera nell’offerta: esclusione?
Parte ricorrente non mira alla riedizione della procedura né chiede l’aggiudicazione; domanda, bensì, di essere riammessa -previo soccorso istruttorio- e che la procedura prosegua con l’esame delle controdeduzioni sull’anomalia dell’offerta.
Al riguardo il Collegio osserva, tuttavia, che il carattere escludente della mancata indicazione nell’offerta economica del costo della mano d’opera (integrato solo con le controdeduzioni in sede sull’anomalia dell’offerta), essendo elemento dell’offerta economica non suscettibile di soccorso istruttorio, come già affermato da questo Tribunale amministrativo regionale, rende sostanzialmente inutile tale riammissione.
Infatti, l’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, innovando rispetto al regime di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, ha imposto l’obbligo per tutti gli operatori economici di indicare in sede di offerta economica i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 50 del 2016).
Sebbene la questione non sia pacifica in giurisprudenza, un orientamento interpretativo, al quale ha aderito anche questo Tribunale, ritiene che il suddetto obbligo sussista anche in ipotesi di silenzio del bando, da ritenersi sul punto eterointegrato, con conseguente esclusione del concorrente silente, non potendosi ricorrere nemmeno al soccorso istruttorio diversamente dal sistema previgente, trattandosi di indicazione costituente elemento essenziale dell’offerta.
Ciò posto, osserva in linea generale il Collegio che, anche in assenza di un’esplicita previsione di richiamo alla previsione imperativa e cogente dell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016, opererebbe l'istituto della eterointegrazione del bando di gara in base alla normativa in materia, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione.
Sennonché, nella gara in esame, emerge direttamente la piena operatività della previsione appena richiamata del codice dei contratti pubblici, essendo l’indicazione separata del costo della manodopera espressamente richiesta dalla lex specialis, con l’effetto di poter ravvisare l’esistenza nella legge di gara di una previsione ad hoc senz’altro idonea, nella necessaria sinergia con la chiara norma di legge, a rendere edotto il concorrente degli obblighi compilativi su di esso gravanti.
Difatti, nella lettera di invito si esplicita che “A pena di esclusione, la “Busta B - Offerta economica” dovrà essere redatta secondo il Modello di Offerta Economica, allegato al presente disciplinare (all. 2) a cui dovrà essere apposta una marca da bollo di € 16.00 e nel quale il concorrente dovrà esplicitare la propria offerta economica e la propria offerta relativa al tempo. … Si precisa che il mancato utilizzo dei Moduli predisposti dal comune di Bevagna per la presentazione delle offerte non costituisce causa di esclusione a condizione che siano egualmente trasmesse tutte le dichiarazioni e informazioni in essi richiesti e che siano rilasciate nelle forme previste dalle vigenti disposizioni richiamate nei predetti Moduli. Pertanto, al fine di ridurre al minimo le esclusioni dalla gara per inesattezze e/o omissioni si raccomanda vivamente di usare i modelli di istanza ed offerta (Allegati 1, 2 e 3) acclusi alla presente Lettera d’invito”; il modulo contenuto nell’Allegato 2, al punto 3, richiedeva l’indicazione della stima dei costi della manodopera, ai sensi dell’art. 95, comma 10, del Codice.
Nel caso in esame, pertanto, l’obbligo di indicazione in sede di offerta economica del costo della manodopera era chiaramente evincibile dalla legge di gara, essendo espressamente indicato nella modulistica per l’offerta economica -inviata dall’Amministrazione procedente- il campo a ciò dedicato.
Non vale neanche opporre che l’Amministrazione avrebbe indotto in errore la ricorrente inviando una nuova modulistica in sostituzione della precedente –effettivamente utilizzata dalla SO.CO.EM. s.r.l. per la presentazione dell’offerta economica– in quanto l’Allegato 2 alla lettera di invito, recante il modulo per la presentazione dell’offerta economica, si compone di un’unica pagina, pertanto facilmente confrontabile con il precedente da parte di un operatore medio, senza la possibilità di invocare l’errore scusabile.
Né può ammettersi nel caso in esame il soccorso istruttorio, previsto dall'art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 per la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'art. 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica, in quanto i costi della manodopera e gli oneri di sicurezza interni attengono direttamente all'offerta economica e, per la loro finalità di tutela del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale.
Non ignora il Collegio che circa l’ammissibilità del soccorso istruttorio in caso omessa indicazione degli elementi di cui all’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, ed in particolare degli oneri di sicurezza aziendale, la giurisprudenza non ha raggiunto una posizione unanime in merito ad un dibattito risalente alla previgente normativa.
L’Adunanza plenaria 27.07.2016, n. 19, ha affermato, anche alla luce della giurisprudenza europea, che per le gare bandite prima del nuovo codice degli appalti pubblici e delle concessioni (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), laddove l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante.
Va aggiunto che la questione è stata altresì esaminata dalla Corte di Giustizia UE a seguito di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, affermando che “il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti”.
Dalle pronunce richiamate, anche a voler ignorare il mutato quadro normativo, non si ritiene comunque possibile far discendere la possibilità di soccorso istruttorio in ipotesi, come quella in esame, ove, come detto, l’obbligo di esplicitazione dei costi della manodopera, così come di quelli relativi agli oneri per la sicurezza, era chiaramente evincibile dalla lex specialis.
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1. È materia del contendere la legittimità degli atti inerenti la procedura negoziata, senza previa pubblicazione di un bando di gara, per l’intervento di efficientamento energetico della scuola primaria “Ten. Ugo Marini” nel Comune di Bevagna.
...
3. Per quanto attiene al merito del ricorso, la ricorrente chiede l’annullamento dei predetti provvedimenti e, in conseguenza di ciò, che sia dichiarato l’obbligo dell’amministrazioni resistenti di procedere alla verifica dell’anomalia dell’offerta del ATI SO.CO.EM. s.r.l./SI.SE. s.r.l. nonché, qualora nelle more della decisione di merito venga stipulato il contratto d’appalto, di dichiarare l’inefficacia di quest’ultimo, di dichiarare in subordine il diritto della ricorrente al subentro nel predetto contratto nonché condannare l’Amministrazione resistente al risarcimento dei danni.
Parte ricorrente, pertanto, non mira alla riedizione della procedura né chiede l’aggiudicazione; domanda, bensì, di essere riammessa -previo soccorso istruttorio- e che la procedura prosegua con l’esame delle controdeduzioni sull’anomalia dell’offerta.
Al riguardo il Collegio osserva, tuttavia, che il carattere escludente della mancata indicazione nell’offerta economica del costo della mano d’opera (integrato solo con le controdeduzioni in sede sull’anomalia dell’offerta), essendo elemento dell’offerta economica non suscettibile di soccorso istruttorio, come già affermato da questo Tribunale amministrativo regionale, rende sostanzialmente inutile tale riammissione.
Infatti, l’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, innovando rispetto al regime di cui al d.lgs. n. 163 del 2006, ha imposto l’obbligo per tutti gli operatori economici di indicare in sede di offerta economica i propri costi della manodopera e gli oneri aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (ad esclusione delle forniture senza posa in opera, dei servizi di natura intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 50 del 2016).
Sebbene la questione non sia pacifica in giurisprudenza, un orientamento interpretativo, al quale ha aderito anche questo Tribunale, ritiene che il suddetto obbligo sussista anche in ipotesi di silenzio del bando, da ritenersi sul punto eterointegrato, con conseguente esclusione del concorrente silente, non potendosi ricorrere nemmeno al soccorso istruttorio diversamente dal sistema previgente, trattandosi di indicazione costituente elemento essenziale dell’offerta (TAR Umbria, 22.01.2018, n. 56; inoltre, ex multis, TAR Sicilia, Catania, sez. III, 31.07.2017, n. 1981; TAR Umbria, 17.05.2017, n. 390; TAR Campania, Salerno, sez. I, 05.01.2017, n. 34; TAR Molise, 2016, n. 513; TAR Calabria, Reggio Calabria, 25.02.2017, n. 166; TAR Veneto, 21.02.2017, n. 182; TAR Campania, Napoli, 2017, n. 2358; Consiglio di Stato ord. 15.12.2016, n. 5582).
Ciò posto, osserva in linea generale il Collegio che, anche in assenza di un’esplicita previsione di richiamo alla previsione imperativa e cogente dell’art. 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016, opererebbe l'istituto della eterointegrazione del bando di gara in base alla normativa in materia, analogamente a quanto avviene nel diritto civile ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione (c.f.r., C.d.S., sez. III, 24.10.2017, n. 4903).
Sennonché, nella gara in esame, emerge direttamente la piena operatività della previsione appena richiamata del codice dei contratti pubblici, essendo l’indicazione separata del costo della manodopera espressamente richiesta dalla lex specialis, con l’effetto di poter ravvisare l’esistenza nella legge di gara di una previsione ad hoc senz’altro idonea, nella necessaria sinergia con la chiara norma di legge, a rendere edotto il concorrente degli obblighi compilativi su di esso gravanti.
Difatti, nella lettera di invito, al punto 14, relativo al contenuto dell’offerta economica, si esplicita che “A pena di esclusione, la “Busta B - Offerta economica” dovrà essere redatta secondo il Modello di Offerta Economica, allegato al presente disciplinare (all. 2) a cui dovrà essere apposta una marca da bollo di € 16.00 e nel quale il concorrente dovrà esplicitare la propria offerta economica e la propria offerta relativa al tempo. … Si precisa che il mancato utilizzo dei Moduli predisposti dal comune di Bevagna per la presentazione delle offerte non costituisce causa di esclusione a condizione che siano egualmente trasmesse tutte le dichiarazioni e informazioni in essi richiesti e che siano rilasciate nelle forme previste dalle vigenti disposizioni richiamate nei predetti Moduli. Pertanto, al fine di ridurre al minimo le esclusioni dalla gara per inesattezze e/o omissioni si raccomanda vivamente di usare i modelli di istanza ed offerta (Allegati 1, 2 e 3) acclusi alla presente Lettera d’invito”; il modulo contenuto nell’Allegato 2, al punto 3, richiedeva l’indicazione della stima dei costi della manodopera, ai sensi dell’art. 95, comma 10, del Codice.
Nel caso in esame, pertanto, l’obbligo di indicazione in sede di offerta economica del costo della manodopera era chiaramente evincibile dalla legge di gara, essendo espressamente indicato nella modulistica per l’offerta economica inviata dall’Amministrazione procedente in data 16.01.2018 il campo a ciò dedicato.
Non vale neanche opporre che l’Amministrazione avrebbe indotto in errore la ricorrente inviando una nuova modulistica in sostituzione della precedente –effettivamente utilizzata dalla SO.CO.EM. s.r.l. per la presentazione dell’offerta economica– in quanto l’Allegato 2 alla lettera di invito, recante il modulo per la presentazione dell’offerta economica, si compone di un’unica pagina, pertanto facilmente confrontabile con il precedente da parte di un operatore medio, senza la possibilità di invocare l’errore scusabile.
Né può ammettersi nel caso in esame il soccorso istruttorio, previsto dall'art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 per la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'art. 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta tecnica ed economica, in quanto i costi della manodopera e gli oneri di sicurezza interni attengono direttamente all'offerta economica e, per la loro finalità di tutela del lavoro, ne costituiscono elemento essenziale.
Non ignora il Collegio che circa l’ammissibilità del soccorso istruttorio in caso omessa indicazione degli elementi di cui all’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016, ed in particolare degli oneri di sicurezza aziendale, la giurisprudenza non ha raggiunto una posizione unanime in merito ad un dibattito risalente alla previgente normativa.
L’Adunanza plenaria 27.07.2016, n. 19, ha affermato, anche alla luce della giurisprudenza europea, che per le gare bandite prima del nuovo codice degli appalti pubblici e delle concessioni (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), laddove l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante.
Va aggiunto che la questione è stata altresì esaminata dalla Corte di Giustizia UE a seguito di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267 TFUE, affermando che “il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti” (Corte di Giustizia UE sez. VI, ordinanza 10.11.2016 (causa C-162/16)).
Dalle pronunce richiamate, anche a voler ignorare il mutato quadro normativo, non si ritiene comunque possibile far discendere la possibilità di soccorso istruttorio in ipotesi, come quella in esame, ove, come detto, l’obbligo di esplicitazione dei costi della manodopera, così come di quelli relativi agli oneri per la sicurezza, era chiaramente evincibile dalla lex specialis (TAR Umbria, sentenza 31.08.2018 n. 489 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Vincoli ambientali senza deroga. Lo stato di crisi aziendale non consente l’inosservanza. La Cassazione: la responsabilità dell’imprenditore resta anche in caso di difficoltà economica.
Lo stato di crisi e di difficoltà economica di una azienda non consente l'inosservanza delle norme ambientali configurandosi ad ogni modo la responsabilità dell'imprenditore per i relativi reati.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la recente sentenza 28.08.2018 n. 39032 ha esaminato la questione delle conseguenze della crisi societaria, nel caso di mancato rispetto di norme ambientali e della conseguente contestazione dei relativi reati.
La questione veniva prospettata ai supremi giudici, a seguito di un ricorso dell'imputato condannato in secondo grado, nei confronti di una sentenza della Corte di appello di Trieste, la quale applicava le pene di legge previste per il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. b), del dlgs 152/2006, per avere effettuato attività di gestione di rifiuti in assenza dei presupposti di legge.
Rappresentava il ricorrente in apposito motivo di ricorso come l'inosservanza della normativa sanzionata quale reato era conseguente allo stato di forte crisi in cui versava l'impresa, che aveva impedito ai suoi dirigenti di ottemperare ai disposti della normativa in materia ambientale.
Assumeva il ricorrente come lo stato di abbandono dei rifiuti nelle dipendenze aziendali, e il difetto del loro trattamento ai sensi di legge era dovuto allo stato di forte crisi dell'azienda, senza essere conseguente a un comportamento consapevole dei quadri dirigenti, invocando pertanto lo stato di necessità quale scusante e il conseguente difetto di colpevolezza.
La Corte riteneva tale motivo di ricorso infondato, osservando come nel caso in cui le risorse aziendali siano state impiegate per fini diversi da quello di ottemperare alla normativa, ciò porta a escludere la configurazione dello stato di forza maggiore, potendosi fare riferimento a tale esimente nel solo caso in cui si sia in presenza di un fatto, non imputabile all'imprenditore, dal quale sia dipeso il verificarsi del reato contestato. La Corte suprema segue comunque la linea interpretativa già enucleatasi in seno allo stesso organo per l'esame della responsabilità dell'imprenditore nel caso di scarichi di acque inquinate.
In questo ultimo caso infatti, gli ermellini hanno ritenuto configurabile lo stato di necessità solo nell'ipotesi in cui il reato dipenda da un evento derivante dalla natura o dall'opera dell'uomo, che non possa essere preveduto o impedito. Aggiungendo che il semplice stato di difficoltà economica dell'azienda non è idoneo a determinare la configurazione dell'esimente prevista dalla legge
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2018).
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MASSIMA
Ciò posto,
osserva il Collegio come le scelte di politica imprenditoriale con cui, in una situazione di crisi di liquidità, si opti per impiegare le risorse aziendali a certi fini piuttosto che ad altri non possono essere invocate per escludere la punibilità dell'agente il quale abbia conseguentemente violato la legge penale, posto che le condotte penalmente rilevanti possono essere attribuite a forza maggiore solo quando derivino da fatti non imputabili all'imprenditore, il quale non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263128, relativa al mancato adempimento dell'obbligazione tributaria).
Nella condivisibile motivazione di tale sentenza si legge infatti che «
la forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esule del tutto dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente», sicché questa Suprema Corte «ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 64.3 del 22/10/1984, Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822) 5.20.Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati omissivi integra la causa di forza maggiore l'assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n. 10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856)» (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi).
Se questi principi valgono per condotte imprenditoriali di carattere omissivo, in cui l'azione dovuta ed illecitamente non compiuta richiede un esborso di denaro, a maggior ragione debbono trovare applicazione laddove, come nella specie, il reato consista in condotte commissive, certamente coscienti e volontarie, ripetute e protratte nel tempo.
Con riguardo ai reati ambientali, del resto, si è da tempo affermato che non può rientrare tra gli eventi di forza maggiore di cui all'art. 45 cod. pen. l'inosservanza degli obblighi imposti dalla legge in materia di inquinamento delle acque per difficoltà economiche dell'impresa titolare degli scarichi dato che la forza maggiore si concreta soltanto in un evento, derivante dalla natura o da fatto dell'uomo, che non può essere preveduto o impedito (Sez. 3, n. 643 del 22/10/1984, dep. 1985, Bottura, Rv. 167495), aggiungendosi che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente non sono riconducibili al concetto di forza maggiore che postulando la individuazione di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, esula del tutto dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria dell'agente (Sez. 1, Sentenza n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880, relativa al reato di cui all'art. 650 cod. pen. per violazione di ordinanza sindacale in tema di smaltimento di rifiuti).
Analoghi principi sono stati affermati in materia di violazione di norme antinfortunistiche (Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232).

EDILIZIA PRIVATA: Individuazione del momento in cui comincia ad applicarsi l’istituto del silenzio-assenso.
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Silenzio della P.A. – Silenzio assenso – Ambito temporale di applicazione – Individuazione.
Il silenzio–assenso, quale speciale effetto attribuito dalla legge alla fattispecie complessa costituita dalla proposizione dell’istanza, corredata dalla necessaria documentazione, e dal decorso del termine normativamente previsto, non può farsi retroagire alle istanze avanzate prima dell’entrata in vigore della normativa che tale fattispecie disciplini, atteso che solo un'istanza posteriore a tale momento può ritenersi qualificata come elemento della relativa fattispecie;
E' necessario, cioè, che sia stata avanzata sotto il vigore della norma che prevede il prodursi di quel particolare effetto, che impone ex novo uno speciale e pregnante obbligo dell'amministrazione, in precedenza non configurabile, di attivarsi tempestivamente.
L’effetto del silenzio-assenso non può prodursi neppure nell’ipotesi in cui l’istanza sia stata avanzata dopo la pubblicazione della legge di nuova introduzione ma prima della sua entrata in vigore, successiva al periodo di vacatio legis, poiché non può attribuirsi all’inerzia dell’amministrazione un effetto che non era previsto nel momento in cui tale inerzia, anche solo in parte, ha avuto luogo (1).

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   (1) Ha ricordato il Tar che in Sicilia il silenzio-assenso sull’istanza di accertamento di conformità è stato introdotto con la legge regionale n. 16 del 10.08.2016, che, all’art. 14, comma 3, ha stabilito che “In presenza della documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro novanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende assentita”.
Tale regime, dunque, è andato a sostituire –per un breve periodo, ossia fino all’intervento della Corte Costituzionale– l’opposto regime del silenzio-rigetto, dettato dall’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Ai sensi del comma 3 di tale articolo, “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Il Tar ha quindi stabilito, in assenza di disposizione transitoria, quale dei due regimi normativi sia applicabile al procedimento sottoposto al suo esame, avviato con istanza avanzata il 30.08.2016.
Ha chiarito che la legge regionale n. 16 del 2016 è stata pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale della Regione Siciliana n. 36 del 19.08.2016 e, pertanto, ai sensi dell’art. 13 dello Statuto regionale, che prevede un periodo di vacatio legis di 15 giorni, è entrata in vigore il 03.09.2016.
Alla data di proposizione della domanda, dunque, la normativa di nuova introduzione, disciplinante l’istituto del silenzio-assenso, non era entrata in vigore. Tale circostanza impedisce che alla stessa possa applicarsi la nuova disciplina.
Lo speciale effetto attribuito dalla legge alla fattispecie complessa costituita dalla proposizione dell’istanza, corredata dalla necessaria documentazione, e dal decorso del termine normativamente previsto non può infatti farsi retroagire alle istanze avanzate prima dell’entrata in vigore della normativa che tale fattispecie disciplini (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 28.08.2018 n. 1741 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
Preliminarmente, occorre rilevare l’infondatezza delle eccezioni di inammissibilità e di irricevibilità sollevate dal Comune.
La mancata impugnazione dell’ingiunzione di demolizione non preclude, infatti, l’impugnazione del provvedimento relativo all’istanza di accertamento di conformità.
Né può dirsi che sia stata prestata acquiescenza alla nota prot. 14404 del 04.05.2017, atteso che i ricorrenti hanno impugnato tale atto con il ricorso in esame, notificato il 13.10.2017 e quindi tempestivamente, posto che gli stessi ricorrenti hanno dichiarato di avere conosciuto la citata nota solo in occasione della notifica della nota prot. n. 23242 del 14.07.2017, spedita con raccomandata del 19.07.2017; circostanza, questa, non contestata dal comune.
Ciò premesso, deve passarsi all’esame del ricorso, valutando, preliminarmente, la natura degli atti impugnati, anche tenuto conto della proposizione, da parte dei ricorrenti, di una pluralità di doglianze, graduate in ragione di ciò che questo Collegio riterrà essere il contenuto di tali atti.
La nota prot. n. 14404/2017, infatti, è stata contestata: quale semplice atto con cui, nel presupposto che sull’istanza di accertamento di conformità non si sia formato un provvedimento tacito di assenso, si è preannunciata l’adozione di un provvedimento di diniego (primo motivo); quale atto di ritiro del provvedimento di assenso (secondo motivo) e quale provvedimento di rigetto dell’istanza di accertamento di conformità (terzo motivo).
Orbene, ritiene il Collegio che non possa prescindersi dal dato testuale (“questo ufficio … provvederà ad emettere il provvedimento definitivo di diniego”), che non consente di attribuire natura provvedimentale alla nota, che preavvisa dell’adozione di un successivo provvedimento di diniego.
Benché tale atto contenga l’indicazione delle ragioni per le quali l’ufficio “ritiene di non accogliere la richiesta di accertamento di conformità”, la manifestazione di tale intendimento deve ritenersi abbia la natura di avviso ex art. 10-bis l. 241/1990, più che di provvedimento sull’istanza e ciò nonostante un primo preavviso di rigetto fosse stato adottato con nota del 24.12.2016.
L’atto, dunque, è stato adottato nel presupposto della pendenza del procedimento e, quindi, della mancata formazione di un provvedimento tacito di assenso; benché si tratti di atto endoprocedimentale, esso presenta autonoma lesività nella misura in cui implicitamente nega che si sia formato il silenzio-assenso e, sotto tale profilo, ne va vagliata la legittimità.
Va, in altre parole, scrutinata la questione dell’avvenuta formazione, nel caso in esame, del provvedimento tacito di assenso.
Il silenzio-assenso sull’istanza di accertamento di conformità è stato introdotto con la legge regionale n. 16 del 10.08.2016, che, all’art. 14, co. 3, ha così stabilito: “In presenza della documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro novanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende assentita”.
Tale regime, dunque, è andato a sostituire –per un breve periodo, ossia fino all’intervento della Corte Costituzionale– l’opposto regime del silenzio-rigetto, dettato dall’art. 36, D.P.R. 380/2001.
Ai sensi del terzo comma di tale articolo, “Sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata”.
Occorre stabilire, in assenza di disposizione transitoria, quale dei due regimi normativi sia applicabile al procedimento in esame, avviato con istanza avanzata il 30.08.2016.
Deve rilevarsi, a tale proposito, che la legge regionale n. 16/2016 è stata pubblicata nel supplemento ordinario alla gazzetta ufficiale della Regione Siciliana n. 36 del 19.08.2016 e, pertanto, ai sensi dell’art. 13 dello Statuto regionale, che prevede un periodo di vacatio legis di 15 giorni, è entrata in vigore il 03.09.2016.
Alla data di proposizione della domanda, dunque, la normativa di nuova introduzione, disciplinante l’istituto del silenzio-assenso, non era entrata in vigore. Tale circostanza impedisce che alla stessa possa applicarsi la nuova disciplina.
Lo speciale effetto attribuito dalla legge alla fattispecie complessa costituita dalla proposizione dell’istanza, corredata dalla necessaria documentazione, e dal decorso del termine normativamente previsto non può infatti farsi retroagire alle istanze avanzate prima dell’entrata in vigore della normativa che tale fattispecie disciplini.
Ha affermato, in proposito, il Consiglio di Stato: “La procedura di silenzio-assenso è applicabile soltanto alle istanze presentate successivamente all'entrata in vigore delle norme che la istituiscono, atteso che solo un'istanza posteriore a tale momento può ritenersi qualificata come elemento della relativa fattispecie, cioè posta in essere quando è previsto il prodursi di quel particolare effetto di pendenza che impone ex novo uno speciale e pregnante obbligo dell'amministrazione, in precedenza non configurabile, di attivarsi tempestivamente o, in alternativa, l'operare di un effetto abilitativo/permissivo favorevole all'istante, connesso all'inerzia dell'amministrazione oltre il limite temporale indicato dalla norma” (sez. V, 02.10.2008, n. 4755; nello stesso senso, sez. VI, 31.01.2006, n. 327).
La peculiarità della presente fattispecie –che la distingue dai casi esaminati nei precedenti appena citati- sta nel fatto che la nuova normativa è entrata in vigore in pendenza del termine per provvedere e non dopo il suo decorso. Tale circostanza, tuttavia, non consente di pervenire a conclusioni diverse, atteso che, comunque, non potrebbe attribuirsi all’inerzia dell’amministrazione un effetto che non era previsto nel momento in cui tale inerzia, anche solo in parte, ha avuto luogo; ciò anche in considerazione del particolare effetto ad essa connesso, che è quello di “un surrettizio condono edilizio” (così Corte Cost. n. 232/2017).
In altri termini, anche in considerazione della necessità di fissare la regola da applicare al procedimento, non sembra logico che l’esito dello stesso e, soprattutto, la conseguenza della condotta (silenziosa) da parte dell’Amministrazione possa essere mutevole in ragione di una normativa sopravvenuta, venendo meno, così, la certezza del significato del comportamento che quest’ultima deve tenere.
Invero, si ribadisce con la previgente normativa, il mancato esito all’istanza avrebbe manifestato il diniego, mentre, con quella successiva, l’assenso e, quindi, la necessità di attivarsi (in virtù di una norma sopravvenuta), al fine di evitare l’eventuale diniego ritenuto legittimo.
Consegue il rigetto del ricorso.

TRIBUTI: Canone per interramento di condutture di pubblici servizi
E' illegittimo l’assoggettamento al canone non ricognitorio, previsto dall’art. 27 del codice della strada, nelle ipotesi di utilizzo del sottosuolo della sede stradale che -come nel caso di condutture elettriche- non impediscano o limitino in alcun modo la fruizione pubblica della sede viaria, ferma restando la legittima imposizione del canone per il tratto di tempo durante il quale le lavorazioni di posa e realizzazione dell’infrastruttura a rete impediscono la piena fruizione della sede stradale.
Il codice della strada ha assoggettato a canone unicamente le occupazioni idonee a sottrarre il bene all’uso pubblico (id est: peso imposto al bene pubblico) ciò che non accade nell’ipotesi di occupazioni che si sostanzino nell’interramento di condutture finalizzate all’esercizio di pubblici servizi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 27.08.2018 n. 2030 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Oggetto della domanda di annullamento proposta con il ricorso in epigrafe sono il regolamento con il quale il Comune di Carnate ha disciplinato l’applicazione del canone non ricognitorio previsto dall’art. 27 del d.lgs. n. 285 del 1992 nonché il conseguente atto applicativo.
Parte ricorrente ritiene che detto regolamento contrasti con il parametro normativo di riferimento avendo illegittimamente assoggettato al canone di cui trattasi gli «impianti elettrici insistenti sia sul suolo sia nel sottosuolo di proprietà comunale» in violazione disposizioni di carattere «speciale» (art. 120 r.d. M. 1775/1933, art. 1, c. 6, l. n. 239 del 2004, art. 4 l. n. 1501/1961 e art. 6 d.m. n. 258/1998). Osserva, altresì, che ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. n. 285 del 1992 il canone deve essere, in tesi, determinato sulla base sia del peso imposto al bene pubblico, sia del lucro che il concessionario trae dall’utilizzazione del bene stesso.
Con nota del 28.10.2013, in applicazione di siffatta disciplina, il Comune ha chiesto il pagamento delle relative somme previa trasmissione, da parte della Società, di taluni dati inerenti all’impianto.
...
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di difetto di interesse sollevata da parte resistente sul rilievo che la nota del 28.10.2013, pur nella sua configurazione di elemento istruttorio e malgrado non sia stata impugnata, in realtà costituisce atto rilevante che esprime la valutazione dell’Amministrazione di ritenere la particolare fattispecie compresa nella previsione regolamentare come tale assoggettabile al canone patrimoniale (TAR Lombardia, Milano, n. 265 del 2018).
Sul punto deve essere evidenziato che, a differenza del precedente di questo Tribunale dato dalla sentenza n. 1078/2018 riguardante un caso in cui il Comune aveva trasmesso una mera comunicazione di avvenuta adozione del regolamento, nella vicenda per cui è causa l’Amministrazione ha evidenziato i criteri da applicarsi per la quantificazione delle somme ed ha richiesto alla ricorrente la conferma dei dati contenuti nelle cartografie in possesso dello stesso Comune, circostanza, questa, che dà atto della ‘soggettività passiva’ della ricorrente.
Nel merito il ricorso è meritevole di accoglimento.
Come si è detto, parte ricorrente ha evidenziato che in realtà il d. lgs. n. 285 del 1992 ha assoggettato a canone unicamente le occupazioni idonee a sottrarre il bene all’uso pubblico (id est: peso imposto al bene pubblico) ciò che non accade nell’ipotesi di condutture elettriche quali quelle nel caso di specie installate dalla ricorrente.
La questione, in relazione ad analoghe controversie, è stata già solcata dalla giurisprudenza la quale ha, in modo del tutto condivisibile, ritenuto che, in realtà, nessuna norma primaria autorizzi le amministrazioni locali ad applicare il canone non ricognitorio di cui all’art. 27 del Codice della Strada ad occupazioni che si sostanzino nell’interramento di condutture finalizzate all’esercizio di pubblici servizi.
Sul punto ritiene il Collegio di non dovere discostarsi dall’approdo interpretativo del Giudice d’appello secondo cui,
valorizzando una lettura del Codice della Strada «come corpo normativo inteso alla sicurezza delle persone nella circolazione stradale, e rispetto al quale interesse generale le sue norme sono evidentemente serventi», è stata esclusa la legittima esigibilità del canone non ricognitorio nelle ipotesi di utilizzo del sottosuolo della sede stradale le quali -come nel caso che qui rileva- non impediscano o limitino in alcun modo la fruizione pubblica della sede viaria, ferma restando la legittima imposizione del canone per il tratto di tempo durante il quale le lavorazioni di posa e realizzazione dell’infrastruttura a rete impediscono la piena fruizione della sede stradale.
Ne discende l’accoglimento della domanda di annullamento del Regolamento impugnato.

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non sanabilità di un abuso edilizio inerente parti condominiali.
L
e fotografie presenti nel fascicolo di parte ricorrente e anche le tavole progettuali rivelino come egli abbia inteso trasformare in balconi i cornicioni del più ampio fabbricato condominiale.
Ora, per la loro attinenza alla facciata, i cornicioni debbono di regola considerarsi parte comune dell’edificio.
Ebbene, in base all'art. 11, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria.
Alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere anche ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima; ciò, però, a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario.
Non a caso, è stato considerato inapplicabile l'istituto del condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso anche in via amministrativa e non solo con azioni privatistiche.

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1. – Gi.Ru. si duole del provvedimento con il quale il Comune di Rossano gli ha negato il permesso di costruire in sanatoria relativo alla messa in opera di ringhiera metallica e pavimentazione su esistenti balconi e apertura di un accesso su un parapetto al sesto piano di un edificio insistente su via ....
In particolare, l’amministrazione non ha concesso il richiesto titolo in quanto le opere sarebbero state realizzate non già su balconi preesistenti, bensì su un cornicione e su un un parapetto, e cioè su beni che ricadrebbero in comunione e in relazione ai quali, in ogni caso, il ricorrente non avrebbe dato prova del titolo di disponibilità.
Inoltre, dalla documentazione prodotta non si evincerebbe se i cornicioni a sbalzo siano atti a sopportare i sovraccarichi, permanentio accidentali, previstidalla normativa vigente per le civili abitazioni.
...
5. – Nel merito della vicenda controversa, osserva il Collegio come le fotografie presenti nel fascicolo di parte ricorrente e anche le tavole progettuali rivelino come egli abbia inteso trasformare in balconi i cornicioni del più ampio fabbricato condominiale.
Ora, per la loro attinenza alla facciata, i cornicioni debbono di regola considerarsi parte comune dell’edificio (cfr. C. App. Salerno, 16.03.1992, in Giur. Merito, 1994; ma sulla nozione di facciata cfr. anche Cass. Civ., Sez. II , 14.12.2017, n. 30071).
5. – Ebbene, in base all'art. 11, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività edificatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04.04.2012, n. 1990).
Alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi possono provvedere anche ogni altro soggetto interessato al conseguimento della sanatoria medesima; ciò, però, a condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso comunque manifestato dal proprietario (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 25.09.2014, n. 4818; Cons. Stato, Sez. IV, 26.01.2009, n. 437; Cons. Stato, Sez. IV, 22.06.2000, n. 3520).
Non a caso, è stato considerato inapplicabile l'istituto del condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per legittimare una sostanziale appropriazione di spazi condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di una possibile volontà contraria degli altri, i quali potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso anche in via amministrativa e non solo con azioni privatistiche (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27.06.2008, n. 3282).
7. – In questi termini, l’operato dell’amministrazione intimata appare corretto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 21.08.2018 n. 1556 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Mancata allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva in una gara d'appalto.
L'allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prescritta dal comma 3 dell'art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000, è adempimento inderogabile, atto a conferire legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Pertanto, in una gara d’appalto l'assenza della copia fotostatica del documento di identità non determina una mera incompletezza del documento, idonea a far scattare il potere di soccorso della stazione appaltante tramite la richiesta di integrazioni o chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua giuridica inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al principio della par condicio e della parità di trattamento tra le imprese partecipanti, l'impresa deve essere esclusa per mancanza della prescritta dichiarazione
(Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 20.08.2018 n. 4959 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Venendo ora al primo motivo dell’appello iscritto al numero di registro generale 7737 del 2017, con esso si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato l’esclusione dell’appellante dalla procedura di gara per non aver allegato alla dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (di cui al paragrafo 6, punto 2 del disciplinare) la copia fotostatica del documento di identità del dichiarante.
Ad avviso dell’appellante, nel caso di specie non sarebbero revocabili in dubbio né la provenienza, né l’ascrivibilità al legale rappresentante dell’impresa partecipante alla gara del documento oggetto di autocertificazione; né la carenza sarebbe stata tale da incidere sulla regolarità e legittimità della dichiarazione, non trattandosi di mancanza afferente ad elementi di carattere tecnico.
In ogni caso, né il disciplinare di gara, né gli artt. 38 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000 prevedono espressamente alcuna sanzione automatica di esclusione della concorrente dalla gara nell’ipotesi di mancanza della copia fotostatica del documento di identità del dichiarante (laddove, per contro, la dichiarazione sostitutiva e l’allegazione del documento di identità costituirebbero adempimenti distinti, aventi una funzione diversa, sebbene complementare).
L’irregolarità riscontrata avrebbe dunque carattere meramente formale, ragion per cui la stazione appaltante, prima di procedere all’esclusione, avrebbe dovuto richiedere l’integrazione del documento mancante o comunque dei chiarimenti, anche in ossequio ai principi di economicità ed efficacia dell’attività amministrativa nonché di massima partecipazione e di proporzionalità.
Il motivo non è fondato, dovendosi confermare il principio di cui al precedente di Cons. Stato, V, 26.03.2012, n. 1739 –dal quale non vi è motivo di discostarsi, nel caso di specie- a mente del quale
l’allegazione della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione sostitutiva, prescritta dal comma 3 dell'art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000, è adempimento inderogabile, atto a conferire –in considerazione della sua introduzione come forma di semplificazione– legale autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia all'autocertificazione.
Si tratta pertanto di un elemento integrante della fattispecie normativa, teso a stabilire, data l’unità della fotocopia sostitutiva del documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un collegamento tra la dichiarazione ed il documento ed a comprovare, oltre alle generalità del dichiarante, l'imputabilità soggettiva della dichiarazione al soggetto che la presta (ex multis, Cons. Stato, VI, 02.05.2011, n. 2579; VI, 04.06.2009, n. 3442; V, 07.11.2007, n. 5761; 11.05.2007, n. 2333).
L'assenza della copia fotostatica del documento di identità non determina, pertanto, una mera incompletezza del documento, idonea a far scattare il potere di soccorso della stazione appaltante tramite la richiesta di integrazioni o chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua giuridica inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al principio della par condicio e della parità di trattamento tra le imprese partecipanti, l'impresa deve essere esclusa per mancanza della prescritta dichiarazione.
Tale omissione, per espressa disposizione di legge (art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016), non poteva essere sanata con il soccorso istruttorio, né con “l’utilizzo” del documento depositato nella busta contenente la documentazione amministrativa, come ipotizzato dall’appellante.
Correttamente, quindi, il primo giudice ha ritenuto legittima l’esclusione dalla gara di Fcs Co. s.r.l. e, conseguentemente, improcedibili i motivi aggiunti da questa proposti per sopravvenuta carenza di interesse.
Anche per questa ragione la reiezione del primo motivo di appello, avente carattere eminentemente processuale, risulta interamente assorbente delle ulteriori censure di merito dedotte dall’appellante.

EDILIZIA PRIVATA: Circa il diniego di sanatoria edilizia ordinaria (ex art. 13 l. 47/1985, ora art. 36 d.p.r. n. 380/2001) con riguardo ai due locali deposito realizzati mediante edificazione di un solaio intermedio, non presentando tali locali, aventi un’altezza interna netta di mt. 1,95, i requisiti di altezza minima prescritti dalla normativa vigente, essi non possono essere oggetto di sanatoria mediante l’invocato istituto dell’accertamento di conformità ex art. 13 l. 47/1985, il quale, come è noto e costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (cd. doppia conformità).
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Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75 del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato, l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto per quanto di ragione.
La attività istruttoria svolta in corso di giudizio ha accertato l’inesistenza di un volume realizzato in assenza di titolo sul ballatoio, di tal che per questa parte l’atto impugnato va considerato illegittimo sotto il profilo della carenza istruttoria.
Il provvedimento resiste, però, alle censure attoree nella parte in cui reca il diniego di sanatoria edilizia ordinaria (ex art. 13 l. 47/1985, ora art. 36 d.p.r. n. 380/2001) con riguardo ai due locali deposito realizzati mediante edificazione di un solaio intermedio: non presentando tali locali, aventi un’altezza interna netta di mt. 1,95, i requisiti di altezza minima prescritti dalla normativa vigente, essi non possono essere oggetto di sanatoria mediante l’invocato istituto dell’accertamento di conformità ex art. 13 l. 47/1985, il quale, come è noto e costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa, è diretto a sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area su cui sorgono, vigente sia al momento della loro realizzazione che al momento della presentazione dell'istanza di sanatoria (cd. doppia conformità; cfr. ex multis, TAR Campania, sez. IV, 31/01/2018 n. 695).
Il rilievo esposto consente, dunque, di ritenere superato il primo motivo di doglianza (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto.
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Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75 del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato, l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Sono del pari da disattendere il secondo e il terzo motivo di ricorso.
Quanto al secondo, con il quale parte ricorrente lamenta che l’Amministrazione avrebbe illegittimamente pretermesso di valutare l’irrogazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, il Collegio osserva che, nel caso di specie, non si rinviene alcun elemento da cui inferire che l’esecuzione della sanzione applicata (riduzione al pristino stato dei locali al piano terra) potrebbe arrecare pregiudizio alla restante parte dell’edificio regolarmente assentita, cosicché alcuna censura può muoversi alla determinazione assunta dall’Amministrazione sulla base di una valutazione tecnico-discrezionale: per giurisprudenza pacifica "il privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità del manufatto, perché per impedire l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione dell'intera stabilità del manufatto" (TAR Campania Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056; nello stesso senso Cons. St., sez. VI 08.07.2011 n. 4102) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La indiscussa natura di “intervento libero” che deve essere riconosciuta alla struttura progettata dal ricorrente (ndr: installazione di una tettoia con copertura retrattile -cd. “pergotenda”- della superficie di 16 mq) impedisce solo che questa debba essere assoggettata a provvedimenti abilitativi di matrice comunale, tendenti a valutare la fattibilità urbanistica ed edilizia del manufatto.
Ma, nel caso di specie, la realizzazione di una struttura da collocare sulla terrazza sommitale di un edificio risulta potenzialmente idonea ad incidere su valori (diversi da quelli urbanistici) di carattere paesaggistico, in ragione del fatto che l’intera area comunale è sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico istituito nel lontano 1978.
Pertanto, è di intuitiva evidenza che il medesimo intervento -non assoggettato ad alcun limite o atto di assenso sul piano edilizio- richieda il preventivo parere dell’organo tutorio se inserito all’interno di un comune soggetto a vincolo paesaggistico, mentre potrebbe essere liberamente eseguito nell’ambito di un territorio comunale che non fosse assoggettato a tali vincoli.
Sicché, risulta irrilevante sia il fatto che l’intervento sia qualificabile come “neutro” (o libero) dal punto di vista edilizio, sia l’asserito errore di fatto commesso dalla Soprintendenza nel qualificare il manufatto come “tettoia” piuttosto che “tenda”.
Sia che si trattasse di una “tettoia”, che in ipotesi mera “tenda”, la Soprintendenza non avrebbe potuto sottrarsi all’obbligo di valutare (peraltro, su richiesta dello stesso soggetto interessato) l’incidenza dell’intervento progettato rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali affidati per legge alla sua cura.
In una vicenda per certi versi analoga, infatti, la giurisprudenza ha affermato che “Una serra mobile, sebbene ricada nell'attività edilizia libera, richiede l'autorizzazione paesaggistica, poiché anche tale tipologia di manufatto può recare pregiudizio ai valori paesistici e ambientali protetti ed esige, quindi, un esame preventivo da parte dell'autorità competente”.

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La Soprintendenza di Messina ha respinto l’istanza presentata dal ricorrente D’Al., con la quale si richiedeva il parere di compatibilità paesaggistica ai fini dell’installazione di una tettoia con copertura retrattile (cd. “pergotenda”), della superficie di 16 mq, da collocare su una terrazza posta all’ultimo piano di un edificio sito nel Comune di Castelmola.
Il provvedimento, in particolare, rilevava l’esistenza di un vincolo di notevole interesse pubblico apposto su tutto il territorio del Comune di Castelmola con DPRS 2976/1978, e del Piano Paesaggistico Ambito 9 approvato con D.A. 6682/2016; aggiungeva inoltre la circostanza che l’intervento proposto ricade in area soggetta al livello di tutela 1 del citato P.P.A.
In applicazione di tali strumenti di tutela del territorio, la Soprintendenza ha ritenuto di dover esprimere –con l’atto ora impugnato– parere contrario al progetto, trattandosi di intervento che “comporterebbe un notevole impatto negativo al paesaggio tutelato” essendo “ricadente in zona di notevole intervisibilità panoramica ai margini del tessuto urbano di Castelmola”.
Il ricorrente ha allora impugnato in questa sede il parere negativo espresso dalla Soprintendenza, assumendo che sia affetto dai seguenti vizi: ...
...
Il primo motivo di ricorso è infondato.
La indiscussa natura di “intervento libero” che deve essere riconosciuta alla struttura progettata dal ricorrente impedisce solo che questa debba essere assoggettata a provvedimenti abilitativi di matrice comunale, tendenti a valutare la fattibilità urbanistica ed edilizia del manufatto.
Ma, nel caso di specie, la realizzazione di una struttura da collocare sulla terrazza sommitale di un edificio risulta potenzialmente idonea ad incidere su valori (diversi da quelli urbanistici) di carattere paesaggistico, in ragione del fatto che l’intera area comunale di Castelmola è sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico istituito nel lontano 1978, nonché inquadrata nel Piano Paesaggistico Ambito 9, più di recente varato dalla Regione Sicilia con riferimento alla provincia di Messina.
Pertanto, è di intuitiva evidenza che il medesimo intervento -non assoggettato ad alcun limite o atto di assenso sul piano edilizio- richieda il preventivo parere dell’organo tutorio se inserito all’interno di un comune soggetto a vincolo paesaggistico, mentre potrebbe essere liberamente eseguito nell’ambito di un territorio comunale che non fosse assoggettato a tali vincoli.
A ben vedere, tale distinguo risulta ben conosciuto dal ricorrente, che non a caso ha inviato richiesta di nulla osta alla Soprintendenza di Messina prima di avviare alcun tipo di attività, salvo poi dolersi del parere contrario espresso dall’amministrazione.
Alla luce di quanto esposto risulta irrilevante sia il fatto che l’intervento sia qualificabile come “neutro” (o libero) dal punto di vista edilizio, sia l’asserito errore di fatto commesso dalla Soprintendenza nel qualificare il manufatto come “tettoia” piuttosto che “tenda”. Sia che si trattasse di una “tettoia”, che in ipotesi mera “tenda”, la Soprintendenza non avrebbe potuto sottrarsi all’obbligo di valutare (peraltro, su richiesta dello stesso soggetto interessato) l’incidenza dell’intervento progettato rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali affidati per legge alla sua cura.
In una vicenda per certi versi analoga, infatti, la giurisprudenza ha affermato che “Una serra mobile, sebbene ricada nell'attività edilizia libera, richiede l'autorizzazione paesaggistica, poiché anche tale tipologia di manufatto può recare pregiudizio ai valori paesistici e ambientali protetti ed esige, quindi, un esame preventivo da parte dell'autorità competente” (Tar Veneto 1007/2017)
(TAR Sicilia-Catania, Sez. IV, sentenza 30.07.2018 n. 1635 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Risulta indiscussa l’applicazione del principio tempus regit actum al rilascio dei titoli edilizi.
Invero, “Costituisce diritto vivente l’affermazione che nel procedimento relativo al rilascio di un titolo edilizio, la situazione normativa vigente alla data di presentazione della domanda, in ragione del generale principio tempus regit actum, non costituisce un vincolo per l’Amministrazione. Le norme coeve alla domanda, infatti, non possono ritenersi “cristallizzate” fino alla determinazione finale sulla stessa. I limiti enucleati all’applicazione di norme sopravvenute nel corso del procedimento non possono dunque riguardare la materia edilizia, tenuto conto che essi trovano accesso solo nel caso di procedimenti di tipo comparativo o lato sensu selettivo (gare, concorsi e così via), retti, in funzione di garanzia della par condicio, dalle disposizioni vigenti al momento in cui gli stessi hanno avuto inizio”
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In base al principio tempus regit actum ogni provvedimento amministrativo deve essere emesso in base alle norme vigenti nel momento in cui lo stesso viene emanato. La legittimità di un provvedimento amministrativo va pertanto valutata in base alla situazione di fatto e di diritto esistente alla data della sua adozione.
Nel caso di varianti in corso d’opera a queste ultime andrà pertanto applicata, limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, la normativa in vigore alla data in cui le stesse sono assentite.
Ciò significa, per quanto concerne gli oneri di urbanizzazione, che “Con la concessione in variante il Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il corrispondente contributo non in relazione all'intero complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del titolo in variante. Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla società ricorrente”.
Diversamente operando la nuova disciplina, più favorevole, troverebbe applicazione ad una fattispecie orami esaurita con il rilascio dell’originario permesso di costruire, in violazione del principio generale di irretroattività delle leggi disciplinato dall’articolo 11 delle preleggi.
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Il ricorso è infondato.
La nota del responsabile dello sportello unico dell’edilizia impugnata con il ricorso introduttivo motiva l’impossibilità di applicare la normativa urbanistica sopravvenuta e più favorevole all’intero intervento edilizio in ragione dell’applicazione del principio tempus regit actum, e sostenendo conseguentemente che “va applicata la normativa sui parcheggi pertinenziali vigente al momento in cui si è formalizzato il titolo edilizio che ha consentito l’intervento di ristrutturazione, quindi la normativa vigente alla data di presentazione della DIA n. 849/2014, che imponeva la dotazione di parcheggi pertinenziali nella quantità in allora stabilita, normativa in base alla quale era stata presentata la fideiussione.”
Risulta indiscussa l’applicazione del principio tempus regit actum al rilascio dei titoli edilizi; sul punto si richiama –ex pluris- C.d.S., sez. IV, 14.11.2017, n. 5230, secondo cui: “Costituisce diritto vivente l’affermazione che nel procedimento relativo al rilascio di un titolo edilizio, la situazione normativa vigente alla data di presentazione della domanda, in ragione del generale principio tempus regit actum, non costituisce un vincolo per l’Amministrazione. Le norme coeve alla domanda, infatti, non possono ritenersi “cristallizzate” fino alla determinazione finale sulla stessa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 5854/2011). I limiti enucleati all’applicazione di norme sopravvenute nel corso del procedimento non possono dunque riguardare la materia edilizia, tenuto conto che essi trovano accesso solo nel caso di procedimenti di tipo comparativo o lato sensu selettivo (gare, concorsi e così via), retti, in funzione di garanzia della par condicio, dalle disposizioni vigenti al momento in cui gli stessi hanno avuto inizio (cfr. Cons. Stato, Adunanza plenaria n. 9/2011).”
In base al principio tempus regit actum ogni provvedimento amministrativo deve essere emesso in base alle norme vigenti nel momento in cui lo stesso viene emanato. La legittimità di un provvedimento amministrativo va pertanto valutata in base alla situazione di fatto e di diritto esistente alla data della sua adozione. Nel caso di varianti in corso d’opera a queste ultime andrà pertanto applicata, limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, la normativa in vigore alla data in cui le stesse sono assentite.
Ciò significa, per quanto concerne gli oneri di urbanizzazione, che “Con la concessione in variante il Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli oneri e il corrispondente contributo non in relazione all'intero complesso in via di realizzazione, ma con riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del titolo in variante. Sulla complessiva somma dovuta per oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la somma già versata dalla società ricorrente” (cfr. TAR Sardegna, sez. II, 28.11.2013, n. 780; TAR Molise, 05.03.2018, n. 114).
Diversamente operando la nuova disciplina, più favorevole, troverebbe applicazione ad una fattispecie orami esaurita con il rilascio dell’originario permesso di costruire, in violazione del principio generale di irretroattività delle leggi disciplinato dall’articolo 11 delle preleggi.
Nel caso di specie, del resto, la società interessata ha realizzato una variante in senso proprio, cioè una modifica che non ha sostanzialmente e radicalmente mutato il progetto iniziale. “Il nuovo provvedimento rimane in posizione di sostanziale collegamento con quello originario” e tale rapporto di complementarietà “giustifica la peculiarità del regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano sostanziale e procedimentale. Rimangono sussistenti, infatti, tutti i diritti quesiti e ciò rileva specialmente nel caso di sopravvenienza di una nuova contrastante normativa che, se non fosse ravvisabile l’anzidetta situazione di continuità, renderebbe irrealizzabile l’opera” (Cass. penale, III, 24.06.2010, n. 24236) (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 30.07.2018 n. 655 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA:  Ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in essere dall'Amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione dell'opera edilizia abusiva, è sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione, così come degli atti consequenziali, ad uno solo dei comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito, dovendo questo adoperarsi, in ragione della funzione ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare l'illecito, onde sottrarsi, salvo comprovare l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della perdita della propria quota ideale di comproprietà. Il comproprietario pretermesso, quindi, può comunque autonomamente impugnare il provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione.
Altresì, “La mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo proprietario ignaro, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico. L'ordinanza demolitoria di abusi edilizi deve essere, infatti, notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area. La ragione per la quale quest'ultimo deve essere il destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non realizzate, si individua nella considerazione che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e come tale contraria ai principi dell'ordinamento), ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può produrre l'ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita del fondo”.

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Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75 del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato, l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
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Va disatteso, infine, il terzo e ultimo motivo di ricorso, con il quale parte ricorrente denuncia l’illegittimità dell’atto impugnato in quanto notificato ad uno solo dei comproprietari, alla stregua del consolidato orientamento di questo Tribunale: “ai fini della legittimità dell'iter procedimentale posto in essere dall'Amministrazione per il ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione dell'opera edilizia abusiva, è sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione, così come degli atti consequenziali, ad uno solo dei comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito, dovendo questo adoperarsi, in ragione della funzione ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare l'illecito, onde sottrarsi, salvo comprovare l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della perdita della propria quota ideale di comproprietà. Il comproprietario pretermesso, quindi, può comunque autonomamente impugnare il provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione” (TAR Napoli, sez. VI, 06/03/2018 n. 1416); “La mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo proprietario ignaro, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico. L'ordinanza demolitoria di abusi edilizi deve essere, infatti, notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area. La ragione per la quale quest'ultimo deve essere il destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non realizzate, si individua nella considerazione che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e come tale contraria ai principi dell'ordinamento), ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può produrre l'ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita del fondo” (TAR Napoli, sez. III, 07/11/2017 n. 5212) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Asfaltatura di una strada vicinale.
Quanto alla legittimità dell’asfaltatura di una strada vicinale eseguita in assenza di titolo edilizio, ogni attività di trasformazione del territorio assume rilevanza se risulta idonea a modificarlo in modo permanente e significativo; difatti, vanno ricondotti alla categoria della trasformazione edilizia urbanistica le opere che modificano significativamente la realtà urbanistica e territoriale, indipendentemente dal fatto che la loro realizzazione richieda attività edificatoria in senso stretto.
Più precisamente, devono ritenersi inclusi in tale categoria gli interventi di trasformazione del suolo, quali, ad esempio, la sua cementificazione o lo spianamento di un terreno al fine di ottenerne un piazzale, in quanto anche essi creano un nuovo assetto urbanistico: tali mutamenti di destinazione possono avere luogo solo se siano stati espressamente consentiti da una previsione urbanistica;
Da ciò discende l’illegittimità dell’asfaltatura di una strada sterrata senza alcun permesso, considerato che, trattandosi di una significativa trasformazione del contesto urbanistico ed edilizio, per la sua realizzazione è richiesto il previo rilascio di un permesso di costruire
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.07.2018 n. 1886 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
2. Con la prima doglianza si assume l’illegittimità del provvedimento comunale demolitorio, atteso che la strada vicinale che consente l’accesso al sito produttivo di proprietà della ricorrente sarebbe esistente da un rilevante lasso di tempo e la posa di asfalto sulla stessa sarebbe conforme alla normativa edilizia, richiedendosi al limite la presentazione di una s.c.i.a., non sanzionabile con la demolizione ma soltanto con pena pecuniaria.
2.1. La doglianza è infondata.
Appare opportuno premettere che l’ordinanza comunale, sebbene in maniera non del tutto perspicua, ha inteso sanzionare l’asfaltatura della strada vicinale e non la realizzazione dell’arteria viaria in se considerata. Ne discende che la parte del motivo di ricorso relativo alla legittimità della costruzione della predetta strada risulta inconferente ai fini della soluzione del contenzioso in essere.
2.2. Quanto alla legittimità dell’asfaltatura della strada vicinale senza la necessità di alcun titolo edilizio, va evidenziato che
ogni attività di trasformazione del territorio assume rilevanza se risulta idonea a modificarlo in modo permanente e significativo.
Difatti, secondo la giurisprudenza, condivisa dal Collegio,
vanno ricondotti «alla categoria della trasformazione edilizia urbanistica le opere che modificano significativamente la realtà urbanistica e territoriale, indipendentemente dal fatto che la loro realizzazione richieda attività edificatoria in senso stretto.
Più precisamente, devono ritenersi inclusi in tale categoria gli interventi di trasformazione del suolo, quali, ad esempio, la sua cementificazione
(Cons. St., Sez. V., n. 1442 del 2001) o lo spianamento di un terreno al fine di ottenerne un piazzale (Cons. St., Sez. IV, n. 5035 del 2007), in quanto anche essi creano un nuovo assetto urbanistico: tali mutamenti di destinazione possono avere luogo solo se siano stati espressamente consentiti da una previsione urbanistica.
In particolare (…) rileva anche il principio
(Cons. St., Sez. V, n. 7343 del 2005) secondo cui: un intervento di spargimento di ghiaia su un’area che ne era precedentemente priva rappresenta attività urbanisticamente rilevante nella misura in cui “appaia preordinata alla modifica della precedente destinazione d’uso”
» (Consiglio di Stato, VI, 03.07.2018, n. 4066).
Da ciò discende l’illegittimità dell’asfaltatura di una strada sterrata senza alcun permesso, considerato che, trattandosi di una significativa trasformazione del contesto urbanistico ed edilizio, per la sua realizzazione è richiesto il previo rilascio di un permesso di costruire.

EDILIZIA PRIVATAAppare legittimo rivolgere l’ordine di demolizione nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione.
L’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione.
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Non può determinare l’annullamento dell’ordine di demolizione la mancata indicazione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza allo stesso ordine, in quanto, come sostenuto da un consolidato orientamento giurisprudenziale, “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire. Quindi, l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene”.
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2.3. Inoltre, appare legittimo rivolgere l’ordine di demolizione nei confronti di chi abbia la disponibilità dell’opera, indipendentemente dal fatto che tale soggetto si sia reso responsabile dell’abuso per averlo concretamente realizzato, rilevando tale aspetto esclusivamente sotto il profilo della responsabilità penale, ma non certo ai fini della legittimità dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di demolizione di un’opera abusiva, infatti, può legittimamente essere emanata nei confronti del proprietario attuale, anche se non responsabile dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio costituisce illecito permanente e che l’ordinanza stessa ha carattere ripristinatorio e non prevede l’accertamento del dolo o della colpa del soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR Lombardia, Milano, II, 03.05.2018, n. 1198; 27.02.2018, n. 574; 03.11.2016, n. 2013, TAR Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261).
2.4. Pertanto, la censura deve essere respinta.
3. Con la seconda doglianza si deducono la genericità e l’indeterminatezza dell’ordinanza di demolizione per mancata specifica individuazione sia dell’area interessata dall’asfaltatura abusiva che dell’eventuale area di sedime che verrebbe acquisita di diritto al patrimonio comunale in caso di inottemperanza da parte della ricorrente.
3.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che in data 05.05.2017 gli Uffici comunali hanno trasmesso alla ricorrente la planimetria catastale contenente l’indicazione dei mappali da acquisirsi in caso di inottemperanza all’ordinanza di demolizione (all. 11 del Comune); in ogni caso deve sottolinearsi come fosse possibile individuare agevolmente le parti di strada su cui intervenire al fine di rimuovere l’asfaltatura abusivamente realizzata, vista la sua immediata rilevabilità.
Ciò rende irrilevante l’originaria omissione del Comune, che ha provveduto celermente a trasmettere la planimetria, comunque non indispensabile ai fini dell’ottemperanza.
3.2. Ulteriormente va evidenziato come non possa determinare l’annullamento dell’ordine di demolizione la mancata indicazione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza allo stesso ordine, in quanto, come sostenuto da un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire. Quindi, l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene” (Consiglio di Stato, VI, 05.01.2015, n. 13; altresì, TAR Lombardia, Milano, II, 02.05.2018, n. 1190; 18.07.2017, n. 1644) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 30.07.2018 n. 1886 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzata “recinzione” (costituita da un vero e proprio muro in calcestruzzo di 1,30 m di altezza, 20 cm di spessore e 70 metri di lunghezza) è di entità notevole, non essendo una mera “recinzione del cantiere” (non ritenuta idonea a integrare l’inizio dei lavori), ma un vero e proprio muro di contenimento con annesso sbancamento e terrazzamento del terreno adiacente.
Sicché, dovendosi valutare l’inizio dei lavori in concreto e in rapporto all’entità dell’intervento edilizio programmato, va affermato che la realizzazione del muro descritto già effettuato costituisce senz’altro un valido inizio dei lavori in quanto implica l’attivazione del cantiere e rappresenta inequivocamente la volontà di realizzare l’opera programmata.
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... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia, dell’ordinanza n. 113 del 16.09.2005 recante l’ordine di demolizione di una recinzione di un lotto di terreno sito in Caserta alla strada comunale La Rocca;
...
1.1. Con il presente gravame, MU.Ma., impugna il provvedimento n. 113 del 16.09.2005 con cui il Comune di Caserta ha ordinato la demolizione di una recinzione di un lotto di terreno sito in Caserta alla strada comunale La Rocca in seguito alla decadenza del permesso di costruire rilasciato per il lotto medesimo (permesso n. 271 del 29.11.2001).
...
2.1. Il risalente provvedimento è adottato, in sostanza, sul presupposto dell’avvenuta decadenza del titolo edilizio n. 271 del 29.11.2001 che, pacificamente, contemplava la recinzione in questione tra le opere da realizzare.
2.2. Il Comune di Caserta rileva che il permesso di costruire sarebbe decaduto per il mancato inizio dei lavori entro l’anno come previsto dall’art. 15, co. 2, del D.P.R. 380/2001 (“il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori”) e, pertanto, ingiunge la demolizione della recinzione poiché effettuata senza titolo edilizio.
3. In punto di fatto, occorre considerare che la “recinzione” è costituita da un vero e proprio muro in calcestruzzo di 1,30 m di altezza, 20 cm di spessore e 70 metri di lunghezza, effettuato previo terrazzamento dei terreni adiacenti (v. perizia a firma del geom. Toscano), realizzato a partire dal 18.11.2002, come da comunicazione di inizio lavori inviata in pari data (in atti).
4.1. La circostanza appena descritta dimostra la fondatezza della censura sub III che assume rilievo assorbente.
4.2. L’entità dell’opera realizzata, infatti, è notevole non essendo una mera “recinzione del cantiere” (non ritenuta idonea a integrare l’inizio dei lavori), ma un vero e proprio muro di contenimento con annesso sbancamento e terrazzamento del terreno adiacente.
4.3. Dovendosi valutare l’inizio dei lavori in concreto e in rapporto all’entità dell’intervento edilizio programmato (v. Consiglio di Stato, sez. V, 31/08/2017, n. 4150), va affermato che la realizzazione del muro descritto già effettuato costituisce senz’altro un valido inizio dei lavori in quanto implica l’attivazione del cantiere e rappresenta inequivocamente la volontà di realizzare l’opera programmata (sull’idoneità di lavori di sbancamento e di realizzazione di un muro di contenimento a rappresentare l’inizio dei lavori, v. Cassazione penale, sez. II, 06/02/1979; v. anche Consiglio di Stato, sez. VI, 19/09/2017, n. 4381 e, in termini, TAR Genova, sez. I, 28/01/2016, n. 93).
5. Giova precisare che, al momento dell’adozione del provvedimento impugnato (in cui si dava per assodata la decadenza dal titolo edilizio), il 15.09.2004, non era ancora decorso il termine ultimo per la conclusione dei lavori (tre anni dall’inizio dei lavori, art. 15, co. 2, D.P.R. 380/2001, cit.) che, parimenti, avrebbe implicato la decadenza del titolo edilizio. In ragione dell’adozione del provvedimento impugnato, peraltro, legittimamente la ricorrente ha sospeso ogni attività edilizia e, pertanto, dovrà essere rimessa in termini per concludere l’opera di cui al menzionato permesso di costruire con un’opportuna proroga.
6. Il ricorso va, pertanto, accolto nei sensi sopra precisati. Le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a carico del Comune intimato per il principio di soccombenza e dovendosi comunque stigmatizzare il contegno processuale di mancata ottemperanza all’ordinanza istruttoria n. 628/2018 (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 26.07.2018 n. 5016 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Il legittimo esercizio dell’attività commerciale è ancorato non solo in sede di rilascio dei titoli abilitativi, ma anche per la intera sua durata di svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere, con conseguente potere-dovere dell’autorità amministrativa di inibire l'attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale.
Sicché, risulta legittimo il provvedimento comunale di chiusura dell’attività determinato dalla riscontrata abusività dell’edificio in cui essa si svolge.
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Va osservato –infatti– in punto di diritto che “Il legittimo esercizio dell’attività commerciale è pertanto ancorato, non solo in sede di rilascio dei titoli abilitativi, ma anche per la intera sua durata di svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere, con conseguente potere-dovere dell’autorità amministrativa di inibire l'attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali siano stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale (cfr. Cons. Stato, VI, 23.10.2015, n. 4880)” – da ultimo Consiglio di Stato, sez. V, sent. 29/05/2018 n. 3212.
Alla stregua di tale consolidato orientamento, risulta legittimo il provvedimento comunale di chiusura dell’attività determinato dalla riscontrata abusività dell’edificio in cui essa si svolge (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 26.07.2018 n. 4979 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’agibilità di un locale in cui è svolta un’attività commerciale o artigianale non può essere frazionata per le parti in cui esso si compone, poiché l’utilizzo della parte abusiva si riflette sull’incompatibilità dell’attività nel complesso.
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4.3 - Va per completezza, altresì, evidenziato che in fattispecie relativa –come quella in esame– ad inagibilità di un (solo) manufatto realizzato in ampliamento, è stato sostenuto: “Né può affermarsi che il carattere abusivo riguarda solo una parte dell’immobile (mantenendosi invece l’agibilità per la restante porzione), trattandosi di un requisito unico ed inscindibile.
L’agibilità di un locale in cui è svolta un’attività commerciale o artigianale non può essere frazionata per le parti in cui esso si compone, poiché l’utilizzo della parte abusiva si riflette sull’incompatibilità dell’attività nel complesso (nella specie, la chiusura perimetrale dello spazio ha incrementato le superfici destinate all’attività, risultando per ciò svolta in un immobile con caratteristiche nuove rispetto alla richiesta del certificato di agibilità)
” – TAR Campania-Napoli, sez. III, sent. 13/01/2016 n. 141 (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII, sentenza 26.07.2018 n. 4979 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Quand'anche si ritenesse di poter qualificare come strada poderale la realizzata pista “off-road” per test drive dei veicoli, appare evidente che tale intervento non rientrerebbe comunque nella citata fattispecie, in quanto sono sottratte all’obbligo di titolo abilitativo esclusivamente quelle strade poderali e interpoderali finalizzate all’attività agro-silvo-pastorale.
Al riguardo la giurisprudenza consolidata ha affermato che l'esecuzione di movimenti terra, finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli, richieda il titolo abilitativo, anche in mancanza di finalità edilizie degli scavi o dei movimenti di terra allorquando la notevole entità dell'intervento sul territorio sia tale da connotarlo come di rilevanza urbanistica.
In particolare, è stato di recente ribadito che “ai fini della necessità o meno del permesso di costruire relativamente a lavori di sbancamento del terreno, occorre distinguere tra gli scavi finalizzati ad utilizzo edilizio e le consimili attività non connesse all'edificazione. Soltanto nella prima ipotesi essi sono da ritenersi compresi nell'intervento complessivo e non richiedono uno specifico titolo autorizzativo, mentre i lavori di sbancamento in assenza di opere in muratura necessitano del permesso di costruire ove modifichino in modo durevole l'ambiente circostante.
In particolare, quindi, l'esecuzione di questo tipo di lavori richiede il titolo abilitativo, anche in mancanza di finalità edilizie degli scavi o dei movimenti di terra, allorquando la notevole entità dell'intervento sul territorio sia tale da connotarlo come di rilevanza urbanistica.
Anche secondo la giurisprudenza penale questa tipologia di lavori necessita del permesso di costruire quando la notevole entità dell'intervento sul territorio sia tale da connotarli come di rilevanza urbanistica, ovverosia allorché la morfologia del territorio venga alterata in conseguenza di rilevanti opere di scavo, sbancamenti, livellamenti finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli, compresi quelli turistici o sportivi”.
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1. La materia del contendere attiene alla legittimità degli provvedimenti posti in essere dal Comune di Perugia a seguito della presentazione da parte dell’odierna ricorrente di una S.C.I.A. per la realizzazione di una pista “off-road” per test drive dei veicoli.
Gli interventi compiuti dall’odierna ricorrente consistono in movimenti terra e riporti di materiale inerte e nella realizzazione di un dosso avente altezza massima di 4 metri dal piano di campagna ed altri accumuli di terra di altezza variabile, per un totale stimato di circa 300 mc.
L’opera in esame, come detto, insiste su un sedime destinato dal vigente piano urbanistico a fascia di igiene ambientale ove, ai sensi dell’art. 139 del T.U.N.A., “è fatto obbligo del loro mantenimento allo stato naturale” consentendo la norma in commento solo alcuni limitati interventi.
...
3. Ciò posto, le residue censure riferibili all’ordinanza n. 23 del 13.06.2017 sono infondate.
L’ordinanza di demolizione è adottata ai sensi dell’art. 143 della l.r. n. 1 del 2015 e contesta la realizzazione di opere in assenza di permesso di costruire ed in contrasto con la normativa di piano regolatore.
Rinviando al punto precedente per quanto attiene al secondo aspetto, in merito all’individuazione del titolo abilitativo edilizio necessario per l’intervento realizzato va rilevato, in primo luogo, che non appare condivisibile l’affermazione del ricorrente secondo la quale le suddette opere andrebbero ricondotte al novero dell’edilizia libera.
Ai sensi dell’art. 118, comma 1, della l.r. n. 1 del 2015, nell’elencare gli interventi che possono essere eseguiti senza titolo abilitativo edilizio, include alla lett. f) “la realizzazione di strade poderali e interpoderali, i movimenti di terra strettamente pertinenti all'esercizio dell'attività agricola, effettuati con compensazione tra scavo e riporto e senza asportazione di terreno o di altro materiale al di fuori dell'azienda agricola interessata dagli interventi, da effettuare comunque nel rispetto dell'assetto morfologico e paesaggistico locale”.
Anche qualora si ritenesse di poter qualificare come strada poderale la realizzata pista per il test drive delle autovetture, appare evidente che tale intervento non rientrerebbe comunque nella citata fattispecie, in quanto sono sottratte all’obbligo di titolo abilitativo esclusivamente quelle strade poderali e interpoderali finalizzate all’attività agro-silvo-pastorale, come ricordato anche dalla giurisprudenza di questo Tribunale (cfr. TAR Umbria, 09.03.2017, n. 201).
Allo stesso modo la finalità agricola –palesemente assente nel caso in esame– è determinante anche per la sottrazione al titolo abilitativo dei movimenti di terra; l’art. 118, comma 1, lett. f), l.r. n. 1 del 2015 espressamente richiama, infatti, “i movimenti di terra strettamente pertinenti all'esercizio dell'attività agricola”.
Al riguardo la giurisprudenza consolidata, dalla quale questo Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, ha affermato che l'esecuzione di movimenti terra, finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli, richieda il titolo abilitativo, anche in mancanza di finalità edilizie degli scavi o dei movimenti di terra allorquando la notevole entità dell'intervento sul territorio sia tale da connotarlo come di rilevanza urbanistica.
In particolare, è stato di recente ribadito che “ai fini della necessità o meno del permesso di costruire relativamente a lavori di sbancamento del terreno, occorre distinguere tra gli scavi finalizzati ad utilizzo edilizio e le consimili attività non connesse all'edificazione (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 01.06.2010, n. 11362; TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.05.2008, n. 4263). Soltanto nella prima ipotesi essi sono da ritenersi compresi nell'intervento complessivo e non richiedono uno specifico titolo autorizzativo, mentre i lavori di sbancamento in assenza di opere in muratura necessitano del permesso di costruire (TAR Piemonte, Torino, sez. I, 14.12.2005, n. 4057) ove modifichino in modo durevole l'ambiente circostante (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.05.2008, n. 4261; TAR Campania, Napoli, 20.10.2003, n. 12922; TAR Piemonte, Torino, sez. I, 14.12.2005, n. 4057).
In particolare, quindi, l'esecuzione di questo tipo di lavori richiede il titolo abilitativo, anche in mancanza di finalità edilizie degli scavi o dei movimenti di terra, allorquando la notevole entità dell'intervento sul territorio sia tale da connotarlo come di rilevanza urbanistica (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 25.05.2005, n. 883, Consiglio Stato, sez. V, 21.12.1989, n. 877).
Anche secondo la giurisprudenza penale questa tipologia di lavori necessita del permesso di costruire quando la notevole entità dell'intervento sul territorio sia tale da connotarli come di rilevanza urbanistica (Cass. pen., sez. III, 05.06.2001, n. 30833), ovverosia allorché la morfologia del territorio venga alterata in conseguenza di rilevanti opere di scavo, sbancamenti, livellamenti finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli, compresi quelli turistici o sportivi (Cass. pen., sez. III, 30.09.2002, n. 38055)
” (TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 18.04.2018 n. 2520).
Per quanto attiene il caso in esame, l’Amministrazione ha, seppur succintamente, motivato in merito alla rilevanza edilizia degli interventi realizzati, qualificando l’intervento in oggetto come nuova costruzione “in quanto comportante modificazione rilevante e duratura dello stato dei luoghi e, pertanto, la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio”.
Non appare, infine, rilevante ai fini di un eventuale affidamento della ricorrente il nulla osta rilasciato dall’ufficio mobilità del Comune, in quanto attinente a profili diversi da quelli edilizi.
4. Per quanto esposto, i residui motivi di ricorso devono essere respinti (TAR Umbria, sentenza 25.07.2018 n. 469 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'annullamento in autotutela del titolo edilizio sorretto da valutazioni logico-giuridiche, e non da valutazioni di ordine tecnico-edilizio, non abbisogna del previo parere della Commissione Edilizia.
Inoltre, quando l’illegittimità del titolo edilizio dipende dall’erronea rappresentazione della realtà in capo all’amministrazione procedente causata dal comportamento del richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell'atto può ritenersi sussistente “in re ipsa”, non opponendosi a ciò posizioni di interesse del privato degne di particolare tutela.
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Venendo in rilievo un annullamento in autotutela sorretto da valutazioni logico-giuridiche, e non da valutazioni di ordine tecnico-edilizio, non risultava necessario acquisire il previo parere della Commissione Edilizia (per tutte, cfr. Tar Milano, II, n. 4493/2009).
Inoltre, come affermato dalla giurisprudenza (sul punto cfr. Tar Milano, II, n. 841/2013), quando l’illegittimità del titolo edilizio dipende dall’erronea rappresentazione della realtà in capo all’amministrazione procedente causata dal comportamento del richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell'atto può ritenersi sussistente “in re ipsa”, non opponendosi a ciò posizioni di interesse del privato degne di particolare tutela (CGARS, sentenza 25.07.2018 n. 448 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla differenza, in termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare ed un terrazzo.
Esiste una differenza, in termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare ed un terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre il terrazzo è inteso come ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce già delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti.
Invero, “mentre il lastrico solare, al pari del tetto, assolve essenzialmente la funzione di copertura dell'edificio, di cui forma parte integrante sia sotto il profilo meramente materiale, sia sotto il profilo giuridico, la terrazza è invece costituita da una superficie scoperta posta al sommo di alcuni vani e nel contempo sullo stesso piano di altri, dei quali forma parte integrante strutturalmente e funzionalmente, nel senso che per il modo in cui è realizzata, risulta destinata non tanto a coprire le verticali di edifici sottostanti, quanto e soprattutto a dare un affaccio e ulteriori comodità all'appartamento cui è collegata e del quale costituisce una proiezione verso l'esterno”.
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Al riguardo, occorre precisare che esiste una differenza, in termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare ed un terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una copertura di ambienti sottostanti, mentre il terrazzo è inteso come ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce già delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e utilizzo per utenti (TAR Salerno-Campania- sez. II 03.01.2018 n. 24).
Come precisato dalla condivisibile giurisprudenza amministrativa, “mentre il lastrico solare, al pari del tetto, assolve essenzialmente la funzione di copertura dell'edificio, di cui forma parte integrante sia sotto il profilo meramente materiale, sia sotto il profilo giuridico, la terrazza è invece costituita da una superficie scoperta posta al sommo di alcuni vani e nel contempo sullo stesso piano di altri, dei quali forma parte integrante strutturalmente e funzionalmente, nel senso che per il modo in cui è realizzata, risulta destinata non tanto a coprire le verticali di edifici sottostanti, quanto e soprattutto a dare un affaccio e ulteriori comodità all'appartamento cui è collegata e del quale costituisce una proiezione verso l'esterno” (TAR Roma, Lazio, sez. II 04.04.2016 n. 4043) (TAR Abruzzo-L'Aquila, sentenza 24.07.2018 n. 305 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAffidamenti sotto soglia, il bando è da pubblicare. L’urgenza non legittima l'omissione.
In un affidamento di importo stimato fra 40 mila e 150 mila euro l'urgenza non legittima l'omessa effettuazione della pubblicità di un affidamento e la consultazione di mercato.

Lo ha stabilito il TAR Friuli Venezia Giulia con la sentenza 18.07.2018 n. 252 relativamente ad una procedura per l'affidamento del servizio di Data protection officer di importo compreso fra 40 mila e 150 mila euro bandita ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera b), del codice dei contratti pubblici. Era accaduto che l'amministrazione avesse omesso di dare corso alla pubblicazione dell'avviso, in una situazione in cui neppure sussistevano i presupposti per dare corso all'affidamento diretto, ai sensi dell'art. 63 del codice dei contratti pubblici.
Si legge nella sentenza che l'amministrazione non aveva neppure indicato le ragioni di estrema urgenza che, se sussistenti, avrebbero consentito di derogare agli adempimenti previsti dalla procedura adottata (art. 63, comma 2, lett. c). Viceversa la stazione appaltante avrebbe dovuto applicare l'articolo 36, comma 2, lett. b), del codice dei contratti pubblici che consente alle stazioni appaltanti la facoltà di dare corso alla procedura semplificata nel caso di affidamento di contratti di importo pari o superiore a 40 mila euro e inferiore a 150mila euro occorreva però procedere alla «consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori, e, per i servizi e le forniture di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti».
Su questa procedura, peraltro, l'Anac (linee guida n. 4 dell'01/03/2018) hanno precisato che la stazione appaltante deve assicurare l'opportuna pubblicità dell'attività di esplorazione del mercato, scegliendo gli strumenti più idonei in ragione della rilevanza del contratto per il settore merceologico di riferimento e della sua contendibilità, da valutare sulla base di parametri non solo economici.
In questi casi, ha detto l'Anac, la durata della pubblicazione è stabilita in ragione della rilevanza del contratto, per un periodo minimo identificabile in 15 giorni, salva riduzione per motivate ragioni di urgenza a non meno di cinque giorni
(articolo ItaliaOggi del 31.08.2018).
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MASSIMA
Rilevato, inoltre, che:
   - il ricorso è manifestamente fondato in relazione al primo motivo con il quale viene dedotto: violazione dell’art. 36, co. 2, lett. b), del d.lgs. 50/2016; violazione delle Linee Guida dell’ANAC n. 4; violazione degli artt. 4 e 30 del d.lgs. 50/2016 e dei principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità delle procedure di affidamento;
   - l’art. 36, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 50 del 2016 consente alle stazioni appaltanti la facoltà di dare corso alla procedura semplificata nel caso di affidamento di contratti di importo pari o superiore a € 40.000,00 e inferiore a € 150.000,00;
  - come testualmente previsto dalla disposizione richiamata, detta procedura negoziata deve essere preceduta dalla “consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori economici per i lavori, e, per i servizi e le forniture di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione degli inviti”;
   - in relazione allo svolgimento di tale attività di consultazione degli operatori economici le Linee Guida ANAC n. 4, approvate con deliberazione 01.03.2018, n. 206, precisano che “la stazione appaltante assicura l'opportuna pubblicità dell’attività di esplorazione del mercato, scegliendo gli strumenti più idonei in ragione della rilevanza del contratto per il settore merceologico di riferimento e della sua contendibilità, da valutare sulla base di parametri non solo economici. A tal fine la stazione appaltante pubblica un avviso sul profilo di committente, nella sezione «amministrazione trasparente» sotto la sezione «bandi e contratti», o ricorre ad altre forme di pubblicità. La durata della pubblicazione è stabilita in ragione della rilevanza del contratto, per un periodo minimo identificabile in quindici giorni, salva la riduzione del suddetto termine per motivate ragioni di urgenza a non meno di cinque giorni (punto 5.1.4);
   - nel caso di specie, l’Amministrazione ha omesso di dare corso alla prescritta pubblicazione dell’avviso, adempimento del quale (al di là di un generico cenno all’interno della memoria di costituzione - p. 11) non viene fornita prova alcuna;
   - come correttamente evidenziato dal ricorrente, neppure sussistono nel caso di specie i presupposti (al di là del laconico riferimento all’urgenza di affidare il servizio) per dare corso all’affidamento diretto, ai sensi dell’art. 63, D.Lgs. n. 50 del 2016;
   - l’Amministrazione non ha neppure indicato quelle ragioni di “estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice” che, se sussistenti, avrebbero consentito di derogare agli adempimenti previsti dalla procedura adottata (art. 63, comma 2, lett. c);
   - la deroga, peraltro, appare del tutto incompatibile con la prevista facoltà di proroga annuale dell’affidamento, dovendosi considerare che l’esenzione dall’obbligo di pubblicazione appare consentita solo “nella misura strettamente necessaria” ad affrontare la specifica situazione emergenziale, la quale costituisce la causa ovvero l’occasione dell’affidamento, ciò che precluderebbe la possibilità di disporre un eventuale rinnovo a favore dell’aggiudicatario, allorché le condizioni di urgenza siano inevitabilmente venute meno;
   - in conclusione, la rilevata carenza della prescritta pubblicità dell’avviso rende del tutto inattendibile la procedura di selezione del contraente posta in essere dall’Amministrazione e, nel contempo, si dimostra direttamente lesiva della posizione del ricorrente, avendone illegittimamente precluso la partecipazione, nonostante egli risultasse in possesso dei titoli prescritti;
   - per le considerazioni anzidette, devono dunque essere annullati gli atti di gara oggetto del presente giudizio, potendosi prescindere dall’esame dei restanti motivi, da dichiararsi assorbiti, in ragione dell’accoglimento del primo profilo di censura;

EDILIZIA PRIVATAIl soppalco? Non serve permesso a costruire.
Per il soppalco non serve il permesso di costruire solo quando l'opera sia tale da non incrementare la superficie dell'immobile. Tuttavia, quest'ultima ipotesi si verifica solo nel caso in cui lo spazio realizzato col soppalco consista in un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo non fruibile alle persone.

È il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 09.07.2018 n. 4166 sulla realizzazione di un soppalco e sulla tipologia di permesso richiesto per la costruzione.
Il caso: in una casa di alto valore storico di proprietà di una società venne compiuto un sopralluogo da parte di tecnici comunali da cui era emersa la realizzazione di opere edilizie in difformità dai titoli edilizi abilitativi. Per tale ragione la società presentava istanza di concessione in sanatoria per la realizzazione di un soppalco e il cambio di destinazione d'uso delle opere.
Il comune ha respinto l'istanza. E la società ha presentato ricorso al Tar. I giudici del Consiglio di stato affermano che la realizzazione di un soppalco quando comporta ulteriore superficie calpestabile ed autonomi spazi rientra nel novero degli interventi di ristrutturazione edilizia. In quanto determina un aumento della superficie utile dell'unità con conseguente aggravio del carico urbanistico.
Il Collegio, però, non ha disconosciuto l'orientamento che mitiga il principio innanzi ricordato e volto a ricondurre la realizzazione di un soppalco nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali non è richiesto il permesso di costruire, qualora l'opera sia tale da non incrementare la superficie dell'immobile.
Nel caso di specie, sostengono i giudici di Palazzo Spada, al contrario dalle rappresentazioni fotografiche prodotte in causa, il soppalco in questione, seppur di modeste dimensioni, integra un aumento di superficie fruibile, concretizzando la possibilità di accedervi in sicurezza per lo svolgimento del normale esercizio di calpestio e di posizionamento di carichi variabili.
Ne consegue che, su tale aspetto, la statuizione del Tar risulta assolutamente condivisibile. In definitiva, l'appello deve essere respinto, con condanna della società appellante al pagamento delle spese di lite
(articolo ItaliaOggi del 28.08.2018).

INCARICHI PROFESSIONALIIl rimborso spese è automatico. Stampe, fotocopie e cancelleria: difensore ristorato. AVVOCATI/ La Corte di cassazione si pronuncia sulle spettanze previste dalla legge.
Il rimborso forfettario delle spese generali (nella specie ai sensi dell'art. 1, comma 2, del dm n. 140 del 2012) compete automaticamente al difensore anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza. Quest'ultima deve ritenersi implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che grava sulla parte soccombente.
È con l'ordinanza 30.05.2018, n. 13693 che la Corte di Cassazione, Sez. I civile, si pronuncia sulla spettanza automatica del rimborso forfettario delle spese generali di giustizia di competenza dei legali. Le spese generali sono riconosciute all'avvocato per legge.
I giudici di Cassazione ricordano che l'articolo 13, comma 10, della legge numero 147/2012, stabilisce che «oltre al compenso per la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale, oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma per il rimborso delle spese forfetarie».
La previsione legale del rimborso forfettario del 15% comporta, quindi, il diritto ad ottenere tale somma anche a prescindere da un'esplicita indicazione delle stesse in sentenza. Quando si parla di spese generali i giudici fanno riferimento ad esempio, alle numerose stampe e fotocopie effettuate dal legale per partecipare ai processi, alle spese di cancelleria, a quelle per reperire il materiale per studiare la questione giuridica e così via.
La mancata liquidazione in favore dell'avvocato della parte vittoriosa delle somme dovute per spese generali costituisce un errore materiale della sentenza, che può essere corretto con il procedimento di cui agli articoli 287 e seguenti cod. proc. civ., in quanto l'omissione riguarda una statuizione di natura accessoria e a contenuto normativamente obbligato, che richiede al giudice una mera operazione tecnico-esecutiva, da svolgersi sulla base di presupposti e parametri oggettivi
(articolo ItaliaOggi del 30.08.2018).
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MASSIMA
8. Il quinto motivo, infine, che censura la condanna alle spese inflitta al Veronese dal Tribunale di Bolzano e la sua quantificazione, è infondato.
8.1. Il giudice di merito, nell'applicare il principio di soccombenza -certamente non incorrendo, per ciò solo, nel vizio di violazione di legge (cfr., ex plurimis, Cass. n. 19613 del 2017; Cass. n. 8421 del 2017; Cass. n. 14349 del 2012; Cass. nn. 17145 e 25270 del 2009)- ha liquidato le spese giudiziali «...secondo i criteri di cui al d.m. 20.07.2012, n. 140, preso come riferimento lo scaglione da € 100.000,01 a € 500.000,00 ed applicati i valori medi di liquidazione, con riduzione del 50% dei soli valori medi della fase decisoria, in considerazione della ridotta attività processuale espletata nella detta fase (partecipazione ad un'unica udienza di discussione senza redazione di memorie conclusionali)» (cfr. pag. 11 del decreto impugnato).
8.2. Il ricorrente assume che tale decisione violerebbe «platealmente» il complesso normativo desumibile dal d.m. n. 140 del 2012: «in primo luogo, perché la quantificazione dei compensi ... avrebbe dovuto essere, a norma di legge, inferiore, ed in secondo luogo perché non avrebbe potuto comunque pronunciarsi la condanna anche al rimborso forfettario pari al 12,5%» (cfr. 48 del ricorso).
8.2.1. Quest'ultima doglianza è infondata atteso che l'art. 1, comma 2, del d.m. predetto (oggi sostituito dal d.m. n. 55 del 2014, ma qui applicabile ratione temporis), prevede[va] che «nei compensi non sono comprese le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella concordata in modo forfettario».
Posta, allora, la diversità tipologica e concettuale chiaramente esistente tra compenso spettante al difensore e spese dal medesimo sostenute nell'espletamento dell'attività professionale svolta per il cliente, giova solo ricordare, da un lato, che le spese cd. generali (o forfetarie) sono quelle di norma sostenute durante una causa, la cui dimostrazione è difficile oppure oltremodo gravosa, sicché il loro rimborso è dovuto anche senza la prova del relativo sostenimento; dall'altro, che costituisce principio consolidato quello secondo il quale il rimborso cd. forfetario delle spese generali costituisce una componente delle spese giudiziali, la cui misura è predeterminata dalla legge, che spetta automaticamente al professionista difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di apposita istanza, dovendosi quest'ultima ritenere implicita nella domanda di condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte soccombente (cfr. Cass. 15818 del 2013, in motivazione; Cass. n. 4209 del 2010).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto della controversia è l’assoggettamento a contributo di costruzione delle autorimesse ubicate al piano terra delle nuove costruzioni assentite con il permesso impugnato in parte qua.
Deve darsi atto che parte ricorrente tende a confondere i parcheggi pertinenziali esterni al fabbricato, per i quali il Comune non ha calcolato alcun costo di costruzione, con le autorimesse chiuse e collocate al piano terra dei nuovi edifici.
La pretesa che si tratti, anche per queste ultime, di “opere di urbanizzazione” che rientrano nella previsione di cui all’art. 17 del dpr 380/2001, in virtù del disposto dell’art. 11 della legge Tognoli del 1989, non può essere condivisa.
La suddetta previsione recita “Le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell’art. 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977”.
Le opere e gli interventi previsti dalla legge Tognoli sono i parcheggi da realizzare nel sottosuolo o al piano terreno dei fabbricati o nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato.
Si tratta pertanto di destinazioni a parcheggio o di locali nel sottosuolo di edifici o di aree pertinenziali o, all’evidenza, di locali al piano terra di edifici preesistenti.
Già la legge del 1989, nonostante dovesse affrontare la mancanza di parcheggi pertinenziali, non vi ricomprende autorimesse fuori terra in aree esterne al fabbricato.
Non si prevede la costruzione di nuovi volumi fuori terra, ma solo la destinazione ad autorimessa di locali al piano terra di edifici già esistenti per i quali il contributo di costruzione era stato già assolto.
Ai sensi dell’art. 9, primo comma, lett. f), della legge n. 10/1977 [e, oggi, ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001], il contributo per il rilascio della concessione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Il carattere eccezione della previsione esclude una interpretazione estensiva della stessa a ipotesi non strettamente previste.
Per i parcheggi da realizzare in costruzioni di nuova realizzazione trova applicazione la previsione di cui all’art. 41-sexies della legge n. 1150/1942, il quale impone che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse” siano “riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Tali spazi, a differenza di quelli previsti dall’art. 41-quinquies, non sono qualificabili come aree pubbliche conteggiabili nella dotazione degli standards, ed inoltre, in seguito alla novella di cui all'art. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246 (“Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005”), che ha aggiunto un secondo comma all’art. 41-sexies, non sono assoggettati a vincoli pertinenziali e sono dunque autonomamente trasferibili.
Infine, perché si possa beneficiare dell’esonero dal contributo concessorio, deve trattarsi di parcheggi da realizzare, con vincolo di pertinenzialità alle unità immobiliari dei residenti, in edifici già esistenti (nel sottosuolo, e completamente interrati, o in locali al piano terreno) o comunque -sempre a uso esclusivo dei residenti- al servizio di edifici già esistenti (su aree esterne o anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne).
La giurisprudenza di diverso tenore invocata da parte ricorrente riguarda controversie alle quali si applicano leggi regionali che hanno, come nel caso della legge regione Lombardia n. 12/2005, ampliato l’ambito di applicazione dell’esonero anche a parcheggi non collegati ad edifici esistenti.
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... per l'annullamento:
   - del provvedimento del Comune di Correggio (R.E.), notificato alla società Ed. in data 14/12/2016, con il quale è stato comunicato l'avvenuto rilascio del permesso di costruire n. 2016/11537, prot. n. 16206 datato 02/09/2016, subordinato al pagamento del contributo di costruzione anche per le autorimesse di pertinenza;
   - del permesso di costruire opere di nuova costruzione per la realizzazione di edificio residenziale, limitatamente alla parte in cui impone alla ricorrente il pagamento del costo di costruzione anche per le autorimesse di pertinenza; nonché di qualsiasi altro atto connesso, presupposto e/o conseguente non conosciuto ed anche indirettamente connesso agli atti sopra indicati;
   - nonché per l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione comunale di restituire le somme percepite a titolo di contributo di concessione connesso al permesso di costruire n. 2016/11537 del 02/09/2016 e la conseguente condanna del Comune di Correggio a corrispondere le somme dovute, unitamente ad interessi e rivalutazione; del diritto della ricorrente al risarcimento dei danni subiti per effetto dei provvedimenti impugnati e per la condanna dell'amministrazione al risarcimento del danno subito dalla ricorrente da quantificarsi in corso di causa o da liquidarsi in via equitativa.
...
FATTO
Con ricorso, spedito per la notifica il 09.02.2017 e depositato il successivo 21 febbraio, la società Ed. impugna il permesso di costruire richiesto al Comune di Correggio nella parte in cui vengono richiesti i costi di costruzione anche per la superficie delle autorimesse.
Avverso il provvedimento, nella parte impugnata, la ricorrente deduce la violazione di legge per errata applicazione degli artt. 9, comma 1, lett. f), della legge 10/1977 e 11 della legge 24.03.1989 n. 122, dell’art. 17 del dpr 380/2001, eccesso di potere per mancanza assoluta di motivazione, per carenza di istruttoria, per contraddittorietà ed ultroneità nei fini, atteso che l’art. 17 del dpr 380/2001 esonera, secondo la prospettazione attorea, dal contributo di costruzione “le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici” e che, in base all’art. 11 della legge Tognoli (122/1989) sono opere di urbanizzazione anche i parcheggi ubicati nelle nuove costruzioni realizzati nella misura di legge (1 metro quadrato per ogni 10 metri cubi di costruzione).
Il 14.04.2017 si è costituito il Comune di Correggio che resiste nel merito rappresentando che:
   - l’attività edificatoria prevedeva parcheggi pertinenziali per una dotazione di 366,22 mq, ossia in misura superiore rispetto ai dovuti 237,28 mq;
   - il conteggio del contributo di costruzione veniva eseguito calcolando, tra l’altro, la quota di costo di costruzione dovuta per le autorimesse, senza tenere conto delle superfici scoperte adibite a parcheggio.
La difesa del Comune, inoltre, eccepisce la tardività del ricorso per essere stato notificato oltre i termini di decadenza applicabili in quanto viene contestato, non il mero calcolo del contributo, ma i presupposti per la sua applicazione (cita Consiglio di Stato, sezione V, 28.05.2012, n. 3122; sezione IV, 10.03.2011, n. 1565) e specifica che parte ricorrente pretende di assoggettare ad autorizzazione gratuita non semplici parcheggi, ossia posti auto scoperti, ma vere e proprie di autorimesse coperte sopra terra, ossia garage che, in quanto parte dell’immobile assentito, implicano l’occupazione di una volumetria rilevante ai fini edificatori e sono, pertanto, oggetto di autorizzazione e di corrispondente contribuzione e non rientrano nelle opere di urbanizzazione.
Conclude il Comune che, a fronte di uno standard minimo richiesto di 237,28 mq di parcheggio, Ed. ha realizzato 195 mq di parcheggio in area cortiliva per i quali nessun costo è stato addebitato, essendo stati considerati solo i 162,09 mq relativi alle autorimesse.
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DIRITTO
Il ricorso è infondato e ciò esime il Collegio dallo scrutinio della eccezione di tardività proposta dal Comune resistente.
Oggetto della controversia è l’assoggettamento a contributo di costruzione delle autorimesse ubicate al piano terra delle nuove costruzioni assentite con il permesso impugnato in parte qua.
Deve darsi atto che parte ricorrente tende a confondere i parcheggi pertinenziali esterni al fabbricato, per i quali il Comune non ha calcolato alcun costo di costruzione, con le autorimesse chiuse e collocate al piano terra dei nuovi edifici.
La pretesa che si tratti, anche per queste ultime, di “opere di urbanizzazione” che rientrano nella previsione di cui all’art. 17 del dpr 380/2001, in virtù del disposto dell’art. 11 della legge Tognoli del 1989, non può essere condivisa.
La suddetta previsione recita “Le opere e gli interventi previsti dalla presente legge costituiscono opere di urbanizzazione anche ai sensi dell’art. 9, primo comma, lettera f), della legge 28.01.1977”.
Le opere e gli interventi previsti dalla legge Tognoli sono i parcheggi da realizzare nel sottosuolo o al piano terreno dei fabbricati o nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato.
Si tratta pertanto di destinazioni a parcheggio o di locali nel sottosuolo di edifici o di aree pertinenziali o, all’evidenza, di locali al piano terra di edifici preesistenti (tra le tante da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 02.02.2017, n. 450).
Già la legge del 1989, nonostante dovesse affrontare la mancanza di parcheggi pertinenziali, non vi ricomprende autorimesse fuori terra in aree esterne al fabbricato.
Non si prevede la costruzione di nuovi volumi fuori terra, ma solo la destinazione ad autorimessa di locali al piano terra di edifici già esistenti per i quali il contributo di costruzione era stato già assolto (così, ex multis, Tar Sicilia, Catania, II, 1576/2016, Cons. St., V, n. 3690/2014 e n. 5676/2009, nonché Cons. St., IV, n. 2185/ 2012 e n. 1565/ 2011).
Ai sensi dell’art. 9, primo comma, lett. f), della legge n. 10/1977 [e, oggi, ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. c), del d.p.r. n. 380/2001], il contributo per il rilascio della concessione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Il carattere eccezione della previsione esclude una interpretazione estensiva della stessa a ipotesi non strettamente previste.
Per i parcheggi da realizzare in costruzioni di nuova realizzazione trova applicazione la previsione di cui all’art. 41-sexies della legge n. 1150/1942, il quale impone che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza delle costruzioni stesse” siano “riservati appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Tali spazi, a differenza di quelli previsti dall’art. 41-quinquies, non sono qualificabili come aree pubbliche conteggiabili nella dotazione degli standards (Così, Sez. IV, 08.01.2013 n. 32), ed inoltre, in seguito alla novella di cui all'art. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246 (“Semplificazione e riassetto normativo per l'anno 2005”), che ha aggiunto un secondo comma all’art. 41-sexies, non sono assoggettati a vincoli pertinenziali e sono dunque autonomamente trasferibili.
Infine, perché si possa beneficiare dell’esonero dal contributo concessorio, deve trattarsi di parcheggi da realizzare, con vincolo di pertinenzialità alle unità immobiliari dei residenti, in edifici già esistenti (nel sottosuolo, e completamente interrati, o in locali al piano terreno) o comunque -sempre a uso esclusivo dei residenti- al servizio di edifici già esistenti (su aree esterne o anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne).
La giurisprudenza di diverso tenore invocata da parte ricorrente (v. ad es. CdS IV 4937/2016) riguarda controversie alle quali si applicano leggi regionali che hanno, come nel caso della legge regione Lombardia n. 12/2005, ampliato l’ambito di applicazione dell’esonero anche a parcheggi non collegati ad edifici esistenti.
Di contro, la legge regionale Emilia Romagna n. 15/2013 all’art. 32, ove disciplina l’esonero del contributo di costruzione, rinviando all'articolo 9, comma 1, della legge n. 122 del 1989 e all'articolo 41-sexies della legge 17.08.1942, n. 1150, non consente di estendere l’ambito della gratuità ad ipotesi ulteriori rispetto a quelle previste dalla normativa statale.
Alla luce di quanto osservato il ricorso va respinto, poiché infondato (TAR Emilia Romagna-Parma, sentenza 28.03.2018 n. 89 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: PER AMPLIAMENTO, CAMBIO DI DESTINAZIONE D’USO E MANUTENZIONE STRAORDINARIA IN ZONA SISMICA NECESSARIO IL PROGETTO AL S.U.E.
In materia di reati antisismici, i lavori di ampliamento e cambio di destinazione d’uso parziale, nonché di manutenzione straordinaria di un fabbricato in zona sismica, necessitano della presentazione del progetto allo sportello unico per l’edilizia; ne consegue che l’eventuale omissione integra la contravvenzione di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 95.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla necessità o meno di presentare il progetto allo Sportello Unico dell’Edilizia in caso di interventi edilizi in zona sismica.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il Tribunale aveva condannato un imputato per i reati di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 83 e 95 e L.R. 07.01.1983, n. 9, art. 2, stante l’omesso previo deposito degli atti progettuali relativi a lavori di ampliamento e cambio di destinazione di un fabbricato di sua proprietà.
Avverso la detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo che dall’istruttoria esperita non era stato possibile desumere né le modalità né la tipologia d’intervento eseguito sull’immobile, laddove solamente in caso di realizzazione di costruzioni, riparazioni, sopraelevazioni in zona sismica vi era obbligo alla presentazione del progetto allo sportello unico per l’edilizia per essere autorizzato dall’Ufficio tecnico regionale.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno ricordato che, in materia di reati antisismici, integra la contravvenzione di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 95, qualsiasi intervento edilizio, con la sola eccezione di quelli di semplice manutenzione ordinaria, effettuato in zona sismica, comportante o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio armato, che non sia preceduto dalla previa denuncia al competente ufficio con presentazione di un progetto redatto da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato rilasciato il titolo abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la direzione di professionista abilitato (Cass. pen., Sez. III, 17.09.2014, n. 48005, G. e altro, CED, 261155; Id., Sez. III, 17.06.2010, n. 34604, T., CED, 248330).
In particolare, anzi, è stato precisato che, in tema di prevenzione del rischio sismico, il reato previsto dall’art. 95 cit. è applicabile a qualsiasi opera, eseguita in assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza che le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe per particolari categorie di interventi (in specie si trattava di opere di sostegno di cartellonistica pubblicitaria di rilevanti dimensioni, illegittimamente qualificate da delibera della regione Calabria come “opere minori”, sottratte alle leggi nazionali e regionali in materia di edilizia sismica: Cass. pen., Sez. III, 14.01.2015, n. 19185, G., CED, 263376).
Nel caso esaminato, era emerso che l’imputato aveva eseguito lavori di ampliamento e cambio di destinazione d’uso parziale, nonché di manutenzione straordinaria del fabbricato di sua proprietà in zona sismica, omettendo la presentazione del progetto allo sportello unico per l’edilizia. Alla stregua dei rilievi che precedono, quindi, l’intervento siccome eseguito, si legge nella sentenza della Cassazione, postulava la presentazione del progetto allo sportello unico, non risolvendosi in una mera ordinaria manutenzione del fabbricato (
Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.03.2018 n. 10794 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: L’ORDINE DI DEMOLIZIONE CONSERVA LA SUA EFFICACIA NEI CONFRONTI DELL’EREDE DEL CONDANNATO E NON È CONTRARIO ALLA CEDU.
Nell’ipotesi di acquisto dell’immobile per successione mortis causa intervenuto dopo la irrevocabilità della sentenza di condanna, l’ordine di demolizione conserva la sua efficacia nei confronti dell’erede del condannato stante la preminenza dell’interesse pubblico cui è preordinato il provvedimento amministrativo emesso dal giudice penale, ovverosia la tutela dell’assetto paesaggistico od urbanistico, rispetto a quello privatistico della conservazione del manufatto nel proprio patrimonio vantato dall’avente causa, non entrando in gioco, in ragione della diversa natura rivestita dalla ingiunzione demolitoria, il carattere personale della pena; ne discende, altresì, che l’ordine demolitorio non perseguendo, a differenza delle sanzioni penali detentive e pecuniarie, alcuna finalità punitiva, è del tutto conforme alla Convenzione e.d.u., essendo insuscettibile ad essere declinato in termini quantitativi che consentano di evidenziarne la particolare afflittività rispetto al patrimonio del condannato.
Il tema oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza in esame è quello relativo alla natura, penale od amministrativa, dell’ordine di demolizione ed alla sua compatibilità con i principi fissati dalla giurisprudenza della Corte e.d.u. con riferimento, in particolare, agli artt. 7 e 1, protocollo n. 1 della Convenzione e.d.u.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con cui il Tribunale, adito in funzione di G.E., aveva rigettato il ricorso con cui l’interessata, destinataria di ordine di demolizione delle opere edilizie abusive per le quali era stata pronunciata nei suoi confronti sentenza penale di condanna da parte dello stesso Tribunale, divenuta irrevocabile, aveva richiesto la revoca dell’ingiunzione demolitoria sul presupposto, per quanto qui interessa, della sua sopravvenuta estinzione per prescrizione e della propria estraneità al procedimento penale, essendo stata la pronuncia di condanna e la conseguente sanzione accessoria resa nei confronti di altro soggetto, deceduto, cui era subentrata jure successionis.
Avverso tale sentenza aveva proposto ricorso per cassazione l’interessata, in particolare sostenendo che l’ordine di demolizione non può ricadere su di un soggetto estraneo all’illecito penale, tale essendo la condizione della stessa, erede del condannato deceduto, e che sotto tale profilo l’ordinanza impugnata si poneva in contrasto con i principi sia sovrannazionali (art. 7 Cedu) che interni (art. 42 c.p.) secondo cui nessuno può essere punito per un fatto che non abbia commesso, dovendo la pena seguire la persona e non potendo ricadere su soggetti ad essa estranei: anche considerando la natura amministrativa dell’ordine di demolizione, trattasi pur sempre di una pena accessoria alla condanna penale, tanto è vero che la stessa viene revocata nel caso di improcedibilità dell’azione penale o per morte del reo quando il decesso interviene in corso di causa.
La Corte di cassazione, nel respingere il ricorso dell’interessata, ha ricordato che è pacifico nella giurisprudenza di legittimità che l’ordine di demolizione delle opere abusive emesso dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono in rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o personale di godimento, anche se si tratti di soggetti estranei alla commissione del reato: esso conserva, pertanto, la sua efficacia anche nei confronti dell’erede o dante causa del condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui siano emanati, dall’ente pubblico cui è affidato il governo del territorio, provvedimenti amministrativi con esso assolutamente incompatibili (Cass. pen., Sez. III, 11.12.2009, n. 47281, A., CED, 245403; Id., Sez. III, 23.10.2015, n. 42699, C., CED, 265193 che ha ritenuto legittimamente eseguibile l’ordine di demolizione di immobile conferito, dall’erede dell’autore dell’abuso, in fondo patrimoniale, oggetto di successiva azione revocatoria esperita dai creditori).
È chiaro dunque che la titolarità del manufatto, a qualunque titolo conseguita, fa sì che anche i terzi subiscano le conseguenze della demolizione, allo stesso modo in cui sono soggetti agli effetti della acquisizione gratuita del manufatto con la relativa area di sedime al patrimonio indisponibile del Comune, d.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 31, in quanto la natura pubblicistica dell’ordine che colpisce il bene abusivo in ragione della lesione arrecata all’ambiente, prescinde dalle vicende traslative di natura civilistica (Cass. pen., Sez. III, 11.04.2014, n. 16035, A., CED, 259802; Id., Sez. III, 23.10.2015, n. 42699, C., CED, 265193).
Conclusione questa che peraltro vanifica, per i Supremi Giudici, alla radice l’ulteriore rilievo difensivo relativo all’eccessiva severità della pena ritenuta dalla Corte di Strasburgo quale elemento costitutivo della natura penale della sanzione: non perseguendo l’ordine di demolizione, a differenza delle sanzioni pecuniarie applicate nella fattispecie sottoposta all’esame dei giudici europei, alcuna finalità punitiva ne consegue l’insuscettibilità della medesima ad essere declinata in termini quantitativi che consentano di evidenziarne la particolare afflittività rispetto al patrimonio del condannato.
Né d’altra parte potrebbe ritenersi, sempre con riferimento all’ordinamento sovrannazionale, che la pronuncia resa dalla Corte di Strasburgo in ordine alla violazione dell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e del conseguente principio del ne bis in idem discendente dal sistema del doppio binario, amministrativo e penale, relativo alle norme di diritto interno volte alla repressione degli abusi di mercato in seguito alle modifiche apportate dalla L. 18.04.2005, n. 62 al D.Lgs. 24.02.1998, n. 58 per essere stati i ricorrenti perseguiti, dopo l’applicazione delle sanzioni amministrative particolarmente afflittive sul piano patrimoniale, nell’ambito di un procedimento penale per gli stessi fatti, possa avere ricadute dirette sulla fattispecie in esame (cfr. Cedu 04.03.2014, Grande Stevens c. Italia) nella quale in tanto scatta, nell’ottica di garantire le esigenze di celerità sottese alla riduzione in pristino dell’assetto del territorio, l’ordine di demolizione giudiziale in quanto non abbia trovato esecuzione quello amministrativo: lungi dall’attuare una duplicazione sanzionatoria per il medesimo fatto illecito, la sanzione in esame resta sempre la medesima, e dunque di natura amministrativa, ancorché irrogabile dal giudice penale all’esito dell’affermazione della responsabilità penale che peraltro opera a prescindere dal fatto come sopra evidenziato che l’opera abusiva sia di proprietà del soggetto condannato (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 05.03.2018 n. 9886 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: IL C.D. EQUILIBRIO URBANISTICO NON È SUFFICIENTE A GIUSTIFICARE L’ESISTENZA DEL PERICULUM PER IL REATO PAESAGGISTICO.
In tema di sequestro preventivo, al fine di ritenere sussistente il periculum in mora legittimante l’instaurazione ed il permanere del vincolo cautelare, in relazione al reato paesaggistico, è imprescindibile fare riferimento non tanto e non solo all’incidenza dell’uso degli immobili sul carico urbanistico (essendo ciò rilevante per il reato edilizio), ma è necessaria la valutazione circa il permanere della lesività della struttura abusiva già completata, sotto il profilo del pericolo concreto per il paesaggio, inteso in relazione all’assetto geomorfologico, all’assetto idraulico e all’assetto della costa.
La questione affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame verte sulla possibilità di giustificare l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo disposto anche in presenza di un reato paesaggistico con il semplice richiamo all’esistenza stessa dell’opera abusiva.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con cui il Tribunale aveva rigettato la richiesta di riesame avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari relativo ad un immobile (e più dettagliatamente della sopraelevazione costituente il terzo piano fuori terra di un immobile, nonché della scala in cemento armato realizzata in luogo dell’immobile di collegamento tra i due corpi di fabbrica insistenti in loco, il sottotetto costituente copertura dell’intero fabbricato, la veranda fronte mare sul suolo demaniale per mq 3,20) in relazione ai reati di cui all’art. 110 c.p. e d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c), art. 110 c.p. e artt. 54 e 1161 c. nav., art. 110 c.p. e D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 e artt. 110 e 323 c.p. In particolare, la decisione era stata assunta a seguito dell’annullamento con rinvio pronunciato dalla stessa Cassazione di una precedente ordinanza che confermava il menzionato decreto di sequestro preventivo.
La sentenza della Cassazione aveva rilevato che il sequestro trovava fondamento essenzialmente nella contestazione di cui al capo B (art. 110 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), incentrata sulla inosservanza delle previsioni del Piano stralcio di assetto idrogeologico della Regione Calabria, dalla quale era scaturita l’illegittimità dei titoli edilizi rilasciati ai proprietari dell’immobile. La pronuncia censoria aveva trovato ragione unicamente nel fatto che, in relazione al periculum in mora, il giudice del riesame aveva omesso di accertare in concreto se l’uso dell’immobile, abusivamente realizzato in zona vincolata, determinasse un aggravamento delle conseguenze del reato, istituendo una sorta di “automatismo” tra detto uso e l’alterazione dell’interesse tutelato dal vincolo.
Decidendo quindi in sede di rinvio il Tribunale del riesame si era diffuso sulle ragioni che a suo avviso rendevano sussistente il periculum in mora, legittimante l’instaurazione ed il permanere del vincolo cautelare, facendo riferimento all’incidenza dell’uso degli immobili sul carico urbanistico.
Contro l’ordinanza proponevano nuovo ricorso per cassazione gli indagati, in particolare lamentando che il Tribunale aveva omesso del tutto di pronunciarsi sul tema rimarcato dalla sentenza di annullamento, ovvero la relazione tra uso dell’immobile e aggravamento delle conseguenze del reato perché, pur non essendo stato contestato alcun profilo urbanistico, la valutazione del Tribunale aveva fatto perno esclusivamente sull’incidenza dell’uso dei beni sul carico urbanistico ed aveva, quindi, omesso ogni valutazione circa le conseguenze dell’utilizzo dell’immobile in relazione alla ratio delle disposizioni del vincolo PAI. Aggiungevano gli indagati che nel caso concreto non sussisteva pericolo per la sicurezza e l’incolumità pubblica, alla cui tutela correlano il vincolo Pai, e l’incongruenza di un sequestro che funzionale a fronteggiare siffatto pericolo aveva ad oggetto il bilocale sito all’ultimo piano dell’edificio e non questo nella sua interezza.
La tesi ha convinto gli Ermellini che, nel dichiarare fondato il ricorso, hanno osservato come effettivamente il Tribunale aveva posto la sua attenzione sull’incidenza dell’utilizzo del bene sul carico urbanistico, ovvero sull’equilibrio urbanistico, che però è cosa diversa dalla preservazione delle coste e dalla sicurezza idrogeologica.
Sul punto, i Supremi Giudici hanno ricordato che in una recente decisione (Cass. pen., Sez. III, 28.11.2016, n. 50336, G., CED, 268331) si è rammentato che secondo la giurisprudenza di legittimità più recente la mera esistenza di una struttura abusiva ultimata “non integra i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in assenza di ulteriori elementi idonei a dimostrare che la disponibilità della stessa, da parte del soggetto indagato o di terzi, possa implicare una effettiva lesione dell’ambiente e del paesaggio” (Cass. pen., Sez. III, 13.10.2015 n. 48958, G., CED, 266011; Id., Sez. III, 27.10.2010, n. 40486, Pm in proc. P. e altro, CED, 248701 ha precisato che “l’esclusione dell’idoneità dell’uso della cosa a deteriorare ulteriormente l’ecosistema, protetto dal vincolo, deve formare oggetto di un esame particolarmente approfondito”; principio di recente ribadito da Cass. pen., Sez. III, 24.08.2016, n. 35456, F., inedita).
Da qui, dunque, la fondatezza del ricorso, con nuovo annullamento dell’ordinanza (Corte di Cassazione, Sez. IV penale, sentenza 28.02.2018 n. 9196 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: IL N.O. RILASCIATO DOPO L’ESECUZIONE DEI LAVORI IN MANCANZA DELLE CONDIZIONI NON EQUIVALE AD AUTORIZZAZIONE PAESAGGISTICA.
L’autorizzazione postuma da parte dell’autorità amministrativa preposta alla tutela del vincolo, che prevede, ai sensi dell’art. 167, D.Lgs. n. 42/2004, la possibilità di una valutazione della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori già realizzati, non determina di per sé una neutralizzazione del reato contravvenzionale disciplinato dall’art. 181, comma 1, del medesimo decreto, non essendo il nulla osta intervenuto dopo l’inizio dell’attività soggetta al necessario controllo paesaggistico preventivo sufficiente per rimuovere l’antigiuridicità penalmente rilevante dell’attività già compiuta in assenza di titolo abilitativo.
La Corte di cassazione si sofferma, con la sentenza in esame, ad analizzare la questione giuridica relativa all’individuazione dei possibili effetti che possono essere esplicati dal rilascio di nulla osta paesaggistico.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva integralmente confermato la pronuncia con cui il Tribunale di Oristano aveva ritenuto l’imputato responsabile dei reati di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, artt. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 181 per aver, nella qualità di proprietario di un terreno soggetto a vincolo paesaggistico e committente, realizzato, in assenza del permesso di costruire e delle prescritte autorizzazioni, tre piste di varia lunghezza e dimensioni eliminando la vegetazione esistente formata da piante della macchia mediterranea e livellando il terreno.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo l’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nella specie per aver ritenuto l’irrilevanza del nulla osta tardivamente conseguito dall’imputato atteso che l’assenso della P.A. in relazione al vincolo paesaggistico, sia pure ottenuto ad opere già ultimate, dimostrava che le stesse non erano incompatibili con l’ambiente, attestandone al contrario la conformità ed agli strumenti urbanistici operativi al momento della loro realizzazione, ed avendo perciò in tal caso il nulla osta efficacia sanante.
La tesi è stata respinta dalla Corte di cassazione che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, ha ribadito il costante orientamento giurisprudenziale secondo cui l’autorizzazione paesaggistica costituisce, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146, comma 4, atto autonomo e presupposto rispetto agli altri titoli edilizi legittimanti l’intervento edilizio e, all’infuori dei casi tassativamente previsti dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167, commi 4 e 5, non può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli interventi.
Pertanto l’autorizzazione postuma da parte dell’autorità amministrativa preposta alla tutela del vincolo, che prevede, ai sensi del citato art. 167, la possibilità di una valutazione della compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori già realizzati, non determina di per sé una neutralizzazione del reato contravvenzionale disciplinato dall’art. 181, comma 1, del medesimo decreto legislativo, non essendo il nulla osta intervenuto dopo l’inizio dell’attività soggetta al necessario controllo paesaggistico preventivo sufficiente per rimuovere l’antigiuridicità penalmente rilevante dell’attività già compiuta in assenza di titolo abilitativo (Cass. pen., Sez. III, 07.05.2010, n. 17535, M., CED, 247166; Id., Sez. III, 03.07.2007, n. 37318, C., CED, 237562; Corte Cost., ord. n. 158 del 1998).
È tuttavia prevista, in deroga alla regola generale, una speciale ipotesi di estinzione del reato in presenza di autorizzazione postuma allorquando questa venga rilasciata alle condizioni ed all’esito della speciale procedura di cui all’art. 181, comma 1-quater dello stesso decreto.
Trattasi invero di un procedimento applicabile ai soli interventi ivi tassativamente indicati, caratterizzati da un impatto sensibilmente più modesto sull’assetto del territorio vincolato rispetto agli altri considerati nella medesima disposizione di legge, che postula, in ogni caso, l’osservanza di una rigida sequenza temporale che, come ritenuto dalla giurisprudenza, non può prescindere dal necessario parere della sovrintendenza che la norma espressamente prevede e qualifica come vincolante (Cass. pen., Sez. III, 13.06.2016, n. 24410, P. e altro, CED, 267191; Id., Sez. III, 07.03.2008, n. 12951, S., CED, 239355), né ammette equipollenti (Cass. pen., Sez. III, 29.11.2011, n. 889, F., CED, 251639).
All’infuori di tali puntuali condizioni il rilascio dell’autorizzazione paesaggistica postuma, comportando la qualificata ricognizione dell’assenza di conseguenze dannose o pericolose per l’ambiente, inibisce solo la demolizione e/o la riduzione in pristino dello stato dei luoghi che ha funzione direttamente ripristinatoria del bene offeso (Cass. pen., Sez. III, 03.07.2007, n. 37318; Id., Sez. III, 26.11.2002, n. 40269, N., CED, 222703; Id., Sez. III, 03.07.2007, n. 37318, cit.) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2018 n. 8853 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: PER LA REALIZZAZIONE DI UNA PISCINA ACCESSORIA AD UN FABBRICATO È NECESSARIO IL P.D.C. NON ESSENDO QUALIFICABILE COME PERTINENZA.
Affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza, tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso di costruire, è necessario che esso sia preordinato a un’oggettiva esigenza funzionale dell’edificio principale, sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non superiore al 20% di quello dell’edificio cui accede, di guisa da non consentire, rispetto a quest’ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (fattispecie relativa alla realizzazione di una piscina).
La questione oggetto di esame da parte della Cassazione verte sulla frequente nozione di pertinenza e sulla realizzabilità con titolo abilitativo semplificato di manufatti apparentemente svolgenti una funzione accessoria.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva confermato la sentenza del Tribunale con cui l’imputata era stata condannata in relazione al reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) (per avere realizzato, in assenza del permesso di costruire, una piscina interrata di forma rettangolare, delle dimensioni di metri 7,70x13,35, profonda circa metri 2,30, un vano interrato delle dimensioni di metri 2,00x2,00x2,70, due docce in muratura e un bagno retrostante, delle dimensioni di metri 1,70x1,20; nonché, in totale difformità dal permesso di costruire, una scala scoperta in posizione e di dimensioni diverse rispetto a quelle autorizzate, una maggiore profondità del porticato, un ampliamento dell’immobile e la modifica della sua partizione interna).
Per quanto qui di interesse, i giudici di merito avevano escluso la natura pertinenziale della piscina e dei manufatti a servizio della stessa, in considerazione delle dimensioni non trascurabili e delle caratteristiche della stessa, con la conseguente disapplicazione del permesso di costruire in sanatoria rilasciato.
Avverso la detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputata, in particolare sostenendo l’errata esclusione della pertinenzialità della piscina, essendo la stessa posta a servizio del fabbricato principale e in rapporto adeguato e non esorbitante rispetto alle esigenze di un uso normale da parte del soggetto residente nell’edificio principale, con la conseguenza che non richiedeva per la sua realizzazione il permesso di costruire ma solamente una denunzia di inizio attività (D.I.A.) o una segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.), trattandosi di opera priva di destinazione autonoma e non in contrasto con gli strumenti urbanistici.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno richiamato il tradizionale orientamento secondo cui, affinché un manufatto presenti il carattere di pertinenza, tale da non richiedere per la sua realizzazione il permesso di costruire, è necessario che esso sia preordinato a un’oggettiva esigenza funzionale dell’edificio principale, sia sfornito di un autonomo valore di mercato, sia di volume non superiore al20% di quello dell’edificio cui accede, di guisa da non consentire, rispetto a quest’ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione autonoma e diversa (così, da ultimo: Cass. pen., Sez. III, 14.07.2016, n. 52835, F., CED, 268552; Id., Sez. III, 30.05.2012, n. 25669, Z., CED, 253064; Id., Sez. III, 24.11.2011, n. 6593, C., CED, 252442; Id., Sez. III, 21.05.2009, n. 39067, V., CED, 244903; Id., Sez. III, 11.06.2008, n. 37257, A., CED, 241278).
Una tale analisi, rileva la S.C., era stata del tutto omessa dall’imputata, che pure ne sarebbe stata onerata alla luce della sua allegazione difensiva,non avendo indicato alcunché circa il rapporto tra la piscina e il fabbricato cui essa accede, ed avendo, anzi, compiuto una valutazione parcellizzata delle opere prive di permesso di costruire o realizzate in totale difformità da quello ottenuto, volta a sminuirne l’incidenza, dovendo, invece, essere compiuta una valutazione complessiva dell’opera (cfr., Cass. pen., Sez. III, 26.11.2014, n. 15442, P., CED, 263339; Id., Sez. III, 08.04.2015, n. 16622, C., CED, 263473), onde qualificarla, accertare il suo completamento, verificarne la rispondenza agli strumenti urbanistici e stabilirne anche il regime di assentibilità.
Dalla sola descrizione delle opere contenuta nella imputazione emergeva, comunque, per i Supremi Giudici, l’idoneità a un utilizzo autonomo della piscina, in considerazione delle sue dimensioni, come pure dei manufatti a essa accessori, trattandosi di una piscina interrata di forma rettangolare, delle dimensioni di metri 7,70x13,35, profonda circa metri 2,30, di un vano interrato delle dimensioni di metri 2,00x2,00x2,70, di due docce in muratura e di un bagno retrostante, delle dimensioni di metri 1,70x1,20, di cui, oltre a non emergere la destinazione a una oggettiva esigenza funzionale dell’edificio principale, riguardo alla quale l’imputata non aveva prospettato nulla di specifico (se non la generica qualificabilità di una piscina come pertinenza), si ricavava senza necessità di indagini tecniche l’idoneità a un utilizzo autonomo (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.02.2018 n. 8540 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: IL RILASCIO DELLA AUTORIZZAZIONE ALL’OCCUPAZIONE TEMPORANEA DEL SUOLO PUBBLICO NON SCUSA L’IMPUTATO CHE COMMETTE ABUSI EDILIZI.
La valutazione dello stato soggettivo dell’imputato, al fine dell’accertamento della sua buona fede, idonea a escludere la colpevolezza, deve tenere conto tanto dei fattori esterni che possono aver determinato nell’agente l’ignoranza della rilevanza penale del suo comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del medesimo, sicché è necessaria una siffatta indagine onde verificare la esistenza di uno stato di buona fede o la scusabilità dell’errore di diritto.
La questione giuridica oggetto di esame da parte della Suprema Corte verte sul tema dell’applicabilità della scriminante della buona fede nelle contravvenzioni edilizie in costanza di un convincimento soggettivo di liceità del proprio comportamento sotto il profilo urbanistico-edilizio.
La vicenda processuale trae origine dalla sentenza con cui il Tribunale aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell’imputato in relazione al reato di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma1, lett. b), contestatogli per avere realizzato, in assenza di titolo abilitativo e in contrasto con gli strumenti urbanistici, una pedana delle dimensioni di metri 6x5 e della superficie di 30 metri quadrati, utilizzata come area per il consumo di alimenti nell’anno 2015 e nell’anno 2016 per un tempo superiore a novanta giorni, ritenendo mancante l’elemento soggettivo di tale reato, in conseguenza del rilascio da parte della amministrazione comunale di autorizzazione alla occupazione del suolo pubblico per un periodo superiore a sei mesi, ai sensi della L.R. Emilia Romagna n. 15 del 2013, art. 7, lett. f).
Avverso tale decisione proponeva ricorso il PM, in sintesi sostenendo che era stato impropriamente ritenuto scusabile un errore sulla legge penale, eccependo l’irrilevanza dell’atto amministrativo favorevole adottato dalla amministrazione comunale a favore dell’imputato, trattandosi solamente della autorizzazione alla occupazione del suolo pubblico e non anche ad edificare, inidonea a scusare l’errore sulla legge penale ritenuto configurabile dal Tribunale, ricordando comunque l’orientamento interpretativo secondo cui è obbligo del privato verificare comunque, anche in caso di rilascio di provvedimento favorevole da parte della pubblica amministrazione, la conformità delle opere edilizie alle norme urbanistiche.
La tesi ha convinto i Supremi giudici, che, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno accolto il ricorso del P.M., rilevando come la sentenza risultava fondata esclusivamente sul dato formale del rilascio della autorizzazione alla occupazione del suolo pubblico per un periodo non superiore a sei mesi, che avrebbe determinato nell’imputato la convinzione della liceità della sua condotta anche sul piano urbanistico-edilizio, in assenza di qualsiasi indagine a proposito delle conoscenze e delle informazioni assunte dall’imputato, nonché riguardo alle eventuali assicurazioni fornitegli dagli uffici amministrativi ai quali si era rivolto e alle prassi esistenti nella realtà territoriale di riferimento, cosicché risultava mancante il dato della evidenza della sussistenza della causa di proscioglimento che aveva determinato il G.I.P. a pronunciare la sentenza impugnata.
Nel caso in esame, il giudice, richiesto di emettere decreto penale di condanna nei confronti dell’imputato, aveva disatteso tale richiesta e pronunciato la sentenza di proscioglimento impugnata, ritenendo, sia pur implicitamente, evidente la mancanza di rilevanza penale della condotta dell’imputato, in assenza, però, di qualsiasi approfondimento circa le sue conoscenze della disciplina applicabile, il suo stato soggettivo, la sua eventuale buona fede, che avrebbero potuto ipoteticamente consentire di addivenire a una sentenza di proscioglimento per l’erroneo, ma incolpevole, convincimento della liceità della condotta (v., per i precedenti in materia: Cass. pen., Sez. VI, 22.06.2011, n. 43646, S., CED, 251045) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.02.2018 n. 8410 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: LA VALUTAZIONE DI ORDINE ECONOMICO INERENTE AL COSTO DELLE SPESE DI DEMOLIZIONE NON GIUSTIFICA IL MANTENIMENTO DELL’OPERA ABUSIVA.
La valutazione cui deve conseguire la non eseguibilità della demolizione (ovvero, il prevalente interesse pubblico e l’assenza di contrasto del manufatto con rilevanti interessi urbanistici), ove la stessa sia di ordine economico, inerente al costo delle spese di demolizione, non può qualificare l’interesse al mantenimento dell’opera abusiva, posto che ove assunta con criterio di indefettibile interesse pubblico al mantenimento dell’opera finirebbe per tradursi in fattore di contrasto con l’interesse a demolire, in contrasto con il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, che verrebbe in tale senso reso inoperante.
La questione affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame concerne un tema assai rilevante nella pratica applicazione in sede esecutiva dell’ordine di demolizione, attinente alla individuazione delle condizioni in presenza delle quali la P.A. può “bloccare” l’esecuzione di tale ordine in costanza di un interesse pubblico al mantenimento dell’opera.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il Tribunale, quale giudice dell’esecuzione, aveva revocato l’ordine di demolizione delle opere abusive, di cui alla sentenza di condanna divenuta irrevocabile, in presenza di acquisizione del bene al patrimonio del Comune e dell’adozione di una delibera comunale con la quale veniva dichiarato l’interesse pubblico al mantenimento dell’opere abusiva.
In particolare, il Consiglio comunale aveva dichiarato la prevalenza dell’interesse pubblico alla conservazione del manufatto perché da destinarsi a concessione in locazione o dismissione in conformità con quanto previsto dalla L.R. Campania n. 5 del 2013, art. 1, comma 65, e del regolamento edilizio approvato dal Comune. Sulla scorta di tali dati di fatto, il Tribunale, con il provvedimento impugnato, aveva revocato l’ordine di demolizione imposto con la sentenza di condanna.
Contro tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il P.M., in particolare sostenendo che la delibera del Comune, con cui era dichiarato il prevalente interesse pubblico alla conservazione del manufatto, conteneva una generica indicazione della destinazione dell’opera a “concessione in locazione o dismissione... in conformità a quanto previsto dalla L.R. n. 5 del 2013”, senza, peraltro, farne corretta applicazione in quanto la legge citata, che disciplina il c.d. housing sociale, all’art. 1, comma 65 prevede, quale criterio per l’assegnazione delle opere in questione, “riconoscendo precedenza a coloro che, al tempo dell’acquisizione, occupavano il cespite, previa verifica che gli stessi non dispongono di altra idonea soluzione abitativa, nonché procedure di un piano di dismissione degli stessi”, non risultando, per contro, che il Comune aveva in concreto verificato se l’occupante avesse i requisiti per concorrere all’assegnazione e non disponesse di altra utile dimora.
La tesi del P.M. è stata accolta dai giudici di legittimità che, nell’annullare l’ordinanza del tribunale, hanno ricordato che il Consiglio comunale può dichiarare legittimamente la prevalenza di interessi pubblici ostativi alla demolizione alle seguenti condizioni:
   1) assenza di contrasto con rilevanti interessi urbanistici e, nell’ipotesi di costruzione in zona vincolata, assenza di contrasto con interessi ambientali: in quest’ultimo caso l’assenza di contrasto deve essere accertata dall’amministrazione preposta alla tutela del vincolo;
   2) adozione di una formale deliberazione del consiglio con cui si dichiari formalmente la sussistenza di entrambi i presupposti;
   3) la dichiarazione di contrasto della demolizione con prevalenti interessi pubblici, quali ad esempio la destinazione del manufatto abusivo ad edificio pubblico, ecc. (Cass. pen., Sez. III, 10.10.2008, n. 41339, C. e altra, inedita).
La natura eccezionale di tali ipotesi rispetto a quella che dovrebbe essere la ordinaria conseguenza, ovvero l’esito demolitorio, impone una interpretazione restrittiva dei presupposti che il giudice dell’esecuzione ha il potere-dovere di verificarne la sussistenza, non potendosi fondare, la delibera comunale che dichiara l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell’assetto urbanistico violato, su valutazioni di carattere generale (Cass. pen.,Sez. III, 29.01.2013 n. 11419, B., CED, 254421; Id., Sez. III, 22.05.2013, n. 25824, CED, 257140).
Il tribunale non aveva dunque per i Supremi Giudici fatto corretta applicazione dei principi ermeneutici sopra riportati ed in particolare quello affermato nella sentenza (Cass. pen., Sez. III, 22.05.2013, n. 25824, cit.), nella quale è stato ribadito il principio secondo cui l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul ripristino dell’assetto urbanistico violato non può essere fondato su un “generico” riferimento alla destinazione, in questo caso a “concessione in locazione o dismissione... in conformità a quanto previsto dalla L.R. n. 5 del 2013”, genericamente enunciato, e da quanto affermato anche da Sez. III, 29.01.2013, n. 11419 B., cit., secondo cui non può giustificarsi l’interesse concreto nel caso in cui, di fatto, la delibera costituisce piuttosto atto di indirizzo politico in quanto rimanda a successivi atti amministrativi (anche solo al fine di verificare i presupposti applicativi della Legge Regionale c.d. sull’housing sociale) e dunque, rimanda, in definitiva, la valutazione dei presupposti di legge cui l’art. 31 cit. condiziona la non operatività della demolizione.
Dunque, per la S.C., la valutazione di ordine economico, inerente al costo delle spese di demolizione, non può qualificare l’interesse al mantenimento dell’opera abusiva, posto che ove assunta con criterio di indefettibile interesse pubblico al mantenimento dell’opera finirebbe per tradursi in fattore di contrasto con l’interesse a demolire, in contrasto con il d.P.R. n. 380 del 2001, art. 31, che verrebbe in tale senso reso inoperante (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2018 n. 8055 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: IL MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO TRA CATEGORIE NON OMOGENEE (DA CATEGORIA COMMERCIALE A RESIDENZIALE) RICHIEDE IL P.D.C.
In materia di reati edilizi, il passaggio dalla destinazione di un immobile da spogliatoio annesso ad una sala da ballo (categoria commerciale), utilizzato in via funzionale ad altro fabbricato, a due mini appartamenti (categoria residenziale) determina non solo un cambio tra categorie non omogenee, ma è anche idoneo a incidere sul carico urbanistico sul semplice rilievo che la destinazione precedente prevede una presenza saltuaria di persone, in luogo della presenza continua di chi dimora in una abitazione, né rileva la circostanza che solo con la L. n. 164 del 2014 è stato introdotto nel d.P.R. n. 380 del 2001, l’art. 23-ter (mutamento d’uso urbanisticamente rilevante), atteso che con esso il legislatore ha inteso normativizzare principi già affermati dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa, non potendosi quindi farsi discendere la conclusione secondo cui l’intervento realizzato in epoca antecedente sia comunque consentito in assenza di titolo abilitativo.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in esame attiene alla questione, annosa e ricorrente nella prassi delle aule giudiziarie, della individuazione del titolo abilitativo necessario in presenza di un mutamento di destinazione d’uso.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il Tribunale aveva condannato un imputato per il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, per avere effettuato, senza permesso di costruire, un mutamento di destinazione d’uso, senza opere, “funzionale” tra categorie non omogenee, passando dalla classe D alla classe A così rendendo l’immobile, di cui era proprietario, in origine destinato a spogliatoio a servizio della sala da ballo, in due unità abitative (mini appartamenti) con variazione degli standard urbanistici, che cedeva in locazione a terzi.
Avverso la detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo non essere stato realizzato un mutamento di destinazione d’uso incompatibile con le previsioni contenute nello strumento urbanistico, in quanto la trasformazione da spogliatoio annesso a locale sala da ballo in due unità abitative non avrebbe comportato alcun aumento del carico urbanistico, giacché erano previsti tutti gli allacci alla rete elettrica, idrica e fognaria, ma al contrario per la presenza di un singolo occupante il medesimo sarebbe stato anche meno grave. Inoltre, non poteva trovare applicazione, in quanto norma intervenuta successivamente ai fatti, la L. n. 164 del 2014, art. 23-ter rubricato “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini che, sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima, hanno ricordato che costituisce ius receptum il principio secondo cui in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d’uso senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell’ambito della stessa categoria urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d’uso sia eseguito nei centri storici, anche all’interno di una stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 05.04.2016, n. 26455, P.M. in proc. S., CED, 267106; Id., Sez. III, 03.12.2015, n. 12904, P., CED, 266483; Id., Sez. III, 24.06.2014, n. 39897, F., CED, 260422; Id., Sez. III, 13.12.2013 n. 5712, T., CED, 258686).
La destinazione d’uso è infatti un elemento che qualifica la connotazione dell’immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
In tale ambito solo gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi, possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi. Da cui l’ovvia conseguenza che le modifiche non consentite della singola destinazione, incidendo sull’assetto del territorio comunale come pianificato, incidono negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando appunto la possibilità di una gestione ottimale del territorio.
Dunque, come è stato costantemente osservato, il mutamento di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico che influisce sul carico urbanistico (TAR Campania, Sez. VII, 06.11.2017 n. 5152) tenuto conto che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi mutamenti di fatto, ma non diversi regimi urbanistici stanti le sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito della medesima categoria.
Per individuare in concreto il mutamento della precedente destinazione d’uso si dovrà tenere conto, come indicato dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. V, 24.10.1996, n. 3) della destinazione indicata nell’ultimo provvedimento abilitativo (licenza o concessione edilizia), della tipologia dell’immobile e della attitudine funzionale che il bene viene ad assumere.
Ed allora, concludono i Supremi Giudici, è evidente che il passaggio dalla destinazione dell’immobile da spogliatoio annesso ad una sala da ballo (categoria commerciale), utilizzato in via funzionale ad altro fabbricato, a due mini appartamenti (categoria residenziale) determina senza ombra di dubbio non solo un cambio tra categorie non omogenee, ma anche idoneo a incidere sul carico urbanistico sul semplice rilievo che la destinazione precedente prevedeva una presenza saltuaria di persone, in luogo della presenza continua di chi dimora in una abitazione (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.02.2018 n. 7271 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: I PARCHEGGI PERTINENZIALI OBBLIGATORI REALIZZATI NELLE NUOVE COSTRUZIONI NON POSSONO DEROGARE AGLI STRUMENTI URBANISTICI.
In materia edilizia, la deroga agli strumenti urbanistici per la realizzazione di nuovi parcheggi è consentita, in linea con le finalità della legge “Tognoli”, per gli edifici esistenti, al fine di incrementare detti spazi e purché i nuovi parcheggi si trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno degli edifici.
Ciò non significa che i parcheggi pertinenziali obbligatori, che debbono essere realizzati nelle nuove costruzioni (ai sensi della L. n. 1150 del 1942, art. 41-sexies) possano derogare agli strumenti urbanistici, giacché -se questa fosse stata l’intenzione del legislatore- la possibilità di deroga sarebbe stata inserita direttamente in quella disposizione.
Semmai, il combinato disposto della L. n. 1150 del 1942, art. 41-sexies e L. n. 122 del 1989, art. 9, comma 1 può consentire, anche nelle nuove costruzioni, l’esecuzione di parcheggi in deroga alle norme urbanistiche e quindi, dei volumi realizzabili, soltanto se ulteriori a quelli obbligatori.
La interessante questione esaminata dalla Corte di cassazione con l’ampia e approfondita decisione qui commentata è quella relativa ai rapporti tra la c.d. legge Tognoli e la normativa introdotta dall’art. 41-sexies della c.d. legge Urbanistica del 1942, al fine di verificare se per la realizzazione di parcheggi pertinenziali alle nuove costruzioni possano essere previste deroghe agli strumenti urbanistici.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte d’appello di Bari, aveva accolto l’impugnazione proposta dall’imputato proposta avverso la sentenza con cui il G.U.P. del Tribunale l’aveva invece ritenuto responsabile per due reati di abuso d’ufficio (commessi in concorso con il responsabile dell’ufficio tecnico comunale e con il progettista e direttore dei lavori), nonché per le contravvenzioni di abuso edilizio e di violazione della normativa antisismica.
I reati contestati consistevano, in particolare, in:
   - un primo delitto continuato di abuso d’ufficio per aver istigato o comunque determinato il tecnico comunale a non notificare all’imputato, quale amministratore unico della società committente, così intenzionalmente procurando a quest’ultima un ingiusto vantaggio patrimoniale, l’ordine motivato di non effettuare i lavori di cui a due dd.ii.a., che comportavano profonde modifiche all’intervento edilizio di costruzione di edificio residenziale di cui ad una precedente concessione edilizia, illegittimamente rilasciata in contrasto con le previsioni urbanistiche, ordine che sarebbe stato ex lege dovuto trattandosi di varianti che richiedevano il previo rilascio del permesso di costruire perché incidenti sui volumi, le sagome, i prospetti, i balconi e le superfici edificate in modo peraltro difforme dalle prescrizione del P.R.G. e senza il prescritto parere preventivo dell’Autorità di bacino;
   - un secondo delitto di abuso d’ufficio consistente nell’aver quindi istigato il pubblico ufficiale a rilasciare alla società dell’imputato, in assenza del prescritto parere preventivo dell’Autorità di bacino ed in violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, art. 12, comma 1, l’illegittimo permesso di costruire in variante rispetto alla predetta concessione edilizia, consentendo la realizzazione di un ulteriore piano rispetto alle precedenti previsioni progettuali, e così di nove piani rispetto ai tre autorizzabili secondo il P.R.G., violando altresì le prescrizioni in quest’ultimo stabilite quanto ad altezza massima complessiva del fabbricato e volumetria totale dell’edificio;
   -  un’ipotesi di abuso edilizio per aver quindi avviato e realizzato sino al sequestro del manufatto, in base ai suddetti titoli edilizi illegittimi e/o illeciti, un fabbricato ad uso residenziale in contrasto con le suddette prescrizioni urbanistiche e che peraltro fuoriusciva dall’area edificabile e dai lotti di proprietà della società committente occupando una porzione di suolo pubblico comunale;
   - due contravvenzioni alla disciplina in materia antisismica per aver eseguito tali lavori, in zona sismica e in modo difforme dal progetto depositato, senza darne preavviso scritto al competente ufficio tecnico regionale e senza la preventiva autorizzazione scritta di competenza di quest’ultimo.
Contro la sentenza assolutoria d’appello per insussistenza dei fatti addebitati (sostanzialmente fondata sulla rinnovazione di una perizia, che aveva escluso le principali difformità in primo grado ritenute tra i progetti e le opere realizzate e le previsioni urbanistiche e aveva evidenziato l’irrilevanza di altre minori difformità ai fini della valutazione circa la sussistenza delle fattispecie incriminatrici), proponeva ricorso per cassazione la parte civile, sostenendo l’errore in cui era incorsa la Corte d’appello nell’applicazione della legge penale in relazione ai criteri di calcolo delle altezze, dei volumi e del numero dei piani stabiliti dalle N.T.A. del comune, anche con riguardo all’interpretazione delle stesse N.T.A.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto il ricorso, pur dovendo dichiarare estinti per prescrizione i reati.
In particolare, i Supremi Giudici, per quanto qui di interesse, hanno osservato che avendo il Comune legittimamente deciso di considerare i parcheggi coperti (non interrati) ai fini del calcolo del volume massimo edificabile -e non essendo detta previsione incompatibile con la successiva legge Tognoli- quei volumi si sarebbero dovuti computare quantomeno con riferimento alla quota- arte di parcheggi obbligatori richiesti dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41-sexies rispetto al restante volume dell’edificio, potendosi soltanto escludere, ai sensi della L. n. 122 del 1989, art. 9, comma 1, -sempre che collocati nel sottosuolo o al piano terreno- i volumi degli eventuali ulteriori parcheggi realizzati in aggiunta a quelli obbligatori, per i quali varrebbero le limitazioni di trasferimento previste dalla L. n. 122 del 1989, art. 9, comma 5 (disposizione che, facendo espressamente salva la previsione di cui alla L. n. 1159 del 1942, art. 41-sexies, conferma come la speciale disciplina valga soltanto per i parcheggi diversi da quelli obbligatori).
La giurisprudenza amministrativa, peraltro, osserva la Corte di cassazione, è consolidata nell’affermare che la realizzazione di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di campagna naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola le nuove costruzioni fuori terra (Cons. Stato, Sez. IV, 26.09.2008, n. 4645; Cons. Stato, Sez. IV, 11.11.2006, n. 6065; Cons. Stato, Sez. V, 29.03.2006, n. 1608; Cons. Stato, Sez. V, 29.03.2004, n. 1662; TAR Lazio, sede di Roma, Sez. I, 16.04.2008, n. 3259; TAR Campania, Sez. II, 23.06.2010, n. 15731).
Salva diversa previsione, dunque, le opere indicate nel d.P.R. n. 380 del 2001, art. 17, comma 3, devono rispettare gli standards urbanistici, ivi compresi i limiti di cubatura edificabile (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 12.02.2018 n. 6738 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO INTERVENUTO TRA CATEGORIE URBANISTICHE DISOMOGENEE DI UTILIZZAZIONE NECESSITA DI P.D.C.
In materia edilizia, poiché l’organizzazione e la gestione del territorio comunale vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie destinazioni d’uso in tutte le loro possibili relazioni, sulle quali vanno ad incidere negativamente le modifiche non consentite alterando il rapporto con i servizi in dotazione rispetto alle singole zone, non è sufficiente dimostrare che il mutamento della destinazione d’uso sia stato eseguito in assenza di opere edilizie interne, ma occorre, per contro, provare che il cambio della destinazione presenti il requisito dell’omogeneità nel senso che sia intervenuto tra categorie urbanistiche omogenee.
Interessante la questione esaminata dalla Corte di cassazione con la sentenza qui commentata, in cui i giudici di legittimità si pronunciano nuovamente a distanza di pochi giorni (cfr. Sez. III, 15.02.2018, n. 7271, supra commentata) sul tema della individuazione del titolo abilitativo necessario al fine di eseguire interventi edilizi comportanti un mutamento dell’originaria destinazione d’uso.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui la Corte di Appello aveva confermato la pronuncia di primo grado che aveva condannato l’imputato per plurime violazioni del d.P.R. n. 380 del 2001 in materia di edilizia avendo, in assenza del permesso di costruire previsto dall’art. 44, lett. b), mutato la destinazione d’uso, all’interno di un fabbricato ubicato in zona B2 del PRG, dell’unità al piano rialzato da artigiana ad abitativa e del seminterrato da deposito ad uso anch’esso abitativo e per aver omesso di adempiere alle prescrizioni previste dagli artt. 64, 65, 71 e 72 in relazione all’utilizzo di cemento armato, nonché dagli artt. 93 e 95 trattandosi di manufatto in zona sismica.
Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo la mancanza di prove e di indizi a fondamento del mutamento di destinazione d’uso contestatogli, il quale, secondo l’univoca interpretazione della giurisprudenza amministrativa, in tanto ricorre in quanto le opere edilizie realizzate comportino un aumento volumetrico o di superficie o una trasformazione rilevante, altrimenti risolvendosi in una mera espressione della facoltà di godimento liberamente esercitabile dal proprietario dell’unità immobiliare interessata. Poiché invece nella specie non era stato dimostrato che fossero stati eseguiti nel fabbricato interventi tali da determinare modifiche della sua sagoma, superficie o volumetria, doveva escludersi il fondamento della condanna pronunciata, ben potendo la trasformazione essere effettuata con d.i.a., titolo di cui l’imputato era munito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha respinto il ricorso.
In particolare, i Supremi Giudici hanno ritenuto che la sentenza avesse correttamente disatteso le contestazioni svolte dalla difesa in ordine all’irrilevanza penale degli interventi edilizi in difetto aumenti volumetrici o di superficie del fabbricato. Non essendo in contestazione l’intervenuto mutamento di destinazione dell’unità posta al piano rialzato del fabbricato e di parte del piano seminterrato da uso artigianale ovvero di deposito, al medesimo connesso, ad uso residenziale, doveva escludersi per gli Ermellini che le attività edilizie a tal fine eseguite fossero realizzabili mediante semplice denuncia di inizio attività indipendentemente dalla loro consistenza specifica.
Nella vigente disciplina la rilevanza penale del mutamento di destinazione c.d. “senza opere”, allorquando comporti il passaggio dall’una all’altra categoria funzionale, che connota cioè il bene in relazione alla sua funzione nell’assetto urbanistico, emerge inconfutabilmente dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter, introdotto dalla Legge di conversione n. 164 del 2014 del D.L. n. 133 del 2014. Dunque, la trasformazione da destinazione artigianale così come da deposito ad uso residenziale, come nel caso di specie, costituisce oggi ex lege, un mutamento rilevante della destinazione d’uso.
Alle medesime conclusioni si perviene, comunque, osserva la S.C., anche in applicazione della previgente normativa. Il d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 10, comma 2, ribadendo le previsioni contenute nella L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60, dispone che le Regioni stabiliscono con legge quali mutamenti, connessi o meno a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti sono subordinati a permesso di costruire o a denuncia di attività.
In particolare, con riferimento al caso esaminato, la Regione Campania, con la L. 28.11.2001, n. 19, art. 2, modificata dalla L.R. 22.12.2004, n. 16, ha stabilito che possono essere realizzati in base a semplice denunzia d’inizio attività (oggi SCIA) “i mutamenti di destinazione d’uso d’immobili o loro parti, che non comportino interventi di trasformazione dell’aspetto esteriore, e di volumi e superfici”, aggiungendo che “la nuova destinazione d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite dalla strumentazione urbanistica per le singole zone territoriali omogenee” (comma 1, lett. f).
Ha inoltre stabilito che “il mutamento di destinazione d’uso senza opere, nell’ambito di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee, è libero” (comma 5). Secondo la citata normativa, pertanto, il mutamento di destinazione d’uso senza opere in tanto fuoriesce dall’orbita penale in quanto avvenga nell’ambito di categorie tra loro compatibili nell’ambito di una zona che, secondo gli strumenti urbanistici, possa definirsi territorialmente omogenea, dove il concetto di compatibilità passa necessariamente attraverso quello di categoria funzionale di cui al vigente d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter: secondo la normativa della Regione Campania il mutamento di destinazione è quindi giuridicamente irrilevante solo allorquando non determini un passaggio tra categorie funzionalmente autonome, mentre rientra nella fattispecie incriminatrice di cui al d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 quando, in assenza del permesso di costruire, si verifichi, invece, il passaggio dall’una all’altra categoria funzionale, salvo che nei centri storici dove il mutamento della destinazione d’uso rileva anche all’interno di una stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2009 n. 9894, T., CED, 243102).
Inserendosi infatti il suddetto intervento edilizio nell’ambito di un preesistente piano urbanistico, è evidente la ratio perseguita attraverso la suddetta disposizione, volta a tutelare, in considerazione della differenziazione infrastrutturale tra le singole zone, il corretto ed ordinato assetto del territorio, così da mantenere inalterato il carico urbanistico, inteso come rapporto tra insediamenti e servizi in un determinato territorio, e, conseguentemente da scongiurare il pericolo di sconvolgimento degli equilibri prefigurati dalla strumentazione urbanistica (Cons. Stato 25.05.2012 n. 759), cui si aggiunge anche quello della tutela dell’interesse patrimoniale dell’ente territoriale che si vedrebbe altrimenti privato del contributo economico correlato all’effettivo carico urbanistico conseguente alla pianificazione dell’assetto territoriale.
In tal senso si è costantemente orientata l’interpretazione della Corte di cassazione, affermando che ai fini della configurabilità del reato di cui al d.P. R. n. 380 del 2001, art. 44, nel caso di interventi eseguiti in difetto o in difformità del permesso di costruire, costituisce “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare il passaggio dall’una all’altra categoria urbanistica, essendo invece sufficiente la D.I.A. (ora SCIA) per le modifiche di destinazione che intervengano nell’ambito della stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 31.03.2016 n. 12904, P., CED, 266483; Id., Sez. III, 24.06.2016 n. 26455, P.M. in proc. S., CED, 267106 in fattispecie relativa a sequestro preventivo di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina garage ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria d’uso non residenziale alla diversa categoria residenziale; Cass. pen., Sez. III, 05.02.2014, n. 5712, T., CED, 258686 in fattispecie relativa a sequestro preventivo dei locali di un albergo, originariamente adibiti a deposito e lavanderia, trasformati in camere per gli ospiti in assenza del permesso di costruire e del nulla osta paesaggistico).
Essendo, nel caso di specie, il mutamento intervenuto tra categorie urbanistiche disomogenee di utilizzazione, quali si configurano le destinazioni artigianale e di deposito rispetto a quella residenziale, le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello dovevano per la S.C. ritenersi esatte (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.02.2018 n. 5770 - Urbanistica e appalti 3/2018).

EDILIZIA PRIVATA: È illegittima la consistenza edilizia che, pur realizzata anteriormente al 1967 ma in assenza di titolo abilitativo, in esito a C.T.U. si riveli ricadente in ambito territoriale all’epoca di edificazione già ampiamente urbanizzato.
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4. Con il primo motivo di impugnazione parte ricorrente contesta il carattere abusivo dell’opera.
Sul punto è stata svolta c.t.u., la quale con valutazione condivisibile e priva di vizi logici, ha anzitutto (cfr. relazione originaria e successiva integrazione) descritto l’immobile oggetto della controversia (cfr. p. 4 della relazione depositata in data 16.08.2012).
L’immobile in questione risulta realizzato in data anteriore al 1967, con la conseguenza che, come precisato dall’art. 31 della l. n. 1150 del 1942, “chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l’aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell’art. 7, deve chiederne apposita licenza al Podestà del Comune”. La rigorosa individuazione delle fattispecie soggette a licenza edilizia determinò, per esclusione, che al di fuori dei centri abitati o nelle zone non comprese nella pianificazione urbanistica lo jus aedificandi non fosse soggetto a limiti.
Il citato art. 31 fu poi sostituito dall’art. 10 della legge 765/1967 (c.d. legge Ponte), in cui fu previsto che “chiunque intenda nell’ambito del territorio comunale eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire quelle esistenti ovvero procedere all’esecuzione di opere di urbanizzazione del terreno, deve chiedere apposita licenza al Sindaco”, e, a seguito dell’entrata in vigore della legge 10/1977 (c.d. legge Bucalossi), fu stabilito che “ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente legge”.
Nel 1959, anno di realizzazione dei fabbricati, il Comune risultava privo di strumenti urbanistici, con la conseguenza che occorre valutare, anche a prescindere dalla mancanza di una puntuale regolamentazione e indiretta applicazione dell’art. 31 della l. n. 1150 del 1942, se il fabbricato ricada o meno all’interno del centro abitato.
In seguito alla richiesta di integrazione formulata dal collegio, il consulente con la relazione integrativa depositata, esente da vizi logici e quindi pienamente condivisibile, ha concluso nel senso della collocazione dell’immobile all’interno del centro abitato, sulla base di una serie di indici (p. 2 ss. della relazione integrativa, la relativa documentazione risulta allegata alla stessa, nonché le osservazioni alle controdeduzioni del c.t.p. p. 5 ss.), ai quali si rinvia.
La documentazione in questione, in quanto depositata presso enti pubblici in base a una richiesta formulata da ordinanza istruttoria e acquisita tempestivamente risulta utilizzabile nel corso del giudizio. Per quanto concerne il diritto di difesa si può precisare che il ricorrente ha avuto modo di contraddire su tale documentazione e non ne ha contestato l’autenticità, né deve ritenersi necessaria la partecipazione di tutte le parti del giudizio ad ogni attività svolta dal consulente, specie se tale mancata partecipazione non si traduca in un vizio del contraddittorio o del diritto di difesa.
In particolare: (punto n. 1) già nel 1910 nel progetto redatto dall’ing. So., per conto del comune per la realizzazione della scuola esistente di fronte agli edifici oggetto del giudizio, si precisa che in tale zona sono già sorti numerosi fabbricati, lasciando il suolo destinato all’edificio scolastico nel centro di essi; nel 1930 (punto n. 2), sempre con riferimento all’edificio scolastico,la relazione tecnica redatta dall’ing. Fr. osserva che l’edificio sorgerà sull’area segnata nella planimetria dell’abitato già scelto dalla commissione tecnica sanitaria; negli anni ’50, diverse delibere e atti del Comune fanno riferimento alla zona qualificandola come abitato o centro abitato (punti nn. 3,4,5); negli anni ‘40 e ‘50 risulta il completamento, la realizzazione o la stipulazione di contratti relativi al sistema fognario (punti 5,7), al sistema di illuminazione (punto 7), all’acquedotto (punto 6), alla nettezza urbana (punto n. 9).
Si tratta di documenti che, complessivamente valutati e come condivisibilmente analizzati dal consulente nelle relazioni depositate, consentono di ritenere adeguatamente provato ai fini del giudizio (nella traduzione fornita dalla giurisprudenza del “più probabile che non”) che l’immobile si trovasse all’interno del centro abitato e che nella zona in cui esso si trovava vi fosse già un agglomerato di edifici e delle strutture idonee a fornire servizi pubblici.
Ne discende che il primo motivo di ricorso non può trovare accoglimento (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.01.2018 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per la formazione del silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione dovuta e degli oneri di concessione, che dell’avvenuto deposito di tutta la documentazione prevista per l’istanza di condono. Ciò affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica da parte dell’amministrazione comunale.
Pertanto, l’assenza di completezza della domanda di sanatoria osta alla formazione tacita del titolo abilitativo, potendosi esso formare per effetto del silenzio assenso soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, rappresentando, il mero decorso del tempo, soltanto un elemento costitutivo, tra gli altri, della fattispecie autorizzativa.
In particolare la documentazione da produrre al momento della presentazione dell’istanza deve riguardare il tempo di ultimazione dei lavori, l’ubicazione, la consistenza delle opere e ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell’amministrazione comunale, differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l’aspetto formale.
Il semplice decorso del termine per provvedere costituisce, pertanto, solo uno degli elementi necessari, di per sé non sufficiente, per il perfezionamento della fattispecie, ai cui fini occorre la conformità della domanda di sanatoria al relativo modello legale.
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Per quanto concerne la mancata comunicazione di avvio del procedimento con riferimento al rigetto dell’istanza di condono occorre considerare che l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere differente in considerazione dei vizi dell’istanza in applicazione dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, come indicato in motivazione.
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Se il decorso del tempo non può incidere sulla doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo, anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive: quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
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5. Parte ricorrente eccepisce ancora l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per violazione dell’art. 35, comma 17, della l. n. 47 del 1985. In particolare, il ricorrente ha proposto nel 1986 una domanda di sanatoria e, in mancanza di alcuna risposta da parte del comune dei due anni successivi, si sarebbe formato il silenzio assenso.
Il motivo di impugnazione non risulta meritevole di accoglimento.
Come da costante orientamento della giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. St. 4703/2017; Cons. St. 187/2017) per la formazione del silenzio-assenso sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione dovuta e degli oneri di concessione, che dell’avvenuto deposito di tutta la documentazione prevista per l’istanza di condono. Ciò affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica da parte dell’amministrazione comunale.
Pertanto, l’assenza di completezza della domanda di sanatoria osta alla formazione tacita del titolo abilitativo, potendosi esso formare per effetto del silenzio assenso soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, rappresentando, il mero decorso del tempo, soltanto un elemento costitutivo, tra gli altri, della fattispecie autorizzativa.
In particolare la documentazione da produrre al momento della presentazione dell’istanza deve riguardare il tempo di ultimazione dei lavori, l’ubicazione, la consistenza delle opere e ogni altro elemento rilevante affinché possano essere utilmente esercitati i poteri di verifica dell’amministrazione comunale, differenziandosi il tacito accoglimento della domanda di condono dalla decisione esplicita solo per l’aspetto formale. Il semplice decorso del termine per provvedere costituisce, pertanto, solo uno degli elementi necessari, di per sé non sufficiente, per il perfezionamento della fattispecie, ai cui fini occorre la conformità della domanda di sanatoria al relativo modello legale (TAR Catania, 24.03.2016, n. 869; TAR Lecce, 12.04.2012, n. 625).
Nel caso di specie, l’incompletezza della documentazione depositata emerge dalle richieste di integrazioni formulate da parte del comune resistente (doc. 5 del fascicolo di parte resistente), tra le quali presenta particolare rilievo la mancanza del titolo di proprietà o di altra documentazione idonea.
Sul punto, occorre precisare che la volontà contraria del proprietario appare ostativa alla stessa possibilità per il ricorrente di ottenere il provvedimento ad effetti incrementativi di sanatoria, in base al prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa. Nel caso di specie il proprietario del bene immobile ha manifestato espressamente la propria contrarietà alla sanatoria dell’immobile, circostanza di per sé ostativa all’esito positivo della richiesta di condono formulata da parte ricorrente (di alcun valore è la mera variazione catastale, quale proprietà superficiaria, in mancanza di un titolo idoneo al trasferimento di un tale diritto dal dante causa al ricorrente).
L’originaria autorizzazione alla realizzazione del capannone contenuta nel contratto di locazione (da realizzarsi in senso conforme alla normativa urbanistica vigente) appare inidonea a consentire la realizzazione di un immobile difforme dalla normativa edilizia per poi chiederne la regolarizzazione; in sostanza altro è il consenso a realizzare un bene, altro è il consenso alla regolarizzazione o al condono (specie se si considera l’espresso dissenso manifestato dal proprietario).
La motivazione del provvedimento appare sufficiente per descrivere la violazione posta in essere nel caso di specie dal ricorrente. Il riferimento all’abusività deve, in particolare, essere collegato alla documentazione richiesta (doc. 5 del fascicolo di parte resistente ove emerge anche la consegna delle richieste di integrazione sia al ricorrente stesso che alla moglie) e non prodotta dal ricorrente, con la conseguenza che il rigetto dell’istanza di condono appare adeguatamente motivato con la mancanza della documentazione richiesta che si traduce nell’abusività dell’immobile per contrasto con la normativa edilizia.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere “legittimo” in capo al proprietario dell’abuso, non destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa giuridicamente qualificata. La giurisprudenza amministrativa ha infatti evidenziato che non si può applicare a un fatto illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sulla doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo, anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver riscontrato opere abusive (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21.03.2017, n. 1267; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11.07.2014, n. 3568; Sez. IV, 31.08.2010, n. 3955): quando è realizzato un abuso edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21.03.2017, n. 1267; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060, cit.).
Per quanto concerne la mancata comunicazione di avvio del procedimento con riferimento al rigetto dell’istanza di condono occorre considerare che l’esito del procedimento non avrebbe potuto essere differente in considerazione dei vizi dell’istanza in applicazione dell’art. 21-octies della l. n. 241 del 1990, come indicato in motivazione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II, sentenza 05.01.2018 n. 17 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Certamente non si può sostenere che il vincolo idraulico ex art. 96, lett. f), del RD 523/1904 sia derogabile semplicemente per effetto degli usi locali.
La norma ha, al contrario, la finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni.
La natura degli interessi pubblici tutelati fa ritenere che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di rispetto.
Sfuggono a questa regola solo le costruzioni che abbiano un’oggettiva funzione ambientale di filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità.

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Nel caso in esame tuttavia non possono essere trascurate le conseguenze derivanti dal rilascio della licenza edilizia e dal decorso del tempo.
In particolare il titolo edilizio, benché illegittimo per contrasto con il preesistente vincolo idraulico, cambia la situazione giuridica dell’immobile, in quanto elimina la presenza formale dell’abuso.
Il carattere abusivo si concentra quindi sugli interventi di ristrutturazione e ampliamento. Occorre peraltro precisare che le innovazioni non hanno condotto a un organismo edilizio radicalmente diverso, e dunque non vi è stata alcuna soluzione di continuità rispetto al rustico originario.
In tale contesto risulta possibile superare la questione dell’inderogabilità del vincolo idraulico: essendovi un radicato affidamento circa la collocazione dell’immobile all’interno della fascia di rispetto (per via della licenza edilizia e del tempo trascorso) la medesima aspettativa si estende alle opere successive, che possono essere intese come interventi pertinenziali.
Questa soluzione è coerente con alcune indicazioni provenienti sia dalla disciplina speciale sul condono sia dai principi in materia di abusi edilizi.
Da un lato l’art. 32, comma 5, della legge 47/1985 ammette il condono degli abusi sulle aree demaniali estendendo la sanatoria alle “pertinenze strettamente necessarie”. In questo modo viene evidenziato il favore legislativo per una soluzione unitaria che eviti la coesistenza nello stesso immobile di situazioni sanabili e altre insanabili. Il carattere positivo di questa regola e le esigenze di razionalizzazione urbanistica che ne sono alla base permettono di utilizzare la norma anche al di fuori del caso specifico.
Dall’altro lato l’art. 11 della legge 47/1985 (v. ora l’art. 38 del DPR 06.06.2001 n. 380) prevede che nell’ipotesi di annullamento del titolo edilizio la remissione in pristino di quanto edificato sulla base del suddetto titolo possa essere motivatamente sostituita da una sanzione pecuniaria con effetto sanante.
Il caso in esame può essere confrontato con questa fattispecie. In effetti se un fabbricato (previa valutazione dell’interesse pubblico) può evitare la demolizione nonostante l’annullamento del relativo titolo edilizio, non vi sono motivi per negare il condono a un edificio che sia in parte conforme a un titolo edilizio illegittimo ma ancora efficace, qualora in un lungo periodo di tempo non sia stato individuato alcun interesse pubblico all’annullamento di tale titolo.
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... per l'annullamento:
   - del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio prot. n. 8854 del 21.07.1998, con il quale è stato comunicato il pronunciamento sfavorevole sulla richiesta di condono edilizio;
   - dell’ordinanza del responsabile del Settore Lavori Pubblici n. 1130 del 12.09.1998, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusive;
   - del parere negativo espresso dal responsabile del Servizio Provinciale Genio Civile della Regione in data 06.04.1995;
...
1. Il ricorrente Ed.Cr. è proprietario per successione ereditaria dal padre Do.Cr. di un rustico realizzato da quest’ultimo nel 1962 nella frazione Corti S. Rocco del Comune di Costa Volpino. L’edificio si trova a meno di 10 metri dall’argine del torrente Supine e quindi rientra nella fascia sottoposta al vincolo di inedificabilità di cui all’art. 96, lett. f), del RD 25.07.1904 n. 523.
2. La costruzione dell’edificio era stata assentita mediante licenza edilizia. Il documento non è stato prodotto in giudizio in quanto il ricorrente non ne è mai venuto in possesso.
L’esistenza del titolo edilizio può tuttavia desumersi dai seguenti elementi: (a) progetto del geom. Ma.Zu. del 03.11.1962; (b) verbale della riunione della commissione edilizia del 12.12.1962, che al punto 2 approva il progetto del rustico presentato da Donato Cretti; (c) nulla-osta agli effetti tributari rilasciato il 16.11.1962 dall’Ufficio Imposte di Consumo di Costa Volpino per l’inizio dei lavori edilizi (v. art. 39 del RD 14.09.1931 n. 1175).
3. Nel 1964-1965 il ricorrente ha eseguito abusivamente dei lavori interni ed esterni trasformando il rustico in edificio residenziale. In data 30.05.1986 il ricorrente ha poi presentato domanda di condono ai sensi degli art. 31-44 della legge 28.02.1985 n. 47. Non avendo all’epoca la materiale disponibilità dei documenti indicati sopra al punto 2 il ricorrente ha chiesto il condono sia con riferimento alla costruzione del rustico sia relativamente alla trasformazione dello stesso in edificio residenziale (nella domanda si afferma che il fabbricato era stato costruito in assenza di licenza edilizia). Peraltro una volta acquisita la suddetta documentazione, nel luglio 1998, il ricorrente ha avvertito (ma solo verbalmente) l’ufficio tecnico comunale.
4. In considerazione del vincolo idraulico il Comune ha interpellato il Servizio Provinciale Genio Civile della Regione, che mediante parere del responsabile della struttura del 06.04.1995 si è espresso negativamente circa la possibilità di condono. La motivazione è che, non essendo l’edificio assentibile fin dall’inizio, non sarebbe possibile neppure l’applicazione della normativa sul condono, tenuto conto dei limiti imposti dagli art. 32 e 33 della legge 47/1985.
Sulla base di questo parere la commissione edilizia ha escluso il riconoscimento del condono, e il responsabile dell’Area Gestione Territorio con nota del 21.07.1998 ha dato rilievo esterno a tale posizione decretando così la reiezione della domanda del ricorrente. A questo ha fatto seguito l’ordinanza del responsabile del Settore Lavori Pubblici del 12.09.1998, con la quale è stata ingiunta la demolizione delle opere abusive.
5. Contro i suddetti provvedimenti il ricorrente ha presentato impugnazione con atto notificato il 13.11.1998 e depositato il 04.12.1998. Le censure contengono plurimi profili che possono essere sintetizzati nei seguenti vizi: (i) travisamento dei fatti (non avendo l’amministrazione tenuto conto della licenza edilizia e del tempo trascorso); (ii) erronea applicazione dell’art. 96, lett. f), del RD 523/1904 (che potrebbe essere derogato quando, come avviene nel Comune di Costa Volpino, vi sia un’antica consuetudine locale relativa all’edificazione in prossimità dei torrenti).
Il Comune e la Regione non si sono costituiti in giudizio.
6. Gli argomenti proposti nel ricorso sono condivisibili solo in parte, ma in misura sufficiente a giungere a una sentenza di accoglimento.
Certamente non si può sostenere che il vincolo idraulico ex art. 96, lett. f), del RD 523/1904 sia derogabile semplicemente per effetto degli usi locali. La norma ha al contrario la finalità di interrompere la pericolosa tendenza a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli interessi pubblici tutelati fa ritenere che il vincolo operi con un effetto conformativo particolarmente ampio determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di rispetto (v. CS Sez. V 26.03.2009 n. 1814).
Sfuggono a questa regola solo le costruzioni che abbiano un’oggettiva funzione ambientale di filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità (v. art. 115 del Dlgs. 03.04.2006 n. 152).
7. Nel caso in esame tuttavia non possono essere trascurate le conseguenze derivanti dal rilascio della licenza edilizia (v. sopra al punto 2) e dal decorso del tempo. In particolare il titolo edilizio, benché illegittimo per contrasto con il preesistente vincolo idraulico, cambia la situazione giuridica dell’immobile, in quanto elimina la presenza formale dell’abuso, almeno in relazione al rustico originario.
Il carattere abusivo si concentra quindi sugli interventi di ristrutturazione e ampliamento (quest’ultimo emerge confrontando il progetto iniziale con quello allegato alla domanda di condono). Occorre peraltro precisare che le innovazioni non hanno condotto a un organismo edilizio radicalmente diverso, e dunque non vi è stata alcuna soluzione di continuità rispetto al rustico originario.
8. In tale contesto risulta possibile superare la questione dell’inderogabilità del vincolo idraulico: essendovi un radicato affidamento circa la collocazione dell’immobile all’interno della fascia di rispetto (per via della licenza edilizia e del tempo trascorso) la medesima aspettativa si estende alle opere successive, che possono essere intese come interventi pertinenziali.
Questa soluzione è coerente con alcune indicazioni provenienti sia dalla disciplina speciale sul condono sia dai principi in materia di abusi edilizi.
Da un lato
l’art. 32, comma 5, della legge 47/1985 ammette il condono degli abusi sulle aree demaniali estendendo la sanatoria alle “pertinenze strettamente necessarie”. In questo modo viene evidenziato il favore legislativo per una soluzione unitaria che eviti la coesistenza nello stesso immobile di situazioni sanabili e altre insanabili. Il carattere positivo di questa regola e le esigenze di razionalizzazione urbanistica che ne sono alla base permettono di utilizzare la norma anche al di fuori del caso specifico.
Dall’altro lato
l’art. 11 della legge 47/1985 (v. ora l’art. 38 del DPR 06.06.2001 n. 380) prevede che nell’ipotesi di annullamento del titolo edilizio la remissione in pristino di quanto edificato sulla base del suddetto titolo possa essere motivatamente sostituita da una sanzione pecuniaria con effetto sanante.
Il caso in esame può essere confrontato con questa fattispecie. In effetti se un fabbricato (previa valutazione dell’interesse pubblico) può evitare la demolizione nonostante l’annullamento del relativo titolo edilizio, non vi sono motivi per negare il condono a un edificio che sia in parte conforme a un titolo edilizio illegittimo ma ancora efficace, qualora in un lungo periodo di tempo non sia stato individuato alcun interesse pubblico all’annullamento di tale titolo.
9. Il ricorso deve quindi essere accolto con il conseguente annullamento degli atti impugnati. Occorre precisare che la possibilità di applicare la sanatoria edilizia non attenua i poteri di polizia idraulica dell’amministrazione a tutela del reticolo idrico, compresa la facoltà di imporre interventi di sistemazione dell’edificio e dell’area circostante.
In considerazione dell’originaria formulazione della domanda di condono, che faceva riferimento a un abuso integrale indirizzando in questo senso le valutazioni del Comune, è possibile disporre la compensazione delle spese tra le parti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 26.02.2010 n. 986 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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