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AGGIORNAMENTO AL 30.09.2018 (ore 23,59) |
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Lotto già edificato e volumetria residua:
come, quando e quanto quantificarla?? |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce principio pacifico in giurisprudenza
quello per cui “un’area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non
può essere più tenuta in considerazione come area libera,
neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni”.
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata,
l’intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l’effetto che anche
l’area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall’area su cui insiste il manufatto”.
In altri termini, “un’area
edificatoria, già utilizzata a fini edilizi, è suscettibile
di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di
essa realizzata non esaurisce la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente
divisa”.
---------------
10.3. Le argomentazioni poste a sostegno del diniego sono
totalmente condivisibili.
10.4. Ed invero, costituisce principio pacifico in
giurisprudenza quello per cui “un’area edificabile, già
interamente considerata in occasione del rilascio di una
concessione edilizia, agli effetti della volumetria
realizzabile, non può essere più tenuta in considerazione
come area libera, neppure parzialmente, ai fini del rilascio
di una seconda concessione nella perdurante esistenza del
primo edificio, irrilevanti appalesandosi le vicende
inerenti alla proprietà dei terreni” (ex multis,
Cons. Stato, sez. IV, n. 3573 del 20.07.2017).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata,
l’intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l’effetto che anche
l’area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall’area su cui insiste il manufatto” (Cons. Stato,
sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
10.5. In altri termini, “un’area edificatoria, già
utilizzata a fini edilizi, è suscettibile di ulteriore
edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisce la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa”
(Cons. Stato, sez. IV, 26.09.2008, n. 4647) (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-quater,
sentenza 30.08.2018 n. 9091 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già
oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria
residua (o la superficie coperta residua) va calcolata
previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con
irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali
o alienazioni parziali, onde evitare che il computo
dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune
superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità
nel residuo.
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi,
è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente
suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare
tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà.
Tanto è consolidato questo orientamento che l’Adunanza
plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della
volumetria assentibile su una determinata area secondo
l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche
la costruzione realizzata prima della legge 17.08.1942,
n. 1150, quando lo ius aedificandi era considerato pura
estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di
circostanza ininfluente in sede di commisurazione della
volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè
a quella riferita alla singola area e che individua il
volume massimo consentito su di essa. Ciò comporta la
necessità di tener conto del dato reale costituito dagli
immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che
intrattengono con l'ambiente circostante.
Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata
con riguardo al lotto originario. Con la conseguenza che è
irrilevante la mancanza di un formale atto di asservimento
del precedente fabbricato, atteso che quando la normativa
urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo
dell’area discende ope legis dalla sua utilizzazione, senza
la necessità di apposito strumento negoziale.
---------------
Va distinto l'indice di densità territoriale,
(riferibile a ciascuna zona omogenea dello strumento di
pianificazione, che definendo il complessivo carico di
edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa è
rapportato all’intera superficie della zona, ivi compresi
gli spazi pubblici, quelli destinati alla viabilità, ecc.)
dall'indice di densità fondiaria (riferibile alla
singola area, che definendo il volume massimo edificabile
sulla stessa, implica che il relativo indice sia rapportato
all’effettiva superficie suscettibile di edificazione).
---------------
10. Con il quinto motivo di appello, riproducendo sostanzialmente il
terzo motivo di ricorso proposto dinanzi al Tar, si mira
a sostenere la legittimità del permesso di costruire
annullato e, quindi, la mancanza del presupposto base dell’autotutela.
10.1. Da un lato si sostiene l’illegittima considerazione,
ai fini del computo della volumetria, di quanto costruito
sulla part. 24 (originaria costruzione antecedente al 1942,
poi ampliata con concessione del 1983 e del 1997), per
essere antecedente al 1942 e, inoltre, per la mancanza di
asservimento o di vincolo pertinenziale tra questa e le
particelle coinvolte nella richiesta di permesso (nn. 25 -poi frazionata in nn. 1281, 1282 e 1283- e n. 350).
10.2. Dall’altro, si lamenta l’omessa considerazione di
altre particelle di proprietà della signora Di Pu. e, per
sostenere la compatibilità della volumetria richiesta per il
nuovo permesso con il costruito, si esclude la computabilità
della edificazione precedente alla concessione del 1997 e si
calcola autonomamente la volumetria per annessi agricoli
mediante l’utilizzo dell’indice 0,07, previsto per gli
opifici.
11. Le censure sono prive di fondamento e vanno rigettate.
11.1. In punto di fatto va chiarito che la part. 24, dove
negli anni è stata realizzata una costruzione e annessi per
una volumetria di mc 797,71, fa parte dell’originaria
particella 25, costituente un unico fondo in capo dapprima
ad An.Al., poi frazionato già in epoca antecedente
al 1950, ed ulteriormente frazionato in epoca successiva, e
che della stessa particella originaria n. 25 fanno parte
quelle (1281, 1282 e 1283) rilevanti per il permesso
chiesto; inoltre, va chiarito che la part. 350, risultante
dal frazionamento della originaria part. 23, confina con la
originaria part. 25, poi frazionata.
In definitiva, dalle
mappe catastali emerge uno stato dei luoghi tale che delle
originarie particelle 23 e 25, confinanti ed appartenenti a
proprietari diversi, il frazionamento della 25, comprensiva
della 24 con insediamento costruttivo antecedente al 1942,
ha determinato il sorgere di più costruzioni sulla stessa.
Indiscutibile è, quindi, il dato reale costituito
dall’unitarietà dell’area, considerata nella fattispecie in
riferimento alla titolarità delle particelle n. 24 e nn.
1281, 1282 e 1283, senza che possa essere determinante
qualunque altra particella nella titolarità della stessa
istante, essendo stata la volumetria assentibile già
consumata da quanto costruito sulla part. 24.
11.2. In diritto, deve preliminarmente escludersi ogni
rilievo ad un calcolo autonomo della volumetria per gli
annessi agricoli realizzati sulla base della concessione del
1997 sulla particella n. 24, atteso che l’appellante non
offre alcuna giustificazione alla tesi dell’utilizzo
dell’indice 0,07, che il PdF prevede espressamente solo per
gli opifici.
11.3. Come detto, la questione centrale posta in diritto si
articola in due profili (§ 10.1.) strettamente connessi.
Il primo mette in discussione la computabilità volumetrica
di costruzioni preesistenti al 1942, in regime di ius
aedificandi quale pura estrinsecazione del diritto di
proprietà, e, comunque poi legittimamente ampliate con
successive concessioni.
Il secondo, evidentemente subordinato, presuppone tale
computabilità, ma la lega all’esistenza di un atto di
asservimento, all’esistenza di un vincolo pertinenziale tra
il fondo costruito e quello costruendo.
Ad entrambe le questione va data risposta negativa sulla
base della giurisprudenza consolidata di questo Consiglio.
11.3.1. L’area alla quale si riferisce la concessione
edilizia richiesta dalla parte privata, prima concessa e poi
negata dall’amministrazione, deriva per successivi
frazionamenti da due lotti originari confinanti, e su parte
di essa (part. 24) è stata costruita una abitazione e degli
annessi agricoli. Si controverte sul rilievo che, ai fini
del rilascio del titolo edilizio, debba riconoscersi al
volume relativo all’opera già edificata.
11.3.2. Il Giudice amministrativo ha più volte avuto modo di
affermare (Cons. Stato, sez. IV, n. 2941 del 2012) che,
qualora un lotto urbanisticamente unitario sia stato già
oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria
residua (o la superficie coperta residua) va calcolata
previo decurtamento di quella in precedenza realizzata, con
irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali
o alienazioni parziali, onde evitare che il computo
dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune
superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità
nel residuo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 12.07.2004, n.
5039; id., Sez. III, 28.04.2009, n. 965).
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi,
è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente
suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare
tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 21.09.2009, n. 5637).
Tanto è consolidato questo orientamento che l’Adunanza
plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della
volumetria assentibile su una determinata area secondo
l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche
la costruzione realizzata prima della legge 17.08.1942,
n. 1150, quando lo ius aedificandi era considerato pura
estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di
circostanza ininfluente in sede di commisurazione della
volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè
a quella riferita alla singola area e che individua il
volume massimo consentito su di essa. Ciò comporta la
necessità di tener conto del dato reale costituito dagli
immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che
intrattengono con l'ambiente circostante (Cons. Stato, Ad.
plen., 23.04.2009, n. 3).
Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata
con riguardo al lotto originario. Con la conseguenza che è
irrilevante la mancanza di un formale atto di asservimento
del precedente fabbricato, atteso che quando la normativa
urbanistica impone limiti di volumetria, il vincolo
dell’area discende ope legis dalla sua utilizzazione, senza
la necessità di apposito strumento negoziale (Cons. Stato,
n. 1525 del 2004).
11.3.3. Deve aggiungersi che per smentire queste conclusioni
non vale la distinzione che l’appellante sembra fare tra
indice di densità territoriale, (riferibile a ciascuna zona
omogenea dello strumento di pianificazione, che definendo il
complessivo carico di edificazione che può gravare su
ciascuna zona stessa è rapportato all’intera superficie
della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli
destinati alla viabilità, ecc.), e indice di densità
fondiaria (riferibile alla singola area, che definendo il
volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il
relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie
suscettibile di edificazione) (cfr. sul punto, tra le tante,
Cons. Stato, sez. IV, n. 32 del 2013; n. 5419 del 2017).
Premesso che nella fattispecie viene in questione l’indice
di densità fondiaria, comunque la distinzione non rileva
rispetto ai principi suddetti che si riferiscono all’indice
di fabbricabilità, del quale la densità territoriale e la
densità fondiaria costituiscono declinazione a seconda
dell’assetto urbanistico che conforma i territori.
11.3.4. Resta da dire che la sicura computabilità del
costruito sulla particella n. 24, sulla base di quanto prima
argomentato, fa venir meno ogni concreto effetto alla
denunciata non considerazione di altre aree di proprietà
della signora Di Puglia posto che i calcoli volumetrici
prospettati dall’appellante prescindono, almeno, dalla
computabilità della costruzione originaria come costruita e
assentita prima della concessione del 1997.
12. In conclusione, l’appello va rigettato (Consiglio di
Stato, Sez. IV,
sentenza 01.08.2018 n. 4747 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura
maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo (ed a maggior
ragione, dunque, ove un qualche titolo di sanatoria poi
ottenga), impegna la superficie, che in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui ai
fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto
già parzialmente edificato occorre dunque considerare tutte
le costruzioni, che comunque già insistono sull'area.
---------------
2.2 – Il TAR ha inoltre opportunamente puntualizzato,
disattendendo la tesi della società ricorrente, che
nell'edificazione complessivamente realizzabile sull'area
vanno computati anche i volumi e le superfici preesistenti,
anche se in precedenza condonati.
Al riguardo, vanno richiamati i precedenti di questo
Consiglio, secondo cui “ogni area non è idonea ad
esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla
legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto
titolo (ed a maggior ragione, dunque, ove un qualche titolo
di sanatoria poi ottenga), impegna la superficie, che in
base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è
necessaria per realizzare la volumetria sviluppata. Di qui
il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui ai fini
del calcolo della volumetria disponibile su un lotto già
parzialmente edificato occorre dunque considerare tutte le
costruzioni, che comunque già insistono sull'area" (Cons.
St., Sez. IV, 12.05.2008, n. 2177).
Ne consegue che l’eventuale sanatoria per condono della
costruzione precedente non esclude, in sede di verifica
della compatibilità di qualsiasi volume successivamente
progettato con la superficie disponibile in relazione
all’indice di fabbricabilità fondiaria dell’area
complessiva, il computo della volumetria così realizzata (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 22.05.2018 n. 3050 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un’area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa e dovendosi
considerare irrilevanti i frazionamenti delle proprietà
private medio tempore intervenuti.
---------------
In caso di edificio preesistente realizzato in epoca
anteriore all’adozione del primo piano regolatore generale,
con il quale per la prima volta nel territorio comunale
siano stati introdotti indici di densità edilizia
(territoriale e fondiaria), in assenza di limiti di
volumetria non è configurabile un’ipotesi di asservimento in
senso tecnico, ma è astrattamente configurabile un vincolo
di c.d. asservimento pertinenziale, connotato dalla
destinazione dell’area non edificata del lotto a servizio
dell’edificio realizzato.
---------------
Si precisa, al riguardo, che la disposizione all’esame è in
linea con i principi di origine giurisprudenziale per cui:
- un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile
di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di
essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa
e dovendosi considerare irrilevanti i frazionamenti delle
proprietà private medio tempore intervenuti (v. Cons.
Stato, Sez. III, parere 28.04.2009, n. 965/2009; Cons.
Stato, IV, 29.01.2008, n. 255; Cons. Stato, Sez. V,
12.07.2004, n. 5039);
- in caso di edificio preesistente realizzato in epoca anteriore
all’adozione del primo piano regolatore generale, con il
quale per la prima volta nel territorio comunale siano stati
introdotti indici di densità edilizia (territoriale e
fondiaria), in assenza di limiti di volumetria non è
configurabile un’ipotesi di asservimento in senso tecnico,
ma è astrattamente configurabile un vincolo di c.d.
asservimento pertinenziale, connotato dalla destinazione
dell’area non edificata del lotto a servizio dell’edificio
realizzato (v. Ad. Plen., 23.04.2009, n. 3; Cons. Stato,
Sez. VI, 18.12.2012, n. 6475; Cons. Stato, Sez. VI,
23.02.2016, n. 732) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.01.2018 n. 545 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Consiglio di Stato: il calcolo dei volumi
edificabili va effettuato solamente sulle «aree libere».
Con la
sentenza 22.11.2017 n. 5419 il Consiglio di
Stato, Sez. IV, torna ad affrontare il tema del computo
della volumetria edificabile assegnata alle aree del
territorio comunale dallo strumento urbanistico generale,
precisando che eventuali modificazioni di quest'ultimo,
volte a prevedere nuovi e più favorevoli indici di
fabbricazione, interessano le sole "aree libere".
Dalla definizione di tali aree devono escludersi le aree già
direttamente edificate (in quanto costituenti aree di sedime
di fabbricati o aree in cui si sono realizzate opere di
urbanizzazione) e quelle che, pur essendo fisicamente libere
da immobili, risultano già sfruttate per l'edificazione di
altri lotti, ai quali pertanto risultano inscindibilmente
asserviti.
Il caso
In seguito alla sentenza n. 2665/2015, con la quale il Tar
Campania–Salerno aveva rigettato una domanda di annullamento
di un permesso di costruire rilasciato nel 2015, nella quale
si censurava l'errato utilizzo da parte del Comune
dell'indice fondiario e lo sforamento della volumetria
massima assentibile, il ricorrente ha presentato appello al
Consiglio di Stato.
L'appellante ha sostenuto in particolare che l'erronea
applicazione dell'indice fondiario di edificabilità,
unitamente alla violazione sotto numerosi profili del D.M.
1444/1968 e della L. n. 1150/1942, avrebbero portato ad un
calcolo errato della superficie disponibile ai fini
edificatori, risultandone l'illegittimità del permesso di
costruire impugnato. Secondo tale prospettazione l'assenza
di volumetria residua sarebbe peraltro evidente anche
ammettendo la contestata applicazione dell'indice fondiario,
poiché non sarebbe possibile considerare come aree libere,
ai fini del calcolo volumetrico, le aree destinate a
parcheggi pertinenziali e quelle a standard.
La decisione
Il Consiglio di Stato, in riforma della decisione di primo
grado, non ha perso occasione per ribadire quelli che si
possono considerare come orientamenti giurisprudenziali
ormai consolidati in relazione alla successione nel tempo
degli strumenti urbanistici ed alla capacità edificatoria da
questi assegnata.
In particolar modo, dopo aver ribadito il noto principio
secondo cui lo strumento urbanistico generale è diretto a
conformare l'edificazione futura e non anche le costruzioni
esistenti al momento dell'entrata in vigore del piano o di
una sua variante, i giudici di Palazzo Spada affermano che
l'assegnazione di indici edificatori, proprio in ragione
della richiamata irretroattività delle previsioni di piano,
interessa le sole "aree libere", tali dovendosi
intendere quelle "disponibili" al momento della
pianificazione.
Più precisamente, non possono considerarsi "aree libere",
oltre –ovviamente– alle aree già edificate (aree di sedime
dei fabbricati o sulle quali sorgono opere di
urbanizzazione), nemmeno quelle aree che risultano comunque
già utilizzate per l'edificazione, in quanto asservite alla
realizzazione di altri fabbricati onde consentirne il
relativo sviluppo volumetrico.
Pertanto, un'area edificabile la cui volumetria sia già
stata interamente considerata in occasione del rilascio di
un titolo edilizio non può essere più tenuta in
considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai
fini del rilascio di un secondo titolo edificatorio nella
perdurante esistenza del primo edificio.
Dal calcolo della volumetria necessaria per l'edificazione
di un nuovo lotto (o per l'ampliamento di uno già esistente)
devono infatti escludersi le aree asservite o accorpate, le
quali hanno quindi ormai esaurito la loro vocazione
edificatoria, anche se oggetto di successivo frazionamento o
alienazione.
Tale principio non subisce mutamenti anche nel caso in cui
vengano introdotte delle variazioni in melius del
piano regolatore in relazione agli indici di fabbricazione,
i quali non riguardano le aree già utilizzate a scopo
edificatorio, anche se si presentano fisicamente libere. A
maggior ragione, in sede di rilascio di ulteriori titoli
edilizi nell'ambito di una stessa area oggetto di precedente
edificazione senza che sia medio tempore intervenuta
alcuna modificazione della disciplina urbanistica le aree
che contribuiscono al maggiore sviluppo del lotto sono
solamente quelle considerate "libere" secondo i
criteri anzidetti.
Un'ultima precisazione della sentenza riguarda
l'impossibilità di reperire ulteriore volumetria edificabile
dalle aree destinate a standard nonché a parcheggio ai sensi
dell'art. 41-sexies della L. n. 1150/1942, le quali non
possono dunque considerarsi "aree libere" ai sensi e
agli effetti sopra precisati.
Sotto questo profilo, neppure la circostanza che l'art.
41-sexies si riferisca alle aree a parcheggio private –come
tali escluse dal computo degli standard– comporta la
possibilità di considerarle nel successivo calcolo della
superficie utilizzabile per una nuova costruzione o
l'ampliamento di quelle esistenti, poiché, diversamente
opinando, ne deriverebbe un «effetto moltiplicatore»
della capacità edificatoria sviluppata dall'area di
riferimento (articolo Edilizia e Territorio del
13.12.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Al fine
di definire con precisione cosa occorra considerare quale “superficie
suscettibile di edificazione”, è del tutto evidente che
lo strumento urbanistico, proprio per le sue caratteristiche
di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di
utilizzo, nel disporre le future conformazioni del
territorio, considera le sole “aree libere”, tali
dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento della
pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non
risultano già edificate (in quanto costituenti aree di
sedime di fabbricati o utilizzate per opere di
urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli
standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per
l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di
fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano.
---------------
L’eventuale modificazione del piano regolatore, che prevede
nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non può che
interessare, nell’ambito della zona del territorio
considerata dallo strumento urbanistico, se non le sole
aree libere, nel senso sopra precisato, con esclusione,
quindi, di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo
edificatorio, ancorché le stesse si presentino “fisicamente”
libere da immobili.
---------------
E' stato affermato che "un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non
può essere più tenuta in considerazione come area libera,
neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni”.
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata,
l'intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche
l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall'area su cui insiste il manufatto".
Quanto esposto, comporta che, proprio perché il piano
regolatore (e le sue successive modificazioni) considerano
le sole aree libere, eventuali variazioni degli indici di
fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai privati
proprietari) non possono riguardare aree già utilizzate a
fini edificatori.
Al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei
predetti indici si impongono ad aree per le quali, pur
essendo in precedenza previsti indici più favorevoli, non
siano state ancora utilizzate a fini edificatori.
Né vi è contraddizione tra le due precedenti ipotesi, poiché
esse sono ambedue perfettamente coerenti con la esposta tesi
della conformabilità delle sole aree libere. Ed infatti,
nel primo caso, l’area non può definirsi libera, in
quanto già utilizzata a fini edificatori, mentre nel
secondo l’area è libera, posta la sua non ancora
intervenuta utilizzazione.
---------------
Quanto affermato con riferimento alla successione nel tempo
di diversi indici di fabbricabilità fondiari, deve trovare a
maggior ragione applicazione nell’ipotesi di rilascio di
successive concessioni edilizie e/o permessi di costruire
nell’ambito della stessa area in costanza di indice di
fabbricabilità, dovendosi considerare, al fine di sviluppare
la volumetria assentibile, le sole aree da considerare
libere, secondo i criteri innanzi descritti.
---------------
Sia
gli standard ex art. 5 D.M. 1444/1968, sia le aree da
destinare a parcheggio, ai sensi dell’art. 41-sexies l. n.
1150/1942, devono essere considerate come “non disponibili”,
ai fini di una successiva edificazione, laddove già
considerate (ovvero laddove avrebbero dovuto essere
considerate), ai fini della realizzazione di precedenti
costruzioni.
Come è noto, l’art. 5 D.M. cit. prevede che,, nelle zone A)
e B), a fronte di 100 mq. di superficie lorda di pavimento
di edifici previsti, devono corrispondere almeno 40 mq di
superficie da destinare a parcheggio, e ciò in aggiunta ai
parcheggi previsti dall’art. 18 l. n. 765/1967, e sempre che
“siano previste adeguate attrezzature integrative”
(dovendosi altrimenti calcolare 80 mq).
A sua volta, l’art. 41-sexies citato (introdotto nella l. n.
1150/1942 proprio dall’art. 18 l. n. 765/1967), prevede che
“nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di pertinenza
delle costruzioni stesse, debbono essere riservati appositi
spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un metro
quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare, la
disposizione contenuta nel predetto art. 41-sexies “…opera
come norma di relazione nei rapporti privatistici e come
norma di azione nel rapporto pubblicistico con la p.a., non
potendo quest’ultima autorizzare nuove costruzioni che non
siano corredate di dette aree, giacché l’osservanza della
norma costituisce condizione di legittimità della
concessione edilizia, e spettando esclusivamente alla stessa
p.a. l’accertamento della conformità degli spazi alla misura
proporzionale stabilita dalla legge e della idoneità a
parcheggio delle aree, con la conseguenza che il
trasferimento del vincolo di destinazione su aree diverse da
quelle originarie può avvenire soltanto mediante il rilascio
di una concessione in variante, chiarendosi anche che,
mentre gli spazi di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies
della legge n. 1150 del 1942 costituiscono aree pubbliche da
conteggiarsi ai fini della dotazione d standard, quelli di
cui al successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree
private pertinenziali alle nuove costruzioni e come tali
escluse (ex art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968,
n. 1444) dal computo del calcolo della misura degli
standards”.
Orbene, la circostanza che le aree di cui all’art. 41-sexies
siano da qualificarsi “aree pertinenziali private”, come
tali escluse dal computo degli standard, non significa che
dette aree possano essere considerate come “disponibili”, ai
fini del successivo calcolo della superficie utilizzabile
per una nuova costruzione.
Ed infatti, l’art. 3, co. 2, lett. d) del D.M. n. 1444/1968,
in sintonia con quanto previsto dal successivo art. 5, si
limita a precisare che le aree ex art. 41-sexies non possono
essere considerate ai fini del computo delle aree da
riservare a parcheggi (standard), ma si intendono come
“aggiuntive” a questi ultimi.
Si tratta di una disposizione che, in presenza di una nuova
costruzione, tende ad aumentare le aree da destinare a
parcheggi, privati (in quanto verosimilmente a disposizione
dei condomini) ovvero pubblici.
---------------
6.5. Può procedersi
all’esame del secondo motivo di gravame.
Il motivo è fondato.
Tanto innanzi precisato quanto alla corretta definizione ed
applicazione degli “indici”, al fine di definire con
precisione cosa occorra considerare quale “superficie
suscettibile di edificazione”, è del tutto evidente che
lo strumento urbanistico, proprio per le sue caratteristiche
di strumento di pianificazione e delle sua possibilità di
utilizzo, nel disporre le future conformazioni del
territorio, considera le sole “aree libere”, tali
dovendosi ritenere quelle “disponibili” al momento
della pianificazione, e ancor più precisamente quelle che
non risultano già edificate (in quanto costituenti aree di
sedime di fabbricati o utilizzate per opere di
urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli
standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per
l’edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di
fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale
modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più
favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare,
nell’ambito della zona del territorio considerata dallo
strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso
sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree
comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le
stesse si presentino “fisicamente” libere da
immobili.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto, peraltro, modo di
affermare che "un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non
può essere più tenuta in considerazione come area libera,
neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni” (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata,
l'intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche
l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall'area su cui insiste il manufatto" (Cons. Stato,
sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
Quanto esposto, comporta che, proprio perché il piano
regolatore (e le sue successive modificazioni) considerano
le sole aree libere, eventuali variazioni degli indici di
fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai
privati proprietari) non possono riguardare aree già
utilizzate a fini edificatori.
Al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei
predetti indici si impongono ad aree per le quali, pur
essendo in precedenza previsti indici più favorevoli, non
siano state ancora utilizzate a fini edificatori.
Né vi è contraddizione tra le due precedenti ipotesi, poiché
esse sono ambedue perfettamente coerenti con la esposta tesi
della conformabilità delle sole aree libere. Ed infatti,
nel primo caso, l’area non può definirsi libera, in
quanto già utilizzata a fini edificatori, mentre nel
secondo l’area è libera, posta la sua non ancora
intervenuta utilizzazione.
Quanto affermato con riferimento alla successione nel tempo
di diversi indici di fabbricabilità fondiari, deve trovare a
maggior ragione applicazione nell’ipotesi di rilascio di
successive concessioni edilizie e/o permessi di costruire
nell’ambito della stessa area in costanza di indice di
fabbricabilità, dovendosi considerare, al fine di sviluppare
la volumetria assentibile, le sole aree da considerare
libere, secondo i criteri innanzi descritti.
6.6. In tale contesto, sia gli standard ex art. 5 D.M.
1444/1968, sia le aree da destinare a parcheggio, ai sensi
dell’art. 41-sexies l. n. 1150/1942, devono essere
considerate come “non disponibili”, ai fini di una
successiva edificazione, laddove già considerate (ovvero
laddove avrebbero dovuto essere considerate), ai fini della
realizzazione di precedenti costruzioni.
Come è noto, l’art. 5 D.M. cit. prevede che,, nelle zone A)
e B), a fronte di 100 mq. di superficie lorda di pavimento
di edifici previsti, devono corrispondere almeno 40 mq di
superficie da destinare a parcheggio, e ciò in aggiunta ai
parcheggi previsti dall’art. 18 l. n. 765/1967, e sempre che
“siano previste adeguate attrezzature integrative”
(dovendosi altrimenti calcolare 80 mq).
A sua volta, l’art. 41-sexies citato (introdotto nella l. n.
1150/1942 proprio dall’art. 18 l. n. 765/1967), prevede che
“nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di
pertinenza delle costruzioni stesse, debbono essere
riservati appositi spazi per parcheggi in misura non
inferiore ad un metro quadrato per ogni dieci metri cubi di
costruzione”.
Come la giurisprudenza ha già avuto modo di osservare (Cons.
Stato, sez. V, 04.11.2014 n. 5444; sez. IV, 06.01.2013 n.
32), la disposizione contenuta nel predetto art. 41-sexies
“…opera come norma di relazione nei rapporti privatistici
e come norma di azione nel rapporto pubblicistico con la p.a.,
non potendo quest’ultima autorizzare nuove costruzioni che
non siano corredate di dette aree, giacché l’osservanza
della norma costituisce condizione di legittimità della
concessione edilizia, e spettando esclusivamente alla stessa
p.a. l’accertamento della conformità degli spazi alla misura
proporzionale stabilita dalla legge e della idoneità a
parcheggio delle aree, con la conseguenza che il
trasferimento del vincolo di destinazione su aree diverse da
quelle originarie può avvenire soltanto mediante il rilascio
di una concessione in variante (Cass. civ., sez. II,
13.01.2010, n. 378), chiarendosi anche che, mentre gli spazi
di parcheggio di cui all’art. 41-quinquies della legge n.
1150 del 1942 costituiscono aree pubbliche da conteggiarsi
ai fini della dotazione d standard, quelli di cui al
successivo art. 41-sexies sono qualificati come aree private
pertinenziali alle nuove costruzioni e come tali escluse (ex
art. 3, comma 2, lett. d), del D.M. 02.04.1968, n. 1444) dal
computo del calcolo della misura degli standards”.
Orbene, contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza
impugnata, la circostanza che le aree di cui all’art.
41-sexies siano da qualificarsi “aree pertinenziali
private”, come tali escluse dal computo degli standard,
non significa che dette aree possano essere considerate come
“disponibili”, ai fini del successivo calcolo della
superficie utilizzabile per una nuova costruzione.
Ed infatti, l’art. 3, co. 2, lett. d) del D.M. n. 1444/1968,
in sintonia con quanto previsto dal successivo art. 5, si
limita a precisare che le aree ex art. 41-sexies non possono
essere considerate ai fini del computo delle aree da
riservare a parcheggi (standard), ma si intendono come “aggiuntive”
a questi ultimi.
Si tratta di una disposizione che, in presenza di una nuova
costruzione, tende ad aumentare le aree da destinare a
parcheggi, privati (in quanto verosimilmente a disposizione
dei condomini) ovvero pubblici.
Alla luce di quanto sin qui esposto, non possono, dunque,
trovare accoglimento le considerazioni esposte
dall’appellato Di Na..
Ed infatti, con riferimento a tutte le aree destinate a
standard ex art. 5 e a parcheggi ex art. 41-sexies, le
stesse non possono essere ritenute come utilizzabili per il
calcolo del volume ulteriormente insediabile sul lotto; se
ciò fosse, l’area considerata sarebbe soggetta ad un “effetto
moltiplicatore” di cubatura, travolgendosi nei fatti il
rapporto tra area coperta ed area scoperta (a prescindere
dalla sua finalizzazione), che invece il legislatore ha
inteso assicurare.
Così argomentando, come si è già detto, la pianificazione
urbanistica si ridurrebbe a considerare il territorio solo
nella sua mera possibilità di edificazione, in quanto non
ostacolata da presenze materiali, e non già come un bene da
conformare per il migliore sviluppo della comunità,
salvaguardando i diritti costituzionalmente garantiti degli
individui che su di esso vivono ed operano.
Né assumono particolare rilevanza la circostanza che l’area
da destinare a parcheggi (pubblici o privati) sia di
proprietà privata, ovvero il fatto che -come sostenuto
dall’appellato con riferimento a quanto differentemente
previsto per aree residenziali o commerciali da riservare a
parcheggi- “le diverse destinazioni dell’immobile
condizionerebbero le superfici effettivamente a disposizione”
per l’ulteriore volume insediabile (pag. 12-13 memoria dep.
28.04.2017)
Infatti, l’imposizione di standard e/o vincoli di
destinazione costituisce conformazione della proprietà
privata, onde contemperare lo jus aedificandi del
privato (assentito, nel suo esercizio, dalla Pubblica
amministrazione) con le evidenti esigenze pubblicistiche di
assicurare un uso armonico del territorio, volto alla
soddisfazione della pluralità di esigenze di vita e, non
ultimo, del diritto alla salute di tutti i cittadini.
Ed in tale contesto è appena il caso di osservare che, a
differenti destinazioni dell’immobile edificato, ben possono
(anzi, ragionevolmente, “debbono”) corrispondere
superfici di diversa entità da considerare “vincolate
nella destinazione” al predetto immobile (in quanto
condizioni per la sua edificazione), e, dunque, secondo i
principi sin qui esposti, ormai “sfruttate” e non più
computabili per ulteriori ed eventuali possibilità
edificatorie.
6.7. Nel caso di specie, la superficie complessiva del
lotto, pari a mq. 4065, ha già visto la realizzazione di un
fabbricato (destinato ad albergo, poi a scuola) di mc.
3415,64 (oltre la volumetria interrata pari a mc. 2131,50) e
di una superficie pavimentata lorda complessiva di mq.
1761,64 (tale estensione, affermata dall’appellante, non è
contestata dall’appellato).
Ne consegue che, applicando gli standard ex art. 5 D.M. n.
1444/1968, la superficie da destinare a parcheggio è pari a
mq. 1409,31; mentre le aree da destinare a parcheggi ex art.
41-sexies sono pari a mq. 341,56, per un totale di
superficie destinata pari a mq. 1750,87.
Detraendo tale superficie da quella complessiva del lotto
(4065 – 1750,64), la superficie residua, sulla quale
applicare l’indice di fabbricabilità fondiario, è di mq.
2314,36, che sviluppa, dunque (mq. 2314,36 x 1,5 mc), una
volumetria di mc. 3471,54 (di poco superiore a quella già
esistente sul lotto).
Da ciò consegue, pertanto, l’intervenuto esaurimento del
lotto e la illegittimità del permesso di costruire n.
5097/2015.
6.8. Per tutte le ragioni esposte, l’appello deve essere
accolto nei limiti sopra precisati e, per l’effetto, in
riforma della sentenza n. 2665/2015 impugnata, deve essere
accolto il ricorso instaurativo del giudizio di I grado, con
conseguente annullamento del permesso di costruire n.
5097/2015, rilasciato dal Comune di Agropoli (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2017 n. 5419 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150,
il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale,
l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in
particolare prevedendo “la divisione in zone del territorio
comunale con la precisazione delle zone destinate
all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei
vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano “servono a conformare l’edificazione
futura e non anche le costruzioni esistenti al momento
dell’entrata in vigore del Piano o di una sua variante”, ciò
facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo
indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei
suoli.
---------------
La “densità edilizia territoriale” è riferita a
ciascuna zona omogenea e definisce il carico complessivo di
edificazione che può gravare sull’intera zona; viceversa, la
“densità edilizia fondiaria” è riferita alla singola
area e definisce il volume massimo su di essa edificabile.
La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia
territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello
strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico
di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per
cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie
della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli
destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità
edilizia fondiaria, concernendo la singola area e
definendo il volume massimo edificabile sulla stessa,
implica che il relativo indice sia rapportato all’effettiva
superficie suscettibile di edificazione ed è a tale indice
che occorre fare concreto riferimento ai fini della
individuazione della volumetria effettivamente assentibile
con il permesso di costruire.
---------------
6.3.Il Collegio,
ai fini della decisione della presente controversia, deve
richiamare alcune considerazioni, già svolte da questo
Consiglio di Stato (sez. IV, 20.07.2016 n. 3246; 09.07.2011
n. 4134, di recente riaffermate con sentenza 20.07.2017 n.
3573) e che devono essere riconfermate nella presente sede.
Ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune
disciplina, con il Piano regolatore generale, l’assetto
urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare
prevedendo “la divisione in zone del territorio comunale
con la precisazione delle zone destinate all'espansione
dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei
caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano, come questo Consiglio di Stato ha
già avuto modo di affermare, “servono a conformare
l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti
al momento dell’entrata in vigore del Piano o di una sua
variante” (Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2009 n. 4009),
ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo
indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei
suoli (Cons. Stato, sez. II, 18.06.2008 n. 982).
In tale contesto, come affermato dalla giurisprudenza (Cons.
Stato, sez. IV, 08.01.2013 n. 32) “la “densità edilizia
territoriale” è riferita a ciascuna zona omogenea e
definisce il carico complessivo di edificazione che può
gravare sull’intera zona; viceversa, la “densità edilizia
fondiaria” è riferita alla singola area e definisce il
volume massimo su di essa edificabile”.
La differenza consiste nel fatto che la densità edilizia
territoriale, riferendosi a ciascuna zona omogenea dello
strumento di pianificazione, definisce il complessivo carico
di edificazione che può gravare su ciascuna zona stessa, per
cui il relativo indice è rapportato all’intera superficie
della zona, ivi compresi gli spazi pubblici, quelli
destinati alla viabilità, ecc.; viceversa, la densità
edilizia fondiaria, concernendo la singola area e definendo
il volume massimo edificabile sulla stessa, implica che il
relativo indice sia rapportato all’effettiva superficie
suscettibile di edificazione ed è a tale indice che occorre
fare concreto riferimento ai fini della individuazione della
volumetria effettivamente assentibile con il permesso di
costruire (cfr., sul punto e per concludere, Cons. Stato,
Ad. plen., 23.04.2009, n. 3; Cass. civ., sez. I, 26.09.2016,
n. 18841) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.11.2017 n. 5419 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
La rinnovazione del piano regolatore (anche
quando prevede nuovi e più favorevoli indici di
edificabilità), può interessare, nell'ambito della zona del
territorio considerata dallo strumento urbanistico, solo le
aree libere, con esclusione di quelle comunque già
utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si
presentino fisicamente libere da immobili.
Nel caso di realizzazione di manufatti edilizi, la cui
volumetria è calcolata sulla base anche di un'area
accorpata, l'intera estensione interessata, infatti, deve
essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con
l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più
edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di
alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto.
---------------
Lo strumento urbanistico, nel disporre le conformazioni del
territorio, considera le sole aree libere e più precisamente
quelle che non risultano già edificate in quanto costituenti
aree di sedime di fabbricati o utilizzate per opere di
urbanizzazione, diversamente opinando "ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo".
Pertanto, quando un'area edificabile viene successivamente
frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria
disponibile nell'intera area permane invariata; di
conseguenza, nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata
sul fondo originario una o più costruzioni, i proprietari
dei vari terreni, in cui detto fondo è stato frazionato,
hanno a disposizione solo la volumetria che eventualmente
residua tenuto conto di quanto originariamente costruito.
---------------
5c. Giova soggiungere che la rinnovazione del piano
regolatore (anche quando prevede nuovi e più favorevoli
indici di edificabilità), può interessare, nell'ambito della
zona del territorio considerata dallo strumento urbanistico,
solo le aree libere, con esclusione di quelle comunque già
utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si
presentino fisicamente libere da immobili.
Nel caso di realizzazione di manufatti edilizi, la cui
volumetria è calcolata sulla base anche di un'area
accorpata, l'intera estensione interessata, infatti, deve
essere considerata utilizzata ai fini edificatori, con
l'effetto che anche l'area asservita o accorpata non è più
edificabile, anche se è oggetto di un frazionamento o di
alienazione separata dall'area su cui insiste il manufatto.
5d. Lo strumento urbanistico, nel disporre le conformazioni
del territorio, considera le sole aree libere e più
precisamente quelle che non risultano già edificate in
quanto costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate
per opere di urbanizzazione, diversamente opinando "ogni
nuova pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo" (Consiglio di Stato, Sez. IV,
20/07/2016 n. 3246).
5e. Pertanto, quando un'area edificabile viene
successivamente frazionata in più parti tra vari
proprietari, la volumetria disponibile nell'intera area
permane invariata; di conseguenza, nell'ipotesi in cui sia
stata già realizzata sul fondo originario una o più
costruzioni, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la
volumetria che eventualmente residua tenuto conto di quanto
originariamente costruito.
Conclusivamente l'appello è del tutto infondato e va
respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.08.2017 n. 3949 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150,
il Comune disciplina, con il Piano regolatore generale,
l’assetto urbanistico dell’intero territorio comunale, in
particolare prevedendo “la divisione in zone del territorio
comunale con la precisazione delle zone destinate
all'espansione dell'aggregato urbano e la determinazione dei
vincoli e dei caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano “servono a conformare l’edificazione
futura e non anche le costruzioni esistenti al momento
dell’entrata in vigore del Piano o di una sua variante”, ciò
facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo
indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei
suoli.
---------------
Proprio per le sue caratteristiche di strumento di
pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del
tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le
future conformazioni del territorio, considera le sole “aree
libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili” al
momento della pianificazione, e ancor più precisamente
quelle che non risultano già edificate (in quanto
costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per
opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto
degli standard urbanistici, risultano comunque già
utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla
realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo
volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale
modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più
favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare,
nell’ambito della zona del territorio considerata dallo
strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso
sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree
comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le
stesse si presentino “fisicamente” libere da immobili.
--------------
E' stato affermato che "un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non
può essere più tenuta in considerazione come area libera,
neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni”.
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata,
l'intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche
l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall'area su cui insiste il manufatto".
--------------
Proprio perché il piano regolatore (e le sue successive
modificazioni) considerano le sole aree libere, eventuali
variazioni degli indici di fabbricazione in melius (cioè più
favorevoli ai privati proprietari) non possono riguardare
aree già utilizzate a fini edificatori.
Al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei
predetti indici si impongono ad aree per le quali, pur
essendo in precedenza previsti indici più favorevoli, non
siano state ancora utilizzate a fini edificatori.
Né vi è contraddizione tra le due precedenti ipotesi, poiché
esse sono ambedue perfettamente coerenti con la esposta tesi
della conformabilità delle sole aree libere. Ed infatti,
nel primo caso, l’area non può definirsi libera, in
quanto già utilizzata a fini edificatori, mentre nel
secondo l’area è libera, posta la sua non ancora
intervenuta utilizzazione.
---------------
3.2. Il Collegio, ai fini della decisione della presente
controversia, deve richiamare alcune considerazioni, già
svolte da questo Consiglio di Stato (sez. IV, 20.07.2016 n.
3246; 09.07.2011 n. 4134) e che devono essere riconfermate
nella presente sede.
Ai sensi dell’art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune
disciplina, con il Piano regolatore generale, l’assetto
urbanistico dell’intero territorio comunale, in particolare
prevedendo “la divisione in zone del territorio comunale
con la precisazione delle zone destinate all'espansione
dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei
caratteri da osservare in ciascuna zona”.
Le previsioni del Piano, come questo Consiglio di Stato ha
già avuto modo di affermare, “servono a conformare
l’edificazione futura e non anche le costruzioni esistenti
al momento dell’entrata in vigore del Piano o di una sua
variante” (Cons. Stato, sez. IV, 18.06.2009 n. 4009),
ciò facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo
indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei
suoli (Cons. Stato, sez. II, 18.06.2008 n. 982).
Orbene, proprio per le sue caratteristiche di strumento di
pianificazione e delle sua possibilità di utilizzo, è del
tutto evidente che lo strumento urbanistico, nel disporre le
future conformazioni del territorio, considera le sole “aree
libere”, tali dovendosi ritenere quelle “disponibili”
al momento della pianificazione, e ancor più precisamente
quelle che non risultano già edificate (in quanto
costituenti aree di sedime di fabbricati o utilizzate per
opere di urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto
degli standard urbanistici, risultano comunque già
utilizzate per l’edificazione (in quanto asservite alla
realizzazione di fabbricati, onde consentirne lo sviluppo
volumetrico).
D’altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano.
Quanto sin qui esposto, comporta che l’eventuale
modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più
favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare,
nell’ambito della zona del territorio considerata dallo
strumento urbanistico, se non le sole aree libere, nel senso
sopra precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree
comunque già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le
stesse si presentino “fisicamente” libere da
immobili.
Questo Consiglio di Stato ha già avuto, peraltro, modo di
affermare che "un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia, agli effetti della volumetria realizzabile, non
può essere più tenuta in considerazione come area libera,
neppure parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni” (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, si è precisato che “in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata,
l'intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche
l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall'area su cui insiste il manufatto" (Cons. Stato,
sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV, 06.09.1999 n. 1402).
Quanto esposto, comporta che, proprio perché il piano
regolatore (e le sue successive modificazioni) considerano
le sole aree libere, eventuali variazioni degli indici di
fabbricazione in melius (cioè più favorevoli ai
privati proprietari) non possono riguardare aree già
utilizzate a fini edificatori.
Al contrario, eventuali variazioni in senso restrittivo dei
predetti indici si impongono ad aree per le quali, pur
essendo in precedenza previsti indici più favorevoli, non
siano state ancora utilizzate a fini edificatori.
Né vi è contraddizione tra le due precedenti ipotesi, poiché
esse sono ambedue perfettamente coerenti con la esposta tesi
della conformabilità delle sole aree libere. Ed infatti,
nel primo caso, l’area non può definirsi libera, in
quanto già utilizzata a fini edificatori, mentre nel
secondo l’area è libera, posta la sua non ancora
intervenuta utilizzazione (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 20.07.2017 n. 3573 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ove una determinata area sia stata
considerata ai fini dell’indice fondiario di fabbricazione,
ogni ulteriore costruzione che interessi in tutto o in parte
l’area stessa, anche se quest’ultima sia stata
successivamente divisa, deve tener conto dei volumi
realizzati sull’intero lotto considerato ai fini della
precedente concessione”, diversamente consentendosi “il
superamento della densità edilizia voluta dallo strumento
urbanistico”, e legittimando “un differente ed inammissibile
regime edilizio tra aree che sono rimaste in titolarità allo
stesso proprietario, e quelle che invece siano state
frazionate a seguito di interventi edilizi sulle stesse.
Invero, nel caso in
cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto
di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la
superficie coperta residua, va infatti calcolata previo
decurtamento di quella in precedenza realizzata.
Un'area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è infatti suscettibile di ulteriore edificazione
solo quando la costruzione su di essa realizzata non
esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente
al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di
costruire, dovendosi considerare non solo la superficie
libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la
cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare
se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie
scoperta più superficie impegnata dalla costruzione
preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si
chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa
insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
Lotto urbanistico e lotto catastale esprimono infatti
concetti diversi, essendo il primo imperniato sulla
fruibilità urbanistica del suolo, e pertanto, sulla
omogeneità della destinazione urbanistica del terreno, che
ben può essere composto da una pluralità di numeri di mappale
o particelle catastali. Il lotto edificabile integra dunque
uno spazio fisico che prescinde dal profilo dominicale, ben
potendo il lotto edificabile essere formato da appezzamenti
di terreno appartenenti a diversi proprietari, e perfino tra
loro non contigui, che viene individuato dagli strumenti
urbanistici, sulla base degli indici edificatori previsti
dalla normativa urbanistica.
Conseguentemente, è irrilevante, sotto il profilo
urbanistico, la ripartizione di un lotto unitario in più
particelle catastali, di modo che, ai fini del rilascio di
un titolo edilizio per la costruzione di nuovi volumi, è
necessario considerare nel computo degli indici di
fabbricazione anche i manufatti già esistenti sull'intera
area di proprietà, pur se ricadenti in particelle catastali
distinte da quella oggetto di intervento.
---------------
II) In primo luogo, osserva il Collegio che la citata
sentenza n. 372/1993, resa tra le medesime parti, e con
riferimento ad un progetto edilizio insistente sull’area
oggetto del presente giudizio, pronunciandosi
sull’interpretazione del citato art. 6.14.1 delle N.T.A., ha
affermato che “ove una determinata area sia stata
considerata ai fini dell’indice fondiario di fabbricazione,
ogni ulteriore costruzione che interessi in tutto o in parte
l’area stessa, anche se quest’ultima sia stata
successivamente divisa, deve tener conto dei volumi
realizzati sull’intero lotto considerato ai fini della
precedente concessione”, diversamente consentendosi “il
superamento della densità edilizia voluta dallo strumento
urbanistico”, e legittimando “un differente ed inammissibile
regime edilizio tra aree che sono rimaste in titolarità allo
stesso proprietario, e quelle che invece siano state
frazionate a seguito di interventi edilizi sulle stesse”.
III) I principi affermati in detta sentenza, per quanto
contraddetti dall’isolata pronuncia del Consiglio di Stato
invocata dalla ricorrente (n. 5194/2002), sono condivisi dal
Collegio, oltre che dalla giurisprudenza pressoché unanime.
Diversamente da quanto sostenuto dall’istante, nel caso in
cui un lotto urbanisticamente unitario sia già stato oggetto
di uno o più interventi edilizi, la volumetria residua, o la
superficie coperta residua, va infatti calcolata previo
decurtamento di quella in precedenza realizzata (C.S., Sez.
IV, 22.05.2012, n. 2941, TAR Lombardia, Milano, Sez., II,
n. 2652/2015).
Un'area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è infatti suscettibile di ulteriore edificazione
solo quando la costruzione su di essa realizzata non
esaurisca la volumetria consentita dalla normativa vigente
al momento del rilascio dell'ulteriore permesso di
costruire, dovendosi considerare non solo la superficie
libera ed il volume ad essa corrispondente, ma anche la
cubatura del fabbricato preesistente, al fine di verificare
se, in relazione all'intera superficie dell'area (superficie
scoperta più superficie impegnata dalla costruzione
preesistente), residui l'ulteriore volumetria di cui si
chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa possa
insistere su una parte del lotto catastalmente divisa (C.S.,
Sez. V, 12.07.2005 n. 3777, n. 5039/2004, n. 1074/2001).
IV) Lotto urbanistico e lotto catastale esprimono infatti
concetti diversi, essendo il primo imperniato sulla
fruibilità urbanistica del suolo, e pertanto, sulla
omogeneità della destinazione urbanistica del terreno, che
ben può essere composto da una pluralità di numeri di
mappale o particelle catastali. Il lotto edificabile integra
dunque uno spazio fisico che prescinde dal profilo
dominicale, ben potendo il lotto edificabile essere formato
da appezzamenti di terreno appartenenti a diversi
proprietari, e perfino tra loro non contigui, che viene
individuato dagli strumenti urbanistici, sulla base degli
indici edificatori previsti dalla normativa urbanistica
(C.S. Sez. V, 09.03.2015, n. 1161, C.S., Sez. V, 13.09.2013, n.
4531).
Conseguentemente, è irrilevante, sotto il profilo
urbanistico, la ripartizione di un lotto unitario in più
particelle catastali, di modo che, ai fini del rilascio di
un titolo edilizio per la costruzione di nuovi volumi, è
necessario considerare nel computo degli indici di
fabbricazione anche i manufatti già esistenti sull'intera
area di proprietà, pur se ricadenti in particelle catastali
distinte da quella oggetto di intervento (C.S., Sez. V,
27.06.2006, n. 4117) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.05.2017 n. 1191 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ipotesi di realizzazione di un manufatto
edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di
un'area asservita o accorpata, l'intera estensione
interessata deve essere considerata utilizzata ai fini
edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o
accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un
frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui
insiste il manufatto.
---------------
12.8. I rilievi ora esposti si pongono nel solco di una
giurisprudenza consolidata, giacché, "in ipotesi di
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un'area asservita o accorpata,
l'intera estensione interessata deve essere considerata
utilizzata ai fini edificatori, con l'effetto che anche
l'area asservita o accorpata non è più edificabile, anche se
è oggetto di un frazionamento o di alienazione separata
dall'area su cui insiste il manufatto" (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 06.09.1999, n. 1402; sez. V, 07.11.2002, n.
6128; sez. IV, 20.07.2016, n. 3246) (Consiglio di Stato,
Sez. IV,
sentenza 22.11.2016 n. 4891 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il diritto di edificare inerisce alla proprietà
dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è
conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è
idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella
consentita dalla legge (art. 4, u.c., L. 28.01.1977, n. 10)
e dallo strumento urbanistico, e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto
titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui
"un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa".
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti,
non rileva la circostanza che l'unico fondo del proprietario
sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi
verificare l'esistenza di più manufatti sul fondo
dell'originario unico proprietario.
---------------
Ai sensi dell'art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune
disciplina, con il Piano regolatore generale, l'assetto
urbanistico dell'intero territorio comunale, in particolare
prevedendo "la divisione in zone del territorio comunale con
la precisazione delle zone destinate all'espansione
dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei
caratteri da osservare in ciascuna zona".
Le previsioni del Piano servono a conformare l'edificazione
futura e non anche le costruzioni esistenti al momento
dell'entrata in vigore del Piano o di una sua variante, ciò
facendo con prescrizioni tendenzialmente a tempo
indeterminato, in quanto conformative delle destinazioni dei
suoli.
Proprio per le sue caratteristiche di strumento di
pianificazione e di indicazione delle sue possibilità di
utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico,
nel disporre le future conformazioni del territorio,
considera le sole "aree libere", tali dovendosi ritenere
quelle "disponibili" al momento della pianificazione, e
ancor più precisamente quelle che non risultano già
edificate (in quanto costituenti aree di sedime di
fabbricati o utilizzate per opere di urbanizzazione), ovvero
quelle che, nel rispetto degli standard urbanistici,
risultano comunque già utilizzate per l'edificazione (in
quanto asservite alla realizzazione di fabbricati, onde
consentirne lo sviluppo volumetrico).
D'altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano.
Sicché, l'eventuale modificazione del piano regolatore, che
prevede nuovi e più favorevoli indici di fabbricazione, non
può che interessare, nell'ambito della zona del territorio
considerata dallo strumento urbanistico, le sole aree
libere, nel senso sopra precisato, con esclusione, quindi,
di tutte le aree comunque già utilizzate a scopo
edificatorio, ancorché le stesse si presentino "fisicamente"
libere da immobili.
---------------
Un'area edificabile, già interamente considerata in
occasione del rilascio di una concessione edilizia agli
effetti della volumetria realizzabile, non può essere più
tenuta in considerazione come area libera, neppure
parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni.
Più in particolare, è stato, sempre in giurisprudenza,
precisato che in ipotesi di realizzazione di un manufatto
edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di
un'area asservita o accorpata, l'intera estensione
interessata deve essere considerata utilizzata ai fini
edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o
accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un
frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui
insiste il manufatto.
Né il vincolo che deriva dall’utilizzo della volumetria su
una determinata area necessita specifiche previsioni o atti.
Infatti, quando la normativa urbanistica impone limiti di
volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis dalla
sua utilizzazione, sulla base della concessione edilizia,
senza la necessità di strumenti negoziali privatistici (atto
d'obbligo, trascrizione, ecc.).
Questi ultimi, invece, devono sussistere solo quando il
proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un
altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria
maggiore di quella che il suo solo terreno gli
consentirebbe, oppure, ancora, quando siffatto asservimento
sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari
di più terreni li asservano unitariamente alla realizzazione
di un unico progetto, ai fini della quale i rispettivi lotti
perdono, dal punto di vista urbanistico-edilizio, la loro
"individualità". Tale vincolo rimane così cristallizzato nel
tempo.
Gli effetti derivanti dal vincolo creato dall'asservimento
di un fondo, in caso di edificazione, integrando una qualità
oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed
irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle
potenzialità edificatorie dell'area asservita, con
permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di
chiunque ne sia il proprietario.
---------------
1) Il ricorso si rivela infondato.
2) Parte ricorrente lamenta i criteri di determinazione da
parte dell’amministrazione della volumetria realizzabile
sull’area di sua proprietà e, in particolare, afferma che
l’indice di fabbricabilità andasse calcolato sulla sola base
della volumetria realizzata (e quella assentibile) nell’area
classificata B1 dal nuovo piano regolatore, senza tener
conto di quanto in precedenza realizzato anche nell’area ora
F5, e invece valutando che il frazionamento dell’area
dall’originaria particella 5189 era precedente alle
modifiche di PRG, che aveva ripianificato la zona in
questione e devoluto ex novo una parte dell’originaria area
a questa nuova destinazione.
L’intervenuto nuovo strumento urbanistico avrebbe stabilito
un indice di fabbricabilità fondiaria autonomo interamente
sfruttabile nell’area in questione, senza la necessità di
tener presente quanto in precedenza costruito su altro lotto
(ancorché le due aree costituissero inizialmente un’unica
entità), poi assoggettato a differente destinazione
urbanistica.
Le doglianze formulate non possono essere accolte.
Al riguardo, deve considerarsi che, secondo consolidati
principi espressi dalla giurisprudenza, il diritto di
edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti
stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte
Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare
la densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è
conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è
idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella
consentita dalla legge (art. 4, u.c., L. 28.01.1977, n. 10)
e dallo strumento urbanistico, e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto
titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui "un'area
edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di
ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione" (Cons. Stato Sez. IV,
26/09/2008, n. 4647; Cons. di Stato, sez. V, 12.07.2004 n.
5039), "a nulla rilevando che questa possa insistere su
una parte del lotto catastalmente divisa" (Cons. di
Stato, sez. V, 28.02.2001 n. 1074).
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti,
non rileva la circostanza che l'unico fondo del proprietario
sia stato suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi
verificare l'esistenza di più manufatti sul fondo
dell'originario unico proprietario (Cons. Stato, sez. V,
26.11.1994 n. 1382).
Ai sensi dell'art. 7 della l. 17.08.1942 n. 1150, il Comune
disciplina, con il Piano regolatore generale, l'assetto
urbanistico dell'intero territorio comunale, in particolare
prevedendo "la divisione in zone del territorio comunale
con la precisazione delle zone destinate all'espansione
dell'aggregato urbano e la determinazione dei vincoli e dei
caratteri da osservare in ciascuna zona".
Le previsioni del Piano servono a conformare l'edificazione
futura e non anche le costruzioni esistenti al momento
dell'entrata in vigore del Piano o di una sua variante (Cons.
Stato, sez. IV, 18.06.2009 n. 4009), ciò facendo con
prescrizioni tendenzialmente a tempo indeterminato, in
quanto conformative delle destinazioni dei suoli (Cons.
Stato, sez. II, 18.06.2008 n. 982).
Proprio per le sue caratteristiche di strumento di
pianificazione e di indicazione delle sue possibilità di
utilizzo, è del tutto evidente che lo strumento urbanistico,
nel disporre le future conformazioni del territorio,
considera le sole "aree libere", tali dovendosi
ritenere quelle "disponibili" al momento della
pianificazione, e ancor più precisamente quelle che non
risultano già edificate (in quanto costituenti aree di
sedime di fabbricati o utilizzate per opere di
urbanizzazione), ovvero quelle che, nel rispetto degli
standard urbanistici, risultano comunque già utilizzate per
l'edificazione (in quanto asservite alla realizzazione di
fabbricati, onde consentirne lo sviluppo volumetrico).
D'altra parte, diversamente opinando, ogni nuova
pianificazione risulterebbe del tutto scollegata dalla
precedente, potendo da questa prescindere, e di volta in
volta riguarderebbe, senza alcuna contestualizzazione
storica, una parte sempre più esigua del territorio comunale
(cioè quella non ancora occupata da immobili e manufatti),
valutata ex novo.
In tal modo, la pianificazione urbanistica si ridurrebbe a
considerare il territorio solo nella sua mera possibilità di
edificazione, in quanto non ostacolata da presenze
materiali, e non già come un bene da conformare per il
migliore sviluppo della comunità, salvaguardando i diritti
costituzionalmente garantiti degli individui che su di esso
vivono ed operano (Cons. Stato Sez. IV, Sent., 09/07/2011,
n. 4134).
Quanto sin qui esposto, comporta che l'eventuale
modificazione del piano regolatore, che prevede nuovi e più
favorevoli indici di fabbricazione, non può che interessare,
nell'ambito della zona del territorio considerata dallo
strumento urbanistico, le sole aree libere, nel senso sopra
precisato, con esclusione, quindi, di tutte le aree comunque
già utilizzate a scopo edificatorio, ancorché le stesse si
presentino "fisicamente" libere da immobili.
Un'area edificabile, già interamente considerata in
occasione del rilascio di una concessione edilizia agli
effetti della volumetria realizzabile, non può essere più
tenuta in considerazione come area libera, neppure
parzialmente, ai fini del rilascio di una seconda
concessione nella perdurante esistenza del primo edificio,
irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà
dei terreni (Cons. Stato, sez. V, 10.02.2000 n. 749).
Più in particolare, è stato, sempre in giurisprudenza,
precisato che in ipotesi di realizzazione di un manufatto
edilizio la cui volumetria è calcolata sulla base anche di
un'area asservita o accorpata, l'intera estensione
interessata deve essere considerata utilizzata ai fini
edificatori, con l'effetto che anche l'area asservita o
accorpata non è più edificabile, anche se è oggetto di un
frazionamento o di alienazione separata dall'area su cui
insiste il manufatto (Cons. Stato Sez. IV, 09.07.2011, n.
4134; Cons. Stato, sez. V, 07.11.2002 n. 6128; sez. IV,
06.09.1999 n. 1402).
Né il vincolo che deriva dall’utilizzo della volumetria su
una determinata area necessita specifiche previsioni o atti.
Infatti, quando la normativa urbanistica impone limiti di
volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis
dalla sua utilizzazione, sulla base della concessione
edilizia, senza la necessità di strumenti negoziali
privatistici (atto d'obbligo, trascrizione, ecc.) (Sez. IV,
19.01.2008, n. 255; 19.10.2006, n. 6229; 31.01.2005, n.
217).
Questi ultimi, invece, devono sussistere solo quando il
proprietario di un terreno intenda asservirlo a favore di un
altro proprietario limitrofo, per ottenere una volumetria
maggiore di quella che il suo solo terreno gli
consentirebbe, oppure, ancora, quando siffatto asservimento
sia, per così dire, reciproco, nel senso che i proprietari
di più terreni li asservano unitariamente alla realizzazione
di un unico progetto, ai fini della quale i rispettivi lotti
perdono, dal punto di vista urbanistico-edilizio, la loro "individualità"
(Cons. Stato, Sez. V, 23.03.2004, n. 1525 e 25.11.1988, n.
744). Tale vincolo rimane così cristallizzato nel tempo (Cons.
Stato, Sez. IV, 29.07.2008, n. 3766).
Gli effetti derivanti dal vincolo creato dall'asservimento
di un fondo, in caso di edificazione, integrando una qualità
oggettiva del terreno, hanno carattere definitivo ed
irrevocabile e provocano la perdita definitiva delle
potenzialità edificatorie dell'area asservita, con
permanente minorazione della sua utilizzazione da parte di
chiunque ne sia il proprietario (Cons. Stato Sez. V,
27.06.2011, n. 3823).
In conclusione, quindi, in base a quanto indicato, nel caso
di specie, la realizzazione della cubatura sull’originario
fondo n. 5189 da parte della Im.Ca. spa, a cui si è sommata
quella già realizzata dalla ricorrente sull’attuale
particella n. 5375, derivata a seguito di frazionamento,
aveva esaurito le possibilità edificatorie dell’area
originaria e a nulla può valere, nel senso di attribuire una
maggiore fabbricabilità, la circostanza dell’intervenuto
frazionamento e dell’adozione di un nuovo strumento
urbanistico che ha impresso a una parte del fondo una
diversa destinazione, in quanto l’indice di fabbricazione
dell’area originaria non è comunque aumentato.
3) Per le suesposte ragioni il ricorso va rigettato (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 05.05.2016 n. 2265 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Qualora il piano abbia aumentato le potenzialità
edificatorie del suolo, non vi è infatti alcuna ragione per
distinguere le aree già edificate da quelle non edificate,
dovendosi semplicemente riscontrare se, detratta la
volumetria già realizzata sul lotto, residui una ulteriore
potenzialità edificatoria.
Per la stessa ragione, non rileva se il lotto fosse stato
edificato saturando la volumetria consentita dal precedente
strumento urbanistico, poiché –come detto– ciò che rileva è
unicamente la circostanza che residui una volumetria
edificabile in base al nuovo strumento urbanistico.
---------------
La natura della funzione di
pianificazione urbanistica non è diretta soltanto a
disciplinare le potenzialità edificatorie dei suoli liberi
da costruzioni, ma è volta a regolare complessivamente l’uso
di tutto il territorio interessato dal piano, per il
soddisfacimento del complesso delle esigenze della comunità
insediata.
Dalla natura stessa di tale funzione discende che ogni
strumento urbanistico ha pari forza formale rispetto a
quelli ad esso gerarchicamente equiordinati, per cui i
rapporti tra le previsioni di diversi strumenti di
pianificazione urbanistica generale comunale non possono che
risolversi in base al principio cronologico (lex posterior
derogat priori).
Conseguentemente, una volta venuto meno il PRG, affermare
che le aree già edificate non sarebbero ulteriormente
edificabili, nonostante le più favorevoli previsioni del
nuovo PGT, equivarrebbe anche a riconoscere una sostanziale
e non prevista portata ultrattiva allo strumento urbanistico
ormai abrogato.
---------------
Secondo un principio costantemente ribadito dal giudice
amministrativo, un'area è suscettibile di ulteriore
edificazione proprio e soltanto nel caso in cui la
costruzione già realizzata non esaurisca la volumetria
consentita dalla normativa vigente al momento del rilascio
dell'ulteriore titolo edilizio.
Conseguentemente, qualora un lotto urbanisticamente unitario
sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua (o la superficie coperta residua) va
calcolata previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata (e ciò ferma restando l’irrilevanza –sempre
ribadita in giurisprudenza– di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo).
---------------
D’altra parte, non può neppure condividersi l’affermazione
per cui l’eventuale volumetria aggiuntiva dovrebbe comunque
essere sfruttata per incrementare le superfici già
utilizzabili in base al precedente indice urbanistico, e non
anche per consentire l’utilizzazione della cantina/deposito,
precedentemente non computata nella volumetria.
Si tratta, infatti, di una tesi che non trova alcun aggancio
nel complessivo sistema della disciplina urbanistica, dal
quale non si inferisce alcun divieto di utilizzare
l’incremento dell’indice edificatorio per trasformare uno
spazio non abitabile in locale destinato alla permanenza di
persone.
---------------
8.2 Ciò posto, non può condividersi la tesi dei ricorrenti,
secondo la quale l’incremento della volumetria edificabile
previsto dal nuovo strumento urbanistico potrebbe operare
solo nelle aree libere da costruzioni, e non invece in
quelle già edificate, tanto più ove già volumetricamente
sature.
Qualora il piano abbia aumentato le potenzialità
edificatorie del suolo, non vi è infatti alcuna ragione per
distinguere le aree già edificate da quelle non edificate,
dovendosi semplicemente riscontrare se, detratta la
volumetria già realizzata sul lotto, residui una ulteriore
potenzialità edificatoria.
Per la stessa ragione, non rileva se il lotto fosse stato
edificato saturando la volumetria consentita dal precedente
strumento urbanistico, poiché –come detto– ciò che rileva è
unicamente la circostanza che residui una volumetria
edificabile in base al nuovo strumento urbanistico.
La tesi opposta non è condivisibile, in quanto contrasta con
la natura stessa della funzione di pianificazione
urbanistica, la quale non è diretta soltanto a disciplinare
le potenzialità edificatorie dei suoli liberi da
costruzioni, ma è volta a regolare complessivamente l’uso di
tutto il territorio interessato dal piano, per il
soddisfacimento del complesso delle esigenze della comunità
insediata.
Dalla natura stessa di tale funzione discende che ogni
strumento urbanistico ha pari forza formale rispetto a
quelli ad esso gerarchicamente equiordinati, per cui i
rapporti tra le previsioni di diversi strumenti di
pianificazione urbanistica generale comunale non possono che
risolversi in base al principio cronologico (lex
posterior derogat priori).
Conseguentemente, una volta venuto meno il PRG, affermare
che le aree già edificate non sarebbero ulteriormente
edificabili, nonostante le più favorevoli previsioni del
nuovo PGT, equivarrebbe anche a riconoscere una sostanziale
e non prevista portata ultrattiva allo strumento urbanistico
ormai abrogato.
8.3 Le conclusioni qui raggiunte sono, del resto, pacifiche
in giurisprudenza, atteso che, secondo un principio
costantemente ribadito dal giudice amministrativo, un'area è
suscettibile di ulteriore edificazione proprio e soltanto
nel caso in cui la costruzione già realizzata non esaurisca
la volumetria consentita dalla normativa vigente al momento
del rilascio dell'ulteriore titolo edilizio (Cons. Stato,
Sez. V, 28.05.2012, n. 3120; Id., Sez. IV, 29.09.2008, n.
4647; Id., Sez. V, 12.07.2004, n. 5039; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 24.02.2012, n. 623).
Conseguentemente, qualora un lotto urbanisticamente unitario
sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua (o la superficie coperta residua) va
calcolata previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata (v. tra le ultime: Cons. Stato, Sez. IV,
22.05.2012, n. 2941; e ciò ferma restando l’irrilevanza
–sempre ribadita in giurisprudenza, ma costituente questione
che non si pone nel caso di specie– di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo).
8.4 D’altra parte, non può neppure condividersi
l’affermazione per cui l’eventuale volumetria aggiuntiva
dovrebbe comunque essere sfruttata per incrementare le
superfici già utilizzabili in base al precedente indice
urbanistico, e non anche per consentire l’utilizzazione
della cantina/deposito, precedentemente non computata nella
volumetria.
Si tratta, infatti, di una tesi che non trova alcun aggancio
nel complessivo sistema della disciplina urbanistica, dal
quale non si inferisce alcun divieto di utilizzare
l’incremento dell’indice edificatorio per trasformare uno
spazio non abitabile in locale destinato alla permanenza di
persone (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 15.04.2016 n. 737 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il diritto di edificare inerisce alla proprietà
dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici (…), tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (…) e
dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto
titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui
“un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione” (…), a nulla rilevando che questa possa
insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
---------------
Non può farsi riferimento alla <<cubatura residua
determinatasi per effetto del previgente indice di
fabbricabilità fondiaria, essendo essa oggetto di una
facoltà che se non esercitata non è “opponibile” al nuovo
piano … (derivando da ciò) anche l’irrilevanza del
frazionamento del lotto non potendo esso fungere da
strumento di conservazione per l’utilizzazione della
stessa>>.
---------------
L’asservimento di un’area ad una costruzione, dà luogo ad un
rapporto pertinenziale che ha natura permanente,
indipendentemente da quando esso si è verificato, a nulla
valendo che la cubatura originariamente assentita non sia
stata sfruttata per intero, che, dopo l’asservimento, l’area
sia stata frazionata, e che il titolo edilizio a servizio
del quale l’asservimento stesso opera, sia venuto meno per
decadenza.
L'asservimento di un fondo, ai fini della sua edificabilità,
costituisce, infatti, una qualità oggettiva dello stesso,
che continua a seguirlo anche nei successivi trasferimenti o
frazionamenti a qualsiasi titolo posti in essere in epoca
successiva, indipendentemente dalle vicende riguardanti il
titolo a cui accede, posto che il vincolo dal medesimo
creato per sua natura permane sul fondo “servente” (nel
senso che per il calcolo della sua edificabilità vanno
computati i volumi comunque
esistenti) a tempo indeterminato.
---------------
Gli argomenti di doglianza così sintetizzati, non meritano
accoglimento.
Occorre premettere che, come rilevato dalla giurisprudenza:
<<il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei
suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici (…), tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è
conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è
idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella
consentita dalla legge (…) e dallo strumento urbanistico e,
corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se
eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie
che, in base allo specifico indice di fabbricabilità
applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria
sviluppata. Di qui il principio, fermo in giurisprudenza,
secondo cui “un’area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione” (…), a nulla rilevando che questa possa
insistere su una parte del lotto catastalmente divisa>>
(Cons. Stato, Sez. IV, 26/09/2008, n. 4647).
La stessa giurisprudenza ha, inoltre, chiarito che non può
farsi riferimento alla <<cubatura residua determinatasi
per effetto del previgente indice di fabbricabilità
fondiaria, essendo essa oggetto di una facoltà che se non
esercitata non è “opponibile” al nuovo piano … (derivando da
ciò) anche l’irrilevanza del frazionamento del lotto non
potendo esso fungere da strumento di conservazione per
l’utilizzazione della stessa>> (Cons. Stato, Sez. IV,
29/01/2008, n. 255).
A quanto sopra occorre ancora aggiungere, per quanto qui
rileva, che l’asservimento di un’area ad una costruzione, dà
luogo ad un rapporto pertinenziale che ha natura permanente,
indipendentemente da quando esso si è verificato (Cons.
Stato, A.P. 23/04/2009, n. 3; Sez. V, 26/09/2013, n. 4757),
a nulla valendo che la cubatura originariamente assentita
non sia stata sfruttata per intero, che, dopo
l’asservimento, l’area sia stata frazionata, e che il titolo
edilizio a servizio del quale l’asservimento stesso opera,
sia venuto meno per decadenza.
L'asservimento di un fondo, ai fini della sua edificabilità,
costituisce, infatti, una qualità oggettiva dello stesso,
che continua a seguirlo anche nei successivi trasferimenti o
frazionamenti a qualsiasi titolo posti in essere in epoca
successiva (Cons. Stato, Sez. V, 30/03/1998, n. 387; Sez. IV,
06/07/2010, n. 4333), indipendentemente dalle vicende
riguardanti il titolo a cui accede, posto che il vincolo dal
medesimo creato per sua natura permane sul fondo “servente”
(nel senso che per il calcolo della sua edificabilità vanno
computati i volumi comunque esistenti) a tempo indeterminato
(Cons. Stato, Sez. V, 17/06/2014 n. 3094).
Alla luce delle illustrate coordinate di diritto, emerge
l’infondatezza delle tesi sostenute dagli appellanti (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 01.07.2015 n. 3251 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulle modalità di calcolo della volumetria residua di
un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi.
Va precisato che “lotto urbanistico” e
“lotto catastale” esprimono concetti diversi, sicché non
sempre coincidono.
La locuzione "lotto" a ben vedere è impropriamente
utilizzata per indicare una porzione di suolo catastalmente
definita, non avendo nulla a che vedere con
l'identificazione catastale di una o più particelle o
mappali, essendo imperniata sulla fruibilità urbanistica del
suolo e, pertanto, sulla omogeneità della destinazione
urbanistica del terreno, che ben può essere composto da una
pluralità di numeri di mappale o particelle catastali.
Il lotto edificabile integra, dunque, uno spazio fisico che
prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto
edificabile essere formato da appezzamenti di terreno
appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non
contigui) e che viene individuato dagli strumenti
urbanistici sulla base degli indici edificatori previsti
dalla normativa urbanistica.
---------------
Circa la suscettività edificatoria del mappale, o più in
generale di un’area frazionata in più parti e parzialmente
costruita, è quella che residua dalla volumetria complessiva
dell’area, detratta la volumetria dell’originaria
costruzione.
Non rileva, quindi, ai fini del calcolo della volumetria
realizzabile, che l’unico fondo sia stato suddiviso in
catasto in più particelle, dovendosi verificare l’esistenza
di più manufatti sul fondo originario prima del
frazionamento, ove questo sia considerato unitariamente
sotto l’aspetto urbanistico edilizio.
Ne consegue che un’area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento
della domanda del nuovo permesso di costruire, dovendosi
considerare, ai fini del calcolo della volumetria, non solo
la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente, a nulla
rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto
catastalmente divisa.
Va da sé che un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia ai fini della volumetria realizzabile, non può più
essere tenuta in considerazione come area libera, neppure
parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione
nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti
appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei
terreni.
Diversamente, attraverso la mera operazione di frazionamento
catastale del lotto urbanistico, si altererebbe la
disciplina di piano e la potenzialità edificatoria
attribuita ad una determinata area.
---------------
15.- Ciò posto in fatto, va esaminata la questione delle
modalità di calcolo della volumetria residua di un’area
edificatoria già utilizzata a fini edilizi.
15.1- Va, innanzi tutto, precisato che “lotto urbanistico”
e “lotto catastale” esprimono concetti diversi,
sicché non sempre coincidono.
La locuzione "lotto" a ben vedere è impropriamente
utilizzata per indicare una porzione di suolo catastalmente
definita, non avendo nulla a che vedere con
l'identificazione catastale di una o più particelle o
mappali, essendo imperniata sulla fruibilità urbanistica del
suolo e, pertanto, sulla omogeneità della destinazione
urbanistica del terreno, che ben può essere composto da una
pluralità di numeri di mappale o particelle catastali (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. V, 13.09.2013, n. 4531).
Il lotto edificabile integra, dunque, uno spazio fisico che
prescinde dal profilo dominicale (ben può, cioè, il lotto
edificabile essere formato da appezzamenti di terreno
appartenenti a diversi proprietari e perfino tra loro non
contigui) e che viene individuato dagli strumenti
urbanistici sulla base degli indici edificatori previsti
dalla normativa urbanistica.
Ne consegue l’indifferenza ai fini urbanistici del fatto che
il mappale 223, qui in questione, sia lotto catastalmente
autonomo perché scorporato dal mappale originario.
E’ rilevante, invece che il lotto urbanistico, come definito
nel progetto del fabbricato a suo tempo approvato, è
comprensivo anche del mappale 223.
Corollario di tali considerazioni è l’insensibilità del
frazionamento catastale ai fini urbanistici e della
suscettività edificatoria del mappale 223.
15.2- Fermo tanto, quanto alla suscettività edificatoria del
mappale 223, o più in generale di un’area frazionata in più
parti e parzialmente costruita, è quella che residua dalla
volumetria complessiva dell’area, detratta la volumetria
dell’originaria costruzione (Cons. Stato, sez. VI, n. 255
del 2008).
Non rileva, quindi, ai fini del calcolo della volumetria
realizzabile, che l’unico fondo sia stato suddiviso in
catasto in più particelle, dovendosi verificare l’esistenza
di più manufatti sul fondo originario prima del
frazionamento, ove questo sia considerato unitariamente
sotto l’aspetto urbanistico edilizio.
Ne consegue che un’area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento
della domanda del nuovo permesso di costruire, dovendosi
considerare, ai fini del calcolo della volumetria, non solo
la superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente, a nulla
rilevando che questa possa insistere su una parte del lotto
catastalmente divisa (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 5039 del
2004; Cons. Stato, sez. V, n. 1074 del 2001).
Va da sé che un'area edificabile, già interamente
considerata in occasione del rilascio di una concessione
edilizia ai fini della volumetria realizzabile, non può più
essere tenuta in considerazione come area libera, neppure
parzialmente, ai fini del rilascio della seconda concessione
nella perdurante esistenza del primo edificio, irrilevanti
appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà dei
terreni.
Diversamente, attraverso la mera operazione di frazionamento
catastale del lotto urbanistico, si altererebbe la
disciplina di piano e la potenzialità edificatoria
attribuita ad una determinata area.
15.3- L’applicazione di tali criteri ermeneutici comporta,
per la fattispecie qui in esame, che la volumetria ancora
utilizzabile è quella che residua dalla volumetria totale
del lotto urbanistico nella sua consistenza originaria,
determinata in base agli indici volumetrici vigenti al
momento della domanda del nuovo permesso di costruire,
detratta quella già esistente.
Ne consegue la correttezza del diniego dell’amministrazione
comunale che più volte ha evidenziato agli interessati che
l’intervento edilizio riguardava un lotto urbanistico
unitario, parzialmente edificato, sicché tutti i parametri
urbanistici andavano riferiti al lotto urbanistico, non
rilevando il frazionamento catastale dell’area (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 09.03.2015 n. 1161 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un’area già utilizzata a
fini edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo
quando le costruzioni su di essa esistenti,
indipendentemente dall’epoca della relativa realizzazione,
non esauriscano la volumetria consentita dalla normativa
vigente al momento del rilascio dell’ulteriore permesso di
costruire.
Con la conseguenza che, al fine di verificare se residui
l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, si
deve considerare non solo la superficie libera ed il volume
ad essa corrispondente, ma anche la cubatura
dell’edificazione preesistente, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa,
frazionata o alienata separatamente.
---------------
Anche le critiche sollevate col secondo motivo dei
due appelli non persuadono.
Esaminando le più diffuse e articolate contestazioni della
SCER, comprensive anche di quella esposta dal Comune, va
prioritariamente considerata l’obiezione che giustamente la
società aveva fatto riferimento alle p.lle 1050, 1051 e 1052
e non all’intero comparto.
Sul punto, si condivide pienamente quanto ritenuto dal Tar.
Infatti, un’area già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando le
costruzioni su di essa esistenti, indipendentemente
dall’epoca della relativa realizzazione, non esauriscano la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire; con la
conseguenza che, al fine di verificare se residui
l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, si
deve considerare non solo la superficie libera ed il volume
ad essa corrispondente, ma anche la cubatura
dell’edificazione preesistente, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa,
frazionata o alienata separatamente (CGARS,
sentenza 19.11.2014 n. 629 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’indice di fabbricabilità territoriale “s’applica
esclusivamente nel calcolo dei volumi, complessivamente
realizzabili in una ben definita zona urbanistica, in sede
di attuazione dello strumento urbanistico, laddove per il
calcolo del volume, assentibile in relazione ad un ben
individuato e specifico intervento edilizio, occorre rifarsi
necessariamente all'indice di fabbricabilità fondiaria”.
---------------
Quanto al calcolo della volumetria in concreto ammissibile
il Consiglio di Stato ha da tempo affermato che:
- “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione”, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa;
- “allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in
più parti tra vari proprietari,… la volumetria disponibile
ai sensi della normativa urbanistica nell’intera area
permane invariata, con la duplice conseguenza che,
nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo
originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni,
in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione
solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria
costruzione”.
---------------
Come chiarito dal Consiglio di Stato, dunque, non è
possibile applicare l’indice di fabbricabilità fondiaria
sulla sola porzione di fondo risultante dal frazionamento.
Ma non è impedito alla proprietà utilizzare su tale porzione
la volumetria che residua una volta decurtate le dimensioni
della costruzione esistente e dei relativi standard.
---------------
In relazione al primo motivo, questo Tribunale ha già
avuto occasione di chiarire come l’indice di
fabbricabilità territoriale “s’applichi
esclusivamente nel calcolo dei volumi, complessivamente
realizzabili in una ben definita zona urbanistica, in sede
di attuazione dello strumento urbanistico, laddove per il
calcolo del volume, assentibile in relazione ad un ben
individuato e specifico intervento edilizio, occorre rifarsi
necessariamente all'indice di fabbricabilità fondiaria”
(sent. n. 1821/2013).
Sicché, sotto questo profilo, l’operato del Comune, in sede
di rilascio dell’impugnato p.d.c., risulta corretto.
Quanto al calcolo della volumetria in concreto ammissibile,
pure censurato dal ricorrente, il Consiglio di Stato ha da
tempo affermato che:
- “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione” (sez. V, sent. 12.07.2004, n. 5039), a
nulla rilevando che questa possa insistere su una parte del
lotto catastalmente divisa (id., sent. 28.02.2001, n.
1074);
- “allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata
in più parti tra vari proprietari,… la volumetria
disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell’intera
area permane invariata, con la duplice conseguenza che,
nell’ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo
originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni,
in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione
solo la volumetria che residua tenuto conto dell’originaria
costruzione” (sez. IV, sent. 16.02.1987, n. 91).
Come chiarito dal Consiglio di Stato, dunque, non è
possibile applicare l’indice di fabbricabilità
fondiaria sulla sola porzione di fondo risultante dal
frazionamento. Ma non è impedito alla proprietà utilizzare
su tale porzione la volumetria che residua una volta
decurtate le dimensioni della costruzione esistente e dei
relativi standard. E di ciò ha tenuto conto il Comune nel
rilasciare l’impugnato permesso di costruire.
Per fare maggior chiarezza, si precisa che nella fattispecie
in esame la cubatura a disposizione degli odierni
controinteressati non deriva da una variazione in melius
dell’indice di fabbricazione, la quale certamente non
avrebbe potuto riguardare aree già utilizzate a fini
edificatori (così, Consiglio di Stato, sez. IV, sent. n.
4134/2011); bensì risulta dalla applicazione alla medesima
area, complessivamente considerata e fermi tutti i parametri
normativi vigenti, dell’indice di fabbricabilità fondiaria
anziché dell’indice di fabbricabilità territoriale (TAR
Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 04.07.2014 n. 1194 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ove un'area edificabile
venga successivamente frazionata in più parti tra vari
proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della
normativa urbanistica nell'intera area permane invariata,
con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia
stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i
proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota di acquisto.
---------------
1.2 Sotto il secondo profilo non può essere condivisa
la tesi dell’IEEP secondo la quale la particella 134,
distinta dalle altre porzioni risultanti dal frazionamento
del lotto originario di estensione pari a 9243 mq, avrebbe
una propria autonoma dotazione edificatoria indipendente da
quella già espressa dalle altre particelle dell’originario
compendio.
Se così fosse basterebbe frazionare i lotti già impegnati
con la massima cubatura esprimibile per moltiplicare il
carico urbanistico di zona ben oltre il limite consentito
dagli indici di fabbricazione.
E’ infatti pacifico in giurisprudenza (TAR Lombardia-Brescia,
sez. I, 25.11.2011, n. 1629) che ove un'area edificabile
venga successivamente frazionata in più parti tra vari
proprietari, la volumetria disponibile ai sensi della
normativa urbanistica nell'intera area permane invariata,
con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia
stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i
proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota di acquisto
(giurisprudenza costante: Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n.
3120 Cons. St., sez. IV, del 22.05.2012, n. 2941).
Ne consegue che il diniego adottato dal Comune di Bari è
correttamente fondato sul presupposto che la particella 134,
come parte di un più ampio lotto urbanisticamente unitario,
in tal guisa considerato all’epoca delle precedenti
concessioni edilizie, dovesse scontare la volumetria già
realizzata (TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 01.04.2014 n. 440 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla
determinazione della volumetria residua di un'area già
edificata.
Come più volte ribadito dalla
Giurisprudenza <<il diritto di edificare inerisce alla
proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli
strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare
la densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è
conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è
idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella
consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n.
10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto
titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata. Di qui il principio,
fermo in giurisprudenza, secondo cui "un'area edificatoria
già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore
edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione" >>, a nulla rilevando che
questa possa insistere su una parte del lotto catastalmente
divisa.
La giurisprudenza ha evidenziato che, allorché un'area
edificabile venga successivamente frazionata in più parti
tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi
della normativa urbanistica nell'intera area permane
invariata, con la conseguenza che, nell'ipotesi in cui sia
stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i
proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell'originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota di acquisto.
Pertanto, sia la vendita di una parte dell'originario unico
fondo, così come il frazionamento del fondo da parte
dell'originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini
dell'edificabilità delle aree libere, che devono comunque
intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a
quelle assentite al momento del frazionamento.
Fin di recente, la Giurisprudenza ha ribadito che un'area
edificabile, già interamente considerata in occasione del
rilascio di una concessione edilizia agli effetti della
volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in
considerazione come area libera, neppure parzialmente, ai
fini del rilascio di una seconda concessione nelle
perdurante esistenza del primo edificio , irrilevanti appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà de terreni.
Ancora, nel determinare la preesistenza da dedurre, occorre
fare riferimento a tutte le costruzioni, che comunque già
insistono sull'area, ivi comprese quelle abusive (ovvero
condonate) e non già solo a quelle assistite da titolo.
Infatti, <<quando la normativa urbanistica impone limiti di
volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis dalla
sua utilizzazione, a prescindere dal fatto che
l'utilizzazione stessa sia "coperta" o meno da uno dei
titoli all'uopo previsti dall'ordinamento, così come a
prescindere dalla natura stessa -di verifica preventiva
della conformità della realizzando costruzione agli
strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla
disciplina urbanistico/edilizia, ovvero in sanatoria- del
titolo>>.
In conclusione, secondo la giurisprudenza un'area
edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di
ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa.
In altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario
sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua o la superficie coperta residua vanno
calcolate previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell’indice venga alterato con l’ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo.
---------------
La conclusione non muta nell'ipotesi in cui sia stato
costruito abusivamente e la costruzione sia stata
successivamente sanata.
In tal caso, la situazione alla quale far riferimento ai
fini della valutazione dello sfruttamento o meno della
volumetria dei vari lotti non è, come sostiene il
ricorrente, quella al momento del rilascio della concessione
edilizia in sanatoria (la qual cosa si presterebbe a facile
elusione della disciplina urbanistica) bensì quella al
momento della edificazione, allorquando la costruzione, per
la rilevante cubatura, ha assorbito tutta la volumetria
esprimibile dai lotti di terreno all’epoca appartenenti ad
unico proprietario.
Non rileva neppure la circostanza che alcuni dei lotti non
siano stati inseriti nella domanda di condono, avendo
egualmente perduto in via permanente la volumetria al
momento della costruzione.
Invero, nel determinare la preesistenza da dedurre occorre
fare riferimento a tutte le costruzioni, che comunque già
insistono sull’area, ivi comprese quelle abusive (ovvero
condonate) e non già solo a quelle assistite da titolo.
Infatti (come chiarito dalle decisioni sopra richiamate),
quando la normativa urbanistica impone limiti di volumetria,
il vincolo sull'area discende ope legis dalla sua
utilizzazione, a prescindere dal fatto che l’utilizzazione
stessa sia “coperta” o meno da uno dei titoli all’uopo
previsti dall’ordinamento, così come a prescindere dalla
natura stessa –di verifica preventiva della conformità della
realizzanda costruzione agli strumenti urbanistici, ai
regolamenti edilizi ed alla disciplina urbanistico/edilizia,
ovvero successiva ed in sanatoria– del titolo.
Ed ancora, <<il successivo frazionamento della particella
originaria non è idoneo a far ottenere una nuova
potenzialità edificatoria ad una superficie allo scopo già
utilizzata, sia pure con un immobile oggetto di istanza di
condono che, comunque, “impegna” la volumetria assentibile
sulla stessa area>>. Al riguardo, a nulla rileva che l’abuso
edilizio, per il quale è stato richiesto il condono,
riguardi una particella mentre il nuovo intervento che si
vorrebbe realizzare sarà realizzato su altre particelle ,
peraltro formate per frazionamento della p.lla originaria.
D’altra parte, <<è pacifico che ai fini della
quantificazione della volumetria residua disponibile di un
lotto parzialmente edificato occorra considerare tutte le
costruzioni che insistono sull'area. Tra tali costruzioni
vanno dunque inserite anche quelle abusive, purché oggetto
di una domanda di condono e dunque, almeno fino alla
definizione di tale domanda in senso negativo, non
sanzionabili con la demolizione: anche tali manufatti
concorrono a determinare una saturazione dell’area, né
sembra ragionevole escludere dalla volumetria assentibile
quella già sfruttata, sia pure per mezzo di opere abusive
successivamente condonate>>.
---------------
In punto di diritto, vanno quindi richiamati i principi
elaborati dalla giurisprudenza in termini di determinazione
della volumetria residua di un'area già edificata.
Come più volte ribadito dalla Giurisprudenza (cfr. Cons. St.,
Sez. IV, 26.09.2008 n. 4647; sez. V, 28.05.2012, n. 3120;
TAR Lombardia sez. I di Brescia, 25.11.2011 n. 1629; TAR
Campania sez. II Napoli, 14.12.2012 n. 5209) <<il diritto
di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti
stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte
Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare
la densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità. Il diritto di edificare, pertanto, è
conformato anche da tali indici, di modo che ogni area non è
idonea ad esprimere una cubatura maggiore di quella
consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n.
10) e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto
titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata. Di qui il principio,
fermo in giurisprudenza, secondo cui "un'area edificatoria
già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore
edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione" (cfr. Cons. di Stato, sez.
V, 12.07.2004 n. 5039)>>, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa
(Cons. St., sez. V, 28.05.2012, n. 3120 e 28.02.2001 n.
1074).
La giurisprudenza (cfr. Cons. St. Sez. V, 27.06.2006 n.
4117, Sez. IV, 16.02.1987 n. 91) ha evidenziato che,
allorché un'area edificabile venga successivamente
frazionata in più parti tra vari proprietari, la volumetria
disponibile ai sensi della normativa urbanistica nell'intera
area permane invariata, con la conseguenza che, nell'ipotesi
in cui sia stata già realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la
volumetria che residua tenuto conto dell'originaria
costruzione e in proporzione della rispettiva quota di
acquisto.
Pertanto, sia la vendita di una parte dell'originario unico
fondo, così come il frazionamento del fondo da parte
dell'originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini
dell'edificabilità delle aree libere, che devono comunque
intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a
quelle assentite al momento del frazionamento (TAR Sardegna
sez. II Cagliari, 19.05.2006 n. 996; TAR Abruzzo Pescara,
06.02.2006 n. 88; TAR Sicilia sez. I Catania, 01.04.2008 n.
547 e 28.04.2010 n. 1251).
Fin di recente, la Giurisprudenza ha ribadito che un'area
edificabile , già interamente considerata in occasione del
rilascio di una concessione edilizia agli effetti della
volumetria realizzabile, non può più essere tenuta in
considerazione come area libera, neppure parzialmente , ai
fini del rilascio di una seconda concessione nelle
perdurante esistenza del primo edificio , irrilevanti
appalesandosi le vicende inerenti alla proprietà de terreni
(Cons. Stato, sez. IV, 06.05.2013 e n. 2442 e Sez.V
10.02.2000 n. 749).
Ancora, nel determinare la preesistenza da dedurre, occorre
fare riferimento a tutte le costruzioni, che comunque già
insistono sull'area, ivi comprese quelle abusive (ovvero
condonate) e non già solo a quelle assistite da titolo.
Infatti, (cfr. Cons. St., Sez. IV, 12.05.2008 n. 2177) <<quando
la normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il
vincolo dell'area discende ope legis dalla sua
utilizzazione, a prescindere dal fatto che l'utilizzazione
stessa sia "coperta" o meno da uno dei titoli all'uopo
previsti dall'ordinamento, così come a prescindere dalla
natura stessa -di verifica preventiva della conformità della
realizzando costruzione agli strumenti urbanistici, ai
regolamenti edilizi ed alla disciplina urbanistico/edilizia,
ovvero in sanatoria- del titolo>>.
In conclusione, secondo la giurisprudenza un'area
edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di
ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione, a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa
(cfr. Consiglio di Stato, Sezione IV, sentenza n. 2941 del
22.05.2012, sez. V, 12.07.2004 n. 5039).
In altri termini, qualora un lotto urbanisticamente unitario
sia stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua o la superficie coperta residua vanno
calcolate previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell’indice venga alterato con l’ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo.
La conclusione non muta nell'ipotesi in cui sia stato
costruito abusivamente e la costruzione sia stata
successivamente sanata.
In tal caso, la situazione alla quale far riferimento ai
fini della valutazione dello sfruttamento o meno della
volumetria dei vari lotti non è, come sostiene il
ricorrente, quella al momento del rilascio della concessione
edilizia in sanatoria (la qual cosa si presterebbe a facile
elusione della disciplina urbanistica) bensì quella al
momento della edificazione, allorquando la costruzione, per
la rilevante cubatura, ha assorbito tutta la volumetria
esprimibile dai lotti di terreno all’epoca appartenenti ad
unico proprietario.
Non rileva neppure la circostanza che alcuni dei lotti non
siano stati inseriti nella domanda di condono, avendo
egualmente perduto in via permanente la volumetria al
momento della costruzione.
In tal senso, oltre la Giurisprudenza sopra richiamata, v.
anche Tar Lombardia, Sez. I di Brescia, sentenza del
25.11.2011 n. 1629, secondo la quale nel determinare la
preesistenza da dedurre occorre fare riferimento a tutte le
costruzioni, che comunque già insistono sull’area, ivi
comprese quelle abusive (ovvero condonate) e non già solo a
quelle assistite da titolo. Infatti (come chiarito dalle
decisioni sopra richiamate), quando la normativa urbanistica
impone limiti di volumetria, il vincolo sull'area discende
ope legis dalla sua utilizzazione, a prescindere dal
fatto che l’utilizzazione stessa sia “coperta” o meno
da uno dei titoli all’uopo previsti dall’ordinamento, così
come a prescindere dalla natura stessa –di verifica
preventiva della conformità della realizzanda costruzione
agli strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla
disciplina urbanistico/edilizia, ovvero successiva ed in
sanatoria– del titolo.
Nello stesso senso TAR Campania, Sezione VII di Napoli, dec.
n. 7042 del 19/05/2010, secondo il quale <<il successivo
frazionamento della particella originaria non è idoneo a far
ottenere una nuova potenzialità edificatoria ad una
superficie allo scopo già utilizzata, sia pure con un
immobile oggetto di istanza di condono che, comunque,
“impegna” la volumetria assentibile sulla stessa area>>.
Al riguardo, a nulla rileva che l’abuso edilizio, per il
quale è stato richiesto il condono, riguardi una particella
mentre il nuovo intervento che si vorrebbe realizzare sarà
realizzato su altre particelle , peraltro formate per
frazionamento della p.lla originaria.
D’altra parte, prosegue la richiamata decisione, <<è
pacifico che ai fini della quantificazione della volumetria
residua disponibile di un lotto parzialmente edificato
occorra considerare tutte le costruzioni che insistono
sull'area. Tra tali costruzioni vanno dunque inserite anche
quelle abusive, purché oggetto di una domanda di condono e
dunque, almeno fino alla definizione di tale domanda in
senso negativo, non sanzionabili con la demolizione: anche
tali manufatti concorrono a determinare una saturazione
dell’area, né sembra ragionevole escludere dalla volumetria
assentibile quella già sfruttata, sia pure per mezzo di
opere abusive successivamente condonate (in termini, TAR
Campania cit.)>>.
Conseguentemente, alla stregua dei predetti, condivisibili,
orientamenti giurisprudenziali, il ricorso risulta
infondato, poiché nel caso in questione ricorrono tutti i
presupposti voluti dalla giurisprudenza (unico proprietario
di più particelle autonomamente accatastate su alcune delle
quali abbia eseguito costruzioni abusive le quali, per la
rilevante cubatura, impegnino la volumetria di tutte le
particelle catastali autonome) per ritenere definitivamente
perduta la volumetria delle aree, interamente impegnate
dalle costruzioni sanate (TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 26.09.2013 n. 2296 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
È stato nel tempo sempre affermato che l'inedificabilità
dell'area asservita o accorpata ovvero la sua avvenuta
utilizzazione ai fini edificatori, costituisce una qualità
obiettiva del fondo, come tale opponibile ai terzi
acquirenti, ed produce l'effetto d’impedirne l'ulteriore
edificazione oltre i limiti consentiti, a nulla rilevando
che la proprietà dell'area sia stata trasferita ad altri,
che l'edificazione sia direttamente ascrivibile a questi
ultimi, che manchino specifici negozi giuridici privati
diretti all'asservimento o che l'edificio insista su una
parte del lotto catastalmente divisa.
Diversamente opinando, gli indici (di densità territoriale,
di fabbricabilità territoriale e di fondiaria) del piano
urbanistico sopravvenuto, che conformano il diritto di
edificare, si rileverebbero vani e privi di significato, in
quanto le aree sulle quali sono stati operati frazionamenti
verrebbero ad esprimere una cubatura maggiore di quella
consentita alla stregua delle sopravvenute previsioni, in
relazione a tutta la loro estensione considerata dal nuovo
piano, con la conseguenza di pregiudicare la stessa finalità
della strumentazione, di permettere un ordinato sviluppo del
territorio.
---------------
2. Il ricorso è infondato.
La tesi che l'Amministrazione municipale sviluppa richiama
il parere del Consiglio di Stato, Sezione terza, 28.04.2009
n. 9605, secondo il quale "qualora un lotto
urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più
interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie
coperta residua) va calcolata previo decurtamento della
volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali
successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali,
onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con
l’iper saturazione di alcune superfici al fine di creare
artificiosamente disponibilità nel residuo".
La società ricorrente oppone in concreto (in specie, con il
primo motivo di gravame) che, se anche il precedente
strumento urbanistico, sotto il cui vigore è stata
rilasciata al signor Ca.Cu. la licenza edilizia del giorno
11.05.1971 riguardante l'originaria particella 31 del foglio
25, da cui (successivamente al nuovo piano) è stata
stralciata l'attuale particella 1171, di proprietà della
società ricorrente, avesse considerato tali terreni come "un
lotto urbanisticamente unitario", tale situazione non è
più riscontrabile nella disciplina del piano regolatore
generale, approvato con deliberazione della Giunta regionale
21.11.1995 n. 5105, seguita dalla variante generale
approvata con delibera regionale 31.01.2005 n. 561. La
pratica edilizia controversa quindi, in definitiva, è
assoggettata alla più recente strumentazione urbanistica e
precisamente alla disciplina dell'articolo 4 delle norme
tecniche di attuazione, con le relative numerazioni.
In particolare, per gli interventi di nuova edificazione
(anche a seguito di demolizione) nella zona B, l'articolo
4.6 (primo paragrafo) definisce "Le aree libere residue…
quelle tipizzate come zone B e edificate, che non siano
asservite a edifici esistenti, come pertinenze dirette o
come parte scoperta del lotto edificabile originario e che
abbiano diretta comunicazione con una sede stradale pubblica".
Perciò, seguendo il ragionamento attoreo, si dovrebbe
giungere alla conclusione che, in presenza delle vigenti
norme tecniche che si limitano a fissare in 500 m² il lotto
fondiario minimo e in assenza di qualsiasi atto che abbia
asservito l’attuale particella 1171 alla costruzione
realizzata in forza della licenza edilizia del 1971 (non
riscontrabile né nella licenza edilizia né nell'atto di
compravendita), nonché nella mancanza di norme di raccordo
tra la precedente e l'attuale disciplina, la proprietà della
società Le.Co. rappresenti un lotto autonomo suscettibile di
edificazione sulla base dei parametri stabiliti dagli
strumenti urbanistici attualmente in vigore nel comune di
Modugno.
L'assunto però, come già rilevato dalla quarta Sezione del
Consiglio di Stato in sede cautelare, contrasta con
l'interpretazione costantemente data dalla giurisprudenza
alla legislazione urbanistica.
È stato infatti nel tempo sempre affermato che l'inedificabilità
dell'area asservita o accorpata ovvero la sua avvenuta
utilizzazione ai fini edificatori, costituisce una qualità
obiettiva del fondo, come tale opponibile ai terzi
acquirenti, ed produce l'effetto d’impedirne l'ulteriore
edificazione oltre i limiti consentiti, a nulla rilevando
che la proprietà dell'area sia stata trasferita ad altri,
che l'edificazione sia direttamente ascrivibile a questi
ultimi, che manchino specifici negozi giuridici privati
diretti all'asservimento o che l'edificio insista su una
parte del lotto catastalmente divisa (Consiglio di Stato,
Sez. IV, 16.02.1987, n. 91; Sez. V, 25.11.1988, n. 744;
26.11.1994, n. 1382; Sez. IV, 06.09.1999, n. 1402; Sez. V,
10.02.2000, n. 749; 28.02.2001, n. 1074; 07.11.2002, n.
6128; 12.07.2004, n. 5039; Sez. IV, 31.01.2005, n. 217; Sez.
V, 10.05.2005, n. 2328; 09.10.2007, n. 5232; Sez. IV,
26.09.2008, n. 4647; 20.07.2011, n. 4405; TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, 21.12.2009, n. 5750; TAR Puglia, Lecce,
Sez. III, 27.09.2012, n. 1593).
D’altra parte, nella presente vicenda, in linea con i
suddetti principi, il lotto su cui Le.Co. intende costruire
non sembra integrare, neppure alla stregua l'articolo 4.6
delle N.T.A., una delle “aree libere residue”, visto
che dal loro novero devono essere escluse quelle “asservite
a edifici esistenti, …come parte scoperta del lotto
edificabile originario”.
In effetti, diversamente opinando, gli indici (di densità
territoriale, di fabbricabilità territoriale e di fondiaria)
del piano urbanistico sopravvenuto, che conformano il
diritto di edificare, si rileverebbero vani e privi di
significato, in quanto le aree sulle quali sono stati
operati frazionamenti verrebbero ad esprimere una cubatura
maggiore di quella consentita alla stregua delle
sopravvenute previsioni, in relazione a tutta la loro
estensione considerata dal nuovo piano, con la conseguenza
di pregiudicare la stessa finalità della strumentazione, di
permettere un ordinato sviluppo del territorio (ex
plurimis: Consiglio di Stato, Sezione IV, 29.01.2008 n.
255).
A tanto consegue l’infondatezza delle censure sub 1) (TAR
Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 09.01.2013 n. 11 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un’area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire.
Al fine di verificare se, in relazione all’intera superficie
dell’area, residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede
la realizzazione, si deve, pertanto, considerare non solo la
superficie libera e il volume a essa corrispondente ma anche
la cubatura del fabbricato preesistente, anche se eseguito
senza il prescritto titolo, a nulla rilevando che quest’ultimo
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa,
frazionata o alienata separatamente.
Tale condizione, in quanto volta a tenere fermo il rapporto
espresso dall’indice di edificabilità fondiaria e a
consentire il raffronto fra volumi edificati ed edificabili
(altrimenti sarebbero eluse le prescrizioni relative alla
densità edilizia), inerisce obiettivamente al fondo
medesimo: il che significa che è opponibile ai successivi
acquirenti ed è valida anche in assenza del convenzionamento
degli atti d’impegno.
Infatti, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei
suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità: è, pertanto, conformato anche da tali
indici.
---------------
La circostanza dell’epoca di realizzazione dei manufatti, in
sede di computo della volumetria complessiva insediata in
un’area ai fini del rispetto degli standards vigenti, è del
tutto ininfluente, dovendosi considerare, senza alcuna
distinzione, tutta la volumetria già edificata nell’ambito
della zona.
----------------
È legittimo il diniego di un permesso di costruire in caso
di esaurimento della volumetria assentibile poiché la
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata
ha come effetto quella di considerare l’intera estensione
interessata come utilizzata ai fini edificatori; pertanto,
anche l’area asservita o accorpata non è più edificabile,
anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione
separata dall’area su cui insiste il manufatto.
---------------
V. Il ricorso è infondato.
V.1. Il provvedimento di diniego è motivato come segue: “l’area
di intervento risulta derivare per frazionamento dall’area
di pertinenza di un fabbricato di antica costruzione, il cui
volume non è stato tenuto in conto nella determinazione
della capacità edificatoria del suolo, come espressamente
richiesto dall’art. 22 delle NTA del PRG, e il fabbricato
che si chiede di realizzare sviluppa un volume pari alla
capacità edificatoria dell’intera area”.
In particolare, l’originaria particella n. 273 (oggi nn.
1446, 273 sub 3, 1115 e 1116) risultava già edificata nel
1951 nonché oggetto di successivo progetto di ampliamento,
approvato dall’Amministrazione comunale in data 11.07.1958,
con rilascio della relativa licenza (“Villa Pia”).
V.2. Si premette in diritto che:
- Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile
di ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di
essa realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore
permesso di costruire. Al fine di verificare se, in
relazione all’intera superficie dell’area, residui
l’ulteriore volumetria di cui si chiede la realizzazione, si
deve, pertanto, considerare non solo la superficie libera e
il volume a essa corrispondente ma anche la cubatura del
fabbricato preesistente, anche se eseguito senza il
prescritto titolo, a nulla rilevando che quest’ultimo possa
insistere su una parte del lotto catastalmente divisa,
frazionata o alienata separatamente (TAR Lombardia, Milano,
sez. IV, 21.12.2009, n. 5750; Consiglio di Stato, IV,
26.09.2008, n. 4647).
Tale condizione, in quanto volta a tenere fermo il rapporto
espresso dall’indice di edificabilità fondiaria e a
consentire il raffronto fra volumi edificati ed edificabili
(altrimenti sarebbero eluse le prescrizioni relative alla
densità edilizia), inerisce obiettivamente al fondo
medesimo: il che significa che è opponibile ai successivi
acquirenti ed è valida anche in assenza del convenzionamento
degli atti d’impegno.
Infatti, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei
suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità: è, pertanto, conformato anche da tali
indici.
- La circostanza dell’epoca di realizzazione dei manufatti, in sede
di computo della volumetria complessiva insediata in un’area
ai fini del rispetto degli standards vigenti, è del tutto
ininfluente, dovendosi considerare, senza alcuna
distinzione, tutta la volumetria già edificata nell’ambito
della zona (TAR Trentino Alto Adige, Bolzano, 24.01.2008, n.
10).
- È, pertanto, legittimo il diniego di un permesso di costruire in
caso di esaurimento della volumetria assentibile poiché la
realizzazione di un manufatto edilizio la cui volumetria è
calcolata sulla base anche di un’area asservita o accorpata
ha come effetto quella di considerare l’intera estensione
interessata come utilizzata ai fini edificatori; pertanto,
anche l’area asservita o accorpata non è più edificabile,
anche se è oggetto di un frazionamento o di alienazione
separata dall’area su cui insiste il manufatto (Consiglio di
Stato, sez. IV, 09.07.2011, n. 4134).
- L’enunciazione dei suddetti principi espressa negli artt. 22 e 23
delle NTA del Prg di Nardò nulla aggiunge al già consolidato
indirizzo giurisprudenziale né, in assenza di specifici
limiti temporali, ne impone l’applicazione solo
successivamente all’adozione del correlato PRG; peraltro,
quanto all’applicabilità, l’ultimo frazionamento
dell’originario lotto, del 2010, è successivo all’adozione
del citato strumento urbanistico generale (TAR Puglia-Lecce,
Sez. III,
sentenza 27.09.2012 n. 1593 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualora un lotto urbanisticamente unitario sia
stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua (o la superficie coperta residua) va
calcolata previo decurtamento di quella in precedenza
realizzata, con irrilevanza di eventuali successivi
frazionamenti catastali o alienazioni parziali, onde evitare
che il computo dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione
di alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo.
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi,
è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente
suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare
tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà.
Tanto è consolidato questo orientamento che l’Adunanza
plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della
volumetria assentibile su una determinata area secondo
l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche
la costruzione realizzata prima della legge 17.08.1942, n.
1150, quando cioè lo "ius aedificandi" era considerato pura
estrinsecazione del diritto di proprietà, trattandosi di
circostanza ininfluente in sede di commisurazione della
volumetria assentibile in base alla densità fondiaria, cioè
a quella riferita alla singola area e che individua il
volume massimo consentito su di essa. Ciò comporta la
necessità di tener conto del dato reale costituito dagli
immobili che su detta area si trovano e delle relazioni che
intrattengono con l'ambiente circostante.
Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata
con riguardo al lotto originario.
---------------
Come ricordato in narrativa, l’area alla quale si riferisce
la concessione edilizia, richiesta dalla parte privata e
negata dall’Amministrazione, deriva per successivi
frazionamenti da un lotto originario, su cui è stato
costruito un albergo-ristorante. Si controverte sul rilievo
che, ai fini del rilascio del titolo edilizio, debba
riconoscersi il volume relativo all’opera già edificata.
Al riguardo il Giudice amministrativo ha più volte avuto
modo di affermare che, qualora un lotto urbanisticamente
unitario sia stato già oggetto di uno o più interventi
edilizi, la volumetria residua (o la superficie coperta
residua) va calcolata previo decurtamento di quella in
precedenza realizzata, con irrilevanza di eventuali
successivi frazionamenti catastali o alienazioni parziali,
onde evitare che il computo dell'indice venga alterato con
l'ipersaturazione di alcune superfici al fine di creare
artificiosamente disponibilità nel residuo (cfr. Cons.
Stato, Sez. V, 12.07.2004, n. 5039; Id., Sez. III,
28.04.2009, n. 965).
Ne consegue che, ai fini della costruzione di nuovi volumi,
è irrilevante che un lotto unitario sia catastalmente
suddiviso in più particelle, essendo necessario considerare
tutti i volumi già esistenti sull'intera area di proprietà (cfr.
Cons. Stato, Sez. IV, 21.09.2009, n. 5637).
Tanto è consolidato questo orientamento che l’Adunanza
plenaria ha rilevato che, in sede di determinazione della
volumetria assentibile su una determinata area secondo
l'indice di densità fondiaria in vigore, è computabile anche
la costruzione realizzata prima della legge 17.08.1942, n.
1150, quando cioè lo "ius aedificandi" era
considerato pura estrinsecazione del diritto di proprietà,
trattandosi di circostanza ininfluente in sede di
commisurazione della volumetria assentibile in base alla
densità fondiaria, cioè a quella riferita alla singola area
e che individua il volume massimo consentito su di essa. Ciò
comporta la necessità di tener conto del dato reale
costituito dagli immobili che su detta area si trovano e
delle relazioni che intrattengono con l'ambiente circostante
(Cons. Stato, Ad. plen., 23.04.2009, n. 3).
Rileva, in definitiva, la situazione di fatto, apprezzata
con riguardo al lotto originario. Il che nella fattispecie
il Se. non contesta, concentrando piuttosto il primo motivo
dell’appello sul profilo –del tutto giuridico e non fattuale–
della mancanza di un formale atto di asservimento del
precedente fabbricato e di un diverso rilievo di quest’ultimo
secondo la normativa urbanistica dell’epoca.
Circostanze queste che, per le ragioni sopra dette, devono
considerarsi ininfluenti, non ritenendo il Collegio di
doversi discostare da una giurisprudenza cospicua e
consolidata (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.05.2012 n. 2941 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia urbanistica l’atto d’obbligo
trascritto di costituzione della servitù non aedificandi di
un terreno costituisce una qualità oggettiva del suolo
interessato e comporta una obbligazione “propter rem”,
realizzando un particolare vincolo pertinenziale (in quanto
tale non suscettibile di decadenza perché a contenuto
conformativo) destinato a rimanere cristallizzato nel tempo
e che può essere superato, però, soltanto da una nuova
disciplina introdotta dal pianificatore generale in materia
di volumetria e capacità edificatoria (salvo che non si
versi in ipotesi di vincolo di inedificabilità imposto
dall’originario unico proprietario del fondo).
Di conseguenza, poiché la destinazione e l’utilizzazione
delle aree rappresenta un dato urbanisticamente dinamico ed
in evoluzione potendo mutare nel tempo l’indice fondiario
nonché la stessa previsione dei lotti minimi, la
potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente
valutata ed esaminata alla stregua delle modificazioni
urbanistiche sopravvenute con salvezza, si ripete, delle
restrizioni permanenti ai poteri edificatori connessi alla
proprietà gravata.
---------------
Quando la volumetria per l'intera area originaria sia stata
utilizzata, a nulla vale il suo successivo frazionamento,
per giustificare una ulteriore edificabilità e qualora un
lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno
o più interventi edilizi, la volumetria residua va calcolata
previo decurtamento della volumetria realizzata, con
irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali
e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo
dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune
superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità
nel residuo.
Sicché, al fine del rispetto della volumetria assentita dal
piano regolatore generale, non assumono rilievo alcuno le
vicende private connesse alla disponibilità di un'area
edificabile già interamente considerata in occasione del
rilascio di una concessione edilizia, in quanto la vendita
di una parte dell'originario unico fondo, successiva
all'approvazione dello strumento urbanistico che determina
limiti alla relativa edificabilità implicandone
l'esaurimento (come anche il frazionamento del fondo da
parte dell'originario unico proprietario), è irrilevante
rispetto all'inedificabilità delle aree libere, oggetto
della compravendita, che devono comunque intendersi
asservite alle costruzioni già realizzate.
---------------
Considerato:
- le questioni controverse possono essere trattate unitariamente in
considerazione delle loro connessioni ed interdipendenze, a
loro volta collegate dall’unicità del tema relativo
all’asservimento di un suolo in relazione alle
sopravvenienze urbanistiche;
- in linea preliminare, deve essere osservato che in materia
urbanistica l’atto d’obbligo trascritto di costituzione
della servitù non aedificandi di un terreno costituisce una
qualità oggettiva del suolo interessato e comporta una
obbligazione “propter rem”, realizzando un
particolare vincolo pertinenziale (in quanto tale non
suscettibile di decadenza perché a contenuto conformativo)
destinato a rimanere cristallizzato nel tempo e che può
essere superato, però, soltanto da una nuova disciplina
introdotta dal pianificatore generale in materia di
volumetria e capacità edificatoria (salvo che non si versi
in ipotesi di vincolo di inedificabilità imposto
dall’originario unico proprietario del fondo);
- di conseguenza, poiché la destinazione e l’utilizzazione delle
aree rappresenta un dato urbanisticamente dinamico ed in
evoluzione potendo mutare nel tempo l’indice fondiario
nonché la stessa previsione dei lotti minimi, la
potenzialità edificatoria di un terreno va necessariamente
valutata ed esaminata alla stregua delle modificazioni
urbanistiche sopravvenute con salvezza, si ripete, delle
restrizioni permanenti ai poteri edificatori connessi alla
proprietà gravata;
- nella specie, ricorrono entrambe le suddette condizioni ostative
all’ulteriore sfruttamento edilizio, sia perché la società
ricorrente o suo dante causa ha tratto a suo tempo “utilitas”
dall’intervento diretto in luogo del dovuto piano di
lottizzazione a tali fini restringendo l’edificabilità a 3
mc/mq pur esprimendo all’epoca l’area 6,5 mc/mq (ragione per
la quale la deducente non può ora venire contro la stessa
propria scelta), sia perché il sopravvenuto PGT ha previsto
il diverso indice di 1 mc/mq che, essendo inferiore a quello
previgente, comporta che la società interessata risulta aver
già di gran lunga realizzato quanto oggi consentito dal
citato nuovo strumento generale (dovendo essere la richiesta
concessione edilizia assentita secondo le vigenti regole e
la volumetria calcolata in relazione all’intera area
originaria di progetto e non limitatamente al lotto
pertinenziale libero);
- la società ricorrente pretende anche di eseguire quel
differenziale residuo di cubatura attraverso una distorta
lettura dell’art. 4 delle NTA, che escluderebbe a suo dire
rilevanza ai frazionamenti anteriori e la quale, nello
stabilire che “In caso di frazionamenti, avvenuti a far
data dalla adozione del PGT, l’utilizzo delle aree
risultanti è subordinato alla verifica di rispetto degli
indici previsti dal PGT per tutte le aree derivate dal
frazionamento”, non ha invece minimamente inteso fare
salvezza alcuna e semmai rinforzato il criterio che tutto il
costruito deve essere computato ai fini del calcolo delle
volumetrie di piano, per come calcolate in sede di
redazione, a prescindere quindi anche dai frazionamenti
successivi all’adozione del PGT ed a maggior ragione,
allora, di quelli anteriori;
- infatti, quando la volumetria per l'intera area originaria sia
stata utilizzata, a nulla vale il suo successivo
frazionamento, per giustificare una ulteriore edificabilità
(Consiglio Stato, sez. V, 10.02.2000, n. 749) e qualora un
lotto urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno
o più interventi edilizi, la volumetria residua va calcolata
previo decurtamento della volumetria realizzata, con
irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali
e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo
dell'indice venga alterato con l'ipersaturazione di alcune
superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità
nel residuo (Consiglio Stato , sez. III, 28.04.2009, n.
965);
- conclusivamente, al fine del rispetto della volumetria assentita
dal piano regolatore generale, non assumono rilievo alcuno
le vicende private connesse alla disponibilità di un'area
edificabile già interamente considerata in occasione del
rilascio di una concessione edilizia, in quanto la vendita
di una parte dell'originario unico fondo, successiva
all'approvazione dello strumento urbanistico che determina
limiti alla relativa edificabilità implicandone
l'esaurimento (come anche il frazionamento del fondo da
parte dell'originario unico proprietario), è irrilevante
rispetto all'inedificabilità delle aree libere, oggetto
della compravendita, che devono comunque intendersi
asservite alle costruzioni già realizzate (Consiglio Stato,
sez. IV, 06.09.1999, n. 1402) (Consiglio di Stato, Sez. I,
parere 13.01.2012 n. 97 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il comune deve verificare, in vista del rilascio
del titolo abilitativo edilizio, se la disponibilità della
volumetria necessaria all’esecuzione delle opere previste in
progetto sussista in capo al soggetto istante ovvero in capo
a soggetti terzi.
In caso contrario, si determinerebbe la seguente alternativa
di effetti abnormi, in assenza di controlli all’uopo posti
in essere:
a) i limiti di carico urbanistico fissati dagli appositi strumenti
finirebbero per essere superati e vanificati dal
concomitante utilizzo di identiche volumetrie edificabili da
parte di proprietari di suoli ricadenti in medesimi
comparti;
b) i soggetti regolarmente ed effettivamente titolari di volumetrie
realizzabili, ove prevenuti da iniziative edificatorie
autorizzate di altri soggetti proprietari di suoli ubicati
entro il medesimo comparto, finirebbero per essere
illegittimamente privati delle predette volumetrie, pur
senza averne convenuto alcuna cessione.
---------------
Il diritto di edificare inerisce
alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e
dagli strumenti urbanistici, tra i quali quelli diretti a
regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici
di fabbricabilità, con la conseguenza che esso è conformato
anche da tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad
esprimere una cubatura maggiore di quella consentita dalla
legge e dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione impegna la superficie che, in base
allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è
necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Sicché, “un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi
è suscettibile di ulteriore edificazione, solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente, al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie libera più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria, di cui si chiede la
realizzazione”.
---------------
Per verificare la effettiva
potenzialità edificatoria di un originario lotto urbanistico
poi frazionato, occorre sempre partire dalla considerazione
che, in virtù del carattere ‘unitario’ dell'originario lotto
asservito a precedenti costruzioni, non possono non
computarsi le volumetrie realizzate su di esso, considerato
nel suo complesso e unico ad aver acquisito e mantenuto una
‘propria’ potenzialità edificatoria; con la conseguenza che
la verifica dell'edificabilità della parte del lotto rimasta
inedificata e la quantificazione della volumetria su di essa
realizzabile non può che derivare, per sottrazione, dalla
predetta potenzialità, diminuita della volumetria dei
fabbricati già realizzati sull'unica, complessiva area.
Pertanto, allorquando un’area edificabile venga frazionata
in più parti tra vari proprietari –così come anche
allorquando la volumetria disponibile sia ripartita in base
a quote consortili di un comparto edificatorio ex art. 23
della l. n. 1150/1942–, la cubatura utilizzabile ai sensi
della normativa urbanistica nell’intera area permane
invariata; con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in
cui sia stata già realizzata sul fondo originario –o sul
comparto– una costruzione, i proprietari dei vari terreni in
cui detto fondo è stato frazionato (o che compongono il
comparto) hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota.
---------------
Il trasferimento di volumetria da un fondo all'altro e la
cessione di cubatura da parte del proprietario di un fondo
confinante, consistono in un contratto atipico ad effetti
obbligatori avente natura di atto preparatorio, finalizzato
al trasferimento di volumetria, che si perfeziona con il
provvedimento amministrativo.
Presupposto indefettibile della fattispecie è l'adesione del
cedente, che può essere manifestata o sottoscrivendo
l'istanza o il progetto del cessionario, o rinunciando alla
propria cubatura a favore di questi, o notificando al comune
tale sua volontà, mentre il vincolo di asservimento a carico
ed a favore del fondo sorge, sia per le parti sia per i
terzi, solo per effetto del rilascio della concessione
edilizia, che legittima lo ius aedificandi del cessionario.
---------------
L'amministrazione comunale, fin dall'istruttoria sul
rilascio del permesso di costruire, è chiamata a verificare
che esista il titolo per intervenire sull'immobile per il
quale è richiesto il provvedimento autorizzativo –anche se
questo è sempre rilasciato facendo salvi i diritti dei
terzi– e se il titolo non viene provato è legittimo che il
rilascio della concessione venga negato. Tale principio è
desumibile dall'art. 11, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 in base
al quale “il permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo”.
Per modo che la verifica del possesso del titolo a costruire
costituisce un presupposto, la cui mancanza impedisce
all'amministrazione di procedere oltre nell'esame del
progetto.
---------------
4. Venendo ora al terzo motivo di ricorso, con esso
la Artistica Immobiliare lamenta l’eccesso di potere, per
avere il Comune di Benevento svolto indebitamente indagini
estese “alla ricerca d’ufficio di eventuali elementi
limitativi, preclusivi o estintivi del titolo di
disponibilità allegato dal ricorrente medesimo” e per
essersi altrettanto indebitamente arrogata “il compito di
dirimere controversie mai sorte”.
Detto altrimenti, secondo la ricorrente, l’amministrazione
resistente non avrebbe potuto spingersi a verificare, in
vista del rilascio del titolo abilitativo edilizio, se la
disponibilità della volumetria necessaria all’esecuzione
delle opere previste in progetto sussistesse in capo al
soggetto istante ovvero in capo a soggetti terzi (nella
specie, rispettivamente, Ar.Im. e Al.).
Il motivo è infondato, tenuto conto che l’amministrazione è
certamente chiamata a verificare la volumetria edificabile
relativa all’immobile sul quale si richiede il permesso di
costruire.
In caso contrario, si determinerebbe la seguente alternativa
di effetti abnormi, in assenza di controlli all’uopo posti
in essere:
a) i limiti di carico urbanistico fissati dagli appositi strumenti
finirebbero per essere superati e vanificati dal
concomitante utilizzo di identiche volumetrie edificabili da
parte di proprietari di suoli ricadenti in medesimi
comparti;
b) i soggetti regolarmente ed effettivamente titolari di volumetrie
realizzabili, ove prevenuti da iniziative edificatorie
autorizzate di altri soggetti proprietari di suoli ubicati
entro il medesimo comparto, finirebbero per essere
illegittimamente privati delle predette volumetrie, pur
senza averne convenuto alcuna cessione.
Ed invero, nella specie, non si è trattato di vagliare
questioni di distribuzione delle cubature fra proprietari
privati, bensì –stando proprio alla terminologia della
ricorrente– di “verificare soltanto l’esistenza di un
titolo sostanziale idoneo a costituire in capo all’istante
il diritto di sfruttare la potenzialità edificatoria del
bene”.
Al riguardo, giova rammentare, in primis, che il
diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei
limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici,
tra i quali quelli diretti a regolare la densità di
edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità, con
la conseguenza che esso è conformato anche da tali indici,
di modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura
maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione
impegna la superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata; per modo che “un'area edificatoria
già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore
edificazione, solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente, al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie libera più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria,
di cui si chiede la realizzazione” (Cons. Stato, sez. V,
12.07.2004, n. 5039; 12.07.2005, n. 3777; 23.08.2005, n.
4385; 27.06.2006, n. 4117; sez. IV, 29.01.2008, n. 255;
12.05.2008, n. 2177; 26.09.2008, n. 4647; TAR Campania,
Napoli, sez. IV, 08.03.2006, n. 2738; TAR Lazio, Roma, sez.
II, 15.11.2006, n. 12137; TAR Sicilia, Catania, sez. I,
01.04.2008, n. 547).
Ebbene, nel caso di specie, come evidenziato retro, sub n.
3.2, la Ar.Im. e i precedenti acquirenti della proprietà ex
Me., al momento del rilascio dei permessi di costruire
annullati in via di autotutela, avevano già utilizzato una
volumetria di mc. 37.456 per la realizzazione di 14 edifici
in linea a destinazione residenziale (rispettivamente, 5
sagome A1 e 9 sagome A2), risultando così residuata alla
complessiva area spettante agli aventi causa della predetta
proprietà ex Me. una cubatura inferiore ai mc. 5.021
necessari per la costruzione del fabbricato de quo ed
a nulla rilevando che questo insistesse su una porzione
(corrispondente alla particella 1139 del foglio catastale
59), autonoma e catastalmente divisa, ottenuta dal
frazionamento di un più ampio lotto originario
(corrispondente alla particella 803 del foglio 59),
ricompreso nel subcomparto 30/A (sul punto, cfr. Cons.
Stato, sez. V, 28.02.2001 n. 1074; 12.07.2005, n. 3777;
27.06.2006, n. 4117; sez. IV, 26.09.2008, n. 4647).
Difatti, per verificare la effettiva potenzialità
edificatoria di un originario lotto urbanistico poi
frazionato, occorre sempre partire dalla considerazione che,
in virtù del carattere ‘unitario’ dell'originario
lotto asservito a precedenti costruzioni, non possono non
computarsi le volumetrie realizzate su di esso, considerato
nel suo complesso e unico ad aver acquisito e mantenuto una
‘propria’ potenzialità edificatoria; con la
conseguenza che la verifica dell'edificabilità della parte
del lotto rimasta inedificata e la quantificazione della
volumetria su di essa realizzabile non può che derivare, per
sottrazione, dalla predetta potenzialità, diminuita della
volumetria dei fabbricati già realizzati sull'unica,
complessiva area (Cons. Stato, sez. IV, 29.07.2008, n.
3766).
Pertanto, allorquando un’area edificabile venga frazionata
in più parti tra vari proprietari –così come anche
allorquando la volumetria disponibile sia ripartita in base
a quote consortili di un comparto edificatorio ex art. 23
della l. n. 1150/1942–, la cubatura utilizzabile ai sensi
della normativa urbanistica nell’intera area permane
invariata; con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in
cui sia stata già realizzata sul fondo originario –o sul
comparto– una costruzione, i proprietari dei vari terreni in
cui detto fondo è stato frazionato (o che compongono il
comparto) hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota (cfr. Cons. Stato, sez.
IV, 29.01.2008, n. 255).
In base a tali premesse, occorre inferire, con riferimento
al caso di specie, da un lato, che, al momento del rilascio
dei permessi di costruire annullati in via di autotutela, la
potenzialità edificatoria del subcomparto 30/A avrebbe
dovuto calcolarsi tenuto conto delle volumetrie già
realizzate e dall’altro, che gli acquirenti della proprietà
ex Me. (tra i quali, da ultima, la ricorrente) avrebbero
potuto utilizzare la cubatura residua soltanto in
proporzione alla quota spettante alla predetta proprietà,
corrispondente alla particella 1139, così come risultante
dal frazionamento dell’originaria particella 803 del foglio
catastale 59.
In un simile contesto, il Comune di Benevento ha, pertanto,
legittimamente esercitato, in sede di autotutela, i poteri
istruttori di verifica e controllo dell'assentibilità del
progetto con riguardo l'edificazione del lotto della
ricorrente, in quanto questa risulta essersi attribuita
unilateralmente e senza il consenso degli altri proprietari
(titolari della quota ex Tr.–Uc.) anche la volumetria che,
in base all'indice di edificabilità, sarebbe spettata a
questi ultimi.
Ed invero, il trasferimento di volumetria da un fondo
all'altro e la cessione di cubatura da parte del
proprietario di un fondo confinante, consistono in un
contratto atipico ad effetti obbligatori avente natura di
atto preparatorio, finalizzato al trasferimento di
volumetria, che si perfeziona con il provvedimento
amministrativo.
Presupposto indefettibile della fattispecie è l'adesione del
cedente, che può essere manifestata o sottoscrivendo
l'istanza o il progetto del cessionario, o rinunciando alla
propria cubatura a favore di questi, o notificando al comune
tale sua volontà, mentre il vincolo di asservimento a carico
ed a favore del fondo sorge, sia per le parti sia per i
terzi, solo per effetto del rilascio della concessione
edilizia, che legittima lo ius aedificandi del
cessionario (cfr. Cass., 29.06.1981, n. 4245; 22.02.1996, n.
1352; 12.09.1998, n. 9081; Cons. Stato, sez. V, 04.01.1993,
n. 26; 26.11.1994, n. 1382; 28.06.2000, n. 363).
Pertanto, la ricorrente, in mancanza del consenso degli
altri proprietari, non aveva né titolo né legittimazione per
disporre della volumetria ad essi spettante e tale
circostanza non atteneva –a differenza di quanto dalla
medesima dedotto– ai rapporti privatistici tra i vari
proprietari, bensì alla verifica del possesso dei titoli di
legittimazione per il rilascio del titolo abilitativo
edilizio ed all'accertamento, da parte dell’amministrazione
comunale, del rispetto delle prescrizioni e dei vincoli del
piano regolatore connessi agli indici di edificabilità
espressi dal rapporto area–volume (TAR Lombardia, Brescia,
10.01.2006, n. 24)
Gli accertamenti occasionati dal contatto tra disciplina
sostantiva e normativa urbanistico-edilizia, non preludono,
infatti, alla soluzione di conflitti intersoggettivi, ma
ineriscono alla fase istruttoria del procedimento, volta al
riscontro dell’esistenza di un diritto, reale o anche solo
obbligatorio, che rende ammissibile la richiesta. La
possibile incertezza, emergente ab origine o in forza
di successive acquisizioni procedimentali, impone quindi
ogni utile approfondimento istruttorio mirante alla verifica
della legittimazione (TAR Campania, Napoli, sez. VIII,
30.07.2008, n. 9586).
Del resto, l'amministrazione comunale, fin dall'istruttoria
sul rilascio del permesso di costruire, è chiamata a
verificare che esista il titolo per intervenire
sull'immobile per il quale è richiesto il provvedimento
autorizzativo –anche se questo è sempre rilasciato facendo
salvi i diritti dei terzi– e se il titolo non viene provato
è legittimo che il rilascio della concessione venga negato.
Tale principio è desumibile dall'art. 11, comma 1, d.p.r. n.
380/2001 in base al quale “il permesso di costruire è
rilasciato al proprietario dell'immobile o a chi abbia
titolo per richiederlo”. Per modo che la verifica del
possesso del titolo a costruire costituisce un presupposto,
la cui mancanza impedisce all'amministrazione di procedere
oltre nell'esame del progetto (Cons. Stato, sez. V,
07.09.2007, n. 4703) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 11.06.2009 n. 3203 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Qualora un lotto
urbanisticamente unitario sia stato già oggetto di uno o più
interventi edilizi, la volumetria residua (o la superficie
coperta residua) va calcolata previo decurtamento della
volumetria realizzata, con irrilevanza di eventuali
successivi frazionamenti catastali e/o alienazioni parziali,
onde evitare che il computo dell’indice venga alterato con
l’iper saturazione di alcune superfici al fine di creare
artificiosamente disponibilità nel residuo.
---------------
Il ricorso merita accoglimento per la fondatezza della prima
censura che assorbe le rimanenti.
Con il primo motivo l’istante sostiene che con la
concessione impugnata sarebbe stato superato l’indice
massimo di copertura di 0,5 tra superficie coperta e
superficie fondiaria previsto dall’art. 12, sub 6, delle
norme di attuazione al Piano Particolareggiato per le zone
B4 e B5, approvato con deliberazione consiliare n. 108 del
12.09.1995. Ciò in quanto la superficie coperta complessiva
andrebbe calcolata aggiungendo a quella in precedenza
utilizzata quella delle costruzioni assentite con
l’impugnata concessione n. 60, in conseguenza della quale il
rapporto massimo di copertura supererebbe il prescritto
indice di 0,5.
La concessione edilizia n. 60 attiene al lotto n. 7, con
superficie di mq. 1578, dell’isolato 22A del Piano
Particolareggiato. Sul lotto risultano edificati due corpi
di fabbricato (A e B), assentiti con concessione edilizia n.79/89,
occupanti complessivamente una superficie coperta di mq.
787, 44.
In forza dell’indice di copertura previsto per la zona dal
Piano Particolareggiato (0,5 mq./mq.), nel lotto, da
considerare urbanisticamente unitario, é possibile
realizzare una copertura di 789 mq.. Poiché la superficie
coperta utilizzata era pari a mq. 787,44 già realizzati,
l’intervento di cui alla concessione edilizia in esame
porterebbe al superamento di detto indice di copertura.
Infatti, qualora un lotto urbanisticamente unitario sia
stato già oggetto di uno o più interventi edilizi, la
volumetria residua (o la superficie coperta residua) va
calcolata previo decurtamento della volumetria realizzata,
con irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti
catastali e/o alienazioni parziali, onde evitare che il
computo dell’indice venga alterato con l’iper saturazione di
alcune superfici al fine di creare artificiosamente
disponibilità nel residuo (cfr in tal senso, su un caso
pressoché identico, la sentenza 1827/2008 del TAR Sardegna,
Sez. 2ª) (Consiglio di Stato, Sez. III,
parere 28.04.2009 n. 2810 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di
asservimento volumetrico si possono trarre dalla
giurisprudenza consolidata i seguenti principi:
a) nel computo della volumetria assentibile in ciascuna zona di
piano regolatore sono da ricomprendere anche gli edifici
preesistenti, in quanto il p.r.g., nella parte in cui
prevede i limiti entro i quali l’area può essere edificata,
si riferisce non all’edificazione ulteriore rispetto a
quella già esistente al momento della sua approvazione, ma
all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area;
b) le vicende inerenti alla proprietà dei terreni, e in particolare
il frazionamento del fondo da parte dell’originario unico
proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’inedificabilità
delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite
alle costruzioni già realizzate e pertanto restano
inedificabili (oppure edificabili nei soli limiti della
volumetria residua) ove le costruzioni esistenti abbiano già
“consumato” la volumetria disponibile.
In applicazione di questi principi si è statuito che:
- si deve sempre tenere conto dei manufatti preesistenti;
- per calcolare l’entità dell’asservimento e la volumetria residua,
si deve considerare non il regime edilizio più favorevole
esistente all’epoca di edificazione dei manufatti in situ,
ma lo strumento urbanistico vigente alla data del
provvedimento emesso sulla domanda di concessione;
- se un’area edificabile viene frazionata in più parti, alienate a
vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area
rimane invariata, e quella che residua tenuto conto
dell’originaria costruzione resta di pertinenza dei diversi
proprietari in proporzione della rispettiva quota di
acquisto- salvo ovviamente eventuali cessioni di cubatura-,
a nulla rilevando che l’edificanda costruzione vada ad
insistere su un lotto libero risultante dal frazionamento;
- l’area la cui potenzialità edificatoria sia già saturata da una
precedente costruzione deve ritenersi asservita per il solo
fatto della costruzione, anche in mancanza di atto di
asservimento o di concessione rilasciata per un progetto che
individuasse l’area da edificare, in quanto qualsiasi
costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo,
impegna la superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
---------------
3. Prima di esaminare i motivi dei ricorsi, è opportuno
richiamare la posizione della giurisprudenza sulle questioni
in esame, riportando quanto compiutamente stabilito dalla
sentenza n. 123 del 30.01.2007 di questa Sezione: “in
materia di asservimento volumetrico si possono trarre dalla
giurisprudenza consolidata i seguenti principi:
a) nel computo della volumetria assentibile in ciascuna zona di
piano regolatore sono da ricomprendere anche gli edifici
preesistenti (Cons. Stato V 29.11.1994 n. 1414), in quanto
il p.r.g., nella parte in cui prevede i limiti entro i quali
l’area può essere edificata, si riferisce non
all’edificazione ulteriore rispetto a quella già esistente
al momento della sua approvazione, ma all’edificazione
complessivamente realizzabile sull’area (Cons. Stato V
07.11.2002 n. 6128, 26.11.1994 n. 1382);
b) le vicende inerenti alla proprietà dei terreni, e in particolare
il frazionamento del fondo da parte dell’originario unico
proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’inedificabilità
delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite
alle costruzioni già realizzate e pertanto restano
inedificabili (oppure edificabili nei soli limiti della
volumetria residua) ove le costruzioni esistenti abbiano già
“consumato” la volumetria disponibile (Cons. Stato IV
06.09.1999 n. 1402).
In applicazione di questi principi si è statuito che:
- si deve sempre tenere conto dei manufatti preesistenti (Cons.
Stato V n. 6128/2002 cit.);
- per calcolare l’entità dell’asservimento e la volumetria residua,
si deve considerare non il regime edilizio più favorevole
esistente all’epoca di edificazione dei manufatti in situ,
ma lo strumento urbanistico vigente alla data del
provvedimento emesso sulla domanda di concessione (Cons.
Stato V 22.11.2001 n. 5928);
- se un’area edificabile viene frazionata in più parti, alienate a
vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area
rimane invariata, e quella che residua tenuto conto
dell’originaria costruzione resta di pertinenza dei diversi
proprietari in proporzione della rispettiva quota di
acquisto (CS V 12.07.05 n. 3777)- salvo ovviamente eventuali
cessioni di cubatura (cfr. Cass. II, 12.09.1998 n. 9081,
Cons. Stato V 28.06.2000 n. 3637)-, a nulla rilevando che l’edificanda
costruzione vada ad insistere su un lotto libero risultante
dal frazionamento (Cons. Stato VI 27.06.2006 n. 4117 e
riferimenti);
- l’area la cui potenzialità edificatoria sia già saturata da una
precedente costruzione deve ritenersi asservita per il solo
fatto della costruzione, anche in mancanza di atto di
asservimento o di concessione rilasciata per un progetto che
individuasse l’area da edificare (Cons. Stato V 12.07.04 n.
5039), in quanto qualsiasi costruzione, anche se eseguita
senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in
base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è
necessaria per realizzare la volumetria sviluppata (Cons.
Stato V 27.06.2006 n. 4117)” (TAR Lombardia-Milano,
Sez. III,
sentenza 30.10.2008 n. 5223 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Ove un lotto urbanisticamente unitario sia stato
già oggetto di uno o più interventi edilizi, la volumetria
residua (o la superficie coperta residua) va calcolata
previo decurtamento della volumetria realizzata, con
irrilevanza di eventuali successivi frazionamenti catastali
e/o alienazioni parziali, onde evitare che il computo
dell'indice venga alterato con l'iper saturazione di alcune
superfici al fine di creare artificiosamente disponibilità
nel residuo (TAR
Sardegna, Sez. II, sentenza 24.10.2008 n. 1827). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della quantificazione della volumetria
residua disponibile di un lotto occorre considerare le
costruzioni che insistono sull'area, nonché -comunque- le
loro pertinenze necessarie e le aree di transito, le quali
non possono considerarsi "titolari" di alcuna cubatura
autonoma, ulteriore rispetto a quella già realizzata negli
edifici serviti.
---------------
Il ricorso è infondato.
In ordine alla censura di violazione dell’art. 10-bis della
legge n. 241/1990, avanzata con il I) motivo, il collegio
osserva che l’amministrazione ha trasmesso, in corso
d’istruttoria, alla ricorrente il parere contrario reso
sulla sua istanza dal responsabile del procedimento, così
comunicandole “i motivi che ostano all’accoglimento
dell’istanza”, in corretto adempimento di quanto
prescritto dalla cennata disposizione, di cui si assume
erroneamente la violazione.
Dal provvedimento impugnato risulta –diversamente da quanto
opinato dalla ricorrente con il II) motivo– che il diniego
opposto dall’amministrazione non è basato sulla mancanza di
contiguità tra l’edificio della ricorrente in corso di
realizzazione e la particella della quale è stata acquisita
la volumetria, bensì dalla ritenuta impossibilità di
computare quest’ultima, a causa del fatto che la particella
de qua è di pertinenza di altro edificio.
Il ragionamento seguito dall’amministrazione va condiviso.
Bisogna in proposito sottolineare che la particella della
quale la ricorrente ha acquistato la volumetria è, in
concreto, il cortile sul quale si affaccia l’edificio
dell’ex Istituto Pio X e su di essa insistono gli accessi
all’edificio stesso.
In considerazione di siffatta necessaria pertinenzialità,
non può riconoscersi alla stessa alcuna potenzialità
edificatoria, tanto meno da cedere a terzi vicini, quali che
siano le sue vicende civilistiche o catastali (cfr. C.S., V,
07.11.2002, n. 6128) e senza che abbia rilievo la necessità
o meno di computare, ai fini dell’ulteriore cubatura
realizzabile nella zona, quella dell’edificio dell’ex
istituto Pio X, realizzato prima dell’entrata in vigore
dell’attuale legislazione urbanistica limitativa.
Ai fini della quantificazione della volumetria residua
disponibile di un lotto occorre, invero, considerare le
costruzioni che insistono sull'area, nonché –comunque- le
loro pertinenze necessarie e le aree di transito, le quali
non possono considerarsi “titolari” di alcuna
cubatura autonoma, ulteriore rispetto a quella già
realizzata negli edifici serviti (cfr. TAR Sardegna, II,
19.05.2006, n. 996; Id., 19.03.2003, n. 316). E d’altronde
su dette aree funzionalmente asservite agli edifici
preesistenti non è direttamente realizzabile volumetria
alcuna, prima e a prescindere dal ogni eventuale “cessione”.
Sulla base di tutte le considerazioni fin qui svolte, il
ricorso in esame risulta infondato e va quindi rigettato (TAR
Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 07.08.2008 n. 426 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Nel
calcolo della volumetria residua di un lotto in parte già
edificato occorre fare riferimento agli indici edilizi in
vigore alla data di rilascio del nuovo permesso di
costruire. Questo vale sia per gli indici che stabiliscono
direttamente la misura dell’edificazione consentita (indici
di utilizzazione) sia per i parametri rilevanti ai fini del
calcolo (superfici, volumi, altezze, rapporti, distanze).
Pertanto la volumetria esistente deve essere attualizzata
secondo gli indici edilizi sopravvenuti in modo da renderla
omogenea, e dunque confrontabile, con la nuova volumetria di
progetto e con la volumetria complessivamente ammissibile.
Solo così è possibile dare applicazione alla nuova
disciplina edilizia garantendo che l’insediamento di volume
sul territorio sia quello effettivamente consentito dallo
strumento urbanistico più recente.
Questo principio opera negativamente per i proprietari
quando i nuovi indici siano più restrittivi ma può
risolversi anche in un vantaggio quando subentrino indici
più favorevoli.
Un’ipotesi particolare di modifica più favorevole si ha
quando venga riformulato o precisato un parametro edilizio
(nel caso in esame la superficie lorda di pavimento) e la
nuova formulazione consenta di non tenere conto di una parte
della volumetria esistente incrementando così quella
residua. Gli strumenti urbanistici potrebbero distaccarsi da
questa regola introducendo delle disposizioni transitorie
specifiche.
---------------
11. Con il
secondo motivo il ricorrente sostiene che l’edificio
descritto nella DIA avrebbe superato la volumetria
consentita, in violazione dell’art. 20 delle NTA.
Prendendo come riferimento i titoli edificatori relativi
all’ex mappale n. 135 (v. sopra al punto 4) la volumetria
residua sarebbe pari a 434,81 mc (2.508 - 2.073,19) e non a
1.134,50 mc (2.508 – 1.373,50) come dichiarato nella DIA.
Pertanto solo una parte della volumetria di 1.111,07 mc
prevista nella DIA (v. sopra al punto 2) avrebbe potuto
essere collocata sul mappale n. 282.
I controinteressati replicano che la misurazione del volume
dell’edificio presente sull’ex mappale n. 135 (ovvero ex n.
207 e attualmente n. 283) è stata ripetuta utilizzando le
nuove definizioni dei parametri edilizi introdotte nel 2004
dall’art. 12 delle NTA.
Conseguentemente è stato escluso dalla superficie lorda di
pavimento il piano seminterrato in quanto sporgente dal
suolo con la quota dell’intradosso del primo solaio per meno
di 0,70 metri e avente altezza interna non superiore a 2,40
metri (art. 12 punto 5-g delle NTA).
Tenendo in considerazione solo la superficie lorda degli
altri due piani dell’immobile (481,58 mq) il volume risulta
pari a 1.373,50 mc. Ai sensi dell’art. 12 punto 5-e delle
NTA non è inserito nel volume il portico, in quanto la
relativa superficie (35,23 mq) è inferiore al 15% della
superficie lorda di pavimento.
12. La tesi dei controinteressati appare condivisibile.
Nel calcolo della volumetria residua di un lotto in parte
già edificato occorre fare riferimento agli indici edilizi
in vigore alla data di rilascio del nuovo permesso di
costruire. Questo vale sia per gli indici che stabiliscono
direttamente la misura dell’edificazione consentita (indici
di utilizzazione) sia per i parametri rilevanti ai fini del
calcolo (superfici, volumi, altezze, rapporti, distanze).
Pertanto la volumetria esistente deve essere attualizzata
secondo gli indici edilizi sopravvenuti in modo da renderla
omogenea, e dunque confrontabile, con la nuova volumetria di
progetto e con la volumetria complessivamente ammissibile.
Solo così è possibile dare applicazione alla nuova
disciplina edilizia garantendo che l’insediamento di volume
sul territorio sia quello effettivamente consentito dallo
strumento urbanistico più recente.
Questo principio opera negativamente per i proprietari
quando i nuovi indici siano più restrittivi (v. CS Sez. IV
31.12.2007 n. 6833; CS Sez. V 22.11.2001 n. 5928) ma può
risolversi anche in un vantaggio quando subentrino indici
più favorevoli. Un’ipotesi particolare di modifica più
favorevole si ha quando venga riformulato o precisato un
parametro edilizio (nel caso in esame la superficie lorda di
pavimento) e la nuova formulazione consenta di non tenere
conto di una parte della volumetria esistente incrementando
così quella residua. Gli strumenti urbanistici potrebbero
distaccarsi da questa regola introducendo delle disposizioni
transitorie specifiche.
Nel caso in esame tuttavia l’art. 20 delle NTA si limita a
ricaricare la volumetria ammissibile incrementando del 20%
l’indice di utilizzazione fondiaria e non contiene
precisazioni sulla volumetria esistente.
Pertanto non vi sono ragioni per non applicare a tale
volumetria la nuova definizione di superficie lorda di
pavimento introdotta nel PRG del 2004
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.07.2008 n. 830 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il diritto di edificare inerisce alla proprietà
dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr.
art. 4, u.c., della legge 28.01.1977, n. 10, ratione
temporis applicabile al caso di specie) e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo (ed a maggior
ragione, dunque, ove un qualche titolo di sanatoria poi
ottenga), impegna la superficie, che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata.
---------------
Un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente, al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria, di cui si chiede la
realizzazione.
Ai fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto
già parzialmente edificato occorre dunque considerare tutte
le costruzioni, che comunque già insistono sull’area.
---------------
Occorre infatti, in proposito, ricordare che il diritto di
edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti
stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici (Corte
Cost., n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a regolare
la densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr.
art. 4, u.c., della legge 28.01.1977, n. 10, ratione
temporis applicabile al caso di specie) e dallo
strumento urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi
costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo
(ed a maggior ragione, dunque, ove un qualche titolo di
sanatoria poi ottenga), impegna la superficie, che, in base
allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è
necessaria per realizzare la volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui
un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente, al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria, di cui si chiede la
realizzazione (Cons. St., V, 12.07.2004, n. 5039).
Ai fini del calcolo della volumetria disponibile su un lotto
già parzialmente edificato occorre dunque considerare tutte
le costruzioni, che comunque già insistono sull’area.
La tesi sostenuta dall'appellante (della irrilevanza delle
costruzioni, per le quali sia stata presentata ed accolta
domanda di condono edilizio) si rivela, quindi, del tutto
priva di fondamento, dato che, in applicazione del principio
ora detto, quando la normativa urbanistica impone limiti di
volumetria, il vincolo dell'area discende ope legis
dalla sua utilizzazione, a prescindere dal fatto che
l’utilizzazione stessa sia “coperta” o meno da uno
dei titoli all’uopo previsti dall’ordinamento, così come a
prescindere dalla natura stessa –di verifica preventiva
della conformità della realizzando costruzione agli
strumenti urbanistici, ai regolamenti edilizi ed alla
disciplina urbanistico/edilizia, ovvero in sanatoria– del
titolo.
Cosicché l'eventuale sanatoria per condono della costruzione
precedente non esclude, in sede di verifica della
compatibilità di qualsiasi volume successivamente progettato
con la superficie disponibile in relazione all’indice di
fabbricabilità fondiaria dell’area complessiva, il computo
della cubatura così realizzata; ciò tenuto anche conto del
fatto che, in mancanza, come qui accade, di qualsivoglia
statuizione, nel provvedimento di “condono” di cui si
tratta, in mérito alla déroga a detto indice (nei cui limiti
la volumetria all’epoca condonata comunque si manteneva) ed
in forza del principio di stretta interpretazione da
applicarsi in relazione a disposizioni comunque di carattere
eccezionale e straordinario (quali quelle in tema di
sanatoria edilizia), il provvedimento relativo non può che
ritenersi inteso a regolarizzare la mera mancanza di previo
titolo concessòrio per l’effettuato (nel caso di specie) “allargamento
della sagoma dell’edificio”.
Tale compatibilità consegue, in definitiva, non al rilascio
del titolo edilizio (qualunque esso sia) ma alla materiale
esecuzione dell’opera, pur se eseguita abusivamente e pur se
poi “sanata” avvalendosi degli strumenti all’uopo
previsti dall’ordinamento (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 12.05.2008 n. 2177 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Un'area edificatoria già
utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore
edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione.
Insomma, ai fini della quantificazione della volumetria
residua disponibile di un lotto edificato occorre
considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area,
quelle previste con progetti già assentiti dal Comune, come
pure gli atti di asservimento di volumetria in favore di
altro fondo; non può quindi essere considerata libera
un'area già parzialmente edificata, sicché nel calcolo della
volumetria realizzabile, ai fini del rilascio di un permesso
relativo ad una seconda costruzione, nella perdurante
esistenza del primo edificio, dovrà tenersi conto di quanto
già realizzato.
Né l'applicazione di indici di fabbricabilità sopravvenuti
fra la prima edificazione ed il nuovo progetto implica
illegittima applicazione retroattiva di tali indici, in
quanto essa riguarda la nuova valutazione dell'autorità
comunale, che va condotta alla stregua degli indici vigenti.
---------------
Il ricorso, ad avviso del collegio, non è meritevole di
accoglimento.
Il ricorrente vorrebbe sfruttare la cubatura residuata al
tempo del rilascio dei precedenti titoli edilizi; ritiene
che il nuovo indice fondiario debba applicarsi solo alle
aree residuate e non asservite alle costruzioni già
realizzate, non già all'intero lotto. In tal senso ritiene
la determinazione negativa assunta dall'amministrazione
sull'istanza di concessione edilizia del 07.06.2006
illegittima per applicazione retroattiva dei nuovi indici.
Orbene, in materia deve applicarsi il principio secondo cui
un'area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione (C.S., V, n. 5039/2004).
Insomma, ai fini della quantificazione della volumetria
residua disponibile di un lotto edificato occorre
considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area,
quelle previste con progetti già assentiti dal Comune, come
pure gli atti di asservimento di volumetria in favore di
altro fondo (Tar Cagliari, II, n. 996/2006); non può quindi
essere considerata libera un'area già parzialmente
edificata, sicché nel calcolo della volumetria realizzabile,
ai fini del rilascio di un permesso relativo ad una seconda
costruzione, nella perdurante esistenza del primo edificio,
dovrà tenersi conto di quanto già realizzato (Tar Pescara,
n. 88/2006).
Né l'applicazione di indici di fabbricabilità sopravvenuti
fra la prima edificazione ed il nuovo progetto implica
illegittima applicazione retroattiva di tali indici, in
quanto essa riguarda la nuova valutazione dell'autorità
comunale, che va condotta alla stregua degli indici vigenti
(Tar Napoli, II, n. 10239/2004) (TAR Sicilia-Catania, Sez.
I,
sentenza 01.04.2008 n. 547 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Un'area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione. A nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa.
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti,
“non rileva la circostanza che l’unico fondo del
proprietario sia stato suddiviso in catasto in più
particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più
manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario”.
Ed ancora; “allorché un’area edificabile venga
successivamente frazionata in più parti tra vari
proprietari,….., la volumetria disponibile ai sensi della
normativa urbanistica nell’intera area permane invariata,
con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia
stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i
proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota di acquisto”.
---------------
La questione all’esame riguarda, in particolare, la
possibilità di edificare, in base a norme di piano
sopravvenute, su lotto libero derivante da frazionamento di
altro di maggiore estensione, sul quale è stata realizzata,
in virtù delle norme del piano previgente, una volumetria
assentita con titolo edilizio rilasciato in base a progetto
che ha interessato l’intero lotto.
L’appellante è per la soluzione positiva, intendendo
costruire su lotto di 1,519 mq, con destinazione
residenziale confermata dal nuovo piano, ricavato da un
lotto di 3.690, sul quale ha già realizzato 6.636 mc dei
11.070 mc assentibili con il piano preesistente.
Poiché nel nuovo piano non v’è una disciplina urbanistica
dell’area in questione che abbia imposto di tener conto
della volumetria già
realizzata, l’indice di fabbricabilità da esso previsto deve
essere applicato senza condizioni o limitazioni, onde
avrebbe errato il giudice di primo grado ad affermare la
legittimità del contestato diniego.
La tesi non è condividibile.
La Sezione in merito osserva, in via preliminare, che nel
passaggio da uno strumento urbanistico generale ad altro,
ove diversamente non emerga, deve ritenersi che il nuovo
piano sia stato elaborato utilizzando gli stessi dati base
del precedente, occorrenti per la sua formazione; stesso
rilevo cartografico comprendente tutto il territorio
comunale (ed i Comuni contermini); stessi rilievi
aerofotogrammetrici del territorio stesso; stessi fogli
mappali catastali riguardanti e comprendenti l’estensione di
tutto il territorio comunale.
Tutto ciò è senz’altro legittimo e spiega perché sono
irrilevanti i frazionamenti delle proprietà private medio
termine intervenuti, non potendosi ritenere che
l’amministrazione sia obbligata a tenerne conto.
In virtù dei detti dati base vengono stabiliti il nuovo
indice di densità territoriale (normalmente il rapporto tra
numero massimo ammissibile di abitanti e superficie
dell’intero territorio), l’indice di fabbricabilità
territoriale (rapporto tra volume lordo massimo degli
edifici residenziali ad uso residenziale, esclusi i negozi,
e la superficie dell’intero territorio), e quindi la densità
fondiaria e l’indice di fabbricabilità fondiaria.
Tutti indici che conformano il diritto di edificare, per cui
ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di
quella consentita dal nuovo indice, in relazione a tutta la
sua estensione considerata dal nuovo piano.
Ciò spiega l’irrilevanza della cubatura residua
determinatasi per effetto del previgente indice di
fabbricabilità fondiaria, essendo essa oggetto di una
facoltà che se non esercitata non è “opponibile” al
nuovo piano, e spiega anche l’irrilevanza del frazionamento
del lotto non potendo esso fungere da strumento di
conservazione per l’utilizzazione della stessa.
Se così non fosse, evidenti sarebbero gli effetti negativi
sul mantenimento sull’ordinato sviluppo edificatorio delle
zone di p.r.g., e in particolare di quelle residenziali,
postulato dagli indici in precedenza ricordati. Quanto fin
ora argomentato, come già accennato, ha avuto ampio
riscontro nella giurisprudenza di questo Consesso.
Si è quindi stabilito che “un’area edificatoria già
utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore
edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione” (cfr. Cons. di Stato,
sez. V, 12.07.2004 n. 5039). A nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa
(id., 28.02.2001 n. 1074). Ai fini del calcolo della
volumetria realizzabile, infatti, “non rileva la
circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato
suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare
(...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario
unico proprietario” (cfr. id., sez. V, 26.11.1994 n.
1382).
Ed ancora; “allorché un’area edificabile venga
successivamente frazionata in più parti tra vari
proprietari,….., la volumetria disponibile ai sensi della
normativa urbanistica nell’intera area permane invariata,
con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia
stata già realizzata sul fondo originario una costruzione, i
proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota di acquisto” (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 16.02.1987 n. 91).
Poiché per effetto del nuovo indice fondiario, pari a 1 mc/mq,
l’appellante ha esaurito la volumetria disponibile
dell'intero lotto, correttamente il Comune ha rigettato la
sua domanda di rilascio di nuovo permesso di costruire (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 29.01.2008 n. 255 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo un condivisibile orientamento
giurisprudenziale un'area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa (infatti, ai
fini del calcolo della volumetria realizzabile non rileva la
circostanza che l'unico fondo del proprietario sia stato
suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare
l'esistenza di più manufatti sul fondo dell'originario unico
proprietario) (TAR
Basilicata, sentenza 04.09.2007 n. 522). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un terreno edificabile già utilizzato a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera e il volume a essa
corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione (Cds,
sez. V, n. 5039/2004) (TAR
Veneto, Sez. II, sentenza 01.06.2007 n. 1730). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il diritto di edificare inerisce alla proprietà
dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici (cfr. Corte Cost. Sent. n. 5 del 1980), tra i
quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione
ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge e
dallo strumento urbanistico e, corrispondentemente,
qualsiasi costruzione, anche se eseguita senza il prescritto
titolo, impegna la superficie che, in base allo specifico
indice di fabbricabilità applicabile, è necessaria per
realizzare la volumetria sviluppata.
----------------
Secondo un orientamento giurisprudenziale che il Collegio
condivide,
1) “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione”, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa;
2) ai fini del calcolo della volumetria realizzabile “non rileva la
circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato
suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare
(...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario
unico proprietario”;
3) allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in
più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai
sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane
invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in
cui sia stata già realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la
volumetria che residua tenuto conto dell’originaria
costruzione e in proporzione della rispettiva quota di
acquisto.
---------------
Con il terzo motivo di impugnazione i ricorrenti
hanno dedotto che il locale commerciale particella n. 512
non poteva essere ampliato, in quanto la volumetria,
complessivamente realizzata di 7.731,50 mc. (6.720 mc.
dell’edificio costruito sulla particella n. 509 + 1.011,50
mc. del manufatto costruito sulla particella n. 616)
sull’originaria superficie complessiva di 1.538 mq., di cui
ai terreni foglio di mappa n. 71, particella n. 190 sub. c),
d), e) e f), poi frazionati nelle particelle n. 509, n. 510,
n. 511, n. 616 e n. 617, risultava superiore all’indice di
fabbricabilità di 3 mc/mq., stabilito dall’art. 12 delle
Norme Tecniche di Attuazione del vigente PRG, il quale
consentiva la realizzazione di una volumetria massima di
4.614 mc., già completamente utilizzata dagli edifici già
esistenti.
Tale censura risulta fondata e pertanto va accolta per i
seguenti motivi.
Infatti, il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei
suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici (cfr. Corte Cost. Sent. n. 5 del 1980), tra i
quali quelli diretti a regolare la densità di edificazione
ed espressi negli indici di fabbricabilità. Il diritto di
edificare, pertanto, è conformato anche da tali indici, di
modo che ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura
maggiore di quella consentita dalla legge e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la
superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
Comunque, secondo un orientamento giurisprudenziale (cfr.
C.d.S., Sez. V, Sent. n. 5039 del 12.07.2004; C.d.S. Sez. V,
Sent. n. 1074 del 28.02.2001; C.d.S. Sez. V, Sent. n. 1382
del 26.11.1994), che il Collegio condivide (cfr. da ultimo
TAR Basilicata Sent. n. 929 del 30.12.2006 su un’analoga
controversia relativa ai terreni foglio di mappa n. 71
particelle nn. 508, 614 e 615, sempre siti nella stessa zona
del Comune di Matera e confinanti con i terreni foglio di
mappa n. 71 particelle n. 509, n. 510, n. 511, n. 616 e n.
617, oggetto del presente giudizio),
1) “un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione”, a nulla rilevando che questa possa
insistere su una parte del lotto catastalmente divisa;
2) ai fini del calcolo della volumetria realizzabile “non rileva
la circostanza che l’unico fondo del proprietario sia stato
suddiviso in catasto in più particelle, dovendosi verificare
(...) l’esistenza di più manufatti sul fondo dell’originario
unico proprietario”;
3) allorché un’area edificabile venga successivamente frazionata in
più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai
sensi della normativa urbanistica nell’intera area permane
invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in
cui sia stata già realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la
volumetria che residua tenuto conto dell’originaria
costruzione e in proporzione della rispettiva quota di
acquisto (TAR Basilicata,
sentenza 23.03.2007 n. 202 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di asservimento volumetrico si possono
trarre dalla giurisprudenza consolidata i seguenti principi:
a) nel computo della volumetria assentibile in ciascuna zona di
piano regolatore sono da ricomprendere anche gli edifici
preesistenti, in quanto il p.r.g., nella parte in cui
prevede i limiti entro i quali l’area può essere edificata,
si riferisce non all’edificazione ulteriore rispetto a
quella già esistente al momento della sua approvazione, ma
all’edificazione complessivamente realizzabile sull’area;
b) le vicende inerenti alla proprietà dei terreni, e in particolare
il frazionamento del fondo da parte dell’originario unico
proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’inedificabilità
delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite
alle costruzioni già realizzate e pertanto restano
inedificabili (oppure edificabili nei soli limiti della
volumetria residua) ove le costruzioni esistenti abbiano già
“consumato” la volumetria disponibile.
In applicazione di questi principi si è statuito che:
- si deve sempre tenere conto dei manufatti preesistenti;
- per calcolare l’entità dell’asservimento e la volumetria residua,
si deve considerare non il regime edilizio più favorevole
esistente all’epoca di edificazione dei manufatti
in situ,
ma lo strumento urbanistico vigente alla data del
provvedimento emesso sulla domanda di concessione;
- se un’area edificabile viene frazionata in più parti, alienate a
vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area
rimane invariata, e quella che residua tenuto conto
dell’originaria costruzione resta di pertinenza dei diversi
proprietari in proporzione della rispettiva quota di
acquisto -salvo ovviamente eventuali cessioni di cubatura-,
a nulla rilevando che l’edificanda costruzione vada ad
insistere su un lotto libero risultante dal frazionamento;
- l’area la cui potenzialità edificatoria sia già saturata da una
precedente costruzione deve ritenersi asservita per il solo
fatto della costruzione, anche in mancanza di atto di
asservimento o di concessione rilasciata per un progetto che
individuasse l’area da edificare, in quanto qualsiasi
costruzione, anche se eseguita senza il prescritto titolo,
impegna la superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
---------------
6. Ciò premesso, osserva il Collegio che in materia di
asservimento volumetrico si possono trarre dalla
giurisprudenza consolidata i seguenti principi:
a) nel computo della volumetria assentibile in ciascuna zona di
piano regolatore sono da ricomprendere anche gli edifici
preesistenti (Cons. Stato V 29.11.1994 n. 1414), in quanto
il p.r.g., nella parte in cui prevede i limiti entro i quali
l’area può essere edificata, si riferisce non
all’edificazione ulteriore rispetto a quella già esistente
al momento della sua approvazione, ma all’edificazione
complessivamente realizzabile sull’area (Cons. Stato V
07.11.2002 n. 6128, 26.11.1994 n. 1382);
b) le vicende inerenti alla proprietà dei terreni, e in particolare
il frazionamento del fondo da parte dell’originario unico
proprietario, sono irrilevanti ai fini dell’inedificabilità
delle aree libere, che devono comunque intendersi asservite
alle costruzioni già realizzate e pertanto restano
inedificabili (oppure edificabili nei soli limiti della
volumetria residua) ove le costruzioni esistenti abbiano già
“consumato” la volumetria disponibile (Cons. Stato IV
06.09.1999 n. 1402).
In applicazione di questi principi si è statuito che:
- si deve sempre tenere conto dei manufatti preesistenti (Cons.
Stato V n. 6128/2002 cit.);
- per calcolare l’entità dell’asservimento e la volumetria residua,
si deve considerare non il regime edilizio più favorevole
esistente all’epoca di edificazione dei manufatti
in situ,
ma lo strumento urbanistico vigente alla data del
provvedimento emesso sulla domanda di concessione (Cons.
Stato V 22.11.01 n. 5928);
- se un’area edificabile viene frazionata in più parti, alienate a
vari proprietari, la volumetria disponibile nell’intera area
rimane invariata, e quella che residua tenuto conto dell
’originaria costruzione resta di pertinenza dei diversi
proprietari in proporzione della rispettiva quota di
acquisto (CS V 12.07.2005 n. 3777) -salvo ovviamente
eventuali cessioni di cubatura (cfr. Cass. II, 12.09.1998 n.
9081, Cons. Stato V 28.06.2000 n. 3637)-, a nulla rilevando
che l’edificanda costruzione vada ad insistere su un lotto
libero risultante dal frazionamento (Cons. Stato VI
27.06.2006 n. 4117 e riferimenti);
- l’area la cui potenzialità edificatoria sia già saturata da una
precedente costruzione deve ritenersi asservita per il solo
fatto della costruzione, anche in mancanza di atto di
asservimento o di concessione rilasciata per un progetto che
individuasse l’area da edificare (Cons. Stato V 12.07.2004
n. 5039), in quanto qualsiasi costruzione, anche se eseguita
senza il prescritto titolo, impegna la superficie che, in
base allo specifico indice di fabbricabilità applicabile, è
necessaria per realizzare la volumetria sviluppata (Cons.
Stato V 27.06.2006 n. 4117) (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.01.2007 n. 123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A fronte di una determinata potenzialità
edificatoria di un lotto, costituente un dato oggettivo che
misura la compatibilità dello sfruttamento edilizio del
fondo con le previsioni urbanistiche, il conseguimento di un
titolo abilitativo all'edificazione, legato alle scelte
contingenti del proprietario, quand'anche per certi versi
condizionato dalle determinazioni assunte
dall'amministrazione ai fini del rilascio del titolo stesso
in merito alla cubatura ammissibile, non ha certo effetto
preclusivo del successivo sfruttamento della residua
potenzialità edificatoria in astratto disponibile, nel caso
in cui il volume già assentito non esaurisca o superi la
cubatura consentita dalle prescrizioni urbanistiche
(Consiglio Stato, sez. IV, 06.03.2006, n. 1108) (TRGA
Trentino Alto Adige-Bolzano, sentenza 22.11.2006 n. 420). |
EDILIZIA PRIVATA:
Un'area edificatoria già utilizzata a fini
edilizi è suscettibile di ulteriore edificazione solo quando
la costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell'area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l'ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione.
Pertanto, quando la normativa urbanistica impone limiti di
volumetria, il vincolo dell'area discende "ope legis" dalla
sua utilizzazione, senza la necessità di apposito strumento
negoziale, cosicché l'eventuale sanatoria per condono della
costruzione precedente non esclude, a carico della
superficie ulteriore rispetto a quella di sedime, il vincolo
della quantità necessaria ad esprimere la cubatura
realizzata.
---------------
Con il ricorso indicato in epigrafe, l’istante censurava il
provvedimento di diniego della concessione, poiché la
potenzialità edificatoria del terreno era stata assorbita
dagli edifici per i quali erano gi à state realizzate le
concessioni in sanatoria nn. 65-66 e 67, in data 05.07.1996.
A riguardo, il ricorrente censurava la violazione di legge
ed il difetto di motivazione, poiché l’istanza presentata al
Comune era relativa ad un terreno ottenuto dall’istante da
parte della madre, che l’aveva altresì ricevuto per
donazione dal genitore Ri.Vi.. Esponeva, ancora, che tale
appezzamento era parte dell’originaria particella 431, che a
sua volta,era derivata dalla particella 89, poi frazionata.
Orbene sul terreno in menzione erano state richieste due
concessioni in sanatoria da parte degli altri donatari, che
l’ottenevano ai sensi della l. n. 47 de 1985.
Contestava, il ricorrente, la circostanza che sia la legge
n. 47 cit. che la legge n. 724 del 1994 contenessero delle
previsioni atte a giustificare il computo degli edifici
condonati ai fini del limite edificatorio. Peraltro,
evidenziava che, ai sensi della variante al P.R.G. il
terreno d’interesse ricade nella sottozona C3, case
unifamiliari con orto e, non più, come sotto la vigenza del
la precedente disciplina urbanistica, nella zona F3, parchi
pubblici ed impianti sportivi.
Si costituiva l’amministrazione chiedendo il rigetto della
domanda.
Osserva il Collegio che la domanda appare infondata.
Infatti, per smentire la tesi di parte ricorrente, basta
ricordare quanto più volte affermato dalla giurisprudenza
amministrativa sul punto: “Un'area edificatoria già
utilizzata a fini edilizi è suscettibile di ulteriore
edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente al fine di
verificare se, in relazione all'intera superficie dell'area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l'ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione. Pertanto, quando la
normativa urbanistica impone limiti di volumetria, il
vincolo dell'area discende "ope legis" dalla sua
utilizzazione, senza la necessità di apposito strumento
negoziale, cosicché l'eventuale sanatoria per condono della
costruzione precedente non esclude, a carico della
superficie ulteriore rispetto a quella di sedime, il vincolo
della quantità necessaria ad esprimere la cubatura
realizzata” (Consiglio Stato, sez. V, 12 luglio 2004, n.
5039)
Né rileva che il terreno risultasse già frazionato al
momento del rilascio delle concessioni in sanatoria del
1996, poiché l’impegno della superficie necessaria alla
realizzazione della costruzione, in base all’indice di
fabbricabilità applicabile nella zona, consegue non al
rilascio del titolo edilizio ma alla materiale esecuzione
dell’opera, pur se eseguita abusivamente (cfr. Cons. Stato,
sent. cit.) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 15.11.2006 n. 12137 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo consolidati
principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa, il
diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei
limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici,
tra i quali quelli diretti a regolare la densità di
edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr.
art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la
superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
---------------
Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell’ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente alfine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa.
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti,
“non rileva la circostanza che l’unico fondo del
proprietario sia stato suddiviso in catasto in più
particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più
manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario”.
Allorché un’area edificabile venga successivamente
frazionata in più parti tra vari proprietari, infatti, la
volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica
nell’intera area permane invariata, con la duplice
conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già
realizzata sul fondo originario una costruzione, i
proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota di acquisto.
---------------
La tesi non è condividibile.
Questa Sezione ha di recente ribadito (cfr. dec. n. 3777 del
12.07.2005) che, secondo consolidati principi espressi dalla
giurisprudenza amministrativa, il diritto di edificare
inerisce alla proprietà dei suoli nei limiti stabiliti dalla
legge e dagli strumenti urbanistici (Corte Cost. n. 5 del
1980), tra i quali quelli diretti a regolare la densità di
edificazione ed espressi negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr.
art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la
superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui “un’area
edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di
ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell’ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente alfine di
verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione” (cfr. Cons. di Stato,
sez. V, 12.07.2004 n. 5039), a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa
(id., 28.02.2001 n. 1074).
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti,
“non rileva la circostanza che l’unico fondo del
proprietario sia stato suddiviso in catasto in più
particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più
manufatti sul fondo dell’originario unico proprietario”
(cfr. id., sez. V, 26.11.1994 n. 1382).
Allorché un’area edificabile venga successivamente
frazionata in più parti tra vari proprietari, infatti, la
volumetria disponibile ai sensi della normativa urbanistica
nell’intera area permane invariata, con la duplice
conseguenza che, nell’ipotesi in cui sia stata già
realizzata sul fondo originario una costruzione, i
proprietari dei vari terreni, in cui detto fondo è stato
frazionato, hanno a disposizione solo la volumetria che
residua tenuto conto dell’originaria costruzione e in
proporzione della rispettiva quota di acquisto (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 16.02.1987 n. 91).
Nell’ordinamento vigente, dunque, i principi fin qui esposti
conformano lo stesso regime della proprietà edilizia, intesa
come proprietà immobiliare suscettibile di edificazione,
cosicché essi non necessitano di formale enunciazione in
specifiche disposizioni regolamentari o di piano (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 27.06.2006 n. 4117 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Allorché un'area edificabile venga frazionata in
più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai
sensi della normativa urbanistica nell'intera area permane
invariata, con la duplice conseguenza che, nell'ipotesi in
cui sia già stata realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni in cui detto
fondo (originariamente) unico è stato frazionato hanno a
disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto
dell'originaria costruzione e in proporzione della
rispettiva quota di acquisto.
Il principio è condivisibile, ma opera a condizione che
un'area sia stata effettivamente asservita alla costruzione,
nel senso che quest'ultima non avrebbe potuto essere
realizzata senza calcolare la volumetria espressa dall'area
asservita.
Ciò non avviene quando un'area, avente una propria identità
catastale, sebbene indicata nel titolo edilizio come parte
di un compendio edificabile, non sia stata utilizzata
neppure in parte a tale fine, essendo stata edificata, su
altra o altre aree contigue, una volumetria inferiore a
quella di cui queste ultime erano capaci.
---------------
9. Il secondo motivo di ricorso è infondato, sotto
entrambi i profili dedotti (volumetria edificabile e
rapporto filtrante).
Quanto al primo profilo, va precisato che il progetto
riguarda i mappali 104, 730 e 732; tuttavia il mappale 730
-sul quale Edil Futura ha acquistato un diritto di
superficie per la realizzazione di tre autorimesse in
sottosuolo- è stato utilizzato esclusivamente a tale scopo,
e non computato per il calcolo della s.l.p. edificabile.
Quanto ai mappali 104 e 732 (acquistati da Ed.Fu. con atto
di compravendita 08.07.2002), il ricorrente ne assume l’inedificabilità
perché asserviti in passato ad altre costruzioni.
A tal fine richiama la giurisprudenza (Cons. Stato V,
12.07.2005 n. 3777, IV 16.02.1987 n. 91) secondo la quale,
allorché un’area edificabile venga frazionata in più parti
tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi
della normativa urbanistica nell’intera area permane
invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in
cui sia già stata realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni in cui detto
fondo (originariamente) unico è stato frazionato hanno a
disposizione solo la volumetria che residua tenuto conto
dell’originaria costruzione e in proporzione della
rispettiva quota di acquisto.
Il principio è condivisibile, ma opera a condizione che
un’area sia stata effettivamente asservita alla costruzione,
nel senso che quest’ultima non avrebbe potuto essere
realizzata senza calcolare la volumetria espressa dall’area
asservita.
Ciò non avviene quando un’area, avente una propria identità
catastale, sebbene indicata nel titolo edilizio come parte
di un compendio edificabile, non sia stata utilizzata
neppure in parte a tale fine, essendo stata edificata, su
altra o altre aree contigue, una volumetria inferiore a
quella di cui queste ultime erano capaci.
10. Nel caso in esame il mappale 104, sebbene sia menzionato
(con i mappali 105, 458, 459) nel nulla osta 30.09.1972,
rilasciato per la costruzione di tre piani fuori terra, non
è stato però edificato, né la sua volumetria risulta
concretamente “sfruttata” allo scopo di realizzare la
costruzione sul mappale (o sui mappali) contigui.
Dalla disposta verificazione risulta infatti (pag. 7) che:
- l’intero compendio (mq 1352 di superficie lorda; mq 1272 di
superficie utile) esprimeva all’epoca un volume edificabile
di mc 3816;
- il progetto prevedeva un volume di mc 2218 (volume edificato),
sicché residuava un volume di 1598 mc.
Ora, poiché la superficie del mappale 104 è pari ad un terzo
del compendio originario (memoria 10.05.2006 di parte
ricorrente, pag. 14), e poiché l’intero compendio è stato
edificato per meno di 2/3 della volumetria complessivamente
disponibile, ciò significa che il mappale 104, rimasto
libero da edificazioni, non venne asservito alla costruzione
realizzata sui mappali contigui.
Non risulta, d’altro canto, che nella vendita del mappale
104 l’alienante si sia riservato diritti volumetrici, né
risulta che questi, pur legittimato (e forse unico
legittimato) a dolersene, abbia denunciato la lesione di un
proprio (ipotetico) diritto allo sfruttamento della
volumetria residua.
Va aggiunto che, rispetto alla volumetria disponibile sui
mappali 104 e 732, la verificazione, condotta in base ai
parametri urbanistici previsti dalle vigenti n.t.a. (che
fanno riferimento non al volume ma alla superficie lorda di
pavimento), non ha rilevato eccedenze.
La relazione dà conto sul punto (pagg. 9-10) della doppia
verifica effettuata sui mappali di proprietà Ed.Fu., da soli
e in unione con gli altri mappali (104, 105, 458 459)
contemplati in precedenti permessi di costruzione.
Risulta dunque: che la s.l.p. realizzata in base alla d.i.a
28.02.2003 (ridotta in fase esecutiva a mq 271,46) è
inferiore alla s.l.p. (mq 273,95) edificabile computando i
soli mappali 104 e 732; mentre la s.l.p. dell’intero
compendio (271,46 + 572,06 preesistenti = mq 843,52) è
inferiore a quella (mq 921,45) realizzabile sul medesimo
compendio complessivamente considerato (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 13.06.2006 n. 1413 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della quantificazione della volumetria
residua disponibile di un lotto edificato occorre
considerare tutte le costruzioni che insistono sull'area,
quelle previste con un progetto gi à assentito dall’Autorità
comunale, come pure gli atti di asservimento di volumetria
in favore di altro fondo.
Pertanto sia la vendita di una parte dell'originario unico
fondo, così come il frazionamento del fondo da parte
dell'originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini
dell'edificabilità delle aree libere, che devono comunque
intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a
quelle assentite al momento del frazionamento.
---------------
La censura è infondata.
Il fabbricato su cui insiste la proprietà dei ricorrenti
(piano terra e cortile) e la proprietà del controinteressato
(piano primo), faceva parte di un unico lotto di proprietà,
a suo tempo, del signor Ef.Pa..
In sede di divisione della proprietà (atto del 24.05.1954),
al figlio Aldo (dante causa dei ricorrenti) venne attribuita
la proprietà del “piano terreno col giardinetto, la
lavanderia (con la tettoia e la vasca) e le due cantine
sotto la cucina e la stanza da pranzo”, mentre al figlio
Carlo (dante causa del controinteressato), spettò “il
piano superiore, le soffitte e la cantina sotto il salotto,
col diritto di sopraelevare il piano”.
In virtù della divisione del bene tra i fratelli, il diritto
di sopraelevazione è stato attribuito al proprietario del
piano superiore del fabbricato. Ciò ha comportato
necessariamente, seppure implicitamente, l’attribuzione
della volumetria (da calcolare sulla potenzialità di tutto
il lotto) necessaria per realizzare il piano in questione e
per esercitare a pieno il diritto assegnato.
Per volontà delle parti, al proprietario del piano superiore
è stato infatti attribuito il diritto di sopraelevazione,
diritto che impone l’asservimento della volumetria residua
dell’intero lotto in favore dell’ultimo piano sul quale
soltanto può essere realizzata la volumetria disponibile,
volumetria che va calcolata sulla base degli indici previsti
dallo strumento urbanistico vigente al momento del rilascio
della concessione edilizia per la sopraelevazione.
Ai fini della quantificazione della volumetria residua
disponibile di un lotto edificato occorre considerare tutte
le costruzioni che insistono sull'area, quelle previste con
un progetto gi à assentito dall’Autorità comunale, come pure
gli atti di asservimento di volumetria in favore di altro
fondo; pertanto sia la vendita di una parte dell'originario
unico fondo, così come il frazionamento del fondo da parte
dell'originario unico proprietario, sono irrilevanti ai fini
dell'edificabilità delle aree libere, che devono comunque
intendersi asservite alle costruzioni già realizzate ed a
quelle assentite al momento del frazionamento (TAR Abruzzo,
Pescara, 15.01.2002, n. 96; sulla necessità di considerare
complessivamente la potenzialità edificatoria in riferimento
al lotto urbanisticamente individuato vedasi Consiglio Stato
sez. IV, 25.02.1988 n. 100, TAR Sardegna, 31.07.2001 n.
844).
Nel caso di specie la volumetria residua del lotto era stata
asservita con il citato atto di divisione in favore del
lastrico del piano superiore. Correttamente, pertanto, il
Comune di Sassari ha considerato la volumetria dell’intero
originario lotto, ai fini del rilascio delle concessioni
edilizie rilasciate al controinteressato per la
sopraelevazione del fabbricato (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 19.05.2006 n. 996 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Quando una porzione di suolo venga in concreto
utilizzata ai fini del computo della cubatura per
l'edificazione di un manufatto edilizio, essa non può essere
in futuro utilizzata nuovamente a tal fine, neppure nel caso
dell'ulteriore frazionamento ed alienazione dell'area libera
residua.
Ove così non fosse, infatti, si perverrebbe all'aberrante
risultato che, realizzata l'opera, il costruttore potrebbe
ben alienare la porzione di terreno non direttamente
occupata dalla costruzione onde consentirne un ulteriore
sfruttamento edificatorio da parte di un terzo
(Cons. Stato, sez. V, 10.02.2005, n. 2328) (TAR
Abruzzo-Pescara, sentenza 06.02.2006 n. 87). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il diritto di edificare inerisce alla proprietà
dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici, tra i quali quelli diretti a regolare la
densità di edificazione ed espressi negli indici di
fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr.
art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la
superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui
“un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente alfine di verificare se, in relazione
all’intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione”, a nulla rilevando che questa possa insistere
su una parte del lotto catastalmente divisa.
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti,
“non rileva la circostanza che l’unico fondo del
proprietario sia stato suddiviso in catasto in più
particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più
manufatti sul fondo dell'originario unico proprietario”.
---------------
Qualora un'area edificabile venga successivamente frazionata
in più parti tra vari proprietari, la volumetria disponibile
ai sensi della normativa urbanistica nell'intera area
permane invariata, con la duplice conseguenza che,
nell'ipotesi in cui sia stata già realizzata sul fondo
originario una costruzione, i proprietari dei vari terreni,
in cui detto fondo è stato frazionato, hanno a disposizione
solo la volumetria che residua tenuto conto dell'originaria
costruzione e in proporzione della rispettiva quota di
acquisto.
---------------
Al riguardo, deve considerarsi che, secondo consolidati
principi espressi dalla giurisprudenza amministrativa, il
diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli nei
limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti urbanistici
(Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli diretti a
regolare la densità di edificazione ed espressi negli indici
di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr.
art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la
superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui “un’area
edificatoria già utilizzata a fini edilizi è suscettibile di
ulteriore edificazione solo quando la costruzione su di essa
realizzata non esaurisca la volumetria consentita dalla
normativa vigente al momento del rilascio dell'ulteriore
permesso di costruire, dovendosi considerare non solo la
superficie libera ed il volume ad essa corrispondente, ma
anche la cubatura del fabbricato preesistente alfine di
verificare se, in relazione all’intera superficie dell’area
(superficie scoperta più superficie impegnata dalla
costruzione preesistente), residui l’ulteriore volumetria di
cui si chiede la realizzazione” (cfr. Cons. di Stato,
sez. V, 12.07.2004 n. 5039), a nulla rilevando che questa
possa insistere su una parte del lotto catastalmente divisa
(id., 28.02.2001 n. 1074).
Ai fini del calcolo della volumetria realizzabile, infatti,
“non rileva la circostanza che l’unico fondo del
proprietario sia stato suddiviso in catasto in più
particelle, dovendosi verificare (...) l’esistenza di più
manufatti sul fondo dell'originario unico proprietario”
(cfr. id., sez. V, 26.11.1994 n. 1382).
...
Soccorre, allora, il principio già enunciato in proposito da
questa Sezione, secondo il quale allorché un’area
edificabile venga successivamente frazionata in più parti
tra vari proprietari, la volumetria disponibile ai sensi
della normativa urbanistica nell’intera area permane
invariata, con la duplice conseguenza che, nell’ipotesi in
cui sia stata già realizzata sul fondo originario una
costruzione, i proprietari dei vari terreni, in cui detto
fondo è stato frazionato, hanno a disposizione solo la
volumetria che residua tenuto conto dell'originaria
costruzione e in proporzione della rispettiva quota di
acquisto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 16.02.1987 n. 91) (Consiglio
di Stato, Sez. V,
sentenza 12.07.2005 n. 3777 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Il diritto di edificare inerisce alla proprietà
dei suoli nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici (Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli
diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi
negli indici di fabbricabilità.
Il diritto di edificare, pertanto, è conformato anche da
tali indici, di modo che ogni area non è idonea ad esprimere
una cubatura maggiore di quella consentita dalla legge (cfr.
art. 4, u.c., L. 28.01.1977 n. 10) e dallo strumento
urbanistico e, corrispondentemente, qualsiasi costruzione,
anche se eseguita senza il prescritto titolo, impegna la
superficie che, in base allo specifico indice di
fabbricabilità applicabile, è necessaria per realizzare la
volumetria sviluppata.
---------------
Un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione.
---------------
La censura è, nel suo complesso, infondata.
Il diritto di edificare inerisce alla proprietà dei suoli
nei limiti stabiliti dalla legge e dagli strumenti
urbanistici (Corte Cost. n. 5 del 1980), tra i quali quelli
diretti a regolare la densità di edificazione ed espressi
negli indici di fabbricabilità. Il diritto di edificare,
pertanto, è conformato anche da tali indici, di modo che
ogni area non è idonea ad esprimere una cubatura maggiore di
quella consentita dalla legge (cfr. art. 4, u.c., L.
28.01.1977 n. 10) e dallo strumento urbanistico e,
corrispondentemente, qualsiasi costruzione, anche se
eseguita senza il prescritto titolo, impegna la superficie
che, in base allo specifico indice di fabbricabilità
applicabile, è necessaria per realizzare la volumetria
sviluppata.
Di qui il principio, fermo in giurisprudenza, secondo cui
un’area edificatoria già utilizzata a fini edilizi è
suscettibile di ulteriore edificazione solo quando la
costruzione su di essa realizzata non esaurisca la
volumetria consentita dalla normativa vigente al momento del
rilascio dell'ulteriore permesso di costruire, dovendosi
considerare non solo la superficie libera ed il volume ad
essa corrispondente, ma anche la cubatura del fabbricato
preesistente al fine di verificare se, in relazione
all'intera superficie dell’area (superficie scoperta più
superficie impegnata dalla costruzione preesistente),
residui l’ulteriore volumetria di cui si chiede la
realizzazione.
Principio, peraltro, sancito nel caso di specie dall’art. 9,
primo comma, delle norme tecniche di attuazione del piano
regolatore generale, che, con riguardo a tutti gli indici
edilizi, così dispone: “l’utilizzazione degli indici
edilizi che disciplinano l’edificazione in una determinata
area esclude ogni richiesta successiva di altre concessioni
edilizie sull’area -ad eccezione delle ricostruzioni-
indipendentemente da qualsiasi frazionamento o passaggio di
proprietà” (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.07.2004 n. 5039 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposti per il permesso in deroga.
Il permesso in deroga di cui all’art. 5,
commi 9 e ss., del c.d. Decreto sviluppo (d.l. n. 70 del
2011), è ammesso solo laddove gli “edifici a destinazione
non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da
rilocalizzare” si collochino in “aree urbane degradate”: la
valutazione in ordine alla natura “degradata” dell’area è
connotata da ampia discrezionalità tecnica sindacabile solo
in presenza di profili di macroscopica illogicità,
irragionevolezza o di travisamento del fatto (1).
---------------
(1) Ha preliminarmente chiarito il Tar che nel rilascio del
permesso in deroga previsto dall’art. 5 del c.d. Decreto
sviluppo (d.l. n. 70 del 2011), la natura privata e
speculativa dell’intervento edilizio non è di per sé
ostativa all’individuazione di un interesse pubblico, purché
l’intervento realizzi, nel contempo, l’interesse pubblico
alla razionalizzazione e riqualificazione delle aree urbane
degradate e si tratti di destinazioni d’uso tra loro
compatibili e complementari.
Ha aggiunto che l’art. 5, comma 9, del Decreto Sviluppo n.
70 del 2011 si limita a rendere assentitile un permesso in
deroga agli strumenti urbanistici, ma non obbliga
l’amministrazione a concederlo: in quanto istituto
derogatorio del principio per cui lo strumento urbanistico
va rispettato finché è in vigore, l’amministrazione è
titolare di poteri ampiamente discrezionali di carattere
latamente politico implicanti valutazioni di merito che
potrebbero persino prescindere da particolari motivazioni di
carattere tecnico sindacabili entro i limiti della
macroscopica illogicità, irragionevolezza o di travisamento
del fatto.
---------------
4.1. L’art. 5, commi 9 e ss., D.L. n. 70 del 2011 (conv. in L.
106/2011) dispone che “Al fine di incentivare la
razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché
di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane
degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti
edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a
destinazione non residenziale dismessi o in via di
dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche
della necessità di favorire lo sviluppo dell'efficienza
energetica e delle fonti rinnovabili (…) è ammesso il
rilascio di un permesso di costruire in deroga agli
strumenti urbanistici ai sensi dell'articolo 14 del decreto
del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 anche
per il mutamento delle destinazioni d'uso, purché si tratti
di destinazioni tra loro compatibili e complementari (…)".
4.2. In forza di tale disposizione, il presupposto in
presenza del quale “è ammesso” –quindi comunque non
“dovuto”- il rilascio di un permesso di costruire in deroga
al vigente PRGC è che l’intervento edilizio consenta di
perseguire “la razionalizzazione del patrimonio edilizio
esistente” e “la riqualificazione di aree urbane degradate”,
caratterizzate, queste ultime, dalla “presenza di funzioni
eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché
di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via
di dismissione ovvero da rilocalizzare”.
4.3. Nel contesto della disposizione, il riferimento
all’esistenza di “funzioni eterogenee” o di “tessuti edilizi
disorganici o incompiuti” o di “edifici a destinazione non
residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da
rilocalizzare” non individua presupposti autonomi per il
rilascio di un permesso di costruire in deroga, ulteriori
rispetto a quelli costituiti dalla “razionalizzazione del
patrimonio edilizio esistente” e dalla “riqualificazione di
aree urbane degradate”, ma intende unicamente esemplificare
gli specifici contesti urbani “degradati” in cui la norma
trova applicazione.
In tal senso, Consiglio di Stato, sez. IV, 11.04.2014 n. 1767, secondo cui “se può convenirsi
che i “fini” della norma sono due: “la razionalizzazione del
patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e
agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate”,
sono queste ultime ad essere connotate dalla “presenza di
funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o
incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare”.
Se così è, la norma si applica agli edifici a destinazione
non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da
rilocalizzare soltanto ove ricadenti in “aree degradate”.
4.4. In altre parole, l’esistenza di “edifici a destinazione
non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da
rilocalizzare” costituisce un presupposto sufficiente a
consentire il rilascio di un permesso di costruire in deroga
al vigente strumento urbanistico comunale, soltanto nel caso
in cui tali edifici si collochino in “aree urbane
degradate”; solo in tal caso la legge consente al consiglio
comunale di valutare l’assentibilità di proposte di
edificazione in deroga al vigente PRGC e con il
riconoscimento al soggetto proponente di particolari facoltà
“premianti” (volumetria aggiuntiva, possibilità di delocalizzare la volumetria in area diversa, ammissibilità
di modifiche della destinazione d’uso e delle sagome degli
edifici), nella misura in cui gli interventi proposti
consentano di perseguire l’interesse pubblico prioritario
alla “razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente” e
alla “riqualificazione di aree urbane degradate”.
4.5. La valutazione circa la sussistenza di tali
presupposti, ed in particolare circa l’esistenza di aree
urbane “degradate”, è rimessa per legge al consiglio
comunale; si tratta di una valutazione connotata da ampia
discrezionalità tecnica, tenuto che conto che essa può
comportare deroghe più o meno estese alla vigente
strumentazione urbanistica, e che per tale motivo è
sindacabile da questo giudice solo in presenza di profili di
macroscopica illogicità, irragionevolezza o di travisamento
del fatto: profili che, nel caso di specie, il collegio non
rileva.
4.6. Le società ricorrenti sostengono che lo stato di
degrado dell’area si evincerebbe sia dalla motivazione della
delibera consiliare impugnata, sia dalla documentazione
versata in atti.
Il collegio non condivide la tesi di parte ricorrente:
- premesso che la nozione di “degrado” di un bene non attinge a
regole tecniche desunte da scienze esatte e quindi sconta
sempre, inevitabilmente, un tasso più o meno elevato di
opinabilità, va osservato che nella motivazione della
delibera consiliare n. 48/2017 l’area è così descritta:
“L’area presenta le seguenti caratteristiche: la proprietà
risulta delimitata da una recinzione il cui accesso
principale è individuato da un cancello carraio posto sulla
via ... al civico 75. Nell’area sono presenti alcune
serre, bassi fabbricati e tettorie aperte e chiuse (in
cattivo stato di manutenzione e derivanti dall’attività
agricola preesistente), ora utilizzate per il parcheggio
degli autobus di linea appartenenti alla ditta Ca.,
proprietaria degli immobili. La restante parte della
proprietà risulta inutilizzata, incolta e ricoperta da
vegetazione”; il provvedimento, osserva il collegio, non
sembra individuare un’area “degradata”, quanto piuttosto
un’area su cui insistono manufatti in cattivo stato di
manutenzione (ma tuttora utilizzati da una delle società
ricorrenti per l’esercizio della propria attività
imprenditoriale di autotrasporto), e in parte costituita da
terreno incolto e inutilizzato;
- la stessa documentazione fotografica prodotta in giudizio dalle
società ricorrenti (doc. 11) non restituisce l’immagine di
un’area “degradata”: si percepisce la presenza di abbondante
vegetazione spontanea, con alcuni modesti manufatti agricoli
in evidente stato di cattiva manutenzione; sembra anche di
percepire che l’area si collochi in un contesto rurale, o
comunque scarsamente urbanizzato; tuttavia, dedurre da
questi elementi l’esistenza di un’area urbana degradata è
una conclusione che il collegio non ritiene di condividere,
e che comunque, allo stato degli atti, appare quanto meno
opinabile;
- è noto, a questo riguardo, che quando l'Amministrazione non
applica scienze esatte che conducono ad un risultato certo
ed univoco, ma formula un giudizio tecnico connotato da un
fisiologico margine di opinabilità, per sconfessare quest'ultimo
non è sufficiente evidenziare la mera non condivisibilità
del giudizio, dovendosi piuttosto dimostrare la sua palese
inattendibilità, l'evidente insostenibilità, con la
conseguenza che, ove non emergano travisamenti,
pretestuosità o irrazionalità, ma solo margini di
fisiologica opinabilità e non condivisibilità della
valutazione tecnico-discrezionale operata dalla Pubblica
amministrazione, il giudice amministrativo non può
sovrapporre alla valutazione opinabile del competente organo
della stessa la propria, giacché diversamente egli
sostituirebbe un giudizio opinabile (nella specie, quello
del consiglio comunale circa l’insussistenza di una
situazione di degrado dell’area interessata dal progetto di
edificazione in deroga al PRGC) con uno altrettanto
opinabile (nella specie, quello espresso dalla difesa di
parte ricorrente), assumendo così un potere che la legge
riserva all'Amministrazione;
- in tale contesto, pertanto, ritiene il collegio che la
valutazione del consiglio comunale di Giaveno circa
l’insussistenza di un’area degradata da riqualificare, per
quanto opinabile, non sia tuttavia manifestamente illogica o
irragionevole o frutto di un macroscopico travisamento della
situazione di fatto, e in quanto tale si sottragga al
sindacato giurisdizionale di questo giudice, alla stregua
dei principi sopra esposti.
4.7. A tali considerazioni va poi aggiunto un rilievo di
fondo, e cioè che l’art. 5, comma 9, del Decreto Sviluppo n.
70/2011 (convertito in L. 106/2011) si limita ad individuare
i presupposti in presenza dei quali l’amministrazione può
rilasciare eccezionalmente un permesso di costruire in
deroga alla vigente strumentazione urbanistica, senza la
necessità di passare attraverso una previa modifica formale
dello strumento urbanistico: “può”, non “deve”.
In altre
parole, pur in presenza di “aree degradate…con edifici a
destinazione non residenziale dismessi o in via di
dismissione ovvero da rilocalizzare”, l’amministrazione non
è obbligata ad accogliere qualsiasi richiesta di
edificazione presentata da privati in deroga al vigente
piano regolatore comunale, per il solo fatto che questa
consenta di razionalizzare il patrimonio edilizio esistente
e di riqualificare aree urbane degradate; l’amministrazione
può farlo, ma non è vincolata a farlo; il principio di
carattere generale è che lo strumento urbanistico va
rispettato finché è in vigore; la possibilità di rilasciare
permessi di costruire in deroga al vigente strumento
urbanistico costituisce una eccezione a tale principio;
eccezione che può essere assentita dall’amministrazione
comunale in presenza di taluni presupposti previsti dalla
legge, nell’esercizio di poteri ampiamente discrezionali che
possono afferire anche agli indirizzi politici di fondo
dell’amministrazione in carica in materia di governo del
territorio (e che non a caso sono affidati, in prima
battuta, al consiglio comunale, ossia all’organo elettivo a
cui sono riservate per legge le decisioni più importanti in
materia di governo del territorio, quali l’approvazione dei
piani territoriali ed urbanistici); per tale motivo, si
tratta di valutazioni di merito dell’amministrazione
comunale, di carattere latamente politico, che potrebbero
persino prescindere da particolari motivazioni di carattere
tecnico e che, in ogni caso, sono sindacabili da questo
giudice entro i limiti ristrettissimi di cui si è detto; per
dirla in breve, è la concessione della deroga che va
adeguatamente motivata, rappresentando un’eccezione ai
principi generali della materia, non il suo diniego, che al
contrario costituisce la mera riaffermazione di tali
principi (TAR
Piemonte, Sez. II,
sentenza 18.09.2018 n. 1028 -
commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito
che il lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione
dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non
impone un più stringente onere motivazionale circa la
sussistenza di un interesse pubblico attuale alla
demolizione, atteso che non può ammettersi il consolidarsi
nel privato di un affidamento degno di tutela né l’autore o
comunque il proprietario delle opere abusive può ritenersi
legittimato in conseguenza del trascorrere del tempo e per
effetto del permanere di una situazione di fatto abusiva.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale
provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcuna
decadenza e, quindi, è adottabile anche a notevole
intervallo temporale dal compiuto abuso edilizio,
costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei
presupposti di fatto e di diritto.
Ricorda sul punto l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
che l'art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto
dal comma 1, lettera q-bis) dell'art. 17 D.L. n. 133 del
2014, convertito con modificazioni dalla L. n. 164 del 2014–
precisa che “la mancata o tardiva emanazione del
provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità
penali, costituisce elemento di valutazione della
performance individuale, nonché di responsabilità
disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del
funzionario inadempiente”.
La norma è quindi chiara nello stabilire che il decorso del
tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di
demolizione, ma configura piuttosto specifiche e diverse
conseguenze in termini di responsabilità in capo al
dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il
ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso.
---------------
Colui che acquista un immobile su cui è stato realizzato un
abuso edilizio subentra nella medesima situazione giuridica
del dante causa e, se è ancora pendente il termine fissato
nella ordinanza di demolizione, ha egli stesso la
possibilità di eseguire l'ordinanza di demolizione, e se il
dante causa al momento della vendita non segnala la
sussistenza dell'abuso, tale circostanza può dar luogo ai
consueti rimedi civilistici, ma è irrilevante –per le
ragioni appena esposte- ai fini dell'esercizio del
potere-dovere dell'Amministrazione di emanare gli atti
previsti dalla legge.
---------------
L’amministrazione comunale non deve fornire, quale
condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione,
prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso
che è posto in capo al proprietario o al responsabile
dell'abuso dimostrare il momento in cui il manufatto è stato
costruito, con riferimento specifico all'onere di provare la
costruzione dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n.
765/1967 cd Legge ponte.
---------------
2.3.- Costante e condivisa giurisprudenza ha chiarito che il
lungo lasso di tempo intercorso tra la realizzazione
dell'abuso e l'adozione del provvedimento repressivo non
impone un più stringente onere motivazionale circa la
sussistenza di un interesse pubblico attuale alla
demolizione, atteso che non può ammettersi il consolidarsi
nel privato di un affidamento degno di tutela né l’autore o
comunque il proprietario delle opere abusive può ritenersi
legittimato in conseguenza del trascorrere del tempo e per
effetto del permanere di una situazione di fatto abusiva.
Ne consegue che l'ordinanza di demolizione, quale
provvedimento repressivo, non è assoggettata ad alcuna
decadenza e, quindi, è adottabile anche a notevole
intervallo temporale dal compiuto abuso edilizio,
costituendo atto dovuto e vincolato alla ricognizione dei
presupposti di fatto e di diritto (Cons. Stato, sez. VI,
03.10.2017, n. 4580; Cons. Stato, Sez. VI, 11.12.2013 n.
5943).
2.4.- Ricorda sul punto l’Adunanza plenaria del Consiglio di
Stato (sentenza del 17.10.2017 n. 9) che l'art. 31, comma
4-bis, d.p.r. n. 380/2001 -introdotto dal comma 1, lettera
q-bis) dell'art. 17 D.L. n. 133 del 2014, convertito con
modificazioni dalla L. n. 164 del 2014– precisa che “la
mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio,
fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento
di valutazione della performance individuale, nonché di
responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del
dirigente e del funzionario inadempiente”.
La norma è quindi chiara nello stabilire che il decorso del
tempo dal momento del commesso abuso non priva giammai
l'Amministrazione del potere di adottare l'ordine di
demolizione, ma configura piuttosto specifiche e diverse
conseguenze in termini di responsabilità in capo al
dirigente o al funzionario imputabili per l'omissione o il
ritardo nell'adozione di un atto che è e resta doveroso
nonostante il tempo trascorso.
2.5.- Non rileva che gli abusi siano stati compiuti non dai
ricorrenti ma dal loro dante causa.
Anche in questo caso, secondo condivisa e costante
giurisprudenza, colui che acquista un immobile su cui è
stato realizzato un abuso edilizio subentra nella medesima
situazione giuridica del dante causa e, se è ancora pendente
il termine fissato nella ordinanza di demolizione, ha egli
stesso la possibilità di eseguire l'ordinanza di
demolizione, e se il dante causa al momento della vendita
non segnala la sussistenza dell'abuso, tale circostanza può
dar luogo ai consueti rimedi civilistici, ma è irrilevante
–per le ragioni appena esposte- ai fini dell'esercizio del
potere-dovere dell'Amministrazione di emanare gli atti
previsti dalla legge (Cfr. Cons. Stato, sez. V, 11.07.2014,
n. 3565; Tar Genova, sez. I, 06.10.2016, n. 1001).
2.6.- I ricorrenti sostengono al riguardo la preesistenza
del manufatto al 01.09.1967.
Rilevano che al punto 7, lett. D, del rogito notarile, la
parte alienante attesta che la costruzione del piano terra è
iniziata ed ultimata in data anteriore al 01.09.1967, nel
mentre dichiara che la costruzione al primo piano è stata
realizzata in conformità a regolare provvedimento
autorizzativo, rilasciato dal Sindaco, corrispondente alla
concessione edilizia n. 20313 del 22.10.1968; precisa
inoltre che in seguito non vi sono stati interventi edilizi
o mutamenti di destinazione che avrebbero richiesto un
titolo.
L’assunto circa la preesistenza del manufatto non è
assistito da una valida prova, il cui onere incombe
sull’interessato.
Come osservato da consolidata e condivisa giurisprudenza,
anche di questa Sezione (cfr. sentenza del 27.08.2016 n.
4108), l’amministrazione comunale non deve fornire, quale
condizione di legittimità per l’irrogazione della sanzione,
prova certa dell’epoca di realizzazione dell’abuso, atteso
che è posto in capo al proprietario o al responsabile
dell'abuso, dimostrare il momento in cui il manufatto è
stato costruito (cfr. sentenza 10.10.2017, n. 4732), con
riferimento specifico all'onere di provare la costruzione
dell'immobile ad epoca anteriore alla legge n. 765/1967 cd
Legge ponte.
Né costituisce valido principio di prova, a sostegno delle
ragioni dei ricorrenti, la nota prot. n. 20313 del
22.10.1968, di cui copia è allegata agli atti di causa,
posto che con la stessa il Sindaco del Comune di Torre del
Greco autorizzava l’alienante degli odierni ricorrenti ad
installare una semplice “casetta prefabbricata” in
via Montedoro.
In senso contrario alle deduzioni difensive di parte
ricorrente, la nota rende del tutto verosimile che gli abusi
contestati siano stati compiuti in epoca successiva al 1967;
è sufficiente mettere a confronto il contenuto
dell’autorizzazione edilizia sindacale con le dichiarazioni
dell’alienante contenute nell’atto di compravendita notarile
del 1994, nel quale si fa menzione di una “casa per uso
abitazione, …composta da un piano terra di due vani, adibiti
a piccola autorimessa e lavanderia o stanza di sbarazzo, e
da un primo piano, costituito da tre vani utili ed accessori” (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2018 n. 5464 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa la costruzione di
una tenda con tubolari in alluminio anodizzato laterali
fissati al suolo, è da escluderne la sua natura precaria, in
quanto la circostanza che la tenda si sostenga con tubolari
in alluminio anodizzato laterali fissati al suolo, ne
dimostra, da un lato, la sua non immediata
rimovibilità, dall’altro la sua reale funzione,
quella di consentire un determinato uso, tutt’altro che
temporaneo, dello spazio esterno.
---------------
3.- Riguardo all’opera realizzata nell’area cortilizia,
indicata al punto 2) dell’ordinanza impugnata (tenda con
tubolari in alluminio anodizzato laterali fissati al suolo),
è da escluderne la sua natura precaria, in quanto la
circostanza che la tenda si sostenga con tubolari in
alluminio anodizzato laterali fissati al suolo, ne dimostra,
da un lato, la sua non immediata rimovibilità,
dall’altro la sua reale funzione, quella di consentire
un determinato uso, tutt’altro che temporaneo, dello spazio
esterno (cfr. Tar Lazio, Roma, sez. II, 22.12.2017, n.
12632; Tar Liguria, sez. I, 12.02.2015, n. 177) (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 12.09.2018 n. 5464 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il solo criterio dello stabile collegamento
territoriale con il contesto nel quale è destinato a sorgere
l’intervento edilizio contestato non può essere considerato,
di per sé, dato sufficiente a dimostrare l’esistenza di un
concreto pregiudizio a carico di chi invoca l’annullamento
del titolo abilitativo, quanto meno in tutti i casi in cui la modifica
del preesistente assetto edilizio non si dimostri ictu oculi,
ovvero sulla scorta di sicure basi statistiche tratte
dall'esperienza, pregiudizievole per la qualità
(urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell'area in cui
insiste la proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile
di comportarne un deprezzamento commerciale.
Ed infatti, se
tali condizioni non si verificano, spetterà a chi agisce in
giudizio fornire la dimostrazione dei danni (o delle
potenziali lesioni) ricollegabili all'avversata struttura,
in quanto, se si volesse aderire a una diversa impostazione
e ritenere che i proprietari di immobili in zone confinanti
o limitrofe con quelle interessate da un permesso di
costruzione siano sempre legittimati ad impugnare i titoli
edilizi si giungerebbe ad “elevare un astratto interesse
alla legalità a criterio di legittimazione, senza che sia
necessario far valere un interesse giuridicamente protetto,
per tale via coniando (senza autorizzazione legislativa) una
sorta di azione popolare”.
Ancor più di recente, è stato osservato: “Il Collegio
ritiene di condividere l'affermata insufficienza del solo
requisito della vicinitas a radicare un concreto ed attuale
interesse all'impugnazione, pur senza pervenire alla
posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di
una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe
nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di
tutela in materia edilizia. Ai fini della legittimazione ad
agire in presenza di abusi incombe, pertanto, sul
ricorrente/interventore la dimostrazione del duplice
requisito dello stabile collegamento con il luogo
dell'intervento che si afferma abusivo e la allegazione di
una lesione che non potrà essere riconosciuta come
sussistente solo in ragione del carattere abusivo dell'opera
realizzata ma che dovrà essere allegata (e comprovata) anche
se come solo eventuale o potenziale ma sulla base di
puntuali allegazioni”.
Del resto, si tratta di un orientamento avallato altresì in
occasione di molteplici arresti del Consiglio di Stato: “…la
sussistenza del requisito della mera vicinitas -in caso di
impugnazione di titoli edilizi- non costituisce elemento
sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e
l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva
dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di
colui il quale insorge giudizialmente…il sistema così
disegnato è armonico rispetto alla disciplina disegnata
anche dal codice civile e dalle leggi speciali succedutesi:
a ben guardare, il vicino vede protetta la propria sfera
giuridica attraverso la inderogabile disciplina dettata in
materia di distanze; ma laddove ipotizzi in suo danno un
pregiudizio discendente da altre violazioni ha il dovere di
dedurlo e provarlo” con la conseguenza che “la
legittimazione al ricorso non può di certo configurarsi
allorquando l'instaurazione del giudizio appaia finalizzata
a tutelare interessi emulativi, di mero fatto o contra ius,
siccome volti nella sostanza a contrastare la libera
concorrenza e la libertà di stabilimento”.
---------------
2. Occorre, in primo luogo, esaminare le eccezioni preliminari
di inammissibilità del ricorso sollevate dal Comune
resistente e dalla società controinteressata, prendendo le
mosse da quella relativa alla carenza di interesse che
appare logicamente prioritaria.
Il Collegio ritiene che tale eccezione sia fondata, in
quanto l’impugnazione non risulta sostenuta da un interesse
concreto al ricorso, nel senso chiarito dalla più aggiornata
e condivisibile giurisprudenza.
Appare opportuno ripercorrere, seppur sinteticamente, le
coordinate ermeneutiche tracciate in proposito dai più
recenti arresti, per poi farne applicazione al caso
concreto.
Come noto, diversamente da quanto sostenuto dai ricorrenti,
il solo criterio dello stabile collegamento territoriale con
il contesto nel quale è destinato a sorgere l’intervento
edilizio contestato non può essere considerato, di per sé,
dato sufficiente a dimostrare l’esistenza di un concreto
pregiudizio a carico di chi invoca l’annullamento del titolo
abilitativo, quanto meno in tutti i casi in cui la modifica
del preesistente assetto edilizio non si dimostri ictu oculi,
ovvero sulla scorta di sicure basi statistiche tratte
dall'esperienza, pregiudizievole per la qualità
(urbanistica, paesaggistica, ambientale) dell'area in cui
insiste la proprietà del ricorrente, ovvero sia suscettibile
di comportarne un deprezzamento commerciale.
Ed infatti, se
tali condizioni non si verificano, spetterà a chi agisce in
giudizio fornire la dimostrazione dei danni (o delle
potenziali lesioni) ricollegabili all'avversata struttura,
in quanto, se si volesse aderire a una diversa impostazione
e ritenere che i proprietari di immobili in zone confinanti
o limitrofe con quelle interessate da un permesso di
costruzione siano sempre legittimati ad impugnare i titoli
edilizi si giungerebbe ad “elevare un astratto interesse
alla legalità a criterio di legittimazione, senza che sia
necessario far valere un interesse giuridicamente protetto,
per tale via coniando (senza autorizzazione legislativa) una
sorta di azione popolare” (in termini: Tar Lombardia,
Milano, Sez. II, 04.05.2015, n. 1081; Tar Veneto, Sez. II,
15.02.2018, n. 324).
Ancor più di recente, è stato osservato: “Il Collegio
ritiene di condividere l'affermata insufficienza del solo
requisito della vicinitas a radicare un concreto ed attuale
interesse all'impugnazione, pur senza pervenire alla
posizione diametralmente opposta che richiedendo la prova di
una lesione eccessivamente caratterizzata, si risolverebbe
nei fatti in una irragionevole limitazione degli ambiti di
tutela in materia edilizia. Ai fini della legittimazione ad
agire in presenza di abusi incombe, pertanto, sul
ricorrente/interventore la dimostrazione del duplice
requisito dello stabile collegamento con il luogo
dell'intervento che si afferma abusivo e la allegazione di
una lesione che non potrà essere riconosciuta come
sussistente solo in ragione del carattere abusivo dell'opera
realizzata ma che dovrà essere allegata (e comprovata) anche
se come solo eventuale o potenziale ma sulla base di
puntuali allegazioni” (Tar Campania, Salerno, Sez. I, 18.04.2018, nr. 755).
Del resto, si tratta di un orientamento avallato altresì in
occasione di molteplici arresti del Consiglio di Stato: “…la
sussistenza del requisito della mera vicinitas -in caso di
impugnazione di titoli edilizi- non costituisce elemento
sufficiente a comprovare la legittimazione a ricorrere e
l'interesse al ricorso, occorrendo invece la positiva
dimostrazione di un danno che attingerebbe la posizione di
colui il quale insorge giudizialmente…il sistema così
disegnato è armonico rispetto alla disciplina disegnata
anche dal codice civile e dalle leggi speciali succedutesi:
a ben guardare, il vicino vede protetta la propria sfera
giuridica attraverso la inderogabile disciplina dettata in
materia di distanze; ma laddove ipotizzi in suo danno un
pregiudizio discendente da altre violazioni ha il dovere di
dedurlo e provarlo” (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 15.12.2017, n. 5908) con la conseguenza che “la
legittimazione al ricorso non può di certo configurarsi
allorquando l'instaurazione del giudizio appaia finalizzata
a tutelare interessi emulativi, di mero fatto o contra ius,
siccome volti nella sostanza a contrastare la libera
concorrenza e la libertà di stabilimento” (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. V, 22.11.2017, n. 5442) (TAR Veneto, Sez.
II,
sentenza 04.09.2018 n. 873 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Realizzazione di manufatti
precari e facilmente amovibili su area vincolata -
Intervento eseguito in assenza di titolo abilitativo.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Nozione di precarietà di un
intervento - Nozione di opera precaria - Art. 181, c. 1-bis,
d.lgs. 42/2004 e 30, co. 1, e 8 legge 394/1991 - AREE PROTETTE
- Parco naturale regionale - Disciplina per le opere
precarie - Artt. 44, lett. e), 65, 72, 93, 94 e 95 d.P.R.
380/2001.
Il reato di pericolo previsto dall'art.
181 d.lgs. n. 42/2004 è comunque integrato anche dalla
realizzazione di manufatti precari e facilmente amovibili,
essendo assoggettabile ad autorizzazione ogni intervento
modificativo, con esclusione delle condotte che si palesino
inidonee, anche in astratto, a compromettere i valori del
paesaggio.
Inoltre, la precarietà di un intervento non può essere
desunta dalla temporaneità della destinazione
soggettivamente data all'opera dall'utilizzatore e che sono
irrilevanti le caratteristiche costruttive, i materiali
impiegati e l'agevole rimovibilità, in quanto è richiesta
una intrinseca destinazione materiale ad un uso realmente
precario per fini specifici, contingenti e limitati nel
tempo e l'opera deve essere destinata ad una sollecita
eliminazione alla cessazione dell'uso (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.09.2018 n. 39429 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non può
aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di
diniego della sanatoria e del conseguente ordine di
demolizione, il tempo trascorso tra la presentazione della
domanda e la conclusione dell'iter procedimentale.
La mera
inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un
potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità
di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo
ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine
illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può
certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo'
in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di
un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare
un'aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può
applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il
complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell'autotutela decisoria. Non è in alcun modo
concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo
e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita
del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza
titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile
giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile-
forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del
tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli
atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione
della relativa sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile
abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che
l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il
richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento,
senza che si impongano sul punto ulteriori oneri
motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela
decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in
qualche misura la posizione giuridica dell'interessato,
rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento:
l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta
commissione di abusi non fa venire meno il dovere
dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti
previsti a salvaguardia del territorio.
---------------
Tali principi sono stati ribaditi anche con riferimento
all’ipotesi in cui il
destinatario dell’ordine di demolizione non sia responsabile
dell’abuso, come riaffermato anche di recente: “Anche nel
caso in cui l'attuale proprietario dell'immobile non sia
responsabile dell'abuso e non risulti che la cessione sia
stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le
stesse.
Si osserva in primo luogo al riguardo che il
carattere reale della misura ripristinatoria della
demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino
di valori di primario rilievo non si pongono in modo
peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia
responsabile dell'abuso.
Non può infatti ritenersi che,
ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria,
la diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e
l'attuale proprietario imponga all'amministrazione un
peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il
carattere reale dell'abuso e la stretta doverosità delle sue
conseguenze non consentono di valorizzare ai fini
motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale
può -al contrario- rilevare a fini diversi da quelli della
misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle
responsabilità fra il responsabile dell'abuso e il suo
avente causa)”
---------------
Con il primo motivo di ricorso si lamenta l’eccessiva durata del
procedimento, rappresentando che questo, avviato con la
domanda di condono presentata in data 09.12.2004 s’è concluso
solo il 18.09.2015 -dopo ripetute richieste di integrazioni
documentali, imponendo “degli adempimenti non espressamente
previsti nel modulo che la stessa amministrazione comunale
aveva predisposto”, formulate in data 08.10.2007– ritardando
di sei mesi la risposta dopo che l’istante aveva provveduto,
entro i termini previsti, agli adempimenti richiesti e
persistendo in tale comportamento omissivo anche a seguito
della presentazione, da parte dello stesso ricorrente, in
data 05.05.2008 della documentazione scritta e fotografica per
ottenere il Nulla Osta Legge 29.06.1939 n. 1497, al quale la
PA ha dato riscontro solo in data 17.01.2012 – sicché il
lungo periodo di tempo trascorso ha ingenerato nel
ricorrente (Sig. Ni.Ma.) il legittimo affidamento
sul tacito accoglimento della domanda di sanatoria; tale
ingiustificato ritardo nel provvedere costituisce una
violazione del "buon andamento" sancito dall'art. 97 Cost. e
del principio di ragionevolezza desumibile dalla legge n.
241/1990 e dell’obbligo di trasparenza dell’azione
amministrativa sancito dalla legge n. 15/2005.
Le doglianze relative alla tempistica della procedura,
articolatamente sviluppate con il primo mezzo di gravame,
non sono utili a dimostrare l’illegittimità del
provvedimento impugnato, alla luce dell’orientamento
giurisprudenziale ormai consolidato, in particolare dopo gli
ulteriori chiarimenti forniti dall'Adunanza plenaria n. 9
del 2017.
È infatti ormai stato definitivamente chiarito che: “non può
aver rilievo, ai fini della validità del provvedimento di
diniego della sanatoria e del conseguente ordine di
demolizione, il tempo trascorso tra la presentazione della
domanda e la conclusione dell'iter procedimentale.
La mera
inerzia da parte dell'amministrazione nell'esercizio di un
potere-dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità
di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo
ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine
illegittimo. Allo stesso modo, tale inerzia non può
certamente radicare un affidamento di carattere 'legittimo'
in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di
un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare
un'aspettativa giuridicamente qualificata.
Non si può
applicare a un fatto illecito (l'abuso edilizio) il
complesso di acquisizioni che, in tema di valutazione
dell'interesse pubblico, è stato enucleato per la diversa
ipotesi dell'autotutela decisoria. Non è in alcun modo
concepibile l'idea stessa di connettere al decorso del tempo
e all'inerzia dell'amministrazione la sostanziale perdita
del potere di contrastare l'abusivismo edilizio, ovvero di
legittimare in qualche misura l'edificazione avvenuta senza
titolo, non emergendo oltretutto alcuna possibile
giustificazione normativa a una siffatta -e inammissibile-
forma di sanatoria automatica.
Se pertanto il decorso del
tempo non può incidere sull'ineludibile doverosità degli
atti volti a perseguire l'illecito attraverso l'adozione
della relativa sanzione, deve conseguentemente essere
escluso che l'ordinanza di demolizione di un immobile
abusivo debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che
l'ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il
richiamo al comprovato carattere abusivo dell'intervento,
senza che si impongano sul punto ulteriori oneri
motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell'autotutela
decisoria.
Il decorso del tempo, lungi dal radicare in
qualche misura la posizione giuridica dell'interessato,
rafforza piuttosto il carattere abusivo dell'intervento:
l'eventuale connivenza degli amministratori locali pro tempore o anche la mancata conoscenza dell'avvenuta
commissione di abusi non fa venire meno il dovere
dell'Amministrazione di emanare senza indugio gli atti
previsti a salvaguardia del territorio”.
Tali principi sono stati ribaditi anche con riferimento
all’ipotesi –come nel caso di specie– in cui il
destinatario dell’ordine di demolizione non sia responsabile
dell’abuso, come riaffermato anche di recente: “Anche nel
caso in cui l'attuale proprietario dell'immobile non sia
responsabile dell'abuso e non risulti che la cessione sia
stata effettuata con intenti elusivi, le conclusioni sono le
stesse. Si osserva in primo luogo al riguardo che il
carattere reale della misura ripristinatoria della
demolizione e la sua precipua finalizzazione al ripristino
di valori di primario rilievo non si pongono in modo
peculiare nelle ipotesi in cui il proprietario non sia
responsabile dell'abuso. Non può infatti ritenersi che,
ferma restando la doverosità della misura ripristinatoria,
la diversità soggettiva fra il responsabile dell'abuso e
l'attuale proprietario imponga all'amministrazione un
peculiare ed aggiuntivo onere motivazionale. Ed infatti il
carattere reale dell'abuso e la stretta doverosità delle sue
conseguenze non consentono di valorizzare ai fini
motivazionali la richiamata alterità soggettiva (la quale
può -al contrario- rilevare a fini diversi da quelli della
misura ripristinatoria, come nelle ipotesi del riparto delle
responsabilità fra il responsabile dell'abuso e il suo
avente causa)” (Cons. St., sez. VI, n. 3527/2018, con ampio
richiamo all’AP 9/2017 cit.)
Il Collegio condivide pienamente le sopra richiamate
considerazioni e conclusioni, che trovano piena applicazione
nel caso di specie.
In conclusione, il decorso del tempo per la definizione
della pratica, nel caso in esame, potrebbe al più supportare
una richiesta di indennizzo per danno da ritardo (però non è
stata formulata in questa sede dai ricorrenti), ove ne
sussistano i presupposti.
Non può tuttavia ignorarsi che il
rallentamento è dipeso, nel caso di specie,
dall'incompletezza della domanda di sanatoria presentata che
è imputabile esclusivamente all’istante, che ha l’onere di
allegare alla richiesta tutta la documentazione prescritta
dalla normativa in materia.
Non può nemmeno condividersi
l’assunto del ricorrente secondo cui la mancata integrazione
documentale sia stata “posta, del tutto illogicamente, tra
le motivazioni della determina di diniego del condono”, dato
che, al contrario, è proprio la normativa in materia a
stabilire quali atti debbano essere allegati all’istanza di
condono e sancire l’improcedibilità dell’istanza in caso di
mancata tempestiva integrazione degli stessi ove richiesto
dal Comune (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 01.09.2018 n. 9115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il titolo abilitativo
tacito può formarsi, per effetto del silenzio-assenso,
soltanto se la domanda di sanatoria presentata possiede i
requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta, in
quanto la mancanza di taluno di questi impedisce in radice
che possa avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il
decorso del tempo è mero co-elemento costitutivo della
fattispecie autorizzativa: affinché si abbia il
silenzio-assenso, occorre, cioè, che il procedimento sia
stato avviato da un'istanza conforme al modello legale
previsto dalla norma che regola il procedimento di condono.
---------------
Il titolo abilitativo tacito non può formarsi, per effetto
del silenzio-assenso sull'istanza di condono, ove l’immobile
sia ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico o
ambientale, come nel caso in esame, essendo imprescindibile,
in tale condizione, acquisire il parere espresso
dall'autorità competente alla gestione del vincolo.
Il provvedimento positivo può ritenersi intervenuto in
presenza del vincolo solo con il decorso del termine
normativamente prescritto dall'emanazione del parere
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, e
soltanto se tale parere è favorevole al richiedente, non
potendo l'eventuale inerzia dell'Amministrazione far
guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire con il provvedimento espresso.
--------------
Innanzitutto
va ricordato che, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale, il titolo abilitativo tacito può
formarsi, per effetto del silenzio-assenso, soltanto se la
domanda di sanatoria presentata possiede i requisiti
soggettivi e oggettivi per essere accolta, in quanto la
mancanza di taluno di questi impedisce in radice che possa
avviarsi il procedimento di sanatoria, in cui il decorso del
tempo è mero co-elemento costitutivo della fattispecie
autorizzativa: affinché si abbia il silenzio-assenso,
occorre, cioè, che il procedimento sia stato avviato da
un'istanza conforme al modello legale previsto dalla norma
che regola il procedimento di condono (vedi, da ultimo,
TAR Emilia Romagna–Bologna, sez. I, n. 50/2018, con
richiamo a TAR Puglia, Lecce, n. 181/2014; nonché Consiglio
di Stato, sez. VI, n. 3634/2018, che specifica l’onere
documentale incombente sull’istante evidenziando che: “la
natura procedurale del condono edilizio è infatti
eccezionale e straordinaria rispetto alla ordinaria
disciplina edilizia e urbanistica: il Comune deve istruire
il procedimento nei modi e termini specificatamente previsti
dalla legge (cfr., art. 35, comma 12 , l. n. 47/1985 in
relazione all'art. 39, comma 4, l. 724/1994); l'interessato al
buon esito della pratica deve, a sua volta, assolvere
all'onere d'individuare nel dettaglio tipo, consistenza
materiale riferita al singolo immobile dell'illecito
edilizio, e, in aggiunta, non restare inerte di fronte alle
doverose istanze d'integrazione recapitategli dal Comune)”.
Inoltre, e soprattutto, va ricordato che, secondo
altrettanto pacifico orientamento giurisprudenziale, il
titolo abilitativo tacito non può formarsi, per effetto del
silenzio-assenso sull'istanza di condono, ove l’immobile sia
ubicato in area sottoposta a vincolo paesaggistico o
ambientale, come nel caso in esame, essendo imprescindibile,
in tale condizione, acquisire il parere espresso
dall'autorità competente alla gestione del vincolo.
Come
ribadito anche di recente dalla Sezione con sentenza n.
6520/2018 il provvedimento positivo può ritenersi
intervenuto in presenza del vincolo solo con il decorso del
termine normativamente prescritto dall'emanazione del parere
dell'autorità preposta alla tutela del vincolo stesso, e
soltanto se tale parere è favorevole al richiedente, non
potendo l'eventuale inerzia dell'Amministrazione far
guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non
potrebbero mai conseguire con il provvedimento espresso (sicché
non trova applicazione nei procedimenti in esame l’art. 17-bis della legge n. 241/1990, tardivamente invocato nel ricorso
n. 5832/2016 dal ricorrente Ma.Ni. come nuovo motivo
di ricorso a contestazione dell’atto di diffida impugnato
con il ricorso introduttivo) (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 01.09.2018 n. 9115 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
In quanto proprietari confinanti con l’erigendo
fabbricato e soggetti direttamente interessati
dall’approvazione del progetto, il termie di impugnazione
decorre dalla data di comunicazione o di effettiva piena
conoscenza del provvedimento ritenuto lesivo, e non dalla
data di pubblicazione del provvedimento medesimo nelle forme
di legge.
Va, al riguardo, data continuità all’indirizzo
giurisprudenziale qui condiviso a mente del quale “il
termine per l’impugnazione di un atto amministrativo per il
quale non vi è stata la notificazione o comunicazione
decorre dalla piena conoscenza dello stesso da parte
dell’interessato".
La “piena conoscenza” coincide con la percezione
dell’esistenza del provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidenti la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di
esso.
La consapevolezza dell’esistenza del provvedimento
unitamente alla sua lesività integra infatti la sussistenza
di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all’impugnazione dell’atto, determinandosi in tal
modo la piena conoscenza indicata dalla norma.
---------------
Le eccezioni sono infondate.
In quanto proprietari confinanti con l’erigendo fabbricato e
soggetti direttamente interessati dall’approvazione del
progetto, il termie di impugnazione decorre dalla data di
comunicazione o di effettiva piena conoscenza del
provvedimento ritenuto lesivo, e non –come suppone il
Comune– dalla data di pubblicazione del provvedimento
medesimo nelle forme di legge.
Va, al riguardo, data continuità all’indirizzo
giurisprudenziale qui condiviso a mente del quale “il
termine per l’impugnazione di un atto amministrativo per il
quale non vi è stata la notificazione o comunicazione
decorre dalla piena conoscenza dello stesso da parte
dell’interessato".
La “piena conoscenza” coincide con la percezione
dell’esistenza del provvedimento amministrativo e degli
aspetti che ne rendono evidenti la lesività della sfera
giuridica del potenziale ricorrente, in modo da rendere
percepibile l’attualità dell’interesse ad agire contro di
esso.
La consapevolezza dell’esistenza del provvedimento
unitamente alla sua lesività integra infatti la sussistenza
di una condizione dell’azione, rimuovendo in tal modo ogni
ostacolo all’impugnazione dell’atto, determinandosi in tal
modo la piena conoscenza indicata dalla norma (cfr., fra le
tante, Cons. Stato, sez. IV, 08.09.2016 n 3825).
Alla medesima conclusione deve giungersi sull’eccezione di
inammissibilità per omessa notificazione all’Agenzia del
Demanio.
L’acquisizione dell’opera al patrimonio del demanio è evento
successivo alla realizzazione e, ovviamente,
all’approvazione del progetto: sicché l’Agenzia al momento
della notificazione del ricorso avverso la delibera
d’approvazione del progetto non era legittimata passiva del
gravame.
Aggiungasi che i ricorrenti, una volta venuti a conoscenza
per il deposito degli atti della successiva acquisizione al
patrimonio del Demanio, hanno tempestivamente impugnato gli
atti ad essa riferibili con motivi aggiunti ritualmente
notificati a tutte le Amministrazioni interessate (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.08.2018 n. 5071 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
a) il D.M. 02.04.1968 n. 1444, recante "Limiti
inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza
fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli
insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o
riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a
parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi
strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti,
ai sensi dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765",
all’art. 9, recante "limiti di distanza tra i fabbricati",
prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i
fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi
edifici"... "in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti";
b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente
inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente
il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della
salute dei cittadini (prevenendo la formazione di
intercapedini malsane);
c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con
il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile;
d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit.,
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, e trova
conseguente applicazione anche per gli edifici pubblici.
e) nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 vanno considerati i balconi,
nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri
strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa
dei vani che vi accedono.
---------------
Con i motivi d’appello il Comune denuncia l’errore di
giudizio in cui sarebbero incorsi i giudici di prime cure
nell’omettere di considerare la natura pubblica dell’opera
sottratta al regime della distanza minima assoluta di m. 10
tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti,
prescritta dall’art. 9 del D.M. n. 1444/1968.
L’appello è infondato.
Alla stregua della consolidata giurisprudenza (cfr., da
ultimo, Cons. Stato, sez. IV, 14.09.2017, n. 4337; id.,
23.06.2017, n. 3093; id., 08.05.2017, n. 2086; id.,
03.08.2016, n. 3510; id., 29.02.2016, n. 856; Cass. civ.
sez. II, 14.11.2016, n. 23136), mette conto ribadire che:
a) il D.M. 02.04.1968 n. 1444, recante "Limiti inderogabili di
densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e
rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti
residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle
attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da
osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti
urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi
dell'art. 17 della legge 06.08.1967 n. 765", all’art. 9,
recante "limiti di distanza tra i fabbricati",
prevede, tra l'altro, che le distanze minime tra i
fabbricati: "nelle altre zone, con riferimento a "nuovi
edifici"... "in tutti i casi ... di m. 10 tra pareti
finestrate e pareti di edifici antistanti";
b) le distanze sancite dall'art. 9 cit. sono tendenzialmente
inderogabili, venendo in rilievo una norma imperativa avente
il fine specifico di garantire l'interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo dell'edilizia ed alla protezione della
salute dei cittadini (prevenendo la formazione di
intercapedini malsane);
c) le distanze previste dall'art. 9 cit. sono dunque coerenti con
il perseguimento dell'interesse pubblico e non già con la
tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili
finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece
assicurata dalla disciplina predisposta, anche in tema di
distanze, dal codice civile;
d) coerentemente, la disciplina imperativa sancita dall’art. 9 cit.,
predetermina in via generale ed astratta le distanze tra le
costruzioni, in considerazione delle esigenze collettive
connesse ai bisogni di igiene e di sicurezza, e trova
conseguente applicazione anche per gli edifici pubblici.
e) nella verifica dell’osservanza delle distanze ai sensi dell’art.
9 d.m. 02.04.1968 n. 1444 vanno considerati i balconi,
nonché tutte le sporgenze destinate per i loro caratteri
strutturali e funzionali ad ampliare la superficie abitativa
dei vani che vi accedono (cfr., Cons. Stato, sez. V,
13.03.2014 n. 1272; Id, sez. IV, 21.10.2013 n. 5108).
Conclusivamente l’appello deve essere respinto (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 29.08.2018 n. 5071 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
RIFIUTI - Gestione dei rifiuti - Materiale di risulta da
demolizioni - Differenza tra rifiuto e sottoprodotto -
Applicazione di un regime giuridico più favorevole -
Presupposti di legge - Onere della prova - Artt. 183, 184,
184-bis e 256 d.lgs. n. 152/2006.
Il materiale di risulta da demolizioni è
da considerare, in linea generale, rifiuto. Sicché, ai fini
della configurabilità del reato previsto dall'art. 256,
commi 1-3, del D.Lgs. 03.04.2006, n. 152, i materiali
provenienti da demolizione debbono essere qualificati dal
giudice come rifiuti, in quanto oggettivamente destinati
all'abbandono, salvo che l'interessato non fornisca la prova
della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge per
l'applicazione di un regime giuridico più favorevole, quale
quello relativo al "deposito temporaneo" o al
"sottoprodotto" (Sez. 3, n. 29084 del 14/05/2015 - dep.
08/07/2015, Favazzo e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. VII penale,
ordinanza 24.07.2018 n. 35042 - link a www.ambientediritto.it). |
URBANISTICA:
Ai sensi dell’art. 28 della legge n. 1150/1942
(come modificato dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n.
765), nonché degli articoli 16 e 17 della medesima legge
urbanistica, alle lottizzazioni va
applicato, in via analogica, il termine massimo di validità
decennale entro il quale devono essere attuati i piani
particolareggiati (art. 16, comma 5, l. n. 1150 del 1942),
decorso il quale divengono inefficaci per la parte inattuata
(art. 17, comma 1, della stessa legge).
Anche la giurisprudenza di questa Sezione ha condiviso tale
indirizzo, osservando come il riferito orientamento
giurisprudenziale è temperato dal riconoscimento della
possibilità di realizzazione delle costruzioni edilizie
previste dallo strumento di attuazione, anche dopo la sua
scadenza, laddove però sia stata completata la sua
attuazione, nel senso che devono essere state realizzate,
entro il termine di vigenza del piano, tutte le opere di
urbanizzazione primaria.
---------------
La delibera dichiarativa della decadenza di un piano di
lottizzazione per decorso del decennio di efficacia non deve
essere necessariamente preceduta dalla comunicazione di
avvio del procedimento, configurandosi la medesima non come
atto costitutivo di un autonomo procedimento, ma come atto
meramente ricognitivo dell'inefficacia del piano
automaticamente verificatasi con lo scadere del termine.
---------------
11. - In ordine logico, è preliminare accertare se la convenzione di
lottizzazione è divenuta inefficace per il decorso del
termine decennale entro il quale avrebbe dovuto essere
attuata, come stabilito dal Comune con la deliberazione
consiliare n. 47 del 29.10.2007.
Ove, infatti, fosse
dimostrata l’intervenuta decadenza della lottizzazione per
cui è controversia, gli ulteriori motivi dedotti dai
ricorrenti avverso la deliberazione concernente il
dimensionamento delle volumetrie diverrebbero inammissibili,
perché la ricorrente non trarrebbe alcun vantaggio
dall’eventuale annullamento o modifica dell’entità del
predetto dimensionamento.
12. - Come accennato, la convenzione di lottizzazione fu
stipulata il 18.07.1977 e registrata il 05.08.1977.
Per cui, ai sensi dell’art. 28 della legge n. 1150/1942
(come modificato dall'art. 8 della legge 06.08.1967, n.
765), nonché degli articoli 16 e 17 della medesima legge
urbanistica [cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 20.01.2003, n. 200, secondo cui, dato il particolare rilievo dei
piani di lottizzazione, che costituiscono ormai strumenti
urbanistici specifici preordinati e normalmente alternativi
rispetto ai piani particolareggiati], alle lottizzazioni va
applicato, in via analogica, il termine massimo di validità
decennale entro il quale devono essere attuati i piani
particolareggiati (art. 16, comma 5, l. n. 1150 del 1942),
decorso il quale divengono inefficaci per la parte inattuata
(art. 17 comma 1 della stessa legge); nello stesso senso
Cons. Stato, IV Sez., 07.02.2012, n. 2045.
Anche la giurisprudenza di questa Sezione ha condiviso tale
indirizzo (recentemente si veda TAR Sardegna, Sez. II, 22.01.2018, n. 36, che richiama Sez. II, 19.07.2013,
n. 553), osservando come il riferito orientamento
giurisprudenziale è temperato dal riconoscimento della
possibilità di realizzazione delle costruzioni edilizie
previste dallo strumento di attuazione, anche dopo la sua
scadenza, laddove però sia stata completata la sua
attuazione, nel senso che devono essere state realizzate,
entro il termine di vigenza del piano, tutte le opere di
urbanizzazione primaria.
Nel caso di specie, i ricorrenti non dimostrano che, alla
scadenza del termine decennale, fossero state eseguite le
opere di urbanizzazione previste dal piano. Si limitano,
infatti, a depositare in giudizio delle foto che si
riferiscono alla realizzazione delle opere in questione (cfr.
doc. 3 di parte ricorrente) ma dalle quali non è possibile
risalire all’epoca di riferimento (dato che le foto sono
prive di data); né, soprattutto, è possibile stabilire
l’integrale esecuzione delle opere entro il termine
decennale scadente nel 1987.
Il predetto termine di efficacia del piano attuativo non può
ritenersi superato o prorogato con la norma di cui all’art.
4, comma 2, terzo periodo, della legge regionale n. 8/2004
(che, come visto, si riferisce ai piani attuativi «approvati
e convenzionati alla data di pubblicazione della delibera
della Giunta regionale n. 33/1 del 10.08.2004, purché
alla stessa data le opere di urbanizzazione siano
legittimamente avviate ovvero sia stato realizzato il
reticolo stradale, si sia determinato un mutamento
consistente ed irreversibile dello stato dei luoghi […]»),
poiché appare del tutto evidente che le lottizzazioni fatte
salve dalla norma regionale sopra richiamata debbono essere
individuate esclusivamente in quelle che non fossero già
scadute al tempo dell’entrata in vigore della legge
regionale n. 8/2004.
...
14. - Ugualmente infondata è la censura concernente il
mancato invio della previa comunicazione di avvio del
procedimento.
La delibera dichiarativa della decadenza di un
piano di lottizzazione per decorso del decennio di
efficacia, non deve essere necessariamente preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento, configurandosi la
medesima non come atto costitutivo di un autonomo
procedimento, ma come atto meramente ricognitivo
dell'inefficacia del piano automaticamente verificatasi con
lo scadere del termine (TAR Sardegna, Sez. II, 19.07.2013, n. 553) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 19.07.2018 n. 670 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il termine di durata del permesso edilizio non
può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al
contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di
una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione […], che
accerti l'impossibilità del rispetto del termine, […] nei
casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis
ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore.
---------------
13. - Anche il riferimento a fatti ed eventi che, integrando
altrettante cause di forza maggiore, avrebbero determinato
la sospensione del termine di efficacia della lottizzazione,
non può essere favorevolmente apprezzato.
Sul punto deve
essere richiamato l’orientamento recentemente ribadito con
la citata sentenza di questo Tribunale (22.01.2018, n.
36; ma si vedano anche Sez. II, 23.05.2017, n. 352, e Sez. II,
08.11.2016, n. 848), secondo cui è applicabile
alla fattispecie il principio affermato in materia di
sospensione del termine di durata del titolo edilizio,
secondo cui «il termine di durata del permesso edilizio non
può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al
contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di
una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione […], che
accerti l'impossibilità del rispetto del termine, […] nei
casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis
ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore» (TAR
Sardegna, Sez. II, 22.01.2018, n. 36, che richiama
Consiglio di Stato sez. IV, n. 974/2012; sez. III, n.
1870/2013) (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 19.07.2018 n. 670 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I provvedimenti repressivi degli abusi edilizi
non devono essere preceduti dalla comunicazione dell’avvio
del procedimento perché trattasi di provvedimenti tipizzati
e vincolati, che presuppongono un mero accertamento tecnico
sulla consistenza delle opere realizzate e sul carattere non
assentito delle medesime.
E
seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla
legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del
prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta
palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza
di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse
stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
---------------
L’orientamento giurisprudenziale secondo il quale, ove sia
decorso un notevole lasso di tempo dalla commissione
dell’abuso edilizio, l’Amministrazione è tenuta a
specificare la sussistenza dell’interesse pubblico alla
eliminazione dell’opera realizzata o addirittura ad indicare
le ragioni della sua prolungata inerzia, atteso che si
sarebbe ingenerato un affidamento in capo al privato, può
essere condiviso solo se riferito a situazioni assolutamente
eccezionali nelle quali risulti evidente la sproporzione tra
il sacrificio imposto al privato e l’interesse pubblico al
ripristino della legalità violata.
---------------
Il ricorso non è fondato e va respinto per i motivi di seguito precisati.
La prima censura, incentrata sull’omessa comunicazione
dell’avvio del procedimento, è palesemente infondata.
Per
giurisprudenza costante, i provvedimenti repressivi degli
abusi edilizi, non devono essere preceduti dalla
comunicazione dell’avvio del procedimento (ex multis, TAR
Campania Napoli, Sez. IV, 12.04.2005, n. 3780; 13.01.2006, n. 651), perché trattasi di provvedimenti
tipizzati e vincolati, che presuppongono un mero
accertamento tecnico sulla consistenza delle opere
realizzate e sul carattere non assentito delle medesime; e,
seppure si aderisse all’orientamento che ritiene necessaria
tale comunicazione anche per gli ordini di demolizione,
troverebbe comunque applicazione nel caso in esame l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (introdotto dalla
legge n. 15/2005), nella parte in cui dispone che “non è
annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme
sul procedimento … qualora, per la natura vincolata del
provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo
non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato”.
Infatti, posto che l’ordine di demolizione è atto
dovuto in presenza di opere realizzate in assenza del
prescritto titolo abilitativo, nel caso in esame risulta
palese che il contenuto dispositivo dell’impugnata ordinanza
di demolizione non avrebbe potuto essere diverso se fosse
stata data ai ricorrenti comunicazione dell’avvio del
procedimento.
La seconda censura, con cui ci si duole della carenza di
motivazione, atteso che la motivazione è necessaria qualora
si ordini la demolizione di strutture assai risalenti, come
avverrebbe nel caso di specie, è anch’essa infondata.
Infatti, la pretesa risalenza dell’immobile non risulta
affatto dimostrata: secondo parte ricorrente, essa si
evincerebbe dal nulla osta dei VV.F. del Comando provinciale
di Napoli, datato 10.12.62.
Tale nulla osta, tuttavia, non
risulta essere stato allegato; né sono stati allegati altri
documenti (ad es., una perizia di parte) da cui evincere
almeno un principio di prova circa la data di presumibile
realizzazione dell’abuso.
Inoltre, l’orientamento
giurisprudenziale secondo il quale, ove sia decorso un
notevole lasso di tempo dalla commissione dell’abuso
edilizio, l’Amministrazione è tenuta a specificare la
sussistenza dell’interesse pubblico alla eliminazione
dell’opera realizzata o addirittura ad indicare le ragioni
della sua prolungata inerzia, atteso che si sarebbe
ingenerato un affidamento in capo al privato (TAR Marche,
29.08.2003, n. 976; Cons. Stato, Sez. V, 19.03.1999,
n. 286), può essere condiviso solo se riferito a situazioni
assolutamente eccezionali nelle quali risulti evidente la
sproporzione tra il sacrificio imposto al privato e
l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata
(TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 19.06.2006, n. 7082;
18.05.2005, n. 6497) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 03.05.2018 n. 2972 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Considerato che l'obbligazione
contributiva per costo di costruzione è
fondata sulla produzione di ricchezza connessa
all'utilizzazione edificatoria del territorio
ed alle potenzialità economiche che ne
derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente
paratributaria, deve ritenersi che il legislatore, dettando una disposizione così chiara e tranchant come quella di cui all’art. 17, comma 4, DPR 380/2001, abbia inteso affermare che gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato, proprio perché tali, non siano di per sé soli produttivi di ricchezza e dunque non debbano essere assoggettati al costo di costruzione. ---------------
... per l'accertamento del suo diritto alla restituzione della somma di € 9.088,44, indebitamente versata al Comune di Comacchio a titolo di costo di costruzione; e per la condanna del Comune alla restituzione della suddetta somma oltre interessi. ... 5. Nel merito il ricorso è fondato e va accolto. La norma di cui all’art. 17, comma 4, DPR 380/2001, invocata dalla ricorrente, afferma un principio che prescinde da qualunque distinzione, né viene circostanziata a seconda dei casi. Le affermazioni del Comune in ordine alla presunta
ratio della norma, innanzi riportate virgolettate, ricalcano principi che, in realtà, la giurisprudenza ha declinato in relazione alle diverse fattispecie contemplate, anche nel testo applicabile
ratione temporis, al comma 3 della suddetta norma e, segnatamente, alla fattispecie di cui alla lett. c) del terzo comma (l’affermazione riportata dal Comune è testualmente rinvenibile in: TAR Campania, Napoli, sez. II, 27.06.2005, n. 8696). Il comma 3 prevede(va), infatti, il totale esonero dal contributo di costruzione nei seguenti casi: “a) per gli interventi da realizzare nelle zone agricole, ivi comprese le residenze, in funzione della conduzione del fondo e delle esigenze dell'imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi dell'articolo 12 della legge
09.05.1975, n. 153;
b) per gli interventi di ristrutturazione e di ampliamento, in misura non superiore al 20%, di edifici unifamiliari;
c) per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici;
d) per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o di provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità;
e) per i nuovi impianti, lavori, opere, modifiche, installazioni, relativi alle fonti rinnovabili di energia, alla conservazione, al risparmio e all'uso razionale dell'energia, nel rispetto delle norme urbanistiche, di tutela artistico-storica e ambientale”. Viceversa il comma 4 stabiliva: “Per gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato il contributo di costruzione è commisurato alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione”. Osserva il Collegio che, in assenza di specificazioni da parte del legislatore, viepiù considerato che la disposizione invocata dalla ricorrente segue quella del comma 3 in cui il legislatore ha contemplato diverse fattispecie per l’esonero dal contributo declinando, per ognuna di esse, i singoli requisiti (ubi voluit, dixit), deve ritenersi che la commisurazione del contributo di costruzione alla incidenza delle sole opere di urbanizzazione sia obbligatoria in tutti gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato, senza ulteriori distinzioni e indipendentemente dal fatto che si tratti di opere stabili o precarie. Il contenuto della disposizione in discorso è talmente chiaro da non prestarsi ad interpretazioni di sorta (in claris non fit interpretatio). D’altra parte, l’ulteriore principio giurisprudenziale invocato dal Comune per giustificare la debenza, nel caso di specie, del costo di costruzione, depone in realtà in senso contrario a quello preteso dall’amministrazione. Invero, considerato che l'obbligazione contributiva per costo di costruzione è fondata sulla produzione di ricchezza connessa all'utilizzazione edificatoria del territorio ed alle potenzialità economiche che ne derivano e, pertanto, ha natura essenzialmente paratributaria (TAR Liguria, sez. I, 28.03.2013, n. 552), deve ritenersi che il legislatore, dettando una disposizione così chiara e
tranchant come quella di cui all’art. 17, comma 4, DPR 380/2001, abbia inteso affermare che gli interventi da realizzare su immobili di proprietà dello Stato, proprio perché tali, non siano di per sé soli produttivi di ricchezza e dunque non debbano essere assoggettati al costo di costruzione. Per quanto precede, il ricorso deve essere accolto e, per l’effetto, deve dichiararsi il diritto della ricorrente alla restituzione della somma corrisposta a titolo di costo di costruzione, maggiorata degli interessi legali dalla data della domanda, trattandosi di somma indebitamente riscossa dal Comune di Comacchio (TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, sentenza 27.06.2016 n. 630 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se
è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47 del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di inedificabilità relativa).
Pertanto, se il vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto non può considerarsi sic et simpliciter
inesistente, ne discende che gli va applicato lo stesso regime della
previsione generale dell’art. 32, comma 1, della stessa legge n. 47 del
1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su
aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla
tutela del vincolo medesimo.
--------------- Nel caso in esame, il vincolo gravante sulle aree oggetto dell’intervento edilizio è quello proprio dei territori costieri, implicante un regime di inedificabilità assoluta, ai sensi del precitato art. 33.
Il vincolo paesistico sui territori costieri compresi in una fascia di 300 metri dalla linea di battigia, in relazione all’intero territorio nazionale, è stato per la prima volta imposto, come è noto, con d.m. 21.09.1984 (recante Dichiarazione di notevole interesse pubblico dei territori costieri, dei territori contermini ai laghi, dei fiumi, dei torrenti, dei corsi d'acqua, delle montagne, dei ghiacciai, dei circhi glaciali, dei parchi, delle riserve, dei boschi, delle foreste, delle aree assegnate alle Università agrarie e delle zone gravate da usi civici), poi seguito dalle norme primarie di cui alla l.
08.08.1985, n. 431, di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 27.06.1985, n. 312, assorbito poi dal d.lgs. 29.10.1999, n, 490. Già in base a tale considerazione non appare pertinente il rilievo dell’appellante secondo cui l’Amministrazione comunale avrebbe fatto riferimento a una disciplina vincolistica sopravvenuta, in quanto introdotta soltanto con il d.lgs. 22.01.2004 n. 42, atteso che riguardo al vincolo sui territori costieri l’art. 142 d.lgs. cit. (recante l’elenco delle aree tutelate per legge) è riproduttivo –in continuità della fattispecie sostanziale- di quel regime vincolistico
ex lege, ben più risalente nel tempo. 4.5 Inoltre, vale al riguardo rammentare che, in base alle conclusioni raggiunte dall’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato 22.07.1999. n. 20 circa la disciplina del condono edilizio della legge n. 47 del 1985 e delle connesse questioni (poste dall’art. 33) relative ai procedimenti di condono riguardanti territori con vincoli di inedificabilità relativa, si deve avere riguardo al regime vincolistico sussistente alla data di esame della domanda di sanatoria, secondo il principio
tempus regit actum. Inoltre, quanto ai vincoli di in edificabilità assoluta, questo Consiglio di Stato ha più volte chiarito che se è vero che alla stregua dell’art. 33 l. n. 47 del 1985 il vincolo di inedificabilità assoluta non può operare in modo retroattivo, tuttavia non si può considerare inesistente per il solo fatto che sia sopravvenuto all’edificazione (ciò che paradossalmente porterebbe a ritenere senz’altro sanabili gli interventi, i quali pertanto fruirebbero di un regime più favorevole di quello riservato agli abusi interessati da vincoli sopravvenuti di inedificabilità relativa).
Pertanto, se il vincolo di inedificabilità assoluto sopravvenuto non può considerarsi
sic et simpliciter inesistente, ne discende che gli va applicato lo stesso regime della previsione generale dell’art. 32, comma 1, della stessa legge n. 47 del 1985, che subordina il rilascio della concessione in sanatoria per opere su aree sottoposte a vincolo al parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo medesimo (cfr. Cons. Stato, sez. VI,
07.10.2003, nr. 5918; sez. IV, 14.02.2012 n. 731) (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 06.05.2013 n. 2409 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per quanto riguarda la presentazione della DIA si
ritiene che l’espressione utilizzata dall’art. 42, comma 1,
della LR 12/2005 (“il proprietario dell'immobile o chi abbia
titolo per presentare la denuncia di inizio attività”)
individui oltre al proprietario altre due categorie di
soggetti.
In primo luogo coloro che dispongono di un diritto reale
diverso dalla proprietà che conferisca il potere di
modificare l’immobile attraverso interventi edilizi. Accanto
a questi si possono considerare legittimati quanti
dispongano di un diritto di natura personale da cui derivino
aspettative edificatorie.
La promessa di vendita, e in generale il preliminare di
compravendita, costituiscono sotto questo profilo titoli
idonei, purché non vi sia una clausola con un divieto
espresso che riservi al promittente venditore la facoltà di
definire le questioni edilizie in attesa del contratto
definitivo.
---------------
8. Con il primo motivo di ricorso viene in rilievo la
questione della legittimazione del geom. Fr.Da. a presentare
la DIA.
Questo problema è alla base sia della censura del
ricorrente, che lamenta la violazione dell’art. 42, comma 1,
della LR 12/2005, sia dell’eccezione di inammissibilità
formulata dai controinteressati, i quali sostengono che il
ricorso avrebbe dovuto essere instaurato nei confronti della
società Ed. 90 snc.
9. Per quanto riguarda la presentazione della DIA si ritiene
che l’espressione utilizzata dall’art. 42, comma 1, della LR
12/2005 (“il proprietario dell'immobile o chi abbia
titolo per presentare la denuncia di inizio attività”)
individui oltre al proprietario altre due categorie di
soggetti.
In primo luogo coloro che dispongono di un diritto reale
diverso dalla proprietà che conferisca il potere di
modificare l’immobile attraverso interventi edilizi. Accanto
a questi si possono considerare legittimati quanti
dispongano di un diritto di natura personale da cui derivino
aspettative edificatorie. La promessa di vendita, e in
generale il preliminare di compravendita, costituiscono
sotto questo profilo titoli idonei (v. CS Sez. VI 03.12.2004
n. 7847), purché non vi sia una clausola con un divieto
espresso che riservi al promittente venditore la facoltà di
definire le questioni edilizie in attesa del contratto
definitivo.
Nel caso in esame la promessa di vendita contiene tra i
patti speciali una dichiarazione di disponibilità del
promittente venditore a “firmare l’eventuale
documentazione necessaria all’inoltro della pratica edilizia
al Comune” e il consenso all’effettuazione di
misurazioni e rilievi da parte del promissario acquirente.
Queste formule possono essere interpretate come
manifestazioni della volontà di trasferire immediatamente al
promissario acquirente ogni potere circa l’edificazione: del
resto la vendita di un lotto edificabile ha come finalità
intrinseca, nota alle parti, proprio la realizzazione di un
intervento edilizio.
Di conseguenza la disponibilità a firmare la documentazione
va intesa come impegno del promittente venditore a favorire
una rapida conclusione della procedura edilizia: a tale
scopo il promittente venditore si impegna a presentare a
proprio nome (o a controfirmare) una richiesta di permesso
di costruire (o una DIA) nell’eventualità che
l’amministrazione non accetti una simile richiesta formulata
dal solo promissario acquirente.
In conclusione non vi è nella promessa di vendita alcun
elemento che privi il promissario acquirente della
legittimazione a presentare una DIA. Occorre poi
sottolineare, trattandosi di promessa per persona da
nominare, che qualora l’effettivo acquirente sia un terzo è
comunque applicabile l’istituto della ratifica ex art. 2032
cc. e conseguentemente il nuovo proprietario può consolidare
a proprio vantaggio gli effetti del titolo edificatorio. In
concreto la funzione della ratifica è stata svolta dalla
volturazione della DIA su richiesta della società Ed. 90 snc
(v. sopra al punto 3)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 19.07.2008 n. 830 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO AL 26.09.2018 |
ã |
"E io pago!!"
A proposito dei "diritti di segreteria" in materia edilizio-urbanistica:
il malcostume (silente) di "far cassa"
illegittimamente mettendo le mani nelle tasche dei cittadini.
In estrema sintesi,
non possono essere richiesti diritti
di segreteria per attività non rientranti tra le tipologie indicate dell’art.
10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito
con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68. |
L'istituzione dei "diritti di segreteria" in materia
edilizio-urbanistica è avvenuta venticinque anni or sono in forza
dell’art.
10, comma 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito
con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68,
laddove i commi 10, 11 e 12 così recitano:
10. Sono istituiti diritti di segreteria anche sui seguenti atti:
a)
certificati di destinazione urbanistica previsti dall'articolo 18, secondo comma, della legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
b)
autorizzazioni di cui all'articolo 7 del decreto-legge 23.01.1982, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla legge 25.03.1982, n. 94, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
c)
autorizzazione edilizia, nonché denuncia di inizio dell'attività, ad esclusione di quella per l'eliminazione delle barriere architettoniche, da un valore minimo di euro 51,65 ad un valore massimo di euro 516,46. Tali importi sono soggetti ad aggiornamento biennale in base al 75 per cento della variazione degli indici dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati;
d)
autorizzazione per l'attuazione di piani di recupero di iniziativa dei privati, di cui all'articolo 30 della legge
05.08.1978, n. 457, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
e)
autorizzazione per la lottizzazione di aree, di cui all'articolo 28 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, da un valore minimo di L. 100.000 ad un valore massimo di L. 1.000.000;
f)
certificati e attestazioni in materia urbanistico-edilizia da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
g)
concessioni edilizie, da un valore minimo di L. 30.000 ad un valore massimo di L. 1.000.000.
11. I comuni con popolazione superiore a 250.000 abitanti sono autorizzati ad incrementare i diritti di cui alle lettere da a) a g) del comma 10, sino a raddoppiare il valore massimo.
12. I proventi degli anzidetti diritti di segreteria sono a vantaggio esclusivamente degli enti locali.
Da una lettura attenta, si può desumere come il legislatore nazionale abbia voluto introdurre
tali diritti su atti amministrativi, di competenza quasi
esclusivamente comunale, la cui elencazione è da ritenersi tassativa e non meramente esemplificativa.
Siccome precisato dal comma 12 sopra riportato, i diritti di segreteria
de quibus sono ad esclusivo vantaggio degli enti locali e la legge nazionale ha precisato (per quanto di attinenza al caso di specie) che per enti locali si intendono: i comuni, le province, le città metropolitane, le comunità montane, le comunità isolane e le unioni di comuni.
Ulteriormente, giova qui ricordare che i suddetti diritti trovano allocazione nel D.L. 18.01.1993 n. 8 che titola: Disposizioni urgenti in materia di finanza derivata e di contabilità pubblica, il cui articolato è infarcito di continui riferimenti agli enti locali come sopra individuati.
Ciò premesso, la norma è chiara -facilmente
intelligibile- nello statuire puntualmente quali siano gli atti
amministrativi per i quali richiedere obbligatoriamente (e legittimamente) i
"diritti di segreteria" il cui elenco, in forza di sopravvenute leggi
modificative/integrative/sostitutive, può essere così riassunto:
10. Sono istituiti diritti di segreteria anche sui seguenti atti:
a)
certificati di destinazione urbanistica previsti dall'articolo
18, secondo comma, della
legge 28.02.1985, n. 47, e successive modificazioni
(oggi
cfr. art. 30 DPR 06.06.2001 n. 380), da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
b)
autorizzazioni di cui
all'articolo
7 del decreto-legge 23.01.1982, n. 9, convertito, con modificazioni, dalla
legge 25.03.1982, n. 94, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
(istituto ABROGATO)
c)
autorizzazione edilizia, nonché denuncia di inizio dell'attività
(autorizzazione edilizia --->
istituto ABROGATO / denuncia di inizio attività
---> oggi "segnalazione certificata di inizio attività" - cfr.
art. 19 L. n. 241/1990 nonché
art. 22 e seguenti DPR 380/2001), ad esclusione di quella per l'eliminazione delle barriere architettoniche, da un valore minimo di euro 51,65 ad un valore massimo di euro 516,46. Tali importi sono soggetti ad aggiornamento biennale in base al 75 per cento della variazione degli indici dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati;
d)
autorizzazione per l'attuazione di piani di recupero di iniziativa dei privati,
di cui all'articolo
30 della legge 05.08.1978, n. 457, da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
e)
autorizzazione per la lottizzazione di aree, di cui all'articolo 28 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, e successive modificazioni ed integrazioni, da un valore minimo di L. 100.000 ad un valore massimo di L. 1.000.000;
f)
certificati e attestazioni in materia urbanistico-edilizia da un valore minimo di L. 10.000 ad un valore massimo di L. 100.000;
g)
concessioni edilizie
(oggi
"permesso di costruire" - cfr. art. 10 e segg. DPR 06.06.2001 n. 380), da un valore minimo di L. 30.000 ad un valore massimo di L. 1.000.000.
Invero, l'unica voce per la quale i comuni si
sbizzarriscono a richiedere illegittimamente i "diritti di segreteria"
-NON dovuti (per alcuni atti amministrativi)- è quella di cui alla lett. f)
"certificati e attestazioni", ricomprendendovi fattispecie NON
contemplate dal legislatore ovvero NON attinenti alla materia
urbanistico-edilizia. Esemplifichiamo, di seguito, alcuni atti per i
quali è legittimo [recte, obbligatorio
(laddove istituiti e non soppressi ex
art. 2, comma 15, L. n. 127/1997) ... se non si vuole comparire
dinanzi alla Corte dei Conti per risponderne in prima persona] richiedere i diritti di segreteria:
- attestazione idoneità alloggiativa (per cittadini extraUE - ex
art. 29 D.Lgs. 25.07.1998 n. 286);
- certificato di abitabilità/agibilità (per condono edilizio - ex
art. 35, comma 19, legge 28.02.1985 n. 47);
- attestazione di avvenuto deposito frazionamenti e tipi mappale (ex
art. 30
del D.P.R. 06.06.2001 n. 380);
- certificato di inizio e/o fine lavori;
- certificato di avvenuta demolizione di fabbricato;
- attestazione/dichiarazione inagibilità di fabbricato;
- attestazione deposito denuncia c.a. (ex
art. 7 l.r. 12.10.2015 n. 33);
Al contrario e per quanto -purtroppo- facilmente
verificabile on-line consultando vari siti web comunali qua e là,
non risulta
legittimo
far pagare (elencativamente, senza presunzione di esaustività) per i seguenti
atti/procedimenti amministrativi:
- C.I.L. / C.I.L.A. (ex
artt. 6 - 6-bis D.P.R. 06.06.2001 n. 380);
- autorizzazione paesaggistica (ex
art. 146
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42);
- accertamento compatibilità paesaggistica (ex
art. 167
D.Lgs. 22.01.2004 n. 42);
- autorizzazione trasformazione bosco (ex
art. 43 l.r.
05.12.2008 n. 31);
- autorizzazione trasformazione d'uso del suolo (ex
art. 44 l.r.
05.12.2008 n. 31);
- autorizzazione taglio strada;
- autorizzazione allacciamento pubblica fognatura;
- autorizzazione installazione cartelli/insegne, ecc.;
- proroga termine inizio/ultimazione lavori;
- volturazione permesso di costruire;
- pareri preliminari/preventivi, di massima, di fattibilità, ecc.;
- pareri di sorta;
- nulla-osta/autorizzazione taglio piante;
- nulla-osta di
sorta;
- Piani Attuativi di altro genere [P.E.E.P. (Piano per l'Edilizia Economica
e Popolare) ex
L. 18.04.1962 n. 167; P.I.I. (Programma Integrato di Intervento)
ex
art. 87 L.R. 11.03.2005 n. 12; P.I.P. (Piano per gli Insediamenti
Produttivi) ex
art. 27 L. 22.10.1971 n. 865; ecc.];
- S.C.A. - Segnalazione Certificata di Agibilità (ex
art. 24 D.P.R.
06.06.2001 n.
380);
- presa visione pratiche edilizie;
- procedura abilitativa semplificata - P.A.S. (ex
art. 6 D.Lgs. 03.03.2011 n. 28);
- autorizzazione cessione in proprietà delle aree comprese nei piani
approvati a norma della legge 18.04.1962, n. 167 (P.E.E.P.), ovvero
delimitate ai sensi dell'articolo 51 della legge 22.10.1971, n. 865, già
concesse in diritto di superficie (ex
art. 31, comma 45, legge 23.12.1998 n. 448);
- autorizzazione all'eliminazione vincoli (dopo che siano trascorsi almeno cinque anni dalla data del
primo trasferimento)
relativi alla determinazione:
●
del prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e loro
pertinenze nonché
●
del canone massimo di locazione delle stesse,
contenuti nelle convenzioni di cui all'articolo 35 della legge 22.10.1971,
n. 865 (P.E.E.P.), e successive modificazioni, per la cessione del diritto
di proprietà, stipulate precedentemente alla data di entrata in vigore della
legge 17.02.1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di superficie
(ex
art. 31, comma 49-bis, legge 23.12.1998 n. 448);
- sopralluoghi di sorta.
Infine, risulta necessario ricordare che i "diritti
di segreteria" hanno un limite minimo
(€ 5,16 oppure
€ 15,49 oppure
€ 51,65) ed un limite massimo
(€ 51,65 oppure
€ 516,46) -a seconda del tipo di
atto/procedimento amministrativo-
entro cui essere
(legittimamente) predeterminati. Detto altrimenti, è
illegittimo richiedere al cittadino una somma maggiore al massimo di legge
(€ 51,65 oppure € 516,46) -fatta salva
la facoltà di raddoppio in capo solamente a comuni con più di 250.000 abitanti- come, invece, molti comuni operano fregandosene
di osservare la
norma!!
Ricapitolando, per i duri di comprendonio,
l’art. 23 della Costituzione stabilisce che nessuna
prestazione patrimoniale e personale può essere imposta se non in base
alla legge.
In altre parole, ogni volta che l’Amministrazione
impone una prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa, ciò
deve avvenire nel rispetto del principio di riserva di legge.
Per i tanti (troppi) "SAN TOMMASO" in
circolazione, a seguire
proponiamo un po' di materiale a conforto della bontà di quanto sopra
esplicitato ... buona lettura.
|
EDILIZIA PRIVATA:
Non possono essere richiesti diritti di segreteria per
attività non rientranti tra le tipologie indicate
dell’art.
10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito
con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68.
L’art. 23 della Costituzione stabilisce che nessuna
prestazione patrimoniale e personale può essere imposta se
non in base alla legge.
E, in effetti la deliberazione della Giunta Comunale, pur
formalmente adottata per stabilire gli importi dei “Diritti
di Segreteria su atti e prestazioni di carattere edilizio ed
urbanistico”, rappresenta una prestazione patrimoniale
imposta a carico di privati, in considerazione del fatto che
la misura censurata con il presente ricorso non appare
giustificabile con l’attività istruttoria dell’ufficio
comunale e quindi riconducibile ai diritti di segreteria.
Deve essere condivisa, pertanto, la tesi della ricorrente
secondo cui, ogni volta che l’Amministrazione imponga una
prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa,
ciò debba avvenire nel rispetto del principio di riserva di
legge.
---------------
I diritti di segreteria che il Comune può istituire in
applicazione
dell’art.
10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito
con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68
attengono a corrispettivi per l’attività di istruttoria
delle specifiche pratiche edilizie indicate al comma 10 e
devono essere determinati nel loro ammontare in relazione
alle varie tipologie di atti e alla complessità
dall’attività istruttoria normalmente richiesta.
Ciò implica che non possono essere richiesti diritti di
segreteria per attività non rientranti tra le tipologie
indicate al comma 10, né somme sproporzionate nel loro
ammontare all’attività istruttoria né, a maggior ragione,
possono essere pretesi diritti in occasione di comunicazioni
dei privati (es. di inizio o di fine lavori, nomina
direttore dei lavori) che non richiedano una specifica
attività istruttoria finalizzata al rilascio di un atto o
titolo edilizio (anche per silenzio) da parte dell’ufficio.
L’importo preteso dal Comune, pur essendo funzionale al
rilascio di un titolo edilizio, appare del tutto
sproporzionato rispetto all’attività istruttoria
dell’ufficio, tanto da apparire come una prestazione
patrimoniale imposta, non rientrante nelle competenze del
Comune, come innanzi osservato in relazione al primo motivo.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. n. 8307 del 22.07.2011 del Responsabile
dell'Ufficio Tecnico, Sezione Urbanistica Edilizia Privata,
del Comune di Calasetta con il quale è stato richiesto alla
ricorrente di corrispondere la somma di € 448,35 a titolo di
diritti di segreteria, con la precisazione che l'adempimento
costituisce condizione di procedibilità dell'istanza
presentata per l'esecuzione di ML. 10 di scavo per allaccio
La.Gi.;
- per quanto occorra, della deliberazione n. 83 del 04.09.2009, con
cui la Giunta Comunale di Calasetta ha statuito gli importi
dei "Diritti di segreteria su atti e prestazioni di
carattere edilizio ed Urbanistico";
- nonché per la declaratoria dell'inesistenza del diritto del
Comune a prendere somme a titolo di diritti di segreteria;
...
Con il ricorso in esame, Enel Distribuzione S.p.a. chiede
l’annullamento del provvedimento, prot. n. 8307 del
22.07.2011, con il quale il responsabile dell'Ufficio
Tecnico del Comune di Calasetta ha richiesto alla ricorrente
di corrispondere la somma di € 448,35 a titolo di diritti di
segreteria quale condizione di procedibilità dell'istanza
presentata per l’autorizzazione all’esecuzione di scavi a
sezione obbligata di limitate dimensioni, al fine di poter
provvedere all’esecuzione di un allaccio per il Sig. La.Gi..
Avverso gli atti impugnati, la società ricorrente deduce,
quale primo motivo, la violazione del principio
costituzionale, di cui all’art. 23 della Costituzione, che
riserva alla legge l’introduzione di prestazioni
patrimoniali imposte, nonché la violazione degli art. 25, 26
e 27 del Codice della Strada.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la violazione
del principio di proporzionalità, nonché eccesso di potere
sotto vari profili, in quanto la somma di € 448,35,
richiesta dal Comune di Calasetta a titolo di diritti di
segreteria, è manifestamente sproporzionata e immotivata.
...
Il ricorso è fondato alla luce della sentenza di questo
Tribunale n. 539 del 31.05.2018, le cui motivazioni,
condivise dal collegio, possono essere riprese per la
decisione della presente identica controversia.
Occorre rammentare, in conformità a quanto dedotto dalla
ricorrente, che l’art. 23 della Costituzione stabilisce che
nessuna prestazione patrimoniale e personale può essere
imposta se non in base alla legge; e, in effetti la
deliberazione della Giunta Comunale di Calasetta n. 83 del
04.09.2009, pur formalmente adottata per stabilire gli
importi dei “Diritti di Segreteria su atti e prestazioni
di carattere edilizio ed urbanistico”, rappresenta una
prestazione patrimoniale imposta a carico di privati, in
considerazione del fatto che la misura censurata con il
presente ricorso non appare giustificabile con l’attività
istruttoria dell’ufficio comunale e quindi riconducibile ai
diritti di segreteria.
Deve essere condivisa, pertanto, la tesi della ricorrente
secondo cui, ogni volta che l’Amministrazione imponga una
prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa,
ciò debba avvenire nel rispetto del principio di riserva di
legge. Non è fuori luogo ricordare, tra l’altro, che, nel
caso in esame, quanto imposto dal Comune intimato incide
sulla prestazione di un servizio pubblico essenziale quale
quello svolto da E-Distribuzione S.p.A.. E’, peraltro,
incontestabile che, nella fattispecie in esame, sussista
un’imposizione unilaterale e autoritativa (sotto forma di
asseriti “diritti di segreteria”), cui la società
concessionaria dell’attività di distribuzione di energia
elettrica non può sottrarsi, necessitando
dell’autorizzazione comunale per poter realizzare,
esercitare e mantenere in efficienza la rete di cavi,
tralicci e cabine di trasformazione, e garantire, al tempo
stesso, la connessione alla rete di distribuzione a tutti i
soggetti che ne facciano richiesta (TAR Brescia, Lombardia,
sez. II, 09/04/2018, n. 404).
Fondato appare anche il secondo motivo, con il quale
si deduce che la richiesta di pagamento della predetta somma
di € 448,35 è illegittima per violazione del principio di
proporzionalità e dell’art. 10, co 10, del decreto-legge
18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni in legge
19.03.1993, n. 68.
I diritti di segreteria che il Comune può istituire in
applicazione dell’articolo 10 attengono a corrispettivi per
l’attività di istruttoria delle specifiche pratiche edilizie
indicate al comma 10 e devono essere determinati nel loro
ammontare in relazione alle varie tipologie di atti e alla
complessità dall’attività istruttoria normalmente richiesta
(sulla natura di corrispettivo dei diritti di segreteria,
Tar Campobasso n. 210/2014).
Ciò implica che non possono essere richiesti diritti di
segreteria per attività non rientranti tra le tipologie
indicate al comma 10, né somme sproporzionate nel loro
ammontare all’attività istruttoria né, a maggior ragione,
possono essere pretesi diritti in occasione di comunicazioni
dei privati (es. di inizio o di fine lavori, nomina
direttore dei lavori) che non richiedano una specifica
attività istruttoria finalizzata al rilascio di un atto o
titolo edilizio (anche per silenzio) da parte dell’ufficio.
L’importo preteso dal Comune di Calasetta, pur essendo
funzionale al rilascio di un titolo edilizio, appare del
tutto sproporzionato rispetto all’attività istruttoria
dell’ufficio, tanto da apparire come una prestazione
patrimoniale imposta, non rientrante nelle competenze del
Comune, come innanzi osservato in relazione al primo motivo.
La domanda di declaratoria dell'inesistenza del diritto del
Comune a pretendere somme a titolo di diritti di segreteria,
va invece respinta.
La possibilità di richiedere i diritti di segreteria per il
rilascio di atti o titoli edilizi (anche DIA) è
espressamente prevista dall’articolo 10, comma 10, del D.L.
18.1.1993, n. 8, cosicché appare infondata la domanda
avanzata in ricorso, di accertamento dell’inesistenza del
diritto del Comune; anche se, come prima rilevato, l’importo
preteso del Comune si è rilevato illegittimo (TAR Sardegna,
Sez. II,
sentenza 23.08.2018 n. 760 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 23 della Costituzione stabilisce che
nessuna prestazione patrimoniale e personale può essere
imposta se non in base alla legge.
Sicché, la previsione comunale (contestata) che ha statuito
gli importi dei "Diritti di Segreteria su atti e prestazioni
di carattere edilizio ed urbanistico" integra una
prestazione patrimoniale a carico di privati non prevista
dalla legge e, quindi, è illegittima.
Deve essere condivisa, pertanto, la tesi della ricorrente
secondo cui, ogni volta che l’Amministrazione imponga una
prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa,
ciò debba avvenire nel rispetto del principio di riserva di
legge.
---------------
I diritti di
segreteria che il Comune può istituire in applicazione dell’art.
10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito
con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68,
attengono a corrispettivi per l’attività di istruttoria
delle specifiche pratiche edilizie indicate al comma 10 e
devono essere determinati nel loro ammontare in relazione
alle varie tipologie di atti e alla complessità
dall’attività istruttoria normalmente richiesta.
Ciò implica che non possono essere richiesti diritti di
segreteria per attività non rientranti tra le tipologie
indicate al comma 10, né somme sproporzionate nel loro
ammontare all’attività istruttoria né, a maggior ragione,
possono essere pretesi detti diritti in occasione di
comunicazioni dei privati (es. di inizio o di fine lavori)
che non comportino una specifica attività istruttoria
finalizzata al rilascio di un atto o provvedimento da parte
dell’ufficio.
---------------
Con il ricorso in esame, Enel Distribuzione S.p.a. chiede
l’annullamento del provvedimento, prot. n. 5389 del
11.05.2011, con il quale il responsabile dell'Ufficio
Tecnico del Comune di Calasetta ha richiesto alla ricorrente
di corrispondere la somma di € 448,35 a titolo di diritti di
segreteria quale condizione di procedibilità dell'istanza,
presentata in data 07.04.2011, per l’autorizzazione
all’esecuzione di scavi a sezione obbligata di limitate
dimensioni (20 metri lineari) al fine di poter provvedere
all’esecuzione di un allaccio in “Loc. Le Saline”.
Avverso gli atti impugnati, la società ricorrente deduce,
quale primo motivo, la violazione del principio
costituzionale (art. 23 Cost.) che riserva alla legge
l’introduzione di prestazioni patrimoniali imposte, nonché
la violazione degli art. 25, 26 e 27 del Codice della
Strada.
Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta la
violazione del principio di proporzionalità, nonché eccessi
di potere sotto vari profili, in quanto la somma di €
448,35, richiesta dal Comune di Calasetta a titolo di
diritti di segreteria, è manifestamente sproporzionata e
immotivata.
...
Il ricorso è fondato.
Occorre rammentare, in conformità a quanto dedotto dalla
ricorrente, che l’art. 23 della Costituzione stabilisce che
nessuna prestazione patrimoniale e personale può essere
imposta se non in base alla legge; e, in effetti, la
previsione comunale di cui alla deliberazione del
04.09.2009, n. 83, con cui la Giunta Comunale di Calasetta
ha statuito gli importi dei "Diritti di Segreteria su
atti e prestazioni di carattere edilizio ed urbanistico",
integra una prestazione patrimoniale a carico di privati non
prevista dalla legge e, quindi, è illegittima.
Deve essere condivisa, pertanto, la tesi della ricorrente
secondo cui, ogni volta che l’Amministrazione imponga una
prestazione patrimoniale con atti di natura autoritativa,
ciò debba avvenire nel rispetto del principio di riserva di
legge.
Non è fuori luogo ricordare, tra l’altro, che, nel caso in
esame, quanto imposto dal Comune intimato incide sulla
prestazione di un servizio pubblico essenziale quale quello
svolto da E-Distribuzione S.p.A..
E’, peraltro, incontestabile che, nella fattispecie in
esame, sussista un’imposizione unilaterale e autoritativa
(sotto forma di asseriti “diritti di segreteria”),
cui la società concessionaria dell’attività di distribuzione
di energia elettrica non può sottrarsi, necessitando
dell’autorizzazione comunale per poter realizzare,
esercitare e mantenere in efficienza la rete di cavi,
tralicci e cabine di trasformazione, e garantire, al tempo
stesso, la connessione alla rete di distribuzione a tutti i
soggetti che ne facciano richiesta.
Fondato appare anche il secondo motivo, con il quale
si deduce che la richiesta di pagamento della predetta somma
di € 448,35 è illegittima per violazione del principio di
proporzionalità e dell’art.
10, co. 10, del decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito
con modificazioni in legge 19.03.1993, n. 68.
I diritti di segreteria che il Comune può istituire in
applicazione dell’articolo 10 attengono a corrispettivi per
l’attività di istruttoria delle specifiche pratiche edilizie
indicate al comma 10 e devono essere determinati nel loro
ammontare in relazione alle varie tipologie di atti e alla
complessità dall’attività istruttoria normalmente richiesta
(sulla natura di corrispettivo dei diritti di segreteria,
Tar Campobasso n. 210/2014).
Ciò implica che non possono essere richiesti diritti di
segreteria per attività non rientranti tra le tipologie
indicate al comma 10, né somme sproporzionate nel loro
ammontare all’attività istruttoria né, a maggior ragione,
possono essere pretesi detti diritti in occasione di
comunicazioni dei privati (es. di inizio o di fine lavori)
che non comportino una specifica attività istruttoria
finalizzata al rilascio di un atto o provvedimento da parte
dell’ufficio.
L’importo preteso dal Comune di Calasetta, pur essendo
funzionale al rilascio di un titolo edilizio, appare del
tutto sproporzionato rispetto all’attività istruttoria
dell’ufficio, tanto da apparire come una prestazione
patrimoniale imposta, non rientrante nelle competenze del
Comune, come innanzi osservato in relazione al primo
motivo.
In conclusione, per le esposte ragioni, il ricorso è fondato
e va accolto, con conseguente annullamento degli atti
impugnati (TAR Sardegna, Sez. II,
sentenza 31.05.2018 n. 538 - link a
www.giustizia-amministrativa.it - ad abundantiam, TAR
Sardegna, Sez. II,
sentenza 31.05.2018 n. 539 - TAR Sardegna, Sez.
II,
sentenza 31.05.2018 n. 537). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quesito
Il D.P.R. n. 380/2001 versione originaria, contenente il “Testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in
materia edilizia”, oltre a definire gli interventi
edilizi realizzabili prevedeva, altresì, i titoli
abilitativi necessari per effettuare gli interventi medesimi
(Titolo II) stabilendo, in particolare: con l’art. 6 (“Attività
edilizia libera”), quelli che si potevano eseguire senza
alcun titolo abilitativo; con l’art. 10 (“Interventi
subordinati a permesso di costruire”), quelli per i
quali era necessario il permesso di costruire; con l’art. 22
(“Interventi subordinati a denuncia di inizio attività”)
gli interventi non riconducibili all’elenco di cui all’art.
10 e all’art. 6, subordinati a presentazione di denuncia di
inizio attività (D.I.A.).
La legge n. 68/1993 (“Disposizioni urgenti in materia di
finanza derivata e di contabilità pubblica”) all’art.
10, co. 10, ha poi previsto il pagamento dei diritti di
segreteria per una serie di atti, tra cui <<…c)
autorizzazione edilizia, nonché denuncia di inizio
dell'attività…>> (lettera così sostituita dall'articolo
2, comma 60, legge n. 662 del 1996, poi modificata
dall'articolo 1, comma 50, legge n. 311 del 2004).
L’art. 6 del d.p.r. n. 380/2001 (così come sostituito
dall’art. 5 della L. n. 73/2010 e dall’art. 17 della L. n.
164/2014) attuale formulazione, ha introdotto per gli
interventi non necessitanti titolo abilitativo di cui al
comma 2, lett. b), c), d), e), la preventiva comunicazione
di inizio lavori (C.I.L.) da parte dell’interessato
all’amministrazione comunale, mentre con il comma 4 ha
previsto, per gli interventi di cui alle lett. e) ed e-bis)
del comma 2, la comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.).
Sulla scorta del quadro normativo sopra illustrato, si
chiede di sapere se i diritti di segreteria di cui all’art.
10, co. 10, della L. n. 68/1993 e ss. mm. ed ii. sono
esigibili dall’ente anche in relazione ai procedimenti per i
quali la normativa prevede la presentazione
all’amministrazione comunale della C.I.L. o della C.I.L.A.
Risposta
L’art.
10, comma 10, del d.l. 8/1993, convertito dalla legge
68/1993 e successive modificazioni, ha previsto il
pagamento di diritti di segreteria per una serie di atti in
materia edilizia ed urbanistica.
La comunicazione di inizio lavori (C.I.L.) e la
comunicazione di inizio lavori asseverata (C.I.L.A.),
previste per alcuni interventi in materia edilizia che non
necessitano di titolo abilitativo, non sono previsti tra gli
atti soggetti al pagamento dei diritti di segreteria
dall’articolo citato.
I diritti di segreteria, compresi quelli in materia edilizia
ed urbanistica, essendo dovuti a fronte di un’attività
amministrativa compiuta dall’ente nello svolgimento delle
sue funzioni di diritto pubblico, hanno natura tributaria
(cfr. C. Cost. sent. n. 156/1990) e non è consentito agli
enti locali estendere la riscossione ad atti non previsti
nella elencazione fatta dal legislatore, né sono possibili
adattamenti al nuovo contesto normativo edilizio.
Il comma 3 del Tuel (D.Lgs. 267/2000) richiama il testo
dall’art. 52 del D.Lgs. 446/1997 per il quale comuni e le
province possono disciplinare con regolamento le proprie
entrate, anche tributarie, salvo per quanto attiene
l’individuazione e definizione delle fattispecie imponibili,
dei soggetti passivi, dell’aliquota massima dei singoli
tributi, nel rispetto delle esigenze di semplificazione
degli adempimenti dei contribuenti.
Per questi motivi, allo stato della legislazione, i comuni
non possono richiedere diritti di segreteria per la
comunicazione di inizio lavori, né per la comunicazione di
inizio lavori asseverata (19.11.2015 - tratto da
www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quesito
La Giunta Comunale, a seguito della proposta, del
Responsabile dell'UTC di adeguamento dei diritti di
segreteria sugli atti di natura edilizia ai sensi dell'art.
50 della legge 30.12.2004 n. 311, istituiti ai sensi
dell'art. 10, comma 10, della Legge 19.03.1993 n. 68, ha
provveduto alla sua approvazione.
In seguito è nata una accesa discussione, tra alcuni
Cittadini ed il Responsabile dell'UTC, circa la non
applicabilità della corresponsione dei diritti di segreteria
per il rilascio dell'attestato di avvenuto deposito, imposto
dall'art. 30, comma 5, del DPR 380/2001 e s.m.i., dei tipi
di frazionamento catastale e dei tipi mappali.
Al fine di poter intervenire con cognizione di causa nella
vicenda, si sottopongono alla Vostra cortese attenzione le
seguenti domande:
- i diritti di segreteria, previsti dall'art. 10, comma 10, lettera
f), della Legge 68/1993, sono applicabili al deposito dei
tipi di frazionamento catastali e dei tipi mappali con
stralcio d'area ( corte pertinenziale) imposto dall'art. 30,
comma 1, del DPR 380/01 e s.m.i.?
- tali atti di aggiornamento catastale rivestono natura
urbanistico-edilizia?
- l'attestazione di avvento deposito è da considerarsi un vero e
proprio atto dell'Amministrazione Comunale, ovvero una mera
ricevuta attestante la presentazione in Comune dei precitati
atti di aggiornamento catastale ?
- per l'attestazione dell'avvenuto deposito in Comune, ai sensi
dell'art. 30, comma 5, del DPR 380/2001 e s.m.i. dei tipi di
frazionamento catastale e dei tipi mappali con stralcio
d'area, il Responsabile dell'UTC è tenuto o meno ad
espletare preliminarmente qualsivoglia istruttoria a
riguardo?
Risposta
- Va premesso che la
lett. f) del comma 10 dell’art. 10 della l. n. 68/1993,
nel prevedere l’applicabilità dei cd. diritti di Segreteria
anche in relazione ai “certificati e attestazioni in
materia urbanistico-edilizia da un valore minimo di L.
10.000 ad un valore massimo di L. 100.000”, usa una
espressione del tutto generica che può essere letta come un
omnicomprensivo riferimento ad ogni tipo di “certificato”
od “attestazione” rilasciata dalla PA in materia
urbanistico-edilizia;
- Va anche ricordato che i diritti di segreteria vengono in genere
fiscalmente considerati una “tassa” e quindi
collegati ad un servizio svolto dall’amministrazione in
funzione corrispettiva della somma richiesta;
- Nel caso di specie l’attestazione di deposito dei frazionamenti
catastali di cui al comma 5 dell’art. 30 del DPR n. 380/2001
non risulta invero connessa dalla norma alla necessità della
PA di effettuare una specifica e preventiva istruttoria su
qualche aspetto particolare, ma semplicemente al fatto in sé
del “deposito” del tipo di frazionamento, in
relazione al quale l’amministrazione non svolge una
specifica istruttoria anche se questa potrà venire in
rilievo in momenti successivi e tenendo conto della finalità
della disposizione che è quella di sanzionare le
lottizzazioni abusive;
- Per tali ragioni una parte della dottrina ritiene che la tassa non sia
dovuta in quanto il Comune non svolge alcuna specifica
attività di riscontro ed istruttoria di tipo “edilizio”
quando riceve i suddetti documenti, osservando che l’atto di
deposito in se stesso non costituirebbe un vero e proprio
atto di natura urbanistico–edilizia risultando assimilabile
a qualsiasi altro comune deposito presso l’ufficio
protocollo;
- Tuttavia va osservato che l’attività del comune, rilevante ai
fini dell’applicazione dei diritti di segreteria non è,
nella fattispecie, tanto il “deposito” in sé del tipo
di frazionamento quanto “l’attestazione” del deposito
stesso da parte dell’Ente pubblico del documento;
- Da questo punto di vista quello che assume importanza “corrispettiva”
ai fini della applicazione della tassa è proprio tale
attività o servizio di generica attestazione, la quale
presenta caratteristiche del tutto ordinarie come qualsiasi
altra comune attestazione da parte del Comune;
- Per tali ragioni si è dell’avviso che, come nella prassi seguita
da diversi comuni, si possano applicare i diritti di
segreteria nella misura minima in genere prevista (di solito
anche nel regolamento comunale) per tale tipo di
attestazioni “ordinarie” (tali ipotesi vengono
infatti ricondotte alla categoria residuale denominata “attestazioni
e certificazioni varie” che prevede un valore modico
della tassa da pagare) (19.06.2012
- tratto da www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quesito
In relazione all'applicazione dei diritti di segreteria in
materia edilizia ed urbanistica, ex
art. 10, comma 10, D.L. 18/01/1993 n. 8, lett. f) "certificati
ed attestazioni", si richiede se possano legittimamente
applicarsi anche su attestazioni riguardanti lo stato
giuridico delle strade e di beni immobili comunali
risultanti da consultazione dell'Inventario Comunale e se in
caso positivo va comunque applicato anche il bollo
sull'attestazione (già pagato in sede di istanza).
Risposta
La risposta è positiva in quanto le attestazioni concernenti
lo stato giuridico delle strade e di beni immobili comunali
riguardano pur sempre la materia urbanistica-edilizia.
La circostanza che siano dovuti i diritti di segreteria non
esclude affatto che sia dovuta l’imposta di bollo (20.03.2008
- tratto da www.ancirisponde.ancitel.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quesito
Il Dirigente del settore urbanistica-edilizia di questo
Comune riferisce che molti cittadini che hanno effettuato
pagamenti al Comune per diritti di segreteria, ai sensi del
decreto-legge 18.01.1993, n. 8, convertito con modificazioni
in legge 19.03.1993, n. 68, e
successive modifiche, per la presentazione di D.I.A. cui
l'ufficio, per varie motivazioni, non ha dato seguito (o
perché la denuncia non era necessaria o per altre
motivazioni), hanno chiesto il rimborso dei diritti versati
ai sensi della normativa in oggetto, facendo una sorta di
assimilazione con quanto accade, ad esempio, per il rimborso
degli oneri concessori per permessi di costruzione cui non
hanno fatto seguito i lavori.
Si chiede il parere di codesta Associazione in merito all'accoglibilità
di tali richieste di rimborso.
Risposta
Il diritto di segreteria è strettamente legato ad una
prestazione comunale per la quale, secondo la legge ed i
regolamenti comunali, è dovuto il diritto di segreteria.
Se il diritto di segreteria è dovuto sugli atti del
procedimento preparatorio, nel caso in cui non abbiano avuto
adeguato sviluppo, non danno luogo ad alcun rimborso. Se il
diritto di segreteria è dovuto sugli atti del provvedimento,
nel caso in cui il provvedimento non abbia luogo, si ritiene
non sia dovuto alcun diritto di segreteria.
Nella fattispecie concreta, nel caso in cui la denuncia di
inizio di attività risulti espressamente dichiarata non
dovuta, e quindi erroneamente inviata dall’interessato, è da
ritenersi, in relazione ai generali principi del diritto,
che il diritto di segreteria debba essere restituito, in
quanto indebito, senza alcun interesse, a quest’ultimo
riguardo, nei termini di cui si dirà in appresso.
Il provvedimento del Responsabile del servizio urbanistica
con il quale si dispone per la restituzione del diritto di
segreteria in quanto non dovuto, deve essere adeguatamente
motivato e deve riportare gli estremi finanziari al fine di
renderlo possibile e la firma del responsabile del servizio
di ragioneria.
La motivazione in sostanza deve riassumere gli argomenti
giuridici per cui la denuncia d’inizio di attività non era
per la relativa fattispecie edilizia non dovuta.
Ovviamente il caso “de quo” non è da ritenersi in
analogia con quello esemplificato, relativo agli oneri
concessori messi in restituzione in quanto il titolare del
permesso non ha dato luogo all’inizio dei lavori di cui al
permesso e dichiara espressamente di rinunciare
all’esecuzione degli stessi sulla base delle motivazioni
fornite dal medesimo.
In ogni caso, ed anche in questo ultimo caso, non è dovuto
alcun interesse sui rimborsi, a condizione che lo sviluppo
delle procedure di rimborso, rispetto alle domande pervenute
al Comune abbia luogo nei termini previsti dalla legge
07.08.1990, n. 241 e s.m., o del regolamento comunale sui
procedimenti amministrativi (ovviamente per queste tipologie
procedimentali) (09.07.2007 -
tratto da www.ancirisponde.ancitel.it). |
26.09.2018 - LA
SEGRETERIA PTPL |
|
|
Okkio a non rispondere agli ordini istruttori del G.A.:
ciò può
integrare ipotesi di reato
(tra cui la violazione dell’art.
328 c.p. e l’art.
650 c.p.) col rischio concreto di comparire
dinanzi alla
Procura della Repubblica nonché Procura Regionale
della Corte dei Conti per le valutazioni di competenza. |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisprudenza consolidata è giunta ad
affermare che l'individuazione dell'area da acquisire al
patrimonio pubblico non deve essere necessariamente indicata
nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta
nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione
procede all'acquisizione del bene, fermo restando che,
almeno l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta
indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica
nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e
delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione.
Ciò discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione
costituisce titolo per la immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto
prescindere dalla esatta individuazione delle particelle
catastali coinvolte.
(Nella specie né l'ordinanza di demolizione né l'ordinanza
di acquisizione oggetto del presente giudizio riportano i
suddetti dati, né risulta allegata all'ordinanza gravata una
planimetria o altri atti che consentano l'identificazione
esatta della aree interessate).
Sicché, la concreta individuazione delle aree da acquisire
al patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione
costituiscono elementi necessari del provvedimento
acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo
costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
Atteso che l'area acquisita non può comunque essere
superiore a dieci volte la complessiva superficie utile
abusivamente costruita, l’area da acquisire deve essere
individuata con precisione: nell'applicazione della sanzione
l'autorità competente deve rispettare il principio di
proporzionalità mediante l’irrogazione di una sanzione che,
entro il limite massimo legale stabilito, sacrifichi la
posizione soggettiva del privato in modo adeguato,
necessario e strettamente proporzionale all'obiettivo di
interesse pubblico perseguito.
---------------
Con verbale dell’11.05.1997 del Corpo forestale veniva
contestato alla ricorrente un movimento di terra in contrada
Monte Caputo in San Martino delle scale, movimento di terra
(asseritamente) finalizzato alla costruzione di una casa di
mq. 40.
Con lo stesso verbale il terreno era sottoposto a sequestro,
con apposizione di sigilli al fine di conservare l’integrità
del corpo del reato ed impedire il mutamento dello stato dei
luoghi.
Era quindi emesso decreto di sequestro preventivo da parte
del GIP (n. 6254/97 – 7761/97, notificato il 17/05/1997.
Il Comune di Monreale intimava, oltre la sospensione dei
lavori, anche la demolizione del fabbricato abusivo
(ordinanze n. 367 e n. 368 del 26/06/1997)
Con ordinanza n. 188 del 13/07/2000 l’Amministrazione
comunale integrava le precedenti ordinanze nella parte in
cui non erano stati indicati i dati catastali, rinnovando
quindi l’ordine di demolizione precisando che, qualora le
opere fossero state sottoposte a sigilli giudiziari, i
lavori avrebbero dovuto essere eseguiti dopo la rimozione
dei sigilli.
Con verbale del 14/09/2001 alcuni funzionari della polizia
locale evidenziavano l’inottemperanza all’ordine demolitorio:
in tesi di parte la mancata demolizione era dovuta alla
persistenza del sequestro giudiziario.
Quindi con provvedimento del 17/05/2002 il Settore
Urbanistica del Comune di Monterale notificava il
provvedimento dirigenziale n. 524/M con cui è stata disposta
l’acquisizione gratuita dell’immobile al patrimonio del
Comune per l’omessa ottemperanza entro il termine prescritto
all’ordine di demolizione.
...
Preliminarmente il Collegio non può
esimersi dallo stigmatizzare il comportamento del Comune di
Monreale che, al di là della libera scelta di non voler
resistere al ricorso, non ha dato riscontro ai reiterati
ordini istruttori emessi da questo Giudice, di cui alla
Ordinanza presidenziale n. 74/2016 e le due ordinanze
collegiali n. 250/2017 e n. 2891/2017: sulle consequenziali
determinazioni il Collegio ritornerà a conclusione della
presente sentenza.
Ciò premesso, il ricorso è fondato e va accolto nei limiti
di cui di seguito meglio precisati.
Risultano fondate la seconda e la terza censura
qui previamente e contestualmente scrutinate.
Il provvedimento impugnato, nel disporre l'acquisizione
gratuita, indica, in modo del tutto approssimativo, un'area
pari fino a dieci volte la superficie complessiva utile
abusivamente costruita sulla particella n. 59 del foglio di
mappa n. 20 del N.C.T. di Monreale esteso per circa mq.
1510, a fronte di un contestato abuso di circa 45 mq.
La mancata precisa individuazione della acquisenda area,
essendo indicata solo la particella ma non anche la porzione
di questa, inficia il provvedimento impugnato.
Ed invero, diversamente da quanto può anche non essere
presente nel provvedimento di che intima le demolizione del
bene, per quanto attiene al momento con si dispone
l’acquisizione dello stesso e della relativa aera di sedime,
in una misura che comunque non può essere superiore a 10
volte quella dell’abuso, occorre che l’ordinanza specifichi
nel dettaglio la porzione del maggiore terreno che con il
provvedimento si intende acquisire.
Opportunamente parte ricorrente richiama l’orientamento
della giurisprudenza amministrativa secondo cui "La
giurisprudenza consolidata è giunta ad affermare che
l'individuazione dell'area da acquisire al patrimonio
pubblico non deve essere necessariamente indicata
nell'ordinanza di demolizione, ben potendo essere contenuta
nel successivo provvedimento con il quale l'Amministrazione
procede all'acquisizione del bene (in termini TAR Toscana,
sez. 3^, 07.05.2013, n. 724), fermo restando che, almeno
l'atto di acquisizione, deve contenere tale esatta
indicazione dei beni abusivi da acquisire alla mano pubblica
nonché l'indicazione anche catastale dell'area di sedime e
delle ulteriori aree acquisite dall'Amministrazione. Ciò
discende dal fatto che l'ordinanza di acquisizione
costituisce titolo per la immissione in possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari e non può pertanto
prescindere dalla esatta individuazione delle particelle
catastali coinvolte. Nella specie né l'ordinanza di
demolizione né l'ordinanza di acquisizione oggetto del
presente giudizio riportano i suddetti dati, né risulta
allegata all'ordinanza gravata una planimetria o altri atti
che consentano l'identificazione esatta della aree
interessate. Alla luce delle considerazioni che precedono la
censura risulta fondata, il che comporta l'accoglimento del
ricorso con il conseguente annullamento dell'ordinanza n.
150 del 1997 gravata, potendosi ritenere assorbite le
ulteriori censure proposte" (cfr. TAR Toscana—Firenze,
Sez. III, 16.01.2014, n. 64; principio affermato anche nelle
recentissime decisioni del TAR Piemonte—Torino, 28.04.2016,
n. 573 e del TAR Sardegna—Cagliari, 24.03.2016, n. 278).
La concreta individuazione delle aree da acquisire al
patrimonio del comune e la loro esatta perimetrazione
costituiscono elementi necessari del provvedimento
acquisitivo, in mancanza dei quali non può in alcun modo
costituirsi il titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari.
Quanto alla terza censura, il Collegio ritiene di
poter condividere il precedente invocato dalla parte, di cui
alla sentenza del Consiglio di Stato, Sez. VI, 14.09.2014 n.
5607, secondo cui "–atteso che l'area acquisita non può
comunque essere superiore a dieci volte la complessiva
superficie utile abusivamente costruita- l’area da acquisire
deve essere individuata con precisione: nell'applicazione
della sanzione l'autorità competente deve rispettare il
principio di proporzionalità mediante l’irrogazione di una
sanzione che, entro il limite massimo legale stabilito,
sacrifichi la posizione soggettiva del privato in modo
adeguato, necessario e strettamente proporzionale
all'obiettivo di interesse pubblico perseguito": nel
caso in esame, attesa l’estensione della superficie abusiva,
parti a circa 45 mq, ed il rapporto con l’estensione della
particella di circa mq 1.510, l’Amministrazione non illustra
le ragioni per cui ha ritenuto di procedere alla
acquisizione secondo il parametro massimo (di dieci volte
l’estensione della superficie abusiva).
In conclusione, il ricorso va accolto con conseguente
annullamento, nei limiti sopra esposti, del provvedimento
impugnato, con improcedibilità di ogni altra censura siccome
ininfluente ai fini del decidere.
Ciò posto, come già osservato, va
stigmatizzato il mancato riscontro alle sopra citate
ordinanze istruttorie.
Oltre che contrastare con le previsioni del codice del
processo amministrativo che impongono alle parti di
cooperate con il Giudice ai fini della ragionevole durata
del processo (art. 2 comma 2), il
comportamento tenuto dal Comune di Monreale può altresì
integrare ipotesi di reato (tra cui la violazione dell’art.
328 c.p. e l’art.
650 c.p.) per cui appare opportuno sin d’ora
disporre la trasmissione della presente sentenza alla
Procura della Repubblica di Palermo e alla Procura Regionale
della Corte dei Conti per le valutazioni di competenza.
Le spese di lite possono tuttavia essere compensate tra le
parti tenuto conto del contestuale mancato riscontro
all’ordine istruttorio, ord. n. 2891/2017, che incombeva,
per quanto di pertinenza, sulla stessa parte ricorrente.
P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
(Sezione Prima), definitivamente pronunciando sul ricorso,
come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto
annulla il provvedimento impugnato nei sensi di cui in
motivazione.
Spese compensate.
Manda la Segreteria di trasmettere copia
della presente sentenza alla Procura della Repubblica di
Palermo e alla Procura Regionale della Corte dei Conti per
la Sicilia per le opportune valutazioni di competenza (TAR
Sicilia-Palermo, Sez. III,
sentenza 13.09.2018 n. 1944 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla realizzazione,
in facciata comune dell’edificio, di un ascensore esterno
con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio
appartamento.
Secondo
il più recente indirizzo giurisprudenziale, l’installazione
di un ascensore all’esterno di un condominio non richiede il
permesso di costruire, trattandosi della realizzazione di un
volume tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo
stabile, e non di una costruzione strettamente intesa.
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può
prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza
dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla
normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali
(art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che
“1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni da
attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del
decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503,
nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012.
---------------
Per approvare le innovazioni che sono dirette ad eliminare
le barriere architettoniche negli edifici privati è
necessario il voto favorevole di tanti condomini che
rappresentino almeno metà del valore dell’intero edificio (cfr.
art. 1120 c.c. che rinvia al secondo comma dell’art. 1136
c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto dimostrato che
le controinteressate siano comproprietarie della metà
dell’immobile su cui è stato realizzato l’ascensore e
soprattutto non emerge con certezza e in maniera
inconfutabile la sussistenza dei presupposti soggettivi in
capo ad almeno una di esse per l’applicazione della
normativa volta al superamento delle barriere
architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio,
oltre a non essere stato rilasciato da una struttura
sanitaria accreditata per il formale riconoscimento della
condizione di disabilità, non risulta nemmeno ricompreso
nella documentazione prodotta in occasione della
presentazione della d.i.a..
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto
dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione
alla normativa che regola l’attività amministrativa in
materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo
l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria.
---------------
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti
attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo
Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva
sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento
costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso
Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016.
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa
alla eliminazione delle barriere architettoniche avrebbe
richiesto agli Uffici comunali un supplemento di
istruttoria, considerata altresì la sollecitazione formulata
dai condomini asseritamente danneggiati dalla realizzazione
dell’ascensore.
---------------
... per l'annullamento, quanto al ricorso per motivi
aggiunti:
- della nota prot. n. 15283/16 datata 23.03.2017, trasmessa e
ricevuta a mezzo p.e.c. il 28.03.2017, a firma del Direttore
d’Area 7 e del Responsabile del procedimento del Comune di
Lecco, avente ad oggetto “riscontro a nota in data
22.02.2016 inerente pratica edilizia n. 136/2004 –
realizzazione ascensore esterno nel fabbricato sito in
Lecco, -OMISSIS-. Atto di significazione, denuncia e diffida
ex art. 27 DPR 380/2001”, con la quale “nell’esercizio
delle funzioni assegnate dall’art. 27 del DPR 380/2001,
inerenti la vigilanza sull’attività urbanistico–edilizia nel
territorio comunale” non è stata ravvisata “la
sussistenza di violazioni tali da consentire (ai sensi della
vigente normativa) l’adozione di provvedimenti demolitori
relativamente alla realizzazione dell’ascensore esterno de
quo agitur”;
...
I ricorrenti sono comproprietari di un appartamento sito al
piano terra del predetto immobile, mentre le
controinteressate -OMISSIS- sono comproprietarie del primo
piano e del sottotetto, situati sempre nel medesimo
fabbricato; queste ultime hanno realizzato sulla facciata
comune dell’edificio, prospetto nord, un ascensore esterno
con involucro in muratura ad uso esclusivo del proprio
appartamento, da cui sarebbe derivato il totale accecamento
di una finestra al servizio dell’atrio comune e la sensibile
diminuzione dell’aerazione e dell’illuminazione della scala
comune.
Tale intervento edilizio, avviato con una d.i.a. del 2004 e
seguito da due istanze di sanatoria nel 2012 e nel 2016, a
giudizio dei ricorrenti sarebbe privo dei presupposti di
legge, in quanto realizzato in assenza di idoneo titolo
edilizio oltre che del consenso dei predetti ricorrenti,
quali comproprietari delle parti comuni del fabbricato cui
afferisce l’ascensore esterno.
Con una diffida datata 22.02.2016, il legale dei ricorrenti
ha invitato il Comune ad intervenire per annullare il titolo
edilizio, rigettare la richiesta di sanatoria e disporre la
riduzione in pristino di quanto realizzato illegittimamente.
Con atto datato 04.10.2016, il Comune di Lecco ha
riscontrato tale diffida, evidenziando come “dall’esame
della originaria pratica edilizia –Denuncia di inizio
attività in data 12/07/2004, prot. n. 29757– non risulta che
l’intervento effettuato abbia previsto <<il totale
accecamento di una finestra a servizio dell’atrio comune>>
essendo invece rappresentata la realizzazione del nuovo vano
ascensore sul fronte nord–ovest previo ampliamento delle
finestre esistenti su tale facciata”; è stato altresì
affermato che “la denuncia -titolo edilizio da ritenersi
idoneo per la realizzazione dell’intervento essendo
inquadrabile nella fattispecie dell’art. 22, comma 3, lett.
a), del D.P.R. 380/2001– risultava corredata dalla
dichiarazione di proprietà resa ai sensi dell’art. 47 del
D.P.R. 445/2000”; infine, è stata fatta riserva di “valutare
i presupposti per procedere all’annullamento in autotutela
della SCIA in data 24/02/2016, prot. n. 14670, in
conseguenza dell’esito delle verifiche sopra citate e
relativamente alla sussistenza o meno del titolo giuridico
di disponibilità ex art. 11 del D.P.R. n. 380/2001 da
valutarsi anche con riferimento alla necessità o meno di
consenso di tutti i proprietari per la realizzazione di
interventi volti alla eliminazione di barriere
architettoniche a favore di soggetti portatori di
minorazioni fisiche”.
...
2. Con ricorso per motivi aggiunti notificato in data
23.05.2017 e depositato il 19 giugno successivo, i
ricorrenti hanno altresì impugnato la nota prot. n. 15283/16
datata 23.03.2017, trasmessa e ricevuta a mezzo p.e.c. il
28.03.2017, a firma del Direttore d’Area 7 e del
Responsabile del procedimento del Comune di Lecco, avente ad
oggetto “riscontro a nota in data 22.02.2016 inerente
pratica edilizia n. 136/2004 – realizzazione ascensore
esterno nel fabbricato sito in Lecco, -OMISSIS-. Atto di
significazione, denuncia e diffida ex art. 27 DPR 380/2001”,
con la quale “nell’esercizio delle funzioni assegnate
dall’art. 27 del DPR 380/2001, inerenti la vigilanza
sull’attività urbanistico–edilizia nel territorio comunale”
non è stata ravvisata “la sussistenza di violazioni tali
da consentire (ai sensi della vigente normativa) l’adozione
di provvedimenti demolitori relativamente alla realizzazione
dell’ascensore esterno de quo agitur”.
A sostegno del ricorso sono stati dedotti, in primo luogo,
vizi di invalidità derivata rispetto alla nota dirigenziale
del 04.10.2016, già impugnata con il ricorso introduttivo.
Successivamente –sulla natura di “volume tecnico” e/o
“privo di autonomia funzionale” dell’ascensore
esterno realizzato dalle controinteressate e sulla
possibilità di soluzioni alternative e meno
impattanti/invasive (ad es. montascale interno)– sono stati
dedotti la violazione e/o falsa applicazione dei principi
normativi ed urbanistico-edilizi generali in tema di “volume
tecnico”, in particolare degli artt. 3, 6, comma 1,
lett. b, e 10 del D.P.R. n. 380 del 2001 in tema di edilizia
libera, della vigente disciplina in tema di abbattimento
delle barriere architettoniche e in particolare degli artt.
2, 3, 7 e 8 della legge n. 13 del 1989, dell’art. 24 della
legge n. 104 del 1992, degli artt. 11, commi 1-3, e 23,
comma 1, del D.P.R. n. 380 del 2001, dell’art. 3 della legge
n. 241 del 1990 e degli artt. 1102, 1120 e 1121 cod. civ.
Inoltre –con riguardo al titolo edilizio necessario per
l’intervento de quo e sulla non configurabilità nella
fattispecie di un intervento di “manutenzione
straordinaria”– sono stati dedotti l’illegittimità per
violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o
falsa applicazione degli artt. 3, comma 1, lett. b e d, 10,
comma 1, lett. c, e 22, comma 3, lett. a, del D.P.R. n. 380
del 2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 31,
comma 1, lett. c, della legge n. 457 del 1978, la violazione
dell’art. 11, comma 1, e/o dell’art. 23, comma 1, del D.P.R.
n. 380 del 2001 e l’eccesso di potere per difetto dei
presupposti, per travisamento del fatto, per difetto di
istruttoria e per difetto assoluto di motivazione.
Con riferimento all’impossibilità di assentire l’intervento
in mancanza del consenso di tutti i comproprietari del bene
immobile interessato (facciata ed atrio condominiale), alla
grave limitazione dell’uso delle parti comuni, alla
sussistenza dei presupposti fattuali e legali per procedere
all’annullamento in autotutela ex art. 19 della legge n. 241
del 1990 e ss.mm.ii. e/o ex art. 27 del D.P.R. n. 380 del
2001 della s.c.i.a. datata 24.02.2016, prot. n. 14670, in
conseguenza dell’esito delle verifiche effettuate, alla
insussistenza del titolo giuridico di disponibilità ex artt.
11-27 del D.P.R. n. 380 del 2001, alla necessità di consenso
di tutti i proprietari per la realizzazione degli interventi
edilizi de quibus, anche laddove asseritamente volti
alla eliminazione di barriere architettoniche a favore di
soggetti portatori di minorazioni fisiche, sono stati
eccepiti l’illegittimità per violazione di legge ed eccesso
di potere, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 27
del D.P.R. n. 380 del 2001, la violazione dell’art. 11,
commi 1 e 3, e dell’art 23, comma 1, del D.P.R. n. 380 del
2001, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1102
cod. civ., la violazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 della
legge n. 241 del 1990, la violazione e/o falsa applicazione
dell’art. 6, comma 1, del decreto legge n. 138 del 2011,
convertito in legge n. 148 del 2011, in tema di s.c.i.a.,
dell’art. 19, commi 4 e 6-ter, e degli artt. 21 e 21-nonies
della legge n. 241 del 1990, della legge n. 13 del 1989 e
del D.M. n. 236 del 1989, l’eccesso di potere per difetto
assoluto di istruttoria, il difetto e/o perplessità della
motivazione, il travisamento dei fatti e degli atti del
procedimento, il difetto e/o erroneo apprezzamento dei
presupposti legittimanti, illogicità e contraddittorietà
manifesta.
Quanto alla s.c.i.a. in sanatoria del 24.02.2016, prot.
14670, e alla richiesta di permesso di costruire in
sanatoria del 12.11.2012, prot. n. 50781, e alla natura “essenziale”
delle variazioni poste in essere dalle controinteressate e
all’impossibilità di assentire la sanatoria in assenza del
consenso di tutti i proprietari del bene oggetto di
intervento, sono stati eccepiti l’illegittimità per
violazione di legge ed eccesso di potere, la violazione e/o
falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, e dell’art. 37,
commi 3 e 4, del D.P.R. n. 380 del 2001 e dell’art. 54,
comma 1, della legge regionale n. 12 del 2005, l’eccesso di
potere per travisamento del fatto, per difetto di
istruttoria, per difetto dei presupposti, per difetto di
motivazione e per contraddittorietà intrinseca ed
estrinseca.
Anche con riguardo al ricorso per motivi aggiunti è stato
chiesto il risarcimento del danno.
...
3. Passando all’esame del merito del ricorso per motivi
aggiunti, lo stesso è fondato secondo quanto di seguito
specificato.
4. Vanno scrutinate preventivamente la seconda e la terza
censura del ricorso per motivi aggiunti, da trattare
congiuntamente in quanto strettamente connesse, attraverso
le quali si contesta la qualificazione dell’intervento di
costruzione dell’ascensore esterno quale attività di
manutenzione straordinaria, essendo invece richiesto per la
realizzazione di tale attività edilizia il previo rilascio
di un permesso di costruire, che presupporrebbe il consenso
dell’intero condominio, nella fattispecie mai acquisito,
oltre alla dimostrazione della sussistenza di una condizione
di disabilità, mai comprovata da parte delle
controinteressate.
4.1. Le doglianze sono fondate nei sensi di seguito
specificati.
Va premesso che, secondo il più recente indirizzo
giurisprudenziale, l’installazione di un ascensore
all’esterno di un condominio non richiede il permesso di
costruire, trattandosi della realizzazione di un volume
tecnico, necessaria per apportare un’innovazione allo
stabile, e non di una costruzione strettamente intesa (cfr.
TAR Abruzzo, Pescara, 09.04.2018, n. 134; TAR Lombardia,
Milano, II, 30.06.2017, n. 1479; TAR Liguria, I, 29.01.2016,
n. 97).
Tuttavia, l’intervento edilizio in questione non può
prescindere dall’acquisizione del consenso della maggioranza
dei condomini dello stabile interessato, come previsto dalla
normativa civilistica in materia di innovazioni condominiali
(art. 1120 cod. civ.).
Difatti, l’art. 78 del D.P.R. n. 380 del 2001 stabilisce che
“1. Le deliberazioni che hanno per oggetto le innovazioni
da attuare negli edifici privati dirette ad eliminare le
barriere architettoniche di cui all’articolo 27, primo
comma, della legge 30.03.1971, n. 118, ed all’articolo 1 del
decreto del Presidente della Repubblica 24.07.1996, n. 503,
nonché la realizzazione di percorsi attrezzati e la
installazione di dispositivi di segnalazione atti a favorire
la mobilità dei ciechi all’interno degli edifici privati,
sono approvate dall’assemblea del condominio, in prima o in
seconda convocazione, con le maggioranze previste
dall’articolo 1136, secondo e terzo comma, del codice
civile.
2. Nel caso in cui il condominio rifiuti di assumere, o non
assuma entro tre mesi dalla richiesta fatta per iscritto, le
deliberazioni di cui al comma 1, i portatori di handicap,
ovvero chi ne esercita la tutela o la potestà di cui al
titolo IX del libro primo del codice civile, possono
installare, a proprie spese, servoscala nonché strutture
mobili e facilmente rimovibili e possono anche modificare
l’ampiezza delle porte d’accesso, al fine di rendere più
agevole l’accesso agli edifici, agli ascensori e alle rampe
delle autorimesse.
3. Resta fermo quanto disposto dagli articoli 1120, secondo
comma, e 1121, terzo comma, del codice civile”.
La predetta disposizione è pressoché identica a quella
contenuta nell’art. 2 della legge n. 13 del 1989, come
modificata con l’art. 27 della legge n. 220 del 2012 (cfr.
di recente in giurisprudenza, Cass. civ., VI, 09.03.2017, n.
6129).
In primo luogo, va evidenziato che per approvare le
innovazioni che sono dirette ad eliminare le barriere
architettoniche negli edifici privati è necessario il voto
favorevole di tanti condomini che rappresentino almeno metà
del valore dell’intero edificio (cfr. art. 1120 c.c. che
rinvia al secondo comma dell’art. 1136 c.c.).
Nella fattispecie de qua, non risulta affatto
dimostrato che le controinteressate siano comproprietarie
della metà dell’immobile su cui è stato realizzato
l’ascensore e soprattutto non emerge con certezza e in
maniera inconfutabile la sussistenza dei presupposti
soggettivi in capo ad almeno una di esse per l’applicazione
della normativa volta al superamento delle barriere
architettoniche: il certificato medico prodotto in giudizio
(all. 3 del Comune), oltre a non essere stato rilasciato da
una struttura sanitaria accreditata per il formale
riconoscimento della condizione di disabilità, non risulta
nemmeno ricompreso nella documentazione prodotta in
occasione della presentazione della d.i.a. in data
12.07.2004 (cfr. all. 3 delle controinteressate).
Pertanto, il diniego di intervento ripristinatorio opposto
dal Comune ai ricorrenti appare illegittimo in relazione
alla normativa che regola l’attività amministrativa in
materia di rilascio dei titoli edilizi, secondo
l’interpretazione giurisprudenziale consolidata.
Difatti sulla base dell’art. 11 del D.P.R. n. 380 del 2001,
il Comune nel verificare l’esistenza in capo al richiedente
un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’Amministrazione è tenuta a svolgere un
livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione
di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la
sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra
chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto
dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
Dunque, sebbene si debba escludere, anche al fine di non
aggravare il procedimento, che l’Amministrazione sia tenuta
a svolgere complessi e laboriosi accertamenti, non si può
prescindere da una verifica minima e di immediata
realizzazione, pena un’insufficiente istruttoria (ex
multis, Consiglio di Stato, V, 17.06.2014, n. 3096; IV,
06.03.2012, n. 1270; TAR Lombardia, Milano, II, 31.01.2017,
n. 235; TAR Campania, Napoli, VIII, 05.11.2015, n. 5137).
Nel caso di specie, quanto evidenziato dai ricorrenti
attraverso la diffida del 22.02.2016 avrebbe imposto allo
Sportello Unico edilizio di verificare l’effettiva
sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento
costruttivo, come pure era stato prospettato dallo stesso
Ufficio nella comunicazione del 04.10.2016 (cfr. TAR
Lombardia, Milano, II, 30.06.2017, n. 1479).
Del resto, proprio la peculiarità della disciplina relativa
alla eliminazione delle barriere architettoniche (cfr. Cass.
civ., VI, 09.03.2017, n. 6129) avrebbe richiesto agli Uffici
comunali un supplemento di istruttoria, considerata altresì
la sollecitazione formulata dai condomini asseritamente
danneggiati dalla realizzazione dell’ascensore.
4.2. Pertanto, la scrutinate doglianze vanno accolte, con la
conseguente declaratoria di illegittimità del provvedimento
comunale del 23.03.2017, non avendo il Comune provveduto
correttamente in ordine alla richiesta dei ricorrenti di
disporre la demolizione dell’ascensore esterno realizzato
senza titolo dalle controinteressate.
4.3. Alla fondatezza delle predette censure, previo
assorbimento delle restanti doglianze, segue l’accoglimento
del ricorso per motivi aggiunti e il conseguente
annullamento del provvedimento comunale del 23.03.2017.
5. Le domande risarcitorie formulate sia con riguardo al
ricorso introduttivo che al ricorso per motivi aggiunti sono
da respingere, in ragione della mancata dimostrazione dei
loro elementi costitutivi.
6. In conclusione, il ricorso introduttivo deve essere
dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di
interesse, mentre il ricorso per motivi aggiunti deve
essere accolto, con il conseguente annullamento della nota
comunale del 23.03.2017; le domande di risarcimento del
danno devono essere respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 13.09.2018 n. 2065 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla
realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio del
fabbricato adibito ad attività turistica.
L’estraneità dell’ascensore al concetto
di nuova costruzione, anche ai fini dell’osservanza della
normativa sulle distanze, è stata affermata, a più riprese
dalla giurisprudenza, anche civile, secondo cui l'ascensore
-al pari di quelli serventi alle condotte idriche, termiche
etc. dell'edificio principale- rientra fra “i volumi tecnici
o impianti tecnologici” strumentali alle esigenze tecnico
funzionali dell'immobile.
Ed infatti la nozione di "volume tecnico”, non computabile
nella volumetria ai fini in questione, corrisponde a
un'opera priva di qualsivoglia autonomia funzionale, anche
solo potenziale, perché è destinata solo a contenere, senza
possibilità di alternative e comunque per una consistenza
volumetrica del tutto contenuta, impianti serventi di una
costruzione principale per essenziali esigenze tecnico
funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere - e sempre in
difetto dell'alternativa - quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale.
L’inquadramento del vano ascensore quale volume tecnico
esclude pertanto la necessità di un suo assoggettamento al
previo rilascio di permesso di costruire.
-----------------
Quanto al rispetto della normativa sulle distanze in un caso
analogo al presente il Consiglio di Stato, nel riformare un
precedente di segno contrario di questo Tar Abruzzo-Pescara,
ha chiarito che: “nell'interpretazione dell'eccezione alla
regola del rispetto delle distanze posta dall'ultima parte
del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001, non può
prescindersi dal tener conto dell'inserimento della norma
-come già rilevato- all'interno della disciplina volta
all'eliminazione delle barriere architettoniche
nell'interesse dei soggetti portatori di handicap. Ciò
rileva non solo e non tanto ai fini di un astratto
bilanciamento di interessi, quanto soprattutto
nell'accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche
impiegate dal legislatore, quali quella di "spazio o area di
proprietà o di uso comune", le quali non possono essere
recepite in un'ottica strettamente civilistica, ma vanno
calate nell'ambito della normativa tecnica esistente in
subiecta materia”.
Sotto tale profilo è stato ritenuto illegittimo il diniego
di rilascio del permesso di costruire per il mancato
rispetto delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ.,
applicandosi in ogni caso la deroga di cui all'ultima parte
del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001.
Né, sotto altro profilo, può assumere valenza ostativa il
disposto di cui al comma 2 dell’art. 3 della legge n. 13
cit. che fa salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di
cui agli articoli 873 cc. e 907 c.c. che riguarda la sola
ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati
alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di
proprietà o di uso comune.
Di qui si è desunto che, in assenza di spazi o aree di
proprietà comune, il comma 2 art. 3 cit. è da interpretarsi
nel senso che la distanza minima da mantenersi è di tre
metri in quanto il richiamo all’art. 873 deve intendersi
riferito solo alla sua prima parte con esclusione delle
previsioni dei regolamenti locali.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. n. 9138 del 05.07.2016 del Responsabile
del 3° Settore-Urbanistica ed Edilizia del Comune di
Fossacesia di diniego di rilascio del parere urbanistico
richiesto dalla società ricorrente per la realizzazione di
una piattaforma elevatrice a servizio di un fabbricato
adibito a ricettività turistica;
- della nota prot. n. 9995 del 21.07.2016 con cui lo stesso
responsabile di Settore comunica alla società che i lavori
inerenti la realizzazione della suddetta piattaforma debbano
ritenersi eseguiti in assenza del titolo abilitativo e
quindi abusivi.
...
1. Con ricorso iscritto al n. 298/2016 la società
ricorrente, quale comodataria di un immobile sito in
Fossacesia località Lungomare, oggetto di ristrutturazione
assentita con permesso di costruire prot. 28 del 12.06.2013,
e successive varianti, nonché con il parere favorevole della
Sovrintendenza prot. n. 1091 del 23.01.2013, avendo
inoltrato presso il S.u.a.p. del patto territoriale
sangroaventino una s.c.i.a. n. 82736 in data 11.05.2016 per
la realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio
del fabbricato adibito ad attività turistica, impugnava,
chiedendone l’annullamento, la nota prot. n. 9138 del
05.07.2016 con cui si comunicava l’avvio delle procedure di
repressione di cui all’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 per opere
realizzate in assenza di titolo abilitativo e la successiva
del 21.07.2016 con cui si acclarava la natura abusiva
dell’intervento.
...
3.1 Il parere negativo impugnato è motivato sul presupposto
che il vano ascensore esterno all’edificio di pertinenza
andrebbe qualificato quale “nuova costruzione”,
pertanto resterebbe assoggettabile alla normativa sulle
distanze dalle costruzione e non sarebbe assentibile non
rispettando la distanza minima di 5 metri dal confine di
proprietà, nonché poiché privo del prescritto parere
paesaggistico.
Rispetto all’inquadramento dell’intervento quale “nuova
costruzione”, parte ricorrente, in presenza di un
edificio di più piani oggetto di ristrutturazione,
all’interno del quale, incontestatamente, non è possibile
installare un ascensore, ha invocato la normativa di cui
alla legge n. 13/1989 posta a presidio dell’abbattimento
delle barriere architettoniche, che è stata posta a base
dell’istanza inoltrata al S.u.a.p..
L’assunto merita di essere condiviso.
In subiecta materia, l’estraneità dell’ascensore al
concetto di nuova costruzione, anche ai fini dell’osservanza
della normativa sulle distanze, è stata affermata, a più
riprese dalla giurisprudenza, anche civile, secondo cui
l'ascensore -al pari di quelli serventi alle condotte
idriche, termiche etc. dell'edificio principale- rientra fra
“i volumi tecnici o impianti tecnologici” strumentali
alle esigenze tecnico funzionali dell'immobile (cfr. Cass.
civ., sez. II, 03.02.2011, nr. 2566).
Ed infatti la nozione di "volume tecnico”, non
computabile nella volumetria ai fini in questione,
corrisponde a un'opera priva di qualsivoglia autonomia
funzionale, anche solo potenziale, perché è destinata solo a
contenere, senza possibilità di alternative e comunque per
una consistenza volumetrica del tutto contenuta, impianti
serventi di una costruzione principale per essenziali
esigenze tecnico funzionali della medesima.
In sostanza, si tratta di impianti necessari per l'utilizzo
dell'abitazione che non possono essere in alcun modo ubicati
all'interno di questa, come possono essere - e sempre in
difetto dell'alternativa - quelli connessi alla condotta
idrica, termica o all'ascensore e simili, i quali si
risolvono in semplici interventi di trasformazione senza
generare aumento alcuno di carico territoriale (cfr. sulla
nozione di “volume tecnico” ex plurimis C.d.S.
sez. VI 31.03.2014 n. 1512; id. 8.05.2014 n. 2363; id.
21.01.2015 n. 175).
L’inquadramento del vano ascensore quale volume tecnico
esclude pertanto la necessità di un suo assoggettamento al
previo rilascio di permesso di costruire.
3.2 Quanto al rispetto della normativa sulle distanze in un
caso analogo al presente, nella pronuncia n. 6253 del
15.12.2012 il Consiglio di Stato, nel riformare un
precedente di segno contrario di questo Tar Abruzzo-Pescara
n. 87/2012, ha chiarito che: “nell'interpretazione
dell'eccezione alla regola del rispetto delle distanze posta
dall'ultima parte del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380
del 2001, non può prescindersi dal tener conto
dell'inserimento della norma -come già rilevato- all'interno
della disciplina volta all'eliminazione delle barriere
architettoniche nell'interesse dei soggetti portatori di
handicap. Ciò rileva non solo e non tanto ai fini di un
astratto bilanciamento di interessi, quanto soprattutto
nell'accezione da dare a locuzioni ed espressioni tecniche
impiegate dal legislatore, quali quella di "spazio o area di
proprietà o di uso comune", le quali non possono essere
recepite in un'ottica strettamente civilistica, ma vanno
calate nell'ambito della normativa tecnica esistente in
subiecta materia”.
Sotto tale profilo è stato ritenuto illegittimo il diniego
di rilascio del permesso di costruire per il mancato
rispetto delle distanze di cui all'art. 873 cod. civ.,
applicandosi in ogni caso la deroga di cui all'ultima parte
del comma 2 dell'art. 79, d.P.R. nr. 380 del 2001 (cfr. in
termini vd. anche Tar Liguria 20.01.2016 n. 97).
Né, sotto altro profilo, può assumere valenza ostativa il
disposto di cui al comma 2 dell’art. 3 della legge n. 13
cit. che fa salvo l'obbligo di rispetto delle distanze di
cui agli articoli 873 cc. e 907 c.c. che riguarda la sola
ipotesi in cui tra le opere da realizzare e i fabbricati
alieni non sia interposto alcuno spazio o alcuna area di
proprietà o di uso comune. Di qui si è desunto che, in
assenza di spazi o aree di proprietà comune, il comma 2 art.
3 cit. è da interpretarsi nel senso che la distanza minima
da mantenersi è di tre metri in quanto il richiamo all’art.
873 deve intendersi riferito solo alla sua prima parte con
esclusione delle previsioni dei regolamenti locali (Trib.
Genova 13.11.1997).
...
In conclusione, per quanto sopra esposto il ricorso merita
accoglimento con conseguente annullamento dei provvedimenti
impugnati (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 09.04.2018 n. 134 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA: Piscine
gonfiabili senza licenza.
Non servono licenze edilizie per posizionare una tipica piscina circolare
gonfiabile da bambini in un'area privata. Anche se si tratta di un'area
destinata a parcheggio purché il manufatto sia sempre una struttura precaria
facilmente rimovibile a fine stagione.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 03.09.2018 n. 39406.
Il proprietario di un'area adibita a parcheggio è stato sanzionato dalla
polizia municipale per aver installato una piscina gonfiabile senza
autorizzazione. E pure condannato penalmente per abuso edilizio.
Contro questa misura punitiva l'interessato ha proposto con successo ricorso
alla Corte di cassazione.
L'installazione di una piscina gonfiabile da bambini in uno spazio privato
non arreca alcun mutamento di destinazione d'uso dell'area, specifica il
collegio. Perché si tratta di un'opera precaria, facilmente amovibile al
termine del suo impiego
(articolo ItaliaOggi del 22.09.2018).
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MASSIMA
4. I ricorsi sono fondati per le ragioni qui esposte.
La sentenza impugnata fonda la responsabilità penale degli imputati su un
travisamento della prova e su un'errata interpretazione delle norme
giuridiche di cui il giudice deve tenere conto nell'applicazione della legge
penale, e segnatamente dell'art. 23-ter del d.P.R. n. 380 del 2001.
Osserva il Collegio, in primo luogo, che la sentenza mostra di cadere in un
errore giuridico laddove ritiene sussistente la contravvenzione con riguardo
al deposito di "materiale edile vario" dal momento che la medesima
sentenza dà atto che era stato rivenuto "sull'area limitrofa"
all'area destinata a parcheggio che, secondo l'accusa, sarebbe stata oggetto
di mutamento di destinazione d'uso, mediante opere, sicché alcun rilievo
penale assume il deposito di "altro materiale di varia natura" non
ricadente nell'area dove sarebbe intervenuto il mutamento di destinazione
d'uso.
Non di meno, la sentenza fonda la responsabilità degli imputati in relazione
alle violazioni delle NTA, del permesso a costruire, per la modifica della
destinazione d'uso a parcheggio con opere, realizzate, mediante
posizionamento di una piscina gonfiabile, sulla scorta di un travisamento
della prova. Dagli atti, a cui questa Corte ha accesso essendo denunciato il
suddetto vizio, risulta che una piscina gonfiabile di piccole dimensioni del
tipo di quelle in commercio per bambini, priva di aggancio al suolo e opere
per il suo utilizzo (scaletta per accedervi) era posizionata sul giardino
(dalle fotografie si apprezza anche la facile amovibilità, una volta
sgonfiata).
Costituisce ius receputm di questa Corte il
principio secondo cui in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione
d'uso (ora disciplinato dall'art. 23-ter del d.P.R. n. 380 del 2001
(mutamento d'uso urbanisticamente rilevante), senza opere è assoggettato a
D.I.A. (ora SCIA), purché intervenga nell'ambito della stessa categoria
urbanistica, mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche di
destinazione che comportino il passaggio di categoria o, se il cambio d'uso
sia eseguito nei centri storici, anche all'interno di una stessa categoria
omogenea (Sez. 3, n. 26455 del
05/04/2016, P.M. in proc. Stellato, Rv. 267106; Sez. 3, n. 12904 del
03/12/2015, Postiglione, Rv 266483; Sez. 3, n. 39897 del 24/06/2014, Filippi,
Rv. 260422; Sez. 3, n. 5712 del 13/12/2013; Tortora, Rv. 258686).
La destinazione d'uso è un elemento che qualifica la
connotazione dell'immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico
perseguiti dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto
l'aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona fissate dagli
strumenti urbanistici in considerazione della differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata dalla normativa
sugli standard, diversi per qualità e quantità proprio a seconda della
diversa destinazione di zona.
In tale ambito solo gli strumenti di pianificazione, generali ed attuativi,
possono decidere, fra tutte quelle possibili, la destinazione d'uso dei
suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse destinazioni, in tutte le
loro possibili relazioni, devono essere assegnate -proprio in sede
pianificatoria- determinate qualità e quantità di servizi. Da cui l'ovvia
conseguenza che le modifiche non consentite della singola destinazione,
incidendo sull'assetto del territorio comunale come pianificato, incidono
negativamente sull'organizzazione dei servizi, alterando appunto la
possibilità di una gestione ottimale del territorio.
In tale contesto, il mutamento di destinazione d'uso con opere deve, pur
sempre, avere connotati modificativi tendenzialmente stabili e non può
ritenersi in presenza di opere precarie perché destinate ad un uso
temporaneo e facilmente amovibili al termine di utilizzo, situazione
riscontrabile, nel caso in esame, in considerazione delle dimensioni della
piscina gonfiabile appoggiata sul suolo e destinata per la sua stessa
tipologia costruttiva ad essere sgonfiata al termine della stagione estiva e
del suo temporaneo utilizzo.
La sentenza, in accoglimento dei primi tre motivi di ricorso, va annullata
senza rinvio perché il fatto non sussiste, resta assorbito il quarto motivo
di ricorso. |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Per le strutture di media
vendita non collocate nel centro storico, la dotazione di
aree destinate a parcheggio è stabilita dalla normativa
regionale nella misura 2 mq. per ogni mq. di spazio
destinato alla vendita di prodotti relativi al settore
alimentare e di 1,5 mq. per ogni mq. di superficie di
vendita di prodotti non alimentari.
In base all’art. 4 d.lgs. 31.03.1998, n. 114, per
"superficie di vendita" si intende "l'area destinata alla
vendita, compresa quella occupata dai banchi, scaffalature e
simili", mentre non costituisce superficie di vendita, per
espressa disposizione contenuta in tale norma,
esclusivamente l'area "destinata a magazzini, depositi,
locali di lavorazione, uffici e servizi".
La giurisprudenza ha già chiarito che per superficie di
vendita di un esercizio commerciale si deve intendere quella
su cui sostano e si spostano, oltre al personale addetto al
servizio, i consumatori per esaminare gli oggetti posti in
vendita collocati negli appositi spazi e per concludere le
operazioni di vendita, sicché "la zona di esposizione dei
prodotti commercializzati dall'esercizio va inclusa nella
superficie di vendita".
L’area che si trova oltre le casse di una struttura di
vendita, quindi, non va considerata quale “superficie di
vendita”, in quanto non destinata alle operazioni di
acquisto da parte della clientela, sicché non va computata
ai fini della verifica del rispetto del rapporto tra gli
spazi di vendita e i parcheggi disponibili.
---------------
Benché nell’art. 1 del piano commerciale comunale sia
prevista una sua validità quadriennale, ciò non significa
che il piano commerciale scaduto per decorso del quadriennio
dalla sua approvazione abbia perso efficacia; piuttosto, le
sue norme continuano a produrre i propri effetti fino a
quando non siano sostituite da quelle di un nuovo piano,
atteso che l'ultrattività delle norme del piano commerciale
è un effetto coessenziale alla natura stessa del detto
strumento programmatorio e di pianificazione, giacché
nessuna norma di legge stabilisce la sua decadenza alla
scadenza del termine di validità.
---------------
6. – Con il primo dei motivi aggiunti si assume la violazione dell’art. 9 l.r. 11.06.1999, n. 17, in quanto non sarebbe rispettato
il rapporto tra superficie destinata alla vendita e
parcheggi disponibili stabilito con tale norma.
In proposito, va rilevato che per le strutture di media
vendita non collocate nel centro storico, la dotazione di
aree destinate a parcheggio è stabilita dalla normativa
regionale nella misura 2 mq. per ogni mq. di spazio
destinato alla vendita di prodotti relativi al settore
alimentare e di 1,5 mq. per ogni mq. di superficie di
vendita di prodotti non alimentari.
In base all’art. 4 d.lgs. 31.03.1998, n. 114, per
"superficie di vendita" si intende "l'area destinata alla
vendita, compresa quella occupata dai banchi, scaffalature e
simili", mentre non costituisce superficie di vendita, per
espressa disposizione contenuta in tale norma,
esclusivamente l'area "destinata a magazzini, depositi,
locali di lavorazione, uffici e servizi".
La giurisprudenza ha già chiarito che per superficie di
vendita di un esercizio commerciale si deve intendere quella
su cui sostano e si spostano, oltre al personale addetto al
servizio, i consumatori per esaminare gli oggetti posti in
vendita collocati negli appositi spazi e per concludere le
operazioni di vendita, sicché "la zona di esposizione dei
prodotti commercializzati dall'esercizio va inclusa nella
superficie di vendita" (cfr. TAR Veneto, sez. III,
02.11.2004, n. 3825; TAR Abruzzo–Pescara, 09.04.2008, n. 387).
L’area che si trova oltre le casse di una struttura di
vendita, quindi, non va considerata quale “superficie di
vendita”, in quanto non destinata alle operazioni di
acquisto da parte della clientela, sicché non va computata
ai fini della verifica del rispetto del rapporto tra gli
spazi di vendita e i parcheggi disponibili.
Ebbene, questo Tribunale Amministrativo Regionale ha svolto
attività istruttoria, chiedendo gli opportuni chiarimenti al
Comune intimato.
All’esito delle misurazioni svolte, non contestate da alcuna
delle parti in giudizio, è emerso che la superficie di
vendita, esclusa l’area posta oltre le casse, à di 295,35
mq., mentre l’area effettivamente adibita a parcheggi,
indipendentemente dalle risultanze catastali, è di 618,49
mq., con esclusione dello spazio necessario per consentire
l’accesso ai fabbricati residenziali collocati nei pressi
della struttura di vendita.
Il rapporto tra aree di parcheggio e superficie di vendita è
dunque superiore a quello previsto dalla normativa
regionale.
Il motivo risulta pertanto infondato.
7. – Con il secondo motivo di ricorso si deduce che la media
struttura di vendita sia stata autorizzata in difetto di un
valido piano commerciale approvato dal Comune di Piane Crati.
Ciò avrebbe comportato la violazione degli artt. 6 e 8
d.lgs. n. 114 del 1998, degli artt. 22, comma 1, lett. a), e
11, comma 1, lett. a), l.r. n . 17 del 1999, nonché di
numerose circolari.
Ora, a prescindere dalle complesse problematiche connesse
alla c.d. liberalizzazione delle attività commerciali e agli
effetti che le novità normativa hanno avuto sulla
programmazione demandata ai Comuni, problematiche su cui
pure si sono diffuse le parti, ciò che emerge
documentalmente è che il Comune di Piane Crati è dotato di
un piano commerciale, adottato con deliberazione del
Commissario ad acta del 16.09.2003, n. 16.
Benché nell’art. 1 di tale piano sia prevista una sua
validità quadriennale, ciò non significa che il piano
commerciale scaduto per decorso del quadriennio dalla sua
approvazione abbia perso efficacia; piuttosto, le sue norme
continuano a produrre i propri effetti fino a quando non
siano sostituite da quelle di un nuovo piano, atteso che l'ultrattività
delle norme del piano commerciale è un effetto coessenziale
alla natura stessa del detto strumento programmatorio e di
pianificazione, giacché nessuna norma di legge stabilisce la
sua decadenza alla scadenza del termine di validità (cfr.
Cons. Stato, Sez. V, 20.07.2016, n. 3282).
Tale piano commerciale prevede espressamente la presenza di
una media struttura di vendita collocata esattamente dove la
F.lli Le. S.r.l. svolge la propria attività, in quanto –si tratta di un dato di fatto che non è stato oggetto di
contestazione in giudizio– anche in passato vi era
collocato un supermercato.
In ragione di tali dati, il motivo di ricorso risulta,
pertanto, infondato.
...
9. – La correttezza dell’operato dell’amministrazione,
risultante dal superamento di tutte le censure mosse dalla
parte ricorrente, escluda che ad essa sia stato inferto un
danno ingiusto, onde la domanda di risarcimento del danno
deve trovare rigetto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 31.08.2018 n. 1559 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
In presenza di una
s.c.i.a. ai sensi dell’art.
19, co. 6-ter, l. n. 241/1990, fondata su
presupposti chiaramente non afferenti la materia edilizia,
l’amministrazione non ha alcun obbligo di provvedere e,
conseguentemente, il silenzio dalla stessa serbato non è
qualificabile come illegittimo inadempimento.
Sull'interpretazione dell’espressione “fatti salvi
eventuali diritti dei terzi”, o simili, che normalmente
compare nei provvedimenti autorizzatori in materia edilizia.
Il giudizio sul silenzio, attivato in primo grado dagli
attuali appellanti, attiene a quanto previsto, in tema di
Scia, dall’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990 n.
241, il quale, nel precisare che “la segnalazione
certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili”, afferma
altresì che "gli interessati possono sollecitare l’esercizio
delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di
inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art.
31, commi 1 e 2” del Cpa.
Come è noto, l’art. 31 Cpa prevede che “decorsi i
termini per a conclusione del procedimento amministrativo, e
negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse
può chiedere l’accertamento dell’obbligo
dell’amministrazione di provvedere”.
Come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha avuto
modo di chiarire, il giudizio sul cd. silenzio-inadempimento
della pubblica amministrazione presuppone, innanzi tutto,
che si verta in tema di tutela di interessi legittimi, non
potendo il giudizio afferire, sia pure mediatamente, alla
tutela di posizioni di diritto soggettivo, in tal modo
aggirandosi i limiti di giurisdizione del giudice
amministrativo.
La sussistenza delle condizioni dell’azione in capo al
soggetto che instaura il giudizio in oggetto deve, dunque,
essere verificata in relazione alla titolarità di una
posizione di interesse legittimo (pretensivo), tale da
avergli consentito l’attivazione di un procedimento
amministrativo non conclusosi nel termine previsto mediante
l’adozione di alcun provvedimento espresso (ovvero non
essendo prevista l’ipotesi di cd. silenzio assenso ex art.
20 l. n. 241/1990).
Più specificamente, nel caso previsto dall’art. 19, co. 6-ter,
l. n. 241/1990 -non avendo il legislatore inteso introdurre
una speciale forma di giudizio sul silenzio inadempimento
riferito alla tutela di diritti soggettivi- ciò che fonda
la sussistenza delle condizioni dell’azione è la titolarità
di una posizione giuridica che legittimi l’istante a
chiedere all’amministrazione la verifica delle condizioni
che consentono di edificare in base a Scia, in relazione al
pregiudizio che egli può ricevere da detta attività.
Tale posizione giuridica -sulla quale si fonda la facoltà
di richiedere all’amministrazione gli accertamenti previsti- è di interesse legittimo (pena, come si è detto, lo
“sconfinamento” nell’ambito della giurisdizione del giudice
ordinario), il che comporta che ogni accertamento richiesto
deve concernere aspetti inerenti all’interesse pubblico
(violato) in materia di edilizia e urbanistica, non già la
(eventuale) violazione di norme afferenti alla tutela del
diritto dominicale o simili (se non in quanto la violazione
di norme “civilistiche” e/o afferenti alla regolamentazione
di rapporti tra privati non rilevi innanzi tutto dal punto
di visto della tutela dell’interesse pubblico, risolvendosi,
ma solo indirettamente, anche in una tutela obiettiva di
diritti soggettivi).
Inoltre, l’accertamento della illegittimità del silenzio
serbato dall’amministrazione presuppone, come
tradizionalmente chiarito dalla giurisprudenza
amministrativa, la sussistenza di un obbligo di provvedere
violato o eluso dall’amministrazione medesima.
Nel caso dell’attivazione del sindacato giurisdizionale sul
silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di
verifica proposta ai sensi dell’art. 19, co. 6-ter cit.,
l’obbligo di verifica dell’amministrazione concerne i soli
aspetti di illegittimità segnalati dall’istante, e nei
limiti in cui detti aspetti riguardino una violazione di
norme che, poste a tutela dell’interesse pubblico in materia
edilizia e urbanistica, comportino (anche) una lesione di
posizioni di interesse legittimo.
Inoltre, tale obbligo di verifica –così come generalmente
affermato dalla giurisprudenza amministrativa in ordine ai
presupposti per la sussistenza dell’illegittimità del
silenzio serbato dall’amministrazione– non può ritenersi
violato le volte in cui l’istanza proposta sia
manifestamente infondata o costituisca defatigatoria
riproposizione di precedente istanza già in precedenza
respinta.
Diversamente opinando (e cioè scollegando la tutela offerta
dalla verifica dell’interesse dell’istante e,
successivamente, delle condizioni dell’azione in capo al
medesimo nella veste di ricorrente), l’istanza di verifica
di cui all’art. 19, co. 6-ter, lungi dall’essere lo
strumento (unico) di tutela offerto al privato avverso la
Scia innanzi al giudice amministrativo, finirebbe con il risolversi in una
“denuncia” non meglio qualificata avverso presunti “abusi
edilizi” da accertare.
D’altra parte, così come non sussiste un obbligo di
provvedere coercibile in capo all’amministrazione riferito
alla generica istanza di attivazione dei propri
discrezionali poteri di autotutela, e dunque non sussiste in
questi casi il conseguente silenzio inadempimento, allo stesso modo non
può sussistere un obbligo di verifica “generale”
dell’attività edilizia intrapresa in base a Scia da parte
dell’amministrazione sulla base dell’istanza ex art. 19, co.
6-ter.
Tale obbligo sussiste solo per quegli aspetti che,
collegandosi alla tutela procedimentale di posizioni
soggettive di interesse legittimo, distinguono l’istante –in tal modo “qualificandolo”- dalla posizione di mero
denunciante.
---------------
Ovviamente, nulla vieta all’amministrazione di verificare,
con riferimento ai presupposti e limiti previsti
dall’ordinamento, la regolarità di quanto sia in corso di
realizzazione in base a Scia, ma ciò a tutta evidenza
prescinde da quanto previsto dall’art. 19, co. 6-ter, l. n.
241/1990 e dal rapporto che si instaura sulla base di detta
norma tra pubblica amministrazione e privato istante.
Allo stesso tempo, laddove l’attività edilizia realizzata o
in corso di realizzazione in base a Scia violi norme
regolatrici dei rapporti tra privati, quale che ne sia la
fonte (pubblicistica, contrattuale, etc.), il privato che si
ritenga leso ben potrà esercitare il proprio diritto alla
tutela giurisdizionale innanzi al giudice ordinario, nei
limiti previsti dall’ordinamento.
Sicché, appare evidente come non sussiste alcun obbligo di
provvedere dell’amministrazione in ordine ad una istanza
volta a sollecitarne l’esercizio dei poteri di autotutela
della medesima su una propria precedente certificazione. Ciò
in quanto:
- per un verso, non è configurabile il potere di autotutela
decisionale in ordine agli atti che costituiscono l’oggetto
di precedente esercizio di potere certificativo
(presupponendo il potere di autotutela il previo esercizio
di un potere costitutivo dell’amministrazione);
- per altro verso, ove anche –per mera ipotesi
argomentativa- fosse configurabile l’esercizio del potere di
autotutela, in ordine all’istanza che ne sollecita
l’esercizio, non sussiste –come si è detto- obbligo di
provvedere;
- per altro verso ancora, non sussiste, nel caso di specie,
alcun titolo od interesse del privato a che
l’amministrazione intervenga in rettifica di attestazione di
fatti obiettivamente verificatisi e riscontrati.
---------------
Si sono già innanzi esposti i limiti entro i quali
l’accertamento delle norme civilistiche poste a tutela dei
diritti soggettivi (e, più specificamente, dominicali) del
privato possa rilevare ai fini dell’esercizio dei poteri
della pubblica amministrazione.
Giova ulteriormente distinguere (anche con riferimento alle
norme afferenti ai diritti reali sul bene oggetto di
intervento) tra verifica della sussistenza della
legittimazione a richiedere il titolo edilizio e
verifica
del rispetto della normativa civilistica lato sensu inerente
al bene oggetto della richiesta e a quanto si intende
realizzare sullo stesso.
Quanto al primo aspetto, la giurisprudenza
amministrativa ha già avuto modo di osservare, che il permesso di costruire può essere
rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a
chiunque abbia titolo per richiederlo (così come previsto
dall’art. 11, co. 1, DPR n. 380/2001), e tale ultima
espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima
disponibilità dell’area, in base ad una relazione
qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche
solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso
del proprietario.
Si è precisato, inoltre, che, “il Comune, prima di
rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la
legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il
proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di
disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria”.
Quanto ora esposto (ed il concetto di “sufficienza” riferito
al titolo, elaborato dalla giurisprudenza) comporta, in
generale, che è onere del Comune ricercare la sussistenza di
un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che
fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto
e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo
destinatario di un provvedimento amministrativo
autorizzatorio; ma non comporta anche che l’amministrazione
debba comprovare prima del rilascio (ciò mediante oneri di
ulteriore allegazione posti al richiedente o attraverso
propri approfondimenti istruttori), la “pienezza” (nel senso
di assenza di limitazioni) del titolo medesimo.
Ed infatti, ciò comporterebbe, in sostanza, l’attribuzione
all’amministrazione di un potere di accertamento della
sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto”
non ad essa attribuito dall’ordinamento.
Quanto al secondo aspetto, la giurisprudenza
amministrativa ha affermato che, in sede di esame
dell’istanza volta al rilascio di un titolo edilizio,
l’amministrazione non deve verificare ogni aspetto civilistico
che potrebbe venire in rilievo, ma deve vagliare
esclusivamente i profili urbanistici ed edilizi connessi al
titolo richiesto.
Si è, in particolare, ricordato che il permesso di costruire
non incide sulla titolarità della proprietà o di altri
diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto
del suo rilascio, né tanto meno pregiudica la titolarità o
l'esercizio di diritti relativi ad immobili diversi da
quelli oggetto d'intervento.
Con particolare riguardo all’istanza di titolo ad edificare
sulla cosa comune si è affermato:
“ogni questione in ordine agli eventuali limiti
dell’esercizio in concreto del diritto del comproprietario
(ivi compreso quanto inerisce all’uso della cosa comune, ex
art. 1102 c.c.) esula dalle valutazioni
dell’amministrazione, nei casi in cui l’immobile considerato
non sia oggetto “diretto” del titolo edificatorio, nel senso
che attraverso quest’ultimo si realizza una trasformazione
dell’immobile, sia attraverso la realizzazione di una
volumetria su di esso insistente, sia attraverso la
realizzazione di altre opere che ne trasformino in modo
decisivo caratteristiche e destinazioni del bene ovvero che
incidano su pattuizioni tra i comproprietari in ordine
all’uso del medesimo ... Ovviamente, in ordine a tali
aspetti, resta ferma la tutela dei diritti reali assicurata
dal giudice ordinario, ma ciò ... non può condizionare
l’esercizio del potere autorizzatorio in materia edilizia
della Pubblica Amministrazione, al punto da rendere
illegittimo il permesso di costruire rilasciato”.
E’ alla luce delle considerazioni innanzi esposte che
deve essere interpretata l’espressione “fatti salvi
eventuali diritti dei terzi”, o simili, che normalmente
compare nei provvedimenti autorizzatori in materia edilizia.
Con tale espressione si intende circoscrivere l’ambito di
efficacia del provvedimento autorizzatorio in materia
edilizia.
Si intende cioè ribadire che il provvedimento
amministrativo, rilasciato ad un soggetto che è titolare di
una situazione qualificata di giuridica relazione con il
bene oggetto di intervento, autorizza un intervento di
trasformazione del territorio che è compatibile con
l’assetto edilizio ed urbanistico previsto per il medesimo
ed è, dunque, in tale ordine e limiti, legittimo.
Tale provvedimento inerisce, quanto all’oggetto della
istanza presentata, al rapporto pubblicistico tra soggetto
richiedente e pubblica amministrazione in esercizio del
potere autorizzatorio edilizio. Al tempo stesso, tale
provvedimento non incide (perché “non può” incidere) sui
distinti rapporti giuridici tra privati, che restano dallo
stesso del tutto impregiudicati.
Il che comporta che quanto autorizzato, se non costituisce
illecito dal punto di vista amministrativo (proprio per le
stesse ragioni per cui risulta autorizzabile), ben può
costituire illecito civile, in quanto incidente su una sfera
di rapporti cui la Pubblica Amministrazione è (e deve
rimanere) estranea.
Ne consegue che eventuali limitazioni alle facoltà e poteri
del proprietario (o del comproprietario), sia riferite alla
“piena” titolarità del suo diritto, sia al concreto
esercizio dello jus aedificandi in relazione a diritti di
terzi, per un verso esulano dal piano della “legittimità”
del provvedimento amministrativo, per altro verso restano da
questo impregiudicate e quindi soggetti terzi che intendono
tutelarsi ben potranno farlo, a prescindere dall’atto
amministrativo, innanzi al giudice ordinario.
In definitiva, se il provvedimento autorizzatorio edilizio,
quanto al suo ambito di efficacia, è estraneo ai rapporti
interprivati, (non potendoli condizionare, limitare o
comunque su di essi incidere), è del tutto evidente che una
violazione delle norme regolatrici di tali rapporti non può
rilevare come vizio di legittimità dell’atto.
---------------
Quanto ora affermato con riferimento al provvedimento
autorizzatorio edilizio che l’amministrazione è chiamata a
(eventualmente) rilasciare su istanza del privato, a maggior
ragione deve essere ribadito nel caso di attività edilizia
che si intende realizzare in base a Scia.
In questo caso, l’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990 ha
tenuto ad escludere che la Scia costituisca provvedimento
amministrativo, anche tacito. Il che comporta che l’attività
edilizia che il privato intende realizzare si svolge su un
piano dove non è previsto l’esercizio di poteri
amministrativi e, dunque, a maggior ragione, è estranea alla
Pubblica Amministrazione ogni verifica della sussistenza
delle condizioni che legittimano ad essere destinatari di un
titolo edilizio.
Si intende affermare che, in conseguenza della ricostruzione
dell’istituto offerta dall’art. 19 l. n. 241/1990, ogni
questione relativa alla titolarità del bene oggetto di
intervento attiene direttamente ai rapporti tra privati, non
essendo configurabile, per le ragioni esposte, alcun
coinvolgimento (neanche “mediato”, cioè nei limiti di
verifica dei presupposti ad essere destinatario di un
provvedimento amministrativo) della Pubblica
Amministrazione.
Ne consegue che ciò che il privato può richiedere, per il
tramite dell’istanza di cui all’art. 19, co. 6-ter, l. n.
241/1990, e nei limiti del suo interesse ad agire, è solo la
verifica obiettiva della compatibilità di quanto si intende
realizzare con la disciplina urbanistica ed edilizia
applicabile al caso di specie.
Ma il privato non può certo richiedere all’amministrazione
di verificare –in capo al soggetto che agisce sulla base di
una Scia- la sussistenza delle condizioni perché questi
possa essere destinatario di un titolo edilizio ex art. 11
DPR n. 380/2001, proprio perché il medesimo articolo esclude
che la Scia possa essere ricondotta ad un provvedimento
amministrativo.
Nel caso di specie la verifica richiesta all’amministrazione
(e, dunque, l’emanazione da parte della medesima di un
provvedimento di sospensione degli effetti della Scia),
concerneva, in primo luogo, la necessità di verificare la
sussistenza dell’assenso dei comproprietari.
Ma tale verifica, per le ragioni innanzi esposte, non può
essere richiesta alla Pubblica Amministrazione, a maggior
ragione nel caso di una attività edilizia intrapresa sulla
base di una Scia:
- sia in quanto essa afferisce alla natura dei rapporti tra
comproprietari (ed ai limiti di uso della cosa comune) e
coinvolge quindi diritti soggettivi, come tali esulanti
l’ambito del giudizio sull’illegittimità del silenzio;
- sia in quanto la tematica della legittimazione ad essere
destinatari di un titolo edilizio ex art. 11 DPR n. 380/2001
è estranea alla Scia ed ai poteri di verifica su di essa
della Pubblica Amministrazione.
---------------
2. L’appello è infondato e deve essere, pertanto, respinto,
con conseguente conferma della sentenza impugnata, con le
precisazioni di seguito esposte.
2.1. Al fine di meglio chiarire il thema decidendum appare
opportuno precisare, in punto di fatto, che il presente
giudizio trae origine dalla diffida presentata da Pa.Ro., Ci.Al. e Pa.Id. al Comune di Nocera
Superiore in data 23.02.2016, con la quale gli stessi
diffidavano il Funzionario responsabile dell’area
urbanistica del suddetto Comune “all’assunzione
dell’immediato provvedimento di sospensione del titolo abilitativo per silenzio rilasciato, in uno alla revoca
dell’attestato prot. n. 29491 del 03.12.2015, essendo
stato reso su inesistenti presupposti”.
I signori Pa.Ro., Ci.Al. e Pa.Id.
fondavano la propria diffida (in particolare alla emanazione
di provvedimento di sospensione) su due argomentazioni:
- la prima, consistente nell’affermare che “l’amministrazione
comunale avrebbe dovuto subordinare il rilascio dell’assenso
edilizio a specifica autorizzazione di assenso dei
comproprietari”;
- la seconda, consistente nel rilievo che “la richiesta di assenso
edilizio non è stata corredata dalla indicazione delle
autorizzazioni ottenute e contemplate dalla normativa di
settore, così come previsto dal DPR 542/1994; in particolare
non sono stati esplicitati appropriatamente natura e
caratteristiche dell’impianto di RM da attivare e dunque
della tipologia di assenso preventivo di cui si doveva già
essere in possesso per la localizzazione dell’impattante
impianto di sfiato”.
Per maggior chiarezza, giova precisare:
- che l’attività edilizia contestata con la diffida era oggetto non
già di un provvedimento amministrativo implicito (o per silentium), bensì di una Scia del 19.12.2014 n. 27051,
integrata con comunicazione 29.09.2015 n. 22728 e con
trasmissione di documentazione integrativa in data 19.10.2015 n. 24599;
- che l’attestato oggetto della richiesta di revoca certificava la
presentazione della Scia e delle integrazioni alla medesima
innanzi indicate, nonché l’assenza di provvedimenti
sospensivi dell’efficacia della Scia dalla sua presentazione
e fino alla data di emissione dell’attestato.
Stante il silenzio serbato dall’amministrazione sulla
diffida 23.02.2016, i signori Pa.Ro., Ci.Al. e Pa.Id. (firmatari della diffida), nonché Pa.Fe. e Ba.Ro., proponevano ricorso
giurisdizionale per la declaratoria di illegittimità del
silenzio, deciso poi dalla sentenza impugnata nella presente
sede.
Oggetto, dunque, del presente giudizio, per il tramite della
sentenza impugnata, è il silenzio serbato
dall’amministrazione su quanto richiesto con diffida del 23.02.2016, vale a dire l’adozione di un provvedimento di
sospensione “del titolo abilitativo per silenzio rilasciato”
e la revoca dell’attestato 03.12.2015.
2.2. Tanto precisato, occorre ricordare che l’ambito del
giudizio avverso il silenzio è definito:
- sul piano soggettivo, con riferimento ai soggetti che
hanno presentato l’istanza rimasta insoddisfatta a causa del
silenzio dell’amministrazione, e dunque titolari della
legittimazione ad agire;
- sul pano oggettivo, dal provvedimento richiesto con
l’istanza ed in ordine al quale l’amministrazione non ha
esercitato il relativo potere, nemmeno in senso negativo.
Quanto al piano soggettivo, è appena il caso di osservare (poiché
il punto non è stato trattato nella sentenza impugnata né ha
formato motivo di appello) che, a fronte di tre soggetti
presentatori della diffida, il ricorso instaurativo del
giudizio di I grado ed il presente appello risultano
proposti da cinque soggetti, per due dei quali sarebbe
discutibile la sussistenza della legittimazione ad agire.
Quanto al piano oggettivo è da rilevare che il provvedimento
di sospensione –in ordine alla mancata adozione del quale è
attivato il presente giudizio- deve essere inteso (in
applicazione di un favor interpretativo per i ricorrenti)
come riferito alla Scia, non sussistendo, nel caso di
specie, alcun “titolo abilitativo per silenzio rilasciato”
(e, dunque, prescindendosi dal rilevare che ben avrebbe
potuto il Comune ritenere la diffida presentata tamquam non
esset, per mancanza di oggetto).
In definitiva, l’eventuale silenzio inadempimento
dell’amministrazione deve essere verificato solo con
riguardo ai due tipi di atto sollecitati con l’istanza e con
riferimento ai presupposti indicati per l’adozione degli
atti medesimi.
Ne consegue che ogni ulteriore valutazione esplicitata in
giudizio –sia per il tramite del ricorso instaurativo del
giudizio sia per il tramite dell’appello– è da considerarsi
del tutto estranea al thema decidendum.
Tanto precisato, può prescindersi dall’eccezione di
inammissibilità proposta dal Comune di Nocera Inferiore,
attesa altresì la infondatezza dell’appello.
3. Il giudizio sul silenzio, attivato in primo grado dagli
attuali appellanti, attiene a quanto previsto, in tema di
Scia, dall’art. 19, co. 6-ter, della legge 07.08.1990 n.
241, il quale, nel precisare che “la segnalazione
certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili”, afferma
altresì che "gli interessati possono sollecitare l’esercizio
delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di
inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art.
31, commi 1 e 2” del Cpa.
3.1. Come è noto, l’art. 31 Cpa prevede che “decorsi i
termini per a conclusione del procedimento amministrativo, e
negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse
può chiedere l’accertamento dell’obbligo
dell’amministrazione di provvedere”.
Come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha avuto
modo di chiarire, il giudizio sul cd. silenzio-inadempimento
della pubblica amministrazione presuppone, innanzi tutto,
che si verta in tema di tutela di interessi legittimi, non
potendo il giudizio afferire, sia pure mediatamente, alla
tutela di posizioni di diritto soggettivo, in tal modo
aggirandosi i limiti di giurisdizione del giudice
amministrativo (Cons. Stato, sez. III, 22.06.2018 n.
3858); sez. V, 08.05.2018 n. 2751 e 06.02.2017, n.
513).
La sussistenza delle condizioni dell’azione in capo al
soggetto che instaura il giudizio in oggetto deve, dunque,
essere verificata in relazione alla titolarità di una
posizione di interesse legittimo (pretensivo), tale da
avergli consentito l’attivazione di un procedimento
amministrativo non conclusosi nel termine previsto mediante
l’adozione di alcun provvedimento espresso (ovvero non
essendo prevista l’ipotesi di cd. silenzio assenso ex art.
20 l. n. 241/1990).
3.2. Più specificamente, nel caso previsto dall’art. 19, co. 6-ter,
l. n. 241/1990 -non avendo il legislatore inteso introdurre
una speciale forma di giudizio sul silenzio inadempimento
riferito alla tutela di diritti soggettivi- ciò che fonda
la sussistenza delle condizioni dell’azione è la titolarità
di una posizione giuridica che legittimi l’istante a
chiedere all’amministrazione la verifica delle condizioni
che consentono di edificare in base a Scia, in relazione al
pregiudizio che egli può ricevere da detta attività.
Tale posizione giuridica -sulla quale si fonda la facoltà
di richiedere all’amministrazione gli accertamenti previsti- è di interesse legittimo (pena, come si è detto, lo
“sconfinamento” nell’ambito della giurisdizione del giudice
ordinario), il che comporta che ogni accertamento richiesto
deve concernere aspetti inerenti all’interesse pubblico
(violato) in materia di edilizia e urbanistica, non già la
(eventuale) violazione di norme afferenti alla tutela del
diritto dominicale o simili (se non in quanto la violazione
di norme “civilistiche” e/o afferenti alla regolamentazione
di rapporti tra privati non rilevi innanzi tutto dal punto
di visto della tutela dell’interesse pubblico, risolvendosi,
ma solo indirettamente, anche in una tutela obiettiva di
diritti soggettivi).
Inoltre, l’accertamento della illegittimità del silenzio
serbato dall’amministrazione presuppone, come
tradizionalmente chiarito dalla giurisprudenza
amministrativa, la sussistenza di un obbligo di provvedere
violato o eluso dall’amministrazione medesima (Cons. Stato,
sez. V, 11.06.2018 n. 3598; sez. IV, 07.06.2017 n.
2751; sez. VI, 27.12.2017 n. 4525).
Nel caso dell’attivazione del sindacato giurisdizionale sul
silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di
verifica proposta ai sensi dell’art. 19, co. 6-ter cit.,
l’obbligo di verifica dell’amministrazione concerne i soli
aspetti di illegittimità segnalati dall’istante, e nei
limiti in cui detti aspetti riguardino una violazione di
norme che, poste a tutela dell’interesse pubblico in materia
edilizia e urbanistica, comportino (anche) una lesione di
posizioni di interesse legittimo.
Inoltre, tale obbligo di verifica –così come generalmente
affermato dalla giurisprudenza amministrativa in ordine ai
presupposti per la sussistenza dell’illegittimità del
silenzio serbato dall’amministrazione– non può ritenersi
violato le volte in cui l’istanza proposta sia
manifestamente infondata o costituisca defatigatoria
riproposizione di precedente istanza già in precedenza
respinta (Cons. Stato, sez. IV, 07.06.2017 n. 2751).
Diversamente opinando (e cioè scollegando la tutela offerta
dalla verifica dell’interesse dell’istante e,
successivamente, delle condizioni dell’azione in capo al
medesimo nella veste di ricorrente), l’istanza di verifica
di cui all’art. 19, co. 6-ter, lungi dall’essere lo
strumento (unico) di tutela offerto al privato avverso la
Scia innanzi al giudice amministrativo (Cons. Stato, sez. IV,
06.10.2017 n. 4659), finirebbe con il risolversi in una
“denuncia” non meglio qualificata avverso presunti “abusi
edilizi” da accertare.
D’altra parte, così come non sussiste un obbligo di
provvedere coercibile in capo all’amministrazione riferito
alla generica istanza di attivazione dei propri
discrezionali poteri di autotutela, e dunque non sussiste in
questi casi il conseguente silenzio inadempimento (Cons.
Stato, sez. IV, 07.06.2017 n. 2751), allo stesso modo non
può sussistere un obbligo di verifica “generale”
dell’attività edilizia intrapresa in base a Scia da parte
dell’amministrazione sulla base dell’istanza ex art. 19, co.
6-ter.
Tale obbligo sussiste solo per quegli aspetti che,
collegandosi alla tutela procedimentale di posizioni
soggettive di interesse legittimo, distinguono l’istante –in tal modo “qualificandolo”- dalla posizione di mero
denunciante.
3.3. Ovviamente, nulla vieta all’amministrazione di
verificare, con riferimento ai presupposti e limiti previsti
dall’ordinamento, la regolarità di quanto sia in corso di
realizzazione in base a Scia, ma ciò a tutta evidenza
prescinde da quanto previsto dall’art. 19, co. 6-ter, l. n.
241/1990 e dal rapporto che si instaura sulla base di detta
norma tra pubblica amministrazione e privato istante.
Allo stesso tempo, laddove l’attività edilizia realizzata o
in corso di realizzazione in base a Scia violi norme
regolatrici dei rapporti tra privati, quale che ne sia la
fonte (pubblicistica, contrattuale, etc.), il privato che si
ritenga leso ben potrà esercitare il proprio diritto alla
tutela giurisdizionale innanzi al giudice ordinario, nei
limiti previsti dall’ordinamento.
4. Alla luce delle considerazioni innanzi esposte, appare
evidente come non sussiste alcun obbligo di provvedere
dell’amministrazione in ordine ad una istanza volta a
sollecitarne l’esercizio dei poteri di autotutela della
medesima su una propria precedente certificazione. Ciò in
quanto:
- per un verso, non è configurabile il potere di autotutela
decisionale in ordine agli atti che costituiscono l’oggetto
di precedente esercizio di potere certificativo
(presupponendo il potere di autotutela il previo esercizio
di un potere costitutivo dell’amministrazione);
- per altro verso, ove anche –per mera ipotesi argomentativa-
fosse configurabile l’esercizio del potere di autotutela, in
ordine all’istanza che ne sollecita l’esercizio, non
sussiste –come si è detto- obbligo di provvedere;
- per altro verso ancora, non sussiste, nel caso di specie, alcun
titolo od interesse del privato a che l’amministrazione
intervenga in rettifica di attestazione di fatti
obiettivamente verificatisi e riscontrati.
Né è dato comprendere, contrariamente a quanto sostenuto
dagli appellanti, come l’attestato del quale si è richiesta
la revoca e/o l’annullamento possa “compenetrare” l’assenso
ricevuto, non presupponendo la disciplina della Scia alcun
“assenso” (espresso o implicito) dell’amministrazione, né
potendo tale assenso minimamente configurarsi con
riferimento ad una mera asseverazione di scienza su fatti
effettivamente verificatisi.
Da quanto esposto consegue il rigetto del relativo motivo di
appello (sub lett. a2) dell’esposizione in fatto).
5. Altrettanto infondati sono gli ulteriori motivi di
appello.
5.1. Si sono già innanzi esposti i limiti entro i quali
l’accertamento delle norme civilistiche poste a tutela dei
diritti soggettivi (e, più specificamente, dominicali) del
privato possa rilevare ai fini dell’esercizio dei poteri
della pubblica amministrazione.
Giova ulteriormente distinguere (anche con riferimento alle
norme afferenti ai diritti reali sul bene oggetto di
intervento) tra verifica della sussistenza della
legittimazione a richiedere il titolo edilizio e verifica
del rispetto della normativa civilistica lato sensu inerente
al bene oggetto della richiesta e a quanto si intende
realizzare sullo stesso.
5.2. Quanto al primo aspetto, la giurisprudenza
amministrativa ha già avuto modo di osservare (Con. Stato,
sez. VI, 22.09.2014 n. 4776; sez. IV, 25.09.2014 n. 4818), che il permesso di costruire può essere
rilasciato non solo al proprietario dell’immobile, ma a
chiunque abbia titolo per richiederlo (così come previsto
dall’art. 11, co. 1, DPR n. 380/2001), e tale ultima
espressione va intesa nel senso più ampio di una legittima
disponibilità dell’area, in base ad una relazione
qualificata con il bene, sia essa di natura reale, o anche
solo obbligatoria, purché, in questo caso, con il consenso
del proprietario.
Si è precisato, inoltre, che, “il Comune, prima di
rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di verificare la
legittimazione del richiedente, accertando che questi sia il
proprietario dell'immobile oggetto dell'intervento
costruttivo o che, comunque, ne abbia un titolo di
disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria” (Cons. Stato, sez. IV, n. 4818/2014 cit.; in
senso conforme, sez. V, 04.04.2012 n. 1990).
Quanto ora esposto (ed il concetto di “sufficienza” riferito
al titolo, elaborato dalla giurisprudenza) comporta, in
generale, che è onere del Comune ricercare la sussistenza di
un titolo (di proprietà, di altri diritti reali, etc.) che
fonda una relazione giuridicamente qualificata tra soggetto
e bene oggetto dell’intervento, e che dunque possa renderlo
destinatario di un provvedimento amministrativo
autorizzatorio; ma non comporta anche che l’amministrazione
debba comprovare prima del rilascio (ciò mediante oneri di
ulteriore allegazione posti al richiedente o attraverso
propri approfondimenti istruttori), la “pienezza” (nel senso
di assenza di limitazioni) del titolo medesimo.
Ed infatti, ciò comporterebbe, in sostanza, l’attribuzione
all’amministrazione di un potere di accertamento della
sussistenza (o meno) di diritti reali e del loro “contenuto”
non ad essa attribuito dall’ordinamento.
5.3. Quanto al secondo aspetto, la giurisprudenza
amministrativa ha affermato che, in sede di esame
dell’istanza volta al rilascio di un titolo edilizio,
l’amministrazione non deve verificare ogni aspetto civilistico che potrebbe venire in rilievo, ma deve vagliare
esclusivamente i profili urbanistici ed edilizi connessi al
titolo richiesto (Cons. Sato, sez. IV, 23.05.2016 n.
2116).
Si è, in particolare, ricordato che il permesso di costruire
non incide sulla titolarità della proprietà o di altri
diritti reali relativi agli immobili realizzati per effetto
del suo rilascio, né tantomeno pregiudica la titolarità o
l'esercizio di diritti relativi ad immobili diversi da
quelli oggetto d'intervento (Cos. Stato, sez. VI, 27.04.2017 n. 1942).
Con particolare riguardo all’istanza di titolo ad edificare
sulla cosa comune si è affermato:
“ogni questione in ordine agli eventuali limiti
dell’esercizio in concreto del diritto del comproprietario
(ivi compreso quanto inerisce all’uso della cosa comune, ex
art. 1102 c.c.) esula dalle valutazioni
dell’amministrazione, nei casi in cui l’immobile considerato
non sia oggetto “diretto” del titolo edificatorio, nel senso
che attraverso quest’ultimo si realizza una trasformazione
dell’immobile, sia attraverso la realizzazione di una
volumetria su di esso insistente, sia attraverso la
realizzazione di altre opere che ne trasformino in modo
decisivo caratteristiche e destinazioni del bene ovvero che
incidano su pattuizioni tra i comproprietari in ordine
all’uso del medesimo ... Ovviamente, in ordine a tali
aspetti, resta ferma la tutela dei diritti reali assicurata
dal giudice ordinario, ma ciò ... non può condizionare
l’esercizio del potere autorizzatorio in materia edilizia
della Pubblica Amministrazione, al punto da rendere
illegittimo il permesso di costruire rilasciato”.
5.4. E’ alla luce delle considerazioni innanzi esposte che
deve essere interpretata l’espressione “fatti salvi
eventuali diritti dei terzi”, o simili, che normalmente
compare nei provvedimenti autorizzatori in materia edilizia.
Con tale espressione si intende circoscrivere l’ambito di
efficacia del provvedimento autorizzatorio in materia
edilizia.
Si intende cioè ribadire che il provvedimento
amministrativo, rilasciato ad un soggetto che è titolare di
una situazione qualificata di giuridica relazione con il
bene oggetto di intervento, autorizza un intervento di
trasformazione del territorio che è compatibile con
l’assetto edilizio ed urbanistico previsto per il medesimo
ed è, dunque, in tale ordine e limiti, legittimo.
Tale provvedimento inerisce, quanto all’oggetto della
istanza presentata, al rapporto pubblicistico tra soggetto
richiedente e pubblica amministrazione in esercizio del
potere autorizzatorio edilizio. Al tempo stesso, tale
provvedimento non incide (perché “non può” incidere) sui
distinti rapporti giuridici tra privati, che restano dallo
stesso del tutto impregiudicati.
Il che comporta che quanto autorizzato, se non costituisce
illecito dal punto di vista amministrativo (proprio per le
stesse ragioni per cui risulta autorizzabile), ben può
costituire illecito civile, in quanto incidente su una sfera
di rapporti cui la Pubblica Amministrazione è (e deve
rimanere) estranea.
Ne consegue che eventuali limitazioni alle facoltà e poteri
del proprietario (o del comproprietario), sia riferite alla
“piena” titolarità del suo diritto, sia al concreto
esercizio dello jus aedificandi in relazione a diritti di
terzi, per un verso esulano dal piano della “legittimità”
del provvedimento amministrativo, per altro verso restano da
questo impregiudicate e quindi soggetti terzi che intendono
tutelarsi ben potranno farlo, a prescindere dall’atto
amministrativo, innanzi al giudice ordinario.
In definitiva, se il provvedimento autorizzatorio edilizio,
quanto al suo ambito di efficacia, è estraneo ai rapporti
interprivati, (non potendoli condizionare, limitare o
comunque su di essi incidere), è del tutto evidente che una
violazione delle norme regolatrici di tali rapporti non può
rilevare come vizio di legittimità dell’atto.
5.5. Quanto ora affermato con riferimento al provvedimento
autorizzatorio edilizio che l’amministrazione è chiamata a
(eventualmente) rilasciare su istanza del privato, a maggior
ragione deve essere ribadito nel caso di attività edilizia
che si intende realizzare in base a Scia.
In questo caso, l’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990 ha
tenuto ad escludere che la Scia costituisca provvedimento
amministrativo, anche tacito.
Il che comporta che l’attività edilizia che il privato
intende realizzare si svolge su un piano dove non è previsto
l’esercizio di poteri amministrativi e, dunque, a maggior
ragione, è estranea alla Pubblica Amministrazione ogni
verifica della sussistenza delle condizioni che legittimano
ad essere destinatari di un titolo edilizio.
Si intende affermare che, in conseguenza della ricostruzione
dell’istituto offerta dall’art. 19 l. n. 241/1990, ogni
questione relativa alla titolarità del bene oggetto di
intervento attiene direttamente ai rapporti tra privati, non
essendo configurabile, per le ragioni esposte, alcun
coinvolgimento (neanche “mediato”, cioè nei limiti di
verifica dei presupposti ad essere destinatario di un
provvedimento amministrativo) della Pubblica
Amministrazione.
Ne consegue che ciò che il privato può richiedere, per il
tramite dell’istanza di cui all’art. 19, co. 6-ter, l. n.
241/1990, e nei limiti del suo interesse ad agire, è solo la
verifica obiettiva della compatibilità di quanto si intende
realizzare con la disciplina urbanistica ed edilizia
applicabile al caso di specie.
Ma il privato non può certo richiedere all’amministrazione
di verificare –in capo al soggetto che agisce sulla base di
una Scia- la sussistenza delle condizioni perché questi
possa essere destinatario di un titolo edilizio ex art. 11
DPR n. 380/2001, proprio perché il medesimo articolo esclude
che la Scia possa essere ricondotta ad un provvedimento
amministrativo.
6.1. Nel caso di specie, come si è già detto, la verifica
richiesta all’amministrazione (e, dunque, l’emanazione da
parte della medesima di un provvedimento di sospensione
degli effetti della Scia), concerneva, in primo luogo, la
necessità di verificare la sussistenza dell’assenso dei
comproprietari.
Ma tale verifica, per le ragioni innanzi esposte, non può
essere richiesta alla Pubblica Amministrazione, a maggior
ragione nel caso di una attività edilizia intrapresa sulla
base di una Scia:
- sia in quanto essa afferisce alla natura dei rapporti tra
comproprietari (ed ai limiti di uso della cosa comune) e
coinvolge quindi diritti soggettivi, come tali esulanti
l’ambito del giudizio sull’illegittimità del silenzio;
- sia in quanto la tematica della legittimazione ad essere
destinatari di un titolo edilizio ex art. 11 DPR n. 380/2001
è estranea alla Scia ed ai poteri di verifica su di essa
della Pubblica Amministrazione.
E’ in questo senso che deve essere intesa la sentenza
impugnata, laddove essa afferma l’inammisibilità del ricorso
“per essere stato chiesto l’esercizio di poteri in autotutela da parte dell’Ente, in materia sottratta alla
sfera di competenza giurisdizionale del G.A.”.
6.2. Altrettanto priva di rilevanza, ai fini edilizi, è la
richiesta di verifica della sussistenza delle autorizzazioni
previste dal DPR n. 542/1994 per gli impianti RM (risonanza
magnetica).
Le autorizzazioni previste dal DPR 08.08.1994 n. 542
(Regolamento recante norme per la semplificazione del
procedimento di autorizzazione all’uso diagnostico di
apparecchiature a risonanza magnetica nucleare sul
territorio nazionale), relative alla “collocazione” delle
stesse (v. in particolare, art. 4), attengono ad aspetti di
programmazione della assistenza sanitaria ovvero alle
caratteristiche dell’apparecchio, aspetti che non
interferiscono con le diverse valutazioni proprie
dell’amministrazioni sotto il profilo urbanistico-edilizio.
6.3. In definitiva, in presenza di una istanza presentata ai
sensi dell’art. 19, co. 6-ter, l. n. 241/1990, fondata su
presupposti chiaramente non afferenti la materia edilizia,
l’amministrazione non aveva alcun obbligo di provvedere e,
conseguentemente, il silenzio dalla stessa serbato non è
qualificabile come illegittimo inadempimento.
7. Per tutte le ragioni sin qui esposte, l’appello deve
essere rigettato, stante la sua infondatezza, con
conseguente conferma della sentenza impugnata, con le
precisazioni ed integrazioni di motivazione innanzi
rappresentate (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.08.2018 n. 5115 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento edilizio
(abusivo) realizzato nel territorio del Parco rientra
nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi
dell’articolo 13 della suddetta legge gli interventi edilizi
esigono la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta
di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui
all’articolo 29 della legge 394/1991.
---------------
La giurisprudenza distingue tra istanza di nulla-osta
ed istanza di accertamento in sanatoria affermando
che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun
termine dilatorio prima del cui decorso non è consentito
adottare provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi
per cui sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento
espresso sull’istanza di accertamento di conformità, è
smentita dalla lettera dell’art 36, co. 2, D.P.R. n.
380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni dalla
presentazione la domanda si intende respinta, delineando in
tal modo una tipica fattispecie di silenzio rigetto,
suscettibile di essere impugnato mediante esercizio
dell’ordinaria azione impugnatoria”.
I rapporti tra concessione del nulla osta da parte dell’Ente
Parco ai sensi dell’art. 13 l. 394/1991 e quelli dell’ente
locale di cui all’art. 27 d.p.r 380 sono dunque chiari:
l’ordine di demolizione può intervenire anche prima della
richiesta di nulla osta dal momento che la valutazione dell’
Ente Parco è del tutto autonoma rispetto a quella dell’ente
locale; come chiaro è il rapporto tra la disciplina speciale
delle aree protette di cui alla l. 394/1991 e quella
generale di cui al d.p.r. 380/2001, prevalendo il canone
della specialità a quello della temporalità. Accertata la
violazione, in assenza di nulla osta, all’ ente Parco è
conferito dall’articolo 29 l. 394/1991 il potere di irrogare
la sanzione, ordinando la demolizione e la riduzione in
pristino.
Si afferma in giurisprudenza “nell’ipotesi di opere abusive
realizzate all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la
competenza dell’ Ente Parco ad adottare provvedimenti di
demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, in quanto
il potere di ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di
tutela ambientale, poste a fondamento della sua stessa
istituzione, tramite l’esercizio di un potere incardinato in
virtù della legislazione statale in materia
naturalistico-ambientale (menzionata legge n. 394/1991) e
finalizzato a proteggere le aree sottoposte a vincolo da
attività edilizia non conforme alla normativa”.
Pertanto è legittima l’ordinanza di demolizione delle opere
abusive una volta accertata la mancata richiesta del nulla
osta ai sensi dell’art. 13, l. 391/1994.
Giova ricordare che l'istanza di accertamento in sanatoria
sarebbe possibile solo in presenza dell’autorizzazione
paesaggistica in osservanza del requisito della doppia
conformità. “Nessuna sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001
è possibile nei casi come quello in questione. Se ciò
venisse consentito si determinerebbe una violazione di legge
e di regolamento ex art. 27, co. 1 e 2; art. 36 D.P.R.
380/2001; art 141, co. 6, 8 e 10, lett. c), nonché art. 167
D.lgs. n. 42/2004, consistente nell’adozione di un permesso
di costruire in sanatoria in violazione dei limiti di
operatività dell’art 36 D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di
disposizione applicabile solo per opere dotate del requisito
della “doppia conformità”, che nella fattispecie manca del
tutto, e comunque, trattandosi di disposizione operante
(astrattamente) solo per opere abusive ubicate in area non
vincolata, stante la disposizione dell’art. 146, co. 10,
lett. c), D.lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale
“l’autorizzazione paesaggistica non può essere rilasciata in
sanatoria successivamente alla realizzazione, anche
parziale, degli interventi”.
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Con ordinanza n. 47/2011 l’Ente Parco Vesuvio ordinava la
demolizione di opere abusive. Con accertamento da parte del
Corpo Forestale dello Stato si accertava l’inottemperanza
all’ordine di demolizione e si rinvenivano ulteriori opere
abusive in assenza dei prescritti nulla osta ed
autorizzazione.
Con ordinanza di demolizione n. 28 del 16.05.2014 il Comune
di Terzigno ordinava al ricorrente l’immediata sospensione
dei lavori edilizi abusivi, ingiungendo la demolizione delle
opere entro 90 giorni.
Con nota prot. 2269 del 04/06/2014 l’Ente Parco Vesuvio
provvedeva ad inviare al ricorrente la comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi della legge 241/1900 art. 7.
Con ordinanza n. 16/2014 del 05/09/2014 prot. G.3617 del
05.09 2014 notificata in data 17.09.2014, l’Ente Parco
Vesuvio ordinava la demolizione delle opere.
Con nota prot. n. 4640 del 03.11.2014 il ricorrente
depositava istanza di autorizzazione in sanatoria
Il 15.11.2014 il signor An. presentava il
ricorso al Consiglio di Stato.
Con nota successiva n. prot. 229 del 30/01/2015 l’Ente Parco
comunicava al ricorrente, al Comune di Terzigno ed al CTA
del Corpo forestale dello Stato le ragioni ostative
dell’inammissibilità della domanda di autorizzazione in
sanatoria.
Dalla relazione presentata dall’ amministrazione risulta che
il ricorrente ricevuta la comunicazione del diniego,
intervenuta successivamente alla presentazione del ricorso,
non abbia proposto motivi aggiunti o proposto nuovo ricorso
contro il provvedimento di diniego. Il diniego dell’istanza
di autorizzazione in sanatoria fa venir meno l’interesse a
ricorrere. Il ricorso deve dunque ritenersi improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse.
Il ricorso deve comunque ritenersi infondato nel merito.
Giova premettere che l’intervento è avvenuto nel territorio
del Parco del Vesuvio che rientra nell’ambito della legge
quadro 394/1991 di tutela delle aree protette. Ai sensi
dell’articolo 13 della suddetta legge gli interventi edilizi
esigono la richiesta di un nulla osta; la mancata richiesta
di nulla osta comporta l’erogazione della sanzione di cui
all’articolo 29 della legge 394/1991.
Lamenta il ricorrente violazione e falsa applicazione di
legge con riferimento all’art. 36 d.p.r. 380/2001;
violazione e falsa applicazione dell’art. 7, l. 241/1990,
eccesso e sviamento di potere. Con ricorso straordinario
vengono impugnate sia l’ordinanza di demolizione e riduzione
in pristino sia il silenzio provvedimentale relativo
all’istanza di accertamento in sanatoria su cui si era
formato silenzio-rigetto.
Il ricorrente afferma che avrebbero errato il Comune di
Terzigno e l’Ente Parco Vesuvio ad ordinare la demolizione
delle opera abusive dovendo attendere la richiesta di
istanza di nulla osta ai sensi dell’art. 13. Il motivo di
gravame non è fondato.
La giurisprudenza distingue tra
istanza di nulla osta ed istanza di accertamento in
sanatoria affermando che “l’art. 13 della L. n. 394/1991
non contempla alcun termine dilatorio prima del cui decorso
non è consentito adottare provvedimenti repressivi, nel
mentre la stessa tesi per cui sarebbe necessaria l’adozione
di un provvedimento espresso sull’istanza di accertamento di
conformità, è smentita dalla lettera dell’art 36, co. 2,
D.P.R. n. 380/2001 che prevede che decorsi sessanta giorni
dalla presentazione la domanda si intende respinta,
delineando in tal modo una tipica fattispecie di silenzio
rigetto, suscettibile di essere impugnato mediante esercizio
dell’ordinaria azione impugnatoria” (TAR Campania
3166/2018).
I rapporti tra concessione del nulla osta da parte dell’Ente
Parco ai sensi dell’art. 13 l. 394/1991 e quelli dell’ente
locale di cui all’art. 27 d.p.r 380 sono dunque chiari:
l’ordine di demolizione può intervenire anche prima della
richiesta di nulla osta dal momento che la valutazione dell’Ente Parco è del tutto autonoma rispetto a quella dell’ente
locale; come chiaro è il rapporto tra la disciplina speciale
delle aree protette di cui alla l. 394/1991 e quella generale
di cui al d.p.r. 380/2001, prevalendo il canone della
specialità a quello della temporalità. Accertata la
violazione, in assenza di nulla osta, all’ ente Parco è
conferito dall’articolo 29 l. 394/1991 il potere di irrogare
la sanzione, ordinando la demolizione e la riduzione in
pristino. Si afferma in giurisprudenza “nell’ipotesi di
opere abusive realizzate all'interno di Parchi Nazionali,
sussiste la competenza dell’ Ente Parco ad adottare
provvedimenti di demolizione e ripristino dello stato dei
luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda sulle
specifiche finalità di tutela ambientale, poste a fondamento
della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio di un
potere incardinato in virtù della legislazione statale in
materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n.
394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a
vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa (cfr.
Cons. Stato, Parere sez. II, 23.02.2015, n. 449)”.
Pertanto è legittima l’ordinanza di demolizione delle opere
abusive una volta accertata la mancata richiesta del nulla
osta ai sensi dell’art. 13, l. 391/1994.
Giova ricordare che secondo la giurisprudenza del Consiglio
di Stato la istanza di accertamento in sanatoria sarebbe
possibile solo in presenza dell’autorizzazione paesaggistica
in osservanza del requisito della doppia conformità.
“Nessuna sanatoria ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001 è possibile
nei casi come quello in questione. Se ciò venisse consentito
si determinerebbe una violazione di legge e di regolamento
ex art. 27, co. 1 e 2; art. 36 D.P.R. 380/2001; art 141, co. 6,
8 e 10, lett. c), nonché art. 167 D.lgs. n. 42/2004,
consistente nell’adozione di un permesso di costruire in
sanatoria in violazione dei limiti di operatività dell’art
36 D.P.R. n. 380/2001, trattandosi di disposizione applicabile
solo per opere dotate del requisito della “doppia
conformità”, che nella fattispecie manca del tutto, e
comunque, trattandosi di disposizione operante
(astrattamente) solo per opere abusive ubicate in area non
vincolata, stante la disposizione dell’art. 146, co. 10, lett.
c), D.lgs. n. 42/2004, ai sensi del quale “l’autorizzazione
paesaggistica non può essere rilasciata in sanatoria
successivamente alla realizzazione, anche parziale, degli
interventi” (Cons. di stato, Parere sez. II, 1568/2011.)
...
Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il
provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato
risultando il gravame privo di pregio.
Per le ragioni su esposte la Sezione esprime il parere che
il ricorso vada considerato in parte improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse in relazione al silenzio
rigetto e in parte infondato nel merito con riferimento ai
vizi di motivazione dell’ordinanza di demolizione e della
nota informativa del corpo forestale dello stato (Consiglio
di Stato, Sez. II,
parere 27.08.2018 n. 2061 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’intervento edilizio
(abusivo) realizzato nel territorio del Parco rientra
nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree
protette.
Ai sensi di tale normativa gli interventi edilizi
richiedono, in forza dell’art. 13, la richiesta di un nulla
osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta
l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della
medesima legge. Quest’ ultima disposizione concerne i poteri
dell’Ente.
La richiesta di nulla osta ex art. 13 l. 394/1991
deve precedere la richiesta delle concessioni ed
autorizzazioni necessarie agli interventi. L’accertamento di
compatibilità paesaggistica non può essere concesso se non
previa acquisizione del preventivo nulla osta da parte
dell’ente parco.
---------------
La richiesta di accertamento della compatibilità
paesaggistica ai sensi dell’art. 167 e 181 d.lgs. 42/2004 e
l’istanza di accertamento in sanatoria né sanano l’abuso né
sospendono l’efficacia dell’ordinanza di demolizione.
L’istanza di accertamento in sanatoria varrebbe tutt’al più
a sospendere gli effetti delle misure sanzionatorie sino
all’emanazione del provvedimento o alla formazione del
silenzio-rigetto. Afferma la giurisprudenza di questo
Consiglio che “la sopravvenuta presentazione di istanza di
accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 non
incide sulla validità o efficacia del provvedimento
sanzionatorio, ma determina solo un arresto temporaneo
dell’esecutività delle misure ripristinatorie che
riacquistano carattere esecutivo in caso di eventuale
diniego della sanatoria”.
Nella relazione ministeriale non risultano gli esiti di tali
istanze e neppure sono pervenuti motivi aggiunti e
controdeduzioni da parte del ricorrente.
---------------
L’ordinanza di demolizione emanata dall’Ente Parco si fonda
legittimamente sulla disposizione dell’art. 29 l. n.
394/1991 la quale, in caso di esercizio di attività edilizia
in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta,
dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali
violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva
autorizzazione o nulla osta dell’Ente Parco.
---------------
La giurisprudenza afferma con chiarezza che “l’art. 13 della
L. n. 394/1991 non contempla alcun termine dilatorio prima
del cui decorso non è consentito adottare provvedimenti
repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui sarebbe
necessaria l’adozione di un provvedimento espresso
sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla
lettera dell’art. 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede
che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda
si intende respinta, delineando in tal modo una tipica
fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere
impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione
impugnatoria”.
L’art. 29 l. 349/1991 fa chiaro riferimento alla sanzione
demolitorio/ripristinatoria nel caso di costruzione in aree
protette in assenza di nulla osta. L’Ente Parco
nell’ordinanza di demolizione ha correttamente applicato la
disposizione di legge esercitando il potere sanzionatorio
dalla norma attribuitogli.
Invero, “nell’ipotesi di opere abusive realizzate
all'interno di Parchi Nazionali, sussiste la competenza
dell’Ente Parco ad adottare provvedimenti di demolizione e
ripristino dello stato dei luoghi, in quanto il potere di
ordinanza si fonda sulle specifiche finalità di tutela
ambientale, poste a fondamento della sua stessa istituzione,
tramite l’esercizio di un potere incardinato in virtù della
legislazione statale in materia naturalistico-ambientale
(menzionata legge n. 394/1991) e finalizzato a proteggere le
aree sottoposte a vincolo da attività edilizia non conforme
alla normativa”.
---------------
Giova premettere che l’intervento edilizio è
avvenuto nel territorio del Parco del Vesuvio che rientra
nell’ambito della legge quadro 394/1991 di tutela delle aree
protette. Ai sensi di tale normativa interventi edilizi
richiedono, in forza dell’art. 13, la richiesta di un nulla
osta; la mancata richiesta di nulla osta comporta
l’erogazione della sanzione di cui all’articolo 29 della
medesima legge. Quest’ ultima disposizione concerne i poteri
dell’Ente. La richiesta di nulla osta ex art. 13 l. 394/1991
deve precedere la richiesta delle concessioni ed
autorizzazioni necessarie agli interventi. Precisa
correttamente l’amministrazione che l’accertamento di
compatibilità paesaggistica non può essere concesso se non
previa acquisizione del preventivo nulla osta da parte
dell’ente parco.
Tutto ciò premesso il ricorrente non aveva richiesto il
nulla osta ai sensi dell’articolo 13 e neppure acquisito
l’accertamento di compatibilità paesaggistica prima di
promuovere l’istanza di accertamento in sanatoria ai sensi
dell’art. 36. Come puntualizzato dall’amministrazione la
richiesta di accertamento della compatibilità paesaggistica
ai sensi dell’art. 167 e 181 d.lgs. 42/2004 e l’istanza di
accertamento in sanatoria né sanano l’abuso né sospendono
l’efficacia dell’ordinanza di demolizione.
L’istanza di accertamento in sanatoria varrebbe tutt’al più
a sospendere gli effetti delle misure sanzionatorie sino
all’emanazione del provvedimento o alla formazione del
silenzio-rigetto. Afferma la giurisprudenza di questo
Consiglio che “la sopravvenuta presentazione di istanza di
accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. n. 380/2001 non
incide sulla validità o efficacia del provvedimento
sanzionatorio, ma determina solo un arresto temporaneo
dell’esecutività delle misure ripristinatorie che
riacquistano carattere esecutivo in caso di eventuale
diniego della sanatoria (v. sul punto, ex plurimis, Cons.
Stato, Sez. VI, 23.03.2016, n. 1203 e n. 1204)”.
Nella
relazione ministeriale non risultano gli esiti di tali
istanze e neppure sono pervenuti motivi aggiunti e controdeduzioni da parte del ricorrente.
L’ordinanza di demolizione emanata dall’Ente Parco si fonda
legittimamente sulla disposizione dell’art. 29 l. n.
394/1991 la quale, in caso di esercizio di attività edilizia
in difformità dal piano, dal regolamento o dal nulla osta,
dispone la riduzione in pristino di quei valori ambientali
violati dall’iniziativa sine titulo e priva di preventiva
autorizzazione o nulla osta dell’Ente Parco.
Lamenta il ricorrente che l’Ente Parco avrebbe dovuto
attendere il risultato dell’accertamento dell’istanza di
costruire in sanatoria prima di emanare l’ordine di
demolizione.
La giurisprudenza afferma con chiarezza che “l’art. 13 della L. n. 394/1991 non contempla alcun termine
dilatorio prima del cui decorso non è consentito adottare
provvedimenti repressivi, nel mentre la stessa tesi per cui
sarebbe necessaria l’adozione di un provvedimento espresso
sull’istanza di accertamento di conformità, è smentita dalla
lettera dell’art. 36, co. 2, D.P.R. n. 380/2001 che prevede
che decorsi sessanta giorni dalla presentazione la domanda
si intende respinta, delineando in tal modo una tipica
fattispecie di silenzio rigetto, suscettibile di essere
impugnato mediante esercizio dell’ordinaria azione
impugnatoria” (TAR Campania, 3166/2018).
Si duole il ricorrente che la sanzione prescelta sia quella
ripristinatoria e non quella pecuniaria. La doglianza è
priva di fondamento. L’art. 29 l. 349/1991 fa chiaro
riferimento alla sanzione demolitorio/ripristinatoria nel
caso di costruzione in aree protette in assenza di nulla
osta. L’Ente Parco nell’ordinanza di demolizione ha
correttamente applicato la disposizione di legge esercitando
il potere sanzionatorio dalla norma attribuitogli.
Come si
afferma nella giurisprudenza di questo Consiglio: “nell’ipotesi di opere abusive realizzate all'interno di
Parchi Nazionali, sussiste la competenza dell’Ente Parco ad
adottare provvedimenti di demolizione e ripristino dello
stato dei luoghi, in quanto il potere di ordinanza si fonda
sulle specifiche finalità di tutela ambientale, poste a
fondamento della sua stessa istituzione, tramite l’esercizio
di un potere incardinato in virtù della legislazione statale
in materia naturalistico-ambientale (menzionata legge n.
394/1991) e finalizzato a proteggere le aree sottoposte a
vincolo da attività edilizia non conforme alla normativa” (Cons.
Stato, sez. II, 23.02.2015, n. 449).
Sussistevano
dunque i presupposti di fatto e di diritto per l’emanazione
dell’ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato
dei luoghi.
...
Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il
provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato
risultando il gravame privo di pregio (Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 27.08.2018 n. 2059 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Conseguenze che derivano dalla scadenza del piano di
lottizzazione.
Circa le conseguenze che derivano dalla
scadenza del piano di lottizzazione, senza che la sua
esecuzione abbia avuto luogo entro il termine di efficacia
decennale, la giurisprudenza ha da tempo evidenziato i
seguenti principi:
- il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché
decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento
attuativo perde efficacia;
- né è ipotizzabile l’ultrattività delle previsioni del
Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione
degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con
la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo
coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e
attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le
lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo
indeterminato la pianificazione urbanistica futura;
- è irrilevante, ai fini delle conseguenze
connesse alla scadenza del termine decennale di efficacia
del piano di lottizzazione, la circostanza che
l’impossibilità della mancata attuazione sia dovuta alla
pubblica amministrazione o al privato lottizzante;
- il termine di validità decennale del piano di
lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa
convenzione e ciò si ricollega “al fatto che, in via
normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue,
in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione…
deve tuttavia ritenersi che la circostanza della mancata
stipula della convenzione non possa ragionevolmente
costituire legittimo motivo per cui il piano di
lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia
perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di
cui all'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa
esclusivamente riferimento al "tempo, non maggiore di anni
dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato", sia perché deve comunque ritenersi
prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un
piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione
devono avere una determinata e certa durata temporale, con
conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine
di garantire l'adeguatezza e rispondenza di tali previsioni
agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di
validità del piano, con la conseguente e ragionevole
necessità che, dopo un certo periodo di tempo (10 anni), si
debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali
interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte
urbanistiche in questione”;
- inoltre, “il termine massimo di dieci anni di validità del
piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto
comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani
particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure
sull'accordo delle parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di formazione del
piano attuativo. Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto
accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti
dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità
massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di
pianificazione secondaria”;
- quindi, secondo la giurisprudenza
consolidata,
decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano di
lottizzazione questo diventa inefficace per la parte in cui
non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo
indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di
nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli
allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano
stesso, con la precisazione che da ciò discende che:
a) le
previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta
e dettagliata conformazione della proprietà privata, le
medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato
e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di
lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto
concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la
sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e
con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli
allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia
ultrattiva;
b) il termine di
efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione
delle previste opere di urbanizzazione che devono essere
realizzate entro tale termine; viceversa per la
realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano
applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi,
fermo restando che poiché, in generale, il termine di
efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di
lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno
richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta
che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata
rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato l'obbligo di
osservare nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e le
prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso;
c) le
conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano di
lottizzazione si esauriscono pertanto nell'ambito della sola
disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla
validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi;
- con riferimento all’ipotesi in cui l’amministrazione abbia rilasciato il titolo
edilizio dopo anni dalla maturata scadenza del termine di
durata del piano di lottizzazione e della relativa
convenzione, il Tribunale ha già chiarito che:
a) una volta
scaduto il termine di efficacia della convenzione, il Comune
non può in ogni caso ritenersi vincolato a riconoscere agli
esborsi sostenuti dallo stesso lottizzante per l’esecuzione
delle opere di urbanizzazione carattere integralmente
sostitutivo rispetto al contributo concessorio;
b) deve tenersi presente che le opere previste
dalla convenzione di lottizzazione sono strettamente
correlate alle esigenze di urbanizzazione dell'area, come
stimate al tempo della stipula della convenzione, e in
relazione al quadro complessivo della disciplina urbanistica
a quel tempo vigente, sicché decorso il termine decennale di
efficacia della lottizzazione convenzionata, si impone
unicamente, secondo i principi, e in assenza di una diversa
disciplina di dettaglio, il rispetto degli allineamenti e
delle prescrizioni di zona stabilite dal piano di
lottizzazione, in applicazione dell'articolo 17 della legge
n. 1150 del 1942;
c) non può ritenersi pregiudicata la potestà
dell'Amministrazione, una volta scaduta la convenzione
urbanistica, di riconsiderare il fabbisogno di opere di
urbanizzazione e di dare applicazione agli eventuali nuovi
importi stabiliti per la quantificazione del contributo concessorio;
d) “ne deriva che l'eventuale impegno del
Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione eseguite a
spese del lottizzante carattere integralmente satisfattivo
dell'obbligazione relativa al contributo concessorio non può
vincolare l'Ente oltre il termine di durata della
convenzione urbanistica”.
---------------
La scadenza dell’efficacia del piano di lottizzazione incide
sulla sola disciplina urbanistica, “non potendo invece
incidere sulla validità ed efficacia delle obbligazioni
assunte dai soggetti attuatori degli interventi”.
---------------
L’eventuale impegno del Comune a riconoscere alle opere di
urbanizzazione, eseguite a spese del lottizzante, un
carattere satisfattivo dell’obbligazione relativa al
pagamento del contributo concessorio, non può vincolare
l’Ente oltre il termine di durata della convenzione
urbanistica.
---------------
3) Il ricorso è infondato e deve essere respinto e ciò
consente di prescindere dall’esame delle eccezioni di rito
sollevate dall’amministrazione resistente.
Preliminarmente, va evidenziato che la domanda restitutoria
si situa nella giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materia urbanistica, afferendo a pretese
di natura patrimoniale aventi consistenza di diritto
soggettivo (cfr. tra le tante TAR Umbria Perugia, sez. I,
23.03.2016, n. 261).
Ne consegue che resta irrilevante la circostanza che
l’amministrazione abbia fondato la pretesa al pagamento e
alla ritenzione delle somme, da un lato, sull’incompletezza
delle opere di urbanizzazione alla data del rilascio del
permesso di costruire n. 3/2005, dall’altro, sulla scadenza
della convenzione e del piano di lottizzazione, atteso che
in entrambi i casi si tratta di eccezioni di merito, che
deducono diversi fatti impeditivi, ognuno dei quali di per
sé astrattamente idoneo ad escludere l’esistenza del diritto
alla restituzione azionato dalla ricorrente.
Ne deriva che la tesi della ricorrente, secondo la quale
l’amministrazione avrebbe in corso di causa modificato
inammissibilmente le ragioni sottese al rifiuto di
restituire le somme, è destituita di fondamento.
3.1) La fattispecie deve essere esaminata considerando, in
primo luogo, le conseguenze che derivano dalla scadenza del
piano di lottizzazione, senza che la sua esecuzione abbia
avuto luogo entro il termine di efficacia decennale, fatto
quest’ultimo emergente pacificamente dagli atti di causa.
In materia la giurisprudenza ha da tempo evidenziato i
seguenti principi, condivisi dal Tribunale:
- il Piano di lottizzazione ha durata decennale, di talché
decorso infruttuosamente il suddetto termine lo strumento
attuativo perde efficacia (Cons. Stato Sez. VI 20/1/2003 n.
200; Consiglio di Stato, sez. IV, 27/04/2015, n. 2109; idem
25/07/2001 n. 4073);
- né è ipotizzabile l’ultrattività delle previsioni del
Piano di lottizzazione decennale, in quanto la prosecuzione
degli effetti oltre il detto termine decennale confligge con
la finalità sottesa alla fissazione del termine de quo
coincidente con l'esigenza di assicurare effettività e
attualità alle previsioni urbanistiche, non potendo le
lottizzazioni convenzionate condizionare a tempo
indeterminato la pianificazione urbanistica futura (Cons.
Stato Sez. IV 29/11/2010 n. 8384; idem 13/04/2005 n. 1543);
- è irrilevante, ai fini delle conseguenze connesse alla
scadenza del termine decennale di efficacia del piano di
lottizzazione, la circostanza che l’impossibilità della
mancata attuazione sia dovuta alla pubblica amministrazione
o al privato lottizzante (Cons. Stato, Sez. IV, 10/08/2011 n.
4761);
- il termine di validità decennale del piano di
lottizzazione decorre dalla data di stipula della relativa
convenzione e ciò si ricollega “al fatto che, in via
normale, all’approvazione del piano di lottizzazione segue,
in tempi ragionevoli, la stipula della relativa convenzione…
deve tuttavia ritenersi che la circostanza della mancata
stipula della convenzione non possa ragionevolmente
costituire legittimo motivo per cui il piano di
lottizzazione abbia validità a tempo indeterminato, sia
perché a ciò osta il dato letterale della disposizione di
cui all'art. 16, quinto comma, della L. 17.08.1942 n.
1150 relativamente ai piani particolareggiati, che fa
esclusivamente riferimento al "tempo, non maggiore di anni
dieci, entro il quale il piano particolareggiato dovrà
essere attuato", sia perché deve comunque ritenersi
prevalente la ratio della norma per cui le previsioni di un
piano particolareggiato o di un piano di lottizzazione
devono avere una determinata e certa durata temporale, con
conseguente scadenza di validità del piano medesimo, al fine
di garantire l'adeguatezza e rispondenza di tali previsioni
agli interessi pubblici e privati riferiti al periodo di
validità del piano, con la conseguente e ragionevole
necessità che, dopo un certo periodo di tempo (10 anni), si
debba necessariamente procedere ad una rivalutazione di tali
interessi pubblici e privati coinvolti nelle scelte
urbanistiche in questione” (TAR Sardegna Cagliari, sez. II, 18.01.2018, n. 24);
- inoltre, “il termine massimo di dieci anni di validità del
piano di lottizzazione, stabilito dall'art. 16, quinto
comma, della L. 17.08.1942 n. 1150 per i piani
particolareggiati, non è suscettibile di deroga neppure
sull'accordo delle parti e decorre dalla data di
completamento del complesso procedimento di formazione del
piano attuativo (Cons. Stato, Sez. IV, 11.03.2003 n.
1315). Ciò in quanto la convenzione è per certo un atto
accessorio al Piano di lottizzazione, deputato alla
regolazione dei rapporti tra il soggetto esecutore delle
opere e il Comune con riferimento agli adempimenti derivanti
dal Piano medesimo, ma che non può incidere sulla validità
massima, prevista in legge, del sovrastante strumento di
pianificazione secondaria” (cfr. Consiglio di Stato n.
1574/2013);
- quindi, secondo la giurisprudenza consolidata (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920; Cons. Stato, Sez.
V, 30.04.2009, n. 2768; Sez. IV, 27.10.2009, n. 6572)
decorso il termine stabilito per l'esecuzione del piano di
lottizzazione, questo diventa inefficace per la parte in cui
non abbia avuto attuazione, rimanendo soltanto fermo a tempo
indeterminato l'obbligo di osservare, nella costruzione di
nuovi edifici e nella modificazione di quelli esistenti, gli
allineamenti e le prescrizioni di zona stabiliti dal piano
stesso, con la precisazione che da ciò discende che:
a) le
previsioni dello strumento attuativo comportano la concreta
e dettagliata conformazione della proprietà privata, le
medesime previsioni rimangono efficaci a tempo indeterminato
e, col decorso del termine (di dieci anni, per il piano di
lottizzazione), diventano inefficaci unicamente le
previsioni del piano attuativo che non abbiano avuto
concreta attuazione, nel senso che non è più consentita la
sua ulteriore esecuzione, salva la possibilità di ulteriori
costruzioni coerenti con le vigenti previsioni del p.r.g. e
con le prescrizioni del piano attuativo (anche sugli
allineamenti), che solo per questa parte ha efficacia
ultrattiva (Tar Abruzzo-L'Aquila, sez. I, 20/11/2014, n.
810; Cons. Stato, n. 2768 del 2009 e n. 6170 del 2007;
Campania, Salerno, n. 522 del 2014);
b) il termine di
efficacia di 10 anni deve intendersi riferito all’esecuzione
delle previste opere di urbanizzazione che devono essere
realizzate entro tale termine; viceversa per la
realizzazione delle costruzioni dei fabbricati trovano
applicazione i termini previsti nei relativi titoli edilizi,
fermo restando che poiché, in generale, il termine di
efficacia dei piani attuativi, compresi i piani di
lottizzazione, è di 10 anni, i titoli edilizi andranno
richiesti e ottenuti entro tale termine, dato che, una volta
che esso sia decorso, il piano decade per la parte rimasta inattuata rimanendo soltanto fermo a tempo indeterminato
l'obbligo di osservare nella costruzione di nuovi edifici e
nella modificazione di quelli esistenti gli allineamenti e
le prescrizioni di zona stabiliti dal piano stesso (cfr.
TAR Lazio Latina, sez. I, 26/04/2018, n. 226;
c) le
conseguenze della scadenza dell'efficacia del piano di
lottizzazione si esauriscono pertanto nell'ambito della sola
disciplina urbanistica, non potendo invece incidere sulla
validità ed efficacia delle obbligazioni assunte dai
soggetti attuatori degli interventi (cfr. in particolare,
TAR Lazio-Roma, sez. II, 01/04/2015, n. 4920);
- con riferimento all’ipotesi –ricorrente anche nel caso di
specie– in cui l’amministrazione abbia rilasciato il titolo
edilizio dopo anni dalla maturata scadenza del termine di
durata del piano di lottizzazione e della relativa
convenzione, il Tribunale (TAR Lombardia Milano, sez. II,
29.02.2016, n. 406) ha già chiarito che:
a) una volta
scaduto il termine di efficacia della convenzione, il Comune
non può in ogni caso ritenersi vincolato a riconoscere agli
esborsi sostenuti dallo stesso lottizzante per l’esecuzione
delle opere di urbanizzazione carattere integralmente
sostitutivo rispetto al contributo concessorio;
b) deve
tenersi presente che le opere previste dalla convenzione di
lottizzazione sono strettamente correlate alle esigenze di
urbanizzazione dell'area, come stimate al tempo della
stipula della convenzione, e in relazione al quadro
complessivo della disciplina urbanistica a quel tempo
vigente, sicché decorso il termine decennale di efficacia
della lottizzazione convenzionata, si impone unicamente,
secondo i principi, e in assenza di una diversa disciplina
di dettaglio, il rispetto degli allineamenti e delle
prescrizioni di zona stabilite dal piano di lottizzazione,
in applicazione dell'articolo 17 della legge n. 1150 del
1942 (già Cons. Stato, Sez. IV, 28.10.2009, n. 6661);
c) non può ritenersi pregiudicata la potestà
dell'Amministrazione, una volta scaduta la convenzione
urbanistica, di riconsiderare il fabbisogno di opere di
urbanizzazione e di dare applicazione agli eventuali nuovi
importi stabiliti per la quantificazione del contributo concessorio;
d) “ne deriva che l'eventuale impegno del
Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione eseguite a
spese del lottizzante carattere integralmente satisfattivo
dell'obbligazione relativa al contributo concessorio non può
vincolare l'Ente oltre il termine di durata della
convenzione urbanistica”.
3.2) Nel caso di specie, il piano di lottizzazione e la
relativa convenzione risalgono al 04.12.1990, sicché la
disciplina pianificatoria di secondo grado deve ritenersi
scaduta il 05.12.2000, in applicazione dei principi appena
richiamati.
Prima della scadenza non risulta che siano state richieste e
concesse proroghe per la sua attuazione.
Vero è che, con delibera del Consiglio comunale n. 6, in
data 24.01.2002, veniva approvata una variante di
completamento del piano di lottizzazione, ma ad essa non
seguiva la stipulazione della convenzione di lottizzazione,
sicché deve ritenersi che la variante non sia mai entrata in
vigore, come chiarito dalla citata giurisprudenza.
Allorché, in data 10.10.2007, l’amministrazione ha
rilasciato a Ve. il permesso di costruire n. 3/2005,
per la realizzazione dell’“Edificio produttivo Lotto n. 3”,
il piano di lottizzazione del 1990 era da tempo scaduto,
sicché non è ipotizzabile alcuno scomputo degli oneri
correlati a tale titolo edilizio in ragione delle previsioni
contenute nel piano di lottizzazione da anni inefficace.
Né il permesso del 2007 reca indicazioni o riferisce di
accordi in ordine alla previsione della realizzazione di
specifiche opere di urbanizzazione a scomputo degli oneri
correlati al particolare titolo.
Di conseguenza, deve ritenersi fondata la pretesa del Comune
di pagamento e di ritenzione degli oneri di urbanizzazione
relativi al permesso n. 3/2005, perché direttamente ed
autonomamente correlata al rilascio del permesso medesimo.
Del resto, nel 2008 il Comune ha accertato che le opere di
urbanizzazione previste dal piano del 1990 non erano state
completate e che quelle eseguite erano inidonee all’uso
previsto, perché ammalorate, tanto che per la loro
realizzazione sono stati rilasciati successivamente i
permessi 39/2008 e n. 23/2009.
Ne deriva che al tempo del pagamento degli oneri correlati
al permesso n. 3/2005, le opere di urbanizzazione, previste
dal piano scaduto, non erano neppure completate, sicché per
lo meno rispetto alla relativa prestazione di facere dedotta
in convenzione e garantita da fideiussione, si profila
astrattamente un inadempimento dei lottizzanti, i quali,
d’altronde, non hanno dedotto l’esistenza di fatti
oggettivamente impeditivi della realizzazione delle opere
stesse entro i termini previsti.
In concreto l’amministrazione non ha escusso le garanzie, ma
ha atteso il completamento delle opere, come risulta dalla
successiva determinazione n. 320 del 28.11.2016,
completamento alla cui esecuzione i lottizzanti erano ancora
obbligati, poiché, come evidenziato dalla citata
giurisprudenza, la scadenza dell’efficacia del piano di
lottizzazione incide sulla sola disciplina urbanistica, “non
potendo invece incidere sulla validità ed efficacia delle
obbligazioni assunte dai soggetti attuatori degli
interventi” (cfr. in particolare, TAR Lazio Roma, sez. II,
01/04/2015, n. 4920).
Con l’atto n. 320/2016, il Comune ha approvato il
certificato di collaudo definitivo “delle opere di
urbanizzazione del Piano di Lottizzazione di Via della
Concordia” del 1990, completate in virtù dei permessi di
costruire n. 39/2008 e n. 23/2009 ed ha assunto
determinazioni ai fini sia dello svincolo delle
fideiussioni, sia dell’acquisizione delle opere di
urbanizzazione eseguite.
Parte ricorrente sostiene che il completamento successivo
delle opere giustificherebbe comunque la pretesa
restitutoria, proprio in applicazione della convenzione del
1990.
Questa impostazione non può essere condivisa.
La convenzione del 1990 è scaduta nel 2000, sicché, come più
volte evidenziato, era inefficace al tempo di ultimazione
delle opere di urbanizzazione, pertanto la pretesa
restitutoria non può trovare fondamento nella disciplina
convenzionale accessiva al piano attuativo del 1990,
inefficace da anni rispetto al tempo del pagamento degli
oneri e del ritenuto completamento delle opere di
urbanizzazione.
Ciò trova conferma nei richiamati principi
giurisprudenziale, a mente dei quali le opere previste dalla
convenzione di lottizzazione sono strettamente correlate
alle esigenze di urbanizzazione dell’area, come stimate al
tempo della stipula della convenzione e in relazione al
quadro complessivo della disciplina urbanistica a quel tempo
vigente.
Ne deriva, come già detto, che l’eventuale impegno del
Comune a riconoscere alle opere di urbanizzazione, eseguite
a spese del lottizzante, un carattere satisfattivo
dell’obbligazione relativa al pagamento del contributo
concessorio, non può vincolare l’Ente oltre il termine di
durata della convenzione urbanistica (cfr. Tar Lombardia
Milano, sez. II, 29.02.2016, n. 406).
Ecco, allora, che anche la determinazione n. 320 del 28.11.2016 deve essere interpretata alla luce del suo
oggettivo contenuto e sulla base dei principi regolatori
della materia già richiamati.
Essa, seppure reca il collaudo delle opere eseguite e
seppure afferma di “dare esecuzione alla delibera di
Consiglio comunale n. 15 del 19.03.1990 di approvazione
del PL acquisendo le opere di urbanizzazione eseguite dai
lottizzanti in conformità alla convenzione urbanistica”, non
può ritenersi una conseguenza degli effetti del piano del
1990, perché ormai definitivamente scaduto.
Piuttosto, con tale provvedimento l’amministrazione ha
ritenuto sussistenti le condizioni per svincolare le
fideiussioni, evitandone l’incameramento, che pure avrebbe
potuto porre in essere, stante la mancata attuazione del
piano, compresa l’esecuzione delle opere di urbanizzazione,
entro il termine decennale.
La determinazione n. 320/2016 non assume giuridicamente, al
di là delle espressioni lessicali utilizzate, la veste di
atto posto all’esito della completa attuazione della
convenzione urbanistica del 1990, sia perché interviene a
piano scaduto ed inefficace da anni, sia perché non è dato
sapere se, al di là delle opere di urbanizzazione eseguite,
gli interventi di lottizzazione siano stati completati, sia
perché, infine, non risulta documentata l’esatta coincidenza
tra le opere collaudate e quelle oggetto del piano del 1990.
La sua funzione è solo quella di prendere atto
dell’ultimazione e del collaudo delle opere di
urbanizzazione concretamente eseguite, al fine di procedere
allo svincolo delle garanzie, mentre non integra
l’accertamento della corretta attuazione del piano di
lottizzazione del 1990, cui si correla, secondo la tesi
della ricorrente, la previsione dello scomputo degli oneri
di urbanizzazione.
In altri termini, per effetto di tale delibera non rivive la
previsione di piano che consentiva lo scomputo degli oneri a
fronte della realizzazione delle opere, perché tale
previsione è divenuta inefficace in via definitiva –stante
la mancanza di proroghe e di nuove convenzioni– per effetto
della scadenza del termine decennale di durata del piano del
1990.
Va, pertanto, ribadita l’infondatezza della pretesa
restitutoria fondata sull’asserita ultrattività della
convenzione urbanistica del 1990, perché tale convenzione ha
cessato i propri effetti alla scadenza del decennio
ordinario di durata e non è stata prorogata, fermo restando
che l’edificazione del Lotto n. 3 da parte di Ve. non
è correlata oggettivamente e temporalmente all’attuazione
della convenzione del 1990.
...
4) In definitiva, il ricorso è infondato e deve essere
respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 17.08.2018 n. 2001
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Con riferimento alla ristrutturazione edilizia
cd. ricostruttiva, l’unico limite ora previsto è quello
della identità di volumetria, rispetto al manufatto
demolito, salve le “innovazioni necessarie per l’adeguamento
alla normativa antisismica”, e ad eccezione degli immobili
sottoposti a vincolo ex d.lgs. n. 42/2004, per i quali è
altresì prescritto il rispetto della “medesima sagoma di
quello preesistente”.
Comunque, occorre osservare che il nuovo manufatto se può
sottrarsi ai limiti, precedentemente previsti, del rispetto
dell’area di sedime e della sagoma, non di meno anche in
tali casi è certamente tenuto al rispetto del limite delle
distanze dal confine e/o da altri fabbricati, nel rispetto
sia delle norme del codice civile sia di quelle previste dai
regolamenti edilizi e dalla pianificazione urbanistica.
In sostanza:
- nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una
ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con
coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio
perché “coincidente” per tali profili con il manufatto
preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle norme sulle
distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo di un
precedente manufatto che già non rispettava dette distanze
(e magari preesisteva anche alla stessa loro previsione
normativa). Ed infatti, “la disposizione dell’art. 9 n. 2
D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali
gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi) “costruiti
per la prima volta” e non già edifici preesistenti, per i
quali, in sede di ricostruzione, non avrebbe senso
prescrivere distanze diverse”;
- invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il
rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime,
come pure consentito dalle norme comunali, occorrerà
comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio
perché esso –quanto alla sua collocazione fisica–
rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare
–indipendentemente dalla sua qualificazione come
ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme
sulle distanze. Ed in questo senso depone altresì la stessa
pronuncia n. 237/2017 di questo Tar secondo cui, se non è in
discussione la possibilità di modificare la sagoma
preesistente nel caso di ristrutturazione, quando
l’intervento fuoriesce dall’originario contorno (orizzontale
o verticale) ne deve essere verificata la conformità ai
parametri fissati dalla normativa urbanistica.
---------------
4.4 Quanto alla dedotta inapplicabilità del regime delle
distanze rispetto al progettato intervento di
ristrutturazione edilizia, occorre precisare in quali casi
di ristrutturazione edilizia è richiesto comunque il
rispetto della normativa sulle distanze tra le costruzioni.
Con specifico riferimento alla successione di norme del
tempo (per la parte che rileva nella presente sede), occorre
ricordare che l’art. 3, co. 1, lett. d), nel suo testo
originario, prevedeva che fossero interventi di “ristrutturazione
edilizia”, quelli:
- “rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un
insieme sistematico di opere che possono portare ad un
organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e l'inserimento di nuovi
elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e successiva fedele
ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma,
volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a
quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica”.
Nel testo originario, erano presenti, due tipologie di
ristrutturazione edilizia, identiche quanto alla finale
realizzazione di un “organismo edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente”, ma distinte dalla
presenza (o meno) della demolizione (anche parziale) del
fabbricato preesistente. Quest’ultima, ove effettuata, per
poter rientrare nel campo della ristrutturazione edilizia (e
non già della nuova costruzione), doveva concludersi con la
“fedele ricostruzione di un fabbricato identico”, al
punto da avere identità di sagoma, volume, area di sedime e,
in generale, caratteristiche dei materiali.
Il successivo DPR 27.12.2002 n. 301 ha apportato alla
definizione (di cui all’art. 3) alcune modifiche, con il
risultato di affermare che, nel caso di demolizione e
ricostruzione, per potersi definire l’intervento quale “ristrutturazione
edilizia”, lo stesso doveva portare ad un manufatto “con
la stessa volumetria e sagoma di quello preesistente, fatte
salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla
normativa antisismica”.
Come è dato osservare, con il nuovo testo il legislatore ha
abbandonato sia lo specifico riferimento alla identità di
area di sedime e di caratteristiche dei materiali, sia il
più generale concetto di “fedele ricostruzione” (non
potendo quest’ultimo, a tutta evidenza, essere più ribadito
una volta che non sono più richieste le predette
caratteristiche).
Infine, il legislatore è nuovamente intervenuto sulla
disposizione in esame, in particolare con l'art. 30, comma
1, lett. a), d.l. 21.06.2013, n. 69, convertito dalla L.
09.08.2013, n. 98.
Attualmente, quindi, sono "interventi di ristrutturazione
edilizia" quelli rivolti a trasformare gli organismi
edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono
portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso
dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o
la sostituzione di alcuni elementi costitutivi
dell'edificio, l'eliminazione, la modifica e l'inserimento
di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito degli interventi
di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione e ricostruzione con la stessa
volumetria di quello preesistente, fatte salve le sole
innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa
antisismica nonché quelli volti al ripristino di edifici, o
parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso
la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza.
Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a
vincoli ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42 e
successive modificazioni, gli interventi di demolizione e
ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici
crollati o demoliti costituiscono interventi di
ristrutturazione edilizia soltanto ove sia rispettata la
medesima sagoma dell'edificio preesistente.
Come è dato osservare, con particolare riferimento alla
ristrutturazione edilizia cd. ricostruttiva, l’unico limite
ora previsto è quello della identità di volumetria, rispetto
al manufatto demolito, salve le “innovazioni necessarie
per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ad
eccezione degli immobili sottoposti a vincolo ex d.lgs. n.
42/2004, per i quali è altresì prescritto il rispetto della
“medesima sagoma di quello preesistente”.
Tanto precisato in ordine alla definizione di “ristrutturazione
edilizia”, occorre osservare che il nuovo manufatto, se
può sottrarsi ai limiti, precedentemente previsti, del
rispetto dell’area di sedime e della sagoma, non di meno
anche in tali casi è certamente tenuto al rispetto del
limite delle distanze dal confine e/o da altri fabbricati,
nel rispetto sia delle norme del codice civile sia di quelle
previste dai regolamenti edilizi e dalla pianificazione
urbanistica.
In sostanza:
- nel caso in cui il manufatto che costituisce il risultato di una
ristrutturazione edilizia venga comunque ricostruito con
coincidenza di area di sedime e di sagoma, esso –proprio
perché “coincidente” per tali profili con il
manufatto preesistente– potrà sottrarsi al rispetto delle
norme sulle distanze innanzi citate, in quanto sostitutivo
di un precedente manufatto che già non rispettava dette
distanze (e magari preesisteva anche alla stessa loro
previsione normativa). Ed infatti (Cons. Stato, sez. IV,
14.09.2017 n. 4337), “la disposizione dell’art. 9 n. 2
D.M. n. 1444 riguarda “nuovi edifici”, intendendosi per tali
gli edifici (o parti e/o sopraelevazioni di essi: Cons.
Stato, sez. IV, 04.08.2016 n. 3522) “costruiti per la prima
volta” e non già edifici preesistenti, per i quali, in sede
di ricostruzione, non avrebbe senso prescrivere distanze
diverse”;
- invece, nel caso in cui il manufatto venga ricostruito senza il
rispetto della sagoma preesistente e dell’area di sedime,
come pure consentito dalle norme innanzi indicate, occorrerà
comunque il rispetto delle distanze prescritte, proprio
perché esso –quanto alla sua collocazione fisica–
rappresenta un novum, come tale tenuto a rispettare
–indipendentemente dalla sua qualificazione come
ristrutturazione edilizia o nuova costruzione– le norme
sulle distanze. Ed in questo senso depone altresì la stessa
pronuncia n. 237/2017, richiamata in atti, di questo Tar
secondo cui, se non è in discussione la possibilità di
modificare la sagoma preesistente nel caso di
ristrutturazione, quando l’intervento fuoriesce
dall’originario contorno (orizzontale o verticale) ne deve
essere verificata la conformità ai parametri fissati dalla
normativa urbanistica.
Al fine della verifica del rispetto delle distanze, secondo
i principi innanzi enunciati, mentre non rileva che non vi
sia incremento di volumetria, ciò che rileva è che si
rispetti l’allineamento della preesistente copertura, e che
si sia inteso demolire e ricostruire quella preesistente
modificandone la sagoma in altezza, ed incrementando
l’ingombro volumetrico tramite innalzamento delle pareti
perimetrali.
Non può quindi sostenersi che nel caso di edificio situato
nella fascia di rispetto autostradale, devono intendersi
precluse solo quelle modifiche che comportano un
avvicinamento del fronte al tracciato viario, mentre sono
consentiti gli interventi rispettosi del "filo"
edilizio preesistente.
La tesi del ricorrente non può essere accolta in quanto urta
contro l'inequivoco disposto dell'art. 28 del d.p.r. n. 495
del 1992 il quale vieta l'ampliamento di edifici
preesistenti, che siano ubicati nella fascia di rispetto
dell'autostrada.
Trattandosi di norma assolutamente cogente, in quanto
finalizzata alla tutela del bene primario della sicurezza
del traffico, la ristrutturazione progettata dall'appellante
-comportando pacificamente una modificazione della sagoma di
un edificio che già è sito all'interno della fascia- non
poteva quindi essere in alcun modo autorizzata. Di qui
l’irrilevanza del motivo con cui si contesta l’assenza di
una specifica valutazione del pregiudizio alla circolazione
stradale connesso all’ampliamento contestato, stante la
natura assoluta del vincolo come sopra enunciata.
Alla luce di quanto esposto, prescindendosi dalla
qualificazione giuridica dell’opera, ed anche a voler
parlare di ristrutturazione edilizia, va ribadito che le
opere in edifici preesistenti costituenti modifiche di
sagoma, ampliamenti e sopraelevazioni siano soggette al
rispetto delle distanze legali (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 23.07.2018 n. 252 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
UTILITA' |
APPALTI: ORIENTAMENTI
IN MATERIA DI APPALTI PUBBLICI PER PROFESSIONISTI (UE,
febbraio 2018).
---------------
Il presente documento fornisce istruzioni su come evitare gli errori
spesso riscontrati negli appalti pubblici relativi a progetti cofinanziati
dai Fondi strutturali e d’investimento europei. L’obiettivo è agevolare
l’attuazione dei programmi operativi e incoraggiare l’adozione di buone
prassi. Il presente documento non fornisce indicazioni giuridicamente
vincolanti ma è finalizzato a fornire raccomandazioni generali e a
illustrare le migliori prassi.
I concetti, le idee e le soluzioni proposti nei presenti orientamenti non
pregiudicano la legislazione nazionale e dovrebbero essere intesi e possono
essere adeguati tenendo conto del quadro giuridico nazionale.
I presenti orientamenti non pregiudicano eventuali interpretazioni che la
Commissione possa dare in futuro rispetto a qualsiasi disposizione della
legislazione applicabile e non vincolano la Commissione europea.
Soltanto la Corte di giustizia dell’Unione europea è competente a fornire
un’interpretazione vincolante del diritto dell’Unione. |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
21.09.2018 n. 220 "Testo
del decreto-legge 25.07.2018, n. 91, coordinato con la legge di conversione
21.09.2018, n. 108, recante: «Proroga di termini previsti da
disposizioni legislative»".
---------------
Il Milleproroghe è legge.
Il decreto Milleproroghe (91/2018) è stato approvato dall'aula del Senato
con 151 voti a favore, 93 contrari e due astenuti. Il provvedimento, in
seconda lettura dopo la fiducia chiesta e ottenuta dal governo alla Camera,
non è stato modificato a palazzo Madama. Con la conclusione dell'esame,
quindi, è convertito in legge.
Vaccini, scuola, election day delle province,
misure per i risparmiatori e per il mercato di luce e gas tra le decine di
misure, proroghe tecniche per provvedimenti in scadenza ma anche alcune
scelte di taglio politico che hanno creato tensioni anche nella maggioranza
e portato ieri alla clamorosa rottura istituzionale con i sindaci dell'Anci
sul bando periferie (si veda altro articolo in pagina).
Restando agli enti
locali, le elezioni dei presidenti di provincia e dei consigli, il cui
mandato sia in scadenza, si svolgeranno in una unica tornata il 31.10.2018. Si prorogano dal 31.12.2018 al 30.06.2019 i termini entro i
quali diventa obbligatoria la gestione in forma associata delle funzioni
fondamentali dei piccoli comuni (fino a 5 mila abitanti o fino a 3 mila
abitanti se appartenenti a comunità montane).
Sarà poi istituito un tavolo tecnico-politico per la redazione di linee
guida per l'avvio di un percorso di revisione organica della disciplina in
materia di ordinamento delle province e città metropolitane
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 38 del 21.09.2018, "Sesto aggiornamento
2018 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni
paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto
D.G. 13.09.2018 n. 12950). |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
14.09.2018 n. 214, suppl. ord. 41, "Ruoli
del personale militare collocato in ausiliaria".
---------------
Militari in aiuto degli enti locali.
Nella p.a. il personale in ausiliaria della Difesa. In G.U. l’elenco dei 5
mila nominativi che potranno essere prestati a regioni e municipi.
Le pubbliche amministrazioni (nazionali e locali) potranno attingere al
personale della Difesa in ausiliaria, a costo zero, per sopperire ad
eventuali carenze di organico o alla necessità di figure professionali
altamente specializzate. Se per esempio un comune ha bisogno di un ingegnere
specializzato o di un informatico potrà contattare direttamente la direzione
del personale militare, chiedere se tra le Forze armate ci sono
professionisti in ausiliaria residenti presso il comune stesso e chiamarli
in supporto dell'amministrazione per cinque anni a costo zero, visto che il
professionista non sarà a libro paga del comune ma del ministero della
difesa.
Per le p.a. e gli enti locali si tratta di una chance sempre esistita ma mai
sufficientemente sfruttata che ora si concretizza grazie all'iniziativa del
ministro della difesa, Elisabetta Trenta di pubblicare in Gazzetta Ufficiale
l'elenco dei militari in ausiliaria presso cui gli enti pubblici potranno
attingere. L'elenco, che conta circa 5 mila nomi tra militari cessati in
modo permanente dal rapporto di impiego e altri al congedo in riserva, è
stato pubblicato sul Supplemento ordinario n. 41 alla Gazzetta Ufficiale n.
214 del 14.09.2018.
L'istituto dell'ausiliaria è un periodo transitorio durante il quale il
militare non più in servizio attivo per età o per altra causa può essere
destinato, in caso di bisogno, a speciali servizi ausiliari. Nel caso di
specie, i militari potranno essere richiamati dagli enti pubblici della
provincia di residenza per un periodo di cinque anni. Questo senza alcun
costo supplementare per la pubblica amministrazione, in quanto il militare
in ausiliaria continuerà ad essere pagato dal ministero della Difesa.
«Si tratta di uno strumento che è sempre esistito, ma che la Difesa, nei
governi che si sono susseguiti fino ad oggi, non ha mai saputo mettere a
disposizione dei comuni o delle regioni», ha sottolineato il ministro
Trenta.
«È un passo avanti verso il cambiamento per cui non chiediamo alcun
applauso», ha proseguito il ministro, «poiché non solo rientra nei doveri
del ministero che guido, ma soprattutto perché è coerente con quanto
avanzato dal M5S il 30.07.2015 attraverso l'interrogazione parlamentare
degli allora senatori Marton, Crimi e Santangelo.
Allora ci chiedevamo
perché questo strumento fosse disatteso. Oggi lo abbiamo messo finalmente a
sistema, andando a sostenere anche centinaia di comuni che, privi dei piani
di emergenza per pubbliche calamità, potranno dunque avvalersi di queste
pregiate professionalità» (articolo ItaliaOggi del 18.09.2018). |
ENTI LOCALI: G.U.
11.09.2018 n. 211 "Riforma dell’attuazione della direttiva (UE) 2016/2102
relativa all’accessibilità dei siti web e delle applicazioni mobili degli
enti pubblici" (D.Lgs.
10.08.2018 n. 106). |
APPALTI
SERVIZI: G.U.
10.09.2018 n. 210 "Disposizioni integrative e correttive al decreto
legislativo 03.07.2017, n. 117, recante: «Codice del Terzo settore, a norma
dell’articolo 1, comma 2, lettera b) , della legge 06.06.2016, n. 106»"
(D.Lgs.
03.08.2018 n. 105). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie avvisi e concorsi n. 36 n. 05.09.2018, "Direzione
generale Territorio e protezione civile - Avviso pubblico per l’acquisizione
di disponibilità al conferimento dell’incarico di esperto da nominare nella
«Commissione regionale in materia di opere o di costruzioni e relativa
vigilanza in zone sismiche»" (comunicato
regionale 30.08.2018 n. 124). |
ATTI AMMINISTRATIVI: G.U.
04.09.2018 n. 205 "Disposizioni per l’adeguamento della normativa
nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento
europeo e del Consiglio, del 27.04.2016, relativo alla protezione delle
persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla
libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE
(regolamento generale sulla protezione dei dati)" (D.Lgs.
10.08.2018 n. 101). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria 32 del 07.08.2018, "Integrazioni alle
disposizioni regionali concernenti l’attuazione del Piano di Gestione dei
Rischi di Alluvione (PGRA) nel settore urbanistico e di pianificazione
dell’emergenza, di cui alla d.g.r. 19.06.2017 – n. X/6738" (deliberazione
G.R. 02.08.2018 n. 470). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Applicazione dei principi della l.r. 12/2005 in materia di attrezzature per
i servizi religiosi
(Regione Lombardia,
nota 18.09.2018 n. 21624 di prot.). |
APPALTI: Oggetto:
Interpello ai sensi dell’articolo 9 del d.lgs. 23.04.2004, n. 124.
Applicazione dell’articolo 2 del decreto-legge 17.03.2017, n. 25, con
riguardo all’istituzione di metodi e procedure di controllo e di verifica
della regolarità complessiva degli appalti di servizi, individuate
all’interno di forme di contrattazione collettiva ai sensi dell’articolo 29,
comma 2, del decreto legislativo 10.09.2003, n. 276 e successive
modificazioni (Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali,
interpello 13.09.2018 n. 5/2018). |
PUBBLICO
IMPIEGO: OGGETTO:
Chiarimenti sull’assoggettabilità contributiva ai fini pensionistici e dei
trattamenti di fine servizio della voce retributiva “elemento perequativo”,
prevista nei CCNL dei dipendenti pubblici triennio 2016-2018
(INPS,
messaggio 30.08.2018 n. 3224 - link a www.inps.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO:
Rimborso delle spese sostenute dai Comuni per la corresponsione al personale
della polizia municipale dell’equo indennizzo e del rimborso delle spese di
degenza per causa di servizio
(Ministero dell'Interno,
nota 23.08.2018
n. 97420690584 di prot.). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Affidamento
incarichi legali da parte degli enti pubblici (Unione Nazionale
Avvocati Amministrativisti,
nota 23.08.2018 n. 14/2018 di prot.). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
INCARICHI PROFESSIONALI: Affidamento
dei servizi legali, il parere del Consiglio di Stato. Il Consiglio di Stato
sulle disposizioni applicabili agli appalti legali e sulle procedure per la
scelta della PA del professionista legale
(05.09.2018 - link a www.giurdanella.it). |
A.N.AC. |
APPALTI
SERVIZI: Richiesta
di parere al Consiglio di Stato sulla normativa applicabile agli affidamenti
di servizi sociali alla luce del d.lgs. 18/04/2016 n. 50 e del d.lgs.
03/07/2017 n. 117 (21.09.2018 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Linee
guida n. 4 - Procedure per l’affidamento dei contratti pubblici di importo
inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di mercato e
formazione e gestione degli elenchi di operatori economici -
Aggiornamento faq (12.09.2018
- link a www.anticorruzione.it).
---------------
Pubblicate le faq nn. 5 e 6, esplicative degli argomenti di cui ai
paragrafi 3.6, 3.7 e 5.1.10 delle linee guida n. 4 - Procedure per
l’affidamento dei contratti pubblici di importo inferiore alle soglie di
rilevanza comunitaria, indagini di mercato e formazione e gestione degli
elenchi di operatori economici.
---------------
Stazioni appaltanti: on-line
elenco concorrenti da invitare. Appalti, contraenti
a rotazione.
Il contraente uscente di un appalto non è legittimo che sia invitato ad una
procedura negoziata, anche in caso di estrazione per sorteggio; in caso di
esiguo numero di concorrenti operanti sul mercato legittimo non fare
riferimento agli elenchi ma occorre comunque effettuare una indagine di
mercato con avviso o ricorso ad elenchi di altre stazioni appaltanti.
E' quanto ha chiarito l'Anac con la pubblicazione, avvenuta il 12 settembre,
delle Faq numero 5 e 6 esplicative sulle linee guida n. 4 sugli affidamenti
sotto-soglia Ue, indagini di mercato e formazione e gestione degli elenchi
di operatori economici.
Il primo punto esaminato dall'Anac riguarda il sorteggio e il fatto che fra
i sorteggiati possa capitare il contraente uscente. La materia è trattata
nell'ambito della disciplina applicativa del principio di rotazione. Il
principio di rotazione degli affidamenti e degli inviti si applica, ha detto
l'Anac nelle linee guida, «con riferimento all'affidamento immediatamente
precedente a quello di cui si tratti, nei casi in cui i due affidamenti,
quello precedente e quello attuale, abbiano ad oggetto una commessa
rientrante nello stesso settore merceologico, ovvero nella stessa categoria
di opere, ovvero ancora nello stesso settore di servizi».
Rimane invece «eccezionale» e deve essere adeguatamente motivato con
riguardo a determinate fattispecie di particolare specialità e
eccezionalità, il re-invito del contraente uscente. Ciò premesso nelle Faq,
l'Autorità si pone il problema se sia legittimo nelle procedure negoziate
invitare di nuovo l'operatore uscente che abbia manifestato interesse alla
candidatura a seguito di avviso pubblico e sia stato poi estratto tramite
sorteggio con estrazione casuale. A tale quesito viene però data risposta
negativa: «il meccanismo dell'estrazione casuale, sia pure a seguito di
avviso pubblico, non assicura il rispetto del principio di rotazione, come
declinato all'articolo 36, primo comma del codice dei contratti pubblici,
novellato dal decreto legislativo 19.04.2017, n. 56. Tale disposizione
rende doverosa la rotazione tanto in relazione agli affidamenti quanto agli
inviti».
Un secondo punto chiarito nelle Faq pubblicate nei giorni scorsi attiene
alla pubblicazione degli elenchi degli operatori economici utilizzati per la
selezione degli operatori economici da invitare alle procedure negoziate. Le
linee guida prevedono che vengano pubblicati sul sito web della stazione
appaltante, non appena costituiti.
La fattispecie esaminata e sulla quale si
esprime l'Anac attiene alla legittimità della previsione di un bando in cui
si omette la pubblicazione dell'elenco nel presupposto che, per le
condizioni del mercato locale, sia prevedibile che un ridotto numero di
operatori economici faccia domanda di iscrizione. Richiamato lo scopo della
previsione (rispetto dei generali principi di pubblicità e trasparenza dei
procedimenti di selezione del contraente), l'Anac però nota anche che «nelle
ipotesi in cui gli operatori economici accreditati presso la stazione
appaltante procedente siano esigui in relazione al settore merceologico di
riferimento, la pubblicazione preventiva degli elenchi potrebbe favorire
l'insorgenza di accordi collusivi».
Inoltre, ha detto l'Anac, non è legittimo segretare i nominativi dei
partecipanti nel caso in cui si preveda un ridotto numero di operatori
economici interessati all'iscrizione all'elenco. L'Anac ha suggerito
pertanto di fare ricorso non agli elenchi «ma a successive indagini di
mercato, mediante avviso pubblicato sul sito web, o alla costituzione di
elenchi di operatori economici congiuntamente con altre stazioni appaltanti
che hanno analoghi fabbisogni da soddisfare in modo da aumentare il numero
di operatori economici potenzialmente interessati a essere iscritti» (articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
APPALTI: Affidamenti
sottosoglia, il sorteggio degli operatori non garantisce la rotazione.
L'estrazione casuale da un elenco di operatori economici non assicura il
rispetto del principio di rotazione, che, per essere derogato, deve essere
sempre sostenuto da un'articolata motivazione.
L'Autorità nazionale anticorruzione ha pubblicato le
nuove Faq n. 5 e
6
nella sezione dedicata a risolvere i dubbi interpretativi sull'applicazione
delle linee guida n. 4 alle procedure per affidamenti sottosoglia.
Il sorteggio con estrazione casuale
Il primo elemento analizzato riguarda un quesito sulla legittimità del
reinvito nelle procedure previste dall'articolo 36 del codice all'operatore
uscente, che abbia manifestato interesse alla candidatura a seguito di
avviso pubblico e sia stato poi estratto tramite sorteggio con estrazione
casuale.
L'Anac, richiamando il paragrafo 3.7 delle linee guida n. 4, chiarisce che
il reinvito all'operatore uscente costituisce ipotesi di stretta
eccezionalità, ammissibile solo se ci sono condizioni di mercato
particolari, se l'operatore economico ha svolto bene il suo precedente
appalto e se lo stesso risulta comunque con prezzi convenienti.
Secondo l'Autorità, il meccanismo dell'estrazione casuale, sia pure a
seguito di avviso pubblico, non assicura il rispetto del principio di
rotazione, come declinato all'articolo 36, primo comma del codice dei
contratti pubblici, in quanto la disposizione rende doverosa la rotazione
tanto in relazione agli affidamenti che agli inviti.
Principi di pubblicità e trasparenza
Il secondo tema preso in esame riguarda gli elenchi di operatori economici
costituiti dalle stazioni appaltanti rispetto ai quali un'amministrazione
chiede se è legittimo prevedere nell'avviso l'omissione della loro
pubblicazione, nei casi in cui, per le condizioni del mercato locale, sia
prevedibile che un ridotto numero di operatori economici faccia domanda di
iscrizione. L'Anac evidenzia come la disposizione del paragrafo 5.1.10 delle
linee guida n. 4 sia finalizzata ad attuare il rispetto dei generali
principi di pubblicità e trasparenza dei procedimenti di selezione del
contraente, in armonia con quanto stabilito dal Dlgs 33/2013 e dall'articolo
29 del Dlgs 50/2016.
L'autorità riconosce che, nelle ipotesi in cui gli operatori economici
accreditati presso la stazione appaltante procedente siano esigui in
relazione al settore merceologico di riferimento, la pubblicazione
preventiva degli elenchi potrebbe favorire l'insorgenza di accordi
collusivi. Essa, tuttavia, chiarisce che nel caso in cui la stazione
appaltante preveda un ridotto numero di operatori economici interessati
all'iscrizione all'elenco non è corretto prevedere nel bando la segretazione
del nominativo dei partecipanti.
In tali casi l'Anac suggerisce di fare ricorso non agli elenchi, ma a
successive indagini di mercato, mediante avviso pubblicato sul sito web, o
alla costituzione di elenchi di operatori economici congiuntamente con altre
stazioni appaltanti che hanno analoghi fabbisogni da soddisfare in modo da
aumentare il numero di operatori economici potenzialmente interessati ad
essere iscritti.
La presenza di un numero ridotto di operatori accreditati, infatti, può
rappresentare, a prescindere dalla pubblicazione dell'elenco, un fattore di
criticità nella gestione delle procedure negoziate, specie ove si consideri
che gli elenchi hanno una naturale vocazione all'utilizzo in un arco
pluriennale di tempo e che, pertanto, i nominativi degli iscritti potrebbero
essere noti anche in assenza della stessa pubblicazione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 14.09.2018). |
APPALTI: Bando-tipo
n. 1 - Disciplinare di gara a procedura aperta per l’affidamento di
contratti pubblici di servizi e forniture nei settori ordinari sopra soglia
comunitaria con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa
sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo – Chiarimento
(delibera
05.09.2018 n. 767 - link a www.anticorruzione.it). |
PUBBLICO
IMPIEGO: Indicazioni
per la miglior gestione delle segnalazioni di illeciti o irregolarità
effettuate dai dipendenti pubblici nell’interesse dell’integrità della
pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 54-bis,del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165 (c.d. whistleblowers) (Comunicato
del Presidente del 05.09.2018 - link a www.anticorruzione.it). |
APPALTI: Imprese aggregate, serve delegato al sopralluogo.
Deliberazione
dell’Anac sull’obbligo inserito in un bando.
In caso di raggruppamento non costituito tutte le imprese devono delegare
uno dei soggetti raggruppati o un soggetto esterno a effettuare il
sopralluogo.
È quanto ha stabilito l'Anac con
il
Parere di Precontenzioso 31.07.2018 n. 714 - rif. PREC 115/18/L su una vicenda relativa a una fattispecie in cui un
concorrente era stato escluso dalla procedura di gara per aver effettuato il
sopralluogo obbligatorio esclusivamente in nome proprio e non anche in nome
e per conto della mandante.
Il concorrente che ha chiesto all'Anac il
pronunciamento sosteneva che il disciplinare di gara stabiliva soltanto
l'obbligo per ciascun partecipante, pena l'esclusione, di effettuare il
sopralluogo, senza ulteriori specificazioni per il caso di raggruppamenti di
concorrenti.
L'esclusione sarebbe stata quindi illegittima in quanto contraria all'art.
83, comma 8, del dlgs 50/2016 e al principio del favor partecipationis che
impone, in presenza di clausole del bando non chiare, un'interpretazione non
restrittiva, che avrebbe dovuto condurre a ritenere sufficiente, ai fini
dell'ammissione alla gara, la produzione dell'attestazione di sopralluogo a
nome della sola impresa mandataria.
Nel parere l'Anac, dopo avere evidenziato che l'obbligo di sopralluogo
inserito negli atti di gara riguardava un'attività strumentale necessaria a
consentire alle imprese partecipanti di valutare la prestazione richiesta e
di formulare un'offerta seria, attendibile e consapevole, ha chiarito che le
prescrizioni contenute nel disciplinare di gara apparivano chiare e puntuali
nello stabilire gli oneri relativi al sopralluogo in caso di raggruppamento
temporaneo non ancora costituito. Pertanto non si potevano richiamare i
precedenti, pure esistenti, riferiti a casi nei quali le prescrizioni del
bando erano lacunose o non chiare.
In particolare, il disciplinare prevedeva che il sopralluogo poteva «essere
effettuato da uno degli operatori economici raggruppati, aggregati in rete o
consorziati, purché munito delle deleghe di tutti i suddetti operatori» e
che «i soggetti che effettueranno il sopralluogo in rappresentanza di
raggruppamento temporaneo, Geie, aggregazione di imprese di rete o consorzio
ordinario, sia già costituiti che non ancora costituiti, dovranno essere
muniti delle deleghe di tutti i componenti redatte su carta intestata delle
aziende medesime e sottoscritte con timbro e firma in originale dai
rispettivi legali rappresentanti».
Ciò premesso, il parere ha affermato che la giurisprudenza ha più volte
chiarito che l'obbligo di eseguire il sopralluogo non può che riferirsi a
ciascun soggetto che costituirà il raggruppamento temporaneo di concorrenti
e l'attestato di sopralluogo, la cui mancanza determina l'esclusione dalla
gara, deve riferirsi a tutte le imprese partecipanti. Nel caso degli Rti
costituendi in particolare, poiché il raggruppamento giuridicamente ancora
non esiste, non essendo stato costituito, è necessario che ciascuna ditta
sottoscriva le offerte e i documenti che ne fanno parte.
Tale impostazione è
stata ribadita dall'Autorità con il Bando-tipo n. 1 e n. 2 dove si prevede
che, in caso di Rti costituendo, il sopralluogo può essere effettuato da un
rappresentante di uno dei soggetti raggruppati o da soggetto diverso, purché
munito della delega di tutti detti operatori, cosa non avvenuta nel caso
specifico che può essere oggetto di soccorso istruttorio per sanare le
attestazioni di sopralluogo irregolari
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018). |
QUESITI & PARERI |
ATTI AMMINISTRATIVI:
La firma digitale.
DOMANDA:
In attesa della firma digitale per tutti i cittadini si pensava di
utilizzare la firma crittografica per la sottoscrizione di scritture
private, quali ad esempio le concessioni cimiteriali o le concessioni di
occupazione suolo pubblico (solo per citarne alcuni. In particolare,
premesso che abbiamo installato un dispositivo di firma Wacon, chiedo di
conoscere: Avremmo, però, la necessità di sciogliere alcuni dubbi prima di
procedere fattivamente:
1) Prima dell’acquisizione delle eventuali firme autografe da parte
dei cittadini l’ente si trova nella necessità di dover informare in forma
scritta i futuri sottoscrittori e di acquisirne un’autorizzazione
sottoscritta per la gestione a norma Privacy? Come avviene per gli istituti
di credito? A questo punto però, se così fosse, non avrebbe senso
digitalizzare con conseguente duplicazione di atti e adempimenti, tenuto
conto che per la maggior parte, chi sottoscrive concessioni cimiteriali lo
fa una volta per trent’anni?
2) Un documento può essere sottoscritto in parte con firma
crittografica (cioè l'utente non ancora in possesso di firma digitale) e
firma digitale (responsabile del servizio in possesso di firma digitale)?
RISPOSTA:
Il quesito in oggetto riguarda la firma crittografica. In particolare, dato
che non tutti i cittadini sono in possesso della firma digitale, il Comune
intende utilizzare la firma crittografica per la sottoscrizione di scritture
private, ad esempio quelle relative alle concessioni cimiteriali o alle
concessioni di occupazione suolo pubblico, e, a tal fine, ha installato un
dispositivo di firma Wacon.
La questione principale sottesa al quesito è se, prima dell’acquisizione di
eventuali firme, l’ente debba informare per iscritto i futuri sottoscrittori
e acquisirne un’autorizzazione nel rispetto della normativa sulla privacy e
se, in tal caso, non abbia più senso digitalizzare la procedura.
In effetti, pur essendo necessaria la c.d. verifica preliminare
all’apposizione della sottoscrizione per motivi di privacy, non sembra abbia
senso, almeno per il momento, digitalizzare le procedure che avete riportato
come esempi dell’ambito di utilizzo della firma crittografica. Visto il
ridotto numero di soggetti coinvolti nelle suddette procedure e la
sporadicità delle stesse, infatti, è probabile che la digitalizzazione
comporterebbe una complicazione e non un efficientamento per
l’amministrazione.
Resta ferma la necessità per il Comune, in generale, di adeguarsi agli
obblighi derivanti dalla normativa in tema di digitalizzazione. Una volta
provveduto alla nomina del Responsabile per la gestione documentale e
all’adozione di un Manuale per la gestione documentale, si tratterà di
individuare quali siano i documenti e i procedimenti da digitalizzare (e con
quali modalità) e quali siano destinati, almeno in una prima fase, a
rimanere cartacei.
Con riguardo alla seconda questione, ossia se un documento possa essere
sottoscritto in parte con firma crittografica (cioè l'utente non in possesso
di firma digitale) e in parte con firma digitale (responsabile del servizio
in possesso di firma digitale), la risposta è positiva derivando l’efficacia
giuridica di un documento dalla validità della sua firma, in qualunque modo
essa sia apposta.
Con riferimento alla tipologia di firma, bisognerà verificare -in concreto-
la tipologia di atto da sottoscrivere per verificare se sia sufficiente
quella che viene definita firma crittografica (senza specificare se sia una
firma elettronica semplice o avanzata) oppure sia necessaria la firma
digitale (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI FORNITURE:
Gli acquisti.
DOMANDA:
Dalle tabelle consip emerge che per gli acquisti informatici degli enti
locali è possibile utilizzare il Mepa (strumenti di acquisto.. messi a
disposizione da Consip ecc.). Si chiede se sia sufficiente procedere con rdo
o gara secondo gli importi sul Mepa.
Per quanto riguarda le convenzioni Consip su prodotti diversi da forniture
specifiche (carburanti, energia ecc) ad esempio efficientamento pubblica
illuminazione si chiede se sia possibile aderire con eventuale
personalizzazione senza procedere a nuova gara.
RISPOSTA:
- Va ricordato che sul Mercato Elettronico della PA (MEPA) le
Amministrazioni possono acquistare beni o servizi di valore inferiore alla
soglia comunitaria tramite due alternativi canali d’acquisto e cioè o
tramite Ordini Diretti d’Acquisto (ODA) o tramite Richieste di Offerta (RDO);
- Con gli ODA, l’Amministrazione acquista il bene/servizio
direttamente dal Catalogo del fornitore abilitato, compilando e firmando
digitalmente l’apposito modulo d’ordine presente sul Portale;
- Se procede con l’Ordine Diretto questo ha l’efficacia di
accettazione dell’offerta contenuta nel Catalogo del fornitore, e quindi il
contratto di fornitura si perfeziona nel momento in cui l’Ordine viene
ricevuto e registrato nel sistema dall’Amministrazione;
- La trattativa diretta si configura in sostanza come una modalità
di negoziazione, semplificata rispetto alla tradizionale RDO, rivolta ad un
unico operatore economico;
- Tale trattativa può essere peraltro avviata da un’offerta a
catalogo o da un oggetto generico di fornitura (metaprodotto) presente nella
vetrina della specifica iniziativa merceologica;
- Quindi non sussistendo l’esigenza di garantire pluralità di
partecipazione, tale sistema non presenta le usuali e tipiche richieste di
informative (criterio di aggiudicazione, parametri di peso/punteggio, invito
dei fornitori, gestione dei chiarimenti, gestione delle Buste di Offerta,
fasi di aggiudicazione), essendo indirizzata ad un unico Fornitore (dal
punto di vista normativo il fondamento va individuato nella disciplina
dell’affidamento diretto, con procedura negoziata di cui ai sensi dell’art.
36, comma 2, lettera A), del codice dei contratti pubblici e della procedura
negoziata senza previa pubblicazione del bando, con un solo operatore
economico, di cui all’art. 63 d.lgs. 50/2016 (per importi fino al limite
della soglia comunitaria nel caso di beni e servizi, per importi fino a 1
milione di € nel caso di lavori di manutenzione);
- Con le Richieste d’Offerta (RDO), invece, l’Amministrazione
individua e descrive i beni/servizi che intende acquistare, invitando i
fornitori abilitati a presentare le specifiche offerte che saranno oggetto
di confronto concorrenziale;
- Il sistema predispone automaticamente una graduatoria delle
offerte ricevute sulla base dei criteri di valutazione scelti
dall'Amministrazione appaltante, che aggiudicherà la fornitura all'offerta
risultata prima in graduatoria (in particolare ai sensi dell’art. 52 delle
Regole di E-procurement della PA (disponibili sul Portale
www.acquistinretepa.it), il Contratto di fornitura che segue ad una RDO si
intende validamente perfezionato nel momento in cui il Documento di
Accettazione dell’Offerta, sottoscritto digitalmente, risulta caricato a
sistema dall’ente aggiudicatore;
- Per quanto attiene all'altra problematica posta relativa all'efficientamento
del servizio di pubblica illuminazione si rileva che, come osservato dall'ANAC,
con il Comunicato del Presidente del 14.12.2016, trattasi di un servizio
pubblico locale avente rilevanza economica ed il cui affidamento, come tale,
risulta assoggettato alla disciplina comunitaria, mediante procedure ad
evidenza pubblica (cd. esternalizzazione), attraverso l’appalto di lavori
e/o servizi, la concessione di servizi con la componente lavori, il project
financing ovvero il finanziamento tramite terzi (FTT);
- Resta salvo l’affidamento ad una società mista pubblico-privata,
nonché l’affidamento diretto a società a totale capitale pubblico
corrispondente al modello cd. in house providing;
- Inoltre, la scelta sulla gestione del servizio di pubblica
illuminazione deve essere preceduta dalla pubblicazione della relazione di
cui all’art. 34, comma 20, del D.L. 179/2012, da cui risultino le ragioni
della sussistenza dei requisiti previsti dall’ordinamento europeo per la
forma di affidamento prescelta” (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
APPALTI: Comunicazioni
ex art 76 e procedure telematiche.
Domanda
Nel caso di gare mediante piattaforme telematiche è possibile utilizzare le
aree specifiche dei sistemi stessi anche per le comunicazioni di
aggiudicazione ai sensi dell’art. 76, comma 5, del Codice?
Risposta
L’art. 76, co. 5, lett. a) del codice stabilisce che “Le stazioni
appaltanti comunicano d’ufficio immediatamente e comunque entro un termine
non superiore a cinque giorni:
a) l’aggiudicazione, all’aggiudicatario, al concorrente che segue
nella graduatoria, a tutti i candidati [rectius: a tutti gli offerenti] che
hanno presentato un’offerta ammessa in gara, a coloro la cui candidatura o
offerta siano state escluse se hanno proposto impugnazione avverso
l’esclusione o sono in termini per presentare impugnazione, nonché a coloro
che hanno impugnato il bando o la lettera di invito, se tali impugnazioni
non siano state respinte con pronuncia giurisdizionale definitiva;
b) […]”.
Al comma 6, si precisa “Le comunicazioni di cui al comma 5 sono fatte
mediante posta elettronica certificata o strumento analogo negli altri Stati
membri. Le comunicazioni di cui al comma 5, lettere a) e b), indicano la
data di scadenza del termine dilatorio per la stipulazione del contratto”.
Si ritiene che al fine di utilizzare le corrispondenti aree dedicate alle
comunicazioni delle piattaforme telematiche, sia opportuno specificarlo nel
disciplinare di gara o lettera d’invito, ovvero prevedere espressamente che
attraverso il sistema telematico verranno gestite tutte le fasi della
procedura, tra cui le comunicazioni e gli scambi di informazioni, comprese
le comunicazioni di esclusione e quelle di cui all’art. 76 del d.lgs.
50/2016, da rendersi, appunto, attraverso l’apposita area dello strumento
telematico utilizzato. Analoga dichiarazione dovrà essere richiesta
all’operatore in sede di affidamento, integrando opportunamente i modelli di
gara.
Si suggerisce, tuttavia, nel caso di procedure di importo elevato, ferma
restando la validità di tale forma (cfr. sentenza TAR Lazio, Roma, sez. II
19.07.2018), di effettuare la comunicazione di aggiudicazione di cui
all’art. 76, comma 5, del codice anche a mezzo PEC, al fine di
cristallizzare la decorrenza dei termini per la presentazione del ricorso
(26.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
RPCT e valutazione conflitto d’interessi.
Domanda
È pervenuta agli uffici del responsabile della prevenzione della corruzione
e della trasparenza la comunicazione di un dipendente –responsabile di
procedimento– che, dichiarando di trovarsi in una situazione di conflitto di
interessi, chiede se debba proseguire nella sua attività istruttoria.
Spetta al RPCT esprimersi sulla richiesta?
Risposta
In virtù del nuovo art. 6-bis, della legge 07.08.990, n. 241, così come
introdotto dalla legge 06.11.2012, n. 190, i dipendenti pubblici, ai quali è
attribuita la responsabilità di procedimento o la titolarità di uffici
competenti ad adottare pareri, valutazioni tecniche, atti endoprocedimentali
e provvedimenti finali devono astenersi in caso di conflitto di interessi,
segnalando ogni situazione di conflitto, anche potenziale.
Il principio generale trova ulteriore dettaglio nelle disposizioni del
Codice di comportamento nazionale, DPR 16.04.2013, n. 62, laddove, all’art.
7 è specificato che “il dipendente si astiene dal partecipare
all’adozione di decisioni o ad attività che possano coinvolgere interessi
propri, ovvero di suoi parenti, affini entro il secondo grado, del coniuge o
di conviventi, oppure di persone con le quali abbia rapporti di
frequentazione abituale, ovvero, di soggetti od organizzazioni con cui egli
o il coniuge abbia causa pendente o grave inimicizia o rapporti di credito o
debito significativi, ovvero di soggetti od organizzazioni di cui sia
tutore, curatore, procuratore o agente, ovvero di enti, associazioni anche
non riconosciute, comitati, società o stabilimenti di cui sia amministratore
o gerente o dirigente. Il dipendente si astiene in ogni altro caso in cui
esistano gravi ragioni di convenienza. Sull’astensione decide il
responsabile dell’ufficio di appartenenza”.
La segnalazione del conflitto deve, quindi, essere indirizzata al dirigente
(è consigliabile via e-mail), il quale, esaminate le circostanze, valuta se
la situazione realizza un conflitto di interesse idoneo a ledere
l’imparzialità dell’agire amministrativo. Il dirigente destinatario della
segnalazione deve valutare espressamente la situazione sottoposta alla sua
attenzione e deve rispondere per iscritto al dipendente medesimo,
sollevandolo dall’incarico oppure motivando espressamente le ragioni che
consentono, comunque, l’espletamento dell’attività da parte del dipendente.
La violazione delle disposizioni, che si realizza con il compimento di un
atto illegittimo, dà luogo –come disposto dal DPR 62/2013– a responsabilità
disciplinare del dipendente, suscettibile di essere punita con l’irrogazione
di sanzioni all’esito del relativo procedimento, oltre a costituire fonte di
illegittimità del procedimento e del provvedimento conclusivo dello stesso.
Il quadro normativo è pertanto chiaro: il Responsabile della prevenzione
della corruzione della trasparenza non ha alcun compito specifico
nell’ambito della procedura di verifica di eventuali situazioni di conflitto
di interesse che possano interessare dipendenti dell’Ente, sempre che il
Codice di comportamento interno dell’Ente non preveda diversamente. Ogni
pubblica amministrazione infatti, nell’adottare gli atti integrativi al
Codice nazionale di comportamento, potrebbe aver previsto procedure
specifiche a cui sarebbe pertanto necessario conformarsi.
Alla luce di quanto sopra illustrato, si ritiene che il RPCT debba inoltrare
la richiesta al dirigente di riferimento, competente ad esprimersi
sull’ipotetico conflitto di interesse, auspicando, ad ogni modo, una piena
collaborazione dello stesso nella risoluzione della questione sottoposta.
La valutazione del caso concreto, e la seguente risposta al dipendente,
spetterà, invece allo stesso RPCT, incarico “di norma” rivestito dal
Segretario Generale, nei casi in cui:
1. la comunicazione pervenga da un titolare di posizione
organizzativa, negli Enti privi di dirigenza;
2. la comunicazione pervenga da un dirigente, sempre che la
funzione non sia non sia attribuita espressamente, all’interno del codice di
Comportamento dell’Ente, al dirigente sovraordinato o al Direttore Generale,
ove esistente;
3. la comunicazione pervenga da un dirigente apicale o dal
Direttore Generale
(25.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
TRIBUTI: Notifiche
avvisi accertamento PEC.
Domanda
È possibile effettuare, da parte dell’ufficio tributi, la notifica degli
avvisi di accertamento a mezzo posta elettronica certificata (PEC)?
Risposta
Occorre premettere che nel nostro ordinamento giuridico ci sono diverse
disposizioni che consentono di effettuare la notifica a mezzo posta
elettronica certificata (PEC).
La prima, di carattere generale, è contenuta nel codice di procedura civile.
Si tratta dell’art. 149-bis del c.p.c. (disposizione introdotta nel 2010)
che consente di effettuare la notifica a mezzo PEC, ma impone l’utilizzo
dell’agente notificatore, quindi l’ufficio non può procedere direttamente
nei confronti del contribuente.
La seconda, di carattere settoriale, è contenuta nell’art. 26 del Dpr
602/1973 e riguarda la notifica a mezzo PEC o con raccomandata AR della
cartella di pagamento (la c.d. cartella esattoriale emessa da Equitalia, ora
Agenzia delle Entrate-Riscossione).
Una terza disposizione, anch’essa di carattere settoriale, riguarda la
notifica a mezzo PEC dei verbali al codice della strada ed è contenuta
nell’art. 20 del d.l. 69/2013 conv. L. 98/2013, la cui attuazione è rimessa
ad un decreto ministeriale, adottato solo recentemente (si veda il DM
Interno del 20/2/2018).
Per quanto riguarda i tributi locali, il comma 161 della legge n. 296/2006
consente di effettuare la notifica degli avvisi di accertamento “anche a
mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento”. E’ quindi
possibile notificare gli avvisi di accertamento dei tributi comunali con
semplice raccomandata a.r. (busta bianca), in alternativa alla notifica a
mezzo posta prevista per gli atti giudiziari (ex legge 20/11/1982 n. 890)
effettuata con la busta verde.
Per quanto riguarda la notifica degli avvisi di accertamento a mezzo PEC,
inizialmente la giurisprudenza si è mostrata piuttosto oscillante, in parte
contraria (cfr. CTP di Milano n. 6087/2014), in parte favorevole (cfr. CTP
Matera n. 447/2015, CTP Bergamo n. 16672016).
Poi nel 2016 è stata introdotta una disposizione che consente di effettuare
la notifica degli atti tributari a mezzo PEC, a partire dal 01.07.2017. Si
tratta dell’art. 7-quater commi da 6 a 8 del D.L. 193/2016 conv. L.
225/2016, norma tuttavia non riferita espressamente ai tributi locali
trattandosi di un’integrazione all’art. 60 del DPR 600/1973, riguardante la
notifica degli atti di accertamento delle imposte sui redditi. Risulta
quindi dubbia la possibilità di effettuare la notifica a mezzo PEC per gli
avvisi di accertamento dei tributi locali.
La questione è stata recentemente risolta dal d.lgs. n. 217 del 13/12/2017
(art. 7, comma 1-quater), in vigore dal 27.01.2018, secondo cui “I
soggetti di cui all’articolo 2, comma 2, notificano direttamente presso i
domicili digitali di cui all’articolo 3-bis i propri atti, compresi i
verbali relativi alle sanzioni amministrative, gli atti impositivi di
accertamento e di riscossione e le ingiunzioni di cui all’articolo 2 del
regio decreto 14 aprile 1910, n. 639, fatte salve le specifiche disposizioni
in ambito tributario. La conformità della copia informatica del documento
notificato all’originale è attestata dal responsabile del procedimento in
conformità a quanto disposto agli articoli 22 e 23-bis”.
La norma consente pertanto di notificare gli atti di accertamento e le
ingiunzioni fiscali a mezzo PEC e quindi la risposta al quesito è positiva.
In ordine al procedimento da seguire, va evidenziato in particolare che la
relata di notifica, creata con word, open office, ecc., deve essere
trasformata, senza scansione, direttamente in PDF testo e firmata
digitalmente. Un’altra regola da osservare riguarda la questione degli
allegati al messaggio.
Per essere valido, l’allegato deve essere firmato digitalmente e avere
un’estensione del file p7m. Infine, la notifica via PEC può dirsi
perfezionata per il soggetto notificante nel momento in cui viene generata
la ricevuta di accettazione prevista dall’articolo 6, comma 1, del D.P.R.
11.02.2005, n. 68, mentre, per il destinatario, nel momento in cui viene
generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’articolo 6, comma 2,
del D.P.R. n. 68/2005 (art. 3-bis, comma 3, della L. 53/1994)
(24.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Gruppi, decidono gli enti. Se possano
essere costituiti da un consigliere. La materia è interamente demandata
all’autonomia comunale.
La disciplina prevista dal regolamento sul
funzionamento del consiglio comunale può condizionare la possibilità di
costituire il gruppo misto alla circostanza che lo stesso sia composto da
almeno due consiglieri, con ciò impedendo la formazione del gruppo misto
monopersonale?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge e
la relativa materia è regolata dalle norme statutarie e regolamentari dei
singoli enti locali.
In materia, il ministero dell'interno ha già avuto modo
di esprimere l'orientamento, peraltro confermato, secondo cui, «in assenza
di disposizioni che escludano espressamente la possibilità di istituire il
gruppo misto anche con la partecipazione di un unico componente, si potrebbe
accedere a un'interpretazione delle fonti di autonomia locale orientata alla
valorizzazione dei diritti dei singoli di poter aderire a un gruppo
consiliare».
Nel caso di specie, però, il regolamento del consiglio comunale
vieta espressamente la possibilità di costituire il gruppo misto unipersonale e, pertanto, va da sé che l'avviso espresso in altra
circostanza non può essere adattato al diverso contesto normativo in vigore
nel comune in oggetto.
In merito, appare utile richiamare le osservazioni
formulate dal Consiglio di stato con sentenza n. 3357 del 2010, in base alle
quali, una volta adottato il regolamento recante le norme sul funzionamento
del consiglio comunale, queste ultime non possono essere disapplicate se non
previo ritiro.
Pertanto, poiché la materia dei gruppi consiliari è
interamente demandata alla competenza delle fonti di autonomia locale, è in
tale ambito che potrà essere valutata l'opportunità di adottare apposite
modifiche alla normativa in questione
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
PUBBLICO IM PIEGO: Staff
sindaco ed esonero timbratura.
Domanda
Il sindaco ha istituito un ufficio di staff composto da una sola unità a 18
ore settimanale cat. C1. La persona incaricata chiede se può essere
esonerata dall’obbligo di timbratura in quanto il suo impegno con il sindaco
la occupa ben oltre le 18 ore e, comunque, molto spesso è impossibilitata
logisticamente ad eseguire la timbratura.
Questo esonero può essere concesso?
Risposta
In riferimento alla questione posta ci sono due aspetti di cui tenere conto.
Il primo riguarda l’art. 53, comma 11, del CCNL del 21.05.2018 dove si
precisa che: “La costituzione del rapporto a tempo parziale avviene con
contratto di lavoro stipulato in forma scritta e con l’indicazione della
data di inizio del rapporto di lavoro, della durata della prestazione
lavorativa nonché della collocazione temporale dell’orario con riferimento
al giorno, alla settimana, al mese e all’anno e del relativo trattamento
economico. Quando l’organizzazione del lavoro è articolata in turni,
l’indicazione dell’orario di lavoro può avvenire anche mediante rinvio a
turni programmati di lavoro articolati su fasce orarie prestabilite”
La collocazione temporale dell’orario di lavoro, con riferimento al giorno,
rimanda alla definizione di un orario teorico di lavoro da rispettare in
determinate fasce orarie.
Non è escluso che anche ai part-time sia legittimato l’esercizio di ampia
flessibilità, ma questo a condizione che l’ente lo abbia regolamentato e,
alla luce delle nuove relazioni sindacali, la disciplina della flessibilità
va definita in sede di contrattazione decentrata.
Questo aspetto ha a che fare con lo spazio di flessibilità oraria che va
accordato alle figure di staff del sindaco, in ragione di diverse e
impreviste esigenze che si possono configurare di presenza in servizio.
Il secondo aspetto, quello più rilevante ai fini della domanda, riguarda
l’obbligo di timbratura.
Il cartellino segnatempo è l’unico mezzo per accertare la presenza del
lavoratore in ufficio e la presenza nel luogo di lavoro è il parametro cui
ancorare la retribuzione.
L’osservanza dell’orario di lavoro costituisce un obbligo del dipendente
pubblico, anche di qualifica dirigenziale, quale elemento essenziale della
prestazione retribuita dall’amministrazione pubblica e l’orario di lavoro
deve essere documentato e accertato mediante controlli di tipo automatico ed
obiettivi. (Corte dei Conti Sardegna n. 114 sezione giurisdizionale del
20.09.2017).
Le mancate timbrature sono sussumibili, pertanto, alla fattispecie di un
mancato rispetto delle disposizioni in materia di orario di lavoro e di
servizio e devono essere considerate quale fatto eccezionale.
I regolamenti sull’orario di lavoro, in genere, prevedono una modalità
alternativa alla timbratura automatica ove la prestazione lavorativa sia
resa in luoghi diversi dalla sede indicata nel contratto di lavoro.
Dal punto di vista giuridico e alla luce della più recente giurisprudenza in
materia di attestazione della presenza in servizio, non esiste spazio ampio
che possa essere legittimamente concesso alle mancate timbrature, al
contrario, è ribadito il principio che timbrare costituisce un obbligo
lavoratore
(20.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Oggetto:
decreto interministeriale n. 154 del 22.08.2017 recante: "Regolamento
concernente gli appalti pubblici di lavori riguardanti i beni culturali
tutelati ai sensi del decreto legislativo 22.01.2004, n. 42" — art. 22 —
restauratori - direzione dei lavori (MIBAC, Ufficio Legislativo,
nota 19.09.2018 n. 22280 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota, qui pervenuta in data 30 maggio u.s., con la quale
codesta Federazione evidenzia l'insorgere di dubbi interpretativi relativi
all'art. 22, comma 2, del regolamento in oggetto. Nello specifico in detta
nota si rappresenta che "risulta non chiaro ad alcune Stazioni Appaltanti se
il Restauratore possa assumere o meno la funzione di Direttore dei Lavori".
Al riguardo si osserva quanto segue.
L'art. 22, comma 2 cit. recita: "La direzione dei lavori, il supporto
tecnico alle attività del responsabile unico del procedimento e del
dirigente competente alla formazione del programma triennale comprendono un
restauratore di beni culturali qualificato ai sensi della normativa vigente,
ovvero, secondo la tipologia dei lavori, altro professionista di cui
all'articolo 9-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio. In ambedue
i casi sono richiesti un'esperienza almeno quinquennale e il possesso di
specifiche competenze coerenti con l'intervento" ... (...continua). |
APPALTI: Rapporti
tra rotazione e pregresso affidatario.
Domanda
Diversi quesiti ritornano sovente sulla questione dei rapporti tra
affidamento diretto/invito e rotazione. Soprattutto, in relazione alla
figura del pregresso aggiudicatario (di un appalto “uguale” ai sensi
di quanto chiarito nelle linee guida ANAC n. 4).
La necessità del chiarimento si pone perché, ad onor del vero, il documento
ANAC e la giurisprudenza, su alcune questioni, non risultano perfettamente
allineati. E, soprattutto, le linee guida n. 4 –aggiornate al decreto
legislativo correttivo del codice– non hanno affatto “eliminato”
l’esigenza di rispettare il principio (anzi il criterio) della rotazione. In
sostanza, come occorre comportarsi in questi casi?
Risposta
Alla luce della recente giurisprudenza (es. TAR Puglia, n. 1322/2018) e di
alcuni recenti riscontri dell’ANAC (v. di seguito) i rapporti tra
affidamento diretto/pregresso aggiudicatario risultano fortemente
condizionati dalla rotazione anche se la stazione appaltante (il RUP)
procedesse con un procedimento “sostanzialmente” aperto.
L’unica certezza rimane –per ritenere non applicabile la rotazione– la gara
classica con bando oppure le soglie di importo declinate nel regolamento
interno (seguendo le indicazioni contenute nelle linee guida n. 4).
Il problema aperto è quello della procedura “sostanzialmente” aperta.
Finora, si riteneva che la pubblicazione di un semplice avviso pubblico
–senza limitazione di partecipazione– tanto con estrazione di un numero di
partecipanti quanto nel caso di invito di ogni soggetto che abbia
manifestato interesse, potesse integrare una procedura aperta con
conseguente coinvolgimento anche del pregresso affidatario (e dei soggetti
già invitati pur non aggiudicatari dell’appalto).
Tuttavia, dalla recentissima FAQ dell’ANAC (sotto riportata integralmente),
la questione sembra porsi diversamente.
Come si può leggere, infatti, nonostante la pubblicazione di un avviso
pubblico (a manifestare interesse) senza alcun limite di partecipazione, non
è sufficiente che attraverso il sorteggio –per stabilire il numero degli
inviti da effettuare– e, quindi, casualmente, sia stato estratto il
pregresso affidatario per legittimarne la partecipazione alla competizione.
Secondo l‘ANAC –a parere di chi scrive anche condivisibilmente– l’invito del
pregresso affidatario (e, di conseguenza, anche dei soggetti già invitati)
deve essere motivato nella determinazione a contrattare.
Evidentemente, non siamo in presenza di una procedura sostanzialmente aperta
ma di un procedimento comunque derogatorio che deve avvenire in sicurezza
nei confronti della generalità degli appaltatori per evitare che il
pregresso affidatario possa avvalersi della “rendita di posizione”
determinata dalle conoscenze tecnico/economiche acquisite durante la
gestione del pregresso appalto.
La recente giurisprudenza (si allude, in particolare, alla sentenza del TAR
Puglia, della sezione di Lecce, n. 1322/2018) ha annullato un procedimento
di gara (ritenuto “sostanzialmente aperto”) per violazione del
principio di rotazione. Nel caso di specie, è accaduto che il RUP procedesse
con l’invito –per una determinata fornitura (di cancelleria)–
indiscriminatamente di tutti gli operatori iscritti sul MEPA (circa 4 mila
soggetti). L’appalto è stato aggiudicato al pregresso affidatario.
Secondo il giudice –anche questa ad onor del vero, statuizione
condivisibile– il procedimento corretto, per rendere il procedimento “sostanzialmente”
aperto si caratterizza per il compimento di tre fasi:
a) avviso con invito ad iscriversi sul MEPA;
b) successivo invito a manifestare interesse;
c) inviti veri e propri (RDO).
L’invito rivolto acriticamente, si legge in sentenza, non costituisce un
procedimento aperto in quanto “ignora” totalmente i soggetti non
iscritti al mercato elettronico.
D’altra parte, il giudice sottolinea che negli atti di gara non c’era
neppure la motivazione per legittimare l’invito del pregresso affidatario.
Alla luce dell’attuale posizione si ritiene che –al netto delle deroghe
certe di cui si è detto sopra– ance in procedure come quelle appena
descritte è necessario che il RUP motivi (se motivi ci sono evidentemente)
adeguatamente l’invito del pregresso affidatario e dei soggetti già
invitati. Onde evitare ogni censura sulla procedura e ricondurla, al massimo
sulla motivazione. Ecco perché, in tale certificazione, il RUP deve prestare
la massima attenzione e rigore.
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Quesito all’ANAC
“Con riguardo all’applicazione del principio di rotazione, sussistendo i
presupposti di cui al paragrafo 3.6 delle Linee guida e al di fuori delle
ipotesi eccezionali contemplate al successivo paragrafo 3.7, è legittimo
nelle procedure negoziate il re-invito all’operatore uscente, che abbia
manifestato interesse alla candidatura a seguito di avviso pubblico e sia
stato poi estratto tramite sorteggio con estrazione casuale?”
Risposta ANAC
“Come previsto al paragrafo 3.7 delle Linee guida n. 4, il re-invito
all’operatore uscente costituisce ipotesi di stretta eccezionalità,
ammissibile al ricorrere delle circostanze ivi indicate. Fermo quanto
previsto ai paragrafi 3.6 e 3.7, il meccanismo dell’estrazione casuale, sia
pure a seguito di avviso pubblico, non assicura il rispetto del principio di
rotazione, come declinato all’articolo 36, primo comma del Codice dei
contratti pubblici, novellato dal decreto legislativo 19.04.2017, n. 56.
Tale disposizione, infatti, rende doverosa la rotazione tanto in relazione
agli affidamenti che agli inviti”
(19.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Verifiche
OIV e novità ANAC.
Domanda
Ci sono delle novità da parte di ANAC sulle verifiche spettanti agli
Organismi Indipendenti di Valutazione sulla corretta strutturazione del “sistema”
anticorruzione all’interno delle singole amministrazioni?
Risposta
L’articolo 8-bis, della legge 06.11.2012, n. 190, così come introdotto
dall’art. 41, del d.lgs. 25.05.2016, n. 97, stabilisce che “l’Organismo
Indipendente di Valutazione verifica, anche ai fini della validazione della
Relazione sulla performance, che i piani triennali per la prevenzione della
corruzione siano coerenti con gli obiettivi stabiliti nei documenti di
programmazione strategico-gestionale e che nella misurazione e valutazione
delle performance si tenga conto degli obiettivi connessi all’anticorruzione
e alla trasparenza. Esso verifica i contenuti della Relazione di cui al
comma 14 in rapporto agli obiettivi inerenti alla prevenzione della
corruzione e alla trasparenza. A tal fine, l’Organismo medesimo può chiedere
al Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza le
informazioni e i documenti necessari per lo svolgimento del controllo e può
effettuare audizioni di dipendenti. L’Organismo medesimo riferisce
all’Autorità nazionale anticorruzione sullo stato di attuazione delle misure
di prevenzione della corruzione e di trasparenza.”
Agli OIV (o Nuclei di Valutazione nei comuni che hanno mantenuto la vecchia
denominazione), spetterebbe, pertanto, oltre ai controlli sull’assolvimento
degli obblighi di pubblicazione sulla sezione di Amministrazione
Trasparente, previsti dall’art. 14, comma 4, lettera g), del d.lgs. n.
150/2009 e dalle deliberazioni di ANAC, una puntuale verifica sul “sistema”
di prevenzione della corruzione e della trasparenza messo in piedi dalle
singole amministrazioni.
Ciò al fine di accertare, in primis, che il PTPCT approvato, sia
collegato agli strumenti di programmazione interni ed al Sistema di
Valutazione della performance ed, in secondo luogo, che tale collegamento
non resti formale o “sulla carta” dovendo l’OIV riferire all’ANAC
sulla coerenza dei piani e sull’efficacia ed attuazione delle misure di
anticorruzione.
Il condizionale in questo caso è d’obbligo, considerato che la norma, già in
vigore dal maggio 2016, non ha trovato, fino ad ora, concreta applicazione;
tanto nelle attestazioni degli OIV dell’anno 2016, quanto in quelle 2017,
non appaiono infatti riferimenti in merito.
Ciò è dovuto sicuramente al silenzio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione
dal quale ci si aspettava un’attività deliberativa di indirizzo al pari di
quanto fatto annualmente in materia di trasparenza.
Ad oggi non ci sono pertanto novità, ma è bene ricordare che la stessa ANAC,
a prescindere dall’attività ed eventuali segnalazioni degli OIV e degli RPCT,
può svolgere d’ufficio verifiche ed ispezioni sulla corretta attuazione
della normativa “anticorruzione”.
È sempre vigente, infatti, il “Regolamento sull’esercizio dell’attività
di vigilanza in materia di prevenzione della corruzione”, emanato
dall’autorità il 29.03.2017 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 91 del
19.04.2017, che consente all’Autorità di sanzionare le amministrazioni per
mancata adozione di PTPCT, di misure di trasparenza o Codici di
Comportamento; ben potendoci rientrare, nella prima fattispecie, anche gli
adempimenti meramente formali o “vuoti di efficacia” .
Non si dimentichi, invero, che ai sensi dell’art. 1, comma 1, lettera g),
del precedente “Regolamento in materia di esercizio del potere
sanzionatorio dell’Autorità Nazionale Anticorruzione per l’omessa adozione
dei Piani triennali di prevenzione della corruzione, dei Programmi triennali
di trasparenza, dei Codici di comportamento”, equivale ad omessa
adozione dei piani, e quindi parimenti sanzionabile:
a) l’approvazione di un provvedimento puramente ricognitivo di
misure, in materia di anticorruzione, in materia di adempimento degli
obblighi di pubblicità ovvero in materia di Codice di comportamento di
amministrazione;
b) l’approvazione di un provvedimento il cui contenuto riproduca in
modo integrale analoghi provvedimenti adottati da altre amministrazioni,
privo di misure specifiche introdotte in relazione alle esigenze
dell’amministrazione;
c) l’approvazione di un provvedimento privo di misure per la
prevenzione del rischio nei settori più esposti, privo di misure concrete di
attuazione degli obblighi di pubblicazione, di cui alla disciplina vigente,
meramente riproduttivo del Codice di comportamento emanato con il decreto
del Presidente della Repubblica 16.04.2013, n. 62
(18.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI
COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il tricolore è del sindaco. Il consigliere
non può indossare la fascia. Non è prevista l’istituzione di un distintivo
per i componenti dell’assemblea.
I consiglieri comunali possono dotarsi di una fascia
tricolore da indossare in occasione di cerimonie ed eventi civili e
religiosi, quale titolo del ruolo politico e amministrativo ricoperto?
La legge non prevede nulla, per quanto riguarda i simboli da indossare, nei
riguardi degli altri amministratori degli enti locali.
Il decreto legislativo n. 267/00 all'art. 50, comma 12, infatti, dispone
espressamente che «distintivo del sindaco è la fascia tricolore con lo
stemma della Repubblica e lo stemma del comune, da portarsi a tracolla».
La stessa disposizione prevede, altresì, che «distintivo del presidente
della provincia è una fascia di colore azzurro con lo stemma della
repubblica e lo stemma della provincia da portare a tracolla».
Il sistema delle autonomie ha, peraltro, un limite connaturato alla stessa
essenza dell'autonomia: quello di dare luogo a ordinamenti liberi di
autodeterminarsi entro la cornice ben definita di un ordinamento generale
che, originario e sovrano, determina i caratteri peculiari ed il modo di
tutti i soggetti che in esso si trovano a coesistere e ad operare (cfr.
circolare Ministero dell'interno 4 nov. 1998 n. 5/98 – fascia tricolore –
pubbl. G.U. n. 270/1998).
La finalità della previsione di un distintivo è quella di rendere
immediatamente individuabili i titolari di determinate cariche pubbliche
attraverso la prescrizione di una medesima tipologia formale per ciascuna
categoria di ente.
In assenza di specifiche previsioni normative, pertanto, l'istituzione di un
distintivo anche per i consiglieri comunali non può essere contemplata.
Alla luce della legge costituzionale n. 3 del 18.10.2001, esiste, tuttavia,
un'ampia possibilità, per le autonomie locali, di disciplinare, con
normativa regolamentare, l'utilizzo dei propri segni distintivi, anche a
scopo di rappresentanza, senza così ricorrere all'impiego di un simbolo,
quale la fascia tricolore, attinente nello specifico al capo
dell'amministrazione ed allo svolgimento delle proprie funzioni in
conformità alle indicazioni di legge (articolo ItaliaOggi del 14.09.2018). |
APPALTI:
Termini e adempimenti pubblicazione gara comunitaria.
Domanda
Devo appaltare un servizio avente un valore superiore alla soglia
comunitaria: quali sono i termini per la presentazione delle offerte nel
caso di procedura aperta, e gli obblighi pubblicitari del bando?
Risposta
Per l’appalto di un servizio sopra soglia comunitaria nella forma della
procedura aperta, occorre rifarsi in particolare agli artt. 60, 72 e 73 del
codice, nonché al Decreto del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti
02.12.2016 “Definizione degli indirizzi generali di pubblicazione degli
avvisi e dei bandi di gara, di cui agli artt. 70, 71 e 98 del d.lgs.
18.04.2016 n. 50”.
Di seguito si riportano in forma semplificata e tabellare i termini per la
presentazione delle offerte nel caso di procedura aperta, nonché gli
obblighi pubblicitari nella fase transitoria di attivazione della
piattaforma ANAC desunti dalle normative sopra richiamate (che non brillano
di chiarezza) e adattate alla realtà operativa.
Termini per la presentazione delle offerte
SENZA preinformazione
CON preinformazione
Termine ordinario con atti accessibili
(art. 60, co. 1, del codice)
minimo 35 giorni
dalla data di trasmissione del bando alla GUUE
minimo 18 giorni
Ridotto di 15 giorni, ma condizioni di cui all’art. 60, co. 2 del codice
Con presentazione offerte per via elettronica
(art. 60, co. 2-bis, del codice)
minimo 30 giorni
dalla data di trasmissione del bando alla GUUE
minimo 15 giorni
ridotto di 15 giorni, ma condizioni di cui all’art. 60, co. 2 del codice
Urgenza
(art. 60, co. 3, del codice)
15 giorni
dalla data di invio del bando di gara
Pubblicazioni
1) GUUE
• Redazione e trasmissione del Bando all’Ufficio pubblicazioni
dell’Unione Europea, per via elettronica:
http://simap.europa.eu/enotices/changeLanguage.do?language=it
• Gli avvisi e i bandi sono pubblicati entro 5 giorni dalla loro
trasmissione (art. 72, co. 2, del codice).
• Comunicazione da parte dell’Ufficio Pubblicazioni dell’UE, a
mezzo mail, dell’avvenuta ricezione dell’avviso, con attribuzione di un
numero di riferimento.
• Successiva comunicazione da parte dell’Ufficio Pubblicazioni
dell’UE, a mezzo mail, di avviso di pubblicazione con indicazione del numero
dell’avviso sulla GUUE.
• La pubblicazione è gratuita.
2) PROFILO COMMITTENTE “Amministrazione trasparente” – ATTI ACCESSIBILI
• Contestualmente alla pubblicazione sulla GUUE gli avvisi e i
bandi, con tutta la documentazione tecnica ed amministrativa di gara, devono
essere resi accessibili sul profilo committente, almeno fino alla loro
scadenza.
3) GURI (fino alla data di funzionamento della piattaforma ANAC, art. 2, co.
5 e 6, d.m. 02.12.2016)
• Gli avvisi e i bandi NON SONO pubblicati in ambito nazionale
prima della pubblicazione in ambito comunitario (art. 73, co. 1, del
codice).
• Gli avvisi e i bandi non contengono informazioni diverse rispetto
agli avvisi/bandi comunitari. Menzionano la data della trasmissione
dell’avviso o bando all’Ufficio delle pubblicazioni dell’Unione Europea
(dalla quale decorrono i termini per la presentazione delle offerte).
• Gli avvisi e i bandi di gara sono pubblicati entro 6 giorni
feriali successivi a quello della trasmissione sulla Gazzetta Ufficiale
della Repubblica Italiana:
www.libreriaipzs.com/Inserzioni-Telematiche.asp#
Si suggerisce di trasmettere il bando alla libreria concessionaria anche
prima della pubblicazione sulla GUUE, per avere conferma della correttezza
grafica dello stesso, e di confermare la pubblicazione mediante accettazione
del preventivo successivamente.
• La pubblicazione è a pagamento.
4) PIATTAFORMA informatica del MIT
• I bandi e gli avvisi sono pubblicati entro i successivi DUE
giorni lavorativi dalla pubblicazione sulla GURI, sulla piattaforma
informatica del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti:
www.serviziocontrattipubblici.it anche tramite i sistemi informatizzati
delle regioni ad essa collegati
5) QUOTIDIANI (art. 3, D.M. 02.12.2016)
• Pubblicazione per estratto degli avvisi e dei bandi, DOPO 12
giorni dalla trasmissione alla GUUE (ovvero 5 giorni in caso di riduzione di
termini), su almeno due dei principali quotidiani a diffusione nazionale e
su almeno due a maggiore diffusione locale nel luogo dove si eseguono i
contratti.
• Per area interessata, ai fini della pubblicazione su quotidiani
locali, si intende il territorio della provincia cui afferisce l’oggetto
dell’appalto e nell’ambito del quale si esplicano le competenze
dell’amministrazione aggiudicatrice.
6) PIATTAFORMA ANAC (art. 2 D.M. 02.12.2016)
• Ad oggi non ancora attivata.
• In sede di perfezionamento del CIG, completare i dati relativi
alla pubblicazione e allegare il Bando di gara e disciplinare (12.09.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso
civico dati salute.
Domanda
È pervenuta all’ufficio protocollo una richiesta di accesso agli atti,
presentata come accesso civico generalizzato (art. 5, comma 2, d.lgs.
33/2013). La richiesta riguarda una lettera –indirizzata ai servizi sociali
del comune– nella quale il capo-famiglia descrive una serie di situazioni
relative alla situazione socio-economica del nucleo familiare, con, anche,
indicazioni sullo stato di salute di un componente.
E’ possibile accogliere la richiesta?
Risposta
L’accesso civico generalizzato, così come introdotto dal d.lgs. 97/2016,
modificativo del d.lgs. 33/2013, introduce nel nostro ordinamento una vera e
propria libertà di accesso alle informazioni detenute dalla pubblica
amministrazione, risultando finalizzato ad assicurare al cittadino un
controllo “sociale” sull’azione amministrativa e la verifica sul rispetto
dei canoni dell’imparzialità e della trasparenza.
Tale libertà incontra, ad ogni modo, dei limiti stringenti individuati dal
legislatore all’art. 5, comma 2-bis –laddove sono specificate le esclusioni
poste a tutela di interessi pubblici e privati giuridicamente rilevanti– e
specificati dall’Autorità Nazionale Anticorruzione con la delibera n. 1309,
del 28.12.2016, di approvazione delle “Linee Guida recanti indicazioni
operative ai fini della definizione delle esclusioni e dei limiti
all’accesso civico di cui all’art. 5, co. 2, del d.lgs. 33/2013”.
Tra i limiti privatistici, per quanto qui rileva, non può non essere tenuta
in considerazione l’esclusione “relativa” –così denominata dall’ANAC
in considerazione della valutazione caso per caso richiesta alle
amministrazioni con la tecnica del bilanciamento, a dispetto delle
esclusioni “assolute” dove l’accesso generalizzato è inibito da norme
di legge in via preventiva e generale– derivante dalla protezione dei dati
personali.
L’Ente, dispone l’ANAC, con riferimento alle istanze di accesso
generalizzato aventi ad oggetto dati e documenti relativi a (o contenenti)
dati personali, “deve valutare, […] , se la conoscenza di da parte di
chiunque del dato personale richiesto arreca (o possa arrecare) un
pregiudizio concreto alla protezione dei dati personali, in conformità alla
disciplina legislativa in materia. La ritenuta sussistenza di tale
pregiudizio comporta il rigetto dell’istanza, a meno che non si consideri di
poterla accogliere, oscurando i dati personali eventualmente presenti e le
altre informazioni che possono consentire l’identificazione, anche
indiretta, del soggetto interessato”.
L’Ente è, quindi, tenuto obbligatoriamente, al pari dell’accesso agli atti
ex legge 241/1990, ad interpellare eventuali soggetti controinteressati
all’ostensione del documento e ad effettuare una valutazione generale del
potenziale pregiudizio concreto, tenendo conto altresì di ulteriori elementi
quali:
• le conseguenze, legate alla sfera morale, relazionale e sociale,
che potrebbero derivare dall’interessato dalla conoscibilità, da parte di
chiunque del dato o del documento richiesto;
• la ragionevole aspettativa dell’interessato al trattamento dei
propri dati personali, specie in relazione ai così detti dati sensibili o
giudiziari, da cui possono derivare rischi specifici per i diritti e le
libertà fondamentali;
• la circostanza che la richiesta di accesso generalizzato riguardi
dati o documenti contenenti dati personali di soggetti minori, la cui
conoscenza può ostacolare il libero sviluppo della loro personalità, in
considerazione della particolare tutela dovuta alle fasce deboli.
Ciò premesso, si consiglia di attivare la procedura di notifica al
controinteressato e, sulla base anche, delle eventuali osservazioni che
perverranno, effettuare una specifica valutazione del caso.
Considerato che il documento oggetto della richiesta di accesso
generalizzato, riguarda la libertà e segretezza della corrispondenza
(diritto garantito dall’art. 15 della Costituzione – diritto di rango
superiore alla legge ordinaria) e contiene una serie di dati personali
delicati, quali la situazione di salute e quella socio-economica del nucleo
familiare, rientranti nella categoria dei “sensibili”, si ritiene, ad
ogni modo, che ben difficilmente possa essere accolta l’istanza.
La richiesta in oggetto appare, peraltro (ed in tal senso potrebbe muoversi
l’Amministrazione nell’orientare il richiedente, così come previsto dalla
circolare ministeriale n. 02/2017), meglio inquadrabile nell’ipotesi
dell’accesso agli atti, ex legge 241/1990. Una richiesta debitamente
motivata, ai sensi degli artt. 22 e seguenti, della legge sul procedimento
amministrativo potrebbe, infatti, andare incontro ad un esito positivo, a
condizione che sia presente un interesse diretto, concreto e attuale,
corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata, collegata al
documento per il quale è richiesto l’accesso (11.09.2018 - tratto da
e link a www.publika.it). |
COMPETENZE GESTIONALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/
Un ente locale con popolazione inferiore ai 5 mila abitanti può derogare al
principio della separazione dei poteri affidando al sindaco la presidenza
della commissione edilizia comunale e nominando il responsabile dell'ufficio
tecnico quale componente della stessa?
La costituzione della commissione edilizia costituiva parte del contenuto
obbligatorio del regolamento edilizio comunale ai sensi dell'art. 33 della
legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, poi abrogato dall'art. 136 del dpr 06.06.2001, n. 380 e successive modificazioni; l'art. 4, comma 2, del
citato dpr che ha, peraltro, dettato una nuova disciplina dei regolamenti,
ha reso facoltativa l'istituzione della commissione edilizia, confermandone
il ruolo di organo consultivo.
La facoltatività dell'istituzione della
commissione edilizia è coerente con l'art. 41 della legge 27.12.1997,
n. 449 che, imponendo all'organo di direzione politica di individuare ogni
organo collegiale con funzioni amministrative ritenuto indispensabile per la
realizzazione dei fini istituzionali dell'amministrazione, prevede la
relativa soppressione di quelli non identificati come indispensabili.
La
Commissione speciale del Consiglio di stato, con parere n. 492/99 in data 21.05.2003, diramato con la circolare ministeriale n. 1/2005, ha precisato
che «la presenza di organi politici nella commissione edilizia, deputata a
pronunciarsi su richieste di autorizzazioni e concessioni, non è più
consentita dall'assetto normativo attuale» e che «qualora tale presenza sia
espressamente prevista da regolamenti comunali, gli Enti locali dovranno
provvedere alle necessarie modifiche» (in conformità alla previsione del
comma 4, dell'art. 4 del dlgs n. 165/2001).
Sebbene in tale enunciato si
esponga, in materia, un principio generale, va parimenti evidenziato che
l'art. 53, comma 23, della legge n. 388/2000, come modificato dall'art. 29,
comma 4 della legge 448/2001, ha previsto una deroga all'applicazione del
principio di separazione delle funzioni di indirizzo politico-amministrativo
da quelle di gestione, richiamato dal Consiglio di stato.
Tale norma,
infatti, dispone che «gli enti locali con popolazione inferiore a
cinquemila abitanti, fatta salva l'ipotesi di cui all'art. 97, comma 4,
lettera d), del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali,
anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare
disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a
quanto disposto dall'articolo 3, commi 2, 3, 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni e dall'art. 107 del citato
testo unico, attribuendo ai componenti dell'organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare anche
atti di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere
documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione
del bilancio».
In tal senso, il richiamato art. 107 prevede, al comma 4, che
«le attribuzioni dei dirigenti, in applicazione del principio di cui
all'articolo 1, comma 4, possono essere derogate soltanto espressamente e ad
opera di specifiche disposizioni legislative».
Il Consiglio di stato in sede
giurisdizionale, con sentenza n. 3490 del 26/06/2013, ha ritenuto che «il
sindaco potesse legittimamente presiedere la commissione edilizia integrata,
in virtù della specifica previsione in tal senso posta nel Regolamento
edilizio comunale e che trova il supporto normativo anche nel citato
articolo 53, comma 23, della legge 388/2000, concernente proprio i comuni
con popolazione inferiore a 5 mila abitanti, e nella stessa legge
costituzionale n. 3/2001, recante la riforma del titolo V della
Costituzione, che attribuisce potestà regolamentare ai comuni circa la
disciplina della organizzazione e delle funzioni proprie».
Lo stesso
Consiglio di stato, con la medesima sentenza, richiamando la decisione della IV sezione n. 1070/2009 che si è pronunciata su analoga questione, ha
ritenuto che «è proprio la complessità della normativa, in materia
urbanistica ed edilizia, a consentire a quei Comuni, nell'ambito
dell'autonomia statutaria e regolamentare loro attribuita, l'adozione di
disposizioni che deroghino ai principi generali della separazione di cui al Tuel (dlgs
n. 267/2000)».
Nel caso di specie, pertanto, trattandosi di un comune con popolazione
inferiore a 5 mila abitanti, è applicabile la richiamata disciplina
derogatoria qualora l'ente in questione abbia preventivamente adottato
disposizioni regolamentari che affidano espressamente a un componente della
giunta (nella specie, il sindaco) la responsabilità dell'ufficio tecnico
preposto alla gestione del settore edilizio
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
CCNL
e orario lavoro settimanale.
Domanda
Dopo il CCNL del 21.05.2018, l’ente è obbligato ad adottare un orario di
lavoro su cinque giorni alla settimana?
Risposta
La disposizione contrattuale di riferimento è l’art. 22 che conferma, al
pari della precedente previsione sostituita (art. 17, CCNL 06.07.1995), che
l’orario di lavoro è di 36 ore settimanali, è funzionale all’orario di
servizio e di apertura al pubblico ed è articolato su cinque giorni.
Vengono fatte salve le esigenze dei servizi da erogarsi con carattere di
continuità, che richiedono orari continuativi prestazioni per tutti i giorni
della settimana o che presentino particolari esigenze di collegamento con le
strutture di altri uffici pubblici.
La previsione è del tutto coerente con la disposizione di legge contenuta
all’art. 22, comma 2, della Legge 724/1994, secondo la quale, nelle
amministrazioni pubbliche, l’orario di lavoro settimanale ordinario si
articola su 5 giorni, anche nelle ore pomeridiane, fatte salve le
particolari esigenze dei servizi pubblici.
Di fatto la previsione dei 5 giorni lavorativi non può essere considerata un
vincolo oppure una previsione non derogabile. Questo in ragione non soltanto
di una fonte legale di riferimento che lo consente, ma anche di un’esigenza
di servizio che deve essere sempre soddisfatta attraverso l’articolazione
dell’orario di lavoro e che da essa dipende.
Non ultimo, l’articolazione dell’orario di lavoro subisce l’ingerenza di
un’articolazione dell’orario di servizio che compete alla autonoma
valutazione organizzativa dell’ente, che vi provvede nel rispetto delle
competenze.
Se l’esigenza organizzativa e operativa da soddisfare richiede una presenza
su sei giorni, anziché su cinque, l’ente provvederà in questo senso, tenendo
conto anche delle particolari caratteristiche dell’utenza. Uno dei criteri
di cui tenere conto nella definizione dell’articolazione dell’orario di
lavoro è infatti l’ampliamento delle fruibilità dei servizi da parte
dell’utenza.
Nelle dinamiche relazionali da instaurare con le parti sindacali va
ricordato che l’articolazione dell’orario di lavoro è materia oggetto di
confronto mentre l’orario di servizio e di apertura al pubblico non sono in
alcun modo oggetto di relazioni sindacali (06.09.2018 - tratto da e
link a www.publika.it). |
APPALTI:
Comuni non capoluogo e modalità autonoma.
Domanda
Sono responsabile di settore di un comune non capoluogo di provincia e devo
appaltare un servizio ordinario pluriennale del valore indicativo di 200.000
euro. L’ente nel caso di specie può procedere autonomamente?
Risposta
Con riferimento al quesito in premessa occorre rifarsi all’art. 37 del
codice dei contratti, che disciplina ai commi 1, 2 e 4 il sistema degli
acquisti centralizzati con riferimento ai comuni non capoluogo di provincia.
In particolare per l’acquisizione di forniture e servizi di importo
inferiore a 40.000 euro, o inferiore a 150.000 euro per lavori (manutenzione
ordinaria, straordinaria, altri lavori), i comuni non capoluogo di provincia
possono procedere in autonomia (comma 1).
Per forniture e servizi di importo pari o superiore a 40.000 euro e
inferiore alla soglia comunitaria, e per lavori di manutenzione ordinaria di
importo pari o superiore a 150.000 euro e inferiore a 1.000.000 di euro, i
comuni non capoluogo possono procedere autonomamente solo utilizzando gli
strumenti telematici di negoziazione messi a disposizione dalle centrali di
committenza qualificate (comma 2). Ad esempio, nel caso di un comune
lombardo, e solo per citare gli strumenti principali, utilizzando la
piattaforma Sintel oppure mediante il MEPA nella forma della RDO o della
trattativa diretta (nel caso in cui ricorrano i presupposti di cui all’art.
63 del codice).
Per forniture e servizi di importo pari o superiore alla soglia comunitaria,
e per lavori di manutenzione straordinaria e altri lavori, di importo pari o
superiore a 150.000 euro, e per lavori di manutenzione ordinaria di importo
pari o superiore a 1.000.000 di euro, il comune deve ricorrere ai soggetti
indicati al co. 4 dell’art. 37 (a– ricorrendo a una centrale di committenza
o a soggetti aggregatori qualificati; b– mediante unioni di comuni
costituite e qualificate come centrale di committenza, ovvero associandosi o
consorziandosi in centrali di committenza nelle forme previste
dall’ordinamento; c– ricorrendo alla stazione unica appaltante costituita
presso le province, le città metropolitane ovvero gli enti di area vasta ai
sensi della legge 07.04.2014 n. 56).
L’ente può sempre procedere in autonomia, indipendentemente dall’importo,
nel caso di adesione agli strumenti telematici di acquisto messi a
disposizione da Consip o dal soggetto aggregatore di riferimento (adesione a
convenzioni Consip o Regionale).
Si precisa, che accanto a questa normativa, che riguarda il problema della
centralizzazione e della possibile autonomia negoziale dei comuni non
capoluogo, si affianca tutta la disciplina in materia di ricorso agli
strumenti telematici di acquisto e negoziazione prevista dalle varie
spending review (05.09.2018 - tratto da e link a www.publika.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Atti
dirigenziali e rotazione.
Domanda
Controllando i siti web dei comuni abbiamo notato che, alcuni, inseriscono
nelle determinazioni dirigenziali, delle frasi relative alla rotazione degli
incarichi e al conflitto d’interesse. Ci potete dare delle indicazioni su
cosa eventualmente riportare nei nostri atti?
Risposta
L’esigenza di inserire nel testo delle determinazioni (e, più in generale,
in tutti gli atti a valenza esterna) come vengono trattate, in chiave
prevenzione della corruzione, le due questioni della rotazione e del
conflitto d’interessi –ed eventuale obbligo di astensione– discendono da
alcune norme di legge.
Per la rotazione, occorre fare riferimento all’art. 1, comma 5, della legge
190/2012.
Per il conflitto d’interessi all’art. 6-bis, della legge 241/1990, nel testo
introdotto dall’art. 1, comma 41, della legge 190/2012.
Questi due capitoli, inoltre, dovrebbero trovare il loro giusto spazio anche
nel Piano Triennale per la Prevenzione della Corruzione e Trasparenza (PTPCT)
approvato a livello di ente, ed è in quella sede che, i due istituti,
dovrebbero trovare la loro specifica disciplina attuativa, comprese le varie
diciture da inserire negli atti amministrativi.
Per la rotazione degli incarichi –qualora non venga effettuata, come in
effetti avviene negli enti piccoli e medi– occorre dare atto che il
dirigente o il funzionario, non ruotante, che emette l’atto finale, avente
valenza esterna, non abbia avuto il controllo esclusivo del provvedimento e
che, almeno un altro soggetto, vi sia intervenuto, attraverso la resa di
attività istruttoria interna, emanazione di pareri, valutazioni tecniche ed
atti endoprocedimentali, di cui conservare traccia.
Per il conflitto d’interessi e obbligo di astensione, va reso palese ed
evidente (trasparente, verrebbe da dire) che, colui che emette il
provvedimento finale, non si trovi in nessuna condizione di conflitto
d’interesse, anche di natura potenziale, come previsto dall’art. 6-bis,
della legge 241/1990 e – se trattasi di dipendente pubblico o collaboratore
o consulente – che non incorra nelle situazioni disciplinate dagli articoli
5, 6 e 7 del DPR 62/2013, recante il nuovo Codice di comportamento dei
dipendenti pubblici e nelle norme del Codice di comportamento approvate a
livello di ente.
A completamento della risposta, a mero titolo di esempio e senza alcun
valore di esaustività, si riportano due possibili locuzioni da inserire nel
testo degli atti amministrativi, emessi con valenza esterna.
IN CASO DI MANCATA ROTAZIONE:
Visto il parere favorevole di regolarità tecnica, espresso dal responsabile
dell’istruttoria interna, in data ... in merito all’adozione del presente
atto: Servizio/Ufficio
PER IL CONFLITTO D’INTERESSI:
in relazione all’adozione del presente atto, per il sottoscritto e per il
responsabile del procedimento interno, si attesta che:
[X] non ricorre conflitto, anche potenziale, di interessi a norma dell’art.
6-bis della legge 241/1990, dell’art. 6 del DPR 62/2013 e dell’art. ... del
Codice di comportamento del comune di ...;
[X] non ricorre l’obbligo di astensione, previsto dall’art. 7 del DPR
62/2013 e dell’art. … del Codice di comportamento del comune di ... (04.09.2018
- tratto da e link a www.publika.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Relazione
inizio mandato.
Domanda
Sono l’assessore al bilancio di un’amministrazione comunale insediatasi
nello scorso mese di giugno. Il mio ragioniere mi ha parlato dell’obbligo di
predisporre una relazione di inizio mandato.
In che cosa consiste? C’è un termine entro cui debba essere approvata?
Risposta
La relazione di cui si parla nel quesito è prevista e disciplinata dall’art.
4-bis del DLgs. n. 149 del 06/09/2011 approvato dall’allora ‘governo
Monti’. La norma stabilisce che le province e i comuni sono tenuti a
redigere una relazione di inizio mandato, volta a verificare la propria
situazione finanziaria e patrimoniale e la misura dell’indebitamento.
Essa è finalizzata a garantire il coordinamento della finanza pubblica, il
rispetto dell’unità economica e giuridica della Repubblica ed il principio
di trasparenza delle decisioni di entrata e di spesa. La relazione è
predisposta dal responsabile del servizio finanziario o dal segretario
generale ed è sottoscritta dal presidente della provincia o dal sindaco
entro il novantesimo giorno dall’inizio del mandato. Qualora ne sussistano i
presupposti, e sulla base delle risultanze della relazione medesima, il
presidente della provincia o il sindaco neo eletti, possono ricorrere alle
procedure di riequilibrio finanziario previste dalla normativa vigente.
A differenza di quanto fatto per l’analoga relazione di fine mandato, il
Legislatore non ha previsto uno schema obbligatorio per gli enti chiamati ad
adottarla, ma ne ha definito soltanto gli elementi essenziali. Ogni ente è
pertanto libero di decidere quali dati e informazioni riportare e quali
schemi, tabelle e prospetti inserire.
E’ sicuramente opportuno produrre uno strumento snello ed essenziale, ma al
tempo stesso concreto, che faccia una sorta di fotografia della situazione
dell’ente ad inizio mandato, con riguardo ai seguenti aspetti della sua
gestione: la struttura organizzativa; la situazione finanziaria e le
politiche fiscali e tariffarie; gli equilibri di bilancio; l’ammontare e
l’anzianità dei residui attivi e passivi di bilancio; i saldi di finanza
pubblica; l’indebitamento, con analisi prospettica; la situazione
patrimoniale; le società ed enti partecipati e il loro stato di salute.
I dati e le tabelle da inserire nella relazione possono essere mutuati dai
certificati al bilancio preventivo ed al rendiconto già redatti ai sensi
dell’art. 161 del Tuel e dai questionari periodicamente inviati dall’organo
di revisione economico finanziario alla competente sezione regionale di
controllo della Corte dei Conti, ai sensi dell’articolo 1, comma 166 e
seguenti, della legge n. 266/2005.
Tali dati troveranno pertanto riscontro anche in questi documenti, oltre che
nella contabilità dell’ente. Il Legislatore non ha previsto neppure alcun
obbligo di invio della relazione alla sezione regionale di controllo della
Corte dei conti. In caso di mancata o tardiva predisposizione non sono
previste sanzioni. La magistratura contabile, tuttavia, vigilerà sul
corretto adempimento dell’obbligo, anche attraverso i consueti questionari
che i revisori degli enti locali sono tenuti a compilare e ad inviare.
Il DLgs. 149/2011, così come anche il più recente DLgs. 33/2013, che
disciplina la trasparenza e la diffusione di informazioni da parte delle
pubbliche amministrazioni, non prevedono nulla circa la sua diffusione verso
l’esterno. Tuttavia è sicuramente opportuno provvedervi mediante la sua
pubblicazione nella sezione ‘Amministrazione trasparente’ del sito
web dell’ente, nella sotto-sezione denominata ‘Provvedimenti degli organi
di indirizzo politico’ o nella sotto-sezione residuale denominata ‘Altri
contenuti’.
Quanto ai termini, il Legislatore –come detto– ha invece stabilito un
termine preciso per la sua adozione: esso è fissato in novanta giorni dalla
data di inizio del mandato amministrativo. Pertanto per le amministrazioni
elette al primo turno nelle elezioni del 10 giugno scorso il termine è
fissato all’8 settembre prossimo; per quelle elette al secondo turno il
termine è invece fissato al 22 settembre. Resta pertanto poco tempo per
adempiere a questo importante obbligo di legge (03.09.2018 - tratto
da e link a www.publika.it). |
INCENTIVO
FUNZIONI TECNICHE:
Incentivi per funzioni tecniche e nomina del direttore dell’esecuzione.
Ai sensi dell’art. 113, c. 2, ultimo periodo, del D.Lgs.
50/2016 gli incentivi per appalti di servizi e forniture sono dovuti nel
caso in cui sia stato nominato il direttore dell’esecuzione.
Atteso che la normativa di settore e le linee guida ANAC non chiariscono a
chi competa la nomina del direttore dell’esecuzione, si ritiene che essa
spetti al dirigente o, nei comuni privi di qualifiche dirigenziali, al
titolare di posizione organizzativa, in virtù del generale principio di
separazione tra indirizzo politico e gestione amministrativa sancito
dall’art. 107 del D.Lgs. 267/2000.
Il Comune, richiamando il contenuto dell’art. 113, comma 2
[1], del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50, chiede di conoscere:
1) se gli incentivi per appalti di servizi e forniture sono dovuti
anche nel caso in cui non sia stato nominato il direttore dell’esecuzione;
2) se la nomina di direttore dell’esecuzione sia di stretta
competenza del TPO in assenza di dirigenti o della giunta comunale con
l’approvazione del progetto.
Sentito il Servizio centrale unica di committenza di questa Direzione
centrale si esprimono le seguenti considerazioni.
Quanto al primo quesito, si ritiene che la risposta debba essere negativa,
atteso che è la stessa norma citata dall’Ente a stabilire che essa trova
applicazione agli appalti relativi a servizi o forniture «nel caso in cui
è nominato il direttore dell’esecuzione» (ultimo periodo).
Relativamente alla seconda questione posta occorre, anzitutto, rammentare
che:
- il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di
forniture è, di norma, il responsabile unico del procedimento (RUP)
[2];
- l’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), nell’ambito delle
linee guida n. 3 [3],
adottate ai sensi dell’art. 31, comma 5, del D.Lgs. 50/2016, ha individuato
i casi nei quali le due figure non coincidono [4].
Né la normativa primaria, né le predette linee guida e nemmeno il decreto
del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 07.03.2018, n. 49
[5], adottato ai sensi
dell’art. 111, commi 1 [6]
e 2 [7], del
D.Lgs. 50/2016, chiariscono a chi competa la nomina del direttore
dell’esecuzione.
Ne consegue che, in virtù del generale principio di separazione tra
indirizzo politico e gestione amministrativa sancito dall’art. 107
[8] del decreto
legislativo 18.08.2000, n. 267 (principio che informa anche la nomina del
RUP [9]), la
nomina del direttore dell’esecuzione del contratto compete al dirigente o,
nei comuni privi di qualifiche dirigenziali, al titolare di posizione
organizzativa [10].
---------------
[1] «A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1, le amministrazioni
aggiudicatrici destinano ad un apposito fondo risorse finanziarie in misura
non superiore al 2 per cento modulate sull’importo dei lavori, servizi e
forniture, posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai
dipendenti delle stesse esclusivamente per le attività di programmazione
della spesa per investimenti, di valutazione preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di gara e di esecuzione dei
contratti pubblici, di RUP, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire
l’esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del
progetto, dei tempi e costi prestabiliti. Tale fondo non è previsto da parte
di quelle amministrazioni aggiudicatrici per le quali sono in essere
contratti o convenzioni che prevedono modalità diverse per la retribuzione
delle funzioni tecniche svolte dai propri dipendenti. Gli enti che
costituiscono o si avvalgono di una centrale di committenza possono
destinare il fondo o parte di esso ai dipendenti di tale centrale. La
disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a
servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione.».
[2] V. art. 111, comma 2, del D.Lgs. 50/2016.
[3] Linee guida concernenti «Nomina, ruolo e compiti del responsabile unico
del procedimento per l’affidamento di appalti e concessioni», approvate con
deliberazione n. 1096 del 26 ottobre 2016 ed aggiornate al decreto
legislativo 19.04.2017, n. 56, con deliberazione n. 1007 dell’11.10.2017.
[4] «10.2. Il direttore dell’esecuzione del contratto è soggetto diverso dal
responsabile del procedimento nei seguenti casi:
a. prestazioni di importo superiore a 500.000 euro;
b. interventi particolarmente complessi sotto il profilo
tecnologico;
c. prestazioni che richiedono l’apporto di una pluralità di
competenze (es. servizi a supporto della funzionalità delle strutture
sanitarie che comprendono trasporto, pulizie, ristorazione, sterilizzazione,
vigilanza, socio sanitario, supporto informatico);
d. interventi caratterizzati dall’utilizzo di componenti o di
processi produttivi innovativi o dalla necessità di elevate prestazioni per
quanto riguarda la loro funzionalità;
e. per ragioni concernente l’organizzazione interna alla stazione
appaltante, che impongano il coinvolgimento di unità organizzativa diversa
da quella cui afferiscono i soggetti che hanno curato l’affidamento.».
[5] «Regolamento recante: “Approvazione delle linee guida sulle modalità di
svolgimento delle funzioni del direttore dei lavori e del direttore
dell’esecuzione”.» il cui art. 16, comma 1, dispone che «L’incarico di
direttore dell’esecuzione è, di norma, ricoperto dal RUP, tranne i casi
indicati nelle linee guida adottate dall’Autorità ai sensi dell’articolo 31,
comma 5, del codice.».
[6] «Con decreto del Ministro delle infrastrutture e trasporti, […] su
proposta dell’ANAC, […] sono approvate le linee guida che individuano le
modalità e, se del caso, la tipologia di atti, attraverso i quali il
direttore dei lavori effettua l’attività di cui all’articolo 101, comma 3,
[…]. Con il decreto di cui al primo periodo, sono disciplinate, altresì, le
modalità di svolgimento della verifica di conformità in corso di esecuzione
e finale, la relativa tempistica, nonché i casi in cui il direttore
dell’esecuzione può essere incaricato della verifica di conformità. […]».
[7] «Il direttore dell’esecuzione del contratto di servizi o di forniture è,
di norma, il responsabile unico del procedimento e provvede, anche con
l’ausilio di uno o più direttori operativi individuati dalla stazione
appaltante in relazione alla complessità dell’appalto, al coordinamento,
alla direzione e al controllo tecnico-contabile dell’esecuzione del
contratto stipulato dalla stazione appaltante assicurando la regolare
esecuzione da parte dell’esecutore, in conformità ai documenti contrattuali.
Con il medesimo decreto, di cui al comma 1, sono altresì approvate linee
guida che individuano compiutamente le modalità di effettuazione
dell’attività di controllo di cui al periodo precedente, secondo criteri di
trasparenza e semplificazione. […]».
[8] V. in particolare, il comma 1, secondo il quale «Spetta ai dirigenti la
direzione degli uffici e dei servizi secondo i criteri e le norme dettati
dagli statuti e dai regolamenti. Questi si uniformano al principio per cui i
poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli
organi di governo, mentre la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica
è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di
organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo.».
[9] L’art. 31, comma 1, del D.Lgs. 50/2016 dispone che «il RUP è nominato
con atto formale del soggetto responsabile dell’unità organizzativa, che
deve essere di livello apicale».
Secondo le linee guida ANAC n. 3, il RUP è individuato dalle stazioni
appaltanti «con atto formale del dirigente o di altro soggetto responsabile
dell’unità organizzativa» (par. 2.1.).
[10] Ai sensi dell’art. 42 del CCRL 07.12.2006 (29.08.2018 - link
a http://autonomielocali.regione.fvg.it). |
NEWS |
LAVORI PUBBLICI: Opere pubbliche, sul Dup i comuni allungano i tempi.
Anci
e Ifiel: scadenza del 30 settembre non è perentoria.
La nota esordisce premettendo che il principio contabile applicato della
programmazione (Allegato 4/1 al dlgs 118 del 2011) prevede che il Documento
unico di programmazione (Dup) comprenda il programma triennale delle opere
pubbliche nonché l'elenco annuale delle opere da realizzare. Nella nota si
ricorda che per gli enti locali con meno di 5 mila abitanti, è stato
peraltro esplicitamente chiarito che gli atti di programmazione, quale il
programma triennale e l'elenco annuale dei lavori pubblici, possono essere
inseriti direttamente nel Dup, senza necessità di ulteriori deliberazioni.
Possibile approvare il Dup (documento unico di programmazione) anche dopo il
30 settembre; il termine ministeriale non è perentorio.
È quanto hanno
affermato l'Anci e Ifiel in merito all'adozione del programma delle opere
pubbliche, disciplinato dal decreto del ministero delle infrastrutture del
16.01.2018, n. 14, che definisce, in base a quanto previsto dal codice
appalti, le procedure con cui le amministrazioni aggiudicatrici adottano i
programmi pluriennali per i lavori e i servizi pubblici ed i relativi
elenchi ed aggiornamenti annuali.
In particolare, gli adempimenti a carico delle amministrazioni consistono
nella pubblicazione sul proprio sito web del programma e dell'elenco
annuale, nell'approvazione degli stessi entro 30 giorni dalla pubblicazione
e nella successiva pubblicazione in formato «open» sui siti del Mit e sulla
piattaforma digitale Anac. Tuttavia, ad oggi il ministero delle
infrastrutture non ha ancora aggiornato, nell'applicativo web, le schede
tipo per la pubblicazione sul proprio sito informatico con la conseguenza
che gli enti locali sono costretti a utilizzare i vecchi schemi,
obbligandoli quindi a formulare gli schemi stessi ricavandoli da fogli
elettronici, con un maggior rischio di errori materiali ed omissioni.
L'Anci nota che se la giunta si fosse limitata a presentare il Dup 2019-2021
al consiglio, ad esempio, il 31.07.2018, la necessaria deliberazione
consiliare del Dup dovrebbe avvenire non oltre il 30 settembre, stante il
tenore della disposizione ministeriale.
Anci e Ifiel ritengono, tuttavia, che «il termine massimo dei 60 giorni
intercorrente tra l'adozione e l'approvazione del programma triennale delle
opere pubbliche e dell'elenco annuale, previsto dal decreto ministeriale n.
14/2018 non sia perentorio, alla stessa stregua della scadenza del 31 luglio
per la presentazione del Dup al consiglio, non essendo prevista alcuna
sanzione in caso di ritardo, come peraltro confermato dalla Faq n. 10 del 22.10.2015 della commissione Arconet».
Due le possibili strade da seguire: aggiornare la programmazione dei lavori
pubblici con la nota di aggiornamento al Dup (da approvare entro il 15
novembre), oppure inserire nel Dup l'elenco annuale e il programma triennale
delle opere pubbliche senza doverlo obbligatoriamente pubblicare; in questo
caso viene suggerito di indicare in delibera di giunta che la pubblicazione
avverrà dopo l'adozione della nota di aggiornamento del Dup così da tenere
conto delle osservazioni del consiglio comunale e delle eventuali modifiche
successive
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il commissariamento è un atto di sfiducia verso i segretari. IL DL SICUREZZA
RIPRISTINA LA DIPENDENZA GERARCHICA DEI COMUNI DAL VIMINALE.
Il commissariamento dei settori amministrativi dei comuni e degli enti
locali che risultino potenzialmente influenzati dalla criminalità
organizzata è uno degli di maggiore impatto del decreto sicurezza che il
governo si appresta ad approvare.
Il decreto introduce nel corpo
dell'articolo 143 del dlgs 267/2000 un comma 7-bis che costituisce un forte
ritorno di dipendenza gerarchica dei comuni dal Viminale ed al tempo stesso
un indiretto atto di sfiducia nei confronti del ruolo e delle funzioni dei
segretari comunali, che pure sono espressione di un Albo gestito dal
ministero dell'interno.
L'articolo 143 del Tuel attribuisce al prefetto un ampio potere di
accertamento di collegamenti diretti o indiretti tra la criminalità
organizzata e non solo gli organi politici, ma anche quelli tecnici degli
enti locali, cioè tutti i dipendenti, compreso, se incaricato, il direttore
generale ed il segretario comunale. Qualora l'accertamento svolto dal
prefetto confermi l'ipotesi di rilevanti condizionamenti della criminalità
sull'azione amministrativa, è possibile avviare la procedura di scioglimento
del consiglio comunale.
Ovviamente, lo scioglimento è un rimedio estremo ad una situazione piuttosto
grave ed estesa di condizionamenti della criminalità. L'esperienza concreta,
però, ha dimostrato che talvolta le intromissioni esterne criminali sono
circoscritte a specifici settori organizzativi degli enti locali.
Nell'assetto normativo vigente, il comma 7 dell'articolo 143 del Tuel
prevede che qualora il prefetto non ritenga di adottare il provvedimento
drastico di scioglimento del comune, conclude le proprie attività con un
provvedimento di archiviazione motivato. Non era stato preso in
considerazione un rimedio parziale all'accertamento di situazioni critiche
circoscritte a specifiche ripartizioni operative dell'ente.
Per questa
ragione il decreto sicurezza introduce il comma 7-bis, per effetto del quale
il prefetto, laddove ritenga di non poter giungere all'attivazione dello
scioglimento dell'ente, potrà, comunque, intervenire sull'organizzazione
locale, se emergano «situazioni anomale o comunque sintomatiche di condotte
illecite o di eventi criminali tali da determinare un'alterazione delle
procedure e da compromettere il buon andamento e l'imparzialità delle
amministrazioni comunali e provinciali nonché il regolare funzionamento dei
servizi ad esse affidati».
Il rimedio previsto è il commissariamento di ciascuno specifico settore
organizzativo caratterizzato dalle anomalie registrate dal prefetto, che
propone al ministro dell'interno un commissario scelto «fra funzionari
dotati di qualificata e comprovata professionalità ed esperienza
amministrativa, finanziaria e tecnica in servizio presso gli uffici centrali
o periferici del ministero dell'interno o di altre amministrazioni dello
stato, in quest'ultimo caso di concerto con il ministro competente».
Ci si
sarebbe aspettato che primo destinatario dell'incarico di commissario
potesse essere proprio il segretario comunale, vista la sua funzione di
primo garante della legittimità, e, soprattutto, data la circostanza che si
tratta di una figura terza, non dipendente del comune ma proprio del Viminale.
Si dà, probabilmente, per scontato che le modalità di assegnazione degli
incarichi ai segretari comunali implicano un rapporto di fiduciarietà col
sindaco e l'amministrazione tale da rendere opportuno che il
commissariamento sia svolto da un soggetto totalmente estraneo
all'organizzazione comunale
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Piano fabbisogni senza ansie.
Chi l’ha già adottato non deve riapprovarlo entro il 24/9.
PERSONALE/ Per gli enti nessun rischio che possa scattare il divieto di
assunzioni.
Gli
enti locali che hanno già definito la programmazione del personale non
devono approvare un nuovo piano triennale del fabbisogno entro il 24
settembre.
La questione sta suscitando molte discussioni (e qualche ansia)
negli uffici, ma in molti casi senza un reale motivo.
Partiamo dalle norme. Ai sensi dell'art. 6 del dlgs 165/2001, come
modificato da ultimo dal dlgs 75/2017, le pubbliche amministrazioni devono
adottare annualmente un piano triennale dei fabbisogni di personale, in
coerenza con la pianificazione pluriennale delle attività e della
performance, nonché con le linee di indirizzo emanate dal ministro per la
semplificazione e la pubblica amministrazione di concerto con il ministro
dell'economia e delle finanze.
Per gli enti locali, il piano deve essere inserito nel Dup che la giunta
deve presentare al consiglio entro il 31 luglio per le conseguenti
deliberazioni. Come noto, il Dup può essere approvato in sede consiliare
anche successivamente ala predetta data, compatibilmente con le previsioni
regolamentati e comunque prima del bilancio di previsione.
In base al comma 6 del citato art. 6, «le amministrazioni pubbliche che non
provvedono agli adempimenti di cui al presente articolo non possono assumere
nuovo personale».
Da ultimo, occorre richiamare l'art. 22 del dlgs 75/2017, secondo cui «in
sede di prima applicazione, il divieto di cui all'articolo 6, comma 6, del
decreto legislativo n. 165 del 2001, come modificato dal presente decreto,
si applica a decorrere dal 30.03.2018 e comunque solo decorso il termine
di sessanta giorni dalla pubblicazione delle linee di indirizzo di cui al
primo periodo».
Ora, poiché le linee di indirizzo sono state pubblicate il 27 luglio scorso,
i sessanta giorni scadono il 24 settembre: da qui la nuova scadenza e i
connessi timori. Ma ad un lettura più approfondita, questi sono di norma
infondati.
Di norma, infatti, la pianificazione relativa al triennio 2018-2020 è già
stata adottata (e approvata). In tali casi, soccorre il punto 2.3 delle
linee di indirizzo, che recitano: «sono fatti salvi, in ogni caso, i piani
di fabbisogno già adottati». Per cui, nessun rischio si pone di blocco delle
assunzioni. Discorso diverso per chi non si è ancora dotato del piano o deve
modificarlo: in questi frangenti, ovviamente trova applicazione la nuova
disciplina, ivi compresa la scadenza del 24 settembre.
Per quanto concerne la pianificazione 2019-2021, in ogni caso il divieto di
assumere non potrebbe scattare prima del prossimo 1° gennaio. Lo confermando
le linee di indirizzo, laddove affermano che «la sanzione del divieto di
assumere si riflette sulle assunzioni del triennio di riferimento del nuovo
piano senza estendersi a quelle disposte o autorizzate per il primo anno del
triennio del piano precedente ove le amministrazioni abbiano assolto
correttamente a tutti gli adempimenti previsti dalla legge per il piano
precedente»
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
LAVORI PUBBLICI: Verifica
puntuale sulle risorse per la nuova programmazione delle opere pubbliche.
La realizzazione di opere pubbliche è spesso il fiore all'occhiello degli
amministratori locali, in quanto da sempre considerate un modo per rendere
evidente la propria capacità di governo e per dimostrare i risultati
raggiunti.
Altrettanto spesso, tuttavia, le opere programmate non vengono
realizzate o (peggio) ultimate, essendo concepito il piano delle opere come
il «libro dei sogni» in cui scrivere le proprie intenzioni, anche se non si
concretizzeranno per insufficienza di risorse.
Il piano 2019-21
Il nuovo programma delle opere pubbliche da adottarsi per il 2019-2021 in
base al Dm Infrastrutture 16.01.2018 n. 14 scoraggia questo tipo di
approccio, in quanto richiede alle amministrazioni una pianificazione
puntuale delle opere da realizzare, che comprende anche l'acquisizione di
servizi e forniture correlati e l'indicazione dei tempi di avvio delle
procedure di affidamento. Inoltre è richiesto, nelle nuove schede B e F:
• l'indicazione delle opere pubbliche incompiute, alle quali dovranno essere
destinate in via prioritaria le risorse disponibili, per giungere al loro
completamento. Se gli enti non fossero in grado di individuare le necessarie
risorse finanziarie, dovranno indicare soluzioni alternative (come il cambio
destinazione d'uso, la realizzazione di altra opera, la vendita, la
demolizione), anche promuovendo il ricorso al partenariato pubblico-privato;
• l'indicazione dei lavori inclusi nell'elenco annuale 2018 non avviati e
non riproposti nel nuovo piano. In questo modo sarà reso evidente il cambio
di rotta delle amministrazioni nelle scelte sulle opere da realizzare e le
priorità da soddisfare, mettendo in condizione tutti i portatori di
interesse di esprimere un giudizio e di valutare l'operato.
Il nodo delle risorse
Se quindi il piano delle opere pubbliche non può più essere considerato
dagli amministratori come il libro dei sogni, occorre chiedersi quali siano
le regole da seguire per poter inserire un'opera nel programma triennale e
nell'elenco annuale.
Oltre all'approvazione del primo livello di progettazione (si veda il
Quotidiano degli enti locali e della Pa del 2 agosto), le risorse poste a
copertura degli interventi devono essere già certe o solo previste? Dal Dm
14/2018 non è possibile trarre indicazioni puntuali, limitandosi lo stesso
ad affermare (articolo 3, comma 8, lettera a) che l'inserimento di un'opera
nell'elenco annuale è subordinata alla «previsione in bilancio della
copertura finanziaria».
L'espressione non è delle più felici, in quanto il termine previsione lascia
intendere che le risorse possano essere semplicemente previste, mentre la
copertura finanziaria porta a ritenere che si debba trattare di risorse
accertate per le quali sia già maturato il titolo giuridico. Siffatta
interpretazione di rigore limiterebbe notevolmente la programmazione,
impedendo agli enti di poter inserire le proprie opere non finanziate con
risorse già certe. Riteniamo che l'interpretazione corretta sia quella di
indicare nel piano, così come nel bilancio, le risorse finanziarie che
possiedano il requisito dell'attendibilità e veridicità, fermo restando che
l'opera potrà essere avviata solo quando le risorse saranno state
effettivamente acquisite.
I contributi da altre amministrazioni
In questo contesto, uno snodo delicato è rappresentato dai contributi da
altre amministrazioni pubbliche destinati agli investimenti che, per molti
enti, sono il mezzo principale di finanziamento.
La nuova normativa non richiede più, come in passato facevano l’articolo 14,
comma 9, della legge 109/1994 e l’articolo 128, comma 10, del Dlgs 163/2006,
che l'inserimento di un'opera nell'elenco annuale, finanziata con contributi
pubblici, fosse subordinata allo stanziamento nel bilancio
dell'amministrazione erogante del relativo stanziamento, anche se le logiche
dell'armonizzazione portano oggi a richiedere tale coerenza, a prescindere
dalle regole specifiche previste per i lavori pubblici.
D'altro canto spesso nei bandi regionali l'inserimento di un'opera nel
programma triennale delle opere pubbliche è condizione per richiedere il
finanziamento (così come peraltro prevedeva lo stesso articolo 128 del Dlgs
163/2006). Come uscire da questo empasse? In attesa di chiarimenti
integrativi sulle nuove modalità di programmazione delle opere pubbliche e
mutuando gli orientamenti Anac emanati in precedenza, riteniamo che una
soluzione operativa di buon senso possa essere quella di tenere distinti i
due livelli della programmazione:
• quella più generale, costituita dal programma triennale e, nello
specifico, dagli interventi inseriti nel secondo e terzo anno della
programmazione. Tale documento rappresenta la volontà dell'organo di
indirizzo politico dell'ente sulla realizzazione delle opere e presupposto
necessario per l'avvio dei successivi adempimenti procedurali da parte della
Giunta comunale e dei dirigenti, compresa la definizione dei livelli
successivi di progettazione. Esso contiene un primo dimensionamento
economico degli interventi non vincolanti per il bilancio, che saranno
oggetto di successive definizioni entro margini di flessibilità considerati
non sostanziali (deliberazione Avcp n. 279/2001). Nel programma triennale
potrebbero così essere inserite opere la cui fonte di finanziamento è
costituita dalla previsione di contributi a cui si intende concorrere, ma
non ancora concessi;
• quella specifica costituita dall'elenco annuale, in cui sono inserite
solamente le opere per le quali sia stato definito il quadro economico e
individuata la copertura finanziaria, che deve trovare corrispondenza nel
bilancio di previsione e coerenza con i bilanci delle altre pubbliche
amministrazioni.
In questo modo lo slittamento di un'opera dalla seconda/terza annualità del
programma alla prima (e quindi nell'elenco annuale) equivarrebbe alla
puntuale definizione del quadro economico, all’individuazione di risorse
finanziarie sufficientemente attendibili da rendere possibile l'avvio nel
primo anno e quindi all'iscrizione in bilancio della relativa spesa di
investimento, oltre a eventuali spese gestionali o di ammortamento mutui
correlate
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.09.2018). |
ENTI LOCALI: Da
fine mese la tagliola sugli Enti che non hanno alienato le quote.
Dopo il 30 settembre le amministrazioni pubbliche che non sono riuscite ad
alienare partecipazioni non strategiche non possono più esercitare i diritti
del socio nelle società di cui non sono riuscite a vendere azioni o quote.
Dall'inizio di ottobre, infatti, scatta la sanzione prevista dall’articolo
24, comma 5 del Dlgs 175/2016, che incide sia sui diritti patrimoniali sia
su quelli amministrativi degli enti soci che non si sono liberati delle
partecipazioni individuate come non coerenti con le proprie finalità
istituzionali nel piano straordinario di razionalizzazione approvato un anno
fa.
Nel Milleproroghe la maggioranza aveva provato a intervenire spostando
in là la scadenza, con un emendamento che al Senato è stato ritirato tra le
polemiche e non è stato più ripresentato alla Camera.
Le conseguenze
Le conseguenze per un ente che non ha venduto le quote o le azioni delle
società ritenute non strategiche a fronte dei criteri previsti dall'articolo
20 del d.lgs. n. 175/2016 sono molto rilevanti anzitutto sotto il profilo
amministrativo. L'amministrazione infatti non può più intervenire nei
processi decisionali dei soci, a partire dall'assemblea, nella quale la
mancata partecipazione del socio pubblico “inabilitato” va a incidere anche
sui quorum costitutivi dell'organismo.
Con l'effetto, in molti casi, di
impedire al socio di adottare deliberazioni che prevedano maggioranze
qualificate o, qualora la partecipazione sia molto rilevante, anche
deliberazioni a maggioranza assoluta. L'ente non può esercitare nemmeno i
poteri di indirizzo e di controllo, non avendo quindi la possibilità di far
valere le deliberazioni sugli obiettivi per le spese di funzionamento,
comprensive delle regole sulle assunzioni di personale nella partecipata.
Canali chiusi
Anche in chiave passiva il divieto porta effetti pesanti, perché l'ente non
ha la possibilità di far valere i diritti di tipo informativo né di essere
informato dalla società sullo sviluppo delle sue attività. Il congelamento
dei diritti sociali impedisce quindi all'amministrazione di avere le
comunicazioni sul bilancio, ma vieta anche la possibilità di promuovere
azioni nei confronti degli amministratori.
Proprio le situazioni critiche
determinano il maggior quadro di rischio, poiché l'impossibilità di
intervenire impedisce al socio pubblico di adottare atti che possano
consentire il ripiano di perdite o, più semplicemente, l'erogazione di
contributi straordinari (ad esempio in conto esercizio).
Diritti patrimoniali
Il divieto di esercitare i diritti del socio si riflette anche su quelli
patrimoniali, per cui, qualora la società non strategica generi utili,
l'ente che non è riuscito a venderne azioni o quote non può percepire gli
eventuali dividendi. In base allo stesso articolo 24, comma 5 del Dlgs
175/2016, le amministrazioni possono comunque proseguire nel percorso per
l'alienazione delle quote o delle azioni, che devono essere liquidate in
denaro in base ai criteri stabiliti all'articolo 2437-ter, secondo comma,
del Codice civile
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.09.2018). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Ok
agli incentivi tecnici per le concessioni.
Gli incentivi per le funzioni tecniche non possono essere erogati né ai
commissari di gara né in caso di assenza di procedure concorsuali, mentre
possono esserlo anche per le concessioni. Il regolamento, che non può avere
decorrenza retroattiva, prevale sulla contrattazione e vanno esclusi, a
partire dalle attività svolte dopo lo scorso 1° gennaio, dal tetto del fondo
e dalla spesa del personale.
Queste indicazioni in alcuni recenti pareri delle sezioni regionali della
Corte dei conti.
L’obbligo della gara
Il
parere 06.07.2018 n. 57 della sezione regionale di controllo per
il Lazio chiarisce che il presupposto per l’erogazione di questi compensi è
aver effettuato una procedura concorsuale.
Si deve quindi escludere che essi possano essere corrisposti in caso di «procedure
di somma urgenza o svolte mediante affidamento diretto»: è questa una
condizione da considerare come imprescindibile e che si realizza nel caso di
concessioni.
Lo stesso parere chiarisce che questi compensi spettano ai dipendenti
dell'ente che sono nominati come componenti la commissione di gara,
possibilità che peraltro l'Anac ritiene eccezionale. Alla base di questa
esclusione c’è la considerazione che la norma non prevede queste attività
tra quelle incentivabili e non si può arrivare, con un’interpretazione
estensiva; a questa conclusione si giunge in quanto essa «non può essere
qualificata come tecnico-esecutiva», avendo un carattere valutativo.
Il divieto si deve applicare, anche per la quota del 25% da destinare agli
incentivi del personale della centrale unica di committenza, nel caso in cui
l'incarico di componente la commissione di gara sia svolto presso la
centrale unica di committenza. Al più questi compensi possono essere
corrisposti ai membri della conferenza unificata tecnica della commissione,
anche se dipendenti del Comune, perché l’attività è di tipo tecnico e non
valutativo.
Regolamento non retroattivo
La delibera della sezione di controllo del Lazio, oltre a quelle del
Piemonte,
parere 23.05.2018 n. 56, e del Veneto,
parere 21.06.2018 n. 198 e
parere 25.07.2018 n. 264, spiegano che il regolamento approvato
dall'ente non può avere decorrenza retroattiva. Ma ci dicono anche che le
amministrazioni hanno l'obbligo di prevedere che gli incentivi per le
funzioni tecniche siano inseriti nel conto economico dell'opera o
dell'appalto di servizi o forniture, entro il tetto massimo del 2%
dell'importo posto a base di gara.
Il regolamento, anche per attività svolte prima dell’entrata in vigore, può
dare corso alla loro ripartizione, ma senza l’approvazione non si può
arrivare all’erogazione. Il regolamento può essere adottato, quanto meno in
via provvisoria, anche senza la contrattazione, precisa la Corte dei conti
laziale. Non può essere adottato per disciplinare questi compensi per il
periodo compreso tra l'entrata in vigore del Dl 90/2014 e del Dlgs 50/2016 e
non può avere un effetto di sanatoria per pagamenti già disposti.
Tutte le pronunce (aggiungiamo anche il
parere 21.06.2018 n. 199 ed il
parere 25.07.2018 n. 265 della Corte dei conti del Veneto, le
risorse necessarie per l’erogazione degli incentivi tecnici vanno sia al di
fuori del tetto del fondo, sia al di fuori della spesa del personale.
La deroga è stata introdotta dalla legge di bilancio 2018 e si applica solo
alle attività svolte dopo il 01.01.2018
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.09.2018). |
APPALTI: Responsabilità
solidale sempre. I contratti collettivi non possono più introdurre deroghe.
Il ministero del lavoro sulla riforma: vecchie norme valide solo per i
crediti fino al 16/3/2017.
Inderogabili le norme sulla responsabilità solidale negli
appalti. Dal 17.03.2017, infatti, i contratti collettivi non possono più
prevedere deroghe allo speciale regime della solidarietà disciplinato
dall'art. 29 del dlgs n. 276/2003 (che lega appaltatore e committente per i
crediti retributivi e contributivi dei lavoratori dipendenti impiegati
dell'appalto). Eventuali deroghe contrattuali vigenti a tale data continuano
a produrre effetto limitatamente ai crediti maturati fino alla stessa data
(non per quelli maturati successivamente).
A precisarlo è il ministero del lavoro nell'interpello
13.09.2018 n. 5/2018, spiegando la portata dell'art. 2 del dl n.
25/2017 (convertito dalla legge n. 49/2017).
Responsabilità solidale.
La richiesta di chiarimenti è stata avanzata dall'Ugl Terziario e riguarda,
come detto, il regime della responsabilità solidale operativo tra
appaltatore e committenti, ai sensi dell'art. 29 del dlgs n. 276/2003.
In particolare, tale regime prevede che, in caso di appalto di opere o
servizi, il committente è obbligato in solido con l'appaltatore e gli
eventuali subappaltatori, nel limite di due anni dalla cessazione
dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori le retribuzioni, incluse le
quote di trattamento di fine rapporto (tfr), nonché i contributi e i premi
assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione dell'appalto.
Fino al 16.03.2017, inoltre, era vigente l'ulteriore disposizione (comma 2
dell'art. 29) che attribuiva alla contrattazione collettiva la facoltà di
derogare al regime di solidarietà, nel caso di individuazione di metodi e
procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli
appalti.
Stop alle deroghe.
L'ultima norma è stata abrogata dal decreto legge n. 25/2017, in vigore dal
17.03.2017, con la conseguenza di sopprimere la facoltà riconosciuta ai
contratti collettivi di prevedere deroga al regime di solidarietà. L'Ugl-terziario
ha chiesto di sapere la portata applicativa della novità, ossia se abbia o
meno natura retroattiva, alla luce di quanto prevede il codice civile in
materia di efficacia della legge nel tempo, in particolare per
l'applicazione dei contratti collettivi che, in attuazione della norma
abrogata (art. 29, comma 2, del dlgs n. 276/2003), contengano misure di
verifica e di controllo sulla regolarità degli appalti.
Il ministero fa presente, in primo luogo, che la modifica normativa ha
effetto a partire dal 17.03.2017, data dell'entrata in vigore, senza che sia
prevista alcuna disciplina transitoria, né in ordine agli effetti sui
contratti collettivi in corso di validità, né sui contratti di appalto che
siano sottoposti a misure di controllo ai sensi di eventuali previsioni di
contratti collettivi. Il ministero aggiunge, quindi, che l'eliminazione
della facoltà, precedentemente riconosciuta alla contrattazione collettiva,
opera sui nuovi contratti collettivi, ai quali è precluso per il futuro la
possibilità di inserire deroghe allo speciale regime di solidarietà.
Inoltre, le eventuali deroghe vigenti per effetto di contratti collettivi in
corso di validità al 17.03.2017 non possono trovare applicazione negli
appalti sottoscritti a partire dalla predetta data. Infine, quale ius
superveniens, la norma di abrogazione opera nei confronti di situazioni
e/o fatti che al 17.03.2017 (data dell'entrata in vigore del dl n. 25/2017)
non erano sorte e non risultavano perfezionate nei loro elementi e nella
loro esecuzione.
In altre parole, l'eventuale deroga contrattuale può continuare a trovare
applicazione solo per i crediti maturati fino al 16.03.2017; mentre non può
trovare applicazione per i crediti maturati a partire dal 17.03.2017
(articolo
ItaliaOggi del 18.09.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Multe
e atti, consegna aperta. Licenze speciali anche ai privati. Quattro le
tipologie. Pubblicato in G.U. il decreto del Mise che interrompe il
monopolio di Poste Italiane.
Via libera definitivo al rilascio delle licenze
speciali (divise in quattro tipologie) per l'attività di notificazione degli
atti giudiziari e dei verbali del codice della strada, non più riservata
esclusivamente a Poste Italiane.
A distanza di un anno dalla legge sulla
concorrenza n. 124/2017 è stato, infatti, pubblicato l'atteso decreto
ministeriale che apre il mercato del recapito delle multe stradali,
nell'ottica di una concorrenza che potrebbe comportare minori spese per
l'utente finale.
Il decreto legislativo n. 261/1999. Prima delle modifiche introdotte dalla
legge n. 124/2017, il decreto legislativo n. 261/1999 aveva previsto un
unico fornitore del servizio universale postale, con una distinzione, non
presente nell'ordinamento comunitario, tra fornitore del servizio e
prestatori del medesimo servizio. Il primo fornisce il servizio
integralmente su tutto il territorio nazionale, i secondi forniscono
prestazioni singole e specifiche.
Fornitrice del servizio universale è
riconosciuta ex lege la società Poste italiane spa e i rapporti con lo stato
sono regolati da periodici contratti di programma. Per gli altri operatori è
necessaria una licenza individuale, rilasciata dal ministero dello sviluppo
economico, per le imprese che intendono fornire al pubblico servizi postali
non riservati che rientrano nel campo di applicazione del servizio
universale, e un'autorizzazione generale rilasciata dal ministero dello
sviluppo economico.
La legge sulla concorrenza n. 124/2017. La legge n. 124 del
04.08.2017 ha
disposto la soppressione a decorrere dal 10 settembre 2017 dell'attribuzione
in esclusiva alla società Poste Italiane (quale fornitore del servizio
universale postale) dei servizi inerenti alle notificazioni e comunicazioni
di atti giudiziari (ai sensi della legge n. 890/1982) e alle notificazioni
delle violazioni del codice della strada (ai sensi dell'art. 201 del decreto
legislativo n. 285/1992).
In particolare, modificando il decreto legislativo
n. 261/1999, la legge sulla concorrenza del 2017 ha aveva disposto che entro
novanta giorni dalla sua entrata in vigore (cioè dal 29.08.2017)
l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dovesse determinare i
requisiti e gli obblighi per il rilascio delle licenze individuali relative
alle notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari e alle notificazioni
delle violazioni del codice della strada.
I provvedimenti dell'Agcom. Con la deliberazione n. 77/18/Cons del 20.02.2018 l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha approvato il
previsto regolamento, precisando quali sono i requisiti per ottenere la
licenza. Il regolamento contiene anche gli standard di qualità che devono
essere garantiti per ogni invio.
In particolare, per almeno il 90% degli
atti gli operatori privati devono eseguire la consegna del piego entro
cinque giorni lavorativi e per almeno il 98% entro sette giorni lavorativi.
Il corriere privato deve avere un «corner», uno spazio dedicato, chiaramente
identificato con i segni distintivi del titolare della licenza speciale, nel
quale i servizi di accettazione e ritiro della giacenza, sono offerti alla
clientela secondo i metodi e le direttive previsti da un apposito manuale
operativo presentato all'atto della domanda per il rilascio del titolo.
Per quanto riguarda l'articolazione della logistica delle strutture
abilitate al deposito e al ritiro delle giacenze, viene richiesta almeno una
struttura entro un raggio di 10 km dal centro del comune che ha popolazione
fino a 15 mila abitanti, almeno una struttura nel comune con popolazione fra
15 mila e 50 mila abitanti, almeno una oppure almeno due strutture nel
comune con popolazione tra 50 mila abitanti e 200 mila abitanti a seconda
che la superficie sia rispettivamente minore o maggiore di 100 km/q, almeno
tre strutture nel comune con più di 200 mila abitanti.
Le strutture dovranno
essere aperte almeno due pomeriggi alla settimana e almeno dalle ore 15,30
alle ore 19,00, con la chiusura di sabato pomeriggio e nei festivi. Con la
deliberazione n. 285/18/Cons del 27/6/2018, al fine di evitare l'adozione di
stampati già utilizzati dal fornitore del servizio universale di non
vincolare i processi tecnici dei nuovi operatori entranti, l'Agcom ha
definito le caratteristiche uniformi delle buste e dei moduli che devono
essere utilizzati dagli operatori postali e allegati alla domanda di
rilascio della licenza speciale.
Il decreto del Mise. Il 19.07.2018 il ministro dello sviluppo economico
Luigi Di Maio ha firmato il decreto che regolamenta le procedure per il
rilascio delle licenze speciali. Tale decreto ministeriale è stato
pubblicato sulla G.U. n. 208 del 7 settembre scorso.
Il provvedimento
suddivide le licenze individuali speciali, rilasciabili ai corrieri privati,
in quattro diverse tipologie: la licenza A1 per la notificazione a mezzo
posta degli atti giudiziari e delle violazioni del codice della strada in
ambito nazionale, la licenza A2 per la notificazione a mezzo posta degli
atti giudiziari e delle violazioni del codice della strada in ambito
regionale, la licenza B1 per la notificazione a mezzo posta di violazioni
del codice della strada in ambito nazionale e la licenza B2 per la
notificazione a mezzo posta di violazioni del codice della strada in ambito
regionale. Gli operatori privati che intendono presentare l'istanza devono
comprovare il possesso di alcuni requisiti,
Per avviare il servizio, il
corriere privato deve necessariamente attendere il rilascio della licenza
individuale speciale, che ha una validità non superiore a sei anni. Se
successivamente viene meno il possesso dei requisiti prescritti oppure non
viene presentata la richiesta di rinnovo almeno 90 giorni prima della
scadenza, la licenza decade. E in caso di gravi violazioni sulle modalità di
svolgimento del servizio, il ministero dello sviluppo economico, su
richiesta o proposta dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, può
inviare una diffida o disporre la sospensione o la revoca della licenza.
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Anche la Pec fa risparmiare i trasgressori.
Se, da un lato, il rilascio delle nuove licenze speciali per i corrieri
privati contribuirà a favorire, grazie alla concorrenza, una riduzione delle
spese del servizio, già da alcuni mesi la notificazione delle multe stradali
via Pec sta avendo l'effetto di contenere le spese e quindi di ridurre
l'importo totale che il trasgressore deve pagare per una violazione del
codice della strada.
Con il decreto del ministero dell'interno del 18.12.2017 recante «Disciplina delle procedure per la notificazione dei
verbali di accertamento delle violazioni del codice della strada, tramite
posta elettronica certificata», gli organi accertatori devono notificare le
multe stradali tramite la Posta elettronica certificata all'indirizzo di Pec
dichiarato dal conducente o dal responsabile in solido o al domicilio
digitale di cui all'art. 3-bis del codice dell'amministrazione digitale.
In
caso di contestazione immediata della violazione stradale, la notificazione
si intende eseguita, ma è opportuno far dichiarare al trasgressore e
all'obbligato in solido presenti la casella personale di Pec. Invece, con la
contestazione differita della violazione stradale va notificazione va fatta
via Pec, senza oneri per il destinatario, alla casella ottenibile dagli
elenchi di cui all'art. 16-ter del decreto legge n. 179 del 18.10.2012
e in ogni altro registro contenente i domicili digitali validi ai fini delle
comunicazioni aventi valore legale.
Se la notificazione mediante Pec non è
possibile, si segue la procedura ex art. 201 cds, con oneri a carico del
destinatario. Il messaggio di Pec inviato al destinatario del verbale deve
contenere nell'oggetto la dizione di «atto amministrativo relativo a una
sanzione amministrativa prevista dal codice della strada» e in allegato una
relazione di notificazione su documento informatico separato, sottoscritto
con firma digitale, una copia per immagine su supporto informatico di
documento analogico del verbale e ogni altra comunicazione o informazione
utile al destinatario per esercitare il proprio diritto alla difesa e ogni
altro diritto o interesse tutelato.
I termini per la notificazione sono
quelli già previsti dal codice della strada. I verbali si considerano
spediti, per gli organi di polizia stradale, nel momento in cui viene
generata la ricevuta di accettazione della Pec
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti
sorvegliati speciali. Comuni infiltrati o malgestiti: commissari per un
anno. È una delle novità del decreto legge Salvini sulla sicurezza che è
ormai in dirittura.
Dipendenti comunali commissariati. In caso di
condotte sospettate di illegalità o di cattiva gestione, il ministro
dell’Interno su input del prefetto potrà inviare negli enti commissari
straordinari da inserire per un anno nei posti burocratici chiave per
accelerare le pratiche.
Dipendenti comunali commissariati. In caso di condotte
sospettate di illegalità o di cattiva gestione, il ministro dell'Interno su
input del prefetto potrà inviare negli enti commissari straordinari da
inserire per un anno nei posti burocratici chiave per accelerare le
pratiche. Ciò soprattutto allo scopo di contrastare l'infiltrazione
criminale all'interno degli organi tecnici delle amministrazioni comunali e
provinciali. Presto dunque saranno sorvegliati speciali non solo i politici
ma anche tutti i tecnici e i dirigenti.
Lo prevede lo schema di decreto
legge recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica,
prevenzione e contrasto al terrorismo e alla criminalità mafiosa, modifiche
al codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione di cui al
decreto legislativo 06.09.2011, n. 159, nonché misure per la funzionalità
del ministero dell'interno» ormai in dirittura, che contiene anche lo
sblocco degli straordinari per le forze di polizia e una parziale apertura
della banca dati (Ced) del Viminale alle necessità della polizia locale
delle grandi città.
Sono dunque ambiziose le finalità del provvedimento annunciato a colpi di
tweet da alcune settimane dal ministro Matteo Salvini e che nell'ultima
versione disponibile si compone di ben 34 articoli. Oltre al potenziamento
dei dispositivi di controllo elettronico dei detenuti, il provvedimento
introduce controlli in materia di noleggio dei veicoli per finalità di
prevenzione del terrorismo. Saranno le società di noleggio a comunicare
tempestivamente alla polizia i dati dei clienti per verificare
preliminarmente eventuali soggetti sospetti che potrebbero utilizzare i
veicoli per compiere attentati.
Anche la polizia locale dei comuni più grandi potrà finalmente accedere alla
banca dati interforze del Viminale per verificare le generalità delle
persone controllate in relazione a provvedimenti di ricerca o di rintraccio.
Ma si tratta sempre di una apertura parziale che non abilita tutti i comandi
di polizia locale alle informazioni necessarie per lavorare serenamente.
Verranno poi introdotte leggere modifiche sul daspo urbano e sportivo e
potenziato il reato di blocco stradale.
Circa il contrasto e la prevenzione della criminalità mafiosa il
provvedimento interviene sul codice antimafia, sul monitoraggio dei cantieri
ma anche in materia di subappalti illeciti inasprendo le pene previste dalla
legge Rognoni-La Torre. Per migliorare la circolarità informativa viene
modificata anche la normativa antiriciclaggio e il Testo unico delle leggi
di pubblica sicurezza introducendo una accelerazione nella comunicazione
delle sentenze di condanna per delitti di mafia al questore di riferimento.
Circa il contrasto dell'occupazione abusiva di immobili il provvedimento
inasprisce le pene ed introduce un piano operativo nazionale dedicato
specificamente al complesso tema. Si tratta in pratica di una nuova
strategia di intervento che vedrà il prefetto al centro dell'azione di
contrasto. La bozza di decreto punta poi i riflettori sulla gestione dei
beni confiscati e sequestrati semplificando le attività burocratiche
dell'agenzia nazionale e istituendo presso le prefetture eventuali tavoli
permanenti sulle aziende sequestrate e confiscate.
Gli ultimi articoli del provvedimento sono dedicati al miglioramento delle
attività del Viminale e delle forze di polizia. Gli straordinari delle forze
di polizia dello stato non saranno più sottoposti ai vincoli introdotti dal
decreto legislativo 25.05.2017, n. 75, nei limiti dello stanziamento già
esistente in bilancio. E verranno aumentati i fondi necessari per la
retribuzione del personale volontario del corpo nazionale dei vigili del
fuoco (articolo ItaliaOggi del 15.09.2018). |
VARI: Immobiliare
Periti doc.
Non basta avere un diploma o una laurea per svolgere l'attività di
valutatore immobiliare. Ma è necessario essere iscritti ai rispetti albi
professionali (per esempio quello di agronomi, architetti, geometri e
ingegneri).
Lo chiarisce Accredia (l'ente italiano di accreditamento) con la
circolare 28.08.2018 n. 12/2018.
Questa nuova e più stringente interpretazione impone agli organismi un
accertamento puntuale, finalizzato:
- ad accettare che, dal 28.08.2018, le domande di certificazione
siano presentate solo da candidati valutatori immobiliari già iscritti ad
albi e periti iscritti presso le camere di commercio nella specifica sezione
inerente le stime immobiliari;
- a rivalutare le certificazioni già emesse. E, in assenza di
iscrizione a uno degli albi professionali, sospendere o revocare la
certificazione interessata, in attesa che anche questo requisito venga
soddisfatto. Questa rivalutazione dovrà essere completata entro fine 2018
per tutte le certificazioni già emesse (o per le pratiche in cui l'iter di
certificazione fosse già stato avviato)
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2018). |
LAVORI PUBBLICI: Niente
Fpv per i lavori allo stato di progetto.
Niente Fondo pluriennale vincolato per i lavori pubblici che si trovano
ancora allo stato di progetto.
È la conseguenza della pubblicazione solo parziale del
dm 29.08.2018,
contenente l'ottavo decreto correttivo ai principi contabili.
Il testo (che ancora attende di atterrare sulla Gazzetta Ufficiale) è stato
pesantemente sforbiciato rispetto alla versione più ampia licenziata dalla
Commissione tecnica lo scorso 11 luglio.
In particolare, era prevista una profonda revisione dell'allegato 4/2, al
fine di rendere più semplice il raccordo fra le norme contabili e quelle
sugli appalti di lavori pubblici, introducendo numerose novità, soprattutto
per quanto concerne l'impatto contabile della progettazione e della
realizzazione delle opere e la possibilità di attivare il fondo pluriennale
vincolato anche solo in presenza di un progetto almeno definitiva.
Questa parte non è stata ripresa nel testo ufficiale, perché il governo
intende riconsiderarla alla luce della annunciata revisione del dlgs
50/2016. Lo stop, però, rischia di complicare la vita di molte
amministrazioni, che speravano nella maggiore flessibilità promessa da
tempo. Due i principali nodi critici: l'impossibilità di considerare «impegnato»
l'intero quadro economico dell'opera quando si è ancora a livello di
progetto e i tempi stretti per la riprogrammazione dei ribassi d'asta
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2018). |
APPALTI FORNITURE E SERVIZI: Sopra
i 40 mila acquisti dai soggetti aggregatori.
L'obbligo di fare ricorso ai soggetti aggregatori comprende nuove tipologie
di servizi e di beni per le quali gli enti locali non possono più gestire
direttamente le procedure di acquisto oltre specifiche soglie.
Il dpcm 11.07.2018 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 16 agosto e in
vigore dalla stessa data) sostituisce il precedente decreto del 24.12.2015,
definendo un quadro di prestazioni e forniture molto più ampio assoggettato
alla disciplina dell'art. 9, comma 3, della legge n. 89/2014.
La disposizione stabilisce che le amministrazioni pubbliche (in particolare
gli enti del servizio sanitario nazionale e gli enti locali) devono
acquisire le tipologie di beni e servizi individuati dal decreto mediante i
soggetti aggregatori, potendo sia fare riferimento a iniziative aggregative
da essi sviluppate (es. le convenzioni quadro di Consip o di alcune centrali
di committenza regionali) sia chiedendo agli stessi la gestione di gare
specifiche.
Il nuovo decreto attuativo obbliga gli enti locali a ricorrere ai soggetti
aggregatori sin dalla sua entrata in vigore per acquisire i servizi di
trasporto scolastico di valore superiore ai 40.000 euro: tale soglia è
riferita alla base d'asta annuale o, se il servizio ha sviluppo temporale
superiore, pluriennale.
La classificazione del nuovo dpcm comporta per gli enti un'accurata
revisione dei processi di esternalizzazione del particolare servizio,
dovendo considerare anche la possibilità di iniziative aggregative
coinvolgenti più amministrazioni, con possibile suddivisione in lotti
funzionali territoriali. Il decreto dell'11 luglio individua nelle nuove
categorie merceologiche anche le forniture di beni e i servizi per la
manutenzione delle strade di valore superiore alla soglia comunitaria
(221.000 euro), stabilendo tuttavia che per tali tipologie l'obbligo decorra
dal 15.08.2019, fatta eccezione per le iniziative eventualmente già avviate
dai soggetti aggregatori.
Il quadro attuativo dell'art. 9 della legge n. 89/2014 fa permanere
nell'obbligo di ricorso ai soggetti aggregatori i servizi di guardiania e di
vigilanza armata (entrambi per valori superiori ai 40.000 euro), nonché
quelli di pulizia, di facility management e di manutenzione per gli
immobili (in tutti e tre i casi quando la base d'asta annuale o pluriennale
supera i 221.000 euro)
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2018). |
APPALTI: L’imposta
di bollo per gli acquisti PA sul mercato digitale. Incertezza sulle modalità
con cui la Pa potrà provare l’assolvimento dell’obbligo.
Nell’acquisto di beni e servizi tramite mercato elettronico della pubblica
amministrazione è dovuta l’imposta di bollo anche se resta incerta la
modalità di assolvimento e le Pa stazioni appaltanti non hanno solo una
funzione di vigilanza sul regolare adempimento del fornitore, ma sono
solidalmente responsabili (articolo 22, Dpr 642/1972), in quanto solo alle
amministrazioni dello Stato compete l’esenzione con obbligazione esclusiva a
carico dei fornitori.
Queste le precisazioni che si ricavano dalla risposta delle Entrate ad
interpello
(n. 956-571/2018) di un’università statale dello scorso agosto, quindi non ancora
pubblicata nella nuova sezione del sito, ma che impattano su tutte le
innumerevoli Pa (Aziende sanitarie, enti pubblici non economici, enti
locali, ecc.), diverse dalle amministrazioni dello Stato e sui loro
fornitori.
L’università, in quanto Pa tenuta alla realizzazione di propri acquisti
facendo riferimento al codice dei contratti pubblici (Dlgs 50/2016) e
attraverso il mercato elettronico della pubblica amministrazione (Mepa),
aveva chiesto chiarimenti sulla propria funzione di vigilanza rispetto
all’imposta, nonché conferma di come dovesse ritenersi materialmente
applicabile l’orientamento della risoluzione n. 96/E/2013 emanata in vigenza
del Dlgs 163/2006 e del relativo Dpr 207/2010.
La risoluzione 96/E aveva affermato l’assoggettamento a imposta di bollo
sulle transazioni Mepa, ritenendo il documento informatico di stipula,
sottoscritto digitalmente dalla sola Pa, assimilabile ad un contratto non
classificabile fra quelli conclusi nella forma dello scambio di
corrispondenza secondo l’uso del commercio (per i quali l’imposta è dovuta
solo in caso d’uso), ma non aveva indicato con quale modalità si dovesse
procedere all’assolvimento.
All’epoca della predetta risoluzione l’articolo 139 del Dpr 207/2010
stabiliva chiaramente che l’imposta di bollo era a carico del fornitore,
norma abrogata con l’avvento del Dlgs 50/2016, per cui l’Agenzia nega che vi
possa essere una obbligazione concentrata nel solo fornitore e la riconduce
solidalmente alle parti del contratto. Tale principio ha impatto generale e
si ritiene trovi applicazione in tutti i contratti di acquisti di beni e
servizi in qualunque forma stipulati (analogica o digitale) che vedano parte
le Pa, stazioni appaltanti diverse dalle amministrazioni dello stato.
Resta incertezza sulla modalità di assolvimento del bollo: l’Agenzia
ribadisce l’inapplicabilità dell’articolo 6 del Dm 17.06.2014 limitata
ai documenti informatici fiscalmente rilevanti (libri, registri, fatture) e
afferma che la Pa potrà comprovare l’assolvimento dell’imposta in modalità
virtuale o indicando nel documento inviato il codice numerico di 14 cifre
rilevabili dal contrassegno telematico (risoluzione n. 89/E/2016)
addirittura ponendo prioritariamente l’onere sulla stazione appaltante.
Non viene considerata l’assenza di materialità e rigidità del procedimento
Mepa, che rende tecnicamente complesso il legame documento digitale e
imposta di bollo. Nessun accenno alla possibilità d’impiego della marca da
bollo digitale (servizio@bollo), regolamentata dall’Agenzia nel 2014, con
PagoPA che potrebbe essere idoneo per la fattispecie, ma stenta a trovare
diffusione
(articolo Il Sole 24 Ore del 13.09.2018). |
PUBBLICO
IMPIEGO:
Equo indennizzo per tutti i vigili. Viminale: non conta la
popolazione.
La polizia municipale torna a beneficiare dell'equo
indennizzo e del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio con
esclusione delle cure termali e inalatorie. A prescindere dalla dimensione
demografica dell'ente di appartenenza.
Lo ha evidenziato il dipartimento
degli affari interni e territoriali del Viminale con la
nota 23.08.2018
n. 97420690584 di prot..
La questione della cancellazione dell'equo indennizzo per la polizia locale
nasce con il decreto salva Italia, approvato dal governo Monti. Trattandosi
di una polizia comunale gli operatori di vigilanza urbana erano stati
esclusi dalla deroga al taglio prevista in origine solo per le forze
dell'ordine. La tutela è stata poi ripristinata, in parte, con la legge di
conversione del decreto sicurezza.
Con la modifica introdotta dal dl 14/2017, infatti, il procedimento per
l'accertamento della dipendenza da causa di servizio disciplinato dal dpr
461/2001, consente di attivare la richiesta di equo indennizzo all'operatore
municipale rimasto vittima di un sinistro. Ovvero di accedere a un
riconoscimento forfettario della menomazione patita per causa di servizio,
in proporzione alla gravità della vicenda.
Allo stesso operatore coinvolto nella limitazione fisica per motivi di
lavoro verrà anche riconosciuto il rimborso delle spese di degenza per causa
di servizio. Ovvero le spese per ricoveri in istituti sanitari pubblici o
privati convenzionati, «conseguenti a ferite o lesioni riportate
nell'espletamento di servizi di polizia o di soccorso pubblico, ovvero nello
svolgimento di attività operative o addestrative, riconosciute dipendenti da
causa di servizio, con esclusione delle cure balneo-termali, idropiniche e
inalatorie».
Non è stata invece ripristinata la pensione privilegiata per l'agente
vittima di un evento invalidante al lavoro. In ogni caso le spese dovranno
essere anticipate dai comuni. Ma non solo i comuni più grandi, come aveva
indicato il ministero delle finanze al comune di Irsina con la nota del 24.05.2018. A parere del Viminale infatti l'istituto si applica a tutto il
personale della polizia municipale. A prescindere dalla dimensione
demografica dell'ente di appartenenza (articolo ItaliaOggi del 13.09.2018). |
ENTI LOCALI - VARI: Atti
giudiziari, notifiche anche da poste private.
Legittime anche le notifiche degli atti giudiziari (per esempio decreti
ingiuntivi, sentenze ecc.) e delle multe per violazione al codice della
strada, effettuate per il tramite di poste private che siano debitamente
autorizzate.
È stato infatti disciplinato con il decreto del ministero dello sviluppo
economico del 19.07.2018, pubblicato in G.U. n. 208 del 7 settembre
scorso, il rilascio delle licenze individuali per i servizi di notificazione
sino ad ora attribuito in esclusiva alla società Poste Italiane.
La legge
annuale per il mercato e la concorrenza 2017 ha liberalizzato il settore
postale mettendo fine al monopolio di Poste Italiane per la notifica degli
atti giudiziari e delle multe. Il rilascio della licenza dovrà essere
subordinato a specifici obblighi di servizio universale con riguardo alla
sicurezza, alla qualità, alla disponibilità e all'esecuzione dei servizi
medesimi.
La legge 04.08.2017, n. 124, all'art. 1, comma 57, lettera b),
ha disposto, con decorrenza dal 10.09.2017, l'abrogazione dell'art. 4
del dlgs 22.07.1999, n. 261. Tale abrogazione espressa comporta, quindi,
la soppressione dell'attribuzione in esclusiva alla società Poste Italiane
quale fornitore del servizio postale universale, dei servizi inerenti le
notificazioni e comunicazioni di atti giudiziari, ai sensi della legge n.
890/1982, nonché dei servizi inerenti le notificazioni delle violazioni al
codice della strada ai sensi dell'art. 201 del dlgs. n. 285/1992.
Tornando
alle nuove regole, le domande per il rilascio delle licenze vanno inoltrate
tramite raccomandata con avviso di ricevimento o tramite posta elettronica
certificata; il termine per il rilascio della licenza individuale speciale
(o per il rifiuto della stessa) è fissato in 45 giorni, decorrenti dalla
data di ricevimento della domanda. Le licenze sono classificate in varie
tipologie per la notificazione degli atti secondo ambiti regionali o
nazionali.
Le licenze speciali, sia in ambito nazionale che regionale,
durano sei anni e sono rinnovabili. Il rilascio della licenza speciale è,
altresì, subordinato al possesso di determinati requisiti di affidabilità,
di professionalità e di onorabilità; è, inoltre, assoggettato a determinati
obblighi in materia di personale dipendente e di qualità del servizio
(articolo ItaliaOggi del 12.09.2018). |
LAVORI
PUBBLICI: Dup
e programma delle opere pubbliche insieme anche per i piccoli Comuni.
L'emanazione del
decreto 29.08.2018 Economia e finanza di
aggiornamento dei principi contabili allegati al Dlgs 118/2011 consente di
fare un pò di chiarezza sul rapporto tra l'approvazione del documento unico
di programmazione e gli atti di programmazione settoriale che stanno
impegnando gli enti locali in queste settimane.
Gli antefatti
Il Dm 18.05.2018, nell'ambito delle disposizioni di semplificazione del Dup previste per i Comuni fino a 5.000 abitanti, aveva previsto che «fatti
salvi gli specifici termini previsti dalla normativa vigente, si considerano
approvati, in quanto contenuti nel DUP, senza necessità di ulteriori
deliberazioni» tutti gli atti di programmazione settoriale.
Così facendo
veniva data una scansione temporale anche all'iter di adozione e approvare
del programma triennale delle opere pubbliche e del programma biennale
forniture e servizi, per i quali il Dm 14/2018 non prevede autonomi termini
di approvazione. La previsione è stata interpretata dalla Corte di conti
Puglia (deliberazione n. 103/2018) come valevole solamente per i piccoli
enti e non estendibile, in virtù di un processo di semplificazione
amministrativa, anche a quelli di maggiori dimensioni (si veda il Quotidiano
degli entilocali e della Pa del 25 luglio).
Sul punto si era espressa anche
l'Anci che, con nota di orientamento del 24 luglio 2018, aveva ammesso la
possibilità di unificare i due procedimenti amministrativi, salvo garantire
i termini di pubblicazione del programma opere pubbliche per 30 giorni,
prima di procedere alla sua definitiva approvazione.
Le novità del principio contabile allegato 4/1
Il Dm 29.08.2018, modificando il punto 8.2 dedicato alla programmazione
degli enti di maggiori dimensioni, chiarisce definitivamente che gli atti di
programmazione settoriale sono approvati «senza necessità di ulteriori
deliberazioni» nel Dup. La modifica si spinge ancora oltre, precisando che:
a) se la normativa di settore prevede termini di adozione o approvazione dei
singoli documenti antecedenti a quelli del Dup, i documenti devono essere
deliberati autonomamente dal documento unico, fermo restando l'obbligo di
inserirli successivamente;
b) se la normativa di settore prevede termini di adozione o approvazione dei
singoli documenti successivi a quelli del Dup, i documenti devono essere
deliberati autonomamente, fermo restando l'obbligo di inserirli
successivamente nella nota di aggiornamento al Dup;
c) se la normativa di settore non prevede specifici termini di adozione o
approvazione, i documenti devono essere inseriti nel Dup e deliberati
insieme a esso. È questo il caso del programma triennale delle opere
pubbliche, del programma biennale delle forniture di beni e servizi, per i
quali il decreto 14/2018 non indica termini autonomi, limitandosi a
effettuare un semplice rinvio al Dlgs 118/2011 e al Tuel. Analogo discorso
vale anche per la programmazione del fabbisogno di personale, per il
programma degli incarichi e per il piano delle alienazioni e valorizzazioni
del patrimonio immobiliare.
Le conseguenze applicative
Grazie a queste modifiche, il Dup diventa il vero e proprio fulcro della
programmazione degli enti e può dirsi compiuto il processo di unificazione e
semplificazione avviato con la riforma. Non manca tuttavia il rovescio della
medaglia. A questo punto diventa obbligatorio, per le amministrazioni,
adottare e successivamente approvare gli atti di programmazione settoriale
unitamente al Dup, tenuto conto del carattere prescrittivo e non facoltativo
delle modifiche introdotte.
La scelta di deliberare i documenti con atti
separati potrebbe essere dettata solamente da esigenze di citare atti
diversi (ai fini, ad esempio, della pubblicazione del piano opere pubbliche
e del programma beni e servizi), ma non certo di “guadagnare” tempo
inserendo nel Dup di luglio una programmazione settoriale poco attendibile e
rinviare al bilancio la loro definizione puntuale
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 11.09.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Basta
la programmazione e l'assunzione si salva.
Non scatta la sanzione del divieto di assumere relative al 2018 per le
amministrazioni che non adottino entro il 24 settembre il nuovo sistema del
piano dei fabbisogni, se abbiano comunque adottato una programmazione
secondo le vecchie regole.
Più si avvicina il termine per l'attuazione delle
linee di indirizzo sulla programmazione dei fabbisogni, adottate dalla
funzione pubblica applicando le previsioni dell'articolo 6-ter, del dlgs
165/2018, più cresce l'ansia nelle amministrazioni, nel timore che il
mancato adempimento possa determinare conseguenze sulle assunzioni previste
(ancora da effettuare) per il 2018.
Si tratta di un semplice allarmismo, che la lettura del paragrafo «sanzioni»
delle linee di indirizzo deve far rientrare, ovviamente se si rispettano le
semplici condizioni previste.
Le sanzioni previste dal documento sono sicuramente gravi, laddove si
ricorda che «l'articolo 6, comma 6, del dlgs 165/2001 prevede che le
amministrazioni pubbliche che non provvedono agli adempimenti indicati
nell'articolo non possono assumere nuovo personale. Tale sanzione scatta sia
per il mancato rispetto dei vincoli finanziari e la non corretta
applicazione delle disposizioni che dettano la disciplina delle assunzioni,
sia per l'omessa adozione del Prfp (il piano dei fabbisogni del personale) e
degli adempimenti previsti dagli articoli 6 e 6-ter, comma 5, del decreto
legislativo n. 165 del 2001».
Tuttavia, subito dopo le linee di indirizzo precisano che «sono fatti salvi,
in ogni caso, i piani di fabbisogno già adottati». Pertanto, per il 2018,
qualora gli enti abbiano adottato il piano dei fabbisogni sulla base delle
regole operanti prima dell'entrata a regime della riforma Madia, non è
operante alcuna sanzione.
Non c'è, in sostanza, nessun obbligo di «adeguamento» del piano dei
fabbisogni già approvato, anche se da molte parti si insiste appunto per una
presunta necessità di adeguare i piani. La circostanza che le linee di
indirizzo siano state approvate a maggio da Palazzo Vidoni, con molto
ritardo rispetto alle indicazioni del dlgs 75/2017, per essere poi
pubblicate solo a fine luglio ed entrare in vigore il 24 settembre, rende
inevitabile l'impossibilità che le sanzioni risultino operative per gli enti
già dotati di una programmazione delle assunzioni.
Del resto, le linee di indirizzo precisano ulteriormente che «la sanzione
del divieto di assumere si riflette sulle assunzioni del triennio di
riferimento del nuovo piano senza estendersi a quelle disposte o autorizzate
per il primo anno del triennio del piano precedente ove le amministrazioni
abbiano assolto correttamente a tutti gli adempimenti previsti dalla legge
per il piano precedente».
Quindi, l'impianto sanzionatorio derivante dalla mancata adozione della
programmazione delle assunzioni secondo le nuove regole disposte dal decreto
Madia scatta solo per gli enti che nel 2018 non abbiano ancora realizzato
nessuna programmazione e solo per la programmazione 2019-2021. Non vi sono
né sanzioni, né necessità di modifica allo scopo di conformare la
programmazione adottata prima del 24 settembre alle nuove modalità, per gli
enti che abbiano seguito le regole previgenti, ferme restando tutte le altre
regole da rispettare: il tetto di spesa di personale massimo complessivo, i
vincoli derivanti dal complesso calcolo delle quote assunzionali, gli
adempimenti per le mobilità obbligatoria e volontaria.
Dunque, per gli enti già dotati di una programmazione dei fabbisogni, la
scadenza del 24 settembre è solo finalizzata a predisporre il nuovo
programma triennale per il 2019-2021 e le sanzioni scatteranno di
conseguenza.
Per altro, per gli enti locali la programmazione delle assunzioni non può
che tradursi in un atto della giunta volto a integrare il documento unico di
programmazione (Dup) e, quindi, a dettarne i contenuti per la sua nota di
aggiornamento, che va approvata dal consiglio entro il 15 novembre, insieme
col bilancio.
Quindi, la scadenza del 24 settembre, a ben vedere, poiché spetta all'organo
consiliare appostare le risorse mediante il bilancio di previsione e il Dup
ha comunque un carattere soprattutto sollecitatorio, visto che sarà in ogni
caso il bilancio a rendere disponibili e spendibili le risorse programmate
per le assunzioni da effettuare a partire dal 2019
(articolo ItaliaOggi dell'11.09.2018). |
APPALTI: Per
lavori e acquisti termine impossibile al 30 settembre. La scadenza di 60
giorni dal decreto Mit inciampa nel calendario finanziario.
La programmazione dei lavori pubblici inciampa sulle regole della
programmazione finanziaria. L’articolo 21 del Codice dei contratti (Dl
50/2016) stabilisce per le amministrazioni aggiudicatrici l’obbligo di
adozione del programma biennale degli acquisti e del programma triennale dei
lavori pubblici e relativi aggiornamenti annuali, nel rispetto dei documenti
programmatori e in coerenza con il preventivo e con le norme sulla
programmazione economico-finanziaria.
Con il decreto 14/2018 del Mit sono
state approvate le procedure per i programmi pluriennali dei lavori e
servizi pubblici e degli elenchi e aggiornamenti annuali, obbligatorie dalla
programmazione 2019.
L’ordinamento finanziario stabilisce l’obbligo di presentazione dello schema
di Dup al consiglio entro il 31 luglio e dell’eventuale nota di
aggiornamento entro il 15 novembre dell’anno antecedente al periodo di
riferimento, con lo schema di bilancio di previsione, per l’approvazione
entro il 31 dicembre.
Poiché i documenti di programmazione settoriale, tra i
quali i programmi dei lavori pubblici e delle forniture, si considerano
approvati senza ulteriori deliberazioni in quanto contenuti nel Dup (decreto
Mef del 18.05.2018), l’atto presentato al Consiglio dalla giunta entro
il 31 luglio assolve all’obbligo di adozione anche dei programmi su lavori e
forniture. I documenti diventeranno definitivi con l’approvazione degli
strumenti di programmazione per il triennio successivo entro il 31 dicembre.
Secondo il Codice, i programmi di lavori e forniture vanno pubblicati, oltre
che nel sito del Mit e dell’Osservatorio dei contratti pubblici, anche in
quello dell’ente. L’iter per la definitiva adozione di programma triennale
ed elenco annuale prevede la possibilità di presentazione di osservazioni da
parte dei soggetti interessati nei 30 giorni dalla pubblicazione sul sito
dell’ente.
L’approvazione definitiva del programma triennale, con l’elenco annuale dei
lavori e gli aggiornamenti, avviene entro i successivi 30 giorni dalla
scadenza delle consultazioni, oppure, in assenza di queste, entro 60 giorni
dalla pubblicazione (articolo 5, comma 5 del decreto 14/2018). Il percorso
di approvazione del programma delle opere pubbliche si intreccia quindi con
il Dup in tre passaggi: l’adozione della programmazione dei lavori pubblici
da parte della giunta con l’inserimento nel Dup, la pubblicazione per 30
giorni per consentire eventuali osservazioni e l’approvazione in consiglio
entro i termini previsti dal regolamento di contabilità, ma non oltre 60
giorni dalla prima pubblicazione.
Secondo questa scansione, il Dup 2019-21 presentato al consiglio entro il 31
luglio, e pubblicato entro i termini di legge, comporterebbe l’obbligo di
approvazione dei documenti da parte del consiglio entro il 30.09.2018. Come ribadito anche da Anci con una nota informativa, il termine dei
60 giorni non va considerato perentorio, non essendo prevista alcuna
sanzione in caso di ritardo. Con la nota di aggiornamento al Dup, prosegue
la nota, sarebbe comunque possibile procedere all’eventuale aggiornamento
della programmazione dei lavori pubblici
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 10.09.2018). |
APPALTI: Scansare errori negli appalti. Check list di controlli prefissati in fase di
aggiudicazione. La
Commissione Ue stila una guida di buone prassi nelle gare pubbliche per p.a.
e imprese.
Evitare
errori nella gestione degli appalti pubblici, partendo innanzitutto da una
accurata pianificazione studio dell'intervento; applicare una dettagliata check list di controlli sulle diverse fasi della procedura.
Sono queste
alcune delle indicazioni contenute nella
corposa guida (132 pagine)
predisposta dai Servizi della Commissione responsabili degli appalti
pubblici, in consultazione con gli esperti di appalti pubblici degli Stati
membri.
Le best practices si rivolgono principalmente agli operatori del
settore degli appalti che operano in seno alle amministrazioni
aggiudicatrici nell'Unione europea e sono incaricati di pianificare ed
effettuare l'approvvigionamento di lavori, forniture o servizi pubblici, ma
anche alle imprese che dovranno applicare le clausole degli atti di gara.
Si
tratta di una versione aggiornata dei cosiddetti «orientamenti» in materia
di appalti pubblici di qualche mese fa su come evitare gli errori più comuni
nei progetti finanziati dai Fondi strutturali e d'investimento europei,
rivista per tenere conto delle nuove norme semplificate dell'Ue in materia
di appalti pubblici e delle prime esperienze dirette della loro applicazione
sul campo. Non si tratta di un manuale di istruzioni (ad esempio una
circolare) su come adempiere alle prescrizioni delle direttive appalti
pubblici ma di un supporto per orientare i funzionari responsabili degli
appalti pubblici di enti locali e regioni.
Si parte quindi dalla fase preparatoria di una procedura di appalto mira
all'elaborazione di una procedura solida per la consegna dei lavori, dei
servizi o delle forniture richiesti, ed è la fase più cruciale in assoluto
poiché le decisioni prese in tale sede determineranno la riuscita
dell'intera procedura. La Guida sottolinea che ci possono volere anche mesi
di programmazione ma «una buona pianificazione dovrebbe però consentire di
ridurre al minimo il rischio di dover modificare o variare un appalto
durante l'attuazione e può contribuire a evitare errori».
E proprio
l'analisi delle procedure di finanziamento Ue hanno dimostrato alla
Commissione che la scarsa pianificazione è la causa principale degli errori
di una procedura di appalto. Ecco quindi che la Ue sottolinea come possa
essere molto utile coinvolgere parti interessate esterne qualora la
competenza richiesta non sia disponibile all'interno dell'amministrazione
aggiudicatrice. Potrebbe trattarsi di esperti specializzati (ad esempio
architetti, ingegneri, avvocati, economisti) o persino di organizzazioni
imprenditoriali, altre autorità pubbliche o imprese. Sul fronte dei
possibili conflitti di interesse si suggerisce che imprese e professionisti
siano invitati a «dichiarare qualsiasi eventuale conflitto di interessi al
momento della presentazione delle loro offerte.
Tale dichiarazione potrebbe rappresentare un requisito minimo fissato nei
documenti di gara». Nella guida vengono poi trattati i profili relativi alle
analisi di mercato, alle consultazioni preliminari di mercato, al calcolo
della stima dei corrispettivi, alla suddivisione in lotti dell'appalto, alla
definizione dei requisiti di accesso alla gara, alla presentazione delle
offerte e alla loro valutazione, alle richieste dei chiarimenti formulate da
imprese e concorrenti e alla fase di esecuzione del contratto, ivi compresa
la fase di gestione di reclami e ricorsi.
Viene inoltre fornito uno strumentario in cui sono evidenziati gli errori
più comuni, la lista di controllo per la stesura del Capitolato d'oneri, la
lista di controllo per la verifica di appalti pubblici e un modello di
dichiarazione di assenza di conflitti di interessi e di riservatezza
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - ENTI LOCALI: Un designato privacy negli enti.
Compiti: trattamento dati e risoluzione dei problemi.
La
previsione contenuta nel decreto 101/2018 di attuazione del regolamento Ue.
Il
decreto legislativo 101/2018, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 205 del
04.09.2018, che adegua l'ordinamento italiano alla privacy europea
(Regolamento 2016/679) introduce la figura del «designato per specifici
compiti e funzioni» connessi al trattamento dei dati e risolve un po' di
problemi organizzativi.
Proprio nell'assetto organizzativo trova posto, dunque, il designato per
specifici compiti e funzioni.
Se ne occupa l'articolo 2-quaterdecies introdotto dal decreto 101/2018 nel
codice della privacy (dlgs 196/2003). La norma ha colmato un vuoto aperto
dal Regolamento Ue e lo ha fatto sostanzialmente recuperando i contenuti del
codice della privacy. A dirci che si tratta di una conferma sostanziale del
regime pregresso è la relazione illustrativa al decreto in esame.
Nella relazione si legge, infatti, che la disposizione in questione prevede
il potere di titolare e responsabile, di delegare compiti e funzioni a
persone fisiche che operano sotto la loro autorità e che, a tal fine,
dovranno essere espressamente designati. Tale disposizione, prosegue la
relazione illustrativa, permette di mantenere le funzioni e i compiti
assegnati a figure interne all'organizzazione che, ai sensi del previgente
codice in materia di protezione dei dati personali ma in contrasto con il
regolamento, potevano essere definiti, a seconda dei casi, responsabili o
incaricati.
Ricostruiamo, dunque, l'organigramma privacy di una azienda.
L'azienda è il titolare del trattamento. Nell'assetto organizzativo
aziendale ci possono essere «designati», che operano sotto l'autorità
diretta del titolare del trattamento. C'è, poi, un altro livello e cioè
quello delle persone autorizzate al trattamento che operano sotto la
«diretta» autorità del titolare del trattamento.
La parte più significativa di questo impianto, la cui astrattezza deriva dal
fatto che si deve applicare a tutti i settori pubblici e privati, è spiegata
dalle parole della relazione. Riprendiamole: si possono, dunque, recuperare
responsabili e incaricati; soprattutto è interessante la parte in cui si
dice che possono essere recuperati i responsabili interni, anche se non si
possono assolutamente chiamare così.
L'attenzione a non denominare nessuno «responsabile interno» nasce dal fatto
che il regolamento Ue (articolo 28) scrive una disciplina dei responsabili
che si attaglia solo ai responsabili esterni.
Al di là di preoccupazioni, che a volte appaiono meramente nominalistiche, è
importante che le imprese e le p.a. sappiano che hanno ora una base
giuridica specifica per costruire un modello organizzativo articolato in
figure apicali e in figure di base.
L'impresa può costituire funzioni privacy assegnando a queste funzioni un
soggetto apicale; oppure l'impresa può attribuire specifici compiti siano
assegnati a una persona fisica espressamente designata.
La norma spiega che le persone devono espressamente designate e, quindi, ci
vuole l'indicazione analitica dei compiti (così come prevedeva tra l'altro
il codice della privacy).
Il soggetto va designato, infatti, per specifici compiti e funzioni: l'atto
di designazione non può essere generico, ma deve indicare con esattezza di
quali adempimenti si deve occupare il designato.
La norma dice che le persone designate trovano posto nell'ambito
dell'assetto organizzativo del titolare: la prassi si preoccuperà di
chiarire se questo significhi che il designato sia solo una persona interna
al titolare o se può anche essere un esterno (opzione non scartata dalla
lettera della norma in esame).
Il soggetto designato per specifici compiti non va chiamato «responsabile»,
anche per evitare confusione con il responsabile della protezione dei dati
(detto anche Dpo, data protection officer). Il Dpo ha altri compiti:
informa, consiglia e soprattutto sorveglia il titolare a riguardo
dell'esatta applicazione delle norme sulla privacy.
L'articolo 2-quaterdecies parla anche degli autorizzati al trattamento. Il
testo della norma sugli «autorizzati» ha una differente formulazione
rispetto a quella sui «designati». Mentre per i «designati» si parla di
«autorità» del titolare, al di sotto della quale i designati operano, per
gli «autorizzati» di parla di «diretta autorità». Peraltro, poiché, la
relazione informa del recupero degli «incaricati», figura chiave del codice
della privacy, è ragionevole accostare gli «autorizzati» agli «incaricati».
A proposito degli autorizzati la norma dice che sta al titolare individuare
le modalità più opportune per l'autorizzazione al trattamento. È
consigliabile, comunque, scegliere una modalità che consenta di dimostrare
l'avvenuta autorizzazione. Si consideri, inoltre, che bisogna anche lasciare
traccia di avere dati istruzioni a riguardo del trattamento e delle misure
di sicurezza.
Le caselle dell'organigramma privacy sono, pertanto, le seguenti: titolare
del trattamento, designati per specifici compiti e funzioni, autorizzati al
trattamento dei dati; collegato al titolare, senza passaggi intermedi, è il
responsabile della protezione dei dati (che può essere interno o esterno);
all'esterno del titolare si colloca il responsabile del trattamento
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018). |
LAVORI PUBBLICI:
Dup più facile, ma saltano le modifiche pro-investimenti.
L’OTTAVO CORRETTIVO AI PRINCIPI CONTABILI DELLE
AMMINISTRAZIONI LOCALI.
Dup
(Documento unico di programmazione) più facile, ma saltano le modifiche
pro-investimenti.
Possono essere sintetizzati in questi termini i contenuti
del
dm 29.08.2018 recante l'ottavo decreto correttivo ai principi
contabili degli enti territoriali appena pubblicato sul portale Arconet, che
ospita tutta la normativa in materia. Il provvedimento recepisce solo in
parte la proposta dell'omonima commissione tecnica, che nella seduta dello
scorso 11 luglio aveva licenziato uno schema di più ampio respiro.
In particolare, era prevista una profonda revisione dell'allegato 4/2 al
dlgs 118/2011 al fine di rendere più semplice il raccordo fra le norme
contabili e quelle sugli appalti di lavori pubblici, introducendo numerose
novità, soprattutto per quanto concerne l'impatto contabile della
progettazione e della realizzazione delle opere e la possibilità di attivare
il fondo pluriennale vincolato anche solo in presenza di un progetto almeno
definitiva. Questa parte non è stata ripresa nel testo ufficiale, per
ragioni al momento non esplicitate nelle premesse.
Confermata, invece, la semplificazione dell'iter di approvazione del Dup,
che viene meglio raccordato con gli altri documenti programmatori. Questi
ultimi possono ora essere approvati con il Dup, senza necessità di ulteriori
deliberazioni. Nel caso in cui i relativi termini di adozione o approvazione
precedano l'adozione o l'approvazione del Dup, tali documenti di
programmazione dovranno essere adottati o approvati autonomamente, fermo
restando il successivo inserimento degli stessi nel Dup.
Nel caso in cui la
legge preveda termini di adozione o approvazione dei singoli documenti di
programmazione successivi a quelli previsti per l'adozione o l'approvazione
del Dup, tali documenti di programmazione potranno essere adottati o
approvati autonomamente, fermo restando il successivo inserimento degli
stessi nella nota di aggiornamento al Dup. I documenti di programmazione per
i quali la legge non prevede termini di adozione o approvazione andranno
senz'altro inseriti nel Dup.
In particolare, si richiamano i termini previsti per l'approvazione
definitiva del programma triennale delle opere pubbliche dall'articolo 5,
comma 5, del decreto del ministero delle infrastrutture n. 14 del 16.01.2018
concernente Regolamento recante procedure e schemi-tipo per la redazione e
la pubblicazione del programma triennale dei lavori pubblici, del programma
biennale per l'acquisizione di forniture e servizi e dei relativi elenchi
annuali e aggiornamenti annuali: «Successivamente alla adozione, il
programma triennale e l'elenco annuale sono pubblicati sul profilo del
committente. Le amministrazioni possono consentire la presentazione di
eventuali osservazioni entro trenta giorni dalla pubblicazione di cui al
primo periodo del presente comma.
L'approvazione definitiva del programma triennale, unitamente all'elenco
annuale dei lavori, con gli eventuali aggiornamenti, avviene entro i
successivi trenta giorni dalla scadenza delle consultazioni, ovvero,
comunque, in assenza delle consultazioni, entro sessanta giorni dalla
pubblicazione di cui al primo periodo del presente comma, nel rispetto di
quanto previsto al comma 4 del presente articolo, e con pubblicazione in
formato open data presso i siti informatici di cui agli articoli 21, comma
7, e 29 del codice.
Le amministrazioni possono adottare ulteriori forme di pubblicità purché
queste siano predisposte in modo da assicurare il rispetto dei termini di
cui al presente comma»
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Privacy,
massima tutela per chi segnala illeciti. IL WHISTLEBLOWING E IL DECRETO
101/2018 DI ADEGUAMENTO AL REGOLAMENTO EUROPEO.
L'accesso ai dati personali contenuti o connessi a segnalazioni
di operazioni sospette di riciclaggio o di illeciti (whistleblowing) può
avvenire solo se vengono garantite specifiche misure di sicurezza ovvero con
l'autorizzazione del Garante Privacy.
Lo
prevede l'articolo 2-undecies del decreto legislativo 101 del 10.08.2018,
pubblicato il 4 settembre scorso sulla Gazzetta Ufficiale (si veda
ItaliaOggi di ieri), con il quale vengono dettate disposizioni per
l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (Ue)
2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativo alla protezione
delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché
alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE
(regolamento generale sulla protezione dei dati).
Tra le novità di maggior rilievo si evidenziano quelle contenute nel citato
articolo 2-undecies il quale prevede, appunto, la limitazione all'esercizio
dei diritti dell'interessato qualora ne possa derivare un pregiudizio
effettivo e concreto:
- agli interessati tutelati in base alle disposizioni in
materia di riciclaggio;
- agli interessati tutelati in base alle disposizioni in
materia di sostegno alle vittime di richieste estorsive;
- alle attività svolte da un soggetto pubblico diverso dagli
enti pubblici economici, in base ad espressa disposizione di legge per
esclusive finalità inerenti la politica monetaria e valutaria, al sistema
dei pagamenti al controllo degli intermediari e dei mercati creditizi e
finanziari;
- alla riservatezza dell'identità del dipendente che segnala ai
sensi della legge 30.11.2017, n. 179, l'illecito di cui sia venuto a
conoscenza in ragione del proprio ufficio (Whistleblowing).
Il comma 3 della citata disposizione, nel disciplinare più in dettaglio le
modalità con le quali i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del
Regolamento Ue 2016/679 (ovvero il diritto di accesso, di rettifica, di
cancellazione o oblio, di limitazione, di portabilità e di opposizione al
trattamento del dato) potranno essere esercitati dal soggetto interessato,
richiede il rispetto delle misure di tutela della riservatezza
specificamente previste dalle rispettive normative (dlgs 231/2007 per quanto
riguarda l'antiriciclaggio e dlgs 179/2017 per quanto riguarda il
whisltleblowing).
L'esercizio dei diritti citati può, in ogni caso, essere ritardato, limitato
o anche escluso con comunicazione motivata e resa senza ritardo
all'interessato a meno che la comunicazione possa compromettere la finalità
della limitazione per il tempo e nei limiti in cui ciò costituisca una
misura necessaria e proporzionata. In tali casi i diritti dell'interessato
possono essere esercitati anche tramite il Garante Privacy con le modalità
previste dall'articolo 160 del dlgs 196/2003.
Tra le altre norme si segnala anche l'articolo 2-terdecies il quale prevede,
tra l'altro, che l'esercizio dei diritti di accesso di ai dati personali
concernenti le persone decedute spetta a chi ha un interesse proprio o
agisce a tutela dell'interessato, in qualità di suo mandatario, o per
ragioni familiari meritevoli di protezione. La volontà dell'interessato,
sino a che risulti essere in vita, di vietare l'esercizio dei diritti deve
risultare in modo non equivoco e deve essere specifica, libera e informata.
Si evidenzia inoltre che il predetto divieto non può produrre effetti
pregiudizievoli per l'esercizio da parte dei terzi dei diritti patrimoniali
che derivano dalla morte dell'interessato nonché dal diritto di difendere in
giudizio i propri interessi
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2018). |
APPALTI: Appalti,
offerte in digitale. Credenziali aziendali esibite on-line alle p.a..
Dal 18 ottobre scatta il documento di gara unico europeo (via web).
Dal 18 ottobre semplificazioni per l'accesso ai bandi di gara pubblici in
formato europeo. E possibilità di presentare le offerte online. Da questa
data, infatti, sarà possibile presentare, elettronicamente, le offerte a
tutte le amministrazioni aggiudicatrici dell'Unione, attraverso il documento
di gara unico europeo (Dgue). Questo dovrà essere predisposto esclusivamente
in conformità a regole tecniche, che saranno emanate da AgID (Agenzia per
l'Italia digitale) ai sensi dell'articolo 58, 10° comma, del codice dei
contratti pubblici. Per tutte le procedure di gara bandite a partire da tale
data, eventuali Dgue di formati diversi da quelli definiti dalle regole
tecniche dell'AgID saranno considerati quale documentazione illustrativa a
supporto.
A ricordare l'entrata a regime degli appalti elettronici, che semplificano
l'intero ciclo delle gare pubbliche, rendendolo più efficiente e
trasparente, è stata la stessa Commissione europea, che ha divulgato nei
giorni scorsi una nota tecnica sul tema. Ricordiamo che quest'obbligo è
stato previsto dal codice appalti (articolo 85, comma 1, del dlgs n.
50/2016) e dal regolamento Ue n. 7/2016, che ha adottato il modello di Dgue
per tutti gli stati membri dell'Unione.
Autodichiarazione su situazione economica.
Il documento di gara unico elettronico europeo è un'autodichiarazione
dell'impresa sulla propria situazione finanziaria, sulle proprie capacità e
sulla propria idoneità per una procedura di appalto pubblico. Soltanto
l'aggiudicatario è tenuto a fornire prove documentali complete. In futuro,
potrebbe essere eliminato anche quest'obbligo qualora tali prove possano
essere collegate elettronicamente a banche dati nazionali.
L'adozione del Dgue elettronico mira, dunque, a ridurre gli oneri
documentali ed economici a carico dei soggetti partecipanti alle procedure
di gara, e a semplificare le procedure di verifica da parte delle stazioni
appaltanti. Così, a partire dal 18.10.2018, un operatore economico potrebbe
non dover più fornire documenti amministrativi complementari nel caso in cui
l'amministrazione aggiudicatrice possieda già tali documenti.
Perché il ricorso agli appalti elettronici serve a rendere la procedura più
trasparente, a ridurre l'interazione sleale tra i funzionari responsabili
degli appalti e gli operatori economici, a facilitare l'individuazione di
irregolarità e corruzione grazie a piste di controllo trasparenti.
Ruolo strategico degli appalti.
Le nuove direttive partono dall'idea che gli appalti abbiano un ruolo
strategico. E questo non soltanto nel garantire che i fondi pubblici vengano
spesi in maniera economicamente efficiente, assicurando il miglior rapporto
qualità/prezzo per l'acquirente pubblico. Ma anche nel conseguire target in
fatto di innovazione, ambiente e inclusione sociale. Come? In particolare,
attraverso tre percorsi:
- i documenti di gara elettronici dovranno richiedere
esplicitamente agli operatori economici di rispettare obblighi sociali e in
materia di diritto del lavoro, incluse le convenzioni internazionali;
- le amministrazioni aggiudicatrici vengono incoraggiate a
utilizzare al meglio, dal punto di vista strategico, gli appalti pubblici
per stimolare l'innovazione. L'acquisto di prodotti, lavori e servizi
innovativi, ad esempio, secondo Bruxelles svolge un ruolo fondamentale per
migliorare l'efficienza e la qualità dei servizi pubblici e nell'affrontare
le principali sfide a valenza sociale;
- infine, le amministrazioni aggiudicatrici potranno riservare
l'aggiudicazione di determinati appalti di servizi a mutue e imprese sociali
per un periodo di tempo limitato (articolo
ItaliaOggi del 06.09.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Interim
per posizioni organizzative, il nuovo contratto aggancia i compensi al
risultato.
Nell'ambito del contratto per le funzioni locali relativo al triennio
2016/2018, di notevole rilevanza è la scelta effettuata in ordine alla
remunerazione degli incarichi ad interim, con i quali un dipendente con
posizione organizzativa è investito transitoriamente della responsabilità di
un altro servizio rispetto a quello di propria afferenza, per l'assenza del
relativo titolare.
In passato, secondo una prassi non condivisa dall'Aran,
la remunerazione di questi incarichi aggiuntivi avveniva mediante un
transitorio adeguamento della retribuzione di posizione, con il ricorso ai
criteri definiti dalla metodologia vigente alle grandezze espressive della
complessità, congiuntamente, del servizio originario e del servizio
transitoriamente acquisito.
La regola del nuovo contratto
Con il nuovo contratto è stata, invece, introdotta una regola precisa
(articolo 15) in base alla quale «nell'ipotesi di conferimento ad un
lavoratore, già titolare di posizione organizzativa, di un incarico ad
interim relativo ad altra posizione organizzativa, per la durata dello
stesso, al lavoratore, nell'ambito della retribuzione di risultato, è
attribuito un ulteriore importo la cui misura può variare dal 15% al 25% del
valore economico della retribuzione di posizione prevista per la posizione
organizzativa oggetto dell'incarico ad interim».
Peraltro, la stessa disposizione evidenzia i criteri a cui devono fare
riferimento gli enti per fissare la retribuzione di risultato effettivamente
riconosciuta all'interno del range predefinito, dal momento che occorre
tenere conto della complessità delle attività e del livello di
responsabilità connessi all'incarico attribuito nonché del grado di
conseguimento degli obiettivi.
È accolta, così, una soluzione che era già prevista dalla contrattazione
relativa alla dirigenza, nell'ipotesi di interim, e che era già stata
sostenuta dall'Aran (si veda l'orientamento applicativo RAL_1610 del 2013),
la quale aveva affermato che «in tale ipotesi … dovrebbe trovare
applicazione la medesima regola valevole nei casi di incarichi ad interim
conferiti ai dirigenti per la sostituzione di altri dirigenti nei casi di
assenza e impedimento di questi: attribuzione esclusivamente della
retribuzione di risultato eventualmente non corrisposta (in tutto o in
parte) al titolare di Po assente».
L'orientamento, peraltro, aveva anche chiarito che «l'ammontare della
retribuzione di risultato corrisposta al sostituto sarà strettamente
connessa agli obiettivi raggiunti nella misura in cui sia dimostrabile la
riconduzione degli stessi al suo operato ed alla sua responsabilità».
Naturalmente, in allora, il riconoscimento al dipendente già titolare di
posizione organizzativa della retribuzione di risultato relativa alla
posizione affidata ad interim poteva avvenire, sempre e, comunque, entro la
misura massima consentita del 25%, in assenza di una diversa previsione
contrattuale, dal momento che nessuna indicazione di segno diverso era
presente.
Limite superabile
Ora con la specifica disposizione contenuta nel contratto relativo alle
funzioni locali del 21.05.2018 il limite della retribuzione di risultato
è comunque superabile, fermo restando che l'importo riconosciuto è destinato
comunque a gravare sulle risorse complessivamente destinate al trattamento
economico accessorio delle posizioni organizzative. Naturalmente, poi, tale
importo non potrà essere riconosciuto automaticamente in funzione
dell'interim svolto, ma implica comunque un percorso di valutazione, come ha
sancito sempre l'Aran in relazione all'analogo trattamento da riconoscere ai
dirigenti (si veda, in proposito, l'orientamento applicativo RAL_76).
In proposito, è chiarito che l'ente deve procedere alla valutazione annuale
dei risultati conseguiti dai dirigenti interessati, anche con riferimento
agli incarichi di cui sono titolari ad interim, tenendo conto dell’effettiva
partecipazione al raggiungimento degli obiettivi prefissati per ciascuna
posizione dirigenziale (quella di cui è titolare e quella oggetto
dell'interim).
La necessità della positiva valutazione dell'effettivo apporto partecipativo
al raggiungimento degli obiettivi e dei risultati connessi alla funzione
dirigenziale vacante, che ha dato luogo al conferimento di tale incarico,
consente di escludere che si possa operare un semplice riproporzionamento
del maggiore importo della retribuzione di risultato stabilito in relazione
alla durata temporale dell'incarico ad interim, con la conseguenza che un
ridotto periodo dell'incarico “ad interim” non può non influire sul
giudizio finale in ordine al conseguimento degli obiettivi assegnati
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.09.2018). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Sui
fabbisogni di personale programmazione in sette mosse.
In mancanza dell'adeguamento del piano triennale del fabbisogno del
personale, la formulazione dell'apparato sanzionatorio stabilito
dall'articolo 22, comma 1, del Dlgs 75/2017 non lasciava grandi spazi a
possibili differenti interpretazioni essendo previsto testualmente che «In
sede di prima applicazione, il divieto di cui all'articolo 6, comma 6, del
decreto legislativo n. 165 del 2001, come modificato dal presente decreto,
si applica a decorrere dal 30.03.2018 e comunque solo decorso il termine
di sessanta giorni dalla pubblicazione delle linee di indirizzo di cui al
primo periodo».
In altri termini, i sessanta giorni previsti dalla normativa
sembravano piuttosto orientati a inibire le assunzioni nel caso in cui le
linee di indirizzo fossero state emanate prima del 30.03.2018, essendo il
decreto legislativo entrato in vigore dal 22.06.2018.
Il ritardo nell'emanazione delle linee di indirizzo, emanate con decreto 08.05.2018, ma entrate in vigore solo dopo la loro pubblicazione sulla
Gazzetta Ufficiale avvenuta il 27.07.2018, ha fatto sì che nelle linee
di indirizzo fossero contenute norme di salvaguardia, tanto da rendere salve
le assunzioni previste nei piani adottati prima della pubblicazione del
decreto in Gazzetta.
Precisata la possibile discrasia tra decreto
legislativo e decreto ministeriale, gli adempimenti posti in capo alle
amministrazioni, che potrebbero riguardare anche eventuali modifiche e/o
integrazioni ancora da effettuare nell'anno 2018, essendo disposte
successivamente alla data del 27.07.2018, possono essere sintetizzate in
sette adempimenti.
Gli adempimenti previsti dalla normativa
Al fine di adempiere alle prescrizioni previste dalle linee di indirizzo
ministeriali, gli enti locali per sganciarsi dal divieto di assunzioni
dovranno predisporre adempimenti che si articolano in sette steps.
Si comincia con l’invio della richiesta ai dirigenti sulla nuova
programmazione del personale, tale da superare la semplice sostituzione del
personale cessato, indicando le concrete necessità presenti e future di
profili professionali specifici, le competenze e le conoscenze richieste e,
soprattutto, come tali professionalità si coniughino con il piano della
performance e con gli obiettivi strategici. I dirigenti dovranno, inoltre,
confermare eventuali eccedenze di personale (articolo 33 del Dlgs 165/2001)
ed eventuali servizi da esternalizzare o internalizzare.
Al dirigente del settore risorse umane spetterà invece il compito di
elaborare la dotazione organica finanziaria, superando quella numerica, e
aggiungendo tutte le altre spese del personale, verificare il rispetto dei
limiti stanziati in bilancio, il non superamento della spesa media del
triennio 2011-2013, indicando infine i limiti degli spazi assunzionali
disponibili sia a tempo indeterminato che flessibile.
Il compito della giunta
Ricevute queste informazioni, spetterà alla giunta comunale, nella sua piena
discrezionalità, verificare se e come le richieste e gli spazi finanziari e
assunzionali disponibili si coniughino con gli obiettivi di mandato
amministrativo, con i limiti delle risorse di bilancio e con le necessarie
competenze richieste per potenziare determinati uffici.
In questa occasione
potrebbe essere opportuno verificare eventuali modifiche degli assetti
organizzativi, anche accorpando funzioni con riordino delle competenze,
spingendo sulla digitalizzazione e semplificazione dei processi e,
soprattutto verificare come l'ente locale si collochi rispetto alle analisi
elaborate dal Sose sia in termini di fabbisogni standard sia quale rapporto
con il livello qualitativo dei servizi resi.
Solo a seguito di questa analisi, cui bisognerà fornire riscontro in sede di
programmazione delle risorse umane, sarà definito il programma delle
assunzioni indicando sia il tipo di approvvigionamento (a tempo
indeterminato o flessibile) sia le modalità attuative (concorso, mobilità
interna ed esterna, comando, trasformazione del tempo parziale a tempo
pieno, stabilizzazione, selezione interna). Il piano triennale del
fabbisogno del personale dovrà quindi essere inserito quale modifica al
documento unico di programmazione da sottoporre al consiglio comunale previa
informativa sindacale;
Il nuovo programma triennale del fabbisogno del personale dovrà essere
munito del parere dell'organo di revisione contabile sulla compatibilità
delle spese di personale con i vincoli di bilancio e di finanza pubblica e
sulla coerenza con le linee guida del ministero; spetta successivamente al
consiglio comunale l'adozione del documento quale integrazione al Dup
2019-2021 (che avrebbe dovuto essere presentato entro il 31 luglio). A
seguito della sua adozione si dovrà procedere alla sua pubblicazione sul
sito istituzione dell'ente locale.
Ultimo adempimento è quello del suo invio al Sico entro 30 giorni dalla data
di adozione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.09.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pubblico
impiego, l’elemento perequativo conta per la pensione ma non per il Tfr.
Con il
messaggio 30.08.2018 n. 3224,
l'Inps ha diffuso le istruzioni per gestire l'elemento perequativo dal punto
di vista previdenziale. La nuova voce di trattamento economico è stata
inserita dal contratto del 21.05.2018 ed è già stata corrisposta ai
dipendenti da giugno, primo mese utile per riconoscere gli aumenti
contrattuali. Arrivano solo ora i chiarimenti sull'assoggettabilità ai fini
pensionistici e di fine servizio.
La natura dell’istituto
L'elemento perequativo è un istituto della retribuzione che ha fatto la
comparsa in tutti i contratti nazionali stipulati nella scorsa primavera. È
un emolumento che è erogato solo per un periodo limitato, con cadenza
mensile, dal mese di marzo al mese di dicembre 2018.
Viene corrisposto per periodi di lavoro superiori a 15 giorni; non è dovuto,
invece, per periodi di lavoro mensili inferiori a 15 giorni o nei mesi in
cui non è corrisposto lo stipendio tabellare, per aspettative o congedi non
retribuiti o altre cause di interruzione e sospensione della prestazione
lavorativa.
L'Aran, nell'orientamento applicativo CFL1 (si veda il Quotidiano degli enti
locali e della Pa dell’8 agosto) ha affermato, inoltre, che l'elemento non è
“stipendio” e, pertanto, non rientra in nessuna delle nozioni di
retribuzione stabilite dall'articolo 10, comma 2, lettere a), b) e c), del
contratto del 09.05.2006 e come conseguenza, quindi, non può essere
considerato nella base di calcolo né del compenso per lavoro straordinario
né dell'indennità di turno.
Le istruzioni sulle pensioni
Una volta chiariti questi aspetti, mancava di conoscere la corretta
imposizione previdenziale ai fini dell'elaborazione delle buste paga. Come
noto, sono due gli aspetti che entrano in gioco: l'imponibilità ai fini
pensionistici e l'imponibilità ai fini del trattamento di fine servizio e
fine rapporto.
Dal primo punto di vista, vengono richiamate le disposizioni degli articoli
49 e 51 del Dpr 917/1986 che stabiliscono l'onnicomprensività del concetto
di reddito di lavoro dipendente e, quindi, la totale imponibilità di tutti
gli emolumenti che il lavoratore riceve in relazione alla prestazione di
lavoro resa con qualsiasi qualifica alle dipendenze e sotto la direzione del
datore di lavoro.
L'elemento perequativo introdotto dai recenti contratti è, pertanto,
imponibile ai fini pensionistici e concorre, conseguentemente, anche ai fini
della determinazione dell'imponibile della gestione unitaria delle
prestazioni creditizie e sociali (da ultimo, il messaggio n. 4325/2014),
nonché dell'Assicurazione sociale vita (gestione ex Enpdep).
Il compenso, inoltre, non rientra nel computo della cosiddetta «retribuzione
virtuale», corrispondente a quella che avrebbe percepito il dipendente se
fosse rimasto in servizio, nel caso di assenze per il verificarsi
dell'evento malattia. Non va altresì computato nella retribuzione utile al
calcolo della contribuzione figurativa nelle ipotesi di assenza dal
servizio, con retribuzione ridotta o nulla, previste dal Dlgs 151/2001,
dalla legge 104/1992, dall'articolo 20, comma 2, del Dl n. 112/2008.
Il fine servizio
Per quanto riguarda l'altro aspetto, ovvero il fine servizio, l'Inps precisa
che l'elemento perequativo non concorre alla determinazione della
prestazione, né ai fini del Tfs (Indennità di buonuscita e indennità premio
di servizio) né ai fini del Tfr; pertanto, non rientra nella base imponibile
contributiva del fondo ex Enpas ed ex Inadel.
L’esclusione si rifà ai principi generali sull'assoggettabilità solamente in
caso di compensi fissi e continuativi ma anche al fatto che le medesime
norme contenute nei contratti di rinnovo escludono il computo dell'elemento
perequativo agli effetti dell'indennità di buonuscita o dell'indennità di
anzianità, dell'indennità premio di servizio, del trattamento di fine
rapporto.
Per le Funzioni Locali il riferimento è contenuto negli articoli 66, comma
2, e 65, comma 2, secondo periodo del contratto del 21.05.2018
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.09.2018). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Prevenzione antimafia e società a conduzione familiare.
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Informativa antimafia – Presupposti – Rapporti di
parentela - Società a condizione familiare – Limiti.
La società a conduzione familiare
assume particolare rilievo nell’ambito della prevenzione
antimafia, poiché proprio quando dietro la singola realtà
d’impresa vi è un nucleo familiare particolarmente compatto
e coeso è statisticamente più facile che coloro i quali sono
apparentemente al di fuori delle singole realtà aziendali
possono curarne (o continuare a curarne la gestione) e,
comunque interferire in quest’ultima facendo leva sui più
stretti congiunti; proprio il nucleo familiare “allargato”,
ma unito nel curare gli “affari” di famiglia, è uno degli
strumenti di cui più frequentemente si serve la criminalità
organizzata di stampo mafioso per la penetrazione legale
nell’economia (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che il dato relativo alla parentela non
deve essere assunto nella sua rigida materialità, ma per le
implicazioni logico-presuntive che lo stesso, attentamente
esaminato anche alla luce di tutte le circostanze
caratterizzanti lo specifico contesto societario e
familiare, così come enucleate (più o meno esplicitamente)
dall’organo prefettizio, è suscettibile di generare:
implicazioni che compete in primo luogo al giudice, in sede
di sindacato sulla legittimità dell’informativa interdittiva,
attentamente estrapolare dal provvedimento impugnato e dagli
atti istruttori che ne hanno preceduto l’adozione.
In via di ulteriore sviluppo dei rilievi che precedono, la “famiglia”,
anche da un punto di vista sociologico, in quanto gruppo di
persone caratterizzato, in linea tendenziale, dalla
condivisione di valori e finalità, costituisce il “naturale”
canale di trasmissione di eventuali “propensioni”
criminali, le quali finiscono per propagarsi dall’uno
all’altro dei suoi membri, da un lato, in virtù
dell’appartenenza degli stessi ad un unico habitat
socio-economico, dall’altro lato, in forza del legame di
solidarietà che, in misura più o meno marcata, li avvince
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 20.09.2018 n. 5480 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Come si evince dall’analisi condotta sub 3, il nucleo
motivazionale fondante l’informativa interdittiva oggetto di
giudizio attiene ai rapporti di parentela intercorrenti tra
i soci della società appellante e soggetti coinvolti in
vicende (e conseguenti provvedimenti giudiziari) di
carattere penale e/o preventivo.
Il dato, nella sua cruda oggettività, sembra effettivamente
prestare il fianco ai rilievi di parte appellante, intesi a
sostenere la sua insufficienza ai fini dimostrativi, anche
su un piano meramente indiziario, della prognosi di
permeabilità criminale da cui è scaturito il provvedimento
interdittivo impugnato: è fin troppo semplice constatare,
infatti, che la parentela attiene alla sfera “naturale”
e “statica” della relazioni umane, mentre l’attività
di prevenzione antimafia non può che incentrarsi su
atti/fatti espressivi delle scelte che gli individui pongono
in essere nell’esercizio della loro libertà di azione,
imprenditoriale e non, siccome idonei a fornire la base per
la prefigurazione attendibile del loro comportamento futuro,
quanto in particolare alla creazione di margini efficaci
alla (o all’opposto all’abbassamento di ogni difesa nei
confronti della) penetrazione della criminalità nel tessuto
imprenditoriale.
Il rilievo, per quanto elementare, consente tuttavia di
formulare alcune osservazioni preliminari, le quali
costituiranno l’indispensabile cornice entro cui inscrivere
la successiva analisi della fattispecie in esame.
In primo luogo, il dato relativo
alla parentela non deve essere assunto nella sua rigida
materialità, ma per le implicazioni logico-presuntive che lo
stesso, attentamente esaminato anche alla luce di tutte le
circostanze caratterizzanti lo specifico contesto societario
e familiare, così come enucleate (più o meno esplicitamente)
dall’organo prefettizio, è suscettibile di generare:
implicazioni che compete in primo luogo al giudice, in sede
di sindacato sulla legittimità dell’informativa interdittiva,
attentamente estrapolare dal provvedimento impugnato e dagli
atti istruttori che ne hanno preceduto l’adozione.
In secondo luogo, ed in via di ulteriore sviluppo dei
rilievi che precedono, la “famiglia”,
anche da un punto di vista sociologico, in quanto gruppo di
persone caratterizzato, in linea tendenziale, dalla
condivisione di valori e finalità, costituisce il “naturale”
canale di trasmissione di eventuali “propensioni”
criminali, le quali finiscono per propagarsi dall’uno
all’altro dei suoi membri, da un lato, in virtù
dell’appartenenza degli stessi ad un unico habitat
socio-economico, dall’altro lato, in forza del legame di
solidarietà che, in misura più o meno marcata, li avvince.
Come recentemente posto in evidenza da questa Sezione (cfr.
sentenza n. 5410 del 14.09.2018), invero, “la società
l’appellante si caratterizza per essere una
società a conduzione familiare
(come frequentemente avviene in Italia);
tale caratteristica,
come ha correttamente rilevato la difesa
dell’Amministrazione, assume particolare
rilievo nell’ambito della prevenzione antimafia, poiché
proprio quando dietro la singola realtà d’impresa vi è un
nucleo familiare particolarmente compatto e coeso
(come appunto nel caso di specie), è
statisticamente più facile che coloro i quali sono
apparentemente al di fuori delle singole realtà aziendali
possono curarne (o continuare a curarne la gestione) e,
comunque interferire in quest’ultima facendo leva sui più
stretti congiunti. E’ altrettanto noto che proprio il nucleo
familiare “allargato”, ma unito nel curare gli “affari” di
famiglia, è uno degli strumenti di cui più frequentemente si
serve la criminalità organizzata di stampo mafioso per la
penetrazione legale nell’economia, tanto è vero che in tempi
recenti l’Adunanza Plenaria,
riprendendo la giurisprudenza della Sezione,
ha ribadito “che -quanto ai rapporti di parentela
tra titolari, soci, amministratori, direttori generali
dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati,
organici, contigui alle associazioni mafiose-
l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale
rapporto, per la sua natura, intensità o per altre
caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del
“più probabile che non”, che l’impresa abbia una conduzione
collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto,
alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che
le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate,
anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o
da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio
congiunto. Nei contesti sociali, in cui attecchisce il
fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può
verificare una “influenza reciproca” di comportamenti e
possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di
copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza; una
tale influenza può essere desunta non dalla considerazione
(che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi
costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli
mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso,
che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura
clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul
nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’
mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da
pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del
‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza
circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo,
ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi
economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non
abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le
peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione
evidenziare come sia stata accertata l’esistenza –su un’area
più o meno estesa– del controllo di una ‘famiglia’ e del
sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori
se questi non risultino avere proprie fonti legittime di
reddito)”
(Adunanza Plenaria sentenza 06.04.2018, n. 3 che richiama, a
sua volta, i principi già espressi nella sentenza di questa
Sezione n. 1743/2016 prima richiamata)”.
Si tratta quindi, alla luce dei rilievi che precedono e
dell’acuta analisi operata con il citato precedente
giurisprudenziale, non di prendere semplicisticamente atto
che il provvedimento interdittivo de quo trae
alimento dai rapporti di parentela esistenti tra i soci
della società interdetta e soggetti terzi contigui alla
criminalità, ma di verificare, attraverso la disamina di
tutti gli elementi rilevanti emergenti dallo scrutinio della
concreta fattispecie, se quei rapporti possano costituire il
fondamento di una valutazione di permeabilità criminale
logicamente attendibile e probatoriamente plausibile. |
ENTI LOCALI: Ztl,
clienti degli alberghi da tutelare.
Il comune che mette mano alla disciplina della zona a traffico limitato non
può trascurare le esigenze degli albergatori impedendo il carico e lo
scarico dei bagagli dai veicoli in prossimità della struttura ricettiva
negli orari di maggior frequenza turistica. E costringendo gli utenti a
lunghi trasferimenti a piedi con le valige.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 18.09.2018 n. 5454.
Il comune di Merano ha adottato una nuova disciplina del traffico urbano
stabilendo una fascia oraria molto limitata di accesso veicolare al centro
storico dalle 6 alle 10 di mattina.
Contro questa decisione un albergatore ha proposto con successo censure ai
giudici di palazzo Spada. Gli arrivi e le partenze dei clienti di un albergo
non possono essere concentrati in una rigida fascia oraria.
E non appare neppure ragionevole esigere che i clienti di un hotel possano
effettuare le operazioni di carico e scarico dei bagagli ad una distanza di
300 metri dalla struttura. Specialmente se si tratta di una clientela in
maggioranza matura
(articolo ItaliaOggi del 22.09.2018).
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MASSIMA
5. L’appello è fondato.
Premesso che, prima dell’adozione dell’impugnata deliberazione comunale n.
586/2015, l’odierna appellante era titolare dell’autorizzazione di transito
e di carico/scarico con una durata massima di 15 minuti, da ultimo
rilasciata per l’Hotel Im.Ar. (ubicato al ..., n. 110) con
validità fino al 10.11.2019, si osserva che l’abrogazione di tale
regime autorizzatorio, al punto 5) della gravata delibera, e la contestuale
introduzione, per il tratto dal civico n. 36 al civico n. 140 del ..., di un divieto generalizzato di circolazione e sosta, a pena di
rimozione forzata, dalle ore 10.00 di ogni giorno alle ore 6.00 del giorno
successivo, e quindi la limitazione della possibilità di un accesso
motorizzato dei clienti dell’albergo in questione al solo arco temporale
giornaliero ore 6.00 - ore 10.00, sono affette dai dedotti vizi di
violazione dei principi di buon andamento dell’amministrazione e di
ragionevolezza e proporzionalità, sanciti dagli artt. 97 Cost. e 1 l. n.
241/1990, rispettivamente costituenti principi generali dell’ordinamento, di
derivazione euro-unitaria.
5.1. Giova, al riguardo, precisare in linea di diritto che:
- il principio di ragionevolezza postula la coerenza tra
valutazione compiuta e decisione presa e la coerenza tra decisioni
comparabili;
- per il principio di proporzionalità, gli atti amministrativi non
debbono andare oltre quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo
prefissato e, qualora si presenta una scelta tra più opzioni, la pubblica
amministrazione deve ricorrere a quella meno restrittiva, non potendosi
imporre obblighi e restrizioni alla libertà del cittadino in misura
superiore a quella strettamente necessaria a raggiungere gli scopi che
l’amministrazione deve realizzare, sicché la proporzionalità comporta un
giudizio di adeguatezza del mezzo adoperato rispetto all’obiettivo da
perseguire e una valutazione della portata restrittiva e della necessità
delle misure che si possono prendere;
- pure il principio di buon andamento comporta l’obbligo della
pubblica amministrazione di perseguire la migliore realizzazione
dell’interesse pubblico, in modo che vi siano congruenza e congruità tra
l’azione amministrativa e il fine che essa deve perseguire.
5.2. Ebbene, applicando le enunciate coordinate ermeneutiche alla
fattispecie sub iudice, deve pervenirsi alla conclusione che le dedotte
censure sono fondate, in quanto:
- ancorché il provvedimento impugnato richiami le deliberazioni
precedenti n. 171 del 29.04.2008 e n. 375 del 31.10.2013, con cui
erano stati perseguiti gli stessi obiettivi di potenziamento della rete e
delle zone pedonali, e nel secondo dei quali (che aveva esteso la zona
pedonale anche al tratto superiore del ...) era stata prevista la
possibilità per i clienti muniti di prenotazione dell’Hotel di accedere e
sostare all’interno di tale zona per un tempo massimo di 15 minuti per le
operazioni di carico e scarico dei bagagli con esposizione del contrassegno
identificativo dell’albergo rilasciato dalla polizia municipale, lo stesso
provvedimento qui gravato ha introdotto misure diverse e più restrittive,
non consentendo più neppure la mera sosta temporanea per il carico e scarico
dei bagagli, senza adeguata motivazione, con conseguente evidente incoerenza
tra valutazione compiuta e decisione presa, rispettivamente tra
deliberazioni comparabili;
- appaiono, poi, privi di adeguata motivazione sia il carattere
necessitato dell’imposizione delle misure più restrittive per conseguire lo
scopo prefissato, sia la mancata scelta, tra più possibili opzioni (la cui
fattibilità è rimasta confermata dalla deliberazione n. 375/2013, ad
identità di obiettivi), di quella meno restrittiva;
- è, al riguardo, indubitabile la portata gravemente
pregiudizievole, per l’esercizio ricettivo gestito dalla ricorrente, della
limitazione dell’accesso motorizzato dei clienti alla fascia oraria dalle
ore 6.00 alle ore 10.00, rientrando nelle nozioni di comune esperienza che
gli arrivi e le partenze dei clienti di un albergo non possono essere
concentrate, sotto un profilo logistico-organizzativo, a una siffatta unica
e rigida fascia oraria (mentre una tale limitazione può essere ritenuta
adeguata e congrua per gli esercizi commerciali –quali, ad es., i vari tipi
di negozi–, diversi dagli esercizi alberghieri);
- né in sede procedimentale risultano allegati e comprovati, in
modo puntuale, concreto e specifico, particolari ragioni di sicurezza (se
non in via apodittica, e quindi immotivatamente), tanto più che il ... nel tratto in questione risulta dotato di un ampio marciapiede,
nonché tenuto conto del ridotto numero di posti letto dell’albergo in
oggetto (cfr. la documentazione versata in giudizio);
- né appare ragionevolmente esigibile che i clienti dell’albergo
siano costretti ad utilizzare parcheggi siti a distanza di 200-300 m
dall’albergo, anche per le operazioni di carico/scarico di bagagli, tanto
più se si tiene conto che una parte cospicua (se non preponderante) del
pubblico dei turisti della città di Merano rientra notoriamente nella fascia
d’età medio-alta.
5.3. Per le esposte ragioni, di natura assorbente, in accoglimento
dell’appello e in riforma dell’impugnata sentenza, s’impone l’accoglimento
del ricorso di primo grado nei limiti dell’interesse dell’odierna
appellante.
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APPALTI:
Interdittiva antimafia e condizionamento mafioso per la
presenza anche di un solo dipendente “infiltrato”.
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Informativa antimafia – Presupposti – Individuazione.
Il condizionamento mafioso, che
porta all’interdittiva, può derivare dalla presenza di
soggetti che non svolgono ruoli apicali all’interno della
società, ma siano o figurino come meri dipendenti, entrati a
far parte dell’impresa senza alcun criterio selettivo e
filtri preventivi.
il condizionamento mafioso si può desumere anche dalla
presenza di un solo dipendente “infiltrato”, del quale la
mafia si serva per controllare o guidare dall’esterno
l’impresa, nonché dall’assunzione o dalla presenza di
dipendenti aventi precedenti legati alla criminalità
organizzata, nonostante non emergano specifici riscontri
oggetti sull’influenza nelle scelte dell’impresa.
Le imprese possono effettuare liberamente le assunzioni
quando non intendono avere rapporto con le pubbliche
amministrazioni: ove intendano avere, invece, tali rapporti
devono vigilare affinché nella loro organizzazione non vi
siano dipendenti contigui al mondo della criminalità
organizzata (1).
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(1) Ha chiarito la Sezione che l’interdittiva antimafia è volta
alla salvaguardia dell’ordine pubblico economico, della
libera concorrenza tra le imprese e del buon andamento della
Pubblica amministrazione: l’interdittiva antimafia comporta
che il Prefetto escluda che un imprenditore –pur dotato di
adeguati mezzi economici e di una adeguata organizzazione–
meriti la fiducia delle Istituzioni (vale a dire che risulti
«affidabile») e possa essere titolare di rapporti
contrattuali con le pubbliche Amministrazioni o degli altri
titoli abilitativi, individuati dalla legge.
Ai fini dell’adozione del provvedimento interdittivo, rileva
il complesso degli elementi concreti emersi nel corso del
procedimento: una visione ‘parcellizzata’ di un
singolo elemento, o di più elementi, non può che far perdere
a ciascuno di essi la sua rilevanza nel suo legame
sistematico con gli altri. E’ estranea al sistema delle
informative antimafia, non trattandosi di provvedimenti
nemmeno latamente sanzionatori, qualsiasi logica penalistica
di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole
dubbio (né –tanto meno– occorre l’accertamento di
responsabilità penali, quali il «concorso esterno» o
la commissione di reati aggravati ai sensi dell’art. 7 della
legge n. 203 del 1991), poiché simile logica vanificherebbe
la finalità anticipatoria dell’informativa, che è quella di
prevenire un grave pericolo e non già quella di punire,
nemmeno in modo indiretto, una condotta penalmente
rilevante.
Il rischio di inquinamento mafioso deve essere valutato in
base al criterio del più «probabile che non», alla
luce di una regola di giudizio, cioè, che ben può essere
integrata da dati di comune esperienza, evincibili
dall’osservazione dei fenomeni sociali, qual è, anzitutto,
anche quello mafioso; pertanto, gli elementi posti a base
dell’informativa possono essere anche non penalmente
rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di
processi penali o, addirittura e per converso, possono
essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di
proscioglimento o di assoluzione.
Ha aggiunto la Sezione che quanto ai rapporti di parentela
tra titolari, soci, amministratori, direttori generali
dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati,
organici, contigui alle associazioni mafiose,
l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale
rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre
caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del
«più probabile che non», che l’impresa abbia una
conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di
fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti)
ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere
influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la
famiglia, o da un affiliato alla mafia.
Nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso,
all’interno della famiglia si può verificare una «influenza
reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di
cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno
di soggezione o di tolleranza; una tale influenza può essere
desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e
in contrasto con i principi costituzionali) che il parente
di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa
considerazione, per converso, che la complessa
organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si
fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo
fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’
mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio
mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’
e dell’associazione (Consiglio
di Stato, Sez. III,
sentenza 14.09.2018 n. 5410 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La consistenza della falsa rappresentazione della
situazione di fatto posta a base di una istanza edilizia non
esige il dolo penale essendo sufficiente il dato in sé della
consapevolezza della erronea rappresentazione di tale
situazione.
---------------
Il provvedimento di annullamento, motivato anche per
relationem sulla base dell’istruttoria dell’Ufficio tecnico,
non necessita di una compendiosa motivazione sull’interesse
pubblico in quanto adottato a seguito della constatata falsa
o erronea prospettazione dei fatti che hanno determinato a
suo tempo il rilascio della concessione.
Per costante giurisprudenza, allorquando una concessione
edilizia sia stata ottenuta dall’interessato in base ad una
falsa o comunque erronea rappresentazione della realtà
materiale, è consentito all’Amministrazione di esercitare il
proprio potere di autotutela ritirando l’atto stesso, senza
necessità di esternare alcuna particolare ragione di
pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve ritenersi
sussistente in re ipsa.
Infatti, l’insegnamento giurisprudenziale prevalente ha
individuato dei casi in cui la discrezionalità della P.A. in
subiecta materia si azzera, vanificando sia l’interesse del
destinatario del provvedimento ampliativo da annullare, sia
il tempo trascorso, e ciò si verifica quando il privato
istante abbia ottenuto il permesso di costruire inducendo in
errore l’Amministrazione attraverso una falsa
rappresentazione della realtà.
---------------
Quanto all’ultimo profilo di appello con il quale il
ricorrente censura l’assenza di un interesse pubblico, va
rilevato che non sussiste un obbligo per l’Amministrazione
di darne conto.
Invero, la previsione dell’art. 21-nonies della legge n.
241/1990, anche nell’ultima versione seguente alla novella
del 2015, legittima l’esercizio sine die dell’autotutela in
presenza di provvedimenti basati su una falsa
rappresentazione della realtà o, in alternativa, su
dichiarazioni sostitutive o atti di notorietà la cui falsità
è stata assodata da un giudicato penale.
---------------
8. L’appello non è fondato.
9. Il comune di Calvi con il provvedimento n. 5914 del 02.10.2003 ha annullato la concessione edilizia n. 19 del
13.05.1992 rilasciata al signor Fr. per la
ricostruzione di un fabbricato danneggiato dal sisma del
1962.
10. La motivazione posta a base dell’annullamento, come
desumibile dal contenuto del provvedimento e per relationem
dalla proposta del responsabile del procedimento, si è
fondata sulla rilevata illegittimità della concessione
edilizia rilasciata all’appellante per la ricostruzione di
un fabbricato in realtà già ricostruito altrove.
11. Tale circostanza, come evidenziato dal giudice di primo
grado, è stata anche accertata nel corso di un giudizio
penale innanzi alla Pretura Circondariale di Benevento e
alla Corte di Appello di Napoli (cfr. citate sentenze n.
159/98 e n. 1695/2000).
12. Ciò premesso, nei motivi di appello si contestano le
conclusioni del Tar che hanno portato al rigetto del
ricorso di primo grado.
13. Innanzitutto, l’appellante sostiene di non aver
falsamente rappresentato nell’istanza di concessione la
situazione di fatto.
13.1. Lo stesso ricorrente, tuttavia, ammette che il
fabbricato oggetto del giudizio è stato ricostruito su altra
particella, anche se poi afferma di non averne avuto
conoscenza in quanto non avrebbe personalmente seguito le
pratiche per il rilascio del contributo di cui alla legge n.
1442/1962.
13.2. In tale prospettiva non può però ritenersi fondata la
prospettazione dell’appellante in ordine al fatto che
l’infedeltà della domanda dovesse essere valutata in
funzione dell’oggetto e delle finalità della domanda
medesima.
In ogni caso, come risulta evidente, quanto rappresentato ha
indotto in errore l’Amministrazione a rilasciare un titolo
edilizio sulla base di presupposti non corrispondenti alla
realtà.
13.3. Per completezza, giova sul punto evidenziare che la
consistenza della falsa rappresentazione della situazione di
fatto posta a base di una istanza edilizia non esige il dolo
penale essendo sufficiente il dato in sé della
consapevolezza della erronea rappresentazione di tale
situazione (cfr. Sez. IV, n. 2693 del 2016; n. 4300 del
2014).
13.4. D’altra parte, se la legge consentiva in astratto la
ricostruzione in altro sito del fabbricato risultato
danneggiato dal sisma quando per motivi tecnici derivanti
dall'osservanza delle norme di edilizia antisismica e di
disciplina urbanistica si imponeva la ricostruzione
dell'immobile su area diversa (cfr. art. 6, comma 3, della
legge n. 1431/1962), va evidenziato che nel caso di specie,
come rilevato dal Tar, non sussistevano ostacoli tecnici
insuperabili per la ricostruzione in altro sito
dell’immobile.
14. Anche i profili di censura relativi al difetto di
motivazione del provvedimento impugnato non possono essere
condivisi.
14.1. Secondo l’appellante, il Comune nel provvedimento di
annullamento della concessione non avrebbe adeguatamente
spiegato le ragioni per le quali veniva ritenuto prevalente
l’interesse pubblico all’adozione dell’atto di autotutela
rispetto a quello del privato.
L’onere di evidenziare tali ragioni, in aggiunta a quelle
relative al mero ripristino della legalità, avrebbero dovuto
essere soddisfatto soprattutto per il lungo tempo trascorso
dal rilascio della concessione e per la parziale
realizzazione delle opere edilizie oggetto della stessa.
14.2. Come rilevato dal Tar, il provvedimento di
annullamento, motivato anche per relationem sulla base
dell’istruttoria dell’Ufficio tecnico, non necessitava di
una compendiosa motivazione sull’interesse pubblico in
quanto adottato a seguito della constatata falsa o erronea
prospettazione dei fatti che avevano determinato a suo tempo
il rilascio della concessione.
14.3. Per costante giurisprudenza (cfr., ex multis, Cons.
Stato, sez. IV: 08.01.2013, n. 39; 06.05.2014, n.
4300; 14.12.2016, n. 5262), allorquando una
concessione edilizia sia stata ottenuta dall’interessato in
base ad una falsa o comunque erronea rappresentazione della
realtà materiale, è consentito all’Amministrazione di
esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l’atto
stesso, senza necessità di esternare alcuna particolare
ragione di pubblico interesse, che, in tale ipotesi, deve
ritenersi sussistente in re ipsa. Infatti, l’insegnamento
giurisprudenziale prevalente ha individuato dei casi in cui
la discrezionalità della P.A. in subiecta materia si azzera,
vanificando sia l’interesse del destinatario del
provvedimento ampliativo da annullare, sia il tempo
trascorso, e ciò si verifica quando il privato istante abbia
ottenuto il permesso di costruire inducendo in errore
l’Amministrazione attraverso una falsa rappresentazione
della realtà (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n. 2885 del 14.06.2017).
15. Quanto, infine, all’ultimo profilo di appello con il
quale il ricorrente censura l’assenza di un interesse
pubblico anche in relazione al fatto che la destinazione
della particella era comunque coerente con la realizzazione
dell’immobile di cui è causa, va rilevato che non sussiste
un obbligo per l’Amministrazione di darne conto, non
potendosi ritenere rilevante, contrariamente a quanto
affermato, la previsione dell’art. 21-nonies della legge n.
241/1990, in quanto si tratta di una norma inapplicabile
ratione temporis, essendo entrata in vigore dopo l’adozione
del provvedimento di annullamento della concessione (l’art.
21-nonies è entrato in vigore nel febbraio 2005 mentre il
provvedimento di annullamento è stato adottato nell’ottobre
2003).
In ogni caso la norma in esame, anche nell’ultima versione
seguente alla novella del 2015, legittima l’esercizio sine
die dell’autotutela in presenza di provvedimenti basati su
una falsa rappresentazione della realtà o, in alternativa,
su dichiarazioni sostitutive o atti di notorietà la cui
falsità è stata assodata da un giudicato penale.
16. Per le ragioni sopra esposte, l’appello va respinto e
per l’effetto va confermata la sentenza di primo grado (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 14.09.2018 n. 5408 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Configurandosi l’attività
di repressione degli abusi edilizi quale attività vincolata,
l’omissione della comunicazione di avvio del procedimento
non produce, giusta quanto dispone l’articolo 21-octies,
comma 2, L. n. 241/1990, effetti invalidanti
---------------
L’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha recentemente
chiarito che la repressione degli abusi edilizi, in quanto
attività vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto, è insensibile al
decorso del tempo, dovendovi l’Amministrazione provvedere
anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dello
stesso.
---------------
La mancata notificazione dell’ordinanza di demolizione a uno
dei comproprietari non ne comporta l’illegittimità, ma,
coerentemente con la funzione di condizione di efficacia che
assolve la notifica, ne determina l’inefficacia nei
confronti del comproprietario pretermesso.
---------------
Con il primo motivo di impugnazione, epigrafato “Violazione
e falsa applicazione di norme di legge (L. n. 241/1990, in
particolare artt. 7, 10). Eccesso di potere per difetto del
presupposto, travisamento e mancata valutazione della
situazione di fatto e di diritto”, la deducente
stigmatizza il mancato invio della comunicazione di avvio
del procedimento.
La doglianza è infondata.
Invero, configurandosi l’attività di repressione degli abusi
edilizi quale attività vincolata, l’omissione della
comunicazione di avvio del procedimento non produce, giusta
quanto dispone l’articolo 21-octies, comma 2, L. n.
241/1990, effetti invalidanti (cfr., TAR Lombardia–Milano,
Sez. I, sentenza n. 847/2017). Con il secondo motivo
di impugnazione, intitolato “Violazione e falsa
applicazione di norme di legge (art. 3 L. 241/90). Eccesso
di potere per difetto del presupposto, travisamento e
mancata valutazione della situazione di fatto e di diritto.
Assenza della motivazione”, la deducente lamenta un
difetto di motivazione nel provvedimento gravato, specie in
relazione al lungo lasso di tempo decorso dalla commissione
dell’abuso.
La doglianza è infondata.
Al riguardo è sufficiente ricordare che l’Adunanza plenaria
del Consiglio di Stato ha recentemente chiarito che la
repressione degli abusi edilizi, in quanto attività
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, è insensibile al decorso
del tempo, dovendovi l’Amministrazione provvedere anche a
notevole distanza di tempo dalla commissione dello stesso
(sentenza n. 9/2017).
Con il quarto motivo di impugnazione, rubricato “Violazione
e falsa applicazione di norma di legge (art. 31 DPR
380/2001). Eccesso di potere per difetto del presupposto,
travisamento e mancata valutazione della situazione di fatto
e di diritto. Assenza della motivazione. Erroneità
dell’individuazione dei destinatari del provvedimento”,
la deducente censura il fatto che l’ordinanza di demolizione
non sia stata notificata a tutti i comproprietari del bene.
La doglianza è infondata.
Invero, la mancata notificazione dell’ordinanza di
demolizione a uno dei comproprietari non ne comporta
l’illegittimità, ma, coerentemente con la funzione di
condizione di efficacia che assolve la notifica, ne
determina l’inefficacia nei confronti del comproprietario
pretermesso (cfr., TAR Campania–Napoli, Sez. III, sentenza
n. 5212/2017) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.09.2018 n. 2070 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Hanno natura di opere precarie le opere che, in
disparte le loro modalità costruttive, risultino destinate a
soddisfare esigenze contingenti, improvvise e transeunti e
ad essere presto eliminate, con il corollario che neppure la
facile amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé,
a farli ritenere provvisti del carattere della precarietà.
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Con l’ottavo motivo di impugnazione, la cui
trattazione viene anticipata per la correlazione con il
sesto motivo, la ricorrente deduce i vizi di “Violazione
e falsa applicazione di norma di legge (art. 31 DPR 380/2001
in relazione agli artt. 3 e 6 DPR 380/2001 nonché all’art.
27 LR !2/2005). Eccesso di potere per difetto del
presupposto, travisamento e mancata valutazione della
situazione di fatto e di diritto. Illogicità della
motivazione e carenza dell’istruttoria”.
Sostiene la signora Re. che nemmeno l’articolo 31 TU
Edilizia possa trovare applicazione nel caso di specie, dal
momento che i manufatti della cui demolizione si discute
sono in realtà opere facilmente smontabili, come tali
assoggettate al più a semplice DIA, la cui mancanza comporta
l’applicazione di una sanzione pecuniaria e non di quella
ripristinatoria.
La doglianza è infondata.
Costituisce, infatti, orientamento giurisprudenziale
consolidato, cui la Sezione senz’altro aderisce, quello per
cui «hanno natura di opere precarie le opere che, in
disparte le loro modalità costruttive, risultino destinate a
soddisfare esigenze contingenti, improvvise e transeunti e
ad essere presto eliminate, con il corollario che neppure la
facile amovibilità dei manufatti eseguiti basta, di per sé,
a farli ritenere provvisti del carattere della precarietà»
(così TAR Lazio–Latina, sentenza n. 389/2017).
Ebbene, nel caso di specie ci troviamo avanti a un complesso
di opere finalizzate a utilizzare stabilmente come maneggio
l’area della ricorrente, come dimostra il fatto che
l’attività è ivi svolta da circa vent’anni.
Peraltro, la stessa molteplicità e consistenza dei manufatti
abusi realizzati nel corso degli anni (segnatamente, cinque
prefabbricati a diverso uso, un container, una casetta per
il deposito di attrezzi, due casette in muratura, un chiosco
di ristoro, tre recinti per cavalli, trentuno stalle-boxes,
due canili, un fienile …) escludono che si possa
classificare l’intervento come assoggettabile a DIA,
trattandosi piuttosto di nuova costruzione (TAR
Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.09.2018 n. 2070 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Le opere abusivamente
realizzate sono state sanzionate (anche) perché realizzate
in assenza dei necessari titoli autorizzatori, sicché
un’eventuale autorizzazione successiva all’edificazione di
per sé non ne fa venire meno il carattere illecito.
Come è noto, infatti, l’accertamento di conformità ex
articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 presuppone che l’opera da
sanare sia conforme non solo alla disciplina urbanistica
vigente al momento della domanda, ma anche a quella vigente
al momento della sua realizzazione.
Pertanto, potrebbe
risultare irrilevante la sopravvenienza di una provvedimento
favorevole.
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Con il settimo motivo di impugnazione, intitolato “Violazione
e falsa applicazione di norma di legge (art. 31 DPR 380/2001
in relazione agli artt. 3 e 6 DPR 380/2001 nonché all’art.
27 LR 12/2005). Eccesso di potere per difetto del
presupposto, travisamento e mancata valutazione della
situazione di fatto e di diritto. Illogicità della
motivazione e carenza dell’istruttoria”, la deducente si
duole del fatto che il Comune abbia adottato il
provvedimento sanzionatorio de quo senza attendere la
conclusione del procedimento di autorizzazione in corso ex
art. 7-bis delle NTA del PTCP del Parco Nord Milano.
La doglianza è infondata.
Vero è, infatti, che le opere in questione sono state
sanzionate (anche) perché realizzate in assenza dei
necessari titoli autorizzatori, sicché un’eventuale
autorizzazione successiva all’edificazione di per sé non ne
fa venire meno il carattere illecito.
Come è noto, infatti, l’accertamento di conformità ex
articolo 36 D.P.R. n. 380/2001 presuppone che l’opera da
sanare sia conforme non solo alla disciplina urbanistica
vigente al momento della domanda, ma anche a quella vigente
al momento della sua realizzazione. Pertanto, potrebbe
risultare irrilevante la sopravvenienza di una provvedimento
favorevole (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 14.09.2018 n. 2070 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La sanzione ablativa
della proprietà non può essere applicata nel caso in cui il
proprietario sia incolpevole, per essere stato realizzato
l’abuso da altri.
Nel caso di specie non è in contestazione che i manufatti
abusivi siano stati costruiti dal signor En.Ga., che aveva
la piena disponibilità dell’area in qualità di conduttore
della stessa.
Pertanto, coerentemente con quanto statuito dalla Corte
costituzionale con la sentenza n. 345/1991, la signora Re.,
che era all’oscuro, quale comproprietaria dell’area locata,
dell’intervenuto abuso, non può essere assoggettata
all’ulteriore sanzione dell’acquisizione gratuita dell’area
al patrimonio comunale.
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E’ di contro fondato il terzo motivo di impugnazione,
epigrafato “Violazione e falsa applicazione di norme di
legge (art. 31 DPR 380/2001). Eccesso di potere per difetto
del presupposto, travisamento e mancata valutazione della
situazione di fatto e di diritto. Assenza della motivazione.
Erroneità della previsione dell’acquisizione dell’area al
patrimonio del Comune”, con il quale la deducente fa
valere la propria estraneità all’abuso e la propria buona
fede.
Come già affermato da questo Tribunale (sentenza n.
1924/2013) in un caso analogo, che vedeva sempre coinvolta
in qualità di proprietaria l’odierna ricorrente, la sanzione
ablativa della proprietà non può essere applicata nel caso
in cui il proprietario sia incolpevole, per essere stato
realizzato l’abuso da altri.
Nel caso di specie non è in contestazione che i manufatti
abusivi siano stati costruiti dal signor En.Ga., che aveva
la piena disponibilità dell’area in qualità di conduttore
della stessa. Pertanto, coerentemente con quanto statuito
dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 345/1991, la
signora Re., che era all’oscuro, quale comproprietaria
dell’area locata, dell’intervenuto abuso, non può essere
assoggettata all’ulteriore sanzione dell’acquisizione
gratuita dell’area al patrimonio comunale (cfr., TAR Friuli
Venezia Giulia, sentenza n. 83/2017) (TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV,
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APPALTI: Acquisti
sotto i 40 mila senza confronto di offerte
Gli affidamenti di servizi, lavori e forniture di valore inferiore ai 40
mila euro possono essere sviluppati anche senza confronto di offerte.
Il TAR Molise, Sez. I, con la
sentenza 14.09.2018 n. 533 ha chiarito i profili applicativi dell'affidamento
diretto, regolato dall'art. 36, comma 2, lett. a), del codice dei contratti
pubblici.
I giudici amministrativi contestualizzano il particolare dato
normativo, evidenziando come il dlgs n. 50/2016 abbia interamente
riformulato e riscritto i procedimenti contrattuali sotto-soglia
comunitaria, introducendo un sistema di procedure negoziate semplificate,
nell'ambito delle quali l'affidamento diretto per acquisizioni di valore
inferiore ai 40 mila euro si distingue nettamente dalle procedure nella
fascia di valore superiore, proprio in quanto non prevede il confronto
comparativo tra gli operatori economici.
La sentenza chiarisce che
l'affidamento diretto si pone come procedura in deroga rispetto ai principi
della concorrenza, non discriminazione e similari che implicano sempre e
comunque una procedura competitiva sia pur informale. Sulla base di questo
presupposto, il percorso regolato dall'art. 36, comma 2, lett. a), del codice
si connota come una procedura ultra-semplificata, nella quale la speditezza
dell'acquisizione deve prevalere sul rigido formalismo.
Non può sfuggire che
una procedura competitiva per importi elevati è cosa diversa da una
procedura a inviti per assegnare forniture, servizi o lavori di importo
contenuto. Il Tar molisano precisa che sino all'importo dei 40 mila euro il
legislatore ha ritagliato una specifica disciplina che configura un
micro-sistema esaustivo ed autosufficiente che non necessita di particolari
formalità e sulla quale i principi generali non determinano particolari
limiti.
L'affidamento diretto disciplinato dall'art. 36 si distingue, inoltre, dalla
ipotesi di procedura negoziata con un solo operatore economico previste
dall'art. 63 del codice stesso, per ricorrere alla quale la stazione
appaltante è tenuta a sostenere la propria decisione con una motivazione
coerente con le fattispecie individuate dalla norma.
Secondo i giudici amministrativi molisani, nel caso degli importi inferiori
ai 40 mila euro non si pone neppure il problema di coniugare l'affidamento
diretto con l'esigenza di una adeguata motivazione
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
APPALTI: Sotto
i 40mila euro affidamento diretto semplificato anche senza
le motivazioni.
L'affidamento diretto entro i 40mila euro integra una
procedura «ultra-semplificata» in cui, vista la previsione e
la scelta legislativa, la speditezza dell'acquisizione
prevale sul rigore formalistico classico della procedura a
evidenza pubblica, con la conseguenza di rendere non
necessaria un’adeguata motivazione.
Questo l'approdo cui giunge il TAR Molise con la
sentenza 14.09.2018 n. 533.
L'affidamento diretto
La censura del ricorrente si è incentrata sull'affidamento
diretto dei servizi di raccolta, trasporto e conferimento
dei rifiuti differenziati, pulizia stradale, manutenzione e
cura del verde pubblico, manutenzione del cimitero e scavo
di fosse per tumulazione, oltre al servizio di trasporto
persone-autista autista scuolabus.
Secondo l'appaltatore l'affidamento sarebbe avvenuto in
violazione dei principi del codice, in quanto il
responsabile del procedimento non avrebbe invito o
consultato/coinvolto alcuna impresa potenzialmente
interessata. Pur essendo l'appalto di valore inferiore a
quello entro il quale è consentito l'affidamento diretto
(entro i 40mila euro), sempre secondo il ricorrente, la
stazione appaltante avrebbe dovuto favorire la
partecipazione avviando un procedimento competitivo.
Le «accuse» consentono al Tar molisano di soffermarsi sulla
natura/configurazione giuridica delle nuove procedure
semplificate disciplinate nell'articolo 36 del codice dei
contratti quale micro sistema normativo che ha sostituito le
acquisizioni in economia del superato Dlgs 163/2006.
La decisione
Con il nuovo codice dei contratti -si legge nella sentenza-
l'approccio verso la fattispecie dell'affidamento diretto
sarebbe profondamente mutato rispetto alle superate
acquisizioni in economia, essendo stati i procedimenti
contrattuali sotto-soglia comunitaria interamente
riformulati e riscritti.
L'affermazione, in effetti, esprime una profonda verità
considerato che le acquisizioni in economia richiedevano un
passaggio preliminare attraverso un regolamento interno
della stazione appaltante (o altro provvedimento nell'ambito
delle amministrazioni statali) che aveva la funzione,
sostanziale, di abilitare i dirigenti/funzionari a procedere
con l'acquisto nell'ambito delle soglie e delle commesse
stabilite. Con il micro sistema normativo, contenuto
nell'articolo 36, l'esigenza di un atto regolamentare
propedeutico, oggettivamente, non emerge.
È pur vero che le linee guida dell'Anac (in particolare la
n. 4) sembrano auspicare l'adozione del regolamento ma,
sottolinea il giudice, esse sono «atti amministrativi» e in
quanto tali non vincolanti per la stazione appaltante.
Attraverso la fattispecie dell'affidamento diretto,
nell'ambito della micro soglia dei 40mila euro, pertanto, il
codice degli appalti ha previsto un procedimento nuovo e «ultra-semplificato»
in cui l'esigenza della speditezza dell'acquisizione viene
considerata un valore superiore rispetto al rigore formale
di una gara vera e propria o anche di un confronto
competitivo tra appaltatori.
Il confronto tra preventivi
Non a caso, per effetto delle modifiche apportate dal
decreto legislativo correttivo del codice appalti,
l'affidamento diretto non richiede più neppure un confronto
tra preventivi.
Lo stesso Consiglio di Stato (con il parere sullo schema di
linee guida n. 4, dedicate al procedimento nel sotto soglia
comunitario) ha sottolineato che il disegno normativo
perseguito dall'articolo 36 appare «esaustivo e
autosufficiente» che non necessita di altri atti/indicazioni
attuativi/e e che i principi generali non contengono
particolari limitazioni.
Pertanto, l'affidamento diretto nell'ambito dei 40mila euro
-a differenza della fattispecie di assegnazione diretta in
base all’articolo 63 attraverso la procedura negoziata senza
pubblicazione di bando– non richiede adeguata motivazione.
Pur nel silenzio normativo, tuttavia, appare corretto che
nella determina di affidamento venga indicato in che modo è
stato individuato l'affidatario. La motivazione può
sostanziarsi anche nel chiarimento sulla competitività del
prezzo praticato e dell'adeguatezza tecnica della commessa
rispetto ai desiderata della stazione appaltante
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.09.2018).
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MASSIMA
II – Il ricorso è infondato.
III - La ricorrente si duole del fatto che il Comune
resistente si sia determinato nel senso di affidare in
maniera diretta servizi tra di loro diversi e variegati
(come la raccolta rifiuti, la tumulazione cimiteriale e lo
scuolabus), in seguito all’invito limitato a quattro ditte a
presentare un’offerta, precludendo la medesima possibilità
agli altri operatori del mercato, come la ricorrente,
specializzati in quel comparto di servizi.
La circostanza
rivestirebbe rilievo anche poiché alla procedura è stata
invitata una ditta con sede non in Molise ma nella provincia
di Benevento (in Campania), la qual cosa porrebbe in maggior
evidenza la lesione subita dalla posizione della ricorrente Ec., che ha sede in Molise ed è qualificata per quei
servizi. Invero, la ricorrente, nel contestare l’intera
procedura, sembra voler chiedere soltanto di potervi
partecipare.
La Stazione appaltante richiama l’art. 36,
comma 2 lett. a), del D.Lgs. n. 50/2016, al fine di
giustificare il proprio operato ma –a dire della ricorrente– la giurisprudenza amministrativa, nelle proprie pronunce,
e l’ANAC, con le proprie Linee-guida, hanno chiarito che
l’istituto dell’affidamento diretto non può certamente
essere più inteso o considerato come “zona franca” di
libertà delle forme e dei modelli di partecipazione,
rappresentando, anzi, un settore nel quale la vigilanza deve
essere aumentata, anche in ragione del notevole numero di
commesse affidate, in Italia, con tali modalità e del
conseguente rischio di affidamenti irregolari.
IV – A tenore dell’art. 36, comma 1, lett. a) del Codice dei
contratti pubblici, per gli affidamenti di importo inferiore
a 40.000 euro, le Amministrazioni possono procedere
“mediante affidamento diretto anche senza previa
consultazione di due o più operatori economici o per i
lavori in amministrazione diretta”, possono cioè fare a meno
anche del confronto di offerte. La procedura negoziata
previa consultazione è invece richiesta per gli importi tra
i 40 mila e i 150 mila euro (lett. b).
Il nuovo Codice degli appalti (declinato nel D.Lgs. n.
50/2016) ha interamente riformulato e riscritto i
procedimenti contrattuali sotto-soglia comunitaria,
introducendo un sistema di procedure negoziate
“semplificate”, in sostituzione delle pregresse dinamiche
negoziali relative, in particolare, alla fattispecie delle
acquisizioni in economia, fattispecie ormai totalmente
espunte dall’ordinamento giuridico degli appalti.
Tra le
procedure negoziate “semplificate”, evidentemente,
particolare rilievo riveste l’affidamento nell’ambito dei 40
mila euro di lavori, servizi e forniture -come dimostra
anche la recente giurisprudenza in materia (cfr.: Cons.
Stato V, 03.04.2018 n. 2079; Tar Toscana Firenze I,
02.01.2018 n. 17)- soprattutto perché non può essere revocato
in dubbio che il nuovo Codice muta sostanzialmente la
dinamica degli affidamenti diretti rimessi in passato alla
species dell’affidamento diretto delle acquisizioni in
economia ovvero a limitati casi di procedura negoziata già
disciplinati dall’articolo 57 del previgente Codice (oggi
ribaditi e meglio specificati dall’articolo 63 dell’attuale
Codice).
Le Linee-guida ANAC n. 4 del 07.04.2018, sugli appalti
sotto la soglia comunitaria (aggiornate al correttivo
appalti 2017, cioè al D.Lgs. 19.04.2017, n. 56), invero,
non aggiungono molto al dettato di legge, indicando
specifiche modalità di rotazione degli inviti e degli
affidamenti e di attuazione delle verifiche sull’affidatario
scelto senza gara, nonché di effettuazione degli inviti in
caso di esclusione automatica delle offerte anormalmente
basse, oltre che, più in generale, dell’attuazione dei
principi generali in materia di procedure a evidenza
pubblica e prendendo in considerazione la situazione del
soggetto già invitato, ma che non aveva ottenuto un
precedente affidamento.
Peraltro, come chiarito dal parere
12.02.2018 n. 361 del Consiglio di Stato, le Linee-guida ANAC
sulle procedure sotto-soglia non hanno carattere vincolante,
essendo un atto amministrativo generale che, pur perseguendo
lo scopo di fornire indirizzi e istruzioni operative alle
stazioni appaltanti, dà ad esse modo di discostarsi dagli
indirizzi medesimi.
Ciò detto, è evidente che si tratta nel caso di specie di un
affidamento diretto di servizi che, stante l’importo-base
inferiore ai 40 mila euro, avrebbe persino potuto
prescindere dal confronto di offerte.
Non si ravvisa alcuna anomalia nel fatto che si tratti di un
plesso di servizi eterogenei tra loro: in realtà
l’affidamento integrato per servizi analoghi o assimilabili
o indipendenti riguarda una categoria aperta di servizi che,
per ragioni di economicità, possono essere affidati in
blocco con procedura unica, cosiddetta “multiservice” (cfr.:
Cons. Stato V, n. 3220/2014; Tar Campania Napoli III, n.
1248/2017).
L’Amministrazione ha dato conto, nell’atto conclusivo della
procedura, del fatto che non è stato possibile ricorrere
agli strumenti di acquisto messi a disposizione da Consip
S.p.A. e dal Mercato elettronico della P.A. (M.e.P.A.)
poiché, a suo dire, tali strumenti presenterebbero
“difficoltà nella comparazione dei prezzi e nella tipologia
di servizi offerti rispetto a quelli necessari”.
La
motivazione è laconica ma non incongrua, poiché in effetti,
proprio l’eterogeneità dei servizi avrebbe reso difficoltoso
e lento il ricorso a quegli strumenti di acquisto. Si tratta
di modalità di acquisto idonee per approvvigionamenti di
beni e servizi con caratteristiche standard, mentre -nella
specie- i servizi richiesti sono piuttosto frastagliati e
modellati sulle esigenze particolari del Comune appaltante.
È vero che l’affidamento e l’esecuzione di lavori, servizi e
forniture di importo inferiore alle soglie di cui all’art.
35 (221.000 euro) devono avvenire nel rispetto dei principi
di cui all’art. 30, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016 (economicità,
efficacia, tempestività, correttezza, libera concorrenza,
non discriminazione, trasparenza, proporzionalità,
pubblicità), nonché nel rispetto del principio di rotazione
e in modo da assicurare l’effettiva possibilità di
partecipazione delle microimprese, piccole e medie imprese.
Il Decreto correttivo (D.Lgs. n. 56/2017) ha innestato
nell’art. 36, comma 1, anche l’obbligo di rispettare, oltre
ai principi di cui all’art. 30, i principi di cui agli
articoli 34 e 42.
Tuttavia, i motivi del ricorso non illuminano a sufficienza
i dedotti profili di violazione di tali principi, anche
perché –come già rilevato– la procedura seguita appare
coerente con il dettato di legge.
È evidente che
l’affidamento diretto si pone come procedura in deroga
rispetto ai principi della concorrenza, non discriminazione
e similari che implicano sempre e comunque una procedura
competitiva sia pur informale. Se così è, appare logico
pensare che i principi in parola disciplinino l’affidamento
e l’esecuzione in termini generali sul presupposto di una
procedura ultra-semplificata, nella quale la speditezza
dell’acquisizione deve prevalere sul rigido formalismo.
Non può sfuggire che una procedura competitiva per importi
elevati è cosa diversa da una procedura a inviti per
assegnare forniture, servizi o lavori di importo contenuto.
Fino all’importo dei 40 mila euro –ferma restando la cornice
dei principi generali– il legislatore ha ritagliato una
specifica disciplina che il Consiglio di Stato (nel parere
n. 1903/2016) ha ritenuto come micro-sistema esaustivo ed
autosufficiente che non necessita di particolari formalità e
sulla quale i principi generali, richiamati dall’articolo
36, comma 2, lett. a), non determinano particolari limiti.
Si è in presenza di una ipotesi specifica di affidamento
diretto diversa ed aggiuntiva dalle ipotesi di procedura
negoziata “diretta” prevista nell’articolo 63 del Codice che
impone invece una specifica motivazione e che l’assegnazione
avvenga in modo perfettamente adesivo alle ipotesi
predefinite dal legislatore (si pensi in particolare
all’unico affidatario o alle oggettive situazioni di urgenza
a pena di danno), di guisa che, nel caso degli importi
inferiori ai 40 mila euro non si pone neppure il problema di
coniugare l’affidamento diretto con l’esigenza di una
adeguata motivazione.
Infine, per quel che riguarda l’asserita violazione della
clausola dello “stand still”, di cui all’art. 32, comma 9,
del Codice, stante la stipula del contratto dal giorno
successivo all’aggiudicazione, va evidenziato che, a tenore
dell’art. 32, comma 10, lett. b), del Codice, “il termine
dilatorio di cui al comma 9 non si applica nei seguenti
casi: […] nel caso di affidamenti effettuati ai sensi
dell’articolo 36, comma 2, lettera a) e b)”.
Pertanto, anche
tale censura si appalesa infondata.
V – In conclusione, il ricorso è infondato (TAR Molise,
sentenza 14.09.2018 n. 533 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Conferimento di incarico di Responsabile della protezione
dei dati personali.
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Privacy - Responsabile della protezione dei dati
personali – Conferimento incarico - Certificazione di
Auditor/Lead Auditor per i Sistemi di Gestione per la
Sicurezza delle Informazioni - Requisito di ammissione alla
selezione – Esclusione.
In sede di conferimento, ai sensi
dell’art. 7, d.lgs. n. 165 del 2001, dell’incarico di
“responsabile della protezione dei dati personali” (D.P.O.),
la certificazione di Auditor/Lead Auditor per i Sistemi di
Gestione per la Sicurezza delle Informazioni, secondo la
norma ISO/IEC/27001, non può costituire titolo abilitante ai
fini dell’assunzione e dello svolgimento delle relative
funzioni, il cui esercizio presuppone la minuziosa
conoscenza e l’applicazione del Regolamento UE 2016/679 (G.D.P.R.)
e della complessiva disciplina di settore; ne consegue che
la certificazione in parola non può costituire requisito di
ammissione alla selezione indetta (nel caso di specie, da
un’azienda sanitaria) per il conferimento del suddetto
incarico, né tanto meno assurgere, in tale contesto, a
titolo equipollente al diploma di laurea richiesto
(segnatamente in giurisprudenza, ovvero in informatica o in
ingegneria informatica), proprio perché essa non inquadra la
specifica funzione di garanzia, coessenziale all’esercizio
dei compiti assegnati dalla normativa euro-unitaria al
responsabile della protezione dei dati personali, il cui
nucleo essenziale ed irriducibile non può che qualificarsi
come eminentemente giuridico, in quanto polarizzato attorno
alla necessità di tutelare il diritto fondamentale
dell’individuo alla protezione dei dati personali,
indipendentemente dalla qualificazione soggettiva del
titolare delle informazioni, dalle modalità della loro
propagazione e dalle forme di utilizzo (1).
---------------
(1)
Il Tar ha preliminarmente ricordato il prevalente
insegnamento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione,
secondo cui “appartiene alla giurisdizione del giudice
amministrativo la controversia relativa ad una procedura
concorsuale volta al conferimento di incarichi ex art. 7,
comma 6, d.lgs. n. 165 cit., assegnati ad esperti, mediante
contratti di lavoro autonomo di natura occasionale o
coordinata e continuativa, per far fronte alle medesime
esigenze cui ordinariamente sono preordinati i lavoratori
subordinati della p.a.” (Cass. S.U. n. 13531 del 2016).
Tale indirizzo risulta ampiamente confermato e sviluppato
negli arresti della più recente giurisprudenza
amministrativa, la quale ha precisato che “vale
un'interpretazione estensiva della nozione di «assunzione
dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni» fatta
propria dall'art. 63, comma 4, d.lgs. 30.03.2001, n. 165,
nella quale debbono ritenersi incluse non soltanto le
procedure concorsuali volte all'assunzione di lavoratori
subordinati, ma anche quelle aventi specificamente ad
oggetto il conferimento di incarichi ex art. 7, comma 6, del
medesimo d.lgs. n. 165 del 2001, assegnati a esperti
mediante contratti di lavoro autonomo di natura occasionale,
o coordinata e continuativa, per far fronte alle medesime
esigenze cui ordinariamente sono preordinati i lavoratori
subordinati della pubblica amministrazione. La giurisdizione
amministrativa va affermata, pertanto, ogniqualvolta la
controversia riguardi una procedura concorsuale indetta da
un'amministrazione pubblica, quale che sia la tipologia
dell'instaurando rapporto lavorativo. Il requisito della
concorsualità sussiste in forza della natura comparativa
della selezione, ancorché l'avviso di indizione si limiti a
rinviare ad un atto di scelta motivata” (da ultimo, Tar
Toscana, sez. I, n. 557 del 2018; Cons. St., sez. IV, 1176
del 2017).
Il Tar ha quindi concluso che l’attinenza dell’incarico alle
esigenze proprie dell’Amministrazione e la
procedimentalizzazione della fase di individuazione del
soggetto incaricato, mediante l’espletamento di una
procedura selettiva di tipo comparativo, costituiscono
chiaro indice della manifestazione del potere organizzatorio
dell’Amministrazione e del corrispondente insorgere della
giurisdizione amministrativa
(TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 13.09.2018 n. 287 -
commento tratto da link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Legittimo
licenziare lo statale che si allontana dal lavoro.
Legittimo il licenziamento del dipendente pubblico che si allontani senza
giustificato motivo dal lavoro. Tale condotta costituisce «un comportamento
fraudolento diretto a far emergere falsamente la presenza in ufficio» che
costituiva illecito disciplinare ancor prima dell'intervento della legge
Madia.
Lo ha confermato la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, che nella
sentenza 11.09.2018 n. 22075 ha
respinto il ricorso di un dipendente dell'Università di Firenze licenziato
per essersi ripetutamente allontanato dal lavoro dopo la timbratura del
cartellino.
In primo grado il ricorso del lavoratore era stato accolto dal
tribunale di Firenze con conseguente reintegro nel posto di lavoro. In
secondo grado, tuttavia, la Corte d'appello di Firenze aveva ribaltato
completamente la decisione, confermando il licenziamento. La Cassazione è
stata dello stesso avviso.
Nella sentenza, depositata ieri in cancelleria,
gli Ermellini hanno respinto tutti i motivi di ricorso presentati dal
dipendente, tra i quali spicca la contestazione secondo cui la disciplina
applicabile alla fattispecie doveva essere non già quella dell'art. 55-quater
del Testo unico sul pubblico impiego, ma bensì quella contenuta nel
Contratto collettivo per il personale del comparto università che sanziona
con la sospensione sino a dieci giorni l'abbandono ingiustificato dal
servizio, prevedendo che, in caso di recidiva, la sospensione possa essere
elevata a sei mesi.
Secondo la Corte, tuttavia, rientra tra le ipotesi di
assenza ingiustificata di cui all'art. 55-quater del dlgs 165/2001, nel testo
vigente già prima delle modifiche introdotta dal decreto Madia (art. 3 dlgs
n. 116/2016) «non solo il caso dell'alterazione del sistema di
rilevamento delle presenze, ma anche l'allontanamento del lavoratore nel
periodo intermedio tra le timbrature di entrata e uscita, trattandosi di un
comportamento fraudolento diretto a far emergere falsamente la presenza in
ufficio». Tutto questo, secondo la Corte, valeva ancor prima della
riforma Madia le cui disposizioni sono state introdotte «a fini
chiarificatori».
Secondo i giudici di legittimità, quindi, deve escludersi che il decreto
contro i furbetti del cartellino abbia portata innovativa, visto che già il
testo originario dell'art. 55-quater consentiva di sanzionare condotte
ulteriori rispetto ai soli casi tipizzati di alterazione/manomissione del
sistema automatico di rilevazione delle presenze
(articolo ItaliaOggi del 12.09.2018). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata
di cui all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, nel
testo, applicabile ratione temporis, vigente già prima delle
modifiche introdotte dall'art. 3 del d.lgs. n. 116 del 2016,
non solo il caso dell'alterazione del sistema di rilevamento
delle presenze, ma anche l'allontanamento del lavoratore nel
periodo intermedio tra le timbrature di entrata ed uscita,
trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a fare
emergere falsamente la presenza in ufficio.
Si è osservato che «la registrazione
effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione
della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa
solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in
entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente
in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei
casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero,
che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della
timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita».
Utili elementi a conforto di detta esegesi possono desumersi
dal d.lgs. n. 116/2016, art. 3, comma 1, che introducendo
nell'art. 55-quater il comma 1-bis, ha precisato che «costituisce
falsa attestazione della presenza in servizio qualunque
modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di
terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre
in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente
presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di
lavoro dello stesso».
La disposizione è stata evidentemente
introdotta dal legislatore a fini chiarificatori, per meglio
esplicitare un precetto già desumibile dalla disciplina
previgente, sicché deve escludersi che la stessa abbia
portata innovativa, posto che il testo originario dell'art.
55-quater non consentiva di circoscrivere la condotta
tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del
sistema automatico.
---------------
3. Il secondo, il sesto, il settimo, l'ottavo,
ed il nono motivo possono essere trattati
congiuntamente, perché si fondano tutti sull'asserita
applicabilità alla fattispecie della disciplina dettata
dalla contrattazione collettiva (art. 46 del CCNL 16.10.2008
per il personale del comparto università che riproduce il
codice disciplinare
già introdotto dall'art. 45 del CCNL 27.01.2005), che
sanziona con la sospensione sino a dieci giorni l'abbandono
ingiustificato del servizio (art. 46, comma 3, lett. a),
prevedendo che, in caso di recidiva, la sospensione stessa
possa essere elevata sino a sei mesi (art. 46, comma 4,
lett. a).
I motivi sono infondati alla luce dell'orientamento, ormai
consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo
cui «rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata di
cui all'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, nel
testo, applicabile ratione temporis, vigente già prima delle
modifiche introdotte dall'art. 3 del d.lgs. n. 116 del 2016,
non solo il caso dell'alterazione del sistema di rilevamento
delle presenze, ma anche l'allontanamento del lavoratore nel
periodo intermedio tra le timbrature di entrata ed uscita,
trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a fare
emergere falsamente la presenza in ufficio» ( Cass.
14.12.2016 n. 25750 e negli stessi termini Cass. n.
17637/2016, Cass. n. 24574/2016).
Con le richiamate pronunce, alle quali il Collegio intende
dare continuità, si è osservato che «la registrazione
effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione
della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa
solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in
entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente
in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei
casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero,
che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della
timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita».
È stato evidenziato che utili elementi a conforto di detta
esegesi possono desumersi dal d.lgs. n. 116/2016, art. 3,
comma 1, che introducendo nell'art. 55-quater il comma
1-bis, ha precisato che «costituisce falsa attestazione
della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta
posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far
risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno
l'amministrazione presso la quale il dipendente presta
attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro
dello stesso».
La disposizione è stata evidentemente introdotta dal
legislatore a fini chiarificatori, per meglio esplicitare un
precetto già desumibile dalla disciplina previgente, sicché
deve escludersi che la stessa abbia portata innovativa,
posto che il testo originario dell'art. 55-quater non
consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli
casi di alterazione/manomissione del sistema automatico
(Cass. n. 24574/2016).
3.1. Dalla ritenuta riconducibilità alla fattispecie legale
dell'addebito contestato al ricorrente discende
l'infondatezza di tutti i motivi che fanno leva sulla
disciplina contrattuale, giacché, a seguito dell'entrata in
vigore del d.lgs. n. 150/2009, quest'ultima è stata
sostituita di diritto, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 cod.
civ., dalla
normativa di legge, che sulla stessa prevale ex art. 55,
comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, nel testo applicabile
ratione temporis.
Questa Corte ha già evidenziato che il legislatore,
nell'introdurre fattispecie legali di licenziamento per
giusta causa e per giustificato motivo, aggiuntive rispetto
a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, ha
anche affermato con chiarezza la preminenza della disciplina
legale rispetto a quella di fonte contrattuale, che, quindi,
non può essere più invocata, ove in contrasto con la norma
inderogabile di legge (Cass. n. 24574/2016).
Detti principi di diritto sono stati richiamati dalla Corte
territoriale a fondamento della decisione e vanno qui
ribaditi, perché il ricorso non prospetta argomenti che
possano indurre a rimeditare l'orientamento già espresso, al
quale il Collegio intende dare continuità (Corte di
Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 11.09.2018 n. 22075). |
APPALTI:
Gara, sì all'esclusione per illecito professionale.
Prima dell'accertamento giudiziale.
L'esclusione per grave errore professionale può essere disposta anche prima
dell'accertamento giudiziale; la stazione appaltante che esclude il
concorrente si pone in linea con le direttive Ue, mentre il codice appalti è
in contrasto con la normativa euro-unitaria.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. III, con la
sentenza 11.09.2018 n. 9263 riferendosi all'art. 80, comma 5, lettera c), del codice appalti (dlgs
50/2016) che prevede l'esclusione per grave errore professionale.
I giudici
hanno rilevato che il decreto 50/2016, nel richiedere che il grave
inadempimento dell'operatore sia incontestato o incontestabile in giudizio,
«si è posto in contrasto con l'art. 57 par. 4 della Direttiva 2014/24/Ue
sugli appalti pubblici e con il Considerando 101 della medesima direttiva».
Le norme Ue prevedono che la stazione appaltante può escludere il
concorrente, laddove sia in condizione di dimostrare la sussistenza di un
grave illecito professionale «anche prima che sia adottata una decisione
definitiva e vincolante sulla presenza di motivi di esclusione obbligatori».
Come affermato dal Consiglio di stato (ordinanza n. 5033 del 23.08.2018
che ha rimesso la questione di compatibilità della norma italiana alla Corte
di giustizia), se obiettivo del legislatore nazionale è di alleggerire
l'onere probatorio a carico dell'amministrazione per rendere più efficiente
l'azione amministrativa attraverso l'elencazione di casi in cui è possibile
escludere l'operatore economico lo strumento non appare adeguato: la
necessaria subordinazione dell'azione amministrativa agli esiti del giudizio
di cui al codice appalti, ancorché «astrattamente possibile», è ad avviso
del Tar «non compatibile con i tempi effettivi dell'azione amministrativa in
relazione alle finalità di interesse generale del settore, vale a dire
l'utile realizzazione delle opere o acquisizione dei servizi da parte delle
pubbliche amministrazioni».
Da ciò la decisione dei giudici di privilegiare una interpretazione della
norma interna conforme al diritto dell'Unione, e, dunque, «a ritenere
operante in questa circostanza (sebbene solo ai fini legati alla delibazione
negativa della decidibilità nel merito del ricorso) la causa preclusiva di
partecipazione alla gara della ricorrente»
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
I rilevamenti tratti da Google Earth, non
costituiscono, di per sé considerati, elementi idonei a
comprovare lo stato dei luoghi sussistente ad una certa data
e l’assenza di coincidenza tra il manufatto in questione e
quello oggetto dell’istanza di sanatoria straordinaria e
ciò, in particolare, tenuto conto della provenienza del
suddetto rilevamento, delle incertezze in merito alla
risalenza delle immagini (come emerge dallo stesso sito –alla pagina: https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it– per impostazione predefinita il software “visualizza le
immagini di qualità migliore disponibili per una determinata
località”, con la precisazione che “a volte potrebbero
essere visualizzate immagini meno recenti se sono più nitide
rispetto a quelle più recenti”), della genericità delle
informazioni relative ai metodi di esecuzione del
rilevamento medesimo.
---------------
Ritenuto che:
- il ricorso merita solo parziale e limitato accoglimento, nei
termini di seguito indicati;
- esclusivamente in relazione al primo dei manufatti indicati
nell’ordinanza di demolizione impugnata, si ritengono
fondate le deduzioni con le quali parte ricorrente ha
lamentato l’illegittima irrogazione della sanzione
demolitoria stante la pendenza di una domanda di condono
presentata dalla precedente proprietaria, avente ad oggetto
l’edificazione di un appartamento di 50 mq.;
- non è in contestazione, infatti, che il procedimento avviato con
la presentazione della sopra indicata istanza non è stato
ancora definito dall’ente resistente, restando comunque
precluse a questo Giudice valutazioni riferite a poteri
amministrativi non ancora esercitati, in conformità alle
previsioni di cui all’art. 34, comma 2 c.p.a.;
- le valutazioni in merito alla ammissibilità della istanza di
condono e alla sussistenza dei presupposti per il relativo
accoglimento, incluso quello riferito alla realizzazione
delle opere oggetto della domanda medesima entro il termine
previsto dalla normativa di riferimento per l’ammissibilità
del beneficio ed alla perdurante esistenza delle stesse –che
dovranno essere poste a fondamento di una determinazione
espressa conclusiva del procedimento di sanatoria
straordinaria– costituiscono, infatti, presupposto per
l’esercizio del potere sanzionatorio edilizio, correlato
alla eventuale inammissibilità ovvero al rigetto
dell’istanza in argomento;
- per completezza di analisi, il Collegio ritiene anche di
evidenziare che i rilevamenti tratti da Google Earth, non
costituiscono, di per sé considerati, elementi idonei a
comprovare lo stato dei luoghi sussistente ad una certa data
e l’assenza di coincidenza tra il manufatto in questione e
quello oggetto dell’istanza di sanatoria straordinaria e
ciò, in particolare, tenuto conto della provenienza del
suddetto rilevamento, delle incertezze in merito alla
risalenza delle immagini (come emerge dallo stesso sito –
alla pagina:
https://support.google.com/earth/answer/21417?hl=it –
per impostazione predefinita il software “visualizza le
immagini di qualità migliore disponibili per una determinata
località”, con la precisazione che “a volte
potrebbero essere visualizzate immagini meno recenti se sono
più nitide rispetto a quelle più recenti”), della
genericità delle informazioni relative ai metodi di
esecuzione del rilevamento medesimo (cfr. TAR Napoli, sez.
II, sentenza n. 6118 del 27.11.2014; sentenza n. 5331 del
22.11.2013) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 10.09.2018 n. 9235 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costituisce costruzione urbanisticamente
rilevante anche la sistemazione di roulotte per periodi
ripetuti nel tempo, giacché ciò che rileva è l'idoneità del
manufatto ad incidere sul preesistente assetto edilizio in
modo non occasionale.
---------------
- in relazione, per contro, alle ulteriori opere sanzionate, il
ricorso si palesa infondato;
- si evidenzia, infatti, che il secondo dei manufatti sanzionati,
realizzato in muratura, è stato espressamente indicato nel
provvedimento impugnato quale opera eseguita in prosecuzione
(“prosieguo dei lavori”), emergendo per tabulas
che detta opera non ha costituito oggetto di alcuna istanza
di sanatoria, venendo in rilievo un intervento di nuova
edificazione soggetto al regime del permesso di costruire,
doverosamente e legittimamente sanzionato con l’irrogazione
della sanzione demolitoria;
- del pari, come chiarito dalla consolidata giurisprudenza,
costituisce costruzione urbanisticamente rilevante anche la
sistemazione di roulotte per periodi ripetuti nel tempo,
giacché ciò che rileva è l'idoneità del manufatto ad
incidere sul preesistente assetto edilizio in modo non
occasionale (in termini, TAR Toscana Firenze Sez. III Sent.,
11.04.2008, n. 1020) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 10.09.2018 n. 9235 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Dal chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del
d.P.R. n. 380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge
n. 47/1985) si desume che il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria consegue necessariamente ad
un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai
sensi dell’art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001,
l’esercizio della vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in
assenza del prescritto permesso di costruire
l’amministrazione comunale deve disporne senz’altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse.
L'’ordine di demolizione, inoltre, è atto dovuto in presenza
di opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e,
quindi, non necessita di particolare motivazione quanto
all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso -che è in
re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto urbanistico
violato- ed alla possibilità di adottare provvedimenti
alternativi.
La sussistenza di particolari condizioni di salute,
economiche e sociali non legittimano l’esecuzione di abusi
edilizi né valgono a dispiegare una efficacia esimente,
residuando il ricorso alle misure assistenziali previste
dall’ordinamento.
---------------
- non meritano accoglimento neanche le deduzioni dirette a
contestare l’assenza di preventiva valutazione della
sanabilità delle opere da parte dell’amministrazione. Dal
chiaro tenore letterale dell’articolo 36 del d.P.R. n.
380/2001 (che ha sostituito l’art. 13 della legge n.
47/1985) si desume, infatti, che il rilascio del permesso di
costruire in sanatoria consegue necessariamente ad
un’istanza dell’interessato, mentre al Comune compete, ai
sensi dell’art. 27, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001,
l’esercizio della vigilanza sull’attività
urbanistico-edilizia che si svolge nel territorio comunale.
Pertanto, una volta accertata l’esecuzione di opere in
assenza del prescritto permesso di costruire
l’amministrazione comunale deve disporne senz’altro la
demolizione, non essendo tenuta a valutare preventivamente
la sanabilità delle stesse (ex multis, TAR Campania
Napoli, Sez. III, 27.09.2006, n. 8331; Sez. IV, 04.02.2003,
n. 617);
- l’ordine di demolizione, inoltre, è atto dovuto in presenza di
opere realizzate senza alcun titolo abilitativo e, quindi,
non necessita di particolare motivazione quanto
all’interesse pubblico alla rimozione dell’abuso -che è
in re ipsa, consistendo nel ripristino dell’assetto
urbanistico violato- ed alla possibilità di adottare
provvedimenti alternativi (ex multis, TAR Campania
Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246);
- la sussistenza di particolari condizioni di salute, economiche e
sociali non legittimano l’esecuzione di abusi edilizi né
valgono a dispiegare una efficacia esimente, residuando il
ricorso alle misure assistenziali previste dall’ordinamento (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 10.09.2018 n. 9235 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI
FORNITURE E SERVIZI: Contratti,
proroga legittima se è nel bando. Così non si viola l'obbligo di gara.
Nel codice appalti la proroga di un contratto deve essere temporanea, non
imputabile a fatto dell'amministrazione e funzionale a garantire la
continuità dell'azione amministrativa in attesa della scelta del nuovo
contraente; sempre necessaria una adeguata motivazione, ma se si sceglie la
via di una nuova gara la motivazione non serve.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, con la
sentenza 10.09.2018 n. 9212 che, richiamando i contenuti di un
parere dell'Anac del 2013, ha esaminato una fattispecie riferibile alla
disciplina di cui all'articolo 106, del decreto n. 50 del 2016 che ammette
la proroga soltanto quando ha carattere di temporaneità e rappresenta uno
strumento atto esclusivamente ad assicurare il passaggio da un vincolo
contrattuale ad un altro.
I giudici hanno richiamato un parere dell'Anac (parere AG 38/2013) che,
anche se relativo alla previgente disciplina, ha comunque evidenziato che la
proroga «è teorizzabile ancorandola al principio di continuità
dell'azione amministrativa (art. 97 Cost.) nei soli limitati ed eccezionali
casi in cui (per ragioni obiettivamente non dipendenti dall'amministrazione)
vi sia l'effettiva necessità di assicurare precariamente il servizio nelle
more del reperimento di un nuovo contraente».
Sono quindi da ritenere legittime le clausole di proroga inserite fin
dall'inizio negli atti di gara perché così facendo non risulta configurabile
una violazione della par condicio, né si dà vita a una forma di
rinnovo del contratto in violazione dell'obbligo di gara. Viceversa, se la
stazione appaltante procedesse a prorogare il contratto oltre i limiti delle
previsioni della lex specialis ovvero, in assenza di tali previsioni,
alla scadenza naturale del contratto, sussisterebbe un'illegittima
fattispecie di affidamento senza gara.
In ogni caso, dice la sentenza la facoltà di proroga del contratto di
appalto, anche in presenza di una clausola del bando o del disciplinare,
soggiace, comunque, a determinate condizioni e necessita di adeguata
motivazione. Invece, se, come nella fattispecie oggetto di esame da parte
del Tar, l'amministrazione opti per l'indizione di una nuova procedura,
nessuna particolare motivazione è necessaria
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).
---------------
MASSIMA
2. E’ noto infatti che in materia di rinnovo o proroga
dei contratti pubblici di appalto di servizi non vi è alcuno spazio per
l'autonomia contrattuale delle parti in quanto vige il principio
inderogabile, fissato dal legislatore per ragioni di interesse pubblico, in
forza del quale, salve espresse previsioni dettate dalla legge in conformità
della normativa comunitaria, l'amministrazione, una volta scaduto il
contratto, deve, qualora abbia ancora la necessità di avvalersi dello stesso
tipo di prestazioni, effettuare una nuova gara pubblica
(TAR Sardegna Cagliari n. 755/2014, confermata da Consiglio di Stato sez.
III n. 1521/2017 con cui si è affermato che “La proroga, anzi, come
giustamente evidenziato dal primo giudice, costituisce strumento del tutto
eccezionale, utilizzabile solo qualora non sia possibile attivare i
necessari meccanismi concorrenziali”).
2.1. Va peraltro ricordato che la differenza tra rinnovo
e proroga di contratto pubblico sta nel fatto che il primo comporta
una nuova negoziazione con il medesimo soggetto, che può concludersi con
l'integrale conferma delle precedenti condizioni o con la modifica di alcune
di esse in quanto non più attuali; la seconda ha, invece, come solo effetto
il differimento del termine finale del rapporto, il quale rimane per il
resto regolato dall'atto originario.
2.2. Come correttamente rilevato dalla difesa dell’amministrazione
resistente, la proroga, nell’unico caso oggi ammesso
ai sensi dell’art. 106, del d.lgs. n. 50 del 2016, ha carattere di
temporaneità e rappresenta uno strumento atto esclusivamente ad assicurare
il passaggio da un vincolo contrattuale ad un altro.
Ciò, peraltro, è stato chiarito, conformemente all’univoco orientamento
della giurisprudenza, anche dall’ANAC, pure in relazione al previgente
impianto normativo; è stato, infatti, evidenziato (parere AG 38/2013) che
la proroga “è teorizzabile ancorandola al principio di
continuità dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) nei soli limitati ed
eccezionali casi in cui (per ragioni obiettivamente non dipendenti
dall’Amministrazione) vi sia l’effettiva necessità di assicurare
precariamente il servizio nelle more del reperimento di un nuovo contraente”
(CdS, sez. V, sent. 11.05.2009, n. 2882).
2.3. Se è vero, dunque, che sono considerate legittime le
clausole di proroga inserite ab origine nella lex specialis
(Cons. Stato, sez. III, 05.07.2013, n. 3580; sez. V, 27.04.2012, n. 2459;
sez. VI, 16.02.2010, n. 850), giacché in tal modo non è
configurabile una violazione della par condicio, né si dà vita ad una
forma di rinnovo del contratto in violazione dell'obbligo di gara (laddove
se la stazione appaltante procedesse a prorogare il contratto oltre i limiti
delle previsioni della lex specialis ovvero, in assenza di tali
previsioni, alla scadenza naturale del contratto, sussisterebbe
un’illegittima fattispecie di affidamento senza gara), è altrettanto vero
che la facoltà di proroga del contratto di appalto, anche in presenza di una
clausola della lex specialis, soggiace, comunque, a determinate
condizioni.
2.4. La clausola di proroga inserita nel contratto
conferisce, infatti, all’ente il diritto potestativo di richiedere al
contraente privato la prosecuzione del contratto e, inoltre, come chiarito
dalla unica giurisprudenza anche del Giudice d’Appello, il rapporto tra la
regola, cioè la gara, e l’eccezione, cioè la possibilità di -limitata–
proroga, se prevista, si riflette sul contenuto della motivazione, giacché
ove, come nella fattispecie, l’amministrazione opti per l'indizione di una
nuova procedura, nessuna particolare motivazione è necessaria; per contro,
solo nell’ipotesi in cui l’amministrazione si determini alla proroga del
rapporto tale determinazione dovrà essere analiticamente motivata, dovendo
essere chiarite le ragioni per le quali l’ente ritiene di discostarsi dal
principio generale (Cons. Stato,
sez. VI, 24.11.2011, n. 6194).
2.5. Giova precisare, altresì, per completezza di analisi e ferme le
dirimenti considerazioni sopra svolte, che dalla documentazione versata in
atti emerge che solo nel capitolato d'oneri è riportata la clausola che
prevede la possibilità di proroga del contratto mentre nel contratto
sottoscritto tra le parti rep. 4596 del 07/01/2014 (art. 6, comma 2) è stata
prevista, conformemente alla normativa di riferimento, la sola proroga
tecnica, eventualmente necessaria per completare la procedura della nuova
gara pubblica.
2.6. Del tutto legittimamente, dunque, l’amministrazione comunale ha
adottato le determinazioni impugnate, inerenti, come sopra esposto, al
conferimento dell’incarico per la progettazione del servizio di igiene
urbana integrata con implementazione della tariffa puntuale e per il
supporto per la redazione dei relativi atti di gara, in funzione
dell’affidamento del servizio medesimo, successivamente alla scadenza del
contratto di appalto in corso di esecuzione, in esito ad una nuova procedura
alla quale, peraltro, anche la ricorrente potrà partecipare.
3. Da quanto sopra esposto consegue l’infondatezza delle censure dedotte,
dovendosi escludere che l’amministrazione fosse tenuta a svolgere prima
ancora che a comunicare l’avvio di un procedimento nei termini prospettati
da parte ricorrente.
4. Il conclusione, il ricorso va rigettato. |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Limiti alla vendita di alloggio di edilizia residenziale
pubblica introdotti con la Convenzione comunale.
---------------
Edilizia residenziale pubblica - Alloggi - Alienazione –
Dopo 5 anni dal rilascio della licenza di abitabilità –
Limiti introdotti dal Comune con la convenzione ex art. 35,
l. n. 865 del 1971 - Possibilità.
Anche se l’art. 35, l. 22.10.1971,
n. 865, nel testo modificato l. 17.02.1992, n. 179, ha
ridotto da 20 a 5 anni -decorrenti dalla data del rilascio
della licenza di abitabilità- i limiti inderogabili
all'alienazione successiva dell'immobile di edilizia
residenziale pubblica sovvenzionato, con la convenzione il
comune, potendo pattuire che dopo i 5 anni l'immobile sia
venduto solo a chi ha i requisiti per ottenere un alloggio
agevolato, può di fatto introdurre limiti convenzionali alla
successiva alienazione da parte dell'assegnatario (1).
---------------
(1) Ha chiarito la Sezione che la convenzione di edilizia
residenziale pubblica, ex art. 35, l. 22.10.1971, n. 865,
avente ad oggetto il diritto di proprietà, è uno strumento
di regolazione urbanistica di lunga durata esteso anche alla
fissazione, con modalità normativamente predeterminate,
dell’iniziale prezzo di cessione i vincoli all’alienazione
contenuti nelle convenzioni ex art. 35, l. n. 865 del 1971
stipulate anteriormente all’entrata in vigore della l.
17.02.1992, n. 179 hanno piena efficacia nel primo
quinquennio; nel prosieguo, possono essere rimossi, a titolo
oneroso, previa stipula di un’ulteriore convenzione con il
Comune, cui peraltro spetta di individuare gli elementi di
calcolo della misura del corrispettivo che l’interessato
deve versare; i vincoli all’alienazione contenuti nelle
convenzioni ex art. 35 l. n. 865 stipulate posteriormente
all’entrata in vigore della l. n. 179 del 1992 hanno
efficacia limitata solamente al primo quinquennio e,
comunque, sono superabili “previa autorizzazione della
regione, quando sussistano gravi, sopravvenuti e documentati
motivi”.
A tale alleggerimento dei vincoli normativi, tuttavia, non
si accompagna la previsione della nullità di pattuizioni
convenzionali che introducano, in varia forma, vincoli
ulteriori a quelli contemplati dalla legislazione vigente.
In altri termini, il tessuto ordinamentale ha registrato sì
un oggettivo arretramento dei vincoli imposti ex lege,
come tali imperativi ed assoluti, ma non ha contestualmente
recato il divieto della previsione convenzionale di limiti
all’alienazione diversi e ulteriori rispetto allo standard
vincolistico attualmente stabilito.
Ha aggiunto la Sezione che la ratio legis non deve
essere individuata nella volontà di impedire tout court
vincoli alla disponibilità degli alloggi diversi da quelli
imposti per legge: se così fosse stato, infatti, vi sarebbe
stata l’apposita previsione della nullità di clausole
convenzionali recanti vincoli ulteriori rispetto a quelli
stabiliti dalla legge.
Al contrario, la finalità delle modifiche succedutesi nel
tempo è con ogni ragionevolezza rappresentata
dall’enucleazione di un più ampio margine di libertà
operativa per lo strumento convenzionale: l’eliminazione del
pesante apparato vincolistico in precedenza stabilito dalla
legge, invero, rende l’istituto oggettivamente più agile,
duttile e modulabile in base alle varie esigenze proprie dei
diversi contesti urbani del Paese.
Del resto, la convenzione ex art. 35, l. n. 865 non può
avere durata inferiore ai vent’anni e deve prevedere, tra
l’altro, “la determinazione dei prezzi di cessione degli
alloggi, sulla base del costo delle aree”: vale, in
proposito, il richiamo operato dal novellato comma 13
all’art. 8, comma 1, l. n. 10 del 1977 (oggi confluito
nell’art. 18, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2011)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.09.2018 n. 5300 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
... per la riforma della sentenza del Tribunale
Amministrativo Regionale per il Lazio–Sede di Roma,
Sezione II-bis, n. 1686 del 04.02.2016, resa tra le parti,
concernente approvazione del nuovo schema di convenzione per
la concessione in diritto di superficie ovvero per la
cessione della piena proprietà di terreni ai fini della
realizzazione del II^ P.E.E.P.;
...
7. Venendo al merito, il Collegio osserva che la materia
delle convenzioni urbanistiche propedeutiche alla
realizzazione di alloggi di edilizia popolare ha visto, nel
tempo, una serie notevole di modificazioni legislative.
7.1. Per quanto qui di interesse, si evidenzia:
- che l’art. 35 l. 865 del 1971 prevedeva inizialmente, ai commi
15, 16, 17 e 19, che “L'alloggio costruito su area ceduta
in proprietà non può essere alienato a nessun titolo, ne' su
di esso può costituirsi alcun diritto reale di godimento per
un periodo di tempo di 10 anni dalla data del rilascio della
licenza di abitabilità. Decorso tale periodo di tempo,
l'alienazione o la costituzione di diritti reali di
godimento può avvenire esclusivamente a favore di soggetti
aventi i requisiti per la assegnazione di alloggi economici
e popolari, al prezzo fissato dall'ufficio tecnico erariale
… Dopo 20 anni dal rilascio della licenza di abitabilità, il
proprietario dell'alloggio può trasferirne la proprietà a
chiunque o costituire su di essa diritto reale di godimento,
con l'obbligo di pagamento a favore del comune o consorzio
di comuni, che a suo tempo ha ceduto l'area, della somma
corrispondente alla differenza tra il valore di mercato
dell'area al momento dell'alienazione ed il prezzo di
acquisizione a suo tempo corrisposto, rivalutato sulla base
delle variazioni dell'indice dei prezzi all'ingrosso
calcolato dall'Istituto centrale di statistica … Gli atti
compiuti in violazione delle disposizioni contenute nei
quattro precedenti commi sono nulli. Detta nullità può
essere fatta valere dal comune o da chiunque altro vi abbia
interesse e può essere rilevata d'ufficio dal giudice”;
- che la successiva l. n. 179 del 1992 abrogava tali commi e
stabiliva, in loro vece, che “A decorrere dalla data di
entrata in vigore della presente legge, gli alloggi di
edilizia agevolata possono essere alienati o locati, previa
autorizzazione della regione, quando sussistano gravi e
sopravvenuti motivi e comunque quando siano decorsi cinque
anni dall'assegnazione o dall'acquisto” (così l’art. 20,
primo comma, della l. n. 179);
- che la l. n. 85 del 1994 sostituiva il primo comma dell’art. 20
della l. n. 179 come segue: “A decorrere dalla data di
entrata in vigore della presente legge, gli alloggi di
edilizia agevolata possono essere alienati o locati, nei
primi cinque anni decorrenti dall'assegnazione o
dall'acquisto e previa autorizzazione della regione, quando
sussistano gravi, sopravvenuti e documentati motivi. Decorso
tale termine, gli alloggi stessi possono essere alienati o
locati”;
- che la l. n. 662 del 1996 novellava (tra l’altro) il comma 13
dell’art. 35 della l. n. 865, aggiungendovi il riferimento
alla l. n. 10 del 1977; il comma così novellato recitava: “Contestualmente
all'atto della cessione della proprietà dell'area, tra il
comune, o il consorzio, e il cessionario, viene stipulata
una convenzione per atto pubblico, con l'osservanza delle
disposizioni di cui all'articolo 8, commi primo, quarto e
quinto, della legge 28.01.1977, n. 10, la quale, oltre a
quanto stabilito da tali disposizioni, deve prevedere…”;
- che il d.l. n. 70 del 2011, convertito con modificazioni con l.
n. 106 del 2011, introduceva nel corpo dell’art. 31 della l.
n. 448 del 1998 i commi 49-bis e 49-ter, ai sensi dei quali:
“49-bis: I vincoli relativi alla determinazione del
prezzo massimo di cessione delle singole unità abitative e
loro pertinenze nonché del canone massimo di locazione delle
stesse, contenuti nelle convenzioni di cui all'articolo 35
della legge 22.10.1971, n. 865, e successive modificazioni,
per la cessione del diritto di proprietà, stipulate
precedentemente alla data di entrata in vigore della legge
17.02.1992, n. 179, ovvero per la cessione del diritto di
superficie, possono essere rimossi, dopo che siano trascorsi
almeno cinque anni dalla data del primo trasferimento, con
convenzione in forma pubblica stipulata a richiesta del
singolo proprietario e soggetta a trascrizione per un
corrispettivo proporzionale alla corrispondente quota
millesimale, determinato, anche per le unità in diritto di
superficie, in misura pari ad una percentuale del
corrispettivo risultante dall'applicazione del comma 48 del
presente articolo. La percentuale di cui al presente comma
e' stabilita, anche con l'applicazione di eventuali
riduzioni in relazione alla durata residua del vincolo, con
decreto di natura non regolamentare del Ministro
dell'economia e delle finanze, previa intesa in sede di
Conferenza unificata ai sensi dell'articolo 3 del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281.
49-ter: Le disposizioni di cui al comma 49-bis si applicano
anche alle convenzioni previste dall'articolo 18 del testo
unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380”;
- che il d.l. n. 216 del 2011, convertito con modificazioni con l.
n. 14 del 2012, stabiliva che “A decorrere dal
01.01.2012, la percentuale di cui al comma 49-bis
dell'articolo 31 della legge 23.12.1998, n. 448, e'
stabilita dai comuni”.
7.2. Dal combinato disposto di tali norme risulta:
- che i vincoli all’alienazione contenuti nelle convenzioni ex art.
35 l. n. 865 stipulate anteriormente all’entrata in vigore
della l. n. 179 del 1992 hanno piena efficacia nel primo
quinquennio; nel prosieguo, possono essere rimossi, a titolo
oneroso, previa stipula di un’ulteriore convenzione con il
Comune, cui peraltro spetta di individuare gli elementi di
calcolo della misura del corrispettivo che l’interessato
deve versare;
- che i vincoli all’alienazione contenuti nelle convenzioni ex art.
35 l. n. 865 stipulate posteriormente all’entrata in vigore
della l. n. 179 del 1992 hanno efficacia limitata solamente
al primo quinquennio e, comunque, sono superabili “previa
autorizzazione della regione, quando sussistano gravi,
sopravvenuti e documentati motivi”.
7.3. Questo, dunque, l’attuale quadro legislativo,
indubbiamente connotato da una tendenziale riduzione dei
vincoli all’alienazione stabiliti dalla previgente
normativa.
7.4. A tale alleggerimento dei vincoli normativi, tuttavia,
non si accompagna la previsione della nullità di pattuizioni
convenzionali che introducano, in varia forma, vincoli
ulteriori a quelli contemplati dalla legislazione vigente.
7.5. In altri termini, il tessuto ordinamentale ha
registrato sì un oggettivo arretramento dei vincoli imposti
ex lege, come tali imperativi ed assoluti, ma non ha
contestualmente recato il divieto della previsione
convenzionale di limiti all’alienazione diversi e ulteriori
rispetto allo standard vincolistico attualmente stabilito.
7.6. Questo elemento rappresenta un dato decisivo per la
ricostruzione esegetica della sottesa ratio legis.
7.7. Questa, ad avviso del Collegio, non deve essere
individuata nella volontà di impedire tout court vincoli
alla disponibilità degli alloggi diversi da quelli imposti
per legge: se così fosse stato, infatti, vi sarebbe stata
l’apposita previsione della nullità di clausole
convenzionali recanti vincoli ulteriori rispetto a quelli
stabiliti dalla legge.
7.8. Al contrario, la finalità delle modifiche succedutesi
nel tempo è con ogni ragionevolezza rappresentata
dall’enucleazione di un più ampio margine di libertà
operativa per lo strumento convenzionale: l’eliminazione del
pesante apparato vincolistico in precedenza stabilito dalla
legge, invero, rende l’istituto oggettivamente più agile,
duttile e modulabile in base alle varie esigenze proprie dei
diversi contesti urbani del Paese.
7.9. Del resto, la convenzione ex art. 35 l. n. 865 non può
avere durata inferiore ai vent’anni e deve prevedere, tra
l’altro, “la determinazione dei prezzi di cessione degli
alloggi, sulla base del costo delle aree”: vale, in
proposito, il richiamo operato dal novellato comma 13
all’art. 8, comma primo, della l. n. 10 del 1977 (oggi
confluito nell’art. 18, comma primo, d.p.r. n. 380 del
2011).
7.10. De jure condito, dunque, la convenzione ex art. 35
resta uno strumento di regolazione urbanistica di lunga
durata esteso anche alla fissazione, con modalità normativamente predeterminate, dell’iniziale prezzo di
cessione.
7.11. La previsione convenzionale di limiti prospettici
all’alienazione degli alloggi ulteriori rispetto a quelli
stabiliti ex lege, pertanto, non solo è consentita dalla
normativa ma, per di più, si pone in sostanziale linea di
continuità teleologica con le caratteristiche strutturali e
funzionali proprie dello strumento.
8. Nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal
Tribunale i limiti all’alienazione stabiliti dalla delibera
consiliare n. 60 del 2014 e destinati, nelle intenzioni del
Comune, ad essere contenuti nelle convenzioni da stipulare
con i soggetti assegnatari rispettano il disposto dell’art.
1379 c.c..
8.1. In primo luogo ricorre un evidente interesse di Roma
Capitale, quale ente esponenziale della collettività locale,
a riservare per un più lungo periodo di tempo gli alloggi di
edilizia popolare alle fasce svantaggiate della popolazione,
tanto più in considerazione della notoria difficoltà di
reperire immobili ad uso abitativo a prezzi accessibili
nella Città di Roma.
8.2. In secondo luogo, non si è in presenza di un radicale
divieto di alienazione, ma di una mera perimetrazione
contenutistica della facoltà di disposizione del titolare
dell’alloggio, con particolare riferimento al prezzo di
cessione ed alle qualità soggettive del compratore.
8.3. In terzo luogo, il termine ventennale costituisce un
“conveniente limite di tempo”, sia perché è pari al termine
di durata minima ex lege della convenzione, sia perché è del
tutto logico che tale termine sia superiore a quello
decennale previsto dalla l. n. 560 del 1993 per l’ipotesi di
dismissione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica,
fenomeno generale da cui si distingue (proprio per le
caratteristiche costruttive economiche, per il bacino di
utenza popolare e per le modalità autoritative di
acquisizione delle aree) la species dell’edilizia economica
e popolare cui è, invece, specificamente rivolto l’art. 35
della l. n. 865 del 1971, che ha interamente riscritto
l’art. 10 della l. n. 167 del 1962, recante appunto
“Disposizioni per favorire l'acquisizione di aree
fabbricabili per l'edilizia economica e popolare”.
8.4. Di converso, la specialità dell’edilizia economica e
popolare si evince anche in riferimento all’edilizia
convenzionata (disciplinata dall’art. 7 della l. n. 10 del
1977, poi confluito nell’art. 17 del d.p.r. n. 380 del
2001), connotata dalla riduzione del contributo di
costruzione a fronte dell’impegno del costruttore di
applicare prezzi di vendita degli alloggi conformi a
convenzioni stipulate con l’Amministrazione comunale: tali
limitazioni, proprio in quanto corrispondenti ad una
riduzione a monte del costo di costruzione, si applicano
solo alla prima cessione da parte del costruttore e non
seguono il bene nei successivi trasferimenti.
9. Le ricorrenti in prime cure lamentano, inoltre, una
lesione del proprio diritto soggettivo di credito, in quanto
l’indennità di esproprio sarebbe stata sostituita dalla
cessione di diritti edificatori per un valore
corrispondente: tale valore, tuttavia, sarebbe stato ex post
significativamente intaccato dalla delibera n. 60 del 2014.
9.1. Sul punto il Collegio osserva che, in luogo della
percezione dell’indennità, le ricorrenti in prime cure
avevano a suo tempo pattuito con il Comune il riconoscimento
di corrispondenti diritti edificatori: l’effettivo surrogato
dell’indennità, dunque, è rappresentato da tali diritti in
sé, non dal loro prospettico (e fisiologicamente mutevole)
valore di mercato.
9.2. Con maggiore sforzo motivazionale, il Collegio comunque
rileva:
- che la delibera n. 60 non incide in alcun modo sulla spettanza di
tali diritti edificatori;
- che non è provato che l’attuale valore di questi diritti sia
stato concretamente e sensibilmente ridotto dalle previsioni
della delibera;
- che, in ottica civilistica, le aspettative circa il potenziale
lucro riveniente dalla futura cessione degli alloggi a
prezzi di mercato una volta decorso il primo quinquennio si
configurano quale mero motivo, come tale giuridicamente
irrilevante (salva l’ipotesi eccezionale di cui all’art.
1345 c.c., nella specie non ricorrente).
9.3. Oltretutto, la modifica apportata dalla richiamata
delibera n. 46 del 2017 consente comunque, a certe
condizioni, il recupero della libera commerciabilità degli
alloggi, almeno quanto alla fissazione del prezzo.
9.4. Peraltro, la società Pi.Sa.Du. –in disparte ogni
considerazione sull’effettiva legittimazione ad intervenire
in prime cure, posto che tale società riveste tutti i
caratteri propri del soggetto co-interessato
all’annullamento degli atti gravati, con conseguente onere
di tempestiva impugnazione– ha precisato che “l'efficacia
della cessione è stata sospensivamente condizionata alla
sottoscrizione di detta convenzione”, di talché la
stessa ricorrenza di una lesione attuale è revocabile in
dubbio, giacché la stessa società sostiene di non aver
ancora sottoscritto la convenzione con Roma Capitale.
10. Per gli esposti motivi, pertanto, deve accogliersi
l’appello di Roma Capitale in quanto i ricorsi svolti in
prime cure dalle società Eu.Ed. s.r.l., Co.Ed. Il Tr. s.r.l.
e Co.Ed.Ca. 2004 s.r.l. erano infondati: lo schema di
convenzione da ultimo approvato con la delibera consiliare
n. 60 del 2014, infatti, reca previsioni di carattere
obbligatorio pienamente conformi a legge. |
ENTI LOCALI
- PUBBLICO
IMPIEGO: Bando
da pubblicare in Gazzetta anche per gli incarichi a contratto.
Anche il bando di concorso per selezionare responsabili dei servizi e degli
uffici, qualifiche dirigenziali o posti di alta specializzazione (articolo
110 del Tuel) va obbligatoriamente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale.
Lo
afferma la V Sez. del Consiglio di Stato con la
sentenza
10.09.2018 n.
5298.
La posizione del Tar
Per la mancata pubblicazione del bando in Gazzetta Ufficiale, un interessato
chiede l'annullamento di una selezione pubblica relativa alla copertura a
tempo determinato di un posto categoria D con la procedura prevista
dall'articolo 110 del Tuel.
Il Tar Campania-Napoli gli dà ragione con la sentenza del 23.06.2017 n. 3433,
annullando gli atti della procedura, considerata avere natura concorsuale
presentandone gli «indici rivelatori» delineati dalla giurisprudenza:
emanazione del bando, nomina della commissione esaminatrice, attribuzione
del punteggio per i titoli posseduti e per la prova scritta e orale sulla
base della previa fissazione dei criteri di valutazione, compilazione di una
graduatoria finale di merito, nomina del primo classificato come vincitore.
Il principio costituzionale
Le norme generali discendenti dal principio scritto nel comma 3, articolo
97, della Costituzione, si legge nella sentenza, non hanno ragione di essere
derogate per il solo fatto che l'assunzione sia stata effettuata con
contratti a tempo determinato.
E l'obbligo di pubblicazione dei bandi nella
Gazzetta Ufficiale ne costituisce una regola generale attuativa, in quanto
ha la finalità di consentire la concreta massima conoscibilità
dell’indizione della selezione a tutti i cittadini, indipendentemente dalla
loro residenza, e non è stata incisa dall'articolo 35, comma 3, lettera a),
del Dlgs n. 165/2001, che ha fissato il criterio della «adeguata pubblicità»
in aggiunta e non in sostituzione della norma di carattere generale.
Il Consiglio di Stato dixit
In appello, la quinta sezione del Consiglio di Stato avalla in pieno le
posizioni del Tar, premettendo che la nozione di concorso non ha una propria
definizione normativa, ma evoca genericamente una procedura selettiva di
matrice concorrenziale aperta al confronto comparativo tra una pluralità di
candidati in possesso dei requisiti di partecipazione, a prescindere dalla
tipologia del posto messo a concorso e dalla natura, temporanea o meno, del
relativo contratto.
Rientrano in questo schema anche le procedure in cui vi è una valutazione
meramente fiduciaria dei candidati, con esclusione della formazione di una
graduatoria di merito, quale quella prevista all'articolo 110 del Tuel per
la copertura di posti di responsabili dei servizi e degli uffici, di
qualifiche dirigenziali o di alta specializzazione.
Tale procedura,
affermano i giudici di Palazzo Spada, è da considerarsi «selettiva ma non
concorsuale» e rientra nell'alveo dell'articolo 97 della Costituzione anche
se l'incarico è «a contratto» e ha natura temporanea, è destinato a essere
risolto in caso di dissesto o di sopravvenienza di situazioni
strutturalmente deficitarie, mancano la nomina di una commissione
giudicatrice, lo svolgimento di prove e la formazione di una graduatoria.
Si tratta, dunque, di una procedura selettiva a tutti gli effetti, come tale
affidata alla cognizione del giudice amministrativo e per la quale sono
necessarie «indefettibili modalità pubblicitarie», in primo luogo la
pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, come prevista dall'articolo 4 del Dpr
n. 487/1994, che è sviluppo attuativo degli articoli 51 e 97 della
Costituzione
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 21.09.2018).
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MASSIMA
1.- Gli appelli sono infondati e meritano di essere respinti.
Le articolate ragioni di doglianza possono essere esaminate congiuntamente,
in quanto incentrate sulla esatta e puntuale qualificazione della natura
della procedura selettiva in contestazione, che il primo giudice ha ritenuto
strutturare una vera e propria procedura concorsuale (facendone discendere:
a) sul piano processuale, la sussistenza della giurisdizione amministrativa
ex art. 63 d.lgs. n. 165/2001;
b) sul piano sostanziale, la necessità di
rispettare l’obbligo di previa pubblicazione del bando nella Gazzetta
Ufficiale ex art. 4 del D.P.R. n. 487/1994) e che, per contro, gli
appellanti ritengono, con diffusa argomentazione, procedura meramente idoneativa ex art. 110 d.lgs. n. 267/2000 (facendone, per l’appunto,
coerentemente discendere:
a) la rimessione della relativa controversia alla giurisdizione
ordinaria;
b) la sottrazione ai formalismi pubblicitari propri del concorso
pubblico in senso stretto).
2.- Osserva il Collegio che la nozione di “concorso” non riceve, nella
materia della assunzione agli impieghi presso pubbliche amministrazioni, una
propria definizione normativa, evocando genericamente (alla luce della
direttiva costituzionale di cui all’art. 97, comma 4 Cost.) la sua
attitudine a strutturale una procedura selettiva di matrice propriamente
“concorrenziale”, come tale aperta al “confronto comparativo” tra una
pluralità di candidati in possesso dei requisiti di partecipazione.
Se ne trae positiva conferma:
a) dall’art. 1, comma 1 lettera a), del d.p.r. 09.05.1994, n. 487
(Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche
amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi
unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi), che ne
scolpisce il requisito della generale “apertura” alla generalità dei
soggetti interessati, in possesso dei necessari requisiti (“generali” ex
art. 2 d.p.r. cit. e “particolari”, in relazione alla tipologia e qualifica
del posto messo a concorso, ex art. 3);
b) dall’art. 3 dello stesso regolamento, che impone l’adozione di
apposito “bando” (non già genericamente inteso a prefigurare le modalità
della selezione, ma) recante puntuale indicazione:
b1) delle modalità anche temporali di
presentazione delle “domande” di partecipazione;
b2) del diario, della sede, delle materie e del
contenuto delle “prove” che ne costituiscono la specifica modalità operativa
(e vuoi che si tratti di prove scritte, anche orali ed eventualmente
pratiche):
b3) della “votazione” necessaria per l’ammissione
alla fase orale;
b4) degli eventuali “titoli” preferenziali,
suscettibili di valutazione;
c) dall’art. 6, comma 5 del regolamento, laddove rimette, in
termini generali, ad una “commissione giudicatrice” appositamente costituita
la formazione dell’elenco dei candidati esaminati, con indicazione dei voti
da ciascuno riportati (la cui composizione e formazione è regolata dal
successivo art. 9);
d) dal successivo art. 15, che prefigura l’obbligatoria
elaborazione, al termine delle prove, di una “graduatoria di merito dei
candidati”, formata “secondo l'ordine dei punti della votazione complessiva
riportata da ciascun[o]” e seguita dalla elaborazione della “graduatoria dei
vincitori”, destinata alla successiva approvazione e pubblicizzazione
secondo le scolpite formalità.
In definitiva, alla luce del complesso dei dati riassunti, deve ritenersi,
in conformità all’orientamento ricevuto (cfr., ex permultis¸ Cass., sez. un.,
n. 8799/2017 e Cons. Stato, sez. III, n. 1631/2016) propriamente
“concorsuale” (di là dal nomen utilizzato in concreto dall’Amministrazione,
notoriamente non rilevante ai fini qualificatori) una procedura preordinata
alla selezione concorrenziale nell’ambito di una platea indeterminata di
potenziali canditati, mediante il programmatico svolgimento di prove rimesse
all’apprezzamento comparativo di apposita commissione giudicatrice,
destinato alla trasfusione in apposita graduatoria, inclusiva dei soggetti
ritenuti idonei e di quelli dichiarati vincitori.
È evidente, per contro, che nessun rilievo discretivo può essere conferito
alla tipologia di posto messo a concorso e, segnatamente, alla natura
temporanea o a tempo indeterminato del relativo contratto, a stipularsi a
valle della procedura (arg., si paret, ex art. 1, comma 3, d.p.r. 487/1994 cit.).
3.- Alla luce delle considerazioni che precedono, risulta con evidenza che
la fattispecie del “concorso pubblico” rientra, come specie nel genere, nel
più comprensivo alveo delle procedure “selettive”, all’interno delle quali
si collocano anche le procedure (per le quali è invalsa la qualificazione
come meramente “idoneative”) che –indipendentemente dalla prefigurazione e
dall’esperimento di apposite prove– si caratterizzano per la valutazione
meramente fiduciaria dei candidati, con esclusione della formazione –nei
termini vincolanti dell’esercizio di una discrezionalità di ordine meramente
tecnico, non a caso affidata a “tecnici esperti” (art. 9 d.p.r. cit.)– di
una definitiva graduatoria di merito (la quale, per tal via, può essere
riguardata come il vero e proprio elemento scriminante tra l’una e l’altra
vicenda).
La distinzione, come è noto, non è di poco momento, incidendo sul riparto
della giurisdizione (che, non a caso, è conferita al giudice amministrativo
solo per le procedure propriamente concorsuali, in cui la posizione
soggettiva di ciascuno dei candidati assume la consistenza dell’interesse
legittimo).
Procedura meramente idoneativa deve, ai fini della controversia in esame,
ritenersi quella prevista all’art. 110 del T.U.E.L. per la copertura,
autorizzata dallo statuto dell’ente locale, di “posti di responsabili dei
servizi e degli uffici, di qualifiche dirigenziali o di alta
specializzazione”:
- la natura di mero “incarico a contratto”;
- la natura
necessariamente temporanea dello stesso;
- lo scolpito ancoraggio temporale ne
ultra quem al “mandato elettivo del sindaco o del presidente della
provincia”;
- la prefigurata modalità di automatismo risolutorio in caso di
dissesto o di sopravvenienza di situazioni strutturalmente deficitarie;
- la
possibilità di formalizzazione, sia pure eccezionalmente e motivatamente, di
contratto propriamente “di diritto privato”;
- la mancata previsione della
nomina di una commissione giudicatrice, del (necessario) svolgimento di
prove e della (correlata) formazione di formali graduatorie concorrono ad
evidenziare il triplice carattere di temporaneità, specialità e fiduciarietà
che caratterizza la procedura in questione, che –per tal vi – deve
ritenersi, in conformità al comune intendimento, bensì selettiva ma non
concorsuale.
4.- Alla luce delle riassunte coordinate ermeneutiche, deve allora
condividersi, avuto riguardo alle concrete modalità di indizione e
svolgimento della procedura in contestazione, la valutazione espressa dal
primo giudice. Il quale ha esattamente valorizzato:
a) l’espressa (auto)qualificazione in termini di concorso conferita
alla selezione dal bando;
b) il puntuale richiamo, ivi contenuto, alle previsioni del d.P.R.
09.05.1994 n. 487, ossia al Regolamento recante norme sull'accesso agli
impieghi nelle pubbliche amministrazioni;
c) la sussistenza di tutti gli indici rivelatori della natura
concorsuale della procedura assunzionale, avuto segnatamente riguardo alla
emanazione del bando, alla nomina della commissione esaminatrice, alla
attribuzione del punteggio per i titoli posseduti e per la prova scritta ed
orale, sulla base della previa fissazione dei criteri di valutazione, alla
compilazione di una graduatoria finale di merito, alla stregua dei punteggi
complessivi conseguiti dai candidati, e, infine, alla nomina del primo
classificato come vincitore.
Ne discende de plano:
a) che correttamente è stata ritenuta la giurisdizione
amministrativa;
b) che con pari correttezza si è stigmatizzata –in adesione alle
ragioni di doglianza di parte appellata– l’omissione delle indefettibili
modalità pubblicitarie (in adesione al consolidato orientamento
giurisprudenziale che fa della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, prevista
dall’art. 4 del d.p.r. n. 487/1994, una regola attuativa degli artt. 51 e 97
e, come tale, non incisa, neanche per incompatibilità, dall'art. 35, comma
3, lett. a), del d.lgs. n. 165 del 2001, che ha fissato il criterio della
“adeguata pubblicità” in termini coerentemente aggiuntivi e non sostitutivi
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.06.2015, n. 2801 e Id. 25.01.2016, n.
227.
5.- Le esposte considerazioni militano per la complessiva reiezione del
gravame. |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo la costante giurisprudenza, “la presentazione dell'istanza di
sanatoria non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta
carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso
l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un
arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva
che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della
domanda di sanatoria”.
---------------
5. Col primo motivo di appello il Comune lamenta l’erroneità
della sentenza di primo grado perché il Tar Puglia,
piuttosto che dichiarare l’illegittimità dell’ordine di
demolizione perché non preceduto dall’esame dell’istanza di
sanatoria ex art. 13 l. n. 47/1985, avrebbe dovuto dichiarare
inammissibile per carenza d'interesse ab origine il primo
ricorso n. 2847/1996, in quanto lo stesso è stato avanzato
contestualmente o nei sessanta giorni successivi alla
istanza di accertamento di conformità ex art. 13 l. n.
47/1985.
5.1. La censura non è meritevole di accoglimento.
5.2. Al riguardo è sufficiente ricordare che, secondo la
costante giurisprudenza, “la presentazione dell'istanza di
sanatoria non determina l'improcedibilità, per sopravvenuta
carenza d'interesse, dell'impugnazione proposta avverso
l'ordinanza di demolizione, ma comporta, tuttalpiù, un
arresto temporaneo dell'efficacia della misura repressiva
che riacquista la sua efficacia nel caso di rigetto della
domanda di sanatoria” (Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2018, n. 1171; sez. VI, 25.09.2017, n. 4469; sez. VI,
05.07.2017, n. 3308; sez. VI, 04.04.2017, n. 1565).
5.3. Risulta pertanto meritevole di conferma la statuizione
del primo giudice resa sul ricorso n. 2847/96, ad oggetto
l’ordinanza di ingiunzione di demolizione n. 155 del
30.07.1996 delle opere abusive consistenti nella
realizzazione del capannone a ridosso ed in ampliamento di
altro già assentito con concessione edilizia n. 44/92 (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 10.09.2018 n. 5293- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La previsione urbanistica
dell’obiettivo di realizzazione di un’opera pubblica non può
pertanto essere interpretata alla stregua di un mero vincolo conformativo, rilevando, al
contrario, quale vincolo preordinato all'esproprio,
soggetto, in quanto tale, al limite temporale di efficacia
di un quinquennio ex art. 2 l. 19.11.1968, n. 1187 (si veda,
ora, l’art. 9 del d.P.R. 08/06/2001, n. 327).
Invero, secondo la consolidata giurisprudenza, può essere attribuita natura non espropriativa, ma
conformativa del diritto di proprietà sui suoli,
esclusivamente a quei vincoli, che non solo non sono
esplicitamente preordinati all'esproprio in vista della
realizzazione di un'opera pubblica, ma nemmeno si risolvano
in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo
al contrario la realizzazione di interventi da parte dei
privati, e ciò in linea con quanto statuito dalla Corte
costituzionale, per la quale non sono annoverabili tra i
vincoli espropriativi quelli derivanti da scelte
urbanistiche realizzabili anche a mezzo dell'iniziativa
privata.
In sostanza sono conformativi -e al di fuori dello
schema ablatorio-espropriativo non comportano indennizzo,
non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere
di ritipizzazione- i vincoli che importano una
destinazione, anche di contenuto specifico, realizzabile ad
iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non
comportino necessariamente espropriazione o interventi ad
esclusiva iniziativa pubblica e, quindi, siano attuabili
anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione
del bene.
---------------
6. Con un secondo motivo l’appellante lamenta l’erroneità
della sentenza di primo grado, sostenendo che il suolo sul
quale la società SI.MA. ha realizzato l'ampliamento abusivo
non era interessato da un vincolo preordinato all'esproprio,
poiché lo strumento urbanistico si limitava a prevedere per
quell'area una destinazione ad impianti di macellazione
pubblici e ad attività (servizi) di carattere generale
complementari a tale destinazione.
6.1. La censura non è meritevole di accoglimento.
6.2. Il Collegio rileva al riguardo che, con riferimento
all’area in esame, unitamente alla descritta destinazione da
parte dello strumento urbanistico ad impianti di
macellazione pubblici e ad attività (servizi) di carattere
generale ad essa complementari, le N.T.A. –vigenti ed
applicabili ratione temporis alla fattispecie– prevedevano
l’ampliamento dell’esistente macello comunale.
6.3. La previsione dell’obiettivo di realizzazione di
un’opera pubblica non può pertanto essere interpretata alla
stregua di un mero vincolo conformativo, rilevando, al
contrario, quale vincolo preordinato all'esproprio,
soggetto, in quanto tale, al limite temporale di efficacia
di un quinquennio ex art. 2 l. 19.11.1968, n. 1187 (si
veda, ora, l’art. 9 del d.P.R. 08/06/2001, n. 327).
6.4. Invero, secondo la consolidata giurisprudenza (da
ultimo, cfr. Cons. Stato, sez. IV, 13.10.2017, n.
4748), può essere attribuita natura non espropriativa, ma
conformativa del diritto di proprietà sui suoli,
esclusivamente a quei vincoli, che non solo non sono
esplicitamente preordinati all'esproprio in vista della
realizzazione di un'opera pubblica, ma nemmeno si risolvano
in una sostanziale ablazione dei suoli medesimi, consentendo
al contrario la realizzazione di interventi da parte dei
privati, e ciò in linea con quanto statuito dalla Corte
costituzionale, per la quale non sono annoverabili tra i
vincoli espropriativi quelli derivanti da scelte
urbanistiche realizzabili anche a mezzo dell'iniziativa
privata; in sostanza sono conformativi - e al di fuori dello
schema ablatorio-espropriativo non comportano indennizzo,
non decadono al quinquennio e quindi non sussiste un dovere
di ritipizzazione - i vincoli che importano una
destinazione, anche di contenuto specifico, realizzabile ad
iniziativa privata o promiscua pubblico-privata, che non
comportino necessariamente espropriazione o interventi ad
esclusiva iniziativa pubblica e, quindi, siano attuabili
anche dal soggetto privato e senza necessità di ablazione
del bene.
6.5. In maniera del tutto condivisibile il primo giudice ha
dunque ritenuto illegittimo il rigetto della domanda di
condono di cui alla nota del 24.10.1996, attesa la
decadenza del detto vincolo a causa dell’intervenuta
scadenza del termine quinquennale (Consiglio di Stato, Sez.
IV,
sentenza 10.09.2018 n. 5293- link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
In linea di principio, al provvedimento
amministrativo si applica la regola del tempus regit actum,
con la conseguenza che esso è sindacabile assumendo come
parametro di legittimità le norme vigenti al tempo in cui è
stato adottato.
Si è infatti ritenuto che ciascun atto della serie
procedimentale deve uniformarsi alla normativa vigente al
momento in cui il procedimento, o una sua fase, si sia
concluso, intendendosi per procedimento concluso quello per
il quale si sia esaurita la fase di decisione (fase
costitutiva), anche se non si è ancora completata quella
dell'integrazione dell'efficacia […] e che tale effetto si
perfeziona soltanto nel momento in cui la fase costitutiva
sia pervenuta alla sua conclusione, e cioè nel momento in
cui tutti gli elementi costitutivi abbiano trovato la loro
realizzazione, cosicché è a questo momento che deve aversi
riguardo per identificare la norma applicabile all'atto.
Ciò comporta che la legittimità di un provvedimento
amministrativo vada valutata in relazione alle norme vigenti
al tempo in cui lo stesso è stato adottato. Se, dunque, in
pendenza del procedimento interviene una nuova disposizione
regolamentare, l'atto che ne è l'epilogo deve ad essa
disposizione adeguarsi, salvo che incida su situazioni
giuridiche già consolidatesi.
Può aggiungersi che tutti gli atti della sequenza
procedimentale sono certamente insensibili alle modifiche
normative sui requisiti formali del procedimento di
formazione di ciascuno di essi, sicché, se alla data della
sopravvenienza normativa erano già stati adottati nelle
forme previgenti, non dovranno essere rinnovati.
Tuttavia, sul piano sostanziale essi producono i loro
effetti al momento in cui viene adottato il provvedimento
conclusivo e saranno pertanto soggetti al regime normativo a
quella data vigente nella parte in cui esso introduce una
diversa valutazione degli interessi pubblici.
---------------
Occorre premettere, in linea di principio, che al
provvedimento amministrativo si applica la regola del
tempus regit actum, con la conseguenza che esso è
sindacabile assumendo come parametro di legittimità le norme
vigenti al tempo in cui è stato adottato (Consiglio di
Stato, sez. IV, 28.09.2009, n. 5835).
Si è infatti ritenuto che ciascun atto della serie
procedimentale deve uniformarsi alla normativa vigente al
momento in cui il procedimento, o una sua fase, si sia
concluso, intendendosi per procedimento concluso quello per
il quale si sia esaurita la fase di decisione (fase
costitutiva), anche se non si è ancora completata quella
dell'integrazione dell'efficacia […] e che tale effetto si
perfeziona soltanto nel momento in cui la fase costitutiva
sia pervenuta alla sua conclusione, e cioè nel momento in
cui tutti gli elementi costitutivi abbiano trovato la loro
realizzazione, cosicché è a questo momento che deve aversi
riguardo per identificare la norma applicabile all'atto. Ciò
comporta che la legittimità di un provvedimento
amministrativo vada valutata in relazione alle norme vigenti
al tempo in cui lo stesso è stato adottato. Se, dunque, in
pendenza del procedimento interviene una nuova disposizione
regolamentare, l'atto che ne è l'epilogo deve ad essa
disposizione adeguarsi, salvo che incida su situazioni
giuridiche già consolidatesi (TAR Lombardia Milano, sez. III,
26.05.2009, n. 3839; TAR Abruzzo-Pescara, sez. I,
24.05.2012, n. 234; Consiglio di Stato, sez. V, 10.04.2018
n. 2171).
Può aggiungersi che tutti gli atti della sequenza
procedimentale sono certamente insensibili alle modifiche
normative sui requisiti formali del procedimento di
formazione di ciascuno di essi, sicché, se alla data della
sopravvenienza normativa erano già stati adottati nelle
forme previgenti, non dovranno essere rinnovati.
Tuttavia, sul piano sostanziale essi producono i loro
effetti al momento in cui viene adottato il provvedimento
conclusivo e saranno pertanto soggetti al regime normativo a
quella data vigente nella parte in cui esso introduce una
diversa valutazione degli interessi pubblici (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 10.09.2018 n. 362 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Per giurisprudenza consolidata di legittimità, in
presenza di una nota specifica delle spese prodotta dalla
parte vittoriosa, il giudice non può limitarsi ad una
globale determinazione dei diritti di procuratore e degli
onorari di avvocato, in misura inferiore a quelli esposti,
ma ha l'onere di dare adeguata motivazione dell'eliminazione
e della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di
consentire, attraverso il sindacato di legittimità,
l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto
risulta dagli atti e dalle tariffe, in relazione alla
inderogabilità dei relativi minimi, a norma dell'art. 24
legge n. 794 del 1942.
Pertanto, il giudice è tenuto ad indicare dettagliatamente
le singole voci che riduce, perché richieste in misura
eccessiva, o che elimina, perché non dovute, in modo da
consentire l'accertamento della conformità della
liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe in
relazione alla inderogabilità dei minimi.
Tuttavia, possono essere denunciate in sede di legittimità
solo quelle che non rispettano le tariffe professionali, ma
il ricorrente deve indicare le singole voci contestate, in
modo da consentire il controllo di legittimità, senza
necessità di ulteriori indagini6.
Sussiste, quindi, un onere per il ricorrente di specificare
analiticamente in ricorso le voci e gli importi considerati
in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in
errore, con la precisazione delle voci di tabelle degli
onorari e dei diritti di procuratore che si ritengono
violate, nonché le singole spese contestate o dedotte come
omesse.
---------------
1. Con un unico motivo di impugnazione il ricorrente
deduce "violazione dell'art. 91 e ss., in relazione
all'art. 360 n. 3 c.p.c.", in quanto pur avendo il
contribuente presentato una nota spese, elaborata "secondo
le tariffe professionali", indicando "tutte le voci
di diritto.., nell'ammontare obbligatorio prescritto per la
fascia di riferimento" e mantenendo gli onorari "sempre
al di sotto del massimo, anzi appena al di sopra della metà
tra il minimo ed il massimo", la Commissione tributaria,
nella liquidazione delle spese (per il primo grado € 600,00
per i diritti ed € 800,00 per gli onorari; per il secondo
grado € 500,00 per i diritti ed € 500,00 per gli onorari"),
"è andata ben al di sotto dei minimi tariffari".
Inoltre, la Commissione "ha omesso di liquidare le spese
vive seppure ritualmente documentate" ed ha "arbitrariamente
ridotto diritti ed onorari, conglobandoli, senza fornire
spiegazioni di sorta". A fronte di una liquidazione
complessiva per € 4.617,94 più Iva e CPA, la Commissione
regionale ha liquidato, nulla per le spese, a globalmente €
2.400,00 per diritti ed onorari.
1.1.Tale motivo è inammissibile.
Anzitutto, si rileva che il motivo non è autosufficiente, in
quanto il ricorrente non ha indicato né lo scaglione di
riferimento per la determinazione delle singole voci della
tariffa professionale, né la nota spese nel suo contenuto
integrale, né l'ammontare delle spese vive che non sarebbe
stato liquidato dalla Commissione regionale.
Inoltre, si rileva che per giurisprudenza consolidata di
legittimità, in presenza di una nota specifica delle spese
prodotta dalla parte vittoriosa, il giudice non può
limitarsi ad una globale determinazione dei diritti di
procuratore e degli onorari di avvocato, in misura inferiore
a quelli esposti, ma ha l'onere di dare adeguata motivazione
dell'eliminazione e della riduzione di voci da lui operata,
allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di
legittimità, l'accertamento della conformità della
liquidazione a quanto risulta dagli atti e dalle tariffe, in
relazione alla inderogabilità dei relativi minimi, a norma
dell'art. 24 legge n. 794 del 1942 (Cass. Civ., 30.03.2011,
n. 7293; Cass. Civ., 30.10.2009, n. 23059).
Pertanto, il giudice è tenuto ad indicare dettagliatamente
le singole voci che riduce, perché richieste in misura
eccessiva, o che elimina, perché non dovute, in modo da
consentire l'accertamento della conformità della
liquidazione a quanto risulta dagli atti ed alle tariffe in
relazione alla inderogabilità dei minimi (Cass. Civ.,
08.02.2007, n. 2748).
Tuttavia, possono essere denunciate in sede di legittimità
solo quelle che non rispettano le tariffe professionali, ma
il ricorrente deve indicare le singole voci contestate, in
modo da consentire il controllo di legittimità, senza
necessità di ulteriori indagini (Cass. Civ., 19.11.2014, n.
24635).
Sussiste, quindi, un onere per il ricorrente di specificare
analiticamente in ricorso le voci e gli importi considerati
in ordine ai quali il giudice di merito sarebbe incorso in
errore, con la precisazione delle voci di tabelle degli
onorari e dei diritti di procuratore che si ritengono
violate, nonché le singole spese contestate o dedotte come
omesse (Cass. Civ., 26.06.2007, n. 14744).
Nella specie, non è stata in alcun modo riprodotta nel testo
la nota spese, né è stato indicato lo scaglione di valore
della controversia, né sono state individuate le singole
voci contestate e l'importo preteso, scomposto appunto nelle
analitiche voci delle tabelle professionali (Corte di
Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 07.09.2018 n. 21827). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il pergolato rilevante ai fini edilizi, e perciò
assentibile con SCIA, deve essere inteso come un manufatto
avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera
di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente
amovibile in quanto privo di stabile ancoraggio al suolo,
che funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle
quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di
modeste dimensioni.
Ne discende che non è riconducibile alla nozione di
pergolato una struttura, come quella di specie, non avente
funzione ornamentale ma di sostanziale tettoia, costituita
da pilastri e travi in legno di importanti dimensioni e
stabilmente ancorata alle parti murarie, tale da presentarsi
come costruzione solida e robusta, idonea ad una permanenza
prolungata nel tempo.
---------------
Il Collegio ritiene che l’intervento di copertura del
terrazzo realizzato in concreto debba essere sussunto
nell’ambito del concetto di nuova costruzione soggetta al
regime del permesso di costruire, poiché la manutenzione
straordinaria sussiste solo quando viene modificato un
immobile nel rispetto dei volumi e delle superfici delle
unità immobiliari già esistenti (cfr. art. 3, comma 1, lett.
b), del d.P.R. n. 380/2001, nella versione vigente ratione
temporis), mentre nel caso di specie è stata aggiunta al
precedente fabbricato un’ingombrante struttura di copertura
in sopraelevazione, con conseguente creazione non solo di un
consistente aumento di superficie ma anche di un disegno
sagomale con connotati affatto diversi da quelli
dell’edificio originario, il che esclude in radice che possa
trattarsi di opere manutentive.
Ne deriva che la fattispecie in commento non si presta
affatto ad essere regolata dal regime semplificato della
SCIA, ma deve essere correttamente ricondotta alla cornice
normativa propria del permesso di costruire.
---------------
3.1 Con una pregnante censura, parte ricorrente denuncia
l’erroneità del giudizio classificatorio reso
dall’amministrazione in sede di diniego, la quale avrebbe
indebitamente ricondotto il manufatto posto in essere dal
Sig. Fr.Na. alla tipologia del pergolato, di per sé
assentibile con SCIA, mentre nella specie si tratterebbe
propriamente di un’opera architettonica assolutamente non
rientrante nella nozione tecnica di pergolato, essendo
dotata di un’intelaiatura di importanti dimensioni ben
fissata al suolo, tale da predisporla per un uso
continuativo nel tempo, con conseguente necessità del previo
rilascio del permesso di costruire.
La censura è fondata e merita accoglimento.
Rileva il Collegio, in base alle odierne emergenze
processuali (cfr. in particolare il corredo fotografico in
atti e gli stessi elaborati progettuali allegati alla SCIA),
che il manufatto in questione è di una notevole imponenza
dimensionale, quanto a lunghezza e spessore delle travi e
dei pilastri, risulta ancorato al suolo in maniera stabile
mediante bullonatura alla pavimentazione e appare destinato
a rendere permanentemente più agevole la fruizione degli
spazi adibiti a pizzeria, attraverso la predisposizione di
una terrazza coperta da un telo non agevolmente rimuovibile
(fissato, infatti, all’intelaiatura mediante anelli in ferro
e corda elastica: cfr. relazione di sopralluogo del 19.04.2013).
Ebbene, il pergolato rilevante ai fini edilizi, e perciò
assentibile con SCIA, deve essere inteso come un manufatto
avente natura ornamentale, realizzato in struttura leggera
di legno o altro materiale di minimo peso, facilmente
amovibile in quanto privo di stabile ancoraggio al suolo,
che funge da sostegno per piante rampicanti, a mezzo delle
quali realizzare riparo e/o ombreggiatura di superfici di
modeste dimensioni; ne discende che non è riconducibile alla
nozione di pergolato una struttura, come quella di specie,
non avente funzione ornamentale ma di sostanziale tettoia,
costituita da pilastri e travi in legno di importanti
dimensioni e stabilmente ancorata alle parti murarie, tale
da presentarsi come costruzione solida e robusta, idonea ad
una permanenza prolungata nel tempo (orientamento
consolidato: cfr. per tutte Consiglio di Stato, Sez. VI, 25.01.2017 n. 306; Consiglio di Stato, Sez. IV, 29.09.2011 n. 5409).
Pertanto, si palesa assolutamente condivisibile l’assunto
attoreo che il manufatto in questione doveva, per la sua
capacità di apportare trasformazione edilizio-urbanistica
del territorio, essere autorizzato mediante permesso di
costruire, con la conseguenza che non può non essere
tacciato di erronea valutazione dei fatti il diverso
percorso argomentativo seguito dall’amministrazione in sede
di emanazione del diniego di autotutela.
3.2 Né appaiono convincenti le eccezioni formulate al
riguardo dalla difesa dei controinteressati, essenzialmente
appuntate sul rilievo che la struttura realizzata sarebbe di
modeste dimensioni e di natura precaria, nonché sulla tesi
che l’intervento posto in essere rientrerebbe nell’ambito
della manutenzione straordinaria, con conseguente
sottoposizione, in entrambi i casi, delle opere al regime
della SCIA.
Invero, quanto al primo profilo, il Collegio si è già
diffusamente soffermato sulle rilevanti dimensioni del
manufatto e sulla sua attitudine a rimanere infisso
stabilmente alle opere murarie.
Quanto al secondo, il Collegio ritiene che l’intervento di
copertura del terrazzo realizzato in concreto debba essere
sussunto nell’ambito del concetto di nuova costruzione
soggetta al regime del permesso di costruire, poiché la
manutenzione straordinaria sussiste solo quando viene
modificato un immobile nel rispetto dei volumi e delle
superfici delle unità immobiliari già esistenti (cfr. art.
3, comma 1, lett. b), del d.P.R. n. 380/2001, nella versione
vigente ratione temporis), mentre nel caso di specie è stata
aggiunta al precedente fabbricato un’ingombrante struttura
di copertura in sopraelevazione, con conseguente creazione
non solo di un consistente aumento di superficie ma anche di
un disegno sagomale con connotati affatto diversi da quelli
dell’edificio originario, il che esclude in radice che possa
trattarsi di opere manutentive.
Ne deriva che la fattispecie in commento non si presta
affatto ad essere regolata dal regime semplificato della
SCIA, ma deve essere correttamente ricondotta alla cornice
normativa propria del permesso di costruire (TAR
Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 07.09.2018 n. 5424 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Autotutela, anche parziale, in materia edilizia.
----------------
●
Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento d’ufficio –
Presupposti – Individuazione.
●
Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento d’ufficio –
Disposto a distanza di anni dal rilascio della sanatoria –
Motivazione in ordine all’interesse pubblico comparato con
quello del privato - Necessità - Limiti.
●
Edilizia – Permesso di costruire – Annullamento d’ufficio –
Parziale – Omessa esplicita valutazione – Illegittimità.
●
Presupposti dell'esercizio del potere di annullamento
d'ufficio dei titoli edilizi sono costituiti dall'originaria
illegittimità del provvedimento, dall'interesse pubblico
concreto ed attuale alla sua rimozione (diverso dal mero
ripristino della legalità violata), tenuto conto anche delle
posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai
destinatari.
L'esercizio del potere di autotutela è dunque
espressione di una rilevante discrezionalità che non esime,
tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure
sinteticamente, della sussistenza dei menzionati presupposti
e l'ambito di motivazione esigibile è integrato
dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio,
dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare
atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del
territorio e dei valori che su di esso insistono, che
possono indubbiamente essere prevalenti, se spiegati,
rispetto a quelli contrapposti dei privati, nonché
dall'eventuale negligenza o malafede del privato che ha
indotto in errore l'Amministrazione (1).
●
L’annullamento d'ufficio di un titolo edilizio,
successivamente valutato come illegittimo, è possibile anche
ad una distanza temporale considerevole dal titolo medesimo,
ma deve essere adeguatamente motivato in relazione alla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale,
tenuto anche conto degli interessi dei privati coinvolti
(2).
●
E’ illegittimo l’annullamento d’ufficio di un titolo
edilizio se il Comune non ha dedicato alcun passaggio
motivazionale alla possibilità, non implausibile, di
annullare soltanto parzialmente i titoli edilizi rilasciati
al fine di contemperare le contrapposte esigenze recando il
minore sacrificio possibile alla posizione giuridica del
privato (3).
----------------
(1)
Cons. St., sez. IV, 29.03.2018, n. 1991.
(2)
Cons. St., A.P., 17.10.2017, n. 8.
Ancora prima dell’intervento dell’Adunanza plenaria la sez.
IV (16.08.2017, n. 4008) aveva affermato il potere ex art.
39, d.P.R. n. 380 del 2001, per come esso vive
nell'interpretazione giurisprudenziale amministrativa, non
può dirsi assimilabile o riconducibile, in un rapporto di
species a genus, a quello di cui all'art. 21-nonies, l.
n. 241 del 1990, il quale è, per espressa previsione di
diritto positivo, sottoposto al principio del bilanciamento
dei contrapposti interessi.
(3)
Cons. St., sez. IV, 29.02.2016, n. 816
(Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 07.09.2018 n. 5277
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
11. L’appello non merita accoglimento.
12. I cinque motivi d’appello articolati con il gravame in
esame, volti ad affermare la legittimità dell’atto di
autotutela, in quanto intimamente connessi possono essere
congiuntamente esaminati e disattesi, per le seguenti
ragioni:
- non convince in primis quanto argomentato dall’appellante nel
senso della insussistenza in radice della posizione di
affidamento ascrivibile al privato stante il contrasto dei
titoli edilizi rilasciati con la previsione urbanistica che
impone la realizzazione dello standard afferente ai
parcheggi pubblici contemplato dalla legge generale (art.
41-quinquies della legge urbanistica nazionale) oltre che
dalla disciplina di P.R.G., in quanto, anche i provvedimenti
di annullamento in autotutela sono attratti all’alveo
normativo dell’art. 21-nonies che, per effetto delle riforme
introdotte dal legislatore (da ultimo, la legge n. 124 del
2015), ha riconfigurato il relativo potere attribuendo
all’Amministrazione un coefficiente di discrezionalità che
si esprime attraverso la valutazione dell’interesse pubblico
in comparazione con l’affidamento del destinatario
dell’atto;
- come è noto, l’Adunanza plenaria (sentenza 17.10.2017, n. 8) ha,
da un lato, escluso che sussista ex se l’interesse pubblico
al ripristino della legalità violata per effetto del
rilascio di un titolo edilizio illegittimo, dovendo essere
espressamente circostanziato, e, dall’altro, ha negato la “teoria
dell'inconsumabilità del potere”, altrimenti nota come “perennità
della potestà amministrativa di annullare in via di
autotutela gli atti invalidi” , con la conseguenza che
il decorso del tempo “onera l’amministrazione del compito
di valutare motivatamente se l’annullamento risponda ancora
a un effettivo e prevalente interesse pubblico di carattere
concreto e attuale”;
- questa Sezione, nel fare applicazione di tali principi, ha quindi
di recente rilevato che i “presupposti dell'esercizio del
potere di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi sono
costituiti dall'originaria illegittimità del provvedimento,
dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità
violata), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche
soggettive consolidate in capo ai destinatari; l'esercizio
del potere di autotutela è dunque espressione di una
rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia,
l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente,
della sussistenza dei menzionati presupposti e l'ambito di
motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio
che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per
il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse
pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori
che su di esso insistono, che possono indubbiamente essere
prevalenti, se spiegati, rispetto a quelli contrapposti dei
privati, nonché dall'eventuale negligenza o malafede del
privato che ha indotto in errore l'Amministrazione” (cfr.
sentenza 29.03.2018, n. 1991);
- non coglie nel segno altresì quanto dedotto dal Comune appellante
-attraverso il richiamo dell’orientamento pretorio secondo
cui la ragionevolezza del termine che governa il potere di
autotutela va commisurato utilizzando, quale tertium
comparationis, il potere regionale di annullamento del
permesso di costruire ex art. 39 del d.P.R. n. 380 del 2001,
fissato in dieci anni- avuto riguardo all’insegnamento
dell’Adunanza plenaria, espresso con la su citata pronuncia,
secondo cui è da escludere che tale termine sia suscettibile
di applicazione nei casi di autotutela;
- secondo il Collegio in composizione allargata, infatti,
l’annullamento d'ufficio di un titolo edilizio,
successivamente valutato come illegittimo, è possibile anche
“ad una distanza temporale considerevole dal titolo
medesimo”, ma deve essere adeguatamente motivato "in
relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto
e attuale", tenuto anche conto degli interessi dei
privati coinvolti;
- del resto questa Sezione aveva già rilevato, poco prima
dell’intervento dell’A.p., che “il potere ex art. 39,
D.P.R. n. 380 del 2001, per come esso vive
nell'interpretazione giurisprudenziale amministrativa, non
può dirsi assimilabile o riconducibile, in un rapporto di
species a genus, a quello di cui all'art. 21-nonies L. n.
241 del 1990, il quale è, per espressa previsione di diritto
positivo, sottoposto al principio del bilanciamento dei
contrapposti interessi” (cfr. Cons. Stato, sez. IV,
16.08.2017, n. 4008);
- ebbene non si evince, dal pur complesso quadro motivazionale che
connota il provvedimento impugnato in prime cure, una
adeguata valutazione del sacrificio imposto al privato
derivante dal ritiro degli atti autorizzativi, in quanto,
come evidenziato di recente da questo Consiglio, “l'interesse
pubblico che legittima e giustifica la rimozione d'ufficio
di un atto illegittimo deve consistere nell'esigenza che
quest'ultimo cessi di produrre i suoi effetti, siccome
confliggenti, in concreto, con la protezione attuale di
valori pubblici specifici, all'esito di un giudizio
comparativo in cui questi ultimi vengono motivatamente
giudicati maggiormente preganti di (e prevalenti su) quello
privato alla conservazione dell'utilità prodotta da un atto
illegittimo” (cfr. sentenza sez. VI, 27.01.2017, n.
341);
- peraltro la società ha documentato, nel corso del procedimento di
autotutela, il parallelo giudizio civile instauratosi nei
suoi confronti su iniziativa dell’ASL di Benevento per la
condanna al pagamento della penale di € 1.343.200,00
contrattualmente prevista;
- non va altresì trascurato il comportamento della società
improntato a criteri di lealtà e chiarezza avendo ab
initio rappresentato al Comune (vedi delibera di Giunta
municipale n. 242 del 23.09.2003) di avere interesse al
mutamento della destinazione d’uso al fine di dar seguito al
rapporto contrattuale instaurato con l’ASL di Benevento;
- per giunta, sia gli originari proprietari, signori Ve.–Fu., che i
successivi aventi causa, società Ed.Lu., manifestavano la
propria disponibilità, negli anni 2001 e 2002, a concedere
in locazione l’uso dei locali del blocco “A” senza trovare
alcun riscontro di un qualsivoglia interesse da parte
dell’Amministrazione (come si evince dalle note del
01.03.2001 e del 31.12.2002);
- nemmeno vanno trascurate le circostanze relative al rilascio, ad
opera del Comune, del certificato di agibilità dell’immobile
in data 10.05.2011, nonché al notevole lasso temporale
decorso non solo dal rilascio dei titoli edilizi oggetto
della determinazione repressiva del Comune (circa 10 anni,
circostanza questa che “imponeva una motivazione
particolarmente convincente circa l'apprezzamento degli
interessi dei destinatari dell'atto” cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 13.07.2017, n. 3462), ma anche dall’atto che ha
innescato il procedimento di autotutela, essendo il
provvedimento finale intervenuto dopo ben tre anni dalla
comunicazione del relativo avviso di avvio procedimentale;
- dalla dinamica della complessa vicenda di causa è dato rilevare
che la reazione del Comune si registra soltanto dopo aver
avuto cognizione, nel corso dell’anno 2010, stante il
coinvolgimento degli uffici comunali da parte degli organi
inquirenti (vedi nota dell’Ufficio tecnico prot. n. 5489 del
05.05.2014), della pendenza di un procedimento penale presso
la Procura della Repubblica di Benevento in ordine al
mutamento della destinazione d’uso dell’autorimessa;
- dagli atti della Conferenza di Servizi, svoltasi tra il 15 marzo
ed il 19.04.2012 dopo l’approvazione, con delibera di C.C.
n. 4 del 23.01.2012, dello schema di accordo procedimentale,
si evince come il Comune abbia optato per il mantenimento
della destinazione d’uso a servizi impegnandosi al rilascio
di un permesso in deroga (vedi art. 1 dello schema di
accordo procedimentale fra il Comune, la società Te. e la
ASL BN1), disponibilità confermata fino ad epoca
immediatamente antecedente all’adozione del provvedimento
auto-annullatorio con la determinazione n. 109 del
17.06.2013 di approvazione di detto schema;
- la volontà espressa dall’Ente comunale di sanare le irregolarità
urbanistiche della struttura al fine di subentrare nel
rapporto contrattuale con l’ASL di Benevento manifesta
l’implicito riconoscimento del notevole interesse pubblico
al mantenimento di tale destinazione (a distretto sanitario)
della struttura medesima e, al contempo, il disinteresse per
la originaria destinazione a parcheggio pubblico;
- il Comune non ha dedicato alcun passaggio motivazionale alla
possibilità, non implausibile, di annullare soltanto
parzialmente i titoli edilizi rilasciati al fine di
contemperare le contrapposte esigenze recando il minore
sacrificio possibile alla posizione giuridica del privato (Cons.
Stato, sez. IV, 29.02.2016, n. 816; sez. VI, 18.07.2017, n.
3524; sez. III, 28.07.2017, n. 3780).
15. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere
respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 disciplina
gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità
dal permesso di costruire, prevedendo, al secondo comma, che
«quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell’ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con
quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena
citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione
competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva
ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.
In tale sede dovrà appurarsi se si possa procedere a
demolizione delle opere, per come richiesto dal Comune,
senza pregiudizio alla parte dell’immobile eseguita in
conformità, ovvero se (come si legge nelle deduzioni a firma
del CTP allegato al fascicolo dell’appellante) ciò finirebbe
per «compromettere gravemente la struttura portante della
porzione di fabbricato non oggetto di demolizione, in quanto
le vibrazioni causate dalle attrezzature per l’esecuzione di
quanto previsto potrebbero formare delle lesioni
irreversibili nella restante parte della struttura portante,
le quali andrebbero a causare il collasso della struttura
stessa».
---------------
3.‒ Parimenti infondata è la censura secondo cui il Comune non avrebbe
valutato che la demolizione degli interventi reca
pregiudizio anche alle opere conformi al titolo edilizio.
3.1.‒ Vale la pena ricordare che l’art. 34 del d.P.R. n. 380
del 2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo,
al secondo comma, che «quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il dirigente o il responsabile dell’ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di
produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con
quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena
citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione
competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva
ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione (ex plurimis:
Consiglio di Stato, sez. VI 29.11.2017, n. 5585; sez. VI,
12.04.2013, n. 2001).
In tale sede dovrà appurarsi se si possa procedere a
demolizione delle opere, per come richiesto dal Comune,
senza pregiudizio alla parte dell’immobile eseguita in
conformità, ovvero se (come si legge nelle deduzioni a firma
del CTP allegato al fascicolo dell’appellante) ciò finirebbe
per «compromettere gravemente la struttura portante della
porzione di fabbricato non oggetto di demolizione, in quanto
le vibrazioni causate dalle attrezzature per l’esecuzione di
quanto previsto potrebbero formare delle lesioni
irreversibili nella restante parte della struttura portante,
le quali andrebbero a causare il collasso della struttura
stessa» (Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 07.09.2018 n. 5273 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La violazione dell’obbligo di comunicazione
dell’avvio del procedimento non costituisce una ragione
idonea a determinare l’annullabilità dei provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in
quanto è palese, attesa l’assenza di qualsivoglia titolo
abilitativo all’edificazione, che il contenuto dispositivo
del provvedimento «non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato» (art. 21-octies, comma 2, della
legge n. 241 del 1990).
---------------
1.‒ Gli appellanti ripropongono la censura di violazione
dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, in quanto non
sarebbero stati messi in condizione di contraddire in ordine
alla scelta sanzionatoria dell’Amministrazione, anche con
riguardo alla concreta eseguibilità del provvedimento
demolitorio.
1.1.‒ Il motivo è infondato.
In primo luogo ‒come correttamente rilevato dal giudice di
primo grado‒ gli interessanti sono stati resi edotti
dell’avvio del procedimento finalizzato ad accertare e
sanzionare l’abuso edilizio (cfr. con nota n. 21637 del
09.07.2013 in atti), senza presentare alcuna memoria di
replica.
A ciò deve aggiungersi come, alla luce della consolidata
giurisprudenza della Sezione, la violazione dell’obbligo di
comunicazione dell’avvio del procedimento non costituisce
una ragione idonea a determinare l’annullabilità dei
provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in
quanto è palese, attesa l’assenza di qualsivoglia titolo
abilitativo all’edificazione, che il contenuto dispositivo
del provvedimento «non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato» (art. 21-octies, comma 2, della
legge n. 241 del 1990).
Gli appellanti non hanno peraltro indicato quali sono gli
elementi conoscitivi che avrebbe eventualmente introdotto
nel procedimento (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 07.09.2018 n. 5271 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’art. 34 del d.P.R. n. 380 del
2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo,
al secondo comma, che «quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con
quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena
citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione
competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva
ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione.
---------------
1.2.‒ Quanto all’argomento secondo cui il Comune -sempre a
cagione della mancata interlocuzione procedimentale‒ non
avrebbe valutato che la demolizione degli interventi reca
pregiudizio anche alle opere conformi al titolo edilizio,
vale la pena ricordare che l’art. 34 del d.P.R. n. 380 del
2001 disciplina gli interventi e le opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire, prevedendo,
al secondo comma, che «quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio
applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione».
La possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con
quella pecuniaria, disciplinata dalla disposizione appena
citata, deve dunque essere valutata dall’Amministrazione
competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva
ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione (ex
plurimis: Consiglio di Stato, sez. VI 29.11.2017,
n. 5585; sez. VI, 12.04.2013, n. 2001) (Consiglio di
Stato, Sez. VI,
sentenza 07.09.2018 n. 5271 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le ordinanze di demolizione e, più in generale, i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, per il loro
carattere strettamente vincolato e per la loro attinenza
alla tutela di interessi primari, di caratura
costituzionale, riguardando la tutela del paesaggio (art. 9
Cost.) e, in generale, del territorio (art. 117, co. 3), non
necessitano, per la loro legittima emanazione,
dell’espletamento di un necessario contraddittorio
procedimentale e di un’esaustiva motivazione.
Invero, “L'ordine di demolizione di un immobile edificato in
assenza di titolo è atto vincolato al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto. Esso non richiede
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse che
impongono la rimozione dell'abuso, né richiede di prendere
in considerazione gli interessi degli eventuali
controinteressati. L'inerzia della pubblica amministrazione
protratta nel tempo non ingenera un legittimo affidamento in
capo al privato che abbia costruito senza titolo. Pertanto è
legittima l'ingiunzione di demolizione intervenuta a
distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, anche se
il titolare attuale dell'immobile non sia responsabile
dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell'onere di ripristino”.
---------------
8. Possono esaminarsi congiuntamente anche il terzo,
quarto e quinto motivo di ricorso.
8.1 Anch’essi sono infondati, considerato che, per l’oramai
pacifica giurisprudenza amministrativa, le ordinanze di
demolizione e, più in generale, i provvedimenti sanzionatori
in materia edilizia, per il loro carattere strettamente
vincolato e per la loro attinenza alla tutela di interessi
primari, di caratura costituzionale, riguardando la tutela
del paesaggio (art. 9 Cost.) e, in generale, del territorio
(art. 117, co. 3), non necessitano, per la loro legittima
emanazione, dell’espletamento di un necessario
contraddittorio procedimentale e di un’esaustiva motivazione
(cfr., da ultimo, Adunanza Plenaria 17.10.2017, n. 9 “L'ordine
di demolizione di un immobile edificato in assenza di titolo
è atto vincolato al ricorrere dei relativi presupposti in
fatto e in diritto. Esso non richiede motivazione in ordine
alle ragioni di pubblico interesse che impongono la
rimozione dell'abuso, né richiede di prendere in
considerazione gli interessi degli eventuali
controinteressati. L'inerzia della pubblica amministrazione
protratta nel tempo non ingenera un legittimo affidamento in
capo al privato che abbia costruito senza titolo. Pertanto è
legittima l'ingiunzione di demolizione intervenuta a
distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, anche se
il titolare attuale dell'immobile non sia responsabile
dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi
dell'onere di ripristino”) (TAR Campania-Salerno, Sez.
II,
sentenza 06.09.2018 n. 1245 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Obbligo di rimozione dei rifiuti - Responsabilità
penale e obbligati in solido - Sussistenza di dolo o colpa -
Soggetti destinatari dell'ordinanza sindacale - Annullamento
- Artt. 192, 255 e 256 d.lgs. n. 152/2006.
L'obbligo di rimozione dei rifiuti sorge
in capo al responsabile dell'abbandono come conseguenza
della sua condotta e, nei confronti degli obbligati in
solido, quando sia dimostrata la sussistenza del dolo o,
almeno, della colpa, mentre i soggetti destinatari
dell'ordinanza sindacale sono obbligati in quanto tali e, in
caso di inosservanza del provvedimento, ne subiscono, per
ciò solo, le conseguenze se non hanno provveduto ad
impugnare l'ordinanza sindacale per ottenerne l'annullamento
o non forniscono al giudice penale dati significativi
valutabili ai fini di una eventuale disapplicazione del
provvedimento impositivo dell'obbligo.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Abbandono dei rifiuti e
ripristino dello stato dei luoghi - Procedura amministrativa
- Operazioni finalizzate all'adempimento degli obblighi
conseguenti alla violazione del divieto - Effetti
dell'inutile decorso del termine - Recupero delle somme
anticipate - Ordine di bonifica dei terreni contaminati -
Reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale - Natura
di reato permanente - Artt. 244 e 245 d.lgs. 152/2006.
L'abbandono dei rifiuti obbliga chiunque
contravvenga al divieto a provvedere alla rimozione,
all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al
ripristino dello stato dei luoghi. Obbligati in solido sono
anche il proprietario ed i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali la violazione sia
imputabile a titolo di dolo o colpa.
Le operazioni finalizzate all'adempimento degli obblighi
conseguenti alla violazione del divieto, sono disposte dal
sindaco con ordinanza, che contiene anche l'indicazione di
un termine entro il quale provvedere. L'inutile decorso del
termine determina l'esecuzione in danno dei soggetti
obbligati ed il recupero delle somme anticipate.
Presupposto per l'emanazione del provvedimento è l'esistenza
di un deposito incontrollato di rifiuti, a prescindere dalla
loro potenzialità inquinante, poiché tale ulteriore dato
fonda il diverso provvedimento consistente nell'ordine di
bonifica dei terreni contaminati ex artt. 244 e 245 d.lgs.
152/2006 (Cons. Stato Sez. V, n. 5609, del 26/11/2013).
Infine il reato di mancata ottemperanza all'ordine sindacale
di rimozione dei rifiuti ha natura di reato permanente, nel
quale la scadenza del termine per l'adempimento non indica
il momento di esaurimento della fattispecie, bensì l'inizio
della fase di consumazione che si protrae sino al momento
dell'ottemperanza all'ordine ricevuto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.09.2018 n. 39430 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Disciplina antisismica e
singoli interventi - Valutazione di un'opera con riferimento
al suo complesso - Artt. 36, 44, 83, 93 e 95 d.P.R. 380/2001
- articolo 181, comma 1-quinquies, d.lgs. 42/2004.
Anche per quanto riguarda la disciplina
antisismica, la valutazione di un'opera va effettuata con
riferimento al suo complesso, non potendosi considerare
separatamente i singoli interventi, anche successivi, non
rilevando, peraltro, l'entità delle difformità realizzate né
eventuali deroghe per particolari categorie di opere (anche
se stabilite da disposizioni amministrative regionali).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Regime dei titoli
abilitativi edilizi - Sanatoria degli abusi edilizi - Opere
considerate unitariamente nel suo complesso - Sanatoria c.d.
parziale - Sanatoria condizionata all'esecuzione di
interventi - Sanatoria giurisprudenziale" o "impropria -
Sanatoria postuma - Costruzioni in zone sismiche -
Giurisprudenza.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi
non può essere eluso attraverso la suddivisione
dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che
concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di
forme di controllo preventivo più limitate per la loro più
modesta incisività sull'assetto territoriale, l'opera deve
essere infatti considerata unitariamente nel suo complesso,
senza che sia consentito scindere e considerare
separatamente i suoi singoli componenti e ciò ancor più nel
caso di interventi su preesistente opera abusiva
(Sez. 3, n.
30147 del 19/04/2017, Tomasulo; Sez. 3, n. 16622 del
08/04/2015, Pmt in proc. Casciato; Sez. 3, n. 15442 del
26/11/2014 (dep. 2015), Prevosto e altri; Sez. 3, n. 5618
del 17/11/2011 (dep.2012), Forte; Sez. 3 n. 34585 del
22/04/2010 Tulipani; Sez. 3, n. 20363 del 16/03/2010,
Marrella; Sez. 3, n. 4048 del 06/11/2002 (dep. 2003), Tucci).
Ciò, é stato ripetutamente specificato anche con riferimento
alla sanatoria degli abusi edilizi, escludendo
l'ammissibilità di una «sanatoria parziale», dovendo l'atto
abilitativo postumo contemplare gli interventi eseguiti
nella loro integrità (cfr.. Sez. 3, n. 22256 del 28/04/2016,
Rongo; Sez. III n. 19587, 18.05.2011; n. 45241, 05/12/2007;
Sez. 3, n. 291 del 26/11/2003 (dep. 2004), P.M. in proc.
Fammiano) ed escludendo, altresì, la sanatoria condizionata
all'esecuzione di interventi volti a ricondurre il manufatto
a conformità urbanistica (Sez. 3, n. 51013 del 05/11/2015,
Carratu' e altroe prec. conf.), nonché quella
"giurisprudenziale" o "impropria" (Sez. 3, n. 47402 del
21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260973 e prec. conf.) sempre
sulla base della necessità di una valutazione unitaria delle
opere a tal fine. In conclusione, ai fini dell'integrazione
delle violazioni della disciplina prevista per le
costruzioni in zone sismiche, non rileva la concreta entità
delle opere realizzate in difformità rispetto a quelle
assentite, poiché essa non prevede esenzioni o tetti minimi
di difformità, ma trova applicazione in ogni caso di
violazione (così Sez. 3, n. 36576 del 21/06/2011, Licastro e
altro).
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Opere edilizie soggette
alla normativa antisismica - Assenza della prescritta
autorizzazione antisismica - Ininfluenza delle disposizioni
regionali - Pericolo la pubblica incolumità - Procedimento
autonomo - Controllo preventivo della pubblica
amministrazione.
Il reato previsto dall'art. 95 d.P.R.
380/2001 è applicabile a qualsiasi opera, eseguita in
assenza della prescritta autorizzazione antisismica, in
grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza
che le Regioni possano adottare in via amministrativa
deroghe per particolari categorie di interventi ed
escludendo espressamente la possibilità di individuazione di
"opere minori" non soggette alla disciplina antisismica,
poiché ciò costituisce aperta violazione del disposto
dell'art. 83 del d.P.R. n. 380 del 2001, il quale prevede
che tutte le costruzioni la cui sicurezza possa comunque
interessare la pubblica incolumità sono soggette alla
normativa antisismica (così, Sez. 3, n. 19185 del
14/01/2015, Garofano, Rv. 263376).
Da ciò consegue, che non può ammettersi la possibilità di
interventi non conformi all'opera progettata, valutandone
singolarmente la consistenza ai fini della necessità o meno
del rilascio di un titolo abilitativo.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Assenza della prescritta
autorizzazione antisismica - Natura di reato permanente -
Momento della cessazione della permanenza.
La natura di reato permanente evidenzia,
che la consumazione dello stesso si protrae sino a quando il
responsabile non presenta la relativa denuncia con
l'allegato progetto ovvero non termina l'intervento edilizio
(Sez. 3, n. 29737 del 04/06/2013, Vella).
Il principio è stato successivamente ribadito (Sez. 3, n.
12235 del 11/02/2014, Petraia, Rv. 258738; Sez. 3, n. 2209
del 03/06/2015 (dep. 2016), Russo e altro, Rv. 266224; Sez.
3, n. 1145 del 08/10/2015 (dep.2016). Stabile, Rv. 266015;
Sez. 3, n. 24574 del 23/06/2016 (dep. 2017), Sorbello)
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.09.2018 n. 39428 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissione rumorose - Diritto al
normale svolgimento della vita familiare all'interno della
propria abitazione - Risarcimento del danno non patrimoniale
- Art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo -
Artt. 844, 2043, 2059, 1226 c.c. - Giurisprudenza.
In tema di immissione rumorose, il danno
alla salute non può ritenersi sussistente in re ipsa.
Tuttavia, l'assenza di un danno biologico documentato, non
osta al risarcimento del danno non patrimoniale conseguente
ad immissioni illecite, allorché siano stati lesi il diritto
al normale svolgimento della vita familiare all'interno
della propria abitazione ed il diritto alla libera e piena
esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane,
quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati
dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo
(Cass. Ss.Uu. 2611/2007).
RISARCIMENTO DEL DANNO - Liquidazione del danno da
immissioni ex art. 844 cod. civ. - Determinazione
dell'ammontare del risarcimento - Criteri di determinazione
del danno - Contemperamento di interessi contrastanti e di
priorità dell'uso - Illiceità del fatto generatore del danno
arrecato a terzi e danno non patrimoniale risarcibile.
L'art. 844 cod. civ. impone, infatti,
nei limiti della valutazione della normale tollerabilità e
dell'eventuale contemperamento delle esigenze della
proprietà con quelle della produzione, l'obbligo di
sopportazione di quelle inevitabili propagazioni attuate
nell'ambito delle norme generali e speciali che ne
disciplinano l'esercizio.
Viceversa, l'accertamento del superamento della soglia di
normale tollerabilità di cui all'articolo 844 cod. civ.,
comporta nella liquidazione del danno da immissioni,
l'esclusione di qualsiasi criterio di contemperamento di
interessi contrastanti e di priorità dell'uso, in quanto
venendo in considerazione, in tale ipotesi, unicamente
l'illiceità del fatto generatore del danno arrecato a terzi,
si rientra nello schema dell'azione generale di risarcimento
danni di cui all'articolo 2043 del codice civile e,
specificamente, per quanto concerne il danno non
patrimoniale risarcibile, dell'articolo 2059 cod. civ. (Cass. 5844/2007) (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 03.09.2018 n. 21554 - link a www.ambientediritto.it). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Niente
pagamento al professionista se la spesa non era prevista in bilancio.
Il pagamento della prestazione professionale resa a favore di un Comune, ma
in violazione delle regole contabili e in assenza di copertura, va preteso
nei confronti del funzionario responsabile della conclusione del contratto
nullo e non dell'ente.
Questa l'interpretazione puntuale dell'articolo 23 del Dl 66/1989 fornita
ieri dalla Corte di Cassazione, Sez. II civile, con l’ordinanza
03.09.2018 n. 21551.
La violazione contabile
L'assenza dell'iscrizione di una spesa nel bilancio di previsione pone la
responsabilità, della mancata erogazione del compenso, sul funzionario che
ha concluso il contratto con il professionista. E non ricade alcuna
responsabilità contrattuale sul Comune. Neanche, come nel caso specifico, se
la spesa per l'incarico professionale prevedeva l'intera copertura
attraverso finanziamenti europei, poi mai di fatto erogati.
Infatti, la
violazione contabile di autorizzare una spesa non preventivata in bilancio è
un'insanabile nullità che esclude la creazione di qualsiasi vincolo
contrattuale tra ente locale e professionista. Viene ribadita in questa
occasione la linea delle sezioni Unite espressa nel 2014.
La clausola finanziaria
La clausola finanziaria che sottopone il pagamento della prestazione
all’effettiva erogazione di finanziamenti non vanifica la necessità della
copertura finanziaria attraverso la corretta previsione di bilancio. Proprio
ciò che difettava, determinando la nullità del contratto tra professionista
e Comune. Il contratto di conferimento di incarico in base a delibera senza
iscrizione contabile lascia aperta solo la strada di far valere la
responsabilità del funzionario.
Infatti, dalla violazione contabile non si determina una carenza di
legittimazione passiva dell’ente locale chiamato in giudizio, ma la nullità
del contratto stesso. La Corte ha anche confermato la legittimità della
compensazione delle spese, operata dal giudice di merito e contestata dal
Comune. Infatti, il comportamento dell’amministrazione aveva indotto il
professionista a eseguire la prestazione «pur consapevole» della nullità
dovuta alla mancata iscrizione in bilancio della spesa
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.09.2018).
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MASSIMA
Il motivo non è fondato.
La corte territoriale ha ampiamente motivato su tale aspetto, ritenendo che
l'inserimento nel contratto d'opera professionale di una clausola di c.d
"copertura finanziaria", in base alla quale l'ente pubblico
territoriale subordinava il pagamento del compenso al professionista alla
concessione di un finanziamento non consente di derogare alle procedure di
spesa di cui all'art. 23, comma III e IV, D.Lgs 66/1989, le quali non
possono essere differite al momento dell'erogazione del finanziamento.
Ne consegue che è irrilevante il contenuto del decreto del Coordinatore
Generale dell'Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Sardegna n. 1394
del 19.12.1996.
Coerentemente con la giurisprudenza di legittimità, confermata dalla
sentenza n. 26657/2014 resa da questa Corte a Sezioni Unite, l'art. 23,
commi 3 e 4, D.Lgs. 66/1989 rende estraneo l'ente pubblico all'attività
posta in essere dal suo funzionario o amministratore senza le modalità
procedimentali previste.
In base a tale norma, il divieto per i comuni di effettuare spese in assenza
di impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio di
previsione trova applicazione anche qualora la spesa dell'ente territoriale
sia interamente finanziata da altro ente, dovendo anche in tal caso avere
luogo la verifica della copertura della spesa nel bilancio del comune che
assume l'impegno di spesa.
Non si sottrae alla richiamata disciplina il contratto d'opera
professionale con il quale un ente pubblico territoriale abbia affidato la
progettazione di un'opera pubblica, subordinando con apposita clausola il
pagamento del compenso al professionista alla concessione di un
finanziamento per la realizzazione dell'opera da progettarsi.
In particolare la previsione della clausola c.d. di copertura finanziaria
non consente di rinviare all'ottenimento del finanziamento l'osservanza
delle modalità procedimentali, inderogabilmente dettate dalla norma citata,
con la conseguenza che, in difetto, il rapporto obbligatorio non è
riferibile all'ente, intercorrendo, ai fini della controprestazione, tra il
privato e l'amministratore o funzionario che abbia assunto l'impegno.
Il ricorso va pertanto rigettato. |
APPALTI: Se
la gara è in lotti deve essere garantita la partecipazione delle Pmi.
La suddivisione degli appalti in lotti è finalizzata a garantire l’accesso
al mercato degli appalti pubblici alle piccole e medie imprese, pertanto è
illegittimo il bando di gara se, immotivatamente, consente la partecipazione
alla competizione solo ad imprese di grandi dimensioni.
Lo stabilisce il TAR Campania–Napoli, Sez. V, con la
sentenza
03.09.2018 n. 5357.
Il caso
Il casus belli si riferisce ad una gara di servizi. Nella specie
l’affidamento aveva ad oggetto la gestione di servizi di pulizia e sanificazione ambientale dei locali della stazione appaltante. La società
ricorrente impugnava la legge di gara denunciando la violazione degli
articoli 51 ed 83 del Codice dei contratti pubblici.
In particolare il bando
di gara richiedeva in capo ai partecipanti il possesso di requisiti di
accesso irragionevoli e sproporzionati rispetto alle prestazioni da eseguire
e tali da precludere alle imprese di piccole e di medie dimensioni, sia
singolarmente che in forma associata, la possibilità di partecipazione alla
competizione concorrenziale, in palese violazione del principio di massima
partecipazione alle gare pubbliche.
Il Giudice amministrativo accogliendo il ricorso rilevava la violazione
delle norme citate, riscontrando che il bando di gara consentiva la
partecipazione alla competizione solo ad imprese di grandi dimensioni senza
che la stessa stazione appaltante avesse esposto in motivazione le ragioni
di interesse pubblico, da ritenersi prevalenti rispetto a quella del favor partecipationis, che avevano determinato la scelta di dividere l’appalto
lotti prevedendo tuttavia in capo alle imprese partecipanti requisiti di
capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa non compatibili con
le esigenze partecipative delle imprese di più ridotte dimensioni.
La decisione
Il Tar Campania stabilisce che negli appalti pubblici deve garantirsi la
partecipazione delle imprese di più ridotte dimensioni secondo le regole e
gli obiettivi del legislatore europeo in favore delle Pmi, recepite anche
dal Dlgs n. 50 del 2016. Il Giudice territoriale ribadisce che il nuovo
Codice degli appalti reca disposizioni destinate a salvaguardare in modo
concreto ed efficace «l’esigenza di tutela della libertà di concorrenza e di
non discriminazione delle imprese».
Più specificamente, a garantire da un
lato l’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile per la
salvaguardia dell’interesse comunitario alla libera circolazione dei
prodotti e dei servizi, e per altro verso l’interesse stesso
dell’Amministrazione ad acquisire, in virtù di una consistente
partecipazione delle imprese alle procedure ad evidenza pubblica, l’offerta
più vantaggiosa e più rispondente ai bisogni della collettività pubblica.
A tale scopo è stato concepito lo strumento della suddivisione in lotti,
oggi previsto dall’articolo 51 del Codice che in combinato con l’articolo
83, comma 2, la quale norma prevede che i requisiti di idoneità
professionale e le capacità economica e finanziaria e tecniche-professionali
devono essere attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto,
costituisce uno istituto finalizzato a garantire l’accesso della Pmi al
mercato degli appalti pubblici.
Istituto a cui l’Amministrazione può
derogare stabilendo requisiti di partecipazione più gravosi, purché, a tal
fine, esterni le ragioni della scelta, attraverso una decisione
adeguatamente motivata, espressione di scelta discrezionale, sindacabile
soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità (in questo senso
anche Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.09.2014, n. 4669; Sez. V, 16.03.2016,
n. 1081)
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 17.09.2018).
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MASSIMA
4. Tanto premesso in fatto, nel merito, il ricorso è fondato.
4.1 Il Collegio, intende richiamare consolidati principi giurisprudenziali,
in forza dei quali gli appalti pubblici debbono risultare coerenti
all’esigenza di garantire la partecipazione delle imprese di più ridotte
dimensioni secondo le regole e gli obiettivi del legislatore europeo in
favore delle PMI, recepite anche dal d.lgs. n. 50 del 2016, che all’art. 51
prevede: “al fine di favorire l’accesso alle microimprese, piccole e medie
imprese, le stazioni appaltanti suddividono gli appalti in lotti
funzionali……. in conformità alle categorie o specializzazioni nel settore
dei lavori, servizi e forniture”.
Il ricorso allo strumento della suddivisione in lotti, effettuabile su base
quantitativa o su base qualitativa, in conformità alle varie categorie e
specializzazioni esistenti, risulta peraltro suscettibile di deroga, purché,
a tal fine, la S.A. esterni le ragioni della scelta, attraverso una
decisione adeguatamente motivata, espressione di scelta discrezionale,
sindacabile soltanto nei limiti della ragionevolezza e proporzionalità (cfr.
Consiglio di Stato, Sez. VI, 12.09.2014, n. 4669; Sez. V, 16.03.2016, n. 1081).
4.2 Coerentemente con gli obiettivi di garantire la più ampia concorrenza,
in particolare, in favore delle imprese di più ridotte dimensioni, il
successivo art. 83, comma 2, del medesimo decreto, del pari richiamato dalla
ricorrente, prevede che i requisiti di idoneità professionale e le capacità
economica e finanziaria e tecniche–professionali sono attinenti e
proporzionati all’oggetto dell’appalto, “tenendo presente l’interesse
pubblico ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel
rispetto dei principi di trasparenza e rotazione”.
4.3 Come rimarcato da una recente pronuncia del TAR Salerno (Sez. I, 12.07.2018, n. 1071), relativa ad una vicenda del tutto similare a quella
oggetto dell’odierno ricorso, «Le previsioni in argomento costituiscono
espressione del nuovo orientamento normativo, di origine, tra l’altro,
comunitaria, volto a salvaguardare in modo concreto ed efficace “l’esigenza
di tutela della libertà di concorrenza e di non discriminazione delle
imprese”. Più specificamente, la normativa vigente costituisce e, pertanto,
deve essere correttamente intesa come espressione della volontà del
legislatore di perseguire non più soltanto l’esigenza del controllo della
spesa pubblica per il migliore utilizzo del danaro della collettività (c.d.
“concezione contabilistica”, tipica del R.D. 23.05.1924, n. 827), bensì
anche l’apertura alla concorrenza nella misura più ampia possibile per la
salvaguardia dell’interesse comunitario alla libera circolazione dei
prodotti e dei servizi, nell’interesse stesso dell’amministrazione ad
acquisire, in virtù di una consistente partecipazione delle imprese alle
procedure ad evidenza pubblica, l’offerta più vantaggiosa e più rispondente
ai bisogni della collettività pubblica».
4.4 Nel caso in esame, gli atti di gara appaiono violativi delle norme
citate in quanto consentono la partecipazione alla competizione solo ad
imprese di grandi dimensioni che hanno una organizzazione di mezzi e di
persone tale da poter espletare un servizio su vastissime zone di
territorio, in carenza dell’indicazione delle ragioni tecnico-giuridiche
funzionali alla scelta operata.
4.5 Peraltro, il valore economico dei singoli lotti, in ragione del ridotto
numero degli stessi, è tanto elevato che ad esso inevitabilmente
corrispondono elevati requisiti economici di partecipazione normalmente non
posseduti da imprese di medie dimensioni.
Con riguardo a tale ultimo aspetto, la stazione appaltante non ha
adeguatamente motivato sulle ragioni di interesse pubblico, da ritenersi
prevalenti rispetto a quella del favor partecipationis, che hanno
determinato la scelta di dividere l’appalto in due macrolotti e da cui è
dipesa la previsione in capo alle imprese partecipanti di requisiti di
capacità economico-finanziaria e tecnico-organizzativa non compatibili con
le esigenze partecipative delle imprese di più ridotte dimensioni.
Né in senso contrario possono farsi valere le argomentazioni spese dalla
difesa dell’Amministrazione resistente per dare contezza delle ragioni
giustificatrici della scelta censurata, non essendo consentita
l’integrazione postuma della motivazione in giudizio.
5. In conclusione, dalla fondatezza del primo motivo di ricorso, con
assorbimento delle ulteriori censure, discende l’accoglimento del ricorso. |
PATRIMONIO: Concessioni
demaniali senza gara.
Un ente locale può concedere un bene appartenente al proprio demanio a un
soggetto privato in deroga ai principi comunitari, se tale decisione
consente di salvaguardare superiori interessi pubblici in campo ambientale o
storico-culturale.
Il Consiglio di Stato, Sez. V, nella
sentenza
03.09.2018 n. 5157 ha
ritenuto legittimo il rinnovo della concessione per un ristorante in un
immobile storico di particolare importanza, in deroga ai principi che in
linea generale impongono la procedura ad evidenza pubblica per
l'assegnazione di beni appartenenti al demanio.
Il titolare dell'attività ristorativa aveva impugnato una deliberazione del comune proprietario
dell'immobile che annullava il rinnovo, fondata su un parere dell'Autorità
nazionale anticorruzione (richiesto dalla stessa amministrazione), che
evidenziava l'obbligo di mettere a gara i locali di quell'immobile. Il
parere dell'Anac ribaltava la linea originariamente adottata dal comune, il
quale aveva sostenuto le scelte di rinnovo fondandole sulle specificità
socio-culturali e storiche dell'immobile e delle attività in esso
sviluppate, caratterizzanti il particolare ambito.
Il Consiglio di stato,
invece, fa rilevare come la scelta originaria dell'amministrazione,
correlata a specifici indirizzi, riconoscesse la sussistenza di motivi
imperativi per derogare all'obbligo di gara, trattandosi di un locale
storico che aveva contribuito in modo rilevante a costruire l'identità
culturale e il prestigio dell'immobile e dell'area in cui esso è inserito.
La sentenza fa rilevare come l'amministrazione sia tenuta a valutare i
singoli casi per riscontrare l'effettiva sussistenza o meno, per il locale
interessato, di esigenze imperative di interesse generale collegate alla
necessità di conservare, per ragioni storiche, culturali e identitarie, la
continuità gestionale degli esercizi commerciali
(articolo ItaliaOggi del 21.09.2018).
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MASSIMA
16. Gli appelli non meritano accoglimento.
17. I provvedimenti con i quali il Comune di Milano ha deciso di non
rinnovare alle odierne appellate le concessioni demaniali (e ha
conseguentemente indetto la gara pubblica per l’assegnazione delle stesse)
risultano viziati da eccesso di potere, in particolare sotto i profili di
difetto di istruttoria, carenza di motivazione e disparità di trattamento.
I provvedimenti dirigenziali di diniego si limitano, infatti, a recepire il
parere ANAC, senza compiere alcuna verifica concreta sulla sussistenza, nel
caso di specie, delle caratteristiche qualificanti per riconoscere il valore
storico, culturale e identitario dei locali in questione.
18. Va premesso sul piano generale che il principio di evidenza pubblica è
suscettibile di eccezionale deroga (come riconosce anche l’ANAC nel parere
reso in merito alla vicenda oggetto del giudizio) in presenza di esigenze
imperative connesse alla tutela di un interesse generale: queste figure di
preminente interesse generale, di matrice comunitaria (e ora trasposte al
nel nuovo Codice degli appalti pubblici del 2016) consentono, per
un’esigenza stimata in sé superiore, di derogare al principio della gara
perché si riferiscono ad interessi prioritari che prevalgono sulle esigenze
stesse che sono a base della garanzia di concorrenza.
È pacifico (e non è contestato fra le parti del presente giudizio, né
disconosciuto dal più volte richiamato parere dell’ANAC) che fra le ipotesi
di deroga possa rientrare anche la salvaguardia del patrimonio culturale e
in genere dell’interesse storico-culturale (cfr. per tutti il Considerando
40 e l’art. 4 della direttiva 2006/123/CE e conseguente art. 8 l. 26.03.2010, n. 59), nel quale per sua natura rientra il profilo storico-identitario, quand’anche su supporto commerciale: sia come valore
culturale in sé, dunque indipendentemente dalla considerazione economica;
sia anche come qualificatore e attrattore turistico del contesto, e dunque
come apprezzabile elemento di valorizzazione dell’immateriale economico
dell’intero ambiente circostante: nel caso, dell’intera galleria Vittorio
Emanuele II, essendo – a voler considerare i soli aspetti di mercato -
patente il deprezzamento che si irradierebbe anche sui restanti locali a
causa del venir meno di siffatti storici attrattori.
Nel caso di specie, viene in particolare in rilievo la tutela della
tradizione storico-culturale di un città, la quale si realizza anche
attraverso la salvaguardia e la conservazione dei c.d. locali storici,
ovvero di quegli esercizi commerciali che, oltre a qualificare spesso in
maniera determinante il tessuto urbano del centro cittadino, costituiscono
un importante elemento di memoria e connotazione storica ed una preziosa
testimonianza di tradizione e cultura.
19. In questo contesto, il provvedimento di diniego, anziché richiamare
genericamente il principio (di per sé pacifico) secondo cui anche per il
rilascio delle concessioni demaniali vi è l’obbligo di gara che esclude la
possibilità di rinnovo diretto, avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le
quali per i due locali in questione (“Il ga. ro.” e “Il sa.”) non si
sono ritenute presenti quelle peculiarità che hanno, invece, consentito al
Comune di Milano di rinnovare la concessione senza gara la concessioni ad
altri esercizi commerciali presenti all’interno della Galleria Vittorio
Emanuele II.
Che il richiamato parere ANAC non sia incondizionatamente ostativo al
rinnovo delle concessioni senza gara, trova, infatti, conferma nella
circostanza che, successivamente a detto parere, vi è stato da parte del
Comune di Milano il rinnovo della concessione a favore della Da.Ca.
s.p.a. per il locale denominato “Il Ca.”, nonché (sia pure sulla base
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia n.
1271 del 2017, non impugnata dal Comune, né dall’ANAC) a favore del
ristorante “Sa.”, a sua volta riconosciuto locale storico.
In tale situazione, allora, la circostanza che nel caso dei locali gestiti
dalle odierne appellate, il Comune abbia escluso la possibilità di rinnovo,
senza procedere ad alcuna valutazione sulle concrete peculiarità
dell’esercizio commerciale (al fine, appunto, di verificare la sussistenza
dei requisiti per qualificarlo in termini di negozio avente valore
storico-identitario) evidenzia la sussistenza dei già richiamati profili di
eccesso di potere per difetto di motivazione, difetto di istruttoria e
disparità di trattamento.
20. La portata del difetto motivazione è, peraltro, amplificata dal fatto
che le impugnate determinazioni dirigenziali si inseriscono in una cornice
caratterizzata dalla previa adozione, da parte della Giunta del Comune di
Milano, di “linee indirizzo” (cfr. la già citata deliberazione n. 2000 del
2015) favorevoli al rinnovo delle concessioni a favore dei precedenti
gestori: in esse, la Giunta, riconosceva la sussistenza di motivi imperativi
per derogare all’obbligo di gara, trattandosi di locali storici che hanno
contribuito in modo rilevante a costruire l’identità culturale ed il
prestigio della galleria, la cui scomparsa o sostituzione con altre insegne
intaccherebbe sensibilmente l’immagine e l’identità storica della galleria.
Tali linee di indirizzo sono state disattese dal provvedimento dirigenziale
impugnato senza alcuna specifica motivazione, né adeguato approfondimento
istruttorio sulle reali caratteristiche (dal punto di vista storico e
identitario) dei locali in questione. L’unica base motivazionale –certamente insufficiente– è rappresentata dal richiamato al parere reso
dall’ANAC, il quale, però, ha sua volta, in realtà si è limitato a
ricostruire il quadro normativo dell’evidenza pubblica e a ricordare
l’eccezionalità delle ipotesi che consentono di derogare all’obbligo di
gara, senza, tuttavia, compiere alcuna concreta e specifica valutazione (del
resto esulante la stessa competenza dell’ANAC, perché implicante compiti di
amministrazione attiva che nella specie spettano al Comune) circa la
l’effettiva sussistenza, nel caso concreto, per ciascuno dei locai
interessati, di esigenze imperative di interesse generale collegate alla
necessità di conservare, per ragioni storiche, culturali e identitarie, la
continuità gestionale degli esercizi commerciali.
21. Sotto questo profilo, quindi, meritano conferma le sentenze appellate,
che hanno annullato per difetto di motivazione e di istruttoria, il diniego
di rinnovo delle concessione (e i successivi atti di indizione e svolgimento
della gara per l’assegnazione delle nuovo concessioni). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
E' legittima, se ben motivata, la soppressione dell'avvocatura
comunale.
È legittima la delibera con cui la giunta comunale sopprime
l'avvocatura civica e affida all'esterno la difesa
dell'ente, in quanto il potere di organizzazione contempla
ampi margini di apprezzamento discrezionale, riservato al
potere politico, che si sostiene nella misura in cui risulta
sufficientemente motivato ed è frutto di una complessiva
riorganizzazione degli uffici.
La determinazione delle linee
fondamentali di organizzazione degli uffici pubblici (con
l’individuazione di quelli di maggiore rilevanza, dei modi
di conferimento della relativa titolarità e di
determinazione delle dotazioni organiche complessive) è
rimessa –sulla base di “principi generali” fissati dalla
legge– a ciascuna amministrazione pubblica, che vi
provvedere mediante “atti organizzativi” (cfr. artt. 2 e 5
d.lgs. n. 165/2001), complessivamente ispirati a criteri di
funzionalità, flessibilità, trasparenza ed imparzialità,
idonei a tradurre e compendiare, in prospettiva
programmatica, i principi costituzionali di buon andamento
ed imparzialità (art. 97 Cost.) e a perseguire la
complessiva efficacia ed efficienza dell’azione
amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990).
Sebbene non sia revocabile in dubbio che siffatti “atti
organizzativi” rientrino pienamente nel novero del
provvedimenti amministrativi e siano, in quanto tali,
soggetti al relativo statuto (che ne impone la complessiva
verifica di legittimità, la soggezione alle norme sulla
competenza, il rispetto dei canoni di ragionevolezza, la
garanzia di imparzialità e ne legittima il corrispondente
sindacato giurisdizionale da parte del giudice
amministrativo, anche in punto di adeguatezza delle premesse
istruttorie e di idoneità giustificativa sul piano
motivazionale, è vero, tuttavia, che gli ampi margini della scolpita
logica di auto organizzazione postulano ed impongono, per
tradizionale e consolidato intendimento, il riconoscimento
di una lata discrezionalità programmatica.
La conclusione discende, del resto, dal rilievo che –pur
essendo anche l’attività amministrativa organizzativa
assoggettata al principio di legalità (art. 97 Cost., nella
parte in cui postula una base legale ad ogni attribuzione
competenziale)– i relativi procedimenti (di matrice
caratteristicamente infrastrutturale o interna o
programmatoria) non sono destinati ad incidere, se non in
via mediata, sulle posizioni soggettive dei consociati, in
quanto destinatari dell’azione amministrativa: a livello
macroorganizzativo, l’amministrazione non entra in relazione
diretta con i titolari di situazioni giuridiche soggettive,
ma crea soltanto presupposti alla instaurazione di rapporti
giuridicamente rilevanti con tali soggetti. Ne risulta
corrispondentemente attutito (se pur non eliso, non
trattandosi propriamente di autonomia) il profilo
garantistico del momento giustificativo, che legittima –come tale– un sindacato limitato al travisamento del fatto
o al manifesto eccesso di potere.
Si dovrà cioè osservare che sussiste, nella adozione dei
provvedimenti in questione, una discrezionalità che, per un
verso –non strutturandosi in termini di confronto
comparativo di posizioni e di interessi pubblici e privati,
nella logica della determinazione conclusiva dei
procedimenti ad efficacia esterna– ridimensiona, pur senza
elidere, l’intensità dell’onere motivazionale e, per altro e
consequenziale verso, limita il sindacato giudiziale alle
ipotesi di conclamata ed evidente abnormità.
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A livello di enti locali, gli esposti principi hanno trovato
conferma positiva a partire dalla legge n. 127 del 1997 che,
nel modificare l’art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha
cambiato la competenza ad adottare il regolamento degli
uffici e dei servizi, attribuendolo (unico, non a caso, fra
tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in
evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti
locali è vicenda intrinsecamente collegata con il potere
operativo.
In siffatto contesto, anche l'Avvocatura Comunale, malgrado
le consistenti guarentigie rivenienti dalla legge
professionale in relazione alla qualificata attività
dispiegata, rappresenta a tutti gli effetti un ufficio
comunale e, come tale, è soggetto al generale potere di
auto-regolamentazione dell’ente.
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Alla luce delle esposte premesse deve ritenersi che la
sentenza impugnata –nella parte in cui ha imputato alle
contestate scelte organizzative di non aver idoneamente
vagliato la possibilità di non rinunciare “completamente”
alla difesa interna dell’Ente– ha obiettivamente
travalicato i limiti di un sindacato estrinseco di legalità,
di fatto sovrapponendosi ad una opzione organizzativa di per
sé né arbitraria, né irragionevole, né sproporzionata, ove
confrontata con i canoni di funzionalità e flessibilità
(art. 2 d.lgs. n. 165/2001 cit.).
Del resto, la scansione degli atti, così come sintetizzata
nella narrativa in fatto che precede, dimostra che, nel caso
di specie, la decisione di sopprimere l’ufficio legale –lungi dal rappresentare il frutto di una decisione
improvvisata, poco meditata o superficiale– ha costituito
l’esito della progressiva maturazione, elaborata attraverso
un complesso iter istruttorio, di riorganizzare e
rivisitare, per esigenze finanziarie e di “semplificazione”
organizzativa, la macro-struttura dell’ente.
Né risulta pretermessa la stima dei prevedibili impatti economici
rinvenienti dalla necessità di affidare all’esterno gli
incarichi legali: stima operata nel quadro di un complessivo
bilanciamento di costi e benefici, che di per sé –in
difetto di emergenti incongruenze o contraddizioni– non può
essere doppiato e superato da un difforme apprezzamento
giudiziale.
Del resto, dovrà pur notarsi –di là da ogni altro rilievo–
che la soppressione dell’Avvocatura civica non risulta
operata ut sic, ma costituisce il frutto di un più
comprensivo “accorpamento” degli uffici (con significativa
riduzione dei servizi preesistenti) e di una reciproca
“internalizzazione” della (deficitaria) gestione
dell’accertamento tributario e della relativa riscossione.
Le cui complessive motivazioni di fondo emergono con
sufficiente chiarezza dagli atti dei relativi procedimenti
decisionali.
---------------
... per la riforma della sentenza breve del TAR
Calabria–Catanzaro, Sez. II n. 99/2017, resa tra le parti;
...
1.- L’appello è fondato e merita di essere accolto.
2.- Con due ragioni di gravame, che possono essere esaminate
congiuntamente, il Comune appellante lamenta –denunziando error in judicando, eccesso di potere per presupposto
erroneo, travisamento, manifesta illogicità ed
irragionevolezza, sviamento, violazione dell’art. 97 Cost. e
degli artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 165/2001, nonché dell’art.
89, comma 1 del d.lgs. n. 267/2000, oltre a eccesso di
potere per violazione della discrezionalità amministrativa–
che la sentenza impugnata abbia giustificato la decisione
assunta sul non corretto presupposto che le scelte
organizzative dell’Ente, con le quali –nei sensi della
narrativa in fatto che precede– si era decisa la
riorganizzazione degli uffici e dei servizi e la
soppressione dell’Avvocatura civica– non fossero state
idoneamente motivate (sotto il duplice e concorrente profilo
della preventiva valutazione dell’impatto economico
rinveniente dalla necessità di affidare il contenzioso a
legali esterni e della possibilità di non escludere
“completamente” una difesa interna dell’Ente).
Assume, in proposito: a) che –per un verso ed in termini
generali– le scelte di ordine macroorganizzativo non
richiedono, per natura, motivazione puntuale e specifica (il
cui pregnante sindacato si risolverebbe, come occorso nella
specie, in un giudizio sovrappositorio del giudice su scelte
ampiamente riservate alla sfera discrezionale
dell’amministrazione; b) che –per altro verso ed in
particolare– le decisioni in contestazione erano state il
frutto di ampio e diffuso apprezzamento istruttorio, dal
quale era lecito indurre con puntualità le ragioni
giustificative.
3.- Il motivo è fondato.
Importa premettere che la determinazione delle linee
fondamentali di organizzazione degli uffici pubblici (con
l’individuazione di quelli di maggiore rilevanza, dei modi
di conferimento della relativa titolarità e di
determinazione delle dotazioni organiche complessive) è
rimessa –sulla base di “principi generali” fissati dalla
legge– a ciascuna amministrazione pubblica, che vi
provvedere mediante “atti organizzativi” (cfr. artt. 2 e 5
d.lgs. n. 165/2001), complessivamente ispirati a criteri di
funzionalità, flessibilità, trasparenza ed imparzialità,
idonei a tradurre e compendiare, in prospettiva
programmatica, i principi costituzionali di buon andamento
ed imparzialità (art. 97 Cost.) e a perseguire la
complessiva efficacia ed efficienza dell’azione
amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990).
Sebbene non sia revocabile in dubbio che siffatti “atti
organizzativi” rientrino pienamente nel novero del
provvedimenti amministrativi e siano, in quanto tali,
soggetti al relativo statuto (che ne impone la complessiva
verifica di legittimità, la soggezione alle norme sulla
competenza, il rispetto dei canoni di ragionevolezza, la
garanzia di imparzialità e ne legittima il corrispondente
sindacato giurisdizionale da parte del giudice
amministrativo, anche in punto di adeguatezza delle premesse
istruttorie e di idoneità giustificativa sul piano
motivazionale: cfr. Cons. Stato, sez. V, 12.06.2009, n.
3728), è vero, tuttavia, che gli ampi margini della scolpita
logica di auto organizzazione postulano ed impongono, per
tradizionale e consolidato intendimento, il riconoscimento
di una lata discrezionalità programmatica.
La conclusione discende, del resto, dal rilievo che –pur
essendo anche l’attività amministrativa organizzativa
assoggettata al principio di legalità (art. 97 Cost., nella
parte in cui postula una base legale ad ogni attribuzione
competenziale)– i relativi procedimenti (di matrice
caratteristicamente infrastrutturale o interna o
programmatoria) non sono destinati ad incidere, se non in
via mediata, sulle posizioni soggettive dei consociati, in
quanto destinatari dell’azione amministrativa: a livello
macroorganizzativo, l’amministrazione non entra in relazione
diretta con i titolari di situazioni giuridiche soggettive,
ma crea soltanto presupposti alla instaurazione di rapporti
giuridicamente rilevanti con tali soggetti. Ne risulta
corrispondentemente attutito (se pur non eliso, non
trattandosi propriamente di autonomia) il profilo
garantistico del momento giustificativo, che legittima –come tale– un sindacato limitato al travisamento del fatto
o al manifesto eccesso di potere.
Si dovrà cioè osservare che sussiste, nella adozione dei
provvedimenti in questione, una discrezionalità che, per un
verso –non strutturandosi in termini di confronto
comparativo di posizioni e di interessi pubblici e privati,
nella logica della determinazione conclusiva dei
procedimenti ad efficacia esterna– ridimensiona, pur senza
elidere, l’intensità dell’onere motivazionale e, per altro e
consequenziale verso, limita il sindacato giudiziale alle
ipotesi di conclamata ed evidente abnormità.
A livello di enti locali, gli esposti principi hanno trovato
conferma positiva a partire dalla legge n. 127 del 1997 che,
nel modificare l’art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha
cambiato la competenza ad adottare il regolamento degli
uffici e dei servizi, attribuendolo (unico, non a caso, fra
tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in
evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti
locali è vicenda intrinsecamente collegata con il potere
operativo.
In siffatto contesto, anche l'Avvocatura Comunale, malgrado
le consistenti guarentigie rivenienti dalla legge
professionale in relazione alla qualificata attività
dispiegata, rappresenta a tutti gli effetti un ufficio
comunale e, come tale, è soggetto al generale potere di
auto-regolamentazione dell’ente.
Alla luce delle esposte premesse deve ritenersi che la
sentenza impugnata –nella parte in cui ha imputato alle
contestate scelte organizzative di non aver idoneamente
vagliato la possibilità di non rinunciare “completamente”
alla difesa interna dell’Ente– ha obiettivamente
travalicato i limiti di un sindacato estrinseco di legalità,
di fatto sovrapponendosi ad una opzione organizzativa di per
sé né arbitraria, né irragionevole, né sproporzionata, ove
confrontata con i canoni di funzionalità e flessibilità
(art. 2 d.lgs. n. 165/2001 cit.).
Del resto, la scansione degli atti, così come sintetizzata
nella narrativa in fatto che precede, dimostra che, nel caso
di specie, la decisione di sopprimere l’ufficio legale –lungi dal rappresentare il frutto di una decisione
improvvisata, poco meditata o superficiale– ha costituito
l’esito della progressiva maturazione, elaborata attraverso
un complesso iter istruttorio, di riorganizzare e
rivisitare, per esigenze finanziarie e di “semplificazione”
organizzativa, la macro-struttura dell’ente.
Né –contrariamente all’assunto del primo giudice– risulta pretermessa la stima dei prevedibili impatti economici
rinvenienti dalla necessità di affidare all’esterno gli
incarichi legali: stima operata nel quadro di un complessivo
bilanciamento di costi e benefici, che di per sé –in
difetto di emergenti incongruenze o contraddizioni– non può
essere doppiato e superato da un difforme apprezzamento
giudiziale.
Del resto, dovrà pur notarsi –di là da ogni altro rilievo–
che la soppressione dell’Avvocatura civica non risulta
operata ut sic, ma costituisce il frutto di un più
comprensivo “accorpamento” degli uffici (con significativa
riduzione dei servizi preesistenti) e di una reciproca
“internalizzazione” della (deficitaria) gestione
dell’accertamento tributario e della relativa riscossione.
Le cui complessive motivazioni di fondo emergono con
sufficiente chiarezza dagli atti dei relativi procedimenti
decisionali.
4.- Le esposte considerazioni sono sufficienti ai fini
dell’accoglimento dell’appello, con conseguente riforma
della statuizione impugnata e reiezione del ricorso di primo
grado (Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 03.09.2018 n. 5143 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Non è possibile il riconoscimento del debito
fuori bilancio -per prestazione professionale resa- laddove
risulta la mancanza dei relativi presupposti e cioè:
a) il contratto non era stato stipulato nelle forme di rito,
trattandosi di incarico conferito sulla sola base di
delibera di Giunta comunale;
b) in ogni caso, il pagamento dell’eventuale corrispettivo era
stato subordinato al conseguimento di un finanziamento, che
non era stato mai riconosciuto, con il conseguente venir
meno della relativa condizione.
Invero, i contratti con la Pubblica amministrazione devono
essere redatti, a pena di nullità, in forma scritta e -salva
la deroga prevista dall'art. 17 r.d. 18.11.1923 n. 2440 per
i contratti con le ditte commerciali, che possono essere
conclusi a distanza, a mezzo di corrispondenza “secondo
l'uso del commercio”- con la sottoscrizione, ad opera
dell'organo rappresentativo esterno dell'ente, in quanto
munito dei poteri necessari per vincolare l'amministrazione,
e della controparte, di un unico documento, in cui siano
specificamente indicate le clausole disciplinanti il
rapporto.
Tali regole formali sono funzionali all'attuazione del
principio costituzionale di buona amministrazione in quanto
agevolano l'esercizio dei controlli e rispondono
all'esigenza di tutela delle risorse degli enti pubblici
contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza
l'adeguata copertura e senza la valutazione dell'entità
delle obbligazioni da adempiere (ciò che vale ad escludere
l’idoneità di una mera delibera comunale, deputata ad altra
funzione e priva del relativo impegno di spesa, nonché
dell'indicazione dei mezzi per far fronte al compenso del
professionista).
Sotto distinto e concorrente profilo, in una convenzione tra
un ente pubblico territoriale e un professionista, al quale
il primo abbia affidato la progettazione di un'opera
pubblica, la clausola con cui il pagamento del compenso per
la prestazione resa è condizionato alla concessione di un
finanziamento per la realizzazione di detta opera deve
qualificarsi come “condizione potestativa mista”, il cui
mancato avveramento preclude l'azionabilità del credito.
---------------
1.- Con atto di appello notificato nei tempi e nelle forme
di rito, Vi.Vi., come in atti rappresentato e difeso,
impugnava la sentenza n. 130 del 06.02.2017, distinta in
epigrafe, con la quale il TAR per la Basilicata aveva
respinto il proprio ricorso inteso a censurare, nelle forme
di cui agli artt. 31 e 116 c.p.a., il silenzio serbato dal
Comune di Baragiano in ordine alla propria istanza di
riconoscimento, mercé auspicata delibera consiliare di
approvazione del relativo debito fuori bilancio, del credito
pretesamente maturato in relazione alla attività
professionale dispiegata a favore dell’Ente.
...
3.- Osserva la Sezione che l’assunto secondo cui sarebbe
precluso –nella “azione avverso il silenzio”–
l’accertamento, in concreto, della sostanziale fondatezza
della pretesa, trova puntuale e positiva smentita, in
termini generali, nell’art. 31, comma 3, del codice del
processo amministrativo, il quale –al termine di un diuturno
itinerario concettuale maturato sul piano non meno pretorio
che normativo, sul quale non mette conto indugiare– ha, da
ultimo, riconosciuto (nella più complessiva prospettiva
della tendenziale trasformazione del processo amministrativo
da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto) il potere del
giudice di “pronunciare sulla fondatezza della pretesa
dedotta in giudizio”, sia pure nei soli casi in cui “si
tratta di attività vincolata”, ovvero risulti comunque e
a vario titolo preclusi all’Amministrazione “ulteriori
margini di esercizio della discrezionalità” e non siano
necessari “adempimenti istruttori”.
3.1.- Ciò posto, nel caso di specie non è revocabile in
dubbio che la pretesa azionata –che assume la consistenza di
una posta creditoria rinveniente dall’espletamento, a titolo
negoziale, di attività professionale in favore
dell’Amministrazione– è suscettibile, per sua natura, di
essere apprezzata, come ha fatto il primo giudice, nei
termini della sua concreta fondatezza, trattandosi di
situazione di diritto soggettivo che, di per sé, non
ammette, dal lato passivo, spazi di discrezionalità a
latere debitoris (il che va puntualizzato non senza
soggiungere che le possibili implicazioni in punto di
giurisdizione sono, nella specie, precluse dal giudicato
interno, correlato alla mancata impugnazione del capo della
sentenza che ne ha argomentato la sussistenza: cfr., ex
multis, Cons. Stato, sez. III, 17.11.2015, n. 5272).
3.2.- Orbene, costituiscono principio pacifico, dal quale
non si ravvisano ragioni per discostarsi (cfr., tra le
tante, Cass., sez. I, 20.03.2014, n. 6555), quello per cui i
contratti con la Pubblica amministrazione devono essere
redatti, a pena di nullità, in forma scritta e -salva la
deroga prevista dall'art. 17 r.d. 18.11.1923 n. 2440 per i
contratti con le ditte commerciali, che possono essere
conclusi a distanza, a mezzo di corrispondenza “secondo
l'uso del commercio”- con la sottoscrizione, ad opera
dell'organo rappresentativo esterno dell'ente, in quanto
munito dei poteri necessari per vincolare l'amministrazione,
e della controparte, di un unico documento, in cui siano
specificamente indicate le clausole disciplinanti il
rapporto; tali regole formali sono funzionali all'attuazione
del principio costituzionale di buona amministrazione in
quanto agevolano l'esercizio dei controlli e rispondono
all'esigenza di tutela delle risorse degli enti pubblici
contro il pericolo di impegni finanziari assunti senza
l'adeguata copertura e senza la valutazione dell'entità
delle obbligazioni da adempiere (ciò che vale ad escludere
l’idoneità di una mera delibera comunale, deputata ad altra
funzione e priva del relativo impegno di spesa, nonché
dell'indicazione dei mezzi per far fronte al compenso del
professionista).
Sotto distinto e concorrente profilo, in una convenzione tra
un ente pubblico territoriale e un professionista, al quale
il primo abbia affidato la progettazione di un'opera
pubblica, la clausola con cui il pagamento del compenso per
la prestazione resa è condizionato alla concessione di un
finanziamento per la realizzazione di detta opera deve
qualificarsi come “condizione potestativa mista”, il
cui mancato avveramento preclude l'azionabilità del credito
(cfr. Cass., sez. un., 18.12.2014, n. 26657).
Orbene, nel caso di specie, l’amministrazione, nel
riscontrare la richiesta di riconoscimento del debito fuori
bilancio formulata dall’odierno appellante, ha rilevato,
sotto entrambi gli evidenziati profili, la mancanza dei
relativi presupposti, in quanto:
a) il contratto non era stato stipulato nelle forme di rito,
trattandosi di incarico conferito sulla sola base di
delibera di Giunta comunale;
b) in ogni caso, il pagamento dell’eventuale corrispettivo era
stato subordinato al conseguimento di un finanziamento, che
non era stato mai riconosciuto, con il conseguente venir
meno della relativa condizione.
Tanto appare sufficiente, come già ritenuto dal primo
giudice ed in difetto di contrarie allegazioni, per
confermare l’insussistenza del credito vantato in danno
dell’Amministrazione e, di conserva, l’inesistenza del
preteso obbligo di attivare il procedimento per il
riconoscimento del relativo debito fuori bilancio.
4.- Le considerazioni che precedono sono sufficienti ai fini
della complessiva reiezione dell’appello (Consiglio di
Stato, Sez. V,
sentenza 03.09.2018 n. 5138 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Se l’inosservanza dei termini di inizio e fine lavori
comporti automaticamente la decadenza del permesso di
costruire ovvero se, per determinare questo effetto, sia
comunque richiesto un apposito provvedimento da parte del
competente organo comunale.
La giurisprudenza più recente di questo
giudice di appello è prevalentemente orientata nel senso che
l'operatività della decadenza della concessione edilizia
necessita dell'intermediazione di un formale provvedimento
amministrativo di carattere dichiarativo, che deve
intervenire per il solo fatto del verificarsi del
presupposto di legge e da adottare previa apposita
istruttoria.
Sulle stesse conclusioni è attestata anche la giurisprudenza
del giudice di primo grado, per la quale la decadenza del
permesso di costruire non opera di per sé, ma deve
necessariamente tradursi in un provvedimento espresso che ne
accerti i presupposti e ne renda operanti gli effetti; che,
sebbene a contenuto vincolato, ha carattere autoritativo e,
come tale, non è sottratto all'obbligo di motivazione di cui
all’art. 3 l. 07.08.1990, n. 241; può essere adottato solo
previa formale ed apposita contestazione, esplicazione di
una potestà provvedimentale.
Il Giudice d’Appello ha, altresì, ricordato una precedente
pronuncia in cui si è specificato che “la ragione, che
giustificherebbe l'obbligo per l'ente locale di adottare un
atto che formalmente dichiari l'intervenuta decadenza del
permesso di costruire, è stata individuata nella necessità
di assicurare il contraddittorio con il privato in ordine
all'esistenza dei presupposti di fatto e di diritto che
giustifichino la pronuncia stessa”.
---------------
E’ necessario, preliminarmente, esaminare la questione
relativa alla pretesa improcedibilità del ricorso, sollevata
dal Comune resistente, alla luce della mancata realizzazione
delle opere di cui al permesso di costruire impugnato, con
conseguente decadenza.
La questione, in buona sostanza, consiste nel verificare se
l’inosservanza dei termini di inizio e fine lavori da parte
del beneficiario comporti automaticamente la decadenza del
permesso di costruire che gli era stato rilasciato –operando
questa di diritto ex art. 15, comma 2, del T.U.
dell’edilizia e rivestendo il provvedimento, eventualmente
adottato, carattere meramente dichiarativo di un effetto già
verificatosi-, ovvero se, per determinare questo effetto,
sia comunque richiesto un apposito provvedimento da parte
del competente organo comunale.
Il Consiglio di Stato ha avuto modo di affrontare questa
tematica e, pur dando atto dell’esistenza di due
orientamenti, ha comunque precisato che “la
giurisprudenza più recente di questo giudice di appello è
prevalentemente orientata nel senso che l'operatività della
decadenza della concessione edilizia necessita
dell'intermediazione di un formale provvedimento
amministrativo di carattere dichiarativo, che deve
intervenire per il solo fatto del verificarsi del
presupposto di legge e da adottare previa apposita
istruttoria. Sulle stesse conclusioni è attestata anche la
giurisprudenza del giudice di primo grado, per la quale la
decadenza del permesso di costruire non opera di per sé, ma
deve necessariamente tradursi in un provvedimento espresso
che ne accerti i presupposti e ne renda operanti gli
effetti; che, sebbene a contenuto vincolato, ha carattere
autoritativo e, come tale, non è sottratto all'obbligo di
motivazione di cui all’art. 3 l. 07.08.1990, n. 241; può
essere adottato solo previa formale ed apposita
contestazione, esplicazione di una potestà provvedimentale”
(Consiglio di Stato, sez. IV, 22.10.2015, n. 4823).
Il Giudice d’Appello ha, altresì, ricordato una precedente
pronuncia (sez. VI, 17.02.2006, n. 671) in cui si è
specificato che “la ragione, che giustificherebbe
l'obbligo per l'ente locale di adottare un atto che
formalmente dichiari l'intervenuta decadenza del permesso di
costruire, è stata individuata nella necessità di assicurare
il contraddittorio con il privato in ordine all'esistenza
dei presupposti di fatto e di diritto che giustifichino la
pronuncia stessa”.
Il Collegio non ritiene che vi siano ragioni per discostarsi
da tale orientamento e, pertanto, in mancanza di un formale
provvedimento che dichiari l’intervenuta decadenza del
permesso di costruire, il ricorso non può essere dichiarato
improcedibile (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.09.2018 n. 825 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Va sospesa in via
generale ogni determinazione sulle domande di permesso di
costruire, in caso di contrasto tra l'intervento oggetto
della domanda e le previsioni di uno strumento urbanistico
adottato.
Il comma 3
dell’art. 12 del T.U. edilizia
attribuisce rilevanza ostativa, ai fini dell'accertamento di
conformità, anche alle misure di salvaguardia di uno
strumento urbanistico in itinere, e ciò si rivela
assolutamente logico, non essendovi ragioni per
differenziare la disciplina delle istanze di concessione in
sanatoria da quelle di concessione edilizia per interventi
ancora da realizzare.
È stato osservato, altresì, che la "salvaguardia" si
verifica a prescindere dal fatto che detta domanda sia stata
presentata anteriormente alla data di adozione dello
strumento urbanistico, poiché l'amministrazione deve tenere
conto della situazione di fatto e di diritto esistente al
momento in cui la determinazione relativa all'istanza di
titolo abilitativo viene assunta.
In altri termini, la mera presentazione della domanda di
permesso di costruire non basta a rendere irrilevanti la
variazioni di strumento urbanistico sopravvenute nelle more
del rilascio del provvedimento.
---------------
Passando al merito, il ricorso va accolto.
Risulta, invero, fondato il primo motivo di ricorso,
con cui si denuncia la violazione dell’art. 12 del d.P.R. n.
380/2001.
Il Comma 3 dell’art. 12 del T.U. edilizia dispone che “In
caso di contrasto dell'intervento oggetto della domanda di
permesso di costruire con le previsioni di strumenti
urbanistici adottati, è sospesa ogni determinazione in
ordine alla domanda. La misura di salvaguardia non ha
efficacia decorsi tre anni dalla data di adozione dello
strumento urbanistico, ovvero cinque anni nell'ipotesi in
cui lo strumento urbanistico sia stato sottoposto
all'amministrazione competente all'approvazione entro un
anno dalla conclusione della fase di pubblicazione”.
Ebbene, nel caso in esame, non è in contestazione tra le
parti che il PGT adottato nel corso dell’anno 2010 ha
classificato l’area in cui si sarebbe dovuto realizzare
l’intervento di cui al permesso impugnato in zona “EA
–Area di rispetto ambientale”, vietando ogni nuova
costruzione.
L’Amministrazione, dunque, a fronte della richiesta di
permesso di costruire, avrebbe dovuto sospendere il relativo
procedimento, giusta il contrasto con lo strumento
urbanistico adottato.
Questo Tribunale, anche di recente, ha avuto modo di
precisare che ai sensi della ricordata disposizione “va
sospesa in via generale ogni determinazione sulle domande di
permesso di costruire, in caso di contrasto tra l'intervento
oggetto della domanda e le previsioni di uno strumento
urbanistico adottato. La citata disposizione attribuisce
rilevanza ostativa, ai fini dell'accertamento di conformità,
anche alle misure di salvaguardia di uno strumento
urbanistico in itinere, e ciò si rivela assolutamente
logico, non essendovi ragioni per differenziare la
disciplina delle istanze di concessione in sanatoria da
quelle di concessione edilizia per interventi ancora da
realizzare (TAR Sardegna, sez. II, 20/05/2014, n. 368).
È stato osservato, altresì, che la "salvaguardia" si
verifica a prescindere dal fatto che detta domanda sia stata
presentata anteriormente alla data di adozione dello
strumento urbanistico, poiché l'amministrazione deve tenere
conto della situazione di fatto e di diritto esistente al
momento in cui la determinazione relativa all'istanza di
titolo abilitativo viene assunta. In altri termini, la mera
presentazione della domanda di permesso di costruire non
basta a rendere irrilevanti la variazioni di strumento
urbanistico sopravvenute nelle more del rilascio del
provvedimento (TAR Basilicata – 05/05/2014, n. 312)” (In
tal senso TAR Brescia, sez. I, 15.11.2017, n. 1354).
Il Comune, pertanto, non avrebbe potuto rilasciare il titolo
edilizio, ma avrebbe dovuto sospendere il relativo
procedimento.
La censura di cui al primo motivo è, dunque, fondata e va
accolta con conseguente accoglimento del ricorso, potendo
restare assorbite le ulteriori questioni sollevate dalla
ricorrente (TAR Lombardia-Brescia, Sez. II,
sentenza 03.09.2018 n. 825 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione e caratteristiche preesistente edificio
crollato o demolito - Limiti e vincoli della discrezionalità
tecnica - Provvedimenti autorizzativi falsi -
Configurabilità del reato di falso ideologico - Art. 3, c.
1, lett. d), d.P.R. n. 380/2001
L’accertamento della preesistente
consistenza di un edificio crollato o demolito che si
intende ricostruire mediante ristrutturazione edilizia ai
sensi dell'art. 3, comma primo, lettera d), del d.P.R.
380/2001 non può ritenersi validamente effettuata sulla base
di studi storici o rilevazioni relativi ad edifici aventi
analoga tipologia, restando una simile verifica confinata
nell'ambito delle mere deduzioni soggettive e non offrendo
alcuna oggettiva evidenza.
Pertanto, la c.d. discrezionalità tecnica deve essere
vincolata alla verifica della conformità della situazione
fattuale alle previsioni normative.
Sicché, il reato di falso ideologico è pienamente
configurabile quando detto giudizio di conformità non sia
rispondente, ai parametri normativi richiesti per
l'emanazione di atti amministrativi, alla veridicità di
determinate situazioni fattuali quali necessari presupposti
per l'integrazione delle fattispecie giuridiche di
riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza di
criteri di valutazione normativamente fissati o anche solo
di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti
consapevolmente in modo da creare, con la propria idonea e
concreta condotta, una situazione di pericolo per il normale
svolgimento del traffico giuridico, impedendo all'atto
pubblico di adempiere alla funzione di affidamento che gli è
propria (Corte
di Cassazione, Sez. III,
sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ristrutturazione edilizia - Provvedimenti autorizzativi
rilasciati su presupposti urbanistici e paesaggistici falsi
- Procedura - Esclusione degli apprezzamenti meramente
soggettivi - Criterio oggettivo della preesistente
"consistenza".
Nell'autorizzazione paesaggistica
vengono attestate la conformità urbanistica e la
compatibilità ambientale delle opere da edificare,
esprimendo quindi un giudizio in base alla rispondenza
dell'intervento edilizio ad oggettivi e preesistenti criteri
normativi, in quanto tale non caratterizzato da mera
discrezionalità tecnica, quanto, piuttosto, da una verifica
oggettiva che deve necessariamente fondarsi su dati certi ed
obiettivi, quali documentazione fotografica, cartografie,
volumetria, altezza, struttura complessiva, etc., in base ai
quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza
del manufatto preesistente.
Pertanto, gli interventi di ristrutturazione edilizia
consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici
o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono
ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è
possibile accertare la preesistente volumetria delle opere,
le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente
vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente
sagoma dell'edificio.
Sono, invece, soggetti alla procedura semplificata della
SCIA se si tratta di opere che non rientrano in zona
paesaggisticamente vincolata e rispettano la preesistente
volumetria, anche quando implicano una modifica della sagoma
dell'edificio (Corte
di Cassazione, Sez. III,
sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Rilascio di un parere
paesaggistico sulla base una relazione tecnica falsa -
Mancata attività ricognitiva - Concorso nel reato di falso -
Responsabile dell'ufficio tecnico - Sussistenza dei
presupposti giuridicofattuali - Obblighi di verifica.
Si configura il concorso nell'illecito
rilascio di un parere paesaggistico sulla base una relazione
tecnica, integrativa della domanda presentata dal
progettista, nella quale si attesta falsamente che le opere
previste nella proposta progettuale non comportano
variazione di sagoma né aumenti delle volumetrie esistenti.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del
legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001
inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali
dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura
complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza
anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del
requisito richiesto dalla norma.
Parimenti, detta verifica non potrà essere rimessa ad
apprezzamenti meramente soggettivi o al risultato di stime o
calcoli effettuati su dati parziali, ma dovrà, invece,
basarsi su dati certi, completi ed obiettivamente
apprezzabili.
Nella specie, si fa riferimento al più grave reato di cui
all'art. 479 cod. pen., che si configura con il rilascio
dell'autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile
dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della
falsità di quanto attestato dal richiedente circa la
sussistenza dei presupposti giuridicofattuali per
l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo
competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive
verifiche in merito alla sussistenza delle relative
condizioni.
PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Falso ideologico nella
valutazione tecnica - Pubblico ufficiale libero nella scelta
dei criteri di valutazione - Parametri normativamente
predeterminati o tecnicamente indiscussi - Configurabilità
del reato - Giurisprudenza.
E' configurabile il delitto di falso
ideologico nella valutazione tecnica formulata in un
contesto implicante l'accettazione di parametri
normativamente predeterminati o tecnicamente indiscussi
(ribadito in Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc.
Pasteris e altri; Cass. Sez. 1, n. 45373 del 10/06/2013,
Capogrosso e altro).
Mentre, nel caso in cui il pubblico
ufficiale sia libero nella scelta dei criteri di
valutazione, la sua attività è assolutamente discrezionale
e, come tale, il documento che contiene il giudizio non è
destinato a provare la verità di alcun fatto, tuttavia, se
l'atto da compiere fa riferimento, anche implicito, a
previsioni normative che dettano criteri di valutazione, si
è in presenza di un esercizio di discrezionalità tecnica,
che vincola la valutazione ad una verifica di conformità
della situazione fattuale a parametri predeterminati, con
conseguente integrazione della falsità se detto giudizio di
conformità non sia rispondente ai parametri cui esso è
implicitamente vincolato
(Sez. 2, n. 1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e
altro; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 del 15/07/2011,
Gulino; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini e altro) (Corte
di Cassazione, Sez. III,
sentenza 31.08.2018 n. 39340 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Considerata la disciplina ora vigente, gli
interventi di ristrutturazione edilizia consistenti nel
ripristino o nella ricostruzione di edifici o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, debbono ritenersi
assoggettati a permesso di costruire se non è possibile
accertare la preesistente volumetria delle opere, le quali,
qualora ricadano in zona paesaggisticamente vincolata, hanno
l'obbligo di rispettare anche la precedente sagoma
dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura
semplificata della SCIA se si tratta di opere che non
rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano
la preesistente volumetria, anche quando implicano una
modifica della sagoma dell'edificio.
Detti interventi impongono, quale imprescindibile
condizione, che sia possibile accertare la preesistente
consistenza di ciò che si è demolito o è crollato e che tale
accertamento deve essere effettuato con il massimo rigore e
deve necessariamente fondarsi su dati certi ed obiettivi,
quali documentazione fotografica, cartografie etc., in base
ai quali sia inequivocabilmente individuabile la consistenza
del manufatto preesistente.
L'utilizzazione del termine «consistenza», da parte del
legislatore, nell'art. 3, comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001
inevitabilmente include tutte le caratteristiche essenziali
dell'edifico preesistente (volumetria, altezza, struttura
complessiva, etc.), con la conseguenza che, in mancanza
anche di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del
requisito richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica
non potrà essere rimessa ad apprezzamenti meramente
soggettivi o al risultato di stime o calcoli effettuati su
dati parziali, ma dovrà, invece, basarsi su dati certi,
completi ed obiettivamente apprezzabili.
---------------
Va esclusa la possibilità di risalire alla originaria
consistenza dell'edificio, ormai ridotto a rudere,
attraverso lo "studio storico" o rilevazioni inerenti ad
edifici simili che presentino maggiori elementi
identificativi della struttura per delineare la consistenza
del manufatto crollato.
Si tratta, invero, di un assunto che non può essere
assolutamente condiviso, non soltanto perché si pone in
evidente contrasto con i principi dianzi richiamati, che, lo
si ribadisce, impongono estremo rigore nella verifica della
consistenza del preesistente manufatto, da effettuarsi su
dati oggettivi inconfutabili e completi, ma anche perché si
risolverebbe nel consentire la edificazione di volumi della
cui preesistenza non vi sarebbe alcuna certezza, sulla base
di mere supposizioni, tali essendo i risultati di eventuali
comparazioni con altri edifici le cui caratteristiche siano
analoghe e note.
Va conseguentemente ribadito che l'art. 30 del d.l. n. 69
del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di
qualificare come "ristrutturazione edilizia" l'intervento di
ripristino o di ricostruzione di un edificio o di parte di
esso, eventualmente crollato o demolito, anche in caso di
modifica della sagoma dello stesso ove insistente su zona
non vincolata, a condizione però che sia possibile
accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi
certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti
meramente soggettivi, la preesistente "consistenza", intesa
come il complesso di tutte le caratteristiche essenziali
dell'edificio (volumetria, altezza, struttura complessiva,
etc.), con la conseguenza che la mancanza anche di uno solo
di tali elementi, necessari per la dovuta attività
ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il requisito
che la citata disposizione richiede per escludere, in
ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di
preventivo permesso di costruire.
Va tuttavia ulteriormente affermato
che l'accertamento della preesistente consistenza di un
edificio crollato o demolito che si intende ricostruire
mediante ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3,
comma primo, lettera d), del d.PR. 380/2001 non può
ritenersi validamente effettuata sulla base di studi storici
o rilevazioni relativi ad edifici aventi analoga tipologia,
restando una simile verifica confinata nell'ambito delle
mere deduzioni soggettive e non offrendo alcuna oggettiva
evidenza.
---------------
1. Il ricorso è inammissibile.
2. Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo
di ricorso, che i fatti contestati risultano accertati in
data antecedente alle modifiche del 2013 all'art. 3 del
d.P.R. 380/2001, quando, in considerazione della disciplina
allora vigente, veniva esclusa la possibilità che la
ricostruzione di un rudere potesse ricondursi entro la
nozione di ristrutturazione, trattandosi, al contrario, di
un intervento del tutto nuovo (v. Sez. 3, n. 45240 del
26/10/2007, Scupola, Rv. 238464; Sez. 3, n. 15054 del
23/01/2007, Meli e altro, Rv. 236338; Sez. 3, n. 20776 del
13/01/2006, P.M. in proc. Polverino, Rv. 234467 ed altre
prec. conf.), ritenendosi che la mancanza dei suddetti
elementi strutturali, rendesse impossibile qualsiasi
valutazione circa l'esistenza e la consistenza dell'edifico
da consolidare.
Le decisioni dei giudici del merito sono successive alle
modifiche e di esse ha evidentemente tenuto conto la
decisione impugnata, la quale risulta conforme ai principi
affermati dalla giurisprudenza di questa Corte in relazione
all'ambito di operatività della disciplina attualmente in
vigore.
Come è noto, il d.l. 69/2013 (conosciuto anche come «decreto
del fare»), intervenendo sull'art. 3, comma 1, lett. d),
del d.P.R. 380/2001, ha considerevolmente ampliato il
concetto di ristrutturazione, limitando l'obbligo del
rispetto della sagoma ai soli immobili vincolati ed
introducendo la possibilità di ristrutturazione degli
edifici crollati o demoliti.
L'articolo 3, comma primo, lettera d), del d.P.R. 380/2001,
nella formulazione attualmente vigente, così definisce gli
interventi di ristrutturazione: «interventi rivolti a
trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali
interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell'edificio, l'eliminazione,
la modifica e l'inserimento di nuovi elementi ed impianti.
Nell'ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia
sono ricompresi anche quelli consistenti nella demolizione e
ricostruzione con la stessa volumetria di quello
preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per
l'adeguamento alla normativa antisismica, nonché quelli
volti al ripristino di edifici, o parti di essi,
eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro
ricostruzione, purché sia possibile accertarne la
preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento
agli immobili sottoposti a vincoli ai se9si del decreto
legislativo 22.01.2004, n. 42 e successive modificazioni,
gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli
interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti
costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia
soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio
preesistente».
A tale proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto
modo di precisare che, considerata la disciplina ora
vigente, gli interventi di ristrutturazione edilizia
consistenti nel ripristino o nella ricostruzione di edifici
o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, debbono
ritenersi assoggettati a permesso di costruire se non è
possibile accertare la preesistente volumetria delle opere,
le quali, qualora ricadano in zona paesaggisticamente
vincolata, hanno l'obbligo di rispettare anche la precedente
sagoma dell'edificio. Sono, invece, soggetti alla procedura
semplificata della SCIA se si tratta di opere che non
rientrano in zona paesaggisticamente vincolata e rispettano
la preesistente volumetria, anche quando implicano una
modifica della sagoma dell'edificio (Sez. 3, n. 40342 del
03/06/2014, Quarta, Rv. 260551).
Si è anche ricordato che detti interventi impongono, quale
imprescindibile condizione, che sia possibile accertare la
preesistente consistenza di ciò che si è demolito o è
crollato e che tale accertamento deve essere effettuato con
il massimo rigore e deve necessariamente fondarsi su dati
certi ed obiettivi, quali documentazione fotografica,
cartografie etc., in base ai quali sia inequivocabilmente
individuabile la consistenza del manufatto preesistente (cfr.
Sez. 3, n. 5912 del 22/01/2014, Moretti e altri, Rv. 258597;
Sez. 3 n. 26713 del 25/06/2015, Petitto, non massimata. V.
anche Sez. 3, n. 48947 del 13/10/2015, P.M. in proc. Pompa,
Rv. 266031).
Si è ulteriormente stabilito che l'utilizzazione del termine
«consistenza», da parte del legislatore, nell'art. 3,
comma 1, lett. d), d.P.R. 380/2001 inevitabilmente include
tutte le caratteristiche essenziali dell'edifico
preesistente (volumetria, altezza, struttura complessiva,
etc.), con la conseguenza che, in mancanza anche di uno solo
di tali elementi, necessari per la dovuta attività
ricognitiva, dovrà escludersi la sussistenza del requisito
richiesto dalla norma. Parimenti, detta verifica non potrà
essere rimessa ad apprezzamenti meramente soggettivi o al
risultato di stime o calcoli effettuati su dati parziali, ma
dovrà, invece, basarsi su dati certi, completi ed
obiettivamente apprezzabili (Sez. 3, n. 45147 del
08/10/2015, Marzo e altri, Rv. 265444).
3. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato atto
del significativo dato fattuale della obiettiva
impossibilità di individuare le originarie caratteristiche
costruttive dell'immobile crollato, che definisce (pag. 5
della sentenza impugnata) come "un mero ammasso di pietre
a secco con un accenno di andamento solo di due muri
perimetrali e di piccola parte di un terzo muro".
Una tale evenienza giustifica, di per sé, la possibilità di
qualificare l'intervento come ristrutturazione ed evidenzia
la correttezza delle conclusioni cui sono pervenuti i
giudici dell'appello.
4. Il ricorrente pone tuttavia, a sostegno delle proprie
ragioni, un ulteriore questione, che è quella della
possibilità di risalire alla originaria consistenza
dell'edificio, ormai ridotto a rudere, attraverso lo "studio
storico" o rilevazioni inerenti ad edifici simili che
presentino maggiori elementi identificativi della struttura
per delineare la consistenza del manufatto crollato,
possibilità che è stata correttamente esclusa dai giudici
dell'appello.
Si tratta, invero, ad avviso del Collegio, di un assunto che
non può essere assolutamente condiviso, non soltanto perché
si pone in evidente contrasto con i principi dianzi
richiamati, che, lo si ribadisce, impongono estremo rigore
nella verifica della consistenza del preesistente manufatto,
da effettuarsi su dati oggettivi inconfutabili e completi,
ma anche perché si risolverebbe nel consentire la
edificazione di volumi della cui preesistenza non vi sarebbe
alcuna certezza, sulla base di mere supposizioni, tali
essendo i risultati di eventuali comparazioni con altri
edifici le cui caratteristiche siano analoghe e note.
La sentenza impugnata ha, dunque, giustamente escluso la
correttezza della soluzione prospettata dalla difesa,
proprio sulla base della impossibilità di "dare contezza
specifica degli esatti limiti del preesistente" ed
escludendo, altrettanto correttamente, ogni validità del
mero richiamo dell'esistenza del manufatto nell'atto di
compravendita del terreno per la genericità del richiamo e
l'assenza di descrizione dello stesso.
Va conseguentemente ribadito che l'art. 30 del d.l. n. 69
del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013) consente di
qualificare come "ristrutturazione edilizia"
l'intervento di ripristino o di ricostruzione di un edificio
o di parte di esso, eventualmente crollato o demolito, anche
in caso di modifica della sagoma dello stesso ove insistente
su zona non vincolata, a condizione però che sia possibile
accertarne, in base a riscontri documentali o altri elementi
certi e verificabili e non, quindi, ad apprezzamenti
meramente soggettivi, la preesistente "consistenza",
intesa come il complesso di tutte le caratteristiche
essenziali dell'edificio (volumetria, altezza, struttura
complessiva, etc.), con la conseguenza che la mancanza anche
di uno solo di tali elementi, necessari per la dovuta
attività ricognitiva, impedisce di ritenere sussistente il
requisito che la citata disposizione richiede per escludere,
in ragione della anzidetta qualificazione, la necessità di
preventivo permesso di costruire.
5. Va tuttavia ulteriormente affermato che l'accertamento
della preesistente consistenza di un edificio crollato o
demolito che si intende ricostruire mediante
ristrutturazione edilizia ai sensi dell'art. 3, comma primo,
lettera d), del d.PR. 380/2001 non può ritenersi validamente
effettuata sulla base di studi storici o rilevazioni
relativi ad edifici aventi analoga tipologia, restando una
simile verifica confinata nell'ambito delle mere deduzioni
soggettive e non offrendo alcuna oggettiva evidenza (Corte
di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39340). |
EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Si è ricordato, con riferimento al più grave
reato di cui all'art.
479 cod. pen. (Falsità ideologica commessa dal
pubblico ufficiale in atti pubblici), come lo stesso si
configuri con il rilascio di autorizzazione paesaggistica,
da parte del responsabile dell'ufficio tecnico competente,
nella consapevolezza della falsità di quanto attestato dal
richiedente circa la sussistenza dei presupposti
giuridico-fattuali per l'accoglimento della relativa
domanda, essendo l'organo competente obbligato a svolgere in
qualunque modo, e non necessariamente con un sopralluogo, le
necessarie preventive verifiche in merito alla sussistenza
delle relative condizioni.
Ancora, è configurabile il delitto di falso ideologico nella
valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o
tecnicamente indiscussi.
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero
che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella
scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è
assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che
contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento,
anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri
di valutazione, si è in presenza di un esercizio di
discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una
verifica di conformità della situazione fattuale a parametri
predeterminati, con conseguente integrazione della falsità
se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai
parametri cui esso è implicitamente vincolato.
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti
autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti
urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella
relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la
discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della
conformità della situazione fattuale alle previsioni
normative, il reato di falso ideologico è pienamente
configurabile quando detto giudizio di conformità non sia
rispondente ai parametri normativi richiesti per
l'emanazione di atti amministrativi, che la veridicità di
determinate situazioni fattuali richiedono quali necessari
presupposti per l'integrazione delle fattispecie giuridiche
di riferimento, ossia nei casi in cui l'agente, in presenza
di criteri di valutazione normativamente fissati o anche
solo di criteri tecnici generalmente accettati, se ne
discosti consapevolmente in modo da creare, con la propria
idonea e concreta condotta, una situazione di pericolo per
il normale svolgimento del traffico giuridico, impedendo
all'atto pubblico di adempiere alla funzione di affidamento
che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre
decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni
diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i
principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal
Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il
fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i
fatti rappresentati negli elaborati progettuali, sul difetto
dell'elemento soggettivo ovvero sostenendo che la
valutazione oggetto di imputazione, essendo correlata alla
mera interpretazione della normativa di settore, ma
svincolata da qualsiasi riferimento ad elementi fattuali
integranti il presupposto dell'atto, è priva di quella
funzione informativa in forza della quale l'enunciato può
essere predicato di falsità.
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile
qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso,
perché, come si è affermato in una recente pronuncia,
nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la
conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle
opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base
alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e
preesistenti criteri normativi, in quanto tale non
caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto,
piuttosto, da una verifica oggettiva.
---------------
Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, si è
sempre attribuito decisivo rilievo alla piena conoscenza
della normativa di settore, da parte dei soggetti coinvolti,
trattandosi di tecnici, alla insostenibilità della tesi
difensiva della difficoltà della normativa edilizia riferita
alle zone agricole ed al fatto che la procedura seguita
rientrasse in una "prassi" seguita dagli uffici comunali,
alla sistematicità del meccanismo ideato per aggirare la
disciplina urbanistica e paesaggistica, rilevando, in
definitiva, come i giudici del merito avessero del tutto
legittimamente riconosciuto la piena consapevolezza, da
parte degli imputati, della illiceità delle loro azioni e,
segnatamente, della non compatibilità dell'intervento
edilizio con la destinazione di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel
caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la
Corte territoriale, ponendo in evidenza come l'atto del
quale è stata riconosciuta la falsità "contiene
qualificazioni decisive per la produzione degli effetti
giuridici ad esso assegnato dall'ordinamento platealmente
false laddove attesta la congruità dell'intervento con il
preesistente, con supino recepimento delle indicazioni,
parimenti false, contenute nella relazione in cui la
proprietaria committente ed il tecnico progettista
quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le
stesse (...)" ed escludendo la possibilità di un mero errore
tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione
concernente la sussistenza dell'elemento soggettivo del
reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa
l'originaria consistenza del manufatto crollato era evidente
per le modalità con le quali si assumeva verificata ed
immediatamente percepibile dall'imputato in quanto soggetto
tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che
altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo,
quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale
anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale
non riscontrabile in questa sede.
---------------
6. Quanto al secondo e terzo motivo di
ricorso, osserva il Collegio che gli stessi riguardano la
sussistenza del falso in relazione al titolo abilitativo
paesaggistico e sollevano questioni analoghe a quelle più
volte affrontate da questa Corte con riferimento alla
vicenda delle illecite cessioni di cubatura, che hanno visto
coinvolto anche l'odierno ricorrente, sicché pare opportuno
richiamare, anche in questa occasione, i precedenti arresti
giurisprudenziali.
Nei diversi casi sottoposti all'attenzione di questa Corte
la condotta attribuita agli imputati veniva originariamente
qualificata come violazione dell'art. 479 cod. pen. e poi
riqualificata ai sensi dell'art. 480 cod. pen.
In una recente decisione (Sez. 3, n. 28713 del 19/04/2017,
Colella ed altri, non massimata) riguardante una vicenda
relativa al comune di Morciano di Leuca, richiamate altre
decisioni attinenti a procedimenti aventi ad oggetto fatti
analoghi (Sez. 3, n. 42064 del 30/06/2016, Quaranta e altri,
Rv. 268083; Sez. 5, n. 35556 del 26/04/2016, Renna, Rv.
267953), si è ricordato, con riferimento al più grave reato
di cui all'art. 479 cod. pen., in quell'occasione
contestato, come lo stesso si configuri con il rilascio di
autorizzazione paesaggistica, da parte del responsabile
dell'ufficio tecnico competente, nella consapevolezza della
falsità di quanto attestato dal richiedente circa la
sussistenza dei presupposti giuridico-fattuali per
l'accoglimento della relativa domanda, essendo l'organo
competente obbligato a svolgere in qualunque modo, e non
necessariamente con un sopralluogo, le necessarie preventive
verifiche in merito alla sussistenza delle relative
condizioni.
Ancora, va ricordato il principio secondo il quale è
configurabile il delitto di falso ideologico nella
valutazione tecnica formulata in un contesto implicante
l'accettazione di parametri normativamente predeterminati o
tecnicamente indiscussi (ribadito in Sez. 3, n. 41373 del
17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968, non
massimata sul punto, che a sua volta richiama Sez. 1, n.
45373 del 10/06/2013, Capogrosso e altro, Rv. 257895).
Anche altre decisioni hanno specificato che, se pure è vero
che, nel caso in cui il pubblico ufficiale sia libero nella
scelta dei criteri di valutazione, la sua attività è
assolutamente discrezionale e, come tale, il documento che
contiene il giudizio non è destinato a provare la verità di
alcun fatto, tuttavia, se l'atto da compiere fa riferimento,
anche implicito, a previsioni normative che dettano criteri
di valutazione, si è in presenza di un esercizio di
discrezionalità tecnica, che vincola la valutazione ad una
verifica di conformità della situazione fattuale a parametri
predeterminati, con conseguente integrazione della falsità
se detto giudizio di conformità non sia rispondente ai
parametri cui esso è implicitamente vincolato (Sez. 2, n.
1417 del 11/10/2012, p.c. in proc. Platamone e altro, Rv.
254305; si vedano anche Sez. 5, n. 39360 dell 05/07/2011,
Gulino, Rv. 251533; Sez. 5, n. 14486 del 21/02/2011, Marini
e altro, Rv. 249858).
Tali principi sono stati anche recentemente ribaditi (Sez.
3, n. 9881 del 08/02/2018, Costantini ed altri, cit.; Sez.
3, n. 2281 del 24/11/2017 (dep. 2018), Siciliano ed altri,
cit.. V. anche Sez. 3, n. 57120 del 29/09/2017, Borrello ed
altro, non massimata; Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017,
Renna, non massimata. V. anche Sez. 3 n. 18890 del
08/11/2017 (dep. 2018), Renna non ancora massimata).
Si è conseguentemente ritenuto che i provvedimenti
autorizzativi rilasciati fossero fondati su presupposti
urbanistici e paesaggistici falsi, contenuti anche nella
relazione tecnica e, come tale, anch'essa falsa.
Va conseguentemente considerato che, dovendo la
discrezionalità tecnica essere vincolata alla verifica della
conformità della situazione fattuale alle previsioni
normative, il reato di falso ideologico è pienamente
configurabile quando detto giudizio di conformità non sia
rispondente, come nei casi esaminati, ai parametri normativi
richiesti per l'emanazione di atti amministrativi, che la
veridicità di determinate situazioni fattuali richiedono
quali necessari presupposti per l'integrazione delle
fattispecie giuridiche di riferimento, ossia nei casi in cui
l'agente, in presenza di criteri di valutazione
normativamente fissati o anche solo di criteri tecnici
generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente in
modo da creare, con la propria idonea e concreta condotta,
una situazione di pericolo per il normale svolgimento del
traffico giuridico, impedendo all'atto pubblico di adempiere
alla funzione di affidamento che gli è propria.
Occorre poi rilevare come, in alcune occasioni, altre
decisioni di questa Corte siano giunte a conclusioni
diverse, le quali, tuttavia, non pongono in discussione i
principi dianzi ricordati, i quali, pienamente condivisi dal
Collegio, meritano conferma.
Invero, le difformi decisioni prendono in considerazione il
fatto specifico, riconoscendo come corrispondenti al vero i
fatti rappresentati negli elaborati progettuali (Sez. 3, n.
4566 del 10/10/2017 (dep. 2018), Morciano ed altro, non
massimata), sul difetto dell'elemento soggettivo (v. Sez. 5
n. 37915 del 26/04/2017, Baglivo, non massimata) ovvero
sostenendo che la valutazione oggetto di imputazione,
essendo correlata alla mera interpretazione della normativa
di settore, ma svincolata da qualsiasi riferimento ad
elementi fattuali integranti il presupposto dell'atto, è
priva di quella funzione informativa in forza della quale
l'enunciato può essere predicato di falsità (Sez. 5, n.
19384 del 12/2/2018, De Micheli ed altri, non massimata;
Sez. 5, n. 7879 del 16/01/2018, Daversa e altri, Rv.
272457).
Si tratta, in tale ultimo caso, di una non condivisibile
qualificazione dei contenuti dell'atto che si assume falso,
perché, come si è affermato in una recente pronuncia (Sez.
3, n. 8844 del 18/01/2018, Renna ed altro, non massimata, la
quale a sua volta richiama Sez. 3, n. 57108 del 17/05/2017,
Renna, cit. Negli stessi termini, Sez. 3, n. 8852 del
18/01/2018, Dilonardo ed altri, non massimata),
nell'autorizzazione paesaggistica vengono attestate la
conformità urbanistica e la compatibilità ambientale delle
opere da edificare, esprimendo quindi un giudizio in base
alla rispondenza dell'intervento edilizio ad oggettivi e
preesistenti criteri normativi, in quanto tale non
caratterizzato da mera discrezionalità tecnica, quanto,
piuttosto, da una verifica oggettiva.
Quanto alla sussistenza dell'elemento soggettivo, nei casi
esaminati si è sempre attribuito decisivo rilievo alla piena
conoscenza della normativa di settore, da parte dei soggetti
coinvolti, trattandosi di tecnici, alla insostenibilità
della tesi difensiva della difficoltà della normativa
edilizia riferita alle zone agricole ed al fatto che la
procedura seguita rientrasse in una "prassi" seguita
dagli uffici comunali (Sez. 3, n. 35166 del 28/03/2017,
Nespoli ed altri, citata), alla sistematicità del meccanismo
ideato per aggirare la disciplina urbanistica e
paesaggistica, rilevando, in definitiva, come i giudici del
merito avessero del tutto legittimamente riconosciuto la
piena consapevolezza, da parte degli imputati, della
illiceità delle loro azioni e, segnatamente, della non
compatibilità dell'intervento edilizio con la destinazione
di zona.
Tali principi, come si è detto, sono applicabili anche nel
caso in esame ed ad essi si è opportunamente allineata la
Corte territoriale, ponendo in evidenza come l'atto del
quale è stata riconosciuta la falsità "contiene
qualificazioni decisive per la produzione degli effetti
giuridici ad esso assegnato dall'ordinamento platealmente
false laddove attesta la congruità dell'intervento con il
preesistente, con supino recepimento delle indicazioni,
parimenti false, contenute nella relazione in cui la
proprietaria committente ed il tecnico progettista
quantificano le dimensioni al fine esclusivo di aumentare le
stesse (...)" ed escludendo la possibilità di un mero
errore tecnico.
Tale ultimo aspetto offre valida risposta alla questione
concernente la sussistenza dell'elemento soggettivo del
reato, atteso che la falsità delle indicazioni circa
l'originaria consistenza del manufatto crollato era evidente
per le modalità con le quali si assumeva verificata ed
immediatamente percepibile dall'imputato in quanto soggetto
tecnicamente qualificato, a nulla rilevando il fatto che
altri soggetti coinvolti nel procedimento amministrativo,
quali la Soprintendenza, non avrebbero riscontrato tale
anomala situazione, trattandosi peraltro di dato fattuale
non riscontrabile in questa sede (Corte di cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39340). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edificazione in zona agricola e sottoposta a vincolo
paesaggistico - Oggettiva correlazione tra immobile
realizzato e conduzione del fondo - Elementi di conformità
ai fini del rilascio della sanatoria - Artt. 15, 31, 34 e
44, lett. b) e c), d.P.R. 380/2001 e 181, comma 1, d.lgs.
42/2004.
L'edificazione in zona agricola si
riferisce ad interventi edilizi in evidente collegamento
funzionale con la destinazione del fondo e la posizione
soggettiva di chi lo realizza, elementi che assumono
entrambi rilievo ai fini della rispondenza dell’opera alle
prescrizioni dello strumento urbanistico e, di conseguenza,
anche per l’eventuale valutazione di conformità ai fini del
rilascio della sanatoria.
A tale proposito, con riferimento ad una ipotesi di
lottizzazione, si era rilevato come la realizzazione di un
intervento edilizio in zona agricola è finalizzato alla
conduzione del fondo in ragione della sua destinazione ed è
a tale dato essenziale della oggettiva correlazione tra
immobile realizzato e conduzione del fondo che deve farsi
riferimento e non anche alle condizioni soggettive di chi
richiede il titolo abilitativo.
Pertanto, ciò che rileva è la effettiva destinazione del
manufatto, richiamando tuttavia l'attenzione sul fatto che
non si è mai escluso il rilievo assunto, in tali casi, dal
requisito soggettivo, tanto da affermare che, in tema di
reati edilizi, non è sufficiente il possesso temporaneo di
fatto della qualifica di imprenditore agricolo professionale
(ai sensi dell'art. 1, comma 5-ter, D.Lgs. 29.03.2004, n.
99) ai fini del rilascio del permesso di costruire in zona
agricola, in quanto i requisiti soggettivi per il rilascio
di tale permesso devono esistere al momento della richiesta
ed al momento del rilascio del titolo abilitativo (Sez. 3,
n. 46085 del 29/10/2008, Monetti e altro), ritenendo,
altresì, che il possesso dei requisiti soggettivi di
imprenditore agricolo deve sussistere non solo al momento
del rilascio del permesso di costruire in zona agricola, ma
anche al momento della voltura del titolo abilitativo in
favore di terzi, al fine di garantire l'effettiva
destinazione delle opere all'agricoltura (Sez. 3, n. 33381
del 05/07/2012, Pmt in proc. Murgioni e altri; Sez. 3, n.
7681 del 13/01/2017, Innamorati e altri).
Fattispecie: realizzazione di una villa disposta su due
livelli e tre ulteriori corpi di fabbrica ed una piscina con
finalità tipicamente residenziali in assenza o, comunque, in
totale difformità dal progetto approvato con permesso di
costruire
(Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Suddivisione dell'attività edificatoria finale nelle singole
opere - Regime dei titoli abilitativi edilizi - Opera
considerata unitariamente nel suo complesso.
Il regime dei titoli abilitativi edilizi
non può essere eluso attraverso la suddivisione
dell'attività edificatoria finale nelle singole opere che
concorrono a realizzarla, astrattamente suscettibili di
forme di controllo preventivo più limitate per la loro più
modesta incisività sull'assetto territoriale.
L'opera deve essere infatti considerata unitariamente nel
suo complesso, senza che sia consentito scindere e
apprezzare separatamente i suoi singoli componenti e ciò
ancor più nel caso di interventi su preesistente opera
abusiva (Cass. Sez. 3, n. 30147 del 19/04/2017, Tomasulo).
Si è inoltre specificato che l'unitarietà dell'intervento
edilizio è tale quando riferita ad un insieme di opere,
realizzate anche in tempi diversi, le quali, pur non essendo
parte integrante o costitutiva di un altro fabbricato,
costituiscano, di fatto, un complesso unitario rispetto al
quale ciascuna componente contribuisce a realizzarne la
destinazione (Cass. Sez. 3, n. 23183 del 29/03/2018,
Erbaggio) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Indicazione dei termini di inizio e di ultimazione dei
lavori - Inosservanza dei termini - Effetti - Decadenza del
permesso di costruire.
L'indicazione dei termini di inizio e di
ultimazione dei lavori è finalizzata a dare certezza
temporale all'attività edificatoria, allo scopo di evitare
che una edificazione, autorizzata in un dato momento, venga
realizzata quando la situazione fattuale e normativa è
mutata, per tale ragione i lavori devono quindi essere
iniziati ed ultimati nel termine prescritto nel permesso di
costruire.
L'inosservanza dei termini determina la decadenza del
permesso di costruire che, come indicato dalla lettera della
legge, opera di diritto per il mero decorso del termine,
senza necessità di adozione di un atto formale.
I lavori eseguiti con permesso di costruire decaduto sono
illeciti, perché realizzati senza valido titolo, come si
desume dal comma terzo dell'articolo 15 d.P.R. 380/2001, il
quale stabilisce che la realizzazione della parte
dell'intervento non ultimata nel termine stabilito è
subordinata al rilascio di nuovo permesso per le opere
ancora da eseguire, salvo che le stesse non rientrino tra
quelle realizzabili mediante segnalazione di inizio attività
e che si procede, ove necessario, anche al ricalcolo del
contributo di costruzione (Cass. Sez. 3, n. 43175 del
04/05/2017, Botti)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere abusive e sanatoria
c.d. condizionata - Condizioni e limiti - Doppia conformità
- PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Attività vincolata della P.A. e
provvedimenti di rilascio illegittimi - Giurisprudenza.
Nei casi in cui le opere abusivamente
realizzate, non sono in ogni caso suscettibili di sanatoria,
deve escludersi anche la possibilità della cosiddetta
sanatoria condizionata, caratterizzata dal fatto che i suoi
effetti vengono subordinati alla esecuzione di specifici
interventi aventi lo scopo di far acquisire alle opere il
requisito della conformità alla disciplina urbanistica ed
edilizia che non posseggono.
Tali provvedimenti devono ritenersi illegittimi, in quanto
l'articolo 36 d.P.R. 380/2001 si riferisce esplicitamente ad
interventi già ultimati e stabilisce come la doppia
conformità debba sussistere sia al momento della
realizzazione dell'opera, sia al momento della presentazione
della domanda di sanatoria.
Inoltre, il rilascio del provvedimento consegue ad
un'attività vincolata della P.A., consistente
nell'applicazione alla fattispecie concreta di previsioni
legislative ed urbanistiche a formulazione compiuta e non
elastica, che non lasciano all'Amministrazione medesima
spazi per valutazioni di ordine discrezionale (Cass. Sez. 3,
n. 51013 del 05/11/2015 - dep. 29/12/2015, Carratù e altro;
Sez. 3, n. 7405 del 15/01/2015, Bonarota; Sez. 3, n. 47402
del 21/10/2014, Chisci e altro; Sez. 3, n. 19587 del
27/04/2011, Montini e altro; Sez. 3 n. 23726 del 24/02/2009,
Peoloso; Sez. 3, n. 41567 del 04/10/2007, P.M. in proc.
Rubechi e altro; Sez. 3, n. 48499 del 13/11/2003, P.M. in
proc. Dall'Oro ed altre prec. conf.)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reato urbanistico - Natura
di reato permanente - Momento della consumazione e
cessazione della permanenza - Fattispecie.
Il reato urbanistico ha natura di reato
permanente, la cui consumazione ha inizio con l'avvio dei
lavori di costruzione e perdura fino alla cessazione
dell'attività edificatoria abusiva
(Cass. Sez. U., n. 17178
del 27/02/2002, Cavallaro).
La cessazione dell'attività si ha con l'ultimazione dei
lavori per completamento dell'opera, con la sospensione dei
lavori volontaria o imposta (ad esempio, mediante sequestro
penale), con la sentenza di primo grado, se i lavori
continuano dopo l'accertamento del reato e sino alla data
del giudizio (Cass. Sez. 3, n. 29974 del 06/05/2014, P.M. in
proc. Sullo).
Deve trattarsi, di un edificio concretamente funzionale che
possegga tutti i requisiti di agibilità o abitabilità, come
si ricava dal disposto del primo comma dell'articolo 25 del
d.PR. 380/2001, che fissa "entro quindici giorni
dall'ultimazione dei lavori di finitura dell'intervento" il
termine per la presentazione allo sportello unico della
domanda di rilascio del certificato di agibilità.
Le opere devono essere, inoltre, valutate nel loro
complesso, non potendosi, in base al concetto unitario di
costruzione, considerare separatamente i singoli componenti.
Tali caratteristiche riguardano, inoltre, anche le parti che
costituiscono annessi dell'abitazione (Sez. 3, n. 8172 del
27/01/2010, Vitali).
Nel caso di specie, è stato escluso l'ultimazione delle
opere sulla base dell'inequivoco dato fattuale dell'assenza,
all'atto del sequestro, di "regolare e funzionante impianto
elettrico", dando conto dell'assenza "non solo delle
mascherine e dei corpi interni ma anche il collegamento tra
tutti i cavi".
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - DIRITTO PROCESSUALE PENALE
- Demolizione delle opere abusive e rimessione in pristino
dello stato dei luoghi - Subordine della sospensione
condizionale della pena - Funzione direttamente
ripristinatoria del bene offeso - Obbligo di specifica
motivazione - Esclusione - Motivazione implicita - Natura di
provvedimento accessorio alla condanna - Ostinata
inottemperanza all'esecuzione dell'ordine di demolizione -
Effetti - Revoca della sospensione condizionale della pena.
Il giudice penale, può subordinare
l'applicazione della sospensione condizionale della pena
alla demolizione delle opere abusive.
Il discorso non muta con riferimento alla rimessione in
pristino dello stato dei luoghi, cui pure può essere
subordinata la sospensione condizionale della pena, atteso
che la non autorizzata immutazione dello stato dei luoghi,
in zona sottoposta a vincolo, può comportare conseguenze
dannose o pericolose e che la sanzione specifica della
rimessione ha una funzione direttamente ripristinatoria del
bene offeso.
Inoltre, l'obbligo di specifica motivazione è stato
espressamente escluso, ricordando come detta motivazione
debba ritenersi implicita nella stessa emanazione
dell'ordine di demolizione contenuto nella sentenza e sul
presupposto che detto ordine ha natura di provvedimento
accessorio alla condanna ed è emesso sulla base
dell'accertamento della persistente offensività dell'opera
nei confronti dell'interesse tutelato, con la conseguenza
che, quando il giudice del merito subordina la concessione
della sospensione condizionale della pena alla demolizione
dell'opera abusiva, egli non fa altro che rafforzare il
contenuto della statuizione accessoria, esaltando
contemporaneamente la funzione sottesa alla ratio
dell'articolo 165 del codice penale finalizzata
all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato,
persistenti nel caso di ostinata inottemperanza
all'esecuzione dell'ordine di demolizione, circostanza che
rende perciò il condannato immeritevole della sospensione
condizionale della pena (così Sez. 7, n. 9847 del 25/11/2016
(dep. 2017), Palma; Conf. Sez. 3 n. 7283 del 09/02/2018,
Mistretta) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 31.08.2018 n. 39339 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In zona sismica lavori registrati.
Ogni progetto va depositato in comune.
È
sempre obbligatorio il deposito del progetto edilizio allo sportello unico
comunale per gli interventi effettuati in zona sismica. Anche se questi non
sono strutturali.
La stessa trasformazione di un sottotetto in vano
abitabile, in zona sismica, esige il deposito preventivo del progetto,
poiché il concetto di costruzione va esteso a qualsiasi intervento edilizio,
così come per l'apertura di finestre o per interventi su parti di muratura
che non siano strutturali.
È l'importante principio espresso dalla
Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 31.08.2018 n. 39335
la quale sottolinea l'obbligatorietà in zona
sismica del deposito allo sportello unico del comune del progetto per
qualsiasi tipo di intervento edilizio.
Nel caso di specie, i lavori edilizi
avevano comportato, secondo quanto esaminato dal giudice del merito,
l'emersione, previo sbancamento del terreno, di tre lati, precedentemente
interrati, di un preesistente edificio, con la realizzazione di un piazzale
di circa 1.000 metri quadrati, il terrazzamento della parete di terra
rimasta alle spalle di uno di tali tre lati e fino ad un'altezza di sei
metri e lo spostamento di una rampa di accesso la fondo.
Tali lavori avevano
quindi fatto emergere un manufatto in precedenza interrato. Per la difesa,
la costruzione (il manufatto originario) era regolare e l'intervento
edilizio non riguardava parti strutturali dell'opera. Per i giudici di
Cassazione no. La norma (articolo 93 dpr n. 380/2001) ricordano gli
Ermellini ha la finalità di salvaguardare la pubblica incolumità. La natura
del materiale usato e delle strutture realizzate è irrilevante.
In concreto,
per la Cassazione, qualsiasi intervento edilizio in zona sismica deve essere
previamente denunciato al competente ufficio al fine di consentire i
preventivi controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo. Conseguendone, in difetto, l'applicazione delle relative
sanzioni
(articolo ItaliaOggi del 06.09.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia,
deposito del progetto allo sportello unico del Comune sempre obbligatorio in
zona sismica.
In zona sismica va comunicato allo sportello unico del Comune, con deposito
del progetto, qualsiasi intervento edilizio. Si considera, cioè, a rischio
di impatto sulla stabilità della struttura tutto quello che non è
manutenzione ordinaria: non conta il materiale utilizzato, il tipo di opera
realizzata, la natura pertinenziale o precaria dell’intervento. Tutto è da
considerare potenzialmente a rischio.
Lo sottolinea la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 31.08.2018 n. 39335, allargando così
al massimo i confini dell’obbligo di comunicazione previsto dal Testo unico
edilizia (articolo 93 del Dpr 380/2001).
La vicenda
Il caso esaminato dai giudici riguardava movimenti terra, terrazzamenti e
sbancamenti che in zona sismica avevano fatto emergere un manufatto in
precedenza interrato: la linea di difesa degli imputati sottolineava che la
costruzione (il manufatto originario) era regolare e che l’intervento
edilizio non riguardava parti strutturali. L’opinione della Cassazione è,
però, diversa.
La norma intende salvaguardare la pubblica incolumità: la natura del
materiale usato e delle strutture realizzate è irrilevante. Altrettanto
irrilevante è, poi, la precarietà dell’intervento, perché la comunicazione
in questione è pensata per consentire un controllo preventivo da parte della
pubblica amministrazione su tutto ciò che è realizzato in zona sismica.
Con questo ragionamento, anche la realizzazione di una semplice pertinenza è
soggetta a comunicazione, così come la collocazione di un cartello stradale
(Cassazione 24086/2012). Le modalità di collocazione del manufatto, la
morfologia del sito, la pendenza del terreno, le caratteristiche delle
strutture di sostegno, possono infatti generare o accrescere una situazione
di pericolo.
Anche la trasformazione di un sottotetto in vano abitabile, in zona sismica,
esige quindi il deposito preventivo del progetto, poiché il concetto di
«costruzione» va esteso a qualsiasi intervento edilizio. Stesso discorso va
fatto, ad esempio, per l’apertura di finestre o per interventi su parti di
muratura che non siano strutturali: dovranno passare tutti dal deposito del
progetto.
La decisione
L’intervento della Cassazione chiarisce uno dei passaggi più contestati, in
fase applicativa, del Dpr 380/2001. In alcune Regioni, nella pratica
quotidiana, c’è stata la tendenza ad allargare il perimetro degli interventi
che non devono passare dal deposito sismico del progetto: la definizione di
legge, infatti, lascia ampio spazio alle interpretazioni. Per limitare
queste oscillazioni, i giudici adottano adesso un’impostazione semplice: la
comunicazione riguarda «qualsiasi intervento in zona sismica».
Peraltro, va sottolineato che in zona sismica c’è oltre il 70% dei Comuni
italiani. Chi non adempie a questo onere si espone a un’ammenda: l’omesso
preavviso d’inizio attività, in quanto reato istantaneo, si consuma nel
momento in cui inizia l’attività e si prescrive in cinque anni. Questa
impostazione, comunque, è allineata al parere della maggioranza dei tecnici:
gli interventi sulle parti non strutturali sono comunque ad alto rischio, in
zona sismica, e possono incidere sulla stabilità dell’edificio.
Vanno, per questo, tenuti sotto stretta osservazione. L’interpretazione più
rigorosa, allora, dovrebbe essere la base per la revisione del Testo unico
edilizia, al quale lavora ormai da mesi una commissione di
esperti: probabile che, in futuro, si vada per legge verso un’applicazione
molto più estesa delle pratiche di deposito sismico
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.09.2018).
---------------
MASSIMA
2. Occorre preliminarmente osservare che, secondo quanto è dato rilevare
dalla
sentenza impugnata e dal ricorso, unici atti ai quali questa Corte ha
accesso, i fatti
addebitati ai ricorrenti riguardano la realizzazione delle opere descritte
nel capo di
imputazione in violazione della disciplina antisismica.
Detti interventi hanno comportato, secondo quanto ritenuto dal giudice del
merito, la emersione, previo sbancamento del terreno, di tre lati,
precedentemente
interrati, di un preesistente edificio regolarmente assentito, con la
realizzazione di
un piazzale di circa 1.000 metri quadrati, il terrazzamento della parete di
terra
rimasta alle spalle di uno di tali tre lati e fino ad un'altezza di sei
metri e lo
spostamento di una rampa di accesso la fondo.
3. Tale ricostruzione è contestata in ricorso, segnatamente nel primo
motivo,
sostenendosi, in sintesi, la regolarità delle opere perché originariamente
assentite
quelle relative alla realizzazione del manufatto originario e non soggette a
titolo
abilitativo quelle successive, in quanto riguardanti interventi non
strutturali, non realizzati in cemento armato ed in parte resi necessari da
improvvisi e significativi
eventi atmosferici.
L'assunto è, tuttavia, manifestamente infondato, perché non tiene conto del
consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, la quale ha
ripetutamente delimitato l'ambito di applicazione della normativa sulle
costruzioni in
zona sismica con riferimento alla natura degli interventi realizzati.
Seppure, in un primo tempo, si sia affermato che la funzione di salvaguardia
della pubblica utilità perseguita porta ad escluderne l'applicazione per gli
interventi
che non interessano la pubblica incolumità, quali quelli di manutenzione
ordinaria o
straordinaria del patrimonio edilizio già esistente (Sez. 3, n. 10188 del
10/07/1981,
Filloramo, Rv. 150961), si è successivamente chiarito che la natura delle
opere è
irrilevante e ciò in quanto la violazione delle norme antisismiche richiede
soltanto
l'esecuzione di lavori edilizi in zona sismica (Sez. 3, n. 46081 del
8/10/2008,
Sansone, Rv. 241783). Il principio è stato successivamente ribadito (Sez.
3, n.
34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv. 248330).
Altrettanto inconferente è stata ritenuta la natura dei materiali usati e
delle
strutture realizzate, in quanto le disposizioni relative alla disciplina
antisismica
hanno una portata particolarmente ampia e si applicano a tutte le
costruzioni la cui
sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità (cfr. Sez. 3, n.
24086
del 11/4/2012, Di Nicola, Rv. 253056; Sez. 3, n. 6591 del 24/11/2011 (dep.
2012),
D'Onofrio, Rv. 252441; Sez. 3, n. 30224 del 21/6/2011, Floridia, Rv. 251284;
Sez. 3, n.
23076 del 27/4/2011, Coppa, non massimata; Sez. 3, n. 33767 del 10/5/2007,
Puleo,
Rv. 237375; Sez. 3, n. 38142 del 26/9/2001, Tucci, Rv. 220269).
È stata inoltre ritenuta irrilevante la eventuale precarietà
dell'intervento, attesa
la natura formale dei relativi reati ed il fine di consentire il controllo
preventivo, da
parte della pubblica amministrazione, di tutte le costruzioni realizzate in
zone
sismiche (Sez. 3 n. 23076/2011, cit.; Sez. 3, n. 38405 del 9/7/2008, Di
Benedetto, Rv.
241288; Sez. 3, n. 37322 del 03/07/2007, Borgia, Rv. 237842; Sez. 3, n. 48684
del
28/10/2003, Noto, Rv. 226561; Sez. 3, n. 33158 del 29/05/2002, Bianchini, Rv.
222254).
Per le stesse ragioni si è ritenuto non assuma neppure rilevo la natura
pertinenziale dell'intervento (Sez. 3, n. 7353 del
03/05/1995, Catanzariti, Rv.
202079).
In un caso, riguardante la collocazione di cartellonistica autostradale, si
è avuto
modo di precisare ulteriormente che anche interventi apparentemente «minori»
possono assumere concreto rilievo sul piano della pericolosità e che nella
valutazione relativa a tale aspetto concorrono, con l'elemento dimensionale,
anche
altri elementi, quali, ad esempio, le modalità di collocazione del
manufatto, la
morfologia del sito, la pendenza del terreno, le modalità di realizzazione
delle
strutture di sostegno, ecc. in quanto suscettibili di accrescere il grado di
pericolo per
l'incolumità pubblica. Aggiungendo, altresì, che
da tale valutazione non si
può
prescindere neppure per le zone in cui il grado di sismicità non sia
particolarmente
elevato (così Sez. 3 n. 24086/2012, cit.).
I richiamati principi sono stati successivamente ribaditi con riferimento a
muri
di semplice recinzione costruiti con "forati" (Sez. 3, n. 9126 del
16/11/2016 (dep.
2017), Aliberti, Rv. 269303) ed alla chiusura di una veranda mediante
mattoni del
medesimo tipo (Sez. 3, n. 48950 del
04/11/2015, Baio, Rv. 266033),
escludendosi
anche ogni possibilità di deroga per particolari categorie di opere
stabilite da
disposizioni amministrative regionali (Sez. 3, n. 19185 del 14/1/2015,
Garofano, Rv.
263376).
Si è anche espressamente escluso che l'applicabilità della disciplina
antisismica riguardi i soli edifici in cemento armato (Sez. 3, n. 48005 del
17/09/2014,
Gulizzi e altro, Rv. 261155; Sez. 3, n. 34604 del 17/06/2010, Todaro, Rv.
248330, cit.)
4. La sentenza impugnata non è, dunque, errata sul punto, risultando, al
contrario, perfettamente allineata ai principi sopra enunciati, mentre del
tutto errate
risultano le affermazioni contenute in ricorso.
Va conseguentemente ribadito che qualsiasi
intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno l'esecuzione di
opere in conglomerato cementizio amato, indipendentemente dalla natura dei
materiali usati, dalla tipologia delle strutture realizzate, dalla natura
pertinenziale o precaria, deve essere previamente denunciato al competente
ufficio al fine di consentire i preventivi controlli e necessita del
rilascio del preventivo titolo abilitativo, conseguendone, in difetto,
l'applicazione delle relative sanzioni, sfuggendo a tale disciplina solo gli
interventi di semplice manutenzione ordinaria. |
EDILIZIA PRIVATA: Opere
in area sismica.
Qualsiasi intervento edilizio in zona sismica, comportante o meno
l'esecuzione di opere in conglomerato cementizio amato, indipendentemente
dalla natura dei materiali usati, dalla tipologia delle strutture
realizzate, dalla natura pertinenziale o precaria, deve essere previamente
denunciato al competente ufficio al fine di consentire i preventivi
controlli e necessita del rilascio del preventivo titolo abilitativo,
conseguendone, in difetto, l'applicazione delle relative sanzioni, sfuggendo
a tale disciplina solo gli interventi di semplice manutenzione ordinaria
(Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 31.08.2018 n. 39335). |
EDILIZIA PRIVATA: Reati
edilizi, responsabile il proprietario del fondo.
Responsabile per i reati edilizi il proprietario del fondo sul quale sono
stati effettuati lavori in assenza di autorizzazione salvo che abbia negato
il consenso.
La Corte di Cassazione, Sez. III penale, con
sentenza
31.08.2018 n. 39313
ha esaminato la questione della ripartizione delle responsabilità, nel caso
di reati commessi nel corso di lavori edilizi.
Viene presa in considerazione ed esaminata la posizione della proprietaria
di un terreno non committente, a seguito della contestazione della
violazione del dpr n. 380/2001 per avere consentito, che sul suo fondo
venisse realizzato uno stabile senza autorizzazione. Assumeva la ricorrente,
che la decisione della Corte d'Appello, era infondata, posto che la sua
responsabilità era insussistente nei fatti, ed era stata dedotta dalla sua
posizione di proprietaria del fondo sul quale era stato edificato lo
stabile.
La Corte suprema, tuttavia ha ritenuto il motivo infondato
rigettando il relativo ricorso sulla base delle seguenti argomentazioni.
dapprima, viene ricordata la giurisprudenza prevalente della stessa Corte
suprema di cassazione, in materia di abusi edilizi conseguenti al difetto di
autorizzazioni amministrative, la quale vuole che la responsabilità del
proprietario non committente, possa essere esclusa, nel solo caso in cui sia
possibile dimostrare che egli abbia palesemente negato il consenso alle
attività sul suo fondo.
È pacifico, ad avviso degli ermellini, che la responsabilità del
proprietario non committente del fondo possa essere desunta anche da
elementi di mero valore indiziario, quali ad esempio l'interesse alla
realizzazione dell'opera, ovvero la presenza in loco dello stesso durante
l'esecuzione dei lavori, od ancora l'esistenza di rapporti di parentela, con
chi materialmente aveva eseguito l'opera. Nel caso di specie poi la
proprietaria del fondo, era effettivamente legata da un rapporto di coniugio
con l'esecutore dei lavori e aveva comunque la piena disponibilità del fondo
sul quale erano stati eseguiti i lavori, trovandosi addirittura in loco al
momento di esecuzione degli stessi
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2018).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorso è basato su motivo manifestamente infondato.
2. Va ricordato che la giurisprudenza di questa Corte Suprema si è
stabilmente assestata nell'affermare che in tema di reati edilizi, ai fini
del
disconoscimento del concorso del proprietario del terreno non committente
dei
lavori nel reato previsto dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44 è necessario
escludere l'interesse o il suo consenso alla commissione dell'abuso edilizio
ovvero
dimostrare che egli non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione
(così
questa sez. 3, n. 33540 del 19.06.2012, Pmt in proc. Grillo ed altri Rv.
253169;
conforme sez. 4 n. 19714 del 3.2.2009, Izzo F., Rv. 243961).
Questa Corte di
legittimità non ritiene sufficiente, per escludere il concorso nel reato,
che il
proprietario del terreno non abbia commissionato materialmente i lavori.
Perché
il proprietario non committente vada esente da responsabilità occorre
qualcosa
in più e, cioè, che dagli atti emerga che lo stesso non abbia interesse
all'abuso e
non sia stato nelle condizioni di impedirne l'esecuzione.
E', dunque, pacifico che in tema di reati edilizi, l'individuazione del
comproprietario non committente quale soggetto responsabile dell'abuso
edilizio
può essere desunta da elementi oggettivi di natura indiziaria: piena
disponibilità
giuridica e di fatto del suolo, interesse specifico ad edificare la nuova
costruzione, rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera
abusiva
ed il proprietario; eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante
l'effettuazione dei lavori; lo svolgimento di attività di materiale
vigilanza
sull'esecuzione dei lavori; la richiesta di provvedimenti abilitativi anche
in
sanatoria; il regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in
definitiva, di
tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui
possano
trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione,
anche
morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione
finale
della stessa (Sez. 3, 27.09.2000, n. 10284, Cutaia;
03.05.2001, n. 17752, Zorzi;
10.08.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.04.2003, n. 18756, Capasso; 02.03.2004, n.
9536, Mancuso; 28.05.2004, n. 24319, Rizzuto; 12.01.2005, n. 216, Fucciolo;
15.07.2005, n. 26121, Rosato; 02.09.2005, n. 32856, Farzone; Sez. 3, n. 39400
del
21/03/2013, Rv. 257676; Sez.3, n. 52040 del 11/11/2014, Rv. 261522).
Inoltre, è stato affermato che la valutazione del comproprietario non
committente quale soggetto responsabile dell'abuso edilizio si sottrae al
sindacato di legittimità della Suprema Corte, in quanto comporta un giudizio
di
merito che non contrasta né con la disciplina in tema di valutazione della
prova
né con le massime di esperienza (sez. 3, n. 35631 dell'11.07.2007, Leone ed
altri,
Rv. 237391). |
PATRIMONIO: Va
indennizzato chi si infortuna andando al lavoro in bici. Corte di
cassazione.
Chi s'infortuna in bici per andare al lavoro ha sempre diritto al
risarcimento dell'Inail. Perché l'uso della bici è da ritenersi sempre
necessitato, equiparato cioè a quello del mezzo pubblico o al percorso a
piedi.
Lo stabilisce la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la
sentenza 31.08.2018 n. 21516.
La questione. La
Corte di cassazione è chiamata a decidere una causa tra un lavoratore e l'Inail,
con il primo che ha impugnato la sentenza della Corte di appello ritenendo
illegittimo il rigetto della sua richiesta di condanna dell'Inail a
riconoscergli l'indennizzo per una menomazione dell'8% sofferta in seguito
all'infortunio capitatogli nel corso del tragitto casa-lavoro percorso in
bicicletta. La Corte di appello ha ritenuto che l'uso della bici, quale
mezzo privato, non fosse «necessitato» (che è la condizione fondamentale
affinché sia possibile il riconoscimento della tutela Inail, in caso di
utilizzo di mezzi non pubblici).
Infortunio in itinere.
La tutela dell'infortunio in itinere è disciplinata dall'art. 12 del dlgs n.
38/2000 e prevede che l'Inail tuteli i lavoratori nel caso d'infortuni
avvenuti durante il normale tragitto di andata e ritorno tra l'abitazione e
il luogo di lavoro. L'infortunio in itinere può verificarsi, inoltre, nel
normale percorso che il lavoratore deve fare per recarsi da un luogo di
lavoro a un altro, nel caso di rapporti di lavoro plurimi, oppure durante il
tragitto abituale per la consumazione dei pasti, se non esiste una mensa
aziendale.
Qualsiasi modalità di spostamento è compresa nella tutela (mezzi pubblici, a
piedi ecc.) a patto che siano verificate le finalità lavorative, la
normalità del tragitto e la compatibilità degli orari. Al contrario, il
tragitto effettuato con uso di un mezzo privato è coperto dalla tutela dell'Inail
solo e soltanto se tale uso è «necessitato». In ogni caso, invece, è
prevista l'esclusione della tutela in «caso d'interruzione o deviazione del
tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate», per tali
intendendosi quelle non dovute a cause di forza maggiore, di esigenze
essenziali e improrogabili o dall'adempimento di obblighi penalmente
rilevanti.
La decisione.
Tornando alla vicenda giudiziaria, la Corte di cassazione dà ragione al
lavoratore: la Corte di appello non ha adeguatamente interpretato la nozione
di «utilizzo necessitato». Tal è, spiega la Cassazione, l'uso determinato da
ragioni d'impedimento per la percorrenza a piedi del tragitto casa-lavoro e
viceversa. Per ragioni d'impedimento devono intendersi non solo le
situazioni in cui l'impossibilità è assoluta, ma anche quelle in cui la
deambulazione sia motivo di pena e di eccesso di fatica (come nel caso del
lavoratore interessato alla causa), oltre che di rischio per l'integrità
psicofisica, alla luce dei principi di tutela della dignità della persona
(ex art. 2 della carta costituzionale).
Peraltro, aggiunge ancora la Cassazione, l'uso della bici per il tragitto
casa-lavoro e viceversa può essere consentito anche «secondo un canone di
necessità relativa, ragionevolmente valutato in relazione al costume
sociale, e per tutelare l'esigenza di raggiungere in modo riposato e disteso
i luoghi di lavoro in funzione di una maggiore gratificazione dell'attività
svolta». Soprattutto però, conclude la Corte di cassazione, l'uso della
bicicletta deve ormai intendersi sempre necessitato per quanto previsto
all'art. 5, comma 5, della legge n. 221/2015, vale a dire «per i positivi
riflessi ambientali». La bici, in altre parole, è da considerarsi mezzo
pubblico e non mezzo privato
(articolo ItaliaOggi dell'01.09.2018). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Rimborso
illegittimo se sotto i minimi.
È illegittimo liquidare i rimborsi spese dei legali in fase di ricorso al di
sotto dei minimi stabiliti per legge.
Lo spiega la II Sez. civile della Suprema corte di Cassazione, nella
sentenza 31.08.2018 n. 21487, in cui i
legali avevano impugnato la sentenza dei giudici di secondo grado per aver
liquidato il rimborso spese corrispettivo ben al di sotto dei minimi
tabellari.
Una somma che ammontava a 900 euro per la fase di rinvio, giudicata al di
sotto del valore della causa che oscillava tra 1.000 e 5mila euro circa. In
particolare la vicenda si lega al un decreto che Ministero della giustizia
(n. 55 del 10.03.2014) nella parte in cui determina un limite minimo ai
compensi previsti, che non può considerarsi derogativo del decreto n. 140,
emesso dallo stesso Ministero il 20.07.del 2012, il quale, «stabilendo
in via generale i compensi di tutte le professioni vigilate dal Ministero
della giustizia, al suo art. 1, comma 7, dispone che in nessun caso -si
legge nella memoria prodotta dai legali- le soglie numeriche indicate,
anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la
liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate,
sono vincolanti per la liquidazione stessa».
Questa ammissione, tuttavia,
non è stata accolta dalla Corte perché «il dm n. 140 risulta essere stato
emanato (dl n. 1/2012, conv. nella legge n. 27/2012) allo scopo di favorire
la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, adempiendo alle
indicazioni della Ue, a tal fine rimuovendo i limiti massimi e minimi, così
da lasciare le parti contraenti (nella specie, l'avvocato e il suo
assistito) libere di pattuire il compenso per l'incarico professionale; per
contro, il giudice resta tenuto ad effettuare la liquidazione giudiziale nel
rispetto dei parametri previsti dal dm n. 55, il quale non prevale sul dm n.
140 per ragioni di mera successione temporale, bensì nel rispetto del
principio di specialità».
E i porporati di piazza Cavour, esaminando in
punto di diritto le lamentele dei professionisti, accolsero la richiesta dei
legali e anche le motivazioni di contrasto tra i due decreti ministeriali
circa il rimborso spese da erogare
(articolo ItaliaOggi Sette del 17.09.2018). |
EDILIZIA PRIVATA: Abusi
edilizi da demolire.
L'ordine di demolizione di un immobile costruito abusivamente va sempre
emesso. La possibilità di sostituire la demolizione di un edificio abusivo
col pagamento di una multa deve essere valutata nella fase esecutiva del
procedimento. In concreto, l'amministrazione comunale deve emettere l'ordine
di demolizione e poi valutare se, nel caso concreto, è più opportuna una
sanzione pecuniaria.
Il principio di diritto è stato espresso dal Consiglio di Stato -Sez. IV-
con la
sentenza 31.08.2018 n. 5128. I giudici di palazzo Spada spiegano
quando la multa può sostituire una demolizione.
Il fatto in sintesi. Il comune respingeva una richiesta di condono,
presentata dopo l'ampliamento di un immobile e ordinava il ripristino dello
stato dei luoghi. I proprietari dell'immobile sostenevano che, invece
dell'ordine di demolizione, il comune avrebbe dovuto irrogare una sanzione
pecuniaria
(articolo ItaliaOggi del 14.09.2018).
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MASSIMA
9.4. Con il terzo motivo d’appello si lamenta che il Tribunale ha
trascurato la disamina della deduzione relativa alla violazione e falsa
applicazione dell’art. 34 del d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia)
insistendo quindi per il suo accoglimento.
9.4.1. Preliminarmente il Collegio rileva che un’eventuale omissione di
pronuncia su una o più delle censure articolate con il ricorso di primo
grado non giustifica la rimessione della causa al primo giudice ai sensi
dell’art. 105 c.p.a..
Infatti, secondo la giurisprudenza consolidata del giudice di appello -che
la Sezione condivide e fa propria- “Nel processo amministrativo l'omessa
pronuncia, da parte del giudice di primo grado, su censure e motivi di
impugnazione costituisce tipico errore di diritto per violazione del
principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in
sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all'
art. 112 c.p.c. , che è applicabile al processo amministrativo con il
correttivo secondo il quale l'omessa pronuncia su un vizio del provvedimento
impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della
sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché
essa può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non
essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la
decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da
un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile; peraltro,
l'omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso
giurisdizionale non configura un error in procedendo, tale da comportare
l'annullamento della decisione, con contestuale rinvio della controversia al
giudice di primo grado ex art. 105, comma 1, c.p.a., ma solo un vizio
dell'impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad
eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul
merito della causa; non rientrando l'omessa pronuncia da parte del giudice
di primo grado su un motivo del ricorso, nei casi tassativi di annullamento
con rinvio, ne consegue che, in forza del principio devolutivo (art. 101,
comma 2 c.p.a .), il Consiglio di Stato decide, nei limiti della domanda
riproposta, anche sui motivi di ricorso non affrontati dal giudice di prime
cure” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 07.02.2018, n. 782).
9.4.2. Fatta questa doverosa premessa, si deve ravvisare l’infondatezza del
rilievo in esame, col quale si assume che l’Amministrazione, ai sensi
dell’art. 34 cit., avrebbe omesso la doverosa preventiva verifica circa la
materiale possibilità di demolire senza pregiudizio delle parti del
fabbricato edificate legittimamente, in quanto, come da costante
orientamento di questo Consiglio, “La possibilità di
sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere
valutata dall'Amministrazione competente nella fase esecutiva del
procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: il
dato testuale della legge è univoco ed insuperabile, in coerenza col
principio per il quale, accertato l'abuso, l'ordine di demolizione va
senz'altro emesso” (cfr. Cons.
Stato, sez. VI, 23.11.2017 n. 5472).
Inoltre l’art. 34 invocato dall’appellante disciplina gli
interventi alle opere realizzate in parziale difformità dal permesso di
costruire, prevedendo al secondo comma che "quando la demolizione non può
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente
o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo
di produzione"; la norma presuppone che vengano in rilievo gli stessi
lavori edilizi posti in essere a seguito del rilascio del titolo e in
parziale difformità da esso e non è quindi applicabile alle opere realizzate
senza titolo per ampliare un manufatto preesistente
(cfr. Cons. Stato, sez. VI, 01.06.2016, n. 2325; n. 3371 cit.). |
EDILIZIA PRIVATA: L'onere
della prova circa l'ultimazione dei lavori entro la data utile per ottenere
il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal momento che solo
l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi
probatori che siano in grado di radicare la ragionevole certezza dell'epoca
di realizzazione di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro
il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso.
---------------
Una perizia di parte, ancorché giurata, non è dotata di efficacia probatoria
e pertanto non è qualificabile come mezzo di prova.
---------------
Ai sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30.09.2003, convertito con
modificazioni nella l. 24.11.2003, n. 326, devono intendersi espressamente
escluse dal condono edilizio le opere che siano state realizzate su immobili
soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela
degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e
paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e
provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in
assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle
norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici.
---------------
9. L’appello, discusso all’udienza pubblica del 19.07.2018, non merita
accoglimento.
9.1. Col primo motivo d’appello, come sinteticamente esposto in
narrativa, l’appellante critica la sentenza impujgnata evidenziando
l’erroneità della statuizione di merito del Tribunale in ordine
all’infondatezza delle censura, avente rilievo centrale nell’economia del
ricorso di primo grado, della preesistenza delle opere rispetto
all’imposizione del vincolo di inedificabilità di cui al P.T.P. del 1999,
richiamato dall’Amministrazione in sede di diniego.
L’appellante soggiunge che il vincolo paesaggistico, interessante l’intero
territorio comunale, introdotto ai
sensi della legge n. 1497 del 1939 con il D.M. del 1957, non avrebbe
carattere ostativo secondo quanto previsto dall’art. 32 della legge n. 47
del 1985.
9.1.1. La disamina del rilievo sollevato dall’appellante non può prescindere
dalla preliminare ricognizione del criterio distributivo dell’onere della
prova; sul punto, secondo consolidato orientamento di questo Consiglio, vale
il principio secondo cui “L'onere della prova circa l'ultimazione dei
lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul richiedente la
sanatoria, dal momento che solo l'interessato può fornire inconfutabili
atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di radicare la
ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto e, in
difetto di tali prove, resta integro il potere dell'Amministrazione di
negare la sanatoria dell'abuso” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22.03.2018,
n. 1837; 19.03.2018, n. 1711; 05.03.2018, n. 1391; 11.10. 2017, n. 4703).
9.1.2. Orbene, alla luce di tale criterio, che risulta peraltro coerente con
il principio della vicinanza della prova ormai unanimemente riconosciuto,
assume rilievo dirimente il mancato raggiungimento della dimostrazione circa
l’anteriorità dell’intervento oggetto di condono alla data in cui è stata
introdotta la disciplina vincolistica richiamata in seno alla motivazione
del diniego, e ciò in considerazione delle risultanze che provengono dalla
stessa documentazione versata in atti.
Difatti quanto evidenziato dall’appellante ai fini della sospirata
retrodatazione delle opere non è in grado di superare l’univoco valore
probatorio del provvedimento di sequestro del 29.11.2002, col quale la
Polizia Municipale di Pozzuoli attestava, a quella data, l’esecuzione di
opere edilizie in corso di realizzazione (“parzialmente intonacato e con
predisposizione di impianto elettrico e porte scrigno”).
Circa la collocazione temporale delle opere abusive in questione, la parte
appellante si è infatti limitata a ricorrere ad affermazioni del tutto
generiche (“durante gli anni ottanta vennero effettuate alcune opere di
chiusura perimetrale”) ovvero a richiamare la perizia giurata del
21.07.1990 già prodotta in prime cure.
Fermo restando che una perizia di parte, ancorché giurata, non è dotata di
efficacia probatoria e pertanto non è qualificabile come mezzo di prova (Cons.
giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 20.11.2014, n. 640), la relazione
peritale in questione si limita a valorizzare sul piano documentale quanto
descritto nella relazione tecnica asseverata del 21.07.1990, ove si dichiara
al Comune di Pozzuoli, allegando documentazione fotografica, l’intenzione di
eseguire sull’immobile, tra i vari interventi ivi descritti, la
realizzazione di “nuovi intonaci alle murature esterne di chiusura del
loggiato”.
L’insufficienza di tale documentazione si deve innanzitutto al fatto che
trattasi di una semplice
manifestazione di volontà proveniente dalla stessa parte interessata
(segnatamente il signor Pr.Ba., padre dell’appellante) in quanto tale priva
di ogni attitudine probatoria. Inoltre, la consistenza delle opere descritte
nel citato verbale di sequestro non comprende soltanto la tompagnatura del
loggiato ma anche la “realizzazione di un manufatto in aderenza ad una
preesistenza edilizia le cui dimensioni risultano essere 6x3x5”
assumendo così caratteristiche diverse da quelle descritte nella menzionata
dichiarazione.
La portata probatoria di tale reperto documentale non può essere inficiata
da generiche ed irrituali contestazioni, formulate dall’appellante circa
l’erroneità della descrizione dei luoghi in esso contenuta, trattandosi di
un atto pubblico assistito da fede privilegiata ai sensi dell'art. 2700 c.c.
e pertanto, in assenza di querela di falso, idoneo a fornire piena prova.
9.1.3. Considerata la mancata dimostrazione circa l’esatta collocazione
temporale della consumazione dell’illecito edilizio non può non tenersi
conto della data cui risale la domanda di condono dell’appellante, ovverosia
il 14.12.2004, con la conseguenza che essa si inquadra nella cornice
normativa della legge n. 326 del 2003, c.d. terzo condono edilizio, al fine
di verificare la sussistenza dei presupposti di legge per il suo
accoglimento.
9.2. Ordunque, nel prevedere la sanabilità degli abusi edilizi, la legge n.
326 del 2003 ha circoscritto l’ambito applicativo del condono rispetto a
quello previsto dalla legge n. 47 del 1985, contenente la disciplina
generale in materia, e dall’art. 39 della legge 23.12.1994, n. 724. In
particolare, sono rimasti esclusi dalla sanabilità gli abusi edilizi
realizzati nelle zone vincolate o in violazione degli strumenti urbanistici
(art. 32, commi 26 e 27).
Nel caso di specie, l’opera abusiva insiste sul territorio del Comune di
Pozzuoli, che nella sua interezza è stato dichiarato di “notevole
interesse pubblico” con D.M. del 12.09.1957. Inoltre ogni opera
realizzata su detto territorio che comporti la creazione di volumi, ricade
in area sottoposta ai vincoli di Protezione Integrale del P.T.P.. Le opere
oggetto della domanda di sanatoria avanzata dall’appellante, quindi, sono
state realizzate su un territorio sottoposto a vincolo paesaggistico e
comportano un indubbio aumento volumetrico risultando così per entrambe tali
ragioni non condonabili.
9.2.1. Per il primo profilo, questa Sezione ha avuto modo di rilevare che “Ai
sensi dell'art. 32, comma 27, lett. d), d.l. 30.09.2003, convertito con
modificazioni nella l. 24.11.2003, n. 326, devono intendersi espressamente
escluse dal condono edilizio le opere che siano state realizzate su immobili
soggetti a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela
degli interessi idrogeologici e delle falde acquifere, dei beni ambientali e
paesistici, nonché dei parchi e delle aree protette nazionali, regionali e
provinciali qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in
assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle
norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici” (cfr.
sez. IV, 12.03.2018, n. 1528).
Ne consegue che il D.M. del 1957 assume autonomo carattere ostativo ai fini
dell’ammissibilità a condono delle opere de quibus, trattandosi di un
vincolo senz’altro introdotto prima dell’esecuzione dell’intervento
edilizio.
9.2.2. La rilevanza plano-volumetrica di questo a sua volta assume rilievo
ostativo, in quanto ai sensi dell’art. 32, comma 26, del d.l. n. 269 del
2003 convertito nella legge n. 326 del 2003, gli interventi edilizi
effettuati su immobili situati in territori sottoposti a vincoli di notevole
interesse pubblico paesaggistico possono essere condonati solo se siano
consistiti in interventi minori quali opere di restauro, di risanamento
conservativo e di manutenzione straordinaria.
9.2.3. Conclusivamente, l’abuso edilizio in questione non è suscettibile di
essere condonato secondo le disposizioni della normativa di riferimento
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.08.2018 n. 5128 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La repressione di abusi edilizi costituisce un atto vincolato, la
cui motivazione soddisfa i requisiti di legge anche quando si riduce
all’affermazione dell’accertata irregolarità dell’intervento, risultando
superflua ogni specifica comparazione tra l’interesse pubblico e gli
interessi privati coinvolti o sacrificati.
La natura vincolata del potere esercitato comporta inoltre
che non sia dovuta la previa comunicazione dell’avvio del procedimento.
----------------
L’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato
esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una
specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico
alla rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi,
l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa
ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal
legislatore. In ragione della natura vincolata dell’ordine di demolizione,
non è pertanto necessaria la preventiva comunicazione di avvio del
procedimento, né
un'ampia motivazione.
Né può rilevare la circostanza relativa al decorso di un notevole lasso di
tempo dalla commissione dell’abuso, in quanto “La
repressione degli abusi edilizi costituisce espressione di attività
strettamente vincolata, potendo la misura repressiva intervenire in ogni
tempo, anche a notevole distanza dall'epoca della commissione dell'abuso.
Non sussiste quindi alcuna necessità di motivare in modo particolare un
provvedimento col quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto,
quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione
dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché
l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre
la realizzazione e il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva
si concretizza in una volontaria attività del privato "contra legem"”.
---------------
Nemmeno può configurarsi la violazione delle
garanzie procedimentali integrate dall’art. 10-bis della legge n. 241 del
1990, norma che l’appellante assume obliterata ai fini dell’adozione del
provvedimento di diniego della domanda di condono, in quanto, per le
suesposte ragioni che hanno condotto alla reiezione delle critiche sollevate
dall’appellante, non si configura la possibilità di un qualsiasi apporto
collaborativo, capace di condurre ad una diversa conclusione della vicenda.
La ricaduta patologica di tale lamentata violazione è quindi sterilizzata
dall’applicazione dell’art. 21-octies del medesimo corpus normativo, norma
che ben si attaglia anche alla pretermissione del preavviso di diniego.
---------------
9.4.3. Destituiti di fondamento sono anche gli ultimi due motivi d’appello,
suscettibili per il loro tenore di trattazione congiunta, coi quali si
lamenta il difetto di motivazione, anche in punto di interesse pubblico, e
di partecipazione procedimentale.
9.4.4. Occorre premettere che ai sensi dell’art. 27, comma 2, del d.P.R. n.
380 del 2001 il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale,
accertato l’inizio o l’esecuzione di opere eseguite senza titoli su aree
vincolate, provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi.
La norma fonda quindi un potere che l’Amministrazione è chiamata ad
esercitare senza la previsione di alcun margine di discrezionalità.
In data 30.03.2009, facendo seguito alla richiesta di condono avanzata
dall’appellante, il Comune di Pozzuoli adottava un provvedimento, con il
quale la richiesta era dichiarata “irricevibile e improcedibile” e si
ordinava il ripristino dello stato dei luoghi, secondo quando previsto
dall’art. 27, co. 2 cit..
9.4.5. In sede motivazionale l’Amministrazione evidenziava che l’abuso
edilizio insisteva su un territorio dichiarato sin dal 1957 di notevole
interesse pubblico nonché il fatto che “l’area interessata in riferimento
al P.R.G. vigente ricade in zona – M12 – Parco archeologico naturale del
lago d’Averno, del lago Lucrino e del Monte Nuovo la cui normativa è
riportata all’art. 59 delle norme di attuazione annesse a detto piano che
non consente tale tipo di intervento. In riferimento al P.T.P. vigente
l’area ricade in zona P.I. Protezione Integrale regolamentata dall’art. 11
delle norme di tutela che vieta qualsiasi intervento che comporti incremento
dei volumi esistenti”. L’intervento edilizio era quindi ritenuto “non
assentibile ai sensi dell’art. 36 T.U. del testo unico e non è per niente
configurabile in alcuna delle ipotesi di condono”.
9.4.6. La formula sintattica che accompagna il provvedimento risulta quindi
ampiamente articolata e dalla indubbia efficacia ostensiva, con conseguente
insussistenza del lamentato difetto motivazionale, evidenziandosi il
contrasto delle opere sia con la disciplina urbanistica che paesaggistica
così come esattamente individuate.
Per costante e consolidato orientamento di questa Sezione la repressione di
abusi edilizi costituisce un atto vincolato, la cui motivazione soddisfa i
requisiti di legge anche quando si riduce all’affermazione dell’accertata
irregolarità dell’intervento, risultando superflua ogni specifica
comparazione tra l’interesse pubblico e gli interessi privati coinvolti o
sacrificati (Cons. Stato, Sez. IV, 27.04.2004, n. 2529; recentemente
28.02.2017, n. 908).
9.4.7. La vista natura vincolata del potere esercitato comporta inoltre che
non sia dovuta la previa comunicazione dell’avvio del procedimento.
Ma l’infondatezza dei rilievi afferenti al difetto di motivazione ed alla
obliterazione delle garanzie procedimentali si deve anche all’insegnamento
della recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la
prima applicazione fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595
nonché Cons. Stato n. 2799 del 2018), secondo cui “l’ordine
di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza
di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la
ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso. In
sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione
ha il dovere di adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore. In ragione della
natura vincolata dell’ordine di demolizione, non è pertanto necessaria la
preventiva comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis, Cons.
Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né un'ampia motivazione”.
Né può rilevare la circostanza relativa al decorso di un notevole lasso di
tempo dalla commissione dell’abuso, in quanto “La repressione degli abusi
edilizi costituisce espressione di attività strettamente vincolata, potendo
la misura repressiva intervenire in ogni tempo, anche a notevole distanza
dall'epoca della commissione dell'abuso. Non sussiste quindi alcuna
necessità di motivare in modo particolare un provvedimento col quale sia
stata ordinata la demolizione di un manufatto, quando sia trascorso un lungo
periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data
dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela
l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione e
il consapevole mantenimento in loco di un'opera abusiva si concretizza in
una volontaria attività del privato "contra legem"” (cfr. Cons. Stato,
sez. VI, 03.10.2017, n. 4580).
9.4.8. Nemmeno può configurarsi la violazione delle garanzie procedimentali
integrate dall’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, norma che
l’appellante assume obliterata ai fini dell’adozione del provvedimento di
diniego della domanda di condono, in quanto, per le suesposte ragioni che
hanno condotto alla reiezione delle critiche sollevate dall’appellante, non
si configura la possibilità di un qualsiasi apporto collaborativo, capace di
condurre ad una diversa conclusione della vicenda. La ricaduta patologica di
tale lamentata violazione è quindi sterilizzata dall’applicazione dell’art.
21-octies del medesimo corpus normativo, norma che ben si attaglia
anche alla pretermissione del preavviso di diniego (Cons. Stato,
sez. IV, 16.06.2017, n. 2953).
10. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.08.2018 n. 5128 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
presentazione della domanda di accertamento di conformità,
ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi
dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque,
non determina l'inefficacia sopravvenuta dell'ingiunzione di
demolizione emessa.
Si afferma più precisamente che la presentazione
dell'istanza di sanatoria non determina l’improcedibilità,
per sopravvenuta carenza d'interesse, dell’impugnazione
proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta,
tuttalpiù, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura
repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di
rigetto della domanda di sanatoria.
Infatti, se si
sostenesse che l’amministrazione, nell'ipotesi in cui debba
operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di
accertamento di conformità, avesse l'obbligo di riadottare
l’ordinanza di demolizione, ciò equivarrebbe a riconoscere
in capo a un soggetto privato, destinatario di un
provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
---------------
8.3. Infondato è anche il secondo motivo d’appello, col quale, nel
contestare la legittimità del contestuale ordine demolitorio,
si lamenta la mancata riattivazione del procedimento
sanzionatorio con conseguente pretesa violazione delle
regole procedimentali, censura sulla quale il Tribunale non
si sarebbe adeguatamente soffermato.
8.3.1. Anche tale critica non può essere condivisa in quanto
il Tar, nel disattendere tale deduzione, ha
opportunamente richiamato l’orientamento giurisprudenziale,
coltivato anche da questo Consiglio, secondo cui “La
presentazione della domanda di accertamento di conformità,
ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi
dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque,
non determina l'inefficacia sopravvenuta dell'ingiunzione di
demolizione emessa” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3417).
Si afferma più precisamente che la
presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l’improcedibilità,
per sopravvenuta carenza d'interesse, dell’impugnazione
proposta avverso l’ordinanza di demolizione, ma comporta,
tuttalpiù, un arresto temporaneo dell’efficacia della misura
repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso di
rigetto della domanda di sanatoria. Infatti, se si
sostenesse che l’amministrazione, nell'ipotesi in cui debba
operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di
accertamento di conformità, avesse l'obbligo di riadottare
l’ordinanza di demolizione, ciò equivarrebbe a riconoscere
in capo a un soggetto privato, destinatario di un
provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento (Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2018, n.
1171).
Dal diniego di sanatoria, quindi, non consegue la
necessità di innescare un nuovo iter procedimentale, come
assume l’appellante, inteso alla riedizione del potere
sanzionatorio, con conseguente infondatezza del rilievo
sollevato che appunto postula tale (insussistente) necessità (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.08.2018 n. 5124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Nell'ingiunzione di demolizione è necessaria e
sufficiente l'analitica descrizione delle opere abusivamente
realizzate, in modo da consentire al destinatario della
sanzione di rimuoverle spontaneamente, ogni altra
indicazione esulando dal contenuto tipico del provvedimento,
non occorrendo in particolare anche la descrizione precisa
della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe
essere confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione;
elementi questi, invece, necessariamente afferenti alla
successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio
comunale.
---------------
8.3.2. Nel contesto di altro profilo di censura,
l’appellante lamenta altresì la mancata individuazione
dell’area di sedime da acquisire in caso di inottemperanza,
ma trattasi di motivo inammissibile per violazione del
divieto di nova in appello, ex art. 104, comma 2, c.p.a., non
rinvenendosi una censura di siffatto tenore nel libello
introduttivo della lite.
Il rilievo è comunque destituito di
fondamento, in quanto, come da consolidato orientamento di
questo Consiglio, “Nell'ingiunzione di demolizione è
necessaria e sufficiente l'analitica descrizione delle opere
abusivamente realizzate, in modo da consentire al
destinatario della sanzione di rimuoverle spontaneamente,
ogni altra indicazione esulando dal contenuto tipico del
provvedimento, non occorrendo in particolare anche la
descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata
spontanea esecuzione; elementi questi, invece,
necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di
gratuita acquisizione al patrimonio comunale” (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 11.12.2017, n. 5788) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.08.2018 n. 5124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione è
un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza
di opere abusive e non richiede una specifica motivazione
circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla
rimozione dell’abuso.
In sostanza, verificata la sussistenza dei manufatti
abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di adottarlo,
essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e
quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento.
---------------
8.4. Infondato è anche il terzo motivo d’appello, col quale
si ripropone il quarto motivo del ricorso di primo grado
(pagina 6), ove si contesta la pronuncia di primo grado in
ordine alla statuizione reiettiva della censura del difetto
di avviso dell’avvio procedimentale ex art. 7 della legge n.
241 del 1990, in quanto tale modulo partecipativo, come
correttamente rilevato dal Tribunale, non si attaglia ai
procedimenti ad istanza di parte.
Ad opinare diversamente,
infatti, “l'avviso dell'avvio sarebbe una mera duplicazione
di attività” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 08.09.2003, n.
5034) e comunque il rilascio dell’accertamento di conformità
urbanistica, richiedendo solo la verifica delle possibili
ragioni di contrasto con la relativa disciplina, non implica
l’espletamento di apprezzamenti di natura discrezionale che
possano giovarsi del contributo partecipativo
dell’interessato.
8.4.1. Né residuano margini in favore dell’applicazione del
principio partecipativo nel procedimento che conduce
all’emissione dell’ordine demolitorio, in quanto, come ha
avuto modo di rilevare la giurisprudenza di questo Consiglio
(in particolare la recente Adunanza plenaria 17.10.2017, n. 9; successivamente si veda la prima applicazione
fattane da Cons. Stato, sez. IV, 29.11.2017, n. 5595
nonché Cons. Stato n. 2799/2018), “l’ordine di demolizione è
un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza
di opere abusive e non richiede una specifica motivazione
circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla
rimozione dell’abuso. In sostanza, verificata la sussistenza
dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di
adottarlo, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse
pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore.
In ragione della natura vincolata dell’ordine di
demolizione, non è pertanto necessaria la preventiva
comunicazione di avvio del procedimento (cfr. ex multis,
Cons. Stato, sez. IV, 12.12.2016, n. 5198), né
un'ampia motivazione”.
9. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere
respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.08.2018 n. 5124 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
presentazione della domanda di accertamento di conformità,
ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi
dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque,
non determina l'inefficacia sopravvenuta dell'ingiunzione di
demolizione emessa.
Si afferma più precisamente che la
presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l’improcedibilità,
per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione
proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta,
tutt’al più, un arresto temporaneo dell'efficacia della
misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso
di rigetto della domanda di sanatoria.
Infatti, se si
sostenesse che l'amministrazione, nell'ipotesi in cui debba
operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di
accertamento di conformità, avesse l'obbligo di riadottare
l'ordinanza di demolizione, ciò equivarrebbe a riconoscere
in capo a un soggetto privato, destinatario di un
provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento.
Dal diniego di sanatoria, quindi, non consegue la
necessità di innescare un nuovo iter procedimentale, come
assume l’appellante, inteso alla riedizione del potere
sanzionatorio, con conseguente infondatezza del rilievo
sollevato che appunto postula tale (insussistente)
necessità.
---------------
L'ingiunzione di demolizione di un manufatto abusivo, emessa
successivamente all'adozione di un diniego di concessione
edilizia in sanatoria, non necessita del previo avviso di
avvio del procedimento amministrativo ex art. 7, l.
07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto vincolato e meramente
conseguenziale nell'ambito di un procedimento sanzionatorio
sostanzialmente unitario.
---------------
Non sussiste la pretermissione del diaframma dialogico
costituito dall’avviso di avvio procedimentale ex art. 7
della legge n. 241 del 1990 nell’ambito del procedimento che
ha condotto all’emissione del diniego di sanatoria
trattandosi di un procedimento ad istanza di parte.
---------------
8.2. Infondato è anche il secondo motivo
d’appello, col quale l’appellante lamenta la mancata
riattivazione del procedimento sanzionatorio dopo il diniego
di sanatoria.
La critica non può essere condivisa in quanto
il Tar, nel disattendere tale deduzione, ha
opportunamente richiamato l’orientamento giurisprudenziale,
coltivato anche da questo Consiglio, secondo cui “La
presentazione della domanda di accertamento di conformità,
ex art. 36 D.P.R. n. 380/2001, non comporta alcuna paralisi
dei poteri sanzionatori già esercitati dal Comune e, dunque,
non determina l'inefficacia sopravvenuta dell'ingiunzione di
demolizione emessa” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 06.06.2018, n. 3417).
Si afferma più precisamente che la
presentazione dell'istanza di sanatoria non determina l’improcedibilità,
per sopravvenuta carenza d’interesse, dell’impugnazione
proposta avverso l'ordinanza di demolizione, ma comporta,
tutt’al più, un arresto temporaneo dell'efficacia della
misura repressiva che riacquista la sua efficacia nel caso
di rigetto della domanda di sanatoria. Infatti, se si
sostenesse che l'amministrazione, nell'ipotesi in cui debba
operare un rigetto esplicito o implicito dell'istanza di
accertamento di conformità, avesse l'obbligo di riadottare
l'ordinanza di demolizione, ciò equivarrebbe a riconoscere
in capo a un soggetto privato, destinatario di un
provvedimento sanzionatorio, il potere di paralizzare,
attraverso un sostanziale annullamento, quel medesimo
provvedimento (Cons. Stato, sez. VI, 27.02.2018, n.
1171).
Dal diniego di sanatoria, quindi, non consegue la
necessità di innescare un nuovo iter procedimentale, come
assume l’appellante, inteso alla riedizione del potere
sanzionatorio, con conseguente infondatezza del rilievo
sollevato che appunto postula tale (insussistente)
necessità.
8.2.1. Né ricorre la dedotta violazione dell’art. 7 della
legge 241 del 1990, in quanto, come da orientamento di
questo Consiglio, “L'ingiunzione di demolizione di un
manufatto abusivo, emessa successivamente all'adozione di un
diniego di concessione edilizia in sanatoria, non necessita
del previo avviso di avvio del procedimento amministrativo
ex art. 7, l. 07.08.1990 n. 241, trattandosi di atto
vincolato e meramente conseguenziale nell'ambito di un
procedimento sanzionatorio sostanzialmente unitario” (Cons.
Stato sez. IV, 12.03.2013, n. 1480).
8.3. Infondato è, infine, il terzo motivo di gravame, col
quale si lamenta la pretermissione del diaframma dialogico
costituito dall’avviso di avvio procedimentale ex art. 7
della legge n. 241 del 1990 anche nell’ambito del
procedimento che ha condotto all’emissione del diniego di
sanatoria trattandosi di un procedimento ad istanza di
parte.
Ad opinare diversamente, infatti, “l'avviso
dell'avvio sarebbe una mera duplicazione di attività” (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 08.09.2003, n. 5034) e comunque
il rilascio dell’accertamento di conformità urbanistica,
richiedendo solo la verifica delle possibili ragioni di
contrasto con la relativa disciplina, non implica
l’espletamento di apprezzamenti di natura discrezionale che
possano giovarsi del contributo partecipativo
dell’interessato.
9. In conclusione, l’appello è infondato e deve essere
respinto (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 31.08.2018 n. 5123 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Laboratorio di panificazione -
Svolgimento di attività rumorosa - Condotta idonea ad
arrecare disturbo ad un numero indeterminato di persone -
Mancata redazione della valutazione di impatto acustico
(c.d. VIAC) - Natura di reato di pericolo - Art. 659, commi
1 e 2 cod. pen. (capo A), art. 674 cod. pen. (capo B), art.
279 d.lgs. n. 152/2005.
In tema di immissioni, non può ritenersi
escluso il disturbo della quiete pubblica, nel caso di
immobile condominiale, nel caso in cui abbia interessato
esclusivamente gli abitanti sovrastanti il laboratorio di
panificazione.
Ritenuta pacifica la natura di reato di pericolo della
contravvenzione prevista dall'articolo 659 cod. pen., tanto
che la violazione può configurarsi anche in assenza di
offesa a soggetti determinati, quando venga posta in essere
una condotta idonea ad arrecare disturbo ad un numero
indeterminato di persone (cfr. Sez. 1, n. 7748, del
28/02/2012; Sez. 1 n. 44905, del 02/12/2011; Sez. 1, n. 246,
del 07/01/2008; Sez. 1, n. 40393, del 14/10/2004; Sez. 3, n.
27366, del 06/07/2001); è parimenti
pacifico, che l'accertamento del disturbo è questione di
fatto che sorretta da congrua motivazione non è sindacabile
in cassazione.
INQUINAMENTO ACUSTICO - Attività o mestieri rumorosi -
Disturbo dell'occupazione e del riposo delle persone -
Ambito di operatività dell'art. 659 cod. pen. - Violazione
di disposizioni di legge o prescrizioni dell'autorità -
Superamento dei limiti di emissione fissati - Effettiva
idoneità delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad
un numero indeterminato di persone - Accertamento di fatto -
Competenza del giudice di merito.
L'ambito di operatività dell'art. 659
cod. pen., con riferimento ad attività o mestieri rumorosi,
deve essere individuato nel senso che, qualora si verifichi
esclusivamente il mero superamento dei limiti di emissione
fissati secondo i criteri di cui alla legge 447/1995,
mediante impiego o esercizio delle sorgenti individuate
dalla legge medesima, si configura il solo illecito
amministrativo di cui all'art. 10, comma 2 della legge
quadro; quando, invece, la condotta si sia concretata nella
violazione di disposizioni di legge o prescrizioni
dell'autorità che regolano l'esercizio del mestiere o
dell'attività, sarà applicabile la contravvenzione
sanzionata dall'art. 659, comma 2 cod. pen., mentre, nel
caso in cui l'attività ed il mestiere vengano svolti
eccedendo dalle normali modalità di esercizio, ponendo così
in essere una condotta idonea a turbare la pubblica quiete,
sarà configurabile la violazione sanzionata dall'art. 659,
comma 1 cod. pen., indipendentemente dalla fonte sonora
dalla quale i rumori provengono, quindi anche nel caso in
cui l'abuso si concretizzi in un uso smodato dei mezzi
tipici di esercizio della professione o del mestiere
rumoroso (da ultimo Sez. 3, n. 25424 del 05/06/2015 (dep.
20/06/2016), Pastore).
In tale ambito si è poi precisato che l'effettiva idoneità
delle emissioni sonore ad arrecare pregiudizio ad un numero
indeterminato di persone costituisce un accertamento di
fatto rimesso all'apprezzamento del giudice di merito, il
quale non è tenuto a basarsi esclusivamente
sull'espletamento di specifiche indagini tecniche, ben
potendo fondare il proprio convincimento su altri elementi
probatori in grado di dimostrare la sussistenza di un
fenomeno in grado di arrecare oggettivamente disturbo della
pubblica quiete (Sez. 3, n. 11031 del 05/02/2015, Montali) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 30.08.2018 n. 39261 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
demolizione viene ingiunta al proprietario ai sensi
dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 non in forza di una sua
responsabilità effettiva o presunta nella commissione
dell'illecito edilizio, bensì in ragione del suo rapporto
giuridico con la res.
In particolare, la sanzione demolitoria degli abusi edilizi
ha natura oggettiva e ripristinatoria. Essa colpisce il bene
abusivo, indipendentemente da chi abbia commesso l'abuso e,
dunque, il proprietario ne subisce gli effetti
indipendentemente dal suo ruolo di responsabile effettivo.
Così, ai fini della legittimazione passiva del soggetto
destinatario dell'ordine di demolizione, l'art. 31, d.P.R.
n. 380 del 2001, nell'individuare i soggetti destinatari
delle misure repressive nel proprietario e nel responsabile
dell'abuso, considera quale soggetto passivo della
demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al
proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Le questioni relative al rapporto tra proprietario e
detentore/occupante del bene (e in generale l’effettivo
responsabile dell’abuso) non rilevano ai fini
dell’applicazione della sanzione demolitoria; mentre i
profili relativi alle eventuali difficoltà nell’eseguire la
demolizione, da parte del proprietario, e alla possibile
successiva acquisizione coattiva del bene, attengono alla
fase successiva della procedura sanzionatoria e non
attengono alla legittimità del provvedimento demolitorio in
sé considerato.
---------------
Il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della
costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel
termine fissato, non deve infatti necessariamente contenere
l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita
gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia.
Detto provvedimento, i cui requisiti essenziali sono
l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente
ordine di demolizione, è infatti distinto dal successivo ed
eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece,
è necessario che sia puntualmente specificata la portata
delle sanzioni irrogate.
Né al riguardo valgono, ad avviso del Collegio, gli
argomenti diretti a valorizzare le valutazioni di
convenienza del privato, in quanto l’interesse alla
reintegrazione dell’assetto territoriale è immanente
all’ordinamento e prevale su considerazioni economiche o di
convenienza, ove le stesse non siano recepite dal
legislatore.
---------------
In linea generale, l'ordine di demolizione costituisce
provvedimento che non deve essere necessariamente preceduto
dalla comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi
di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al
quale non sono richiesti apporti partecipativi del
destinatario, ed i cui presupposti sono costituti unicamente
dalla constatata esecuzione dell'opera in totale difformità
o in assenza del titolo abilitativo.
Invero, <<L'adozione di provvedimenti repressivi degli abusi
edilizi non deve essere necessariamente preceduta dalla
comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di
provvedimenti tipici e vincolati emessi all'esito di un mero
accertamento tecnico della consistenza delle opere
realizzate e del carattere abusivo delle medesime. La
violazione dell'obbligo di comunicazione dell'avvio del
procedimento non costituisce una ragione idonea a
determinare l'annullabilità dei provvedimenti sanzionatori
in materia di abusi edilizi, in quanto è palese, attesa
l'assenza di qualsivoglia titolo abilitativo
all'edificazione, che il contenuto dispositivo del
provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da quello
in concreto adottato", sicché sussiste la condizione
prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del
1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento
impugnato); né, per lo stesso motivo, si richiede una
specifica motivazione che dia conto della valutazione delle
ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna
violazione dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, ciò in
quanto, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento
deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa”
l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione>>.
---------------
Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure
tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e
giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura
vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi
presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione
in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da
quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che
impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in
cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di
tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale
non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non
denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino.
---------------
1. La società ricorrente impugna l'ordinanza prot. n. 1954
n. 9/2017 del 01.02.2017 del Comune di Rignano Flaminio
avente ad oggetto la demolizione opere edilizie abusive ai
sensi dell’art. 31 del D.P.R. 06.06.2001, n. 380, unitamente
al presupposto verbale di sopralluogo della Polizia Locale.
Le opere in questione riguardano una unità immobiliare
collocata nell'immobile censito nel N.C.E.U. al Foglio 4,
Particella 1014, Subalterno 568, edificato sul terreno in
Catasto al Foglio 4, Particella 1014 (edificio B) e situato
in Zona B di P.R.G., in area non vincolata
paesaggisticamente.
Esse hanno comportato il mutamento della destinazione d'uso
a soffitta-lavatoio-stenditoio, risultante dagli elaborati
progettuali dei Permessi di Costruire, in destinazione
residenziale, a seguito di un insieme sistematico di opere
accessorie realizzate per rendere i vari ambienti dell'unità
immobiliare adatti ad un uso abitativo, le quali sono così
descritte:
- Installazione di un termosifone e fornitura del gas nel vano
denominato "soffitta C 1" adibito a cucina con gli appositi
arredi.
- Installazione di due termosifoni, realizzazione di una presa TV e
telefono nonché di prese della corrente nel vano principale
denominato "soffitta C" ora adibito a soggiorno.
- Installazione di un termosifone, realizzazione di una presa TV
nonché di prese della corrente, nel vano denominato
"Soffitta C2" ora adibito a camera da letto matrimoniale con
armadio.
- Installazione di un termosifone, realizzazione di un wc, doccia e
prese della corrente nel vano denominato “lavatoio” ora
adibito a bagno.
- Realizzazione di una presa TV e della corrente nello stenditoio
scoperto lato sud.
- Realizzazione di un vano caldaia nello stenditoio scoperto lato
est.
...
4. Con il primo mezzo di impugnazione la ricorrente
lamenta il fatto che, mentre nella comunicazione di avvio
del procedimento –effettuata nei confronti della sola
signora Sp., i contestati abusi sono stati imputati a due
soggetti, ossia alla Soc. To. S.r.l. in qualità di
proprietaria e alla medesima signora Sp. in qualità di
occupante- residente nell’immobile, di cui ha l’esclusiva
disponibilità, l'ordinanza di demolizione impugnata è stata
invece indirizzata e notificata esclusivamente alla società
ricorrente.
A prescindere dai profili relativi alla posizione
dell’attuale occupante (le cui vicende sono oggetto di
contenzioso in sede civile), la ricorrente afferma che il
destinatario dell’ordine di demolizione è anzitutto il
responsabile dell’abuso, figura riferibile -secondo la
giurisprudenza- non solo all’autore materiale dell’opera,
bensì a colui che ha la materia disponibilità della stessa e
quale detentore è in grado di provvedere alla demolizione;
il che rileva anche in vista della futura acquisizione
gratuita, che finirebbe col sanzionare ingiustamente il
proprietario.
4.1 Il motivo è infondato.
La demolizione viene ingiunta al proprietario ai sensi
dell'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001 non in forza di una sua
responsabilità effettiva o presunta nella commissione
dell'illecito edilizio, bensì in ragione del suo rapporto
giuridico con la res (TAR Campania-Napoli, sez. II,
09.03.2018, n. 1501).
In particolare, la sanzione demolitoria degli abusi edilizi
ha natura oggettiva e ripristinatoria. Essa colpisce il bene
abusivo, indipendentemente da chi abbia commesso l'abuso e,
dunque, il proprietario ne subisce gli effetti
indipendentemente dal suo ruolo di responsabile effettivo.
Così, ai fini della legittimazione passiva del soggetto
destinatario dell'ordine di demolizione, l'art. 31, d.P.R.
n. 380 del 2001, nell'individuare i soggetti destinatari
delle misure repressive nel proprietario e nel responsabile
dell'abuso, considera quale soggetto passivo della
demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l'abuso, potere che compete indubbiamente al
proprietario, anche se non responsabile in via diretta (TAR
Lazio, sez. II-bis, 01.12.2017, n. 11903; Consiglio di
Stato, sez. VI 30.06.2017, n. 32109).
Le questioni relative al rapporto tra proprietario e
detentore/occupante del bene (e in generale l’effettivo
responsabile dell’abuso) non rilevano ai fini
dell’applicazione della sanzione demolitoria; mentre i
profili relativi alle eventuali difficoltà nell’eseguire la
demolizione, da parte del proprietario, e alla possibile
successiva acquisizione coattiva del bene, attengono alla
fase successiva della procedura sanzionatoria e non
attengono alla legittimità del provvedimento demolitorio in
sé considerato.
5. Con il secondo mezzo di impugnazione, la
ricorrente lamenta la mancanza dell’indicazione preventiva
dell’area che verrà acquisita di diritto: ciò comporta
l’incertezza delle conseguenze della propria condotta (avuto
riguardo, in particolare, al fatto che le opere abusive si
collocano all’ultimo piano dell’edificio condominiale),
anche con riferimento, richiamato da una parte della
giurisprudenza, alla possibilità di valutare l’opportunità
di adempiere, in termini di “costo-beneficio”,
all’ordine demolitorio; nonché al rispetto dei limiti
dimensionali dell’acquisizione gratuita fissati dal
legislatore.
5.1 Il motivo è infondato.
Il provvedimento con cui si ingiunge al responsabile della
costruzione abusiva di provvedere alla sua distruzione nel
termine fissato, non deve infatti necessariamente contenere
l'esatta indicazione dell'area di sedime che verrà acquisita
gratuitamente al patrimonio del Comune in caso di inerzia.
Detto provvedimento, i cui requisiti essenziali sono
l'accertata esecuzione di opere abusive ed il conseguente
ordine di demolizione, è infatti distinto dal successivo ed
eventuale provvedimento di acquisizione, nel quale, invece,
è necessario che sia puntualmente specificata la portata
delle sanzioni irrogate (Consiglio di Stato, sez. VI,
06/02/2018, n. 755; TAR Lazio, sez. II-quater, 25.07.2018,
n. 8411).
Né al riguardo valgono, ad avviso del Collegio, gli
argomenti diretti a valorizzare le valutazioni di
convenienza del privato, in quanto l’interesse alla
reintegrazione dell’assetto territoriale è immanente
all’ordinamento e prevale su considerazioni economiche o di
convenienza, ove le stesse non siano recepite dal
legislatore.
...
7. Col quarto motivo in diritto la ricorrente lamenta
l’omissione della garanzia procedimentale di cui all’art. 7
della L. n. 241/1990, in quanto la comunicazione di avvio è
stata effettuata solamente nei confronti dell’occupante
dell’immobile.
7.1 Il motivo è infondato.
In linea generale, infatti, l'ordine di demolizione
costituisce provvedimento che non deve essere
necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario, ed i cui presupposti
sono costituti unicamente dalla constatata esecuzione
dell'opera in totale difformità o in assenza del titolo
abilitativo (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 16/03/2018,
n. 1688, secondo cui: <<L'adozione di provvedimenti
repressivi degli abusi edilizi non deve essere
necessariamente preceduta dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di provvedimenti tipici e
vincolati emessi all'esito di un mero accertamento tecnico
della consistenza delle opere realizzate e del carattere
abusivo delle medesime. La violazione dell'obbligo di
comunicazione dell'avvio del procedimento non costituisce
una ragione idonea a determinare l'annullabilità dei
provvedimenti sanzionatori in materia di abusi edilizi, in
quanto è palese, attesa l'assenza di qualsivoglia titolo
abilitativo all'edificazione, che il contenuto dispositivo
del provvedimento "non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato", sicché sussiste la condizione
prevista dall'art. 21-octies, comma 2, della l. n. 241 del
1990 per determinare la non annullabilità del provvedimento
impugnato); né, per lo stesso motivo, si richiede una
specifica motivazione che dia conto della valutazione delle
ragioni di interesse pubblico alla demolizione o della
comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati
coinvolti e sacrificati, senza che sussista alcuna
violazione dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990, ciò in
quanto, ricorrendo i predetti requisiti, il provvedimento
deve intendersi sufficientemente motivato con l'affermazione
dell'accertata abusività dell'opera, essendo “in re ipsa”
l'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione>>).
Nel caso di specie, poi il fatto che la società odierna
ricorrente avrebbe potuto far presente di non essere nella
disponibilità del bene in pendenza di un procedimento
giudiziario civile non sarebbe comunque stata circostanza
rilevante, attese le considerazioni che hanno condotto il
Collegio a dichiarare l’infondatezza del primo mezzo di
impugnazione.
...
8. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta
anzitutto il difetto di motivazione, in quanto il verbale
citato nel provvedimento non è stato messo a disposizione
della ricorrente: circostanza, questa, per la quale la
medesima propone anche istanza incidentale di accesso ai
sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a..
8.1 Sul punto il Collegio rileva da un lato che il
provvedimento è correttamente motivato per relationem,
richiamando il verbale in questione e indicando i
presupposti di fatto e di diritto dell’applicazione della
sanzione.
Per quanto attiene all’esibizione del verbale, va rilevata
la sopravvenuta carenza di interesse in parte qua,
anche sotto il profilo del diritto di accesso, in quanto il
verbale è stato esibito in atti alla difesa del Comune.
8.2 Parte ricorrente si riferisce anche a uno più stringente
dovere di motivazione con riferimento ai casi in cui sia
trascorso un ampio lasso di tempo tra la realizzazione
dell’abuso e il momento della repressione degli stessi.
8.3 A prescindere da ogni altra considerazione, il profilo
di censura è infondato, alla luce della giurisprudenza
nomofilattica del Consiglio di Stato (ad. plen. 17.10.2017,
n. 9), secondo la quale il provvedimento con cui viene
ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un
immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la
sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei
relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede
motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse
(diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità
violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche
nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga
a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il
titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di
ripristino.
9. Conclusivamente il ricorso va respinto (TAR Lazio-Roma,
Sez. II-quater,
sentenza 30.08.2018 n. 9074 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nuovi
edifici, 10 anni al Comune per chiedere gli oneri extra.
Dieci anni di tempo perché il Comune possa ripensarci. E chiedere
all’impresa che ha ottenuto il permesso di costruire un obolo extra, a
integrazione di quanto già pagato. Ma solo in caso di erronea determinazione
del contributo. Con la possibilità (teorica) di procedere anche a rimborsi,
in caso di pagamenti in eccesso.
Ha
detto questo, in estrema sintesi, l’adunanza plenaria del Consiglio di
Stato, con la
sentenza 30.08.2018 n. 12,
appena depositata. Un intervento sollecitato dal Consiglio di giustizia
amministrativa della Regione Sicilia e diventato necessario per le molte
pronunce contrastanti in materia.
La questione
Si parla di contributo di costruzione, agganciato al permesso di costruire,
secondo quanto stabilisce l’articolo 16 del Dpr 380/2001 (Testo unico
edilizia). Il contributo, articolato in due voci relative agli oneri di
urbanizzazione e al costo di costruzione, rappresenta una «compartecipazione
del privato alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle opere di
urbanizzazione».
In altre parole, l’impresa che chiede di costruire finanzia in parte le
opere extra che il Comune dovrà realizzare, per effetto della presenza del
nuovo edificio nel suo territorio. Questi contributi sono corrisposti sulla
base di tabelle parametriche, predisposte dalle Regioni, che devono poi
essere recepite dal Comune in una propria deliberazione.
Può accadere, però, che vengano commessi degli errori nella quantificazione
di questo pagamento. Si discute, allora, spesso in giurisprudenza se
l’amministrazione comunale abbia la possibilità di tornare sui suoi passi,
entro che termini possa farlo e con quale modalità. Un’alternativa, ad
esempio, è che l’atto sia annullabile soltanto in autotutela.
Un potere che, in base alle norme sul procedimento amministrativo (legge
241/1990), può essere attivato solo sulla base di alcuni presupposti. Altra
ipotesi è che gli oneri siano cristallizzati «nel quantum al momento del
rilascio del titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe
suscettibile di modifiche successive». Una volta fissato il contributo,
cioè, non si potrebbe tornare indietro.
La decisione
L’adunanza plenaria, invece, opta per un’impostazione che lascia molti
margini di manovra ai sindaci. E spiega che la pubblica amministrazione «nel
corso del rapporto concessorio, può sempre rideterminare, sia a favore che a
sfavore del privato, l’importo del contributo di concessione, in principio
erroneamente liquidato, richiedendone o rimborsandone a questi la differenza
nell’ordinario termine di prescrizione decennale (articolo 2946 del codice
civile) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in
alcuna decadenza». In altre parole, a queste situazioni si applicano le
normali regole dei rapporti tra privati.
«Certamente, il Comune -dice ancora la sentenza- ha l’obbligo di adoperarsi
affinché la liquidazione del contributo di costruzione venga eseguita nel
modo più corretto, sollecito, scrupoloso e preciso, sin dal principio».
Qualora l’amministrazione sbagli, c’è però la possibilità di intervenire in
un momento successivo.
Possibilità riservata anche al privato che, per ottenere quanto versato in
più, «non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del contributo»,
quindi il permesso di costruire, ma potrà, anche lui entro il termine di
dieci anni, fare ricorso davanti al giudice amministrativo
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.09.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Responsabilità per contaminazione di un sito
e prinicipio del più probabile che non.
Alla luce di uno stato
di inquinamento latamente preesistente,
quanto meno l’Amministrazione ha il dovere
di farsi carico della dimostrazione –anche a
livello meramente indiziario– del fatto che
l’attuale operatore economico è (non già
solo il “probabile” ma) il “più probabile”
autore o di un aggravamento del tasso di
inquinamento precedentemente rilevato o
addirittura di un proprio ed autonomo
inquinamento, che a quello precedente si era
andato a sommare.
Il corretto ricorso al canone del “più
probabile che non” presuppone o che un
sedime sia stato certamente vergine (dal
punto di vista dell’inquinamento) prima
dell’insediamento su di esso di un’attività
produttiva o, qualora il terreno fosse
invece già parzialmente inquinato, che un
diverso e nuovo agente inquinante si sia
aggiunto (autonomamente aggravandoli) a
quelli precedentemente presenti, quale
conseguenza appunto della nuova attività
produttiva insediatasi su un sottosuolo già
compromesso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 29.08.2018 n. 5076 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com). |
APPALTI:
i)
l'onere di immediata impugnativa dell'altrui ammissione alla
procedura di gara senza attendere l'aggiudicazione, prevista
dal comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a., è ragionevolmente
subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura,
perché diversamente l'impresa sarebbe costretta a proporre
un ricorso "al buio";
ii) nella materia degli appalti, l’applicabilità del principio
della piena conoscenza ai fini della decorrenza del termine
di impugnazione, presuppone un particolare rigore
nell’accertamento della sussistenza di tale requisito;
iii) si deve tener conto, infatti, sia della specialità della
normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sia
dei presupposti cui il legislatore ha ricondotto la
decorrenza del termine per l’impugnazione: in base al comma
2-bis, dell’art. 120 c.p.a., infatti, il termine inizia a
decorrere solo dopo la pubblicazione, ex art. 29 d.lgs.
50/2016, della determinazione sulle ammissioni/esclusioni
dei concorrenti, pubblicazione che assicura la piena ed
effettiva conoscenza degli atti di gara; da ciò consegue
che, il principio della piena conoscenza acquisita
aliunde può applicarsi solo ove vi sia una concreta
prova dell’effettiva conoscenza degli atti di gara,
acquisita in data anteriore alla pubblicazione o
comunicazione degli atti della procedura medesima;
iv) pertanto, non può ritenersi sufficiente a far decorrere l’onere
di impugnare il provvedimento di ammissione alla gara la
mera presenza di un rappresentante della ditta alla seduta
in cui viene decretata l’ammissione, in mancanza della
specifica prova sulla percezione immediata ed effettiva di
tutte le irregolarità che, ove sussistenti, possano aver
inficiato le relative determinazioni.
---------------
2. Confermandosi quanto già esplicitato nell’ordinanza n.
503 del 2018, il ricorso presentato della società Vu. non
è tardivo come, invece, eccepito da Trenitalia e Fe.,
secondo le quali la società ricorrente avrebbe dovuto
impugnare tempestivamente la determinazione della stazione
appaltante di ammissione degli RTI odierni resistenti alla
procedura, al fine di non far decorrere il termine di trenta
giorni previsto per l’impugnazione delle ammissioni alle
gare dall’art. 120, co. 2-bis c.p.a.
2.1. Il Collegio ribadisce che l’eccezione di irricevibilità
non appare fondata posto che il citato comma 2-bis
stabilisce espressamente che “il provvedimento che
determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le
ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti
soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali va
impugnato nel termine di trenta giorni, decorrente dalla sua
pubblicazione sul profilo del committente della stazione
appaltante, ai sensi dell'articolo 29, comma 1, del codice
dei contratti pubblici”.
L’art. 29 d.lgs. 50/2016, pertanto, introduce un preciso
onere di comunicazione a carico delle stazioni appaltanti “al
fine di consentire l'eventuale proposizione del ricorso ai
sensi dell' articolo 120, comma 2-bis, del codice del
processo amministrativo”, per cui i provvedimenti che
determinano le esclusioni dalla procedura di affidamento e
le ammissioni all'esito della verifica della documentazione
attestante l’assenza dei motivi di esclusione di cui
all’articolo 80, nonché la sussistenza dei requisiti,
economico-finanziari e tecnico-professionali, sono
pubblicati nei successivi due giorni dalla data di adozione
dei relativi atti e di tale incombente, entro il medesimo
termine di due giorni, viene “dato avviso ai candidati e
ai concorrenti, con le modalità di cui all’articolo 5-bis
del decreto legislativo 07.03.2005, n. 82”.
Tale incombente è a carico della stazione appaltante anche
sotto il profilo formale, posto che deve indicarsi “l’ufficio
o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono
disponibili i relativi atti”, e ciò al fine di far
decorrere il termine per l’impugnativa di cui al citato
articolo 120, comma 2-bis dal momento in cui gli atti di cui
al secondo periodo sono resi in concreto disponibili,
corredati di motivazione.
Pertanto, come pure già chiarito nell’ordinanza cautelare
501/2018 emessa in relazione al ricorso RG 1078/2018, il
combinato–disposto degli artt. 29 d.lgs. 50/2016 e 120,
comma 2-bis, c.p.a. è tale da escludere la tardività di un
ricorso presentato oltre i suindicati termini “accelerati”
in casi analoghi a quello oggetto del presente giudizio,
posto che l’onere di ordinaria di diligenza nell’acquisire
la documentazione da parte del soggetto interessato
all’impugnazione della procedura non può prevalere sugli
obblighi imposti appositamente dal legislatore in capo alla
stazione appaltante, i quali, a loro volta, non possono
essere considerati assolti attraverso l’espletamento di
incombenze formali diverse da quelle prescritte dalla
disposizione suindicata.
Vale a dire, in conclusione, che la comunicazione “ufficiale”
in seduta pubblica delle imprese le cui offerte sono ammesse
al prosieguo della procedura non può sortire l’effetto di
surrogare tale avviso agli incombenti di cui all’art. 29
d.lgs. 50/2016., pur se avvenuta alla presenza dei
rappresentanti dell’impresa che successivamente agisce in
giudizio, anche in ragione del fatto che se dalla irrituale
enunciazione resa in sede di seduta di gara si facesse
derivare in capo alle concorrenti l’onere di accedere agli
atti della procedura onde procedere alla contestazione del
provvedimento di ammissione (o di esclusione), si finirebbe
con l’eludere il sistema disegnato dalla norma che impone
alla Stazione Appaltante di rendere disponibili, come
descritto, i relativi atti.
Sul punto si veda, recentissima, la decisione n. 1902 del
27.03.2018 della III sezione del Consiglio di Stato, la
quale ha, per l'appunto, ribadito che:
i) l'onere di immediata impugnativa dell'altrui ammissione alla
procedura di gara senza attendere l'aggiudicazione, prevista
dal comma 2-bis dell'art. 120 c.p.a., è ragionevolmente
subordinato alla pubblicazione degli atti della procedura,
perché diversamente l'impresa sarebbe costretta a proporre
un ricorso "al buio" (Cons. St., sezz. III,
26.01.2018, n. 565; id., sez. III 20.03.2018 n. 1765);
ii) nella materia degli appalti, l’applicabilità del principio
della piena conoscenza ai fini della decorrenza del termine
di impugnazione, presuppone un particolare rigore
nell’accertamento della sussistenza di tale requisito (TAR
Campania, Napoli, Sez. VIII, 18.01.2018 n. 394);
iii) si deve tener conto, infatti, sia della specialità della
normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sia
dei presupposti cui il legislatore ha ricondotto la
decorrenza del termine per l’impugnazione: in base al comma
2-bis, dell’art. 120 c.p.a., infatti, il termine inizia a
decorrere solo dopo la pubblicazione, ex art. 29 d.lgs.
50/2016, della determinazione sulle ammissioni/esclusioni
dei concorrenti, pubblicazione che assicura la piena ed
effettiva conoscenza degli atti di gara; da ciò consegue
che, il principio della piena conoscenza acquisita
aliunde può applicarsi solo ove vi sia una concreta
prova dell’effettiva conoscenza degli atti di gara,
acquisita in data anteriore alla pubblicazione o
comunicazione degli atti della procedura medesima;
iv) pertanto, non può ritenersi sufficiente a far decorrere l’onere
di impugnare il provvedimento di ammissione alla gara la
mera presenza di un rappresentante della ditta alla seduta
in cui viene decretata l’ammissione, in mancanza della
specifica prova sulla percezione immediata ed effettiva di
tutte le irregolarità che, ove sussistenti, possano aver
inficiato le relative determinazioni.
2.1.1. Nel caso di specie, dal verbale della seduta di gara
del 06.10.2017 si apprende solo che le imprese di cui si
apriva l’offerta tecnica erano state ammesse alla gara, ma
da questo non era
possibile trarre alcun elemento da cui desumere eventuali
motivi di esclusione di taluna delle imprese partecipanti,
per cui deve ritenersi che la conoscenza acquisita dalla
società ricorrente, come da altre, mediante la
partecipazione alla detta seduta, non fosse idonea a far
decorrere il termine d’impugnazione (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 28.08.2018 n. 5292 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
L'“interpretazione autentica” del bando di gara è sempre possibile nelle
ipotesi in cui non è ravvisabile un conflitto tra le
delucidazioni fornite dalla stazione appaltante e il tenore
delle clausole chiarite, senza funzione integrativa della lex specialis e
senza essere vincolante per la commissione aggiudicatrice.
Infatti, la stazione appaltante non può discostarsi dalle
regole da essa stessa fissate e alle quali si è
autovincolata, e nemmeno può interpretare le suddette regole
in modo palesemente contrario al suo chiaro tenore testuale.
Tuttavia, può intervenire nei casi in cui il chiarimento
rivesta caratteri, per così dire, di “neutralità” rispetto
ai contenuti del bando e alla partecipazione alla gara, o
meglio quando “è l’oggettiva incertezza della legge a far sì
che la risposta della pubblica amministrazione appaltante ad
una richiesta di chiarimenti avanzata dai concorrenti non
costituisca un'indebita e perciò illegittima modifica delle
regole di gara, ma una sorta d'interpretazione autentica con
cui la stazione appaltante chiarisce la propria volontà
provvedimentale in un primo momento poco intelligibile,
precisando e meglio delucidando le previsioni della lex
specialis; in effetti i chiarimenti operano a beneficio di
tutti e -laddove trasparenti, tempestivi, ispirati al
principio del favor partecipationis e, resi pubblici- non
comportano, se giustificati da un'oggettiva incertezza della
legge di gara, alcun pregiudizio per gli aspiranti
offerenti, tale da rendere preferibile, a dispetto del
principio di economicità, l'autoannullamento del bando e la
sua ripubblicazione“.
---------------
La ratio del raggruppamento di imprese è quella di ampliare
la platea dei possibili concorrenti, consentendo ai soggetti
privi dei requisiti necessari di partecipare singolarmente
alla procedura competitiva oppure di accedervi in
associazione con altri operatori economici, anche al fine di
acquisire esperienze e elementi curriculari da poter
spendere in successivi affidamenti.
Non avrebbe quindi senso limitare la partecipazione alle
sole ATI i cui membri siano già in possesso singolarmente
dei requisiti di capacità economica di accesso; una clausola
di tal guisa, inoltre, sarebbe in contrasto col principio di
tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 83,
co. 8, d.lgs. 50/2016.
---------------
5. Con il primo motivo di ricorso la CAR ha
contestato ad entrambe le prime due imprese classificate,
quindi anche alla Vu., la violazione dell’art. 83 del
codice dei contratti, e del punto III.1.3 del bando di gara.
La Vu. sarebbe stata priva dei requisiti di capacità
professionale e tecnica richiesti dal bando di gara, con
riguardo al possesso di un fatturato specifico, in quanto,
secondo la ricorrente, in caso di RTI (e di Consorzio) i
requisiti devono essere posseduti da tutti i componenti del
raggruppamento e non possono essere frazionati in
proporzione alle quote di partecipazione al raggruppamento
delle imprese facenti parte dello stesso.
Ciò in quanto, base al tenore letterale del bando di gara,
sarebbero frazionabili solo i requisiti di capacità
economica e finanziaria (il punto III.1.2 richiede, ai fini
della dimostrazione della capacità economica e finanziaria,
il possesso di un fatturato medio annuo, riferito al
triennio 2014-2016, non inferiore ad € 6.724.602,00, con la
precisazione che “in caso di concorrenti costituiti da
raggruppamenti o Consorzi, il suddetto requisito dovrà
essere posseduto da ciascuna impresa componente il
raggruppamento, ovvero dai consorziati, in misura
proporzionale alla quota di partecipazione”) ma non i
“livelli minimi” di capacità professionale e tecnica, che, a
ben vedere, sono stati determinati in misura pari ad appena
1/4 dell’importo contrattuale (al punto III.1.3 si richiede,
ai fini della dimostrazione della capacità professionale e
tecnica, il possesso di un fatturato specifico, quale
livello minimo di capacità richiesto, e in caso di
partecipazione alla gara di operatori economici di cui
all’art. 45, comma d, lettere d), e), f) e g) -così come
pure dei Consorzi- i livelli minimi di capacità
professionale e tecnica “dovranno essere posseduti da tutti
i membri di detti operatori economici” ovvero “dal consorzio
e da ciascuno dei consorziati per conto dei quali il
consorzio partecipa alla gara.”
5.1. Il Collegio, in sede cautelare, aveva condiviso la
censura articolata dalla CAR e per tale motivo aveva sospeso
la gara in attesa della decisione sul merito.
In particolare, nel confermare la correttezza
dell’interpretazione data dal confronto dei due paragrafi
del bando (III.1.2. e III.1.3.) rispetto alla non
frazionabilità dei requisiti di capacità professionale e
tecnica, si era ritenuta non rilevante, ai fini di una
diversa decisione in quella fase, la risposta data da
Trenitalia al quesito n. 1 posto dalle imprese partecipanti,
con il quale la stazione appaltante confermava che “in caso
di partecipazione alla gara da parte di raggruppamenti
temporanei, il requisito tecnico del fatturato medio annuo
di cui all’art. III.1.3 lettera a) dovrà essere posseduto da
tutti i membri del raggruppamento in misura proporzionale
alla quota di partecipazione, analogamente a quanto
prescritto per il requisito di capacità economica e
finanziaria”.
5.2. Melius re perpensa, il Collegio attribuisce una
rilevanza diversa al chiarimento fornito dalla stazione
appaltante in data 25.07.2017, la quale, in risposta ad
apposito quesito, aveva confermato senza indugio la
possibilità di frazionare tra le partecipanti al
raggruppamento, in misura proporzionale alla quota di
partecipazione, anche il requisito della capacità tecnica
(fatturato medio annuo).
Il chiarimento era stato reso quando il termine per la
presentazione delle offerte (4 agosto) era ancora aperto,
essendo stato prorogato al 07.09.2017 sin dal 28
luglio, sicché qualsiasi impresa avesse desiderato
partecipare, anche in RTI, avrebbe potuto farlo tenendo
conto dell’avvenuto chiarimento.
Pertanto, a differenza di quanto ritenuto ad una prima
delibazione dell’affare, non può ravvisarsi violazione della
par condicio posto che le modalità di pubblicazione del
chiarimento (sito della stazione appaltante) erano visibili
a tutte le imprese interessate alla partecipazione, e
l’ampia proroga dei termini consentiva a qualsiasi
potenziale concorrente di calibrare l’offerta sulla base di
quanto comunicato da Trenitalia in risposta al quesito.
Tanto è che sia la Vu. che la Car hanno presentato le
rispettive offerte il 04.09.2017 (cfr. atti).
5.2.1. Convince inoltre l’ulteriore riflessione, sviluppata
nella memoria difensiva dell’RTI Vu. depositata in vista
dell’udienza di discussione del merito, in ordine alla
corretta interpretazione da dare al bando laddove dispone
che in caso di partecipazione in RTI, i requisiti di
capacità tecnico-professionale “dovranno essere posseduti da
tutti i membri di detti operatori economici”, intendendosi
con ciò che tutti i componenti di un RTI debbano essere in
possesso del requisito, ma non –come sostiene la ricorrente– che tutti debbano possedere il requisito per intero,
potendo lo stesso essere frazionato e, quindi, posseduto
anche pro quota.
In quest’ottica, la risposta positiva fornita da Trenitalia
al quesito sulla frazionabilità non potrebbe in alcun modo
assumere le caratteristiche di integrazione esterna del
bando (normalmente vietata come affermato da giurisprudenza
costante e nota al Collegio, tra cui Cons. St., sez. V, 05.02.2018, n. 730; id., sez. V, 24.04.2017 n. 1903; id., 23.09.2015, n. 4441; id., sez. III, 26.08.2016 n. 3708; id., sez. VI, 15.12.2014, n. 6154),
bensì va considerata per quella che effettivamente è, una “interpretazione autentica” del testo, sempre possibile nelle
ipotesi in cui non è ravvisabile un conflitto tra le
delucidazioni fornite dalla stazione appaltante e il tenore
delle clausole chiarite (Cons. St., sez. IV, 14.04.2015,
n. 1898), senza funzione integrativa della lex specialis e
senza essere vincolante per la commissione aggiudicatrice.
Infatti, la stazione appaltante non può discostarsi dalle
regole da essa stessa fissate e alle quali si è
autovincolata (TAR Lazio, Roma, sez. II-quater, 21.11.2016, n. 11560), e nemmeno può interpretare le
suddette regole in modo palesemente contrario al suo chiaro
tenore testuale (TAR Lazio, sez. I-quater, 22.02.2018 n. 2058); tuttavia, può intervenire nei casi in cui il
chiarimento rivesta caratteri, per così dire, di
“neutralità” rispetto ai contenuti del bando e alla
partecipazione alla gara, o meglio quando “è l’oggettiva
incertezza della legge a far sì che la risposta della
pubblica amministrazione appaltante ad una richiesta di
chiarimenti avanzata dai concorrenti non costituisca
un'indebita e perciò illegittima modifica delle regole di
gara, ma una sorta d'interpretazione autentica con cui la
stazione appaltante chiarisce la propria volontà provvedimentale in un primo momento poco intelligibile,
precisando e meglio delucidando le previsioni della lex
specialis; in effetti i chiarimenti operano a beneficio di
tutti e - laddove trasparenti, tempestivi, ispirati al
principio del favor partecipationis e, resi pubblici - non
comportano, se giustificati da un'oggettiva incertezza della
legge di gara, alcun pregiudizio per gli aspiranti
offerenti, tale da rendere preferibile, a dispetto del
principio di economicità, l'autoannullamento del bando e la
sua ripubblicazione“ (così Cons. St., sez. III 07.02.2018 n. 781).
Questo è quanto avvenuto nel caso concreto, posto che
l’interpretazione letterale a contrario offerta dalla
ricorrente, e in un primo momento condivisa dal Collegio,
ben può disattendersi laddove si dia al testo il senso che
tutti i candidati debbano possedere il requisito in
questione, ma non necessariamente per l’intero; il che,
sotto un profilo logico, non contrasta affatto né con la
ratio della costituzione di RTI/ATI, né con una possibile
differenza tra requisiti di partecipazione tecnici ed
economici in termini di frazionabilità delle quote possedute
da ciascun associato, così come ritenuto da Trenitalia.
5.2.2. D’altro canto, la ratio del raggruppamento di imprese
è quella di ampliare la platea dei possibili concorrenti,
consentendo ai soggetti privi dei requisiti necessari di
partecipare singolarmente alla procedura competitiva oppure
di accedervi in associazione con altri operatori economici,
anche al fine di acquisire esperienze e elementi curriculari
da poter spendere in successivi affidamenti.
Non avrebbe quindi senso limitare la partecipazione alle
sole ATI i cui membri siano già in possesso singolarmente
dei requisiti di capacità economica di accesso; una clausola
di tal guisa, inoltre, sarebbe in contrasto col principio di
tassatività delle cause di esclusione di cui all’art. 83,
co. 8, d.lgs. 50/2016.
Discorso diverso deve essere fatto, invece, per gli altri
elementi previsti dall’art. III.1.3 del bando che riguardano
il possesso di certificazioni di qualità, ambientali e
tecniche che per la loro stessa natura non sono frazionabili
e che, comunque, riguardano determinate abilitazioni e
certificazioni di cui, ovviamente, devono essere in possesso
tutti i partecipanti.
Pertanto, alla luce delle suesposte considerazioni, la
censura va disattesa (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 28.08.2018 n. 5292 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Se l’avvalimento consiste nella messa a disposizione di
mezzi finanziari, infatti, esso costituisce comunque un
avvalimento di garanzia, nel quale la prestazione oggetto
specifico dell'obbligazione è costituita non già dalla messa
a disposizione da parte dell'impresa ausiliaria di strutture
organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a
garantire con le proprie complessive risorse economiche, il
cui indice è costituito dal fatturato, l’impresa ausiliata
munendola, così, di un requisito che altrimenti non avrebbe
e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle
condizioni poste dal bando.
---------------
La giurisprudenza recente qualifica come “impegno
contrattuale a prestare ed a mettere a disposizione dell'ausiliata
la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio
esperienziale della prima, così garantendo una determinata
affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità;
l'impresa ausiliaria, per effetto del contratto di
avvalimento, deve quindi diventare, di fatto, un garante
dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario,
poiché solo in caso di avvalimento c.d. tecnico o operativo
(che quindi abbia ad oggetto requisiti diversi rispetto a
quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste
l'esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di
determinate risorse.
Tuttavia tale impegno a diventare un
garante dell'impresa ausiliata sul versante
economico-finanziario non può risultare nel contratto in
modo generico e quale semplice formula di stile, ma deve
essere in qualche modo determinato o, quantomeno,
determinabile, poiché l'impegno contrattualmente assunto
dall'ausiliaria deve ritenersi completo, concreto, serio e
determinato, nella misura in cui attesta la messa a
disposizione del fatturato e delle risorse eventualmente
necessarie e contenga un vincolante impegno finanziario nei
confronti della stazione appaltante, non risultando invece
necessari “la quantificazione ed il trasferimento delle
risorse finanziarie oggetto del predetto impegno
finanziario, anche considerato che quest'ultimo appare del
tutto imprevedibile nel contenuto al momento della
sottoscrizione del contratto di avvalimento”
(così Cons. St.,
sez. III, 05.03.2018 n. 1339, ma vedi, dettagliatamente,
sez. V, 14.02.2018 n. 953, la quale ha chiaramente enunciato
la
differenza che corre tra i due tipi di avvalimento e i
contenuti dei rispettivi contratti:
i)
l’avvalimento di garanzia ricorre nel caso in cui l’ausiliaria
mette a disposizione dell’ausiliata la sua solidità
economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante
sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici
conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di
inadempimento;
è tale l’avvalimento che ha ad oggetto
i requisiti di carattere economico–finanziario e, in
particolare, il fatturato globale o specifico;
ii)
l’avvalimento operativo ricorre invece quando l’ausiliaria si
impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse
tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del
contratto di appalto. È tale l’avvalimento che ha ad oggetto
i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i quali,
ad esempio, la dotazione di personale dell’ausiliaria;
iii)
nell’avvalimento di garanzia non è necessario che nel
contratto siano specificatamente indicati i beni
patrimoniali o gli indici materiali della consistenza
patrimoniale dell’ausiliaria, essendo sufficiente che essa
si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata la sua
complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio di
esperienza;
iv)
nell’avvalimento operativo è imposto alle parti di indicare nel
contratto i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata
per eseguire l’appalto con la precisazione per cui “l’articolo 88
del d.P.R. 207 del 2010, per la parte in cui prescrive che
il contratto di avvalimento debba riportare in modo
compiuto, esplicito ed esauriente […] le risorse e i mezzi
prestati in modo determinato e specifico, non legittim[a] né
un’interpretazione volta a sancire la nullità del contratto
a fronte di un oggetto che sia stato esplicitato in modo
(non determinato, ma solo) determinabile, né
un’interpretazione volta a riguardare l’invalidità del
contratto connessa alle modalità di esplicitazione
dell’oggetto sulla base del c.d. “requisito della
forma-contenuto”.
---------------
L’invalidità di un contratto di avvalimento andrà individuata, secondo l'ermeneutica
contrattuale di cui agli artt. 1325 e 1346 c.c., soltanto
nelle ipotesi in cui l'oggetto del contratto non risulti
determinato, né determinabile.
---------------
6. Anche il secondo motivo di ricorso non è fondato.
La CAR contesta alla Vu.Ta. la violazione dell’art. 89 d.lgs. 50/2016 nell’ambito dell’avvalimento “interno” posto
in essere con la società mandante Me., una prima
volta in qualità di ausiliaria (la Vu. ha fornito ausilio
sul fatturato specifico relativo ai lavori di smontaggio e
montaggio arredi, per un importo medio annuo di €
265,000,00, e sul fatturato specifico relativo alle attività
di carpenteria cassa per un importo medio annuo di €
80.000,00), una seconda volta in qualità di ausiliata (con
separato contratto la Me. s.r.l., quale
ausiliaria, ha messo a disposizione della Vu. il fatturato
specifico relativo alle attività di verniciatura arredi e
pellicolatura, per un importo medio annuo di € 700.000,00).
Secondo la ricorrente, questo tipo di avvalimento
riguarderebbe i requisiti di capacità tecnica e
professionale e sarebbe nullo in quanto non sarebbero state
messe a disposizione risorse materiali, ma solo finanziarie:
il che sarebbe legittimo in caso del cd. “avvalimento di
garanzia” (ovvero quando l’avvalimento riguardi il
fatturato, globale o specifico, inteso quale requisito di
capacità economica e finanziaria) ma non nel caso di ausilio
per i requisiti tecnici e professionali.
6.1. La censura è priva di pregio e muove dall’erroneo
presupposto che, nel caso di specie, il requisito in parola
riguardi la capacità tecnico-professionale e non quella
economico-finanziaria. Infatti, se pure l’indicazione è
contenuta nel già citato punto III.1.3) del bando (“Capacità
professionale e tecnica”), esso mette in diretta
correlazione capacità e fatturato.
In particolare, tra i “livelli minimi di capacità
richiesti”, oltre a tutta una serie di certificazioni, al
punto a) si richiede un “fatturato medio annuo, realizzato
nel triennio 2014-2016, riferito ad attività analoghe a
quelle oggetto della gara svolte su mezzi destinati al
trasporto viaggiatori, non inferiore al seguente importo: €
3.362.301,00 (al netto dell’IVA) suddiviso come segue: -
Smontaggio e montaggio arredi: nella misura pari al 52,50%,
equivalente a € 1.765.208,00; - Verniciatura arredi e pellicolatura cassa: nella misura pari al 52%, equivalente a
€ 1.075.956,52; - Carpenteria cassa: nella misura pari al
15,50%, equivalente a € 521.156,68;”, con la precisazione
che in caso di partecipazione alla gara da parte di RTI,
detti requisiti dovranno essere posseduti da tutti i membri
di detti operatori economici.
Ne discende che è legittimo e validamente prestato l’avvalimento
interno e reciproco, per cui la Me. s.r.l. si è
obbligata a fornire all'impresa ausiliata Vu.
l’integrazione al fatturato specifico medio annuo di impresa
conseguito nel triennio 2014-2016 per le attività di
“verniciatura arredi e pellicolatura cassa”, e, viceversa,
la Vu. ha integrato il fatturato della Me., per
il medesimo triennio, per le attività di “smontaggio e
montaggio arredi” nonché di “carpenteria cassa”. Il tutto
proporzionato a quanto previsto in base alle rispettive
quote di partecipazione al Raggruppamento (85% per Vu.,
15% per Me.) e come dettagliatamente illustrato
dalla difesa di parte (cfr. docc. 15 e 16 prod. Vu.).
Infatti, l’assunzione dell’obbligo di messa a disposizione
del fatturato specifico mancante in relazione alle singole
attività è più che sufficiente per considerare rispettata la
previsione del bando, e quindi non coglie nel segno la
censura di parte ricorrente la quale ha affermato che, nel
caso di specie, il prestito del fatturato specifico richieda
anche la elencazione, all’interno del contratto di avvalimento, di tutti i mezzi aziendali offerti dalla ditta
ausiliaria a sostegno del prestito del requisito.
Se l’avvalimento consiste nella messa a disposizione di
mezzi finanziari, infatti, esso costituisce comunque un
avvalimento di garanzia, nel quale la prestazione oggetto
specifico dell'obbligazione è costituita non già dalla messa
a disposizione da parte dell'impresa ausiliaria di strutture
organizzative e mezzi materiali, ma dal suo impegno a
garantire con le proprie complessive risorse economiche, il
cui indice è costituito dal fatturato, l’impresa ausiliata
munendola, così, di un requisito che altrimenti non avrebbe
e consentendole di accedere alla gara nel rispetto delle
condizioni poste dal bando (Cons. St., sez. V, 15.03.2016,
n. 1032).
È evidente che la serietà dell’impegno non può essere messa
in discussione in quanto ciò emerge dal rispettivo duplice
impegno assunto dalle imprese in questione (che non solo
hanno sottoscritto reciproci contratti di avvalimento, ma
sono anche legate dall’accordo interno al raggruppamento).
Emerge con chiarezza, in sintesi, quella che la
giurisprudenza recente qualifica come “impegno
contrattuale a prestare ed a mettere a disposizione dell'ausiliata
la complessiva solidità finanziaria e il patrimonio
esperienziale della prima, così garantendo una determinata
affidabilità e un concreto supplemento di responsabilità;
l'impresa ausiliaria, per effetto del contratto di
avvalimento, deve quindi diventare, di fatto, un garante
dell'impresa ausiliata sul versante economico-finanziario,
poiché solo in caso di avvalimento c.d. tecnico o operativo
(che quindi abbia ad oggetto requisiti diversi rispetto a
quelli di capacità economico-finanziaria) sussiste
l'esigenza di una messa a disposizione in modo specifico di
determinate risorse; tuttavia tale impegno a diventare un
garante dell'impresa ausiliata sul versante
economico-finanziario non può risultare nel contratto in
modo generico e quale semplice formula di stile, ma deve
essere in qualche modo determinato o, quantomeno,
determinabile, poiché l'impegno contrattualmente assunto
dall'ausiliaria deve ritenersi completo, concreto, serio e
determinato, nella misura in cui attesta la messa a
disposizione del fatturato e delle risorse eventualmente
necessarie e contenga un vincolante impegno finanziario nei
confronti della stazione appaltante, non risultando invece
necessari “la quantificazione ed il trasferimento delle
risorse finanziarie oggetto del predetto impegno
finanziario, anche considerato che quest'ultimo appare del
tutto imprevedibile nel contenuto al momento della
sottoscrizione del contratto di avvalimento” (così Cons. St.,
sez. III, 05.03.2018 n. 1339, ma vedi, dettagliatamente,
sez. V, 14.02.2018 n. 953, la quale ha chiaramente enunciato
la differenza che corre tra i due tipi di avvalimento e i
contenuti dei rispettivi contratti:
i) l’avvalimento di garanzia ricorre nel caso in cui l’ausiliaria
mette a disposizione dell’ausiliata la sua solidità
economica e finanziaria, rassicurando la stazione appaltante
sulle sue capacità di far fronte agli impegni economici
conseguenti al contratto d’appalto, anche in caso di
inadempimento (Cons. St., sez. III, 07.07.2015 n. 3390; id.,
07.06.2014 n. 3057); è tale l’avvalimento che ha ad oggetto
i requisiti di carattere economico–finanziario e, in
particolare, il fatturato globale o specifico;
ii) l’avvalimento operativo ricorre invece quando l’ausiliaria si
impegna a mettere a disposizione dell’ausiliata le risorse
tecnico–organizzative indispensabili per l’esecuzione del
contratto di appalto. È tale l’avvalimento che ha ad oggetto
i requisiti di capacità tecnico–professionale tra i quali,
ad esempio, la dotazione di personale dell’ausiliaria;
iii) nell’avvalimento di garanzia non è necessario che nel
contratto siano specificatamente indicati i beni
patrimoniali o gli indici materiali della consistenza
patrimoniale dell’ausiliaria, essendo sufficiente che essa
si impegni a mettere a disposizione dell’ausiliata la sua
complessiva solidità finanziaria e il suo patrimonio di
esperienza (cfr. con specifico riguardo al requisito del
fatturato globale o specifico, Cons. St., sez. V,
30.10.2017, n. 4973; id., sez. III, 11.07.2017, n. 3422; id.,
sez. V, 22.12.2016, n. 5423; id., sez. III, 17.11.2015, n.
5703 e 04.11.2015, nn. 5038 e 5041);
iv) nell’avvalimento operativo è imposto alle parti di indicare nel
contratto i mezzi aziendali messi a disposizione dell’ausiliata
per eseguire l’appalto con la precisazione, di cui a Cons.
Stato, Ad. plen., 04.11.2016, n. 23, per cui “l’articolo 88
del d.P.R. 207 del 2010, per la parte in cui prescrive che
il contratto di avvalimento debba riportare in modo
compiuto, esplicito ed esauriente […] le risorse e i mezzi
prestati in modo determinato e specifico, non legittim[a] né
un’interpretazione volta a sancire la nullità del contratto
a fronte di un oggetto che sia stato esplicitato in modo
(non determinato, ma solo) determinabile, né
un’interpretazione volta a riguardare l’invalidità del
contratto connessa alle modalità di esplicitazione
dell’oggetto sulla base del c.d. “requisito della
forma-contenuto”.
6.1.1. I suddetti principi valgono anche con riferimento a
quanto richiesto dal punto III.1.3. del bando, in quanto i
livelli minimi di capacità risultano attestati dal possesso
del relativo
fatturato senza che sia necessario indicare i
mezzi mediante i quali tale fatturato si è realizzato, e
questo conformemente ai principi sopra enunciati sull’avvalimento
di garanzia.
6.1.2. Va altresì ribadito che l’Adunanza plenaria 23 del
2016 ha ritenuto che l’invalidità di un contratto di avvalimento andrà individuata, secondo l'ermeneutica
contrattuale di cui agli artt. 1325 e 1346 c.c., soltanto
nelle ipotesi in cui l'oggetto del contratto non risulti
determinato, né determinabile.
Il Consiglio di Stato ha quindi fornito una interpretazione
rispettosa dei principi di concorrenza e non formalista,
confermando il ruolo dell’avvalimento ai fini della massima
partecipazione delle
imprese alle gare indette dalle
amministrazioni, e evidenziando che l’interpretazione del
contratto deve tener conto del caso concreto e della
peculiarità e degli interessi che lo caratterizzano
Pertanto, fermo restando che, come detto, la questione della
determinabilità dell’oggetto del contratto riguarda per lo
più il cd. avvalimento operativo e non quello di garanzia,
va comunque evidenziato che nel caso di specie è
perfettamente delineato nei contenuti il doppio avvalimento
interno al raggruppamento in cui l’ausiliaria (Vu.Ta.
s.r.l. in un caso, e Me. s.r.l. nell’altro)
esegue direttamente, secondo le quote di partecipazione all’RTI,
le attività per le quali è richiesta la capacità ex art. III.1.3.)
lett. a) del bando (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 28.08.2018 n. 5292 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Dies a quo per impugnare le esclusioni dalla gara - Soccorso
istruttorio in caso omesso deposito di una valida cauzione
provvisoria.
---------------
●
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super
accelerato – Impugnazione di ammissioni e esclusioni – Dies
a quo – Individuazione.
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Soccorso
istruttorio - Valida cauzione provvisoria – Deposito -
Omissione – Esclusione dalla gara – Obbligo di soccorso
istruttorio – Non sussiste.
●
Nella materia degli appalti, l’applicabilità del principio
della piena conoscenza ai fini della decorrenza del termine
di impugnazione, presuppone un particolare rigore
nell’accertamento della sussistenza di tale requisito; si
deve tener conto, infatti, sia della specialità della
normativa dettata dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., sia
dei presupposti cui il legislatore ha ricondotto la
decorrenza del termine per l’impugnazione: in base al comma
2-bis dell’art. 120 c.p.a., infatti, il termine inizia a
decorrere solo dopo la pubblicazione, ex art. 29, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, della determinazione sulle
ammissioni/esclusioni dei concorrenti, pubblicazione che
assicura la piena ed effettiva conoscenza degli atti di
gara; da ciò consegue che il principio della piena
conoscenza acquisita aliunde può applicarsi solo ove vi sia
una concreta prova dell’effettiva conoscenza degli atti di
gara, acquisita in data anteriore alla pubblicazione o
comunicazione degli atti della procedura medesima (1).
●
Non può essere attivato il soccorso istruttorio
in caso di omesso deposito di una valida cauzione
provvisoria, e ciò in quanto la cauzione provvisoria non
costituisce elemento formale della domanda ma correda e
completa l’offerta, stante il chiaro disposto dell’art. 93,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 che al comma 1, stabilisce che
“l'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria,
denominata garanzia provvisoria” (2).
---------------
(1)
Tar Napoli, sez. VIII, 18.01.2018, n. 394.
Ha chiarito il Tar che l’onere di ordinaria di diligenza
nell’acquisire la documentazione da parte del soggetto
interessato all’impugnazione della procedura non può
prevalere sugli obblighi imposti appositamente dal
legislatore in capo alla stazione appaltante. Vale a dire,
in conclusione, che la comunicazione “ufficiale” in
seduta pubblica delle imprese le cui offerte sono ammesse al
prosieguo della procedura non può sortire l’effetto di
surrogare tale avviso agli incombenti di cui all’art. 29,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50 pur se avvenuta alla presenza dei
rappresentanti dell’impresa che successivamente agisce in
giudizio, anche in ragione del fatto che se dalla irrituale
enunciazione resa in sede di seduta di gara si facesse
derivare in capo alle concorrenti l’onere di accedere agli
atti della procedura onde procedere alla contestazione del
provvedimento di ammissione (o di esclusione), si finirebbe
con l’eludere il sistema disegnato dalla norma che impone
alla Stazione appaltante di rendere disponibili, come
descritto, i relativi atti.
(2) Ha precisato il Tar che l’integrazione a mezzo di soccorso
istruttorio sarebbe potuta avvenire solo prima dell’esame
definitivo delle offerte e solo su irregolarità formali
attinenti la cauzione provvisoria e il documento comprovante
la stessa, ma certamente non consentendosi la produzione
successiva e a gara aggiudicata di una nuova cauzione
provvisoria una volta appurato da parte della stazione
appaltante che la precedente cauzione integrava un’ipotesi
di irregolarità “essenziale”.
In sintesi, non può utilizzarsi il soccorso istruttorio, sia
contestuale che postumo, per consentire la produzione
tardiva di un requisito sostanziale (o richiesto a
corredo/garanzia dell’offerta) inesistente al momento di
deposito dell’offerta presso la stazione appaltante (Cons.
St., sez. V, 27.12.2017, n. 6078; id.
11.12.2017, n. 5826).
Un significativo ausilio interpretativo all’istituto nella
sua nuova versione successiva all’aggiornamento delle
Direttive europee è dato dalla sentenza della Corte
giustizia comm. UE, sez. VIII, 28.02.2018, n. 523, la quale,
nell’evidenziare che il soccorso istruttorio di cui all’art.
51 della direttiva 2004/18 si limita a prevedere la semplice
possibilità, per l'amministrazione aggiudicatrice, di
invitare coloro che presentano un'offerta nell'ambito di una
procedura di gara d'appalto a integrare o a chiarire la
documentazione da fornire in sede di valutazione delle
condizioni di ricevibilità della loro offerta, che dimostri
la loro capacità economica e finanziaria e le loro
conoscenze o capacità professionali e tecniche, e nel
precisare che la Direttiva non specifica le modalità o le
condizioni in base alle quali una siffatta regolarizzazione
può avvenire, al pt. 48 sancisce che “quando si avvalgono
della facoltà prevista all'art. 51 della direttiva 2004/18,
gli Stati membri devono fare in modo di non compromettere la
realizzazione degli obiettivi perseguiti da tale direttiva e
di non pregiudicare né l'effetto utile delle sue
disposizioni né le altre disposizioni e gli altri principi
pertinenti del diritto dell'Unione, in particolare i
principi di parità di trattamento e di non discriminazione,
di trasparenza e di proporzionalità”.
“Il meccanismo del soccorso istruttorio infatti non può
essere interpretato nel senso di consentire
all'Amministrazione aggiudicatrice di ammettere qualsiasi
rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni
della legge di gara, devono portare all'esclusione
dell'offerente, dovendo l'Amministrazione aggiudicatrice
osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati (v.
in tal senso: Corte giustizia comm. UE 06.11.2014, in
C-42/13, Cartiera dell'Adda; id. 10.11.2016, in C-199/15
Ciclat, C-199/15; id. 10.10.2013, in C-336/12, Manova; id.
11.05.2017, in C-131/16, Archus e Gama), né può agevolare un
solo concorrente il quale presenta così una nuova offerta
(Corte giustizia comm. UE 29.03.2012, SAG ELV Slovensko e a.,
C-599/10, pt. 40; id., 11.05.2017, C-131/16, Archus e Gama,
punto 31).”
Inoltre, rileva la Corte, “conformemente al principio di
proporzionalità, che costituisce un principio generale del
diritto dell'Unione e cui l'aggiudicazione di appalti
conclusi negli Stati membri deve conformarsi, come risulta
sia dal considerando 9 della direttiva 2004/17 sia dal
considerando 2 della direttiva 2004/18, le misure adottate
dagli Stati membri non devono andare al di là di quanto è
necessario per raggiungere tale obiettivo (v., in tal senso,
sentenze del 16.12.2008, Michaniki, C-213/07, pt. 48 e 61;
id. 19.05.2009, C-538/07, Assitur, pt. 21 e 23; id.
23.12.2009, C-376/08, Serrantonie Consorzio stabile edili,
pt. 33, nonché 22 ottobre 2015, Impresa Edilux e SICEF,
C-425/14, punto 29)”
(TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 28.08.2018 n. 5292 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3.3. Venendo al merito della questione, la produzione della
nuova fideiussione supera le varie deduzioni delle parti in
ordine alla valutazione della cauzione garantita dalla
Ma.: è direttamente la stazione appaltante che, avviando
una procedura di soccorso istruttorio in data successiva
all’ordinanza cautelare, ha espressamente ammesso
l’esistenza di “un’irregolarità essenziale” relativamente
alla cauzione prodotta dalla Fe.e costituita dalla Ma.Fi.Ca., chiedendone la sostituzione e con ciò
confermando la correttezza della delibazione del collegio
che in sede cautelare aveva escluso che l’offerta della Fe. fosse validamente munita di cauzione provvisoria
come richiesto dal bando.
Parimenti, la Fe., procurandosi una nuova e diversa
garanzia a firma di un diverso intermediario, ha nei fatti
rinunciato a insistere nelle tesi difensive in favore della
legittimità della cauzione provvisoria originariamente
prodotta in giudizio.
3.4. Deve quindi passarsi ad esaminare la diversa questione
dell’ammissibilità della nuova fideiussione prestata da
Fi. per Fe., a seguito dell’avvio d’ufficio della
menzionata procedura di soccorso istruttorio da parte di
Trenitalia in data 26.04.2018 (doc. 1 Trenitalia
produzione del 02.05.2018).
La nota in questione, successiva alla pubblicazione
dell’ordinanza cautelare di questa Sezione (che, di fatto,
ha sospeso l’aggiudicazione in attesa della decisione
definitiva), ha ritenuto necessaria, al fine di sanare
l’irregolarità essenziale costituita dalla cauzione
provvisoria presentata a mezzo polizza rilasciata dalla
Ma.Fi.Ca., la produzione di “una nuova cauzione,
di pari importo in sostituzione della precedente, da
costituire in una delle forme previste al paragrafo III.1.6
lettera a) del Bando di Gara e quindi: all’atto della
presentazione dell’offerta, da parte di tutti i concorrenti,
con validità per almeno 180 giorni dalla data di scadenza
del termine fissato per la presentazione dell’offerta,
costituita, alternativamente o mediante versamento in
contanti presso Unicredit S.p.A. [….]" oppure “mediante
fideiussione a prima domanda – bancaria o assicurativa o
rilasciata da un intermediario iscritto nell’elenco speciale
di cui all’articolo 106 del decreto legislativo 01.09.1993,
n. 385, abilitato a prestare garanzie nei confronti del
pubblico, ai sensi del DM n. 53/2015, che svolge in via
esclusiva o prevalente attività di rilascio di garanzie [….]“.
Ciò, come detto, è avvenuto attraverso il deposito della
nuova polizza rilasciata da Fi. in favore del RTI
Fe., ed è stato oggetto di puntuale contestazione da
parte della ricorrente nelle memorie difensive e repliche
depositate in vista dell’udienza del 23.05.2018.
3.4.1. Il Collegio ritiene, in primo luogo, che la (nuova)
cauzione provvisoria costituita dalla polizza Fi. non
sia valida, in quanto allegata all’offerta all’esito di una
procedura di soccorso istruttorio illegittima, che
Trenitalia non avrebbe in alcun modo potuto attivare.
L’art. 83, co. 9, del d.lgs. 50/2016, infatti, autorizza
l’espletamento della procedura di soccorso istruttorio per
sanare le carenze di qualsiasi elemento formale della
domanda, ma non contempla l’ipotesi di integrazione delle
offerte o degli elementi a corredo delle stesse, come lo è
la cauzione provvisoria.
A conferma della relazione esistente tra soccorso
istruttorio e forma della domanda, l’ultimo periodo della
medesima disposizione qualifica come irregolarità essenziali
non sanabili le “carenze della documentazione” che non
consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto
responsabile della stessa.
Per contro, la cauzione provvisoria non costituisce elemento
formale della domanda ma essa correda e completa l’offerta,
stante il chiaro disposto dell’art. 93 d.lgs. 50/2016 che al
comma 1, stabilisce: “l'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata "garanzia provvisoria”.
Nella gara oggetto di giudizio ciò è peraltro evincibile sia
dal par. III.1.6 del bando che inequivocabilmente collega la
costituzione della cauzione provvisoria alla presentazione
dell’offerta, che dal par. IV) del Disciplinare, che la
inserisce tra la documentazione a corredo dell’offerta.
È quindi evidente che l’integrazione a mezzo di soccorso
istruttorio sarebbe potuta avvenire solo prima dell’esame
definitivo delle offerte e solo su irregolarità formali
attinenti la cauzione provvisoria e il documento comprovante
la stessa (peraltro trattandosi di gara telematica il
documento per la presentazione della cauzione era allegato
al Disciplinare di gara- all. D.1.), ma certamente non
consentendosi la produzione successiva e a gara aggiudicata
di una nuova cauzione provvisoria una volta appurato da
parte della stazione appaltante, per effetto della decisione
sia pur cautelare del giudice amministrativo, che la
precedente cauzione integrava un’ipotesi di irregolarità
“essenziale”.
A bene vedere, tale ultima qualificazione è del tutto
arbitraria e pressoché irrilevante ai fini dell’attivazione
della procedura di soccorso istruttorio, e questo non solo
per evidenti motivi di violazione di qualsiasi forma di
par condicio tra i concorrenti nella sanatoria dei vizi
dell’offerta, ma anche alla luce del chiaro disposto del
par. VI del Disciplinare di gara che tra i “motivi di
esclusione delle offerte” prevede espressamente alla
lett. i) la “mancata costituzione della cauzione
provvisoria”.
Né Trenitalia può appellarsi al proprio Disciplinare di gara
laddove, al par. X), prevede che “ai sensi di quanto
previsto dall’art. 83, comma 9, del d.lgs. 50/2016 si
comunica che nel caso in cui Trenitalia riscontri la
mancanza, l’incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni rese dal
concorrente, lo stesso sarà tenuto al pagamento, in favore
di Trenitalia medesima, di una sanzione pecuniaria pari a
euro 5.000,00. Nel caso in cui il concorrente non provveda
ad integrare e/o regolarizzare la documentazione risultata
carente entro il termine indicato in sede di soccorso
istruttorio Trenitalia provvederà ad escludere il
concorrente dalla gara.”
Infatti, il testo del Disciplinare si discosta dal contenuto
del comma 9 dell’art. 83, che menziona la carenza dei soli
elementi formali della domanda, e si ispira ai contenuti del
comma 2-bis dell’art. 38 del Codice dei contratti previgente
(d.lgs. 163 del 2006), più permissivi in termini di
ammissibilità del soccorso istruttorio anche in relazione al
comma 1-ter dell’art. 46, ma ormai ampiamente superati sia
dalla normativa nazionale che, prima ancora, da quella
comunitaria.
3.4.1.1. Sotto la vigenza della precedente disposizione e in
relazione alle gare assoggettate al Codice del 2006, la
giurisprudenza amministrativa, accanto a casi nei quali ha
consentito la sanatoria delle irregolarità concernenti la
cauzione provvisoria purché prestata nei termini previsti
dal bando di gara (Cons. St., sez. V, 15.10.2015, n. 4764),
ha altresì ammesso il soccorso istruttorio sia nei casi di
mancata presentazione della cauzione provvisoria sia in
quelli di presentazione di una cauzione provvisoria invalida
(vedi, con riguardo a una gara del 2015, Cons. St., sez. V,
23.03.2018 n. 1846), e ha persino consentito
all’aggiudicataria la sostituzione della garanzia (caso
analogo a quello oggetto del presente giudizio) laddove
fosse stata rilevata l'esistenza di una obiettiva situazione
di incertezza al tempo della presentazione dell'offerta,
accertandosi solo in un momento successivo
all’aggiudicazione, e per effetto di un comunicato
interpretativo dell’ANAC, l’inidoneità dell’intermediario
prescelto a rilasciare garanzie nei confronti del pubblico (Cons.
St., sez. V, 29.01.2018 n. 591) (in argomento, anche in
relazione al rapporto tra soccorso istruttorio e principio
di tassatività della cause di esclusione di cui all’art. 46,
comma 1-bis, d.lgs. 163/2016 vedi Cons. St., sez. III,
13.11.2017, n. 5226; TAR Liguria, sez. I, 24.07.2017, n.
668).
In concreto, i casi di soccorso istruttorio postumo,
consistenti nell’attivazione, da parte della stazione
appaltante, del soccorso istruttorio rispetto ai requisiti
di partecipazione anche in un momento successivo
all'aggiudicazione in favore della medesima impresa, sono
sempre collegati a situazioni di carenza documentale,
sanabile in base ai principi del Codice Appalti previgente,
e comunque conformi all’allora vigente art. 46, co. 1-ter
(vedi Cons. St., Sez. V, 14.07.2017 n. 3645, in un caso nel
quale il soccorso istruttorio veniva attivato “per
ottenere l'integrazione dell'omessa dichiarazione relativa
ai procuratori in fase di prequalifica e in sede di offerta”,
dichiarazione che non vi era stata in ragione
dell'incertezza sui soggetti che potessero renderla, alla
luce di un dibattito giurisprudenziale esistente all’epoca
circa la riconducibilità dei procuratori speciali (o ad
negotia) alla categoria degli “amministratori muniti
dei poteri di rappresentanza”).
In particolare, può evincersi a contrario dalla
giurisprudenza emessa vigente il precedente Codice dei
contratti pubblici, che il soccorso istruttorio cd.
processuale era sì istituto la cui applicazione da parte
delle stazioni appaltanti era auspicabile e incentivata (e
questo, per Cons. St., Sez. III, 02.03.2017 n. 976, avrebbe
evitato effetti eccessivamente gravosi, irragionevoli e
sproporzionati sia per la P.A. che per l’impresa: quest’ultima
sarebbe privata della possibilità di stipulare il contratto,
pur disponendo, in via sostanziale, dei necessari requisiti,
col rischio, per la stazione appaltante, di dover risarcire
l’impresa aggiudicataria, privata del contratto e della
possibilità di ricorrere al soccorso istruttorio)
ma sempre
in casi di acclarata carenza documentale e comunque quando
era certa l’esistenza del requisito sostanziale sanabile
mediante la produzione postuma del documento.
In questi casi, la giurisprudenza ha escluso espressamente
un vulnus alla par condicio tra i concorrenti, in
quanto vi sarebbe una “sostanziale disapplicazione della
disciplina introdotta dal legislatore, al fine di evitare le
esclusioni dalle gare di appalto per ragioni meramente
formali, quando sussiste in concreto, e fin dal momento del
rilascio della dichiarazione irregolare, il requisito
soggettivo richiesto in sede di gara” (così Cons. St.
976/2017, cit.)
3.4.1.2. Orbene, fermo restando quanto già precisato in
ordine alle differenze tra il soccorso istruttorio
precedente e quello disciplinato dal comma 9 dell’art. 83
del nuovo Codice dei contratti, il caso oggetto del presente
giudizio non avrebbe potuto essere oggetto di soccorso
istruttorio processuale neppure sotto la vigenza del d.lgs.
163 del 2006, in quanto la cauzione provvisoria rilasciata
da un operatore non abilitato equivale a cauzione
provvisoria mancante e, come tale, non può in alcun modo
essere sanata alla stregua di una mera irregolarità
documentale, trattandosi di una precisa carenza degli
elementi a corredo dell’offerta, prevista a pena di
esclusione dalla lex specialis.
Ritenere che il soccorso istruttorio postumo si risolva
nella produzione di un documento nuovo, oltretutto formatosi
dopo che questa Sezione aveva chiaramente enunciato che la
precedente cauzione provvisoria era inutilizzabile (e questo
nonostante le parti resistenti avessero tentato in giudizio
di difenderne la validità) tradisce non solo il dettato
normativo e lo spirito dell’istituto, ma incorre nel
marchiano errore di considerarlo alla stregua di una
irregolarità documentale, intesa come vizio di forma di un
documento già esistente anche se non prodotto e comunque
riferibile a una situazione anch’essa esistente e
attestabile ex post, assimilabile alla produzione di un
documento formato ex novo che in realtà è solo il simulacro
formale di un elemento sostanziale dell’offerta che la parte
non possedeva al momento della scadenza del termine di
presentazione delle offerte stesse.
In sintesi,
non può utilizzarsi il soccorso istruttorio, sia
contestuale che postumo, per consentire la produzione
tardiva di un requisito sostanziale (o richiesto a
corredo/garanzia dell’offerta) inesistente al momento di
deposito dell’offerta presso la stazione appaltante
(vedi Cons. St., sez. V, 27.12.2017 n. 6078; Id., Sez. V,
11.12.2017 n. 5826).
3.4.1.3.
Un significativo ausilio interpretativo
all’istituto nella sua nuova versione successiva
all’aggiornamento delle Direttive europee è dato dalla
sentenza della Corte giustizia UE, sez. VIII, 28.02.2018, n.
523, la quale, nell’evidenziare che il soccorso istruttorio
di cui all’art. 51 della direttiva 2004/18 si limita a
prevedere la semplice possibilità, per l'amministrazione
aggiudicatrice, di invitare coloro che presentano un'offerta
nell'ambito di una procedura di gara d'appalto a integrare o
a chiarire la documentazione da fornire in sede di
valutazione delle condizioni di ricevibilità della loro
offerta, che dimostri la loro capacità economica e
finanziaria e le loro conoscenze o capacità professionali e
tecniche, e nel precisare che la Direttiva non specifica le
modalità o le condizioni in base alle quali una siffatta
regolarizzazione può avvenire, al pt. 48 sancisce che “quando
si avvalgono della facoltà prevista all'articolo 51 della
direttiva 2004/18, gli Stati membri devono fare in modo di
non compromettere la realizzazione degli obiettivi
perseguiti da tale direttiva e di non pregiudicare né
l'effetto utile delle sue disposizioni né le altre
disposizioni e gli altri principi pertinenti del diritto
dell'Unione, in particolare i principi di parità di
trattamento e di non discriminazione, di trasparenza e di
proporzionalità”.
“Il meccanismo del soccorso istruttorio infatti non può
essere interpretato nel senso di consentire
all'Amministrazione aggiudicatrice di ammettere qualsiasi
rettifica a omissioni che, secondo le espresse disposizioni
della legge di gara, devono portare all'esclusione
dell'offerente, dovendo l'Amministrazione aggiudicatrice
osservare rigorosamente i criteri da essa stessa fissati
(v.
in tal senso: CGUE 06.11.2014, in C-42/13, Cartiera
dell'Adda; Id., 10.11.2016, in C-199/15 Ciclat, C-199/15; Id.,
10.10.2013, in C-336/12, Manova; Id., 11.05.2017, in
C-131/16, Archus e Gama), né può agevolare un solo
concorrente il quale presenta così una nuova offerta (CGUE
29.03.2012, SAG ELV Slovensko e a., C-599/10, pt. 40; id.,
11.05.2017, C-131/16, Archus e Gama, punto 31).”
Inoltre, rileva la Corte, “conformemente al principio di
proporzionalità, che costituisce un principio generale del
diritto dell'Unione e cui l'aggiudicazione di appalti
conclusi negli Stati membri deve conformarsi, come risulta
sia dal considerando 9 della direttiva 2004/17 sia dal
considerando 2 della direttiva 2004/18, le misure adottate
dagli Stati membri non devono andare al di là di quanto è
necessario per raggiungere tale obiettivo
(v., in tal senso,
sentenze del 16.12.2008, Michaniki, C-213/07, pt. 48 e 61;
id., 19.05.2009, C-538/07, Assitur, pt. 21 e 23; id.,
23.12.2009, C-376/08, Serrantonie Consorzio stabile edili,
pt. 33, nonché 22.10.2015, Impresa Edilux e SICEF, C-425/14,
punto 29)”.
Nello specifico,
in linea con la nuova tipologia di soccorso
istruttorio regolamentata dal Codice del 2016, il campo
applicativo dell’istituto ai vizi della cauzione provvisoria
si è molto ristretto e circoscritto ai vizi formali quali,
ad esempio, l'allegazione del foglio recante l'autentica
notarile della sottoscrizione della cauzione provvisoria
presentata da un concorrente
(TAR Campania Napoli, sez. III,
27.07.2017 n. 3990).
Che non sia possibile procedere al soccorso istruttorio in
casi analoghi a quello oggetto del presente giudizio, ossia
per il caso di cauzione prestata da intermediari non
iscritti o cancellati dall'albo di cui all'art. 106 TUB, lo
confermano anche ulteriori interventi giurisprudenziali
(Cons.
St., sez. IV, 05.05.2016, n. 1803).
3.4.2. In secondo luogo, va ribadito che nel caso di specie
l’obbligatorietà dell’allegazione della cauzione provvisoria
all’offerta era direttamente desumibile dal combinato
disposto del par. III.1.6. del bando e dal par. VI del
Disciplinare, laddove si prevede che “si procederà
all’esclusione delle offerte nei seguenti casi: [….] i)
mancata costituzione della cauzione provvisoria”.
Non vi sono quindi dubbi in ordine alla circostanza che la
legge di gara abbia richiesto come obbligatoria l’esistenza
di una regolare cauzione provvisoria costituita già al
momento della valutazione delle offerte, e rilevante ai fini
dell’esclusione.
3.4.3. Per completezza, trattandosi di argomento assai
attuale e controverso, il Collegio evidenzia che
l’incertezza giurisprudenziale sulla obbligatorietà della
costituzione della cauzione provvisoria sin dal momento
della presentazione dell’offerta (e, di conseguenza, sulla
sanzione applicabile in caso di omissione) è legata al fatto
che il Codice dei contratti (anche nella precedente
formulazione) non stabilisce una sanzione specifica in
ordine all’omissione di tale adempimento, limitandosi a
affermare che “l'offerta è corredata da una garanzia
fideiussoria, denominata garanzia provvisoria” (art. 93,
comma 1, d.lgs. 50/2016; art. 75 d.lgs. 163 del 2016).
Sul punto,
diverse pronunce dei giudici amministrativi sono
favorevoli a ritenere che la cauzione provvisoria non assume
la configurazione di un requisito di ammissione alla gara,
che deve essere già posseduto entro il termine di
presentazione delle offerte, ma costituisce una garanzia di
serietà dell’offerta e di liquidazione preventiva e forfettaria del danno, in caso di mancata sottoscrizione del
contratto di appalto imputabile al concorrente a titolo di
dolo o colpa e/o di esclusione dalla gara per l’assenza dei
requisiti di ammissione
(Cons. St., sez. IV, 06.04.2016 n.
1377 che conferma Tar Lazio Sez. III-ter, 10.06.2015 n.
8143; Tar Basilicata 27.07.2017 n. 531);
di conseguenza non
possono essere esclusi dalla gara gli offerenti che hanno
stipulato la cauzione provvisoria dopo la presentazione
dell’offerta e/o dopo la scadenza del termine di
presentazione delle offerte, quando il periodo di 180 giorni
della sua efficacia retroagisce dalla data di presentazione
dell’offerta.
Per contro,
la giurisprudenza maggioritaria
(Corte cost.,
ord., 13.07.2011, n. 211; Cons. St., sez. V, 24.11.2011, n.
6239; id., sez. V, 09.11.2010, n. 7963; id., sez. V,
05.08.2011, n. 4712; id., sez. V, 12.06.2009, n. 3746; id.,
sez. V, 08.09.2008, n. 4267; id., sez. V, 09.12.2002, n.
6768)
nonché le Autorità di settore
(Autorità per la
vigilanza sui contratti pubblici, determinazione n. 1 del
2010), così come richiamati e condivisi dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato nella decisione n. 34 del
10.12.2014,
ritengono che la cauzione costituisca parte
integrante dell’offerta e non mero elemento di corredo della
stessa; sicché essa si pone come strumento di garanzia della
serietà ed affidabilità dell’offerta che vincola le imprese
partecipanti ad una gara pubblica all’osservanza
dell’impegno assunto a rispettarne le regole,
responsabilizzandole, mediante l’anticipata liquidazione dei
danni subiti; l’escussione della cauzione provvisoria si
profila quindi come garanzia del rispetto dell’ampio patto
di integrità cui si vincola chi partecipa ad una gara
pubblica.
Discende da ciò (vedi Determinazione dell’Autorità Nazionale
Anticorruzione n. 1 dell’08.01.2015 e successivo
Comunicato del Presidente del 01.07.2015) che,
pur
ritenendosi sanabili (dopo l’entrata in vigore del combinato
disposto dell’art. 38, comma 2-bis e 46, comma 1-ter del d.lgs. 163 del 2016) le ipotesi di mancanza, incompletezza o
irregolarità riferita alla cauzione provvisoria, ciò è
escluso qualora quest’ultima non sia stata già costituita
alla data di presentazione dell’offerta e non rispetti la
previsione di cui all’art. 75, comma 5 del Codice, vale a
dire decorra da tale data, pena l’alterazione della parità
di trattamento tra i concorrenti.
Sotto la vigenza dell’art. 93 si segnalano, in senso
conforme, Cons. St., sez. V, n. 2181 del 10.04.2018, TAR
Lazio, sez. I, 18.01.2017 n. 878, Tar Sardegna, sez. I,
21.04.2017, n. 275 (che esclude anche il soccorso
istruttorio, posto, infatti, che, “ai sensi dell'art. 83,
Nuovo Codice degli Appalti, il soccorso istruttorio è
previsto solo per le carenze di qualsiasi elemento formale
della domanda, tale non potendosi qualificare l'impegno del
fideiussore a rilasciare la garanzia fideiussoria”, per
cui rispetto a tale impegno, “è posto, in capo alle ditte
partecipanti alle gare per l'aggiudicazione dei contratti
pubblici, un preciso obbligo, a pena di esclusione”).
3.4.3.1.
Il Collegio aderisce a quest’ultimo orientamento,
in quanto più aderente al testo del Codice dei contratti,
più conforme alla funzione dell’istituto e più coerente
rispetto alla nuova disciplina dettata in tema di soccorso
istruttorio, non dovendosi più giustificare, sotto un
profilo sistematico, il previgente art. 75 con gli artt. 38,
comma 2-bis, e 46, co. 1-ter, del d.lgs. 163/2016; infatti,
attualmente, la disciplina del soccorso istruttorio di cui
all’art. 83, co. 9, d.lgs. 50/2016 non giustifica, come già
detto, regolarizzazioni postume che non abbiano carattere
meramente formale, sì che in caso di omessa prestazione
della cauzione provvisoria o di allegazione di una cauzione
invalida nessun rimedio postumo è esercitabile, e
l’esclusione dell’impresa inadempiente dalla gara è l’unica
soluzione possibile per la stazione appaltante.
3.5. Le vicende di gara, la conferma –da parte di Trenitalia
nella nota di avvio del soccorso istruttorio postumo- in
ordine alla necessità della sostituzione della cauzione
originaria e la circostanza che sin dall’inizio la Ma.Fi.Ca. non potesse rilasciare alcun tipo di garanzia in
quanto cancellata dall’elenco di cui all’art. 106 TUB, non
lasciano dubbi in ordine all’assenza della allegazione della
cauzione provvisoria a corredo della domanda dell’RTI
aggiudicatario Fe..
Ne discende che Fe., fin dall'inizio della procedura di
gara e per tutto il suo svolgimento, non era in possesso del
prescritto requisito della polizza, così come richiesta dal
bando e dal disciplinare di gara a pena di esclusione.
3.6. In forza delle motivazioni rese in precedenza dal
Collegio in ordine all’inapplicabilità del soccorso
istruttorio postumo, alla natura della cauzione provvisoria
e al regime al quale è assoggettata l’impresa che non
l’abbia prodotta nei termini o ne abbia prodotta una
invalida, deve essere accolto il ricorso dell’RTI Vu.Ta. (RG 1023/18) e decretata l’esclusione dell’RTI
Fe. dalla gara oggetto del presente giudizio (TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 28.08.2018 n. 5292 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
- il regime proprio dell’attività edilizia
subordinata alla presentazione della c.i.l.a., a differenza
di quello proprio dell’attività edilizia subordinata alla
presentazione della s.c.i.a., non prevede una fase di
controllo successivo (con eventuale esito inibitorio), da
esperirsi entro il termine perentorio ex art. 23, comma 6,
del d.p.r. n. 380/2001, che è inapplicabile alla prima delle
indicate categorie di interventi;
- in relazione alla tipologia di interventi ex art. 6-bis del
d.p.r. n. 380/2001, l'amministrazione dispone, dunque, di un
unico potere, che è quello sanzionatorio da esercitarsi nel
caso in cui le opere realizzate risultino in contrasto con
la disciplina urbanistico-edilizia;
- eventuali pronunciamenti anticipati dell’amministrazione in
ordine alla legittimità degli interventi comunicati con
c.i.l.a. non rivestono, quindi, carattere provvedimentale;
- ciò non esclude, tuttavia, in radice un interesse concreto e
attuale dei relativi soggetti destinatari a tutelarsi in via
giurisdizionale immediatamente avverso essi, nella misura in
cui prefigurano, a guisa di contestazioni preventive, le
susseguenti determinazioni sfavorevoli dell’amministrazione.
---------------
Considerato, in limine, che:
- il regime proprio dell’attività edilizia subordinata alla
presentazione della c.i.l.a., a differenza di quello proprio
dell’attività edilizia subordinata alla presentazione della
s.c.i.a., non prevede una fase di controllo successivo (con
eventuale esito inibitorio), da esperirsi entro il termine
perentorio ex art. 23, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001, che
–a dispetto degli assunti di parte ricorrente– è
inapplicabile alla prima delle indicate categorie di
interventi;
- in relazione alla tipologia di interventi ex art. 6-bis del
d.p.r. n. 380/2001, l'amministrazione dispone, dunque, di un
unico potere, che è quello sanzionatorio da esercitarsi nel
caso in cui le opere realizzate risultino in contrasto con
la disciplina urbanistico-edilizia;
- eventuali pronunciamenti anticipati dell’amministrazione in
ordine alla legittimità degli interventi comunicati con
c.i.l.a. –quali quelli in questa sede impugnati– non
rivestono, quindi, carattere provvedimentale (cfr., in tal
senso, TAR Veneto, Venezia, sez. II, n. 415/2015; TAR
Toscana, Firenze, sez. III, n. 1625/2016);
- ciò non esclude, tuttavia, in radice un interesse concreto e
attuale dei relativi soggetti destinatari a tutelarsi in via
giurisdizionale immediatamente avverso essi, nella misura in
cui –come, appunto, nella specie– prefigurano, a guisa di
contestazioni preventive, le susseguenti determinazioni
sfavorevoli dell’amministrazione;
- di qui, dunque, l’ammissibilità delle censure rassegnate dalla
ricorrente in ordine ai presupposti di ritenuta
illegittimità della c.i.l.a. del 19.03.2018, prot. n. 14647 (TAR
Campabia-Salerno, Sez. II,
sentenza 28.08.2018 n. 1215 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In caso di abuso edilizio, il provvedimento che
ordina la demolizione può avere una motivazione succinta
affermando che "l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora–
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare”.
Tale indirizzo è stato
autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di
demolizione che siano intervenuti a distanza di tempo dal
verificarsi dell’abuso.
---------------
Con riferimento specifico ad un provvedimento relativo all’Ente Parco si è puntualizzato
che “L'ordine di
rimozione di opere abusive è atto vincolato e necessitato
che non richiede nessun'altra motivazione se non
l'accertamento del carattere abusivo dell'opera. Pertanto,
l'Ente Parco, nell'adottare siffatto
provvedimento, non deve compiere alcuna particolare
valutazione circa la concreta incidenza dell'intervento
sull'assetto del territorio né una comparazione tra
l'interesse del privato e quello pubblico che è in re ipsa,
consistendo quest'ultimo nel ripristino dei valori
naturalistici, paesaggistici ed ambientali violati; né
infine sussiste la possibilità di adottare provvedimenti
alternativi.”
---------------
Lamenta poi il ricorrente un vizio di motivazione dei
provvedimenti impugnati. Il gravame risulta privo di pregio.
La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio ritiene
che, in caso di abuso edilizio, il provvedimento che ordina
la demolizione può avere una motivazione succinta affermando
che "l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora–
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare” (Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Tale indirizzo è stato
autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di
demolizione che siano intervenuti a distanza di tempo dal
verificarsi dell’abuso (Cons. di stato, A.P. n. 9/2017).
Con riferimento specifico ad un provvedimento relativo all’Ente Parco Vesuvio si è puntualizzato TAR Napoli
(Campania) sez. III 28.08.2017 n. 4142 “L'ordine di
rimozione di opere abusive è atto vincolato e necessitato
che non richiede nessun'altra motivazione se non
l'accertamento del carattere abusivo dell'opera. Pertanto,
l'Ente Parco Nazionale del Vesuvio, nell'adottare siffatto
provvedimento, non deve compiere alcuna particolare
valutazione circa la concreta incidenza dell'intervento
sull'assetto del territorio né una comparazione tra
l'interesse del privato e quello pubblico che è in re ipsa,
consistendo quest'ultimo nel ripristino dei valori
naturalistici, paesaggistici ed ambientali violati; né
infine sussiste la possibilità di adottare provvedimenti
alternativi" (Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 27.08.2018 n. 2059 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione di istanza di accertamento in
sanatoria, successiva all’ordinanza di demolizione, produce
effetti sull’ordine di demolizione generando un arresto
temporaneo dell’esecutività delle misure ripristinatorie.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, una volta
presentata l’istanza di accertamento in sanatoria, si
verificano effetti interruttivi sino al provvedimento
dell’amministrazione. Tale provvedimento può avere natura
tacita e configurarsi come un silenzio rigetto trascorso il
termine per l’emanazione del provvedimento.
Invero, “In adesione ad un diffuso orientamento
giurisprudenziale rileva che il silenzio
dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in
sanatoria e sulla istanza di accertamento di conformità di
cui all’articolo 36 del testo unico sull’edilizia ha un
valore legale tipico di rigetto e cioè costituisce una
ipotesi di silenzio significativo al quale vengono collegati
gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego. La
natura provvedimentale è poi confermata da un elemento pure
esso rilevante, quello letterale: la norma di cui
all’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 riprende il contenuto
prescrittivo già recato dall’articolo 13, comma 2, della
legge n. 47/1985, secondo cui sulla richiesta di sanatoria si
pronuncia il dirigente o il responsabile entro sessanta
giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata. È
evidente che l’inutile decorso del predetto termine comporta
la reiezione della domanda de qua e quindi si invera un vero
e proprio provvedimento tacito di diniego”.
---------------
Nel caso di specie si era formato il silenzio
provvedimentale, di per sé idoneo a configurare un’ipotesi
di silenzio-rigetto e tuttavia, come sopra indicato, con
provvedimento espresso l’amministrazione aveva comunicato,
successivamente alla presentazione del ricorso, il diniego
all’istanza di accertamento in sanatoria. Il silenzio e poi
il provvedimento comportano la cessazione degli effetti
sospensivi, restituendo piena efficacia all’ordine di
demolizione senza che sia necessaria l’adozione di un nuovo
provvedimento.
---------------
Lamenta poi il ricorrente difetto di motivazione dei
provvedimenti impugnati. Secondo la giurisprudenza di questo
consiglio in caso di abuso edilizio il provvedimento che
ordina la demolizione può avere una motivazione succinta
trattandosi di atto vincolato. Tale indirizzo è stato confermato dall’
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con
riferimento ad ordini di demolizione intervenuti a distanza
di tempo dal verificarsi dell’abuso.
---------------
Con ordinanza n. 47/2011 l’Ente Parco Vesuvio ordinava la
demolizione di opere abusive. Con accertamento da parte del
Corpo Forestale dello Stato si accertava l’inottemperanza
all’ordine di demolizione e si rinvenivano ulteriori opere
abusive in assenza dei prescritti nulla osta ed
autorizzazione.
Con ordinanza di demolizione n. 28 del 16.05.2014 il Comune
di Terzigno ordinava al ricorrente l’immediata sospensione
dei lavori edilizi abusivi, ingiungendo la demolizione delle
opere entro 90 giorni.
Con nota prot. 2269 del 04/06/2014 l’Ente Parco Vesuvio
provvedeva ad inviare al ricorrente la comunicazione di
avvio del procedimento ai sensi della legge 241/1900 art. 7.
Con ordinanza n. 16/2014 del 05/09/2014 prot. G.3617 del
05.09.2014 notificata in data 17.09.2014, l’Ente Parco
Vesuvio ordinava la demolizione delle opere.
Con nota prot. n. 4640 del 03.11.2014 il ricorrente
depositava istanza di autorizzazione in sanatoria
Il 15.11.2014 il signor An. presentava il
ricorso al Consiglio di Stato.
Con nota successiva n. prot. 229 del 30/01/2015 l’Ente Parco
comunicava al ricorrente, al Comune di Terzigno ed al CTA
del Corpo forestale dello Stato le ragioni ostative
dell’inammissibilità della domanda di autorizzazione in
sanatoria.
Dalla relazione presentata dall’ amministrazione risulta che
il ricorrente ricevuta la comunicazione del diniego,
intervenuta successivamente alla presentazione del ricorso,
non abbia proposto motivi aggiunti o proposto nuovo ricorso
contro il provvedimento di diniego. Il diniego dell’istanza
di autorizzazione in sanatoria fa venir meno l’interesse a
ricorrere. Il ricorso deve dunque ritenersi improcedibile
per sopravvenuta carenza di interesse.
Il ricorso deve comunque ritenersi infondato nel merito.
...
Si può ora procedere ad analizzare gli effetti della
presentazione dell’istanza di costruzione in sanatoria ai
sensi dell’articolo 36 d.p.r. 380 sull’ordinanza di
demolizione.
La presentazione di istanza di accertamento in
sanatoria, successiva all’ordinanza di demolizione, produce
effetti sull’ordine di demolizione generando un arresto
temporaneo dell’esecutività delle misure ripristinatorie.
Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, una volta
presentata l’istanza di accertamento in sanatoria, si
verificano effetti interruttivi sino al provvedimento
dell’amministrazione. Tale provvedimento può avere natura
tacita e configurarsi come un silenzio rigetto trascorso il
termine per l’emanazione del provvedimento.
Afferma in
proposito la giurisprudenza di questo Consiglio “In
adesione ad un diffuso orientamento giurisprudenziale rileva
che il silenzio dell’Amministrazione sulla richiesta di
concessione in sanatoria e sulla istanza di accertamento di
conformità di cui all’articolo 36 del testo unico
sull’edilizia ha un valore legale tipico di rigetto e cioè
costituisce una ipotesi di silenzio significativo al quale
vengono collegati gli effetti di un provvedimento esplicito
di diniego (cfr. ex multis, Cons. Stato Sez. IV 06/06/2008 n.
2691; idem 374/2006 n. 1710; Sez. V 11/02/2003 n. 706). La
natura provvedimentale è poi confermata da un elemento pure
esso rilevante, quello letterale: la norma di cui
all’articolo 36 del D.P.R. n. 380/2001 riprende il contenuto
prescrittivo già recato dall’articolo 13, comma 2, della
legge n. 47/1985, secondo cui sulla richiesta di sanatoria si
pronuncia il dirigente o il responsabile entro sessanta
giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata. È
evidente che l’inutile decorso del predetto termine comporta
la reiezione della domanda de qua e quindi si invera un vero
e proprio provvedimento tacito di diniego” (Cons. di Stato,
sez. IV, n. 410/2017).
Nel caso di specie si era formato il silenzio
provvedimentale, di per sé idoneo a configurare un’ipotesi
di silenzio-rigetto e tuttavia, come sopra indicato, con
provvedimento espresso l’amministrazione aveva comunicato,
successivamente alla presentazione del ricorso, il diniego
all’istanza di accertamento in sanatoria. Il silenzio e poi
il provvedimento comportano la cessazione degli effetti
sospensivi, restituendo piena efficacia all’ordine di
demolizione senza che sia necessaria l’adozione di un nuovo
provvedimento.
Lamenta poi il ricorrente difetto di motivazione dei
provvedimenti impugnati. Secondo la giurisprudenza di questo
consiglio in caso di abuso edilizio il provvedimento che
ordina la demolizione può avere una motivazione succinta
trattandosi di atto vincolato (Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908). Tale indirizzo è stato confermato dall’
Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con
riferimento ad ordini di demolizione intervenuti a distanza
di tempo dal verificarsi dell’abuso (Cons. di stato, A.P.
n. 9/2017).
Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il
provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato
risultando il gravame privo di pregio.
Per le ragioni su esposte la Sezione esprime il parere che
il ricorso vada considerato in parte improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse in relazione al silenzio
rigetto e in parte infondato nel merito con riferimento ai
vizi di motivazione dell’ordinanza di demolizione e della
nota informativa del corpo forestale dello stato (Consiglio
di Stato, Sez. II,
parere 27.08.2018 n. 2061 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In caso di abuso edilizio, il provvedimento che
ordina la demolizione può avere una motivazione succinta.
Invero, "l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora–
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare”.
Tale indirizzo è stato autorevolmente confermato
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato anche con
riferimento ad ordini di demolizione che siano intervenuti a
distanza di tempo dal verificarsi dell’abuso.
Con riferimento specifico ad un provvedimento relativo all’Ente Parco si è puntualizzato: “L'ordine di
rimozione di opere abusive è atto vincolato e necessitato
che non richiede nessun'altra motivazione se non
l'accertamento del carattere abusivo dell'opera. Pertanto,
l'Ente Parco Nazionale del Vesuvio, nell'adottare siffatto
provvedimento, non deve compiere alcuna particolare
valutazione circa la concreta incidenza dell'intervento
sull'assetto del territorio né una comparazione tra
l'interesse del privato e quello pubblico che è in re ipsa,
consistendo quest'ultimo nel ripristino dei valori
naturalistici, paesaggistici ed ambientali violati; né
infine sussiste la possibilità di adottare provvedimenti
alternativi”.
---------------
Lamenta poi il ricorrente un vizio di motivazione dei
provvedimenti impugnati. Il gravame risulta privo di pregio.
La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio ritiene
che, in caso di abuso edilizio, il provvedimento che ordina
la demolizione può avere una motivazione succinta affermando
che "l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non
richiede una specifica valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con
gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né –ancora–
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare” (Cons. Stato, IV, 28.02.2017, n. 908).
Tale indirizzo è stato
autorevolmente confermato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato anche con riferimento ad ordini di
demolizione che siano intervenuti a distanza di tempo dal
verificarsi dell’abuso. (Cons. di stato, A.P. n. 9/2017).
Con riferimento specifico ad un provvedimento relativo all’Ente Parco Vesuvio si è puntualizzato TAR Napoli
(Campania) sez. III 28.08.2017 n. 4142 “L'ordine di
rimozione di opere abusive è atto vincolato e necessitato
che non richiede nessun'altra motivazione se non
l'accertamento del carattere abusivo dell'opera. Pertanto,
l'Ente Parco Nazionale del Vesuvio, nell'adottare siffatto
provvedimento, non deve compiere alcuna particolare
valutazione circa la concreta incidenza dell'intervento
sull'assetto del territorio né una comparazione tra
l'interesse del privato e quello pubblico che è in re ipsa,
consistendo quest'ultimo nel ripristino dei valori
naturalistici, paesaggistici ed ambientali violati; né
infine sussiste la possibilità di adottare provvedimenti
alternativi.”
Alla luce dei suddetti rilievi deve ritenersi che il
provvedimento impugnato sia adeguatamente motivato
risultando il gravame privo di pregio (Consiglio di Stato, Sez. II,
parere 27.08.2018 n. 2059 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
INQUINAMENTO ACUSTICO - Immissione rumorose - Dovere
d'impedire gli strepiti degli animali a prescindere dal
formale titolo di proprietà - Concorso nel reato ex art. 659
cod. pen. - Disturbo del riposo, occupazioni e della
pubblica quiete delle persone - Superamento della soglia
della normale tollerabilità - Verifica del fenomeno -
Conferma del compendio probatorio - Disturbo di un numero
indeterminato di persone - Diffusività del rumore -
Necessità.
Configura l'art. 659 cod. pen., la
detenzione presso la propria abitazione di alcuni cani che
abbaiano continuamente nottetempo, impedendo il riposo e le
occupazioni delle persone residenti nelle adiacenze.
Sicché, il dovere d'impedimento di strepiti di animali
deriva dal mero possesso degli animali medesimi, a
prescindere dal formale titolo di proprietà, essendo
l'obbligo di impedimento collegato all'effettiva signoria
sugli animali, i cui strepiti non sono impediti.
Inoltre, la verifica del superamento della soglia della
normale tollerabilità non deve essere necessariamente
effettuato mediante perizia o consulenza tecnica, ben
potendo il giudice fondare il suo convincimento in ordine
alla sussistenza di un fenomeno in grado di arrecare
oggettivamente disturbo della pubblica quiete su elementi
probatori di diversa natura, quali le dichiarazioni di
coloro che sono in grado di riferire le caratteristiche e
gli effetti dei rumori percepiti, occorrendo, ciò nondimeno
accertare la diffusa capacità offensiva del rumore in
relazione al caso concreto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.08.2018 n. 38901 - link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENT6E-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività di trasporto di rifiuti prodotti da terzi
- Assenza della comunicazione e/o iscrizione all'Albo
Nazionale delle Imprese - Trasporto e modalità di
accertamento della condotta non occasionale -
Configurabilità del reato - Indici sintomatici (usura di
parti del mezzo di trasporto) - Artt. 183, 212 e 256 d.lgs.
n. 152/2006.
Ai fini della configurabilità del reato
di attività di trasporto di rifiuti, rileva la concreta
attività posta in essere in assenza dei prescritti titoli
abilitativi, che può essere svolta anche di fatto o in modo
secondario, purché non sia caratterizzata da assoluta
occasionalità (Sez. 3, n. 5716 del 07/01/2016, Isoardi).
Sicché, il carattere non occasionale della condotta di
trasporto illecito di rifiuti può essere desunto anche da
indici sintomatici, quali la provenienza del rifiuto, la
eterogeneità, la loro quantità, le caratteristiche del
rifiuto indicative di precedenti attività preliminari di
prelievo, raggruppamento, cernita, deposito, l'usura di
parti del mezzo di trasporto dimostrativa di una precedente
ed analoga utilizzazione di trasporto illecito di rifiuti (Sez.
3, n. 36819 del 04/07/2017, Ricevuti).
Nella specie, è stato possibile desumere la non
occasionalità del trasporto di rifiuti dall'usura del
"cassone" del mezzo, già verosimilmente utilizzato anche in
altre occasioni per la medesima e illecita attività.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Emissione del sequestro
preventivo - Presupposti - Sussistenza del "fumus delicti"
in concreto.
Ai fini dell'emissione del sequestro
preventivo, non occorre un compendio indiziario che si
configuri come grave ai sensi dell'art. 273 cod. proc. pen.,
ma è comunque necessario che il giudice valuti la
sussistenza del "fumus delicti" in concreto, verificando in
modo puntuale e coerente gli elementi in base ai quali
desumere l'esistenza del reato astrattamente configurato, in
quanto la "serietà degli indizi" costituisce presupposto per
l'applicazione delle misure cautelari (Sez. 3, n. 37851 del
04/06/2014, Parrelli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.08.2018 n. 38859 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
BENI CULTURALI ED AMBIENTALI - Realizzazione di una pista e
parco tematico di motocross con ristorante - Mancanza o
illegittimità dell'autorizzazione paesaggistica - VIA VAS
AIA - Assenza della valutazione di impatto ambientale -
Verifica dell'impatto urbanistico e ambientale dell'intero
complesso - Necessità - Piano Territoriale Provinciale (PTP)
Art. 181, c. 1, d.lgs. n. 42/2004 - Esame del giudice penale
- Giurisprudenza.
Poiché la mancanza dell'autorizzazione
paesaggistica o la sua illegittimità costituisce,
analogamente a quanto si ritiene per i reati urbanistici, un
elemento normativo della fattispecie incriminatrice, di cui
all'articolo 181, comma 1, d.lgs. n. 42 del 2004 - non viene
in rilievo, nel caso in cui vengano eseguiti lavori su beni
paesaggistici, il potere dell'autorità giudiziaria di
disapplicare un atto amministrativo illegittimo, ma il
potere di accertamento giurisdizionale, inteso quale diretta
espressione del principio di legalità come declinato
dall'articolo 101, comma 2, Cost., potere che compete pieno
iure al giudice penale - l quale "risolve ogni questione da
cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente
stabilito" (articolo 2, comma 1, del codice di procedura
penale)- e dunque detto potere deve essere esercitato anche
in ordine a un provvedimento (amministrativo) quando l'atto
costituisce presupposto o elemento costitutivo di un reato o
incide(rebbe) su di essi.
Cosicché l'esame del giudice penale non tende alla
disapplicazione o meno dell'atto e non riguarda l'esistenza
"ontologica" del provvedimento amministrativo, ma
l'integrazione o meno della fattispecie penale in vista
dell'interesse sostanziale che tale fattispecie assume a
tutela, nella quale gli elementi di natura extrapenale
convergono organicamente, assumendo una valenza descrittiva
(Sez. 3, n. 21487 del 21/03/2006, Tantillo).
Nella specie, sul rilievo che sino a quando le
amministrazioni preposte non avrebbero svolto l'attività di
valutazione dell'impatto ambientale dell'intero complesso,
non poteva dirsi cessato il serio, concreto ed effettivo
pericolo di aggravamento, protrazione o duplicazione del
nocumento ai beni ambientali e paesaggistici già ritenuto,
con effetto preclusivo di ulteriori rimostranze, in forza
del provvedimento genetico di sequestro (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.08.2018 n. 38856 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La falsità della rappresentazione della
situazione di fatto nell’istanza di concessione edilizia
determina le seguenti conseguenze:
- non può dirsi a monte sorto alcun legittimo affidamento in
capo ai ricorrenti, la cui condizione di buona fede è
smentita per tabulas;
- non si pone in radice un problema di ragionevolezza del
termine per la spendita del potere di annullamento: non
ricorrono, invero, ragioni di tutela del privato (sottese
alla previsione legislativa della ragionevolezza del
termine) allorché l’annullamento sia ascrivibile proprio
alla condotta tenuta illo tempore dall’interessato al
momento della richiesta del provvedimento;
- l’edificazione di un fabbricato in luogo totalmente
diverso dal precedente manufatto non integra una
ristrutturazione, bensì una nuova costruzione o, al più, una
ricostruzione previa demolizione su diversa area di sedime;
- la locale disciplina urbanistica, tuttavia, esclude, salvo
particolari circostanze non rilevanti nella specie, la
possibilità di nuove costruzioni nelle zone agricole:
l’interesse pubblico all’annullamento, indicato nel
contrasto con il P.R.G., si palesa pertanto in re ipsa; di
converso, i ricorrenti non possono fondatamente sostenere
che sia “irrilevante” la diversa ubicazione, posto che la
locale disciplina non pone limiti minimi sotto i quali la
violazione delle previsioni urbanistiche non rilevi;
- la domanda di risarcimento del danno, priva
dell’elemento oggettivo dell’ingiustizia del danno stesso, è
infondata.
---------------
7. Ciò premesso, il Collegio osserva che costituisce fra le
parti res judicata la veridicità ideologica degli
accertamenti svolti dall’Ente locale e confluiti nell’atto
di constatazione prot. n. 583 del 23.06.2000: la
sentenza del Tribunale di Bologna n. 2731 del 27.09.2004, infatti, è intercorsa fra le stesse parti del presente
giudizio, afferisce specificamente all’atto in questione e
non è stata impugnata.
7.1. Risulta, pertanto, incontestabile il fatto che nelle
istanze afferenti ai due condoni ai sensi delle leggi n. 47
del 1985 e n. 724 del 1994 i ricorrenti avessero
correttamente indicato la posizione reale del manufatto,
mentre nella domanda di concessione edilizia avanzata nel
1998 avessero indicato il manufatto da ristrutturare come
ubicato sull’area ove lo si intendeva ricostruire, non su
quella dove si trovava effettivamente.
7.2. I ricorrenti, conseguentemente, non hanno margini per
sostenere che, in realtà, l’attuale fabbricato occupi lo
stesso sedime dell’originario manufatto e che la rilevata
distonia consegua all’erronea indicazione, all’atto della
formulazione della prima domanda di condono, della posizione
di quest’ultimo: da un punto di vista processuale, infatti,
il giudicato formatosi sulla sentenza n. 2731 rende
irrefragabile in ogni successivo giudizio la questione della
veridicità sostanziale degli esiti degli accertamenti svolti
sul punto dal Comune e sulla base dei quali sono stati
emanati gli atti impugnati.
7.3. Peraltro, rileva ad abundantiam il Collegio,
l’affermazione dei ricorrenti non si fonda su alcun dato
ulteriore rispetto a quelli già compulsati dal c.t.u.
nominato nel corso della causa dinanzi al giudice ordinario,
atto a lumeggiare, con carattere di prova liquida, la
fondatezza delle loro prospettazioni.
8. La falsità della rappresentazione della situazione di
fatto nell’istanza di concessione edilizia determina le
seguenti conseguenze:
- non può dirsi a monte sorto alcun legittimo affidamento in
capo ai ricorrenti, la cui condizione di buona fede è
smentita per tabulas;
- non si pone in radice un problema di ragionevolezza del
termine per la spendita del potere di annullamento: non
ricorrono, invero, ragioni di tutela del privato (sottese
alla previsione legislativa della ragionevolezza del
termine) allorché l’annullamento sia ascrivibile proprio
alla condotta tenuta illo tempore dall’interessato al
momento della richiesta del provvedimento; oltretutto, nella
specie il Comune ha iniziato gli accertamenti finalizzati ad
acclarare la legittimità del titolo edilizio sin dal 2000 ed
il decorso, da allora, di alcuni anni è dovuto
all’instaurazione, da parte dei ricorrenti, di un giudizio
di falso avverso il contenuto della nota recante gli esiti
di tali accertamenti;
- l’edificazione di un fabbricato in luogo totalmente
diverso dal precedente manufatto non integra una
ristrutturazione, bensì una nuova costruzione o, al più, una
ricostruzione previa demolizione su diversa area di sedime;
- la locale disciplina urbanistica, tuttavia, esclude, salvo
particolari circostanze non rilevanti nella specie, la
possibilità di nuove costruzioni nelle zone agricole:
l’interesse pubblico all’annullamento, indicato nel
contrasto con il P.R.G., si palesa pertanto in re ipsa; di
converso, i ricorrenti non possono fondatamente sostenere
che sia “irrilevante” la diversa ubicazione, posto che la
locale disciplina non pone limiti minimi sotto i quali la
violazione delle previsioni urbanistiche non rilevi;
- difettano, inoltre, in radice i requisiti per rilasciare
l’ulteriore sanatoria richiesta dai ricorrenti nel 2004, sia
perché la normativa regionale dispone che “in tutto il
territorio della Regione non è ammesso il rilascio dei
titoli in sanatoria per la costruzione di nuovi manufatti
edilizi fuori terra o interrati realizzati in contrasto con
la legislazione urbanistica”, sia, per di più, perché la
citata normativa regionale vieta specificamente il rilascio
di titoli in sanatoria in relazione ad edifici in passato
già condonati; consta, inoltre, l’incompletezza documentale
dell’istanza (cfr. nota prot. n. 11731 del 02.03.2007, §§
4 e 6);
- il carattere sostanziale del vizio che affligge ab interno
ed ab initio la concessione n. 183 osta all’applicazione
dell’art. 38 d.lgs. n. 380 del 2001, disposizione che
presuppone l’emendabilità dei vizi di illegittimità, nella
specie, viceversa, intrinseci all’atto ed insanabili, in
quanto l’organismo edilizio è incompatibile con le
previsioni urbanistiche;
- non rileva, in senso contrario, il fatto che il giudizio
penale nell’ambito del quale i ricorrenti erano stati
condannati in primo grado si sia concluso con la
dichiarazione, in appello, dell’intervenuta prescrizione:
l’intervento di una causa di estinzione del reato, infatti,
opera di diritto e prescinde dall’effettivo accertamento di
non colpevolezza dell’imputato (che, viceversa, ove
evincibile dagli atti impedisce la pronuncia di
proscioglimento ed impone l’assoluzione - cfr. art. 129,
comma 2, c.p.p.);
- la domanda di risarcimento del danno, priva dell’elemento
oggettivo dell’ingiustizia del danno stesso, è infondata (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 22.08.2018 n. 5004 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Illecita la delibera condominiale contro i lavori
antisismici. Per la Cassazione violare la normativa comporta
rischi per tutti i cittadini.
L'amministratore del condominio è garante della sicurezza
del condominio sia sotto il profilo del sicuro utilizzo
delle parti comuni dell'edificio, sia della tutela della
pubblica incolumità con riferimento alla rovina
dell'edificio. Tuttavia, quando propone all'assemblea
l'adozione di misure antisismiche per rendere sicuro
l'edificio la stessa può negare tali interventi? La risposta
è negativa in quanto, atteso che la mappatura antisismica
riguarda quasi tutto il territorio nazionale, suddiviso in
zone di gradata rischiosità, l'omessa regolarizzazione
dell'edificio non è conforme alla normativa del Dpr 380/2001
e ai principi del nostro ordinamento giuridico.
Tale principio è stato affermato dalla Corte di Cassazione (Sez.
III penale, sentenza 21.08.2018 n.
38717) che ha rigettato il ricorso avverso
un'ordinanza del Tribunale del riesame che confermava il
decreto di sequestro preventivo di una costruzione
irregolare per la normativa antisismica.
La Corte conferma che consiste in un "periculum in mora"
l'accertata violazione della normativa antisismica che
comporta un elevato rischio per l'incolumità dei cittadini.
La Corte richiama la propria precedente giurisprudenza per
cui l'aggravamento del reato, presupposto del sequestro
preventivo, è insito nella violazione della normativa
antisismica.
Infatti, a causa del carattere imprevedibile dei terremoti
la regola tecnica di edificazione è ispirata alle finalità
di contenimento del rischio di verificazione dell'evento che
deve essere apprezzato su tutto il territorio nazionale,
classificato per zone con indicazione, per ciascuna, della
percentuale di esposizione all'evento sismico. Per ciascuna
costruzione è indicato un fattore di "rischio di collasso"
calcolato in ragione dell'esposizione al rischio sismico.
L'inosservanza della tecnica di edificazione proporzionata
al rischio sismico di zona, anche quando quest'ultimo si
attesti su percentuali basse di verificabilità, è un
aggravamento del pericolo e consente il sequestro preventivo
dell'immobile.
La Corte richiama gli articoli 83, 93 e 94 del Dpr 380/2001
per cui chi intenda procedere, in zone sismiche, a
costruzioni, riparazioni o sopraelevazioni è tenuto a darne
preavviso scritto allo sportello unico e non si possono
iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico della regione.
L'inosservanza di tali norme è sanzionata dall'articolo 95
del Dpr 380/2001. La giurisprudenza della Corte di
cassazione afferma che la normativa antisismica si applica a
qualsiasi manufatto, indipendentemente dai materiali usati e
delle relative strutture, in zona dichiarata sismica. Quindi
ricorre l'esigenza di maggiore rigore e proprio l'impiego di
materiali strutturali meno solidi rendono più necessari i
controlli e le cautele prescritte.
La Corte enuncia il seguente principio di diritto: «La
ratio della normativa antisismica fonda sulla necessità,
rivolta a tutela della pubblica incolumità, di dettare i
criteri che devono essere obbligatoriamente seguiti per la
costruzione di qualsiasi struttura realizzata nelle parti
del territorio nazionale individuata dalla normativa di
settore come zone a rischio sismico, in modo da ridurre la
tendenza della costruzione a subire un danno cui, a seguito
di un evento sismico, la costruzione stessa, secondo un
giudizio prognostico ex ante, rischierebbe comunque di
essere sottoposta» (articolo Il Sole 24 Ore del
25.09.2018).
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MASSIMA
5. La Corte, come è stato sottolineato dalla dottrina
che si è occupata della materia, ha già eseguito una
ricognizione del quadro normativo in tema di costruzioni
nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 50624 del 17/09/2014,
Baldolini, non mass.), premettendo come l'articolo 93 T.U.E.
prescriva, tra l'altro, che, nelle zone sismiche, di cui
all'articolo 83 T.U.E., chiunque intenda procedere a
costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne
preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a
trasmettere al competente ufficio tecnico della regione
copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere
allegato.
L'articolo 94 T.U.E. prescrive poi che nelle località
sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva
autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della
regione.
L'inosservanza delle predette disposizioni è appunto
sanzionata dall'articolo 95 T.U.E., contestato nel caso in
esame.
Il preavviso allo sportello unico (cui va depositato il
progetto) adempie, infatti, ad una funzione informativa, in
relazione all'attività da intraprendere, in modo da
assicurare la vigilanza sulle costruzioni in zone sismiche e
garantire la cooperazione fra le amministrazioni, coinvolte
nel procedimento, e gli interessati.
La giurisprudenza della Corte di cassazione ha avuto modo di
precisare che, nelle zone sismiche,
l'obbligo di informativa e di produzione degli atti
progettuali non è limitato in relazione alle dimensioni e
alle caratteristiche dell'opera, ma riguarda tutte le opere
indicate dalla disposizione normativa, nessuna esclusa e
dunque anche le opere c.d. "minori", perché
diversamente verrebbe frustrato il fine di rendere possibile
il controllo preventivo e documentale dell'attività edilizia
nelle zone sismiche
(Sez. 3, n. 8140 del 06/07/1992, Di Scala, Rv. 191390).
Sul punto, è stato anche affermato che le
prescrizioni per le costruzioni in zona sismica si applicano
a qualsiasi manufatto indipendentemente dai materiali
impiegati e dalle relative strutture in quanto nelle zone
dichiarate sismiche ricorre l'esigenza di maggiore rigore e
proprio l'eventuale impiego di materiali strutturali meno
solidi rende ancor più necessari i controlli e le cautele
prescritte (Sez.
3, n. 38142 del 26/09/2001, Tucci R., Rv. 220269)
sicché ricorre il reato antisismico nel caso di
opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento
dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti
allo sportello unico (art. 94 T.U.E.) e senza la preventiva
autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della
regione (art. 94 T.U.E.), a nulla rilevando la natura dei
materiali impiegati e delle relative strutture
(Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011, Floridia, Rv. 251284).
Siccome gli obblighi previsti dagli artt.
93 e 94 T.U.E. sono finalizzati a consentire il controllo
preventivo della pubblica amministrazione, non rileva, ai
fini della sussistenza del reato, l'effettiva pericolosità o
meno della costruzione realizzata, in violazione degli
adempimenti e in assenza delle prescritte autorizzazioni,
perché le contravvenzioni previste dalla normativa
antisismica, rientrando nel novero dei reati di pericolo
presunto, puniscono inosservanze formali, con la conseguenza
che neppure la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed
il rilascio del provvedimento abilitativo incidono sulla
illiceità della condotta, in quanto gli illeciti sussistono
in relazione al momento di inizio dell'attività
(Sez. 3, n. 5738 del 13/05/1997, Petroni, Rv. 208299).
E' stato in quella sede ricordato che la
normativa antisismica è ispirata a preservare la pubblica
incolumità in zone particolarmente soggette al verificarsi
di movimenti tellurici, prescrivendo, da un lato, necessari
obblighi burocratici e particolari prescrizioni tecniche
costruttive e costituendo, dall'altro, un'anticipazione
della tutela dell'interesse cui la norma incriminatrice
appresta protezione (pubblica incolumità).
In definitiva, la ratio della
normativa antisismica fonda sulla necessità, rivolta a
tutela dell'incolumità pubblica, di dettare i criteri che
devono essere obbligatoriamente seguiti per la costruzione
di qualsiasi struttura realizzata nelle parti del territorio
nazionale individuate dalla normativa di settore come zone a
rischio sismico, in modo da ridurre la tendenza della
costruzione a subire un danno cui, a seguito di un evento
sismico, la costruzione stessa, secondo un giudizio
prognostico ex ante, rischierebbe comunque di essere
sottoposta.
Da ciò consegue che detto rischio, nel caso di mancata
conformazione delle costruzioni alle norme di settore, è
destinato ad ampliarsi perché, a causa delle ricadute che
dalla violazione della normativa antisismica scaturiscono,
aumenta il pericolo di danno sulla incolumità delle persone
che usano il bene o che, con esso, si trovino in contatto.
Perciò da questa breve ricognizione del dettato legislativo,
il quale va necessariamente completato con la normativa,
anche secondaria, di settore che definisce compiutamente gli
obblighi cui sono soggetti coloro che eseguono costruzioni
(anche cd. minori) in zone sismiche, si desume pienamente il
fondamento dell'indirizzo giurisprudenziale in precedenza
richiamato, derivando da ciò l'infondatezza dei ricorsi
perché, in siffatti casi, non occorre verificare, qualora si
sia in presenza di un'opera ultimata, se dall'opera stessa
derivi o meno un aggravio del carico urbanistico, in quanto
il pericolo, collegato all'uso della cosa, non è stato
individuato dai Giudici cautelari esclusivamente sulla base
delle violazioni urbanistiche e/o paesaggistiche
(valutazione che, sotto tale specifico profilo, sarebbe,
come fondatamente lamentano i ricorrenti, errata) ma è stato
anche e soprattutto sostenuto sulla base dei reati edilizi
collegati alla violazione della normativa antisismica,
rispetto alla quale la motivazione del tribunale, quantunque
stringata, deve ritenersi sussistente e sufficiente a
rendere comprensibile l'iter argomentativo posto a
fondamento della conferma del vincolo cautelare (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.08.2018 n. 38717). |
EDILIZIA PRIVATA:
Violazione disciplina antisimica - Regola tecnica di edificazione - Applicazione
su tutto il territorio nazionale - Pericolo di aggravamento
del reato e applicabilità del sequestro preventivo - Artt. 44,
83, 93, 94 e 95, D.Lgs. 380/2001.
In materia di sequestro preventivo, ove
venga in considerazione il pericolo di aggravamento del
reato con riguardo al perdurante utilizzo di un immobile la
cui realizzazione sia soggetta al rispetto della normativa
antisismica, la nozione di concreta possibilità del
pericolo, che va scrutinata in ragione della natura del bene
e di tutte le circostanze che connotino il fatto, è insita
nella violazione della normativa di settore perché, nel
carattere non prevedibile dei terremoti, la regola tecnica
di edificazione è ispirata alla finalità di contenimento del
rischio di verificazione dell'evento che va apprezzato in
chiave generale su tutto il territorio nazionale,
classificato per zone con indicazione, per ciascuna, della
percentuale di esposizione all'evento sismico, attività che
si traduce nella mappatura dell'intero patrimonio
immobiliare con attribuzione alle singole costruzioni di un
indicatore del "rischio di collasso", calcolato in ragione
dell'esposizione al rischio sismico di zona, cosicché
l'inosservanza della regola tecnica di edificazione
proporzionata al rischio sismico di zona, anche ove quest'ultimo
si attesti su percentuali basse di verificabilità, integra
pur sempre la violazione di una norma di aggravamento del
pericolo e come tale va indagata ed assume perciò rilevanza
ai fini dell'applicabilità del sequestro preventivo (Cass. Sez. 6, n. 190 del 14/11/2017, dep. 2018).
Per cui, in caso di sequestro preventivo di un immobile, la
cui realizzazione sia soggetta al rispetto della normativa
antisismica, il pericolo di aggravamento del reato, con
riferimento al suo perdurante utilizzo, è insito nella
violazione della disciplina antisismica
(Sez. 6, n. 190 del
14/11/2017, dep. 2018, Limatola).
Costruzioni nelle zone
sismiche - Preavviso scritto allo sportello unico -
Preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della regione - Reati edilizi in zona vincolata - Art. 181, c. 1, D.Lgs. 42/2004.
In tema di costruzioni nelle zone
sismiche, l'articolo 93 T.U.E. prescriva, tra l'altro, che,
nelle zone sismiche, di cui all'articolo 83 T.U.E., chiunque
intenda procedere a costruzioni, riparazioni e
sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo
sportello unico, che provvede a trasmettere al competente
ufficio tecnico della regione copia della domanda e del
progetto che ad esso deve essere allegato (Sez. 3, n. 50624
del 17/09/2014, Baldolini). L'articolo 94 T.U.E. prescrive
poi che nelle località sismiche non si possono iniziare
lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico della regione.
Pertanto, nelle zone sismiche, l'obbligo di informativa e di
produzione degli atti progettuali non è limitato in
relazione alle dimensioni e alle caratteristiche dell'opera,
ma riguarda tutte le opere indicate dalla disposizione
normativa, nessuna esclusa e dunque anche le opere c.d.
"minori", perché diversamente verrebbe frustrato il fine di
rendere possibile il controllo preventivo e documentale
dell'attività edilizia nelle zone sismiche (Sez. 3, n. 8140
del 06/07/1992, Di Scala).
Costruzioni in zona sismica
- Le prescrizioni per le si applicano a qualsiasi manufatto
indipendentemente dai materiali impiegati e dalle relative
strutture - Reato antisismico - Configurabilità - PUBBLICA
AMMINISTRAZIONE - Disciplina antisismica e tutela
dell'incolumità pubblica - Controllo preventivo della
pubblica amministrazione.
Le prescrizioni per le costruzioni in
zona sismica si applicano a qualsiasi manufatto
indipendentemente dai materiali impiegati e dalle relative
strutture in quanto nelle zone dichiarate sismiche ricorre
l'esigenza di maggiore rigore e proprio l'eventuale impiego
di materiali strutturali meno solidi rende ancor più
necessari i controlli e le cautele prescritte (Sez. 3, n.
38142 del 26/09/2001, Tucci) sicché ricorre il reato
antisismico nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche
senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di
presentazione dei progetti allo sportello unico (art. 94 T.U.E.) e senza la preventiva autorizzazione scritta del
competente ufficio tecnico della regione (art. 94 T.U.E.), a
nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture (Sez. 3, n. 30224 del 21/06/2011,
Floridia).
Pertanto, gli obblighi previsti dagli artt. 93 e 94 T.U.E.
sono finalizzati a consentire il controllo preventivo della
pubblica amministrazione, non rileva, ai fini della
sussistenza del reato, l'effettiva pericolosità o meno della
costruzione realizzata, in violazione degli adempimenti e in
assenza delle prescritte autorizzazioni, perché le
contravvenzioni previste dalla normativa antisismica,
rientrando nel novero dei reati di pericolo presunto,
puniscono inosservanze formali, con la conseguenza che
neppure la verifica postuma dell'assenza del pericolo ed il
rilascio del provvedimento abilitativo incidono sulla
illiceità della condotta, in quanto gli illeciti sussistono
in relazione al momento di inizio dell'attività.
In
definitiva, la ratio della normativa antisismica fonda sulla
necessità, rivolta a tutela dell'incolumità pubblica, di
dettare i criteri che devono essere obbligatoriamente
seguiti per la costruzione di qualsiasi struttura realizzata
nelle parti del territorio nazionale individuate dalla
normativa di settore come zone a rischio sismico, in modo da
ridurre la tendenza della costruzione a subire un danno cui,
a seguito di un evento sismico, la costruzione stessa,
secondo un giudizio prognostico ex ante, rischierebbe
comunque di essere sottoposta.
Violazione della normativa
antisismica in zona sottoposta a vincolo paesaggistico -
Sequestro preventivo di cosa pertinente al reato in ipotesi
criminosa già perfezionatasi - Pericolo della libera
disponibilità - Art. 321 cod. proc. pen. - Integrazione del
periculum in mora e vulnus al bene paesaggio.
Il sequestro preventivo di cosa
pertinente al reato è consentito anche nel caso di ipotesi
criminosa già perfezionatasi ma esige, in tal caso, che il
pericolo della libera disponibilità della cosa stessa, va
accertato dal giudice con adeguata motivazione, presenti i
requisiti della concretezza e dell'attualità, perché la
legge ha inteso contenere il sacrificio dei diritti
patrimoniali dei cittadini nei ristretti limiti dettati
dalle effettive esigenze di prevenzione connesse al processo
penale - la sussistenza del periculum in mora può essere
legittimamente sostenuta quando dalla violazione della
normativa antisismica derivino conseguenze dannose o
pericolose sull'incolumità di terzi.
Ai fini dell'integrazione del periculum in mora, che
l'accertata violazione della normativa antisismica, in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico, consente di ipotizzare
possibili conseguenze sull'incolumità di terzi, incidendo
direttamente sulla pianificazione territoriale cagionando un
vulnus al bene paesaggio e ritenendo perciò la sussistenza
delle esigenze cautelari ed indifferente il fatto che le
opere fossero ultimate.
DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Sequestro preventivo -
Periculum in mora in violazione della disciplina
antisismica.
Ai sensi del primo comma dell'art. 321
cod. proc. pen., legittima il sequestro preventivo, deve
intendersi come concreta possibilità che il bene assuma
carattere strumentale rispetto all'aggravamento o alla
protrazione delle conseguenze del reato ipotizzato o
all'agevolazione della commissione di altri reati e, in
forza di tale principio, è stato ritenuto sussistente il
presupposto per l'adozione della misura cautelare nella
realizzazione di opere (nel caso di specie si trattava di
cartelloni pubblicitari) eseguite in violazione della
normativa antisismica, atteso che la libera disponibilità
del bene avrebbe potuto determinare un aggravamento del
reato (Sez. 3, n. 43249 del 22/10/2010, Barbagallo) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.08.018 n. 38717 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Dichiarazioni
sostitutive ferree. L’allegazione del documento in copia è inderogabile.
GARE/ Per il Consiglio di stato l’omissione non è sanabile
col soccorso istruttorio
Nella dichiarazione sostitutiva resa ai sensi dell'art. 38 del dpr n.
445/2000, l'allegazione della copia fotostatica del documento del
sottoscrittore è un adempimento inderogabile, atto a conferire legale
autenticità alla sottoscrizione apposta in calce alla dichiarazione e
giuridica esistenza all'autocertificazione, e la sua eventuale omissione in
sede di gara non può essere sanata con il ricorso al soccorso istruttorio.
Così il consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza 20.08.2018 n. 4959.
Il dipartimento per l'editoria della presidenza del consiglio dei ministri
indiceva una procedura aperta per l'affidamento di servizi giornalistici per
gli organi centrali e periferici delle amministrazioni dello stato,
specificando come la valida formulazione di un'offerta tecnica avrebbe
richiesto il possesso di alcuni requisiti da attestare con dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà, ex art. 47 del dpr 445/2000.
Nel corso
dello scrutinio, la commissione di gara riscontrava l'incompletezza
dell'offerta tecnica di una delle partecipanti, in quanto alla dichiarazione
sostitutiva dell'atto di notorietà non era stato allegato il documento di
identità del dichiarante. Ritenuta l'insanabilità del vizio, si disponeva
l'esclusione dalla gara della società, successivamente confermata anche con
sentenza del Tar Lazio.
Avverso tale decisione proponeva appello la società
esclusa, rilevando come, nel caso di specie, non si sarebbe potuto dubitare
della provenienza del documento oggetto di autocertificazione e che,
comunque, la carenza non sarebbe stata tale da incidere sulla regolarità e
legittimità della dichiarazione, traducendosi in un'irregolarità di
carattere meramente formale, sanabile attraverso l'integrazione del
documento mancante o il ricorso a chiarimenti, anche in ossequio ai principi
di economicità e proporzionalità dell'attività amministrativa, nonché di
massima partecipazione alle gare.
Chiamato a decidere la controversia, il
consiglio di stato ha respinto l'appello, osservando come l'allegazione
della copia fotostatica del documento del sottoscrittore della dichiarazione
sostitutiva, prescritta dall'art. 38 dpr 445/2000, sia un adempimento
inderogabile, atto a conferire in considerazione della sua introduzione come
forma di semplificazione, legale autenticità alla sottoscrizione apposta in
calce alla dichiarazione e giuridica esistenza ed efficacia
all'autocertificazione.
Detta allegazione, pertanto, costituisce un elemento
integrante della fattispecie normativa, teso a stabilire, data l'unità della
fotocopia del documento di identità e della dichiarazione sostitutiva, un
collegamento tra dichiarazione e documento, consentendo di comprovare, oltre
alle generalità del dichiarante, anche l'imputabilità soggettiva della
dichiarazione al soggetto che la presta.
L'assenza della copia del documento
di identità non determina mera incompletezza del documento idonea a far
scattare il potere di soccorso della stazione appaltante tramite la
richiesta di integrazioni o chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua
giuridica inesistenza, con la conseguenza che, in ossequio al principio
della par condicio e della parità di trattamento tra le imprese
partecipanti, l'impresa deve essere esclusa per mancanza della prescritta
dichiarazione, così come disposto dall'art. 83, comma 9, dlgs 50/2016,
laddove prevede che costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le
carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del
contenuto o del soggetto responsabile della stessa
(articolo ItaliaOggi Sette del 03.09.2018). |
APPALTI SERVIZI: Servizi sociali, se gratis no gara.
Convenzioni: la p.a. deve motivare perché non fa il concorso.
La gratuità delle prestazioni esclude l’applicazione del codice
dei contratti pubblici.
Il ricorso alle convenzioni con i soggetti operanti nel terzo
settore deve essere sempre adeguatamente motivato e tale da non rendere
conveniente l'affidamento con gara; la gratuità delle prestazioni dei
servizi sociali giustifica l'esclusione dell'applicazione del codice dei
contratti pubblici se risulta assente ogni forma di remunerazione con
risorse pubbliche del costo dei fattori produttivi.
Lo ha affermato il Consiglio di
Stato,
commissione speciale, con il
parere 20.08.2018 n. 2052 sulla
normativa applicabile agli affidamenti di servizi sociali.
Il parere, che origina da una richiesta formulata dall'Autorità nazionale
anticorruzione (Anac), evidenzia che di regola l'affidamento dei servizi
sociali, comunque sia disciplinato dal legislatore nazionale, deve
rispettare la normativa pro-concorrenziale di origine europea, in quanto
rappresenta una modalità di affidamento di un servizio (in termini
euro-unitari, un appalto) che rientra nel perimetro applicativo dell'attuale
diritto euro-unitario.
Nel codice del terzo settore (decreto 117 del 2017), l'art. 55 prevede che
«le amministrazioni pubbliche... assicurano il coinvolgimento attivo degli
enti del terzo settore attraverso forme di co-programmazione e
co-progettazione e accreditamento, poste in essere nel rispetto dei principi
della legge 07.08.1990, n. 241», mentre l'art. 56 è dedicato all'istituto
delle convenzioni che le amministrazioni possono stipulare con alcune
specifiche tipologie di enti del terzo settore, ossia le organizzazioni di
volontariato e le associazioni di promozione sociale, al fine di «svolgere
in favore di terzi di attività o servizi sociali di interesse generale».
Per il Consiglio di stato le procedure di affidamento dei servizi sociali
contemplate nel codice del terzo settore (in particolare, accreditamento,
co-progettazione e partenariato) «sono estranee al codice dei contratti
pubblici ove prive di carattere selettivo, ovvero non tese all'affidamento
del servizio, ovvero ancora ove il servizio sia prospetticamente svolto
dall'affidatario in forma integralmente gratuita».
A tale proposito si è in
presenza di gratuità (con conseguente fuoriuscita dall'ambito oggettuale del
codice dei contratti pubblici) se le risorse pubbliche non coprono il costo
dei fattori produttivi utilizzati dall'ente e se non vi è alcuna forma di
incremento patrimoniale, anche se finalizzato al servizio stesso. In questi
casi si dimostra «l'oggettiva assenza dell'economicità».
Per le convenzioni (art. 56) il parere afferma che «ove le circostanze di
fatto pongano in evidenza che il ricorso alla convenzione concreti un
comportamento vietato in quanto distorsivo del confronto competitivo tra
operatori economici in un mercato aperto alla concorrenza, piuttosto che
ricorrere a improprie forzature logico-interpretative, appare corretto
valutare la disapplicazione dell'art. 56 del dlgs n. 117 del 2017».
In generale però i giudici hanno affermato che «è ragionevole ritenere che
le amministrazioni debbano volta per volta motivare la scelta di ricorrere
agli stilemi procedimentali delineati dal codice del terzo settore, in luogo
dell'indizione di una ordinaria gara d'appalto». Infatti, l'attivazione di
una delle forme enucleate dal codice del terzo settore priva de facto le
imprese profit della possibilità di affidamento del servizio e, in termini
più generali, determina una sostanziale segregazione del mercato.
L'amministrazione dovrà in particolare, evidenziare la maggiore idoneità di
tali procedure a soddisfare i bisogni genericamente «sociali» ricorrenti
nella fattispecie, alla luce dei principi generali sul buon andamento
dell'azione amministrativa (articolo ItaliaOggi del 07.09.2018). |
ATTI AMMINISTRATIVI: No
allo sgombero del centro sociale se il Comune ha tollerato l'occupazione per
anni.
No allo sgombero del centro sociale se il comune tollera l'occupazione per
venti anni, di fatto legittimandola.
La Corte di Cassazione, Sez. II penale, con la sentenza 10.08.2018 n.
38483 respinge il ricorso del Pm e dà partita vinta ai centri sociali.
Nello specifico a beneficiare del principio tolleranza uguale
legittimazione, è il centro sociale il “Tempo Rosso” di Pignataro
Maggiore nel casertano. Un ex macello comunale nel quale si riuniscono
attivisti impegnati da anni in un'azione di contrasto contro l'inquinamento
dell' immensa discarica abusiva della “terra dei fuochi”.
La pubblica accusa aveva fatto ricorso contro l'ordinanza con la quale il
Gip aveva rigettato la richiesta di sequestro preventivo del Pm. Per
l'immobile “invaso” erano finiti sotto accusa dieci attivisti, con
l'imputazione di occupazione abusiva, imbrattamento, e mancati interventi su
edifici pericolanti. Ma nessuna contestazione resta in piedi. Gli indagati
erano bambini quando l'ex macello è stato occupato e “il comune aveva
prestato ventennale acquiescenza all'occupazione sostanzialmente
legittimandola, e impedendo la configurazione del reato”.
Quanto all'imbrattamento è un concetto nel quale non possono rientrare i
murales in questione, né si conosce l'identità degli autori. Non passa
neppure la censura sulla mancata manutenzione. Non esiste una prova della
precarietà dell'immobile e, in ogni caso, lavori di consolidamento e
manutenzione spetterebbero al comune proprietario della struttura e non agli
indagati.
Per la Cassazione la tolleranza dell'amministrazione locale aveva indotto le
persone a considerare lecita l'occupazione. Una convinzione indotta anche
attraverso atti positivi come il pagamento dell'utenza relativa al consumo
di energia elettrica
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.09.2018). |
APPALTI: L’iscrizione camerale
garantisce congruità. Su requisiti delle imprese per gli appalti.
In una gara di appalto pubblico l'iscrizione alla camera di
commercio ha la funzione di filtrare l'ingresso in gara dei soli concorrenti
forniti di una professionalità coerente con le prestazioni oggetto
dell'affidamento pubblico; non è necessaria la perfetta sovrapposizione fra
oggetto sociale e oggetto dell'appalto.
È quanto ha chiarito il TAR Lazio-Roma,
Sez. II-ter con
la
sentenza
09.08.2018 n. 8948 rispetto all'esclusione di un'impresa
per la quale sarebbe stata falsamente attestata l'iscrizione alla Camera di
commercio per attività pertinente all'oggetto dell'appalto.
Il Tar ha ricordato che nell'impostazione del nuovo codice appalti,
l'iscrizione camerale assurge a requisito di idoneità professionale (art.
83, commi 1, lett. a, e 3 dlgs n. 50/2016), anteposto ai più specifici
requisiti attestanti la capacità tecnico-professionale ed
economico-finanziaria dei partecipanti alla gara, di cui alle successive
lettere b) e c) del medesimo comma. Anche in base alla giurisprudenza
precedente è chiaro che l'utilità sostanziale della certificazione camerale
è quella di filtrare l'ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una
professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell'affidamento
pubblico.
Da qui, deriva, hanno detto i giudici, la necessità non tanto di una
verifica formale, quanto di una congruenza contenutistica, tendenzialmente
completa, tra le risultanze descrittive della professionalità dell'impresa,
come riportate nell'iscrizione alla Camera di commercio, e l'oggetto del
contratto d'appalto, desumibile dal complesso di prestazioni in esso
previste. Ciò in quanto l'oggetto sociale viene inteso come la «misura»
della capacità di agire della persona giuridica, la quale può validamente
acquisire diritti ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello
stesso, come riportate nel certificato camerale.
Ciò detto, dice la sentenza, non vi è necessità di una perfetta ed assoluta
sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due termini di riferimento: la
stazione appaltante deve effettuare una verifica «non già atomistica e
frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in
contratto»
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).
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MASSIMA
Deve evidenziare il Collegio che, nell’odierna particolare controversia,
non si controverte in ordine alla idoneità della iscrizione camerale a
consentire alla ricorrente l’accesso alla gara e la definitiva attribuzione
dell’aggiudicazione, perché a fondamento del provvedimento di revoca di
quest’ultima, l’Amministrazione ha considerato la rilevanza della non
veridicità dell’autodichiarazione.
A tale proposito, rileva il Collegio che, invero, la dichiarazione
autografa, redatta a penna e sottoscritta dalla legale rappresentante della
ditta non riproduce l’”oggetto” dell’attività come risultante dalla
iscrizione camerale, ma appare più propriamente descrittiva dell’oggetto
sociale della ditta (“attività di cantiere navale, produzione di
imbarcazioni, alaggio, varo e riparazione di imbarcazioni”), come emerge
dall’esame della certificazione camerale (vedasi documento allegato 10 del
ricorso); attività che, del resto, è attestata anche dalle precedenti
commesse svolte (e che erano puntualmente descritte nella documentazione
allegata all’offerta a comprova del possesso dei requisiti di
qualificazione) una delle quali su incarico della stessa Amministrazione
procedente.
La revoca dell’aggiudicazione, alla luce di tale circostanza, si rivela
erronea in quanto, nel particolare caso all’esame odierno del Collegio, non
è dato rinvenire una vera e propria dichiarazione mendace, essendo la
divergenza riscontrata riconducibile ad una stesura “atecnica” dell’autodichiarazione
che non assurge ai requisiti minimi della mendacità o falsità (sostanziale)
dell’atto e che, quindi, è riconducibile ad una imprecisione di redazione,
come un vero e proprio errore scusabile, privo di conseguenze sul piano
sostanziale degli effetti.
Del resto, non è senza significato osservare come, secondo la giurisprudenza
(vedasi Cons. St. sez. III, 08/11/2017, n. 5170)
nell’impostazione del nuovo codice appalti, l’iscrizione camerale assurge a
requisito di idoneità professionale (art. 83, commi 1, lett. “a” e 3 d.lgs
n. 50/2016), anteposto ai più specifici requisiti attestanti la capacità
tecnico-professionale ed economico-finanziaria dei partecipanti alla gara,
di cui alle successive lettere b) e c) del medesimo comma.
Tuttavia, la medesima giurisprudenza è chiara nel ritenere che
l’utilità sostanziale della certificazione camerale è quella di
filtrare l’ingresso in gara dei soli concorrenti forniti di una
professionalità coerente con le prestazioni oggetto dell’affidamento
pubblico; ratio dalla quale –nell’ottica di una lettura del bando
fedele ai principi vigenti in materia di contrattualistica pubblica, che
tenga cioè conto dell’oggetto e della funzione dell’affidamento (1363, 1367
e 1369)– si desume la necessità (non tanto di una verifica formale, quanto)
di una congruenza contenutistica, tendenzialmente completa, tra le
risultanze descrittive della professionalità dell’impresa, come riportate
nell'iscrizione alla Camera di Commercio, e l’oggetto del contratto
d'appalto, evincibile dal complesso di prestazioni in esso previste, in
quanto l’oggetto sociale viene inteso come la "misura" della capacità
di agire della persona giuridica, la quale può validamente acquisire diritti
ed assumere obblighi solo per le attività comprese nello stesso, come
riportate nel certificato camerale
(Cons. St., n. 648/2012 e n. 4457/2015); si evidenzia altresì che
la corrispondenza contenutistica -tra risultanze descrittive del
certificato camerale e oggetto del contratto d'appalto- non debba tradursi
in una perfetta ed assoluta sovrapponibilità tra tutte le componenti dei due
termini di riferimento, ma che la stessa vada appurata secondo un criterio
di rispondenza alla finalità di verifica della richiesta idoneità
professionale, e quindi in virtù di una considerazione non già atomistica e
frazionata, bensì globale e complessiva delle prestazioni dedotte in
contratto (TAR L'Aquila, Abruzzo,
sez. I 26.02.2018 n. 71, Consiglio di Stato sez. III 08.11.2017 n. 5170, TAR
Catania, Sicilia, sez. III 06.12.2016 n. 3165).
Sotto questi profili, non viene revocato in dubbio, nell’odierna
fattispecie, che sussista in concreto l’effettiva capacità tecnica e di
esperienza della ricorrente; inoltre, l’errore nella dichiarazione è
evidentemente scaturito da una mera asincronia, ovvero dalla circostanza che
non era stato ancora adeguato dalla ricorrente l’”oggetto”
dell’attività nella iscrizione camerale allo svolgimento effettivo delle
prestazioni rese in precedenza sulla base dell’oggetto sociale che pure
risultava dalla medesima certificazione camerale (adeguamento che, a seguito
della rilevazione dell’Amministrazione, è stato invero prontamente
eseguito).
Per queste ragioni, i ricorsi sono fondati e meritano accoglimento, con
l’annullamento degli atti impugnati e con salvezza di ogni altra motivata
decisione dell’Autorità. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Viene eccepita la violazione del termine di
diciotto mesi, decorrente dagli atti oggetto di
annullamento. Ebbene:
- la censura va disattesa, dovendosi osservare che l’art.
21-nonies, comma 2-bis, L. n. 241 del 1990 stabilisce che “i
provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false
rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato, accertate con
sentenza passata in giudicato, possono essere annullati
dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di
diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione
delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal
capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 28.12.2000, n. 445”;
- nel caso in esame, l’annullamento consegue infatti
all’accertamento della falsa rappresentazione degli elementi
fattuali posti alla base dei titoli edilizi e, in
particolare, della circostanza che essi sarebbero stati
conseguiti dai ricorrenti “avendo omesso di rappresentare
le distanze dai fabbricati esistenti e dalla strada
esistente”;
- detta circostanza legittima, quanto meno sotto il profilo
fattuale e salvo quanto sarà osservato tra breve,
l’esercizio del potere di autotutela oltre il termine
sancito dal primo comma dell’art. 21-nonies, L. n. 241 del
1990.
---------------
Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, “il
potere, nelle forme dell'autotutela ex art. 21-nonies,
esercitato a distanza di un periodo compreso tra i tre e i
sei anni su una s.c.i.a asseritamente illegittima, a fronte
della consistenza dell'affidamento ingenerato nei
destinatari circa il consolidamento della loro efficacia,
impone una motivazione particolarmente convincente circa
l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto,
in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell'interesse
pubblico alla eliminazione d'ufficio del titolo.
È necessario, infatti, non solo che l'interesse pubblico
alla rimozione dell'atto viziato non possa coincidere con la
mera esigenza della restituzione all'azione amministrativa
della legalità violata, ma anche che non possa risolversi
nella semplice e astratta ripetizione delle stesse esigenze
regolative sottese all'ordine giuridico infranto: una
motivazione siffatta finirebbe logicamente proprio per
esaurire l'apprezzamento del presupposto discrezionale in un
esame nel mero riscontro della condizione vincolante
(l'illegittimità dell'atto da annullare d'ufficio), con un
palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del
legislatore”.
---------------
Considerato che:
- viene impugnato il provvedimento con cui il Comune di San Giorgio
di Nogaro ha disposto l’annullamento, ai sensi dell’art.
21-nonies, L. n. 241 del 1990 della D.I.A. prot. n.
15270/2011, della susseguente D.I.A. prot. n. 7878/2012 e
della comunicazione di inizio lavori prot. n. 2607/2015 per
la realizzazione di un manufatto, pertinenziale ad un
edificio esistente, ad uso autorimessa, e ha contestualmente
revocato la relativa agibilità;
- il provvedimento è motivato sulla base dei seguenti presupposti:
- “la SCIA presentata è illegittima per la non veritiera
prospettazione da parte del privato delle circostanze in
fatto e in diritto poste a fondamento dell’atto a lui
favorevole, avendo omesso di rappresentare la distanza dai
fabbricati esistenti e dalla strada esistente …”;
- “il … provvedimento di autotutela adottato oltre sei anni
dalla presentazione della Denuncia di Inizio attività
19/12/2011, si ritiene ragionevole in rapporto alla data
della scoperta, da parte di questa amministrazione, dei
fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto, al
fine di assicurare la tutela delle norme in concreto
violate, nella preminenza dell’interesse pubblico che nella
fattispecie deve essere riconosciuta alla disciplina
urbanistica”;
- sono proposti molteplici motivi di impugnazione, con i quali
vengono contestati, sotto distinti profili, l’esistenza del
potere esercitato dall’Amministrazione, in relazione alla
scadenza del termine di cui all’art. 21-nonies, L. n. 241
del 1990, l’assolvimento degli oneri motivazionali e
l’assenza dei presupposti di fatto, posti a sostegno del
provvedimento censurato;
...
Rilevato inoltre che:
- devono essere esaminati il primo e il terzo motivo
di ricorso, da trattarsi in unico contesto in quanto
strettamente connessi;
- nell’ambito di tali censure viene unicamente contestata, benché
sotto diverse angolazioni, l’inosservanza del termine
previsto per l’adozione del provvedimento di annullamento,
di cui all’art. 21-nonies, L. n. 241 del 1990, disposizione
a sua volta richiamata dal precedente art. 19, comma 4 allo
scopo di determinare i presupposti per l’esercizio dei
poteri inibitori dell’Amministrazione, nei casi di S.C.I.A.,
dichiarazione e denuncia di inizio attività, successivamente
allo spirare del termine indicato nel comma 3 (sessanta
giorni);
- viene, in particolare, eccepita la violazione del termine di
diciotto mesi, decorrente dagli atti oggetto di
annullamento;
- la censura va disattesa, dovendosi osservare che l’art.
21-nonies, comma 2-bis, L. n. 241 del 1990 stabilisce che “i
provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false
rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di
certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per
effetto di condotte costituenti reato, accertate con
sentenza passata in giudicato, possono essere annullati
dall'amministrazione anche dopo la scadenza del termine di
diciotto mesi di cui al comma 1, fatta salva l'applicazione
delle sanzioni penali nonché delle sanzioni previste dal
capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente
della Repubblica 28.12.2000, n. 445”;
- nel caso in esame, l’annullamento consegue infatti
all’accertamento della falsa rappresentazione degli elementi
fattuali posti alla base dei titoli edilizi e, in
particolare, della circostanza che essi sarebbero stati
conseguiti dai ricorrenti “avendo omesso di rappresentare
le distanze dai fabbricati esistenti e dalla strada
esistente”;
- detta circostanza legittima, quanto meno sotto il profilo
fattuale e salvo quanto sarà osservato tra breve,
l’esercizio del potere di autotutela oltre il termine
sancito dal primo comma dell’art. 21-nonies, L. n. 241 del
1990;
- il secondo motivo di ricorso è invece
manifestamente fondato;
- i ricorrenti, in particolare, eccepiscono “violazione di legge
(art. 3 L. n. 241/1990 e art. 4 L.R. FVG n. 7/2000) ed
eccesso di potere per omessa o comunque carente motivazione
in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale
e specifico che giustifichi l’esercizio dell’autotutela”,
in quanto l’Amministrazione non avrebbe fornito alcun
riscontro motivazionale in merito al doveroso raffronto tra
la posizione dei destinatari dell’atto e l’affermata
preminenza dell’interesse pubblico volto all’eliminazione
d’ufficio del titolo edilizio che si assume illegittimo;
- sul punto, il provvedimento impugnato contiene esclusivamente la
seguente laconica enunciazione: “il presente
provvedimento di autotutela adottato oltre sei anni dalla
presentazione della Denuncia di Inizio attività … si ritiene
ragionevole … al fine di assicurare la tutela delle norme in
concreto violate, nella preminenza dell’interesse pubblico
che nella fattispecie deve essere riconosciuta alla
disciplina urbanistica”;
- secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, “il potere,
nelle forme dell'autotutela ex art. 21-nonies, esercitato a
distanza di un periodo compreso tra i tre e i sei anni su
una s.c.i.a asseritamente illegittima, a fronte della
consistenza dell'affidamento ingenerato nei destinatari
circa il consolidamento della loro efficacia, impone una
motivazione particolarmente convincente circa
l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto,
in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell'interesse
pubblico alla eliminazione d'ufficio del titolo. È
necessario, infatti, non solo che l'interesse pubblico alla
rimozione dell'atto viziato non possa coincidere con la mera
esigenza della restituzione all'azione amministrativa della
legalità violata, ma anche che non possa risolversi nella
semplice e astratta ripetizione delle stesse esigenze
regolative sottese all'ordine giuridico infranto: una
motivazione siffatta finirebbe logicamente proprio per
esaurire l'apprezzamento del presupposto discrezionale in un
esame nel mero riscontro della condizione vincolante
(l'illegittimità dell'atto da annullare d'ufficio), con un
palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del
legislatore” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 3462 del 2017);
- alla luce dell’insegnamento richiamato, la motivazione allegata
dall’Amministrazione, focalizzata sulla generica esigenza di
dare corso al ripristino della legalità violata, va ritenuta
inidonea a delineare le ragioni dell’operato bilanciamento
tra l’interesse pubblico alla rimozione della situazione che
si è giudicata illegittima e il coesistente affidamento dei
privati, da essi riposto nella stabilità dei titoli edilizi
formatisi a loro favore;
- all’accoglimento del motivo d’impugnazione consegue
l’annullamento, entro il delineato perimetro, dell’atto
impugnato (TAR Friuli Venezia Giulia,
sentenza 09.08.2018 n. 277 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA -LAVORI PUBBLICI:
BOSCHI E MACCHIA MEDITERRANEA - Nozione di disboscamento -
FAUNA E FLORA - Apertura di un varco boschivo - Bosco:
conversione ad un altro tipo di sfruttamento del suolo - VIA
VAS AIA - valutazione dell’impatto ambientale - Direttiva
2011/92/UE - DIRITTO DELL'ENERGIA - Installazione e
sfruttamento di una linea elettrica aerea.
Il punto 1, lettera d), dell’allegato II
alla direttiva 2011/92/UE del Parlamento europeo e del
Consiglio, del 13.12.2011, concernente la valutazione
dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e
privati, deve essere interpretato nel senso che rientra
nella nozione di «disboscamento a scopo di conversione ad un
altro tipo di sfruttamento del suolo», ai sensi di tale
disposizione, l’apertura di un varco boschivo ai fini
dell’installazione e dello sfruttamento di una linea
elettrica aerea, come quella di cui trattasi nel
procedimento principale, per la durata della legittima
permanenza della stessa (Corte
di Giustizia UE, Sez. VIII,
sentenza 07.08.2018 C-329/17 - link a www.ambientediritto.it). |
TRIBUTI: Alloggi contigui, sgravi Imu ko.
La giurisprudenza Ici non si trasmette al nuovo tributo. La Corte di
cassazione pone uno sbarramento all’estensione della nozione di prima casa.
Con
l'ordinanza
31.07.2018 n. 20368 la Corte di Cassazione, Sez. VI civile, interviene sulla
possibilità o meno di estendere la nozione di abitazione principale, nell'Imu,
agli alloggi contigui per i quali la Corte aveva espresso parere favorevole
in diverse occasioni in ambito Ici.
Ricordiamo, infatti, che con le pronunce nn. 12666/2017, 12665/2017,
3011/2017, 14389/2010, 12269/2010, 12050/2010, 3393/2010, 25731/2009,
25279/2009 e 25902/2008 la Corte aveva ritenuto ammissibile la
qualificazione di abitazione principale Ici a tutte le unità abitative
contigue utilizzate dal medesimo nucleo familiare, giudicando del tutto
irrilevante il fatto che esse fossero censite separatamente, ovvero
intestate a soggetti diversi (n. 12269/2010).
Con l'avvento dell'Imu la Corte rileva che lo scenario normativo è
profondamente cambiato e, dovendo applicare il principio inderogabile di
stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte in tema di Ici,
vedasi le sentenze della Corte di cassazione nn. 23833/2017 e 3011/2017),
non si può non rilevare la diversa definizione di abitazione principale
dettata dall'articolo 13, comma 2, decreto-legge n. 201/2011, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 214/2011, e successive modifiche e
integrazioni.
In particolare, la Corte si sofferma sull'inciso normativo dell'Imu, del
tutto assente nell'Ici, che qualifica come abitazione principale
«l'immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica
unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare
dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente». Tale nuova formulazione
della definizione impedisce, di fatto, l'applicabilità all'Imu della
giurisprudenza formatasi nell'Ici in riguardo alle unità immobiliari
contigue che, pur diversamente accatastate, siano destinate ad essere in
concreto utilizzate come abitazione principale dall'intero nucleo familiare.
Questa prima pronuncia dei giudici ha il pregio di confermare in toto la
tesi degli enti locali i quali, in presenza di unità contigue occupate dal
medesimo nucleo, attribuiscono la qualifica di abitazione principale ad una
sola delle unità occupate, pretendendo il versamento dell'Imu ordinaria
dalle altre.
Resterà da verificare se siffatta tesi potrà essere assunta e ribadita dalla
Corte anche nel caso in cui i contribuenti abbiano provveduto alla fusione
catastale ai fini fiscali delle due o più unità contigue, in conformità a
quanto previsto dalla Circolare dell'Agenzia del territorio n. 15232 del
21/02/2002 e dalla Circolare dell'Agenzia delle entrate n. 27/E del
13/06/2016
(articolo ItaliaOggi del 07.09.2018).
---------------
MASSIMA
4. Il secondo motivo è invece manifestamente fondato.
Giova premettere in fatto che la presente controversia trae origine da
istanza di rimborso formulata dai contribuenti sul presupposto che dovessero
entrambi beneficiare dell'agevolazione prevista dall'art. 13, comma 2, del
d.l. 06.12.2011, n. 201, convertito, con modificazioni, nella l. 24.12.2011,
n. 214, in relazione al fatto che essi, padre e figlia, possedessero come
abitazione principale, ivi dimorandovi stabilmente ed avendo lì la propria
residenza anagrafica, l'unità immobiliare di proprietà l'una dell'altro.
4.1. Osserva la Corte che il tenore letterale della norma in esame è chiaro,
diversificandosi in modo evidente dalla previsione in tema di ICI in tema di
agevolazione relativa al possesso di abitazione principale, oggetto di
diversi interventi normativi.
L'art. 13, comma 2, del citato d.l. n. 201/2011, per quanto qui rileva,
statuisce che «L'imposta municipale propria non si
applica al possesso dell'abitazione principale e delle pertinenze della
stessa, ad eccezione di quelle classificate nelle categorie catastali A/1,
A/8 e A/9 [... J. Per abitazione principale si intende l'immobile, iscritto
o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel
quale il possessore ed il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e
risiedono anagraficamente».
Ciò comporta, per un verso, la non applicabilità
della giurisprudenza della Corte formatasi in tema di ICI, riferita,
peraltro, ad unità immobiliari contigue che, pur diversamente accatastate,
fossero destinate ad essere in concreto utilizzate come abitazione
principale del compendio nel suo complesso
(cfr. Cass. sez. 5, 29.10.2008, n. 25902; Cass. sez. 5, 09.12.2009, n.
25279; Cass. sez. 5, 12.02.2010, n. 3393; Cass. sez. 6-5, ord. 03.02.2017,
3011), per altro la necessità che in riferimento
alla stessa unità immobiliare tanto il possessore quanto il suo nucleo
familiare dimorino ivi stabilmente e vi risiedano anagraficamente.
4.2. Ciò, d'altronde, è conforme all'orientamento costante espresso da
questa Corte, in ordine alla natura di stretta interpretazione delle norme
agevolative (tra le molte, in tema di ICI, più di recente, cfr. Cass. sez.
5, 11.10.2017, n. 23833; Cass. sez. 6-5, ord. 03.02.2017, n. 3011),
condiviso anche dalla Corte costituzionale (cfr. Corte cost. 20.11.2017, n.
242).
4.3. D'altronde, come indiretta conferma di quanto sopra osservato, rileva
anche la modifica introdotta, nel contesto del citato 13 del d.l. n.
201/2011, con l'aggiunta, ad opera dell'art. 1, comma 10, della l. n.
208/2015, della previsione, al comma 3, del comma Oa), secondo cui, solo con
decorrenza dal 01.01.2016, la base imponibile dell'imposta municipale
propria è ridotta del 50% «per le unità immobiliari, fatta eccezione per
quelle classificate nelle categorie catastali A/1, A/8 e A/9, concesse in
comodato dal soggetto passivo ai parenti in linea retta entro il primo grado
che le utilizzano come abitazione principale, a condizione che il contratto
sia registrato e che il comodante possieda un solo immobile in Italia e
risieda anagraficamente nonché dimori stabilmente nello stesso comune in cui
è situato l'immobile concesso in comodato [...]».
5. Il ricorso del Comune di Torino va pertanto accolto in relazione al
secondo motivo, con conseguente cassazione dell'impugnata sentenza. |
APPALTI: Il Rup può escludere l’offerta anomala anche senza parere della commissione di
gara.
Il responsabile unico del procedimento può condurre il procedimento di
verifica dell'anomalia dell'offerta secondo le proprie valutazioni tecniche
e non può ritenersi obbligato a richiedere il supporto della commissione di
gara. Inoltre, una volta ricevute e valutate le giustificazioni, il Rup non
ha alcun obbligo di avviare ulteriori contraddittori con l'impresa
interessata.
Così il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, nella
sentenza
31.07.2018 n. 1904, che
dà un’importante lettura anche delle linee guida Anac n. 3/2018 sui compiti
del Rup.
La verifica dell'anomalia
Il ricorrente impugna il provvedimento del Rup che ha disposto l'esclusione
dal procedimento di gara per anomalia dell'offerta, perché la verifica
espletata sarebbe incompleta e illegittima per non aver chiesto il supporto
della commissione di gara come previsto dal codice e dalle linee guida Anac.
Ulteriore illegittimità, secondo il ricorrente, va riscontrata anche nella
conduzione del procedimento in quanto il responsabile unico, verificate le
giustificazioni, non ha attivato ulteriori contraddittori procedendo subito
con le esclusioni.
La decisione
Il giudice non è persuaso dalle ragioni del ricorrente. In primo luogo, in
sentenza si rileva che il supporto di cui il Rup potrebbe avvalersi non deve
essere inteso come obbligatorio, né come un parere che deve esprimere
l'organo valutatore.
Il riferimento al supporto, invece, per il Tar Lombardia va inteso in senso
atecnico «trattandosi di un termine che può essere inteso in vario modo, fra
cui anche come un mero ausilio di svariato contenuto, volto appunto a
“supportare” il Rup nella propria attività, che quest'ultimo è libero però
di attivare se lo reputa opportuno, quindi senza la configurabilità di un
obbligo giuridico di coinvolgimento della commissione di gara».
A bene vedere, lo stesso riferimento -contenuto anche nelle linee guida Anac n. 3 sulle funzioni del Rup- prefigurano, in relazione al procedimento
di verifica della congruità dell'offerta, una funzione “servente” della
commissione di gara rispetto ai compiti del responsabile del procedimento.
In definitiva, la lettura corretta della disposizione «sembra piuttosto
orientata a imporre alla commissione stessa di fornire, se richiesta dal
responsabile, la propria cooperazione, senza che la stessa possa opporvi
l’estraneità ai propri compiti». E in ogni caso, la nozione di supporto che
emerge dalle linee guida «non deve essere confusa con quella di “parere”,
che appare invece giuridicamente più chiara, essendo ad esempio
espressamente contemplata nella legge 241/1990 sul procedimento
amministrativo».
La questione del contraddittorio
Circa la questione del contraddittorio ulteriore -successivo alla
produzione delle giustificazioni- il giudice ne conferma il superamento
considerato che l’attuale articolo 97 del codice dei contratti, innovando
rispetto alla previgente disciplina del D.Lgs. 163/2006, «ha semplificato il
sub procedimento di verifica dell’anomalia», stabilendo solo che la stazione
appaltante è tenuta a richiedere «per iscritto spiegazioni sull’offerta,
senza però che sia previsto l’obbligo di una ulteriore interlocuzione con il
partecipante dopo la trasmissione delle giustificazioni».
La stessa giurisprudenza è concorde sul carattere innovativo dell'articolo
97, che non delinea una rigida scansione procedimentale e che ha abbandonato
il procedimento trifasico di cui all'abrogato articolo 88 del Dlgs 163/2006
(Tar Campania, Napoli, sezione VI, sentenza 05.03.2018 n. 1406 e sezione IV, 30.05.2018 n. 3584, oltre a Tar Lombardia, Milano, sezione IV,
sentenza 21.07.2017 n. 1654).
Va ritenuto legittimo, quindi, il comportamento del Rup che esprime la
propria valutazione di anomalia dopo aver proceduto con la verifica completa
delle giustificazioni
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 20.09.2018).
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MASSIMA
La doglianza, per quanto suggestiva, è infondata, per le ragioni che
seguono.
In primo luogo, gli articoli 31 e 77 del codice, riguardanti rispettivamente
le figure del RUP e della commissione giudicatrice, non contengono la
previsione espressa che il RUP, allorché deve valutare l’anomalia di
un’offerta, ha comunque l’obbligo di avvalersi del parere della commissione
di gara, posto che nessuno dei due articoli lo prevede espressamente.
Neppure l’art. 97 del codice, sulle offerte anormalmente basse, contempla un
simile obbligo, anzi si riferisce semplicemente, allorché disciplina il
procedimento di verifica dell’anomalia, alla “stazione appaltante”, senza
altro aggiungere.
Al contrario, il citato art. 31 assegna al RUP (comma 3) lo svolgimento di
tutti i compiti relativi alle procedure previste dal codice, che non siano
specificamente attribuiti ad altri organi o soggetti (cfr. sul punto la
recente sentenza del TAR Veneto, sez. I, 27.06.2018 n. 695, che qualifica il RUP quale “dominus della procedura di gara, in quanto titolare di tutti i
compiti prescritti”).
L’art. 77 del codice, poi, attribuisce alla commissione il compito di
valutazione delle offerte tecniche ed economiche, ma nulla dice sulla
eventuale verifica di anomalia, che deve reputarsi quindi di spettanza
esclusiva del RUP, stante l’art. 31 sopra indicato.
Quanto alle linee guida ANAC, anche ammesso che il giudice ne sia pur
indirettamente vincolato, il riferimento della ricorrente è a quelle di cui
al n. 3 del 2016, approvate con deliberazione n. 1096/2016, nel testo che
viene ritenuto applicabile ratione temporis alla presente fattispecie, nelle
quali è previsto che il RUP effettui la verifica di anomalia “con il
supporto della commissione”.
Il richiamo al “supporto”, secondo la ricorrente –che cita sul punto anche
un precedente giurisprudenziale– implica che il parere della commissione
sulla verifica di anomalia svolta dal RUP debba considerarsi obbligatorio.
Tale tesi non convince però il Collegio, considerato che la nozione di
“supporto” non appare giuridicamente univoca, e sembra invece atecnica,
trattandosi di un termine che può essere inteso in vario modo, fra cui anche
come un mero ausilio di svariato contenuto, volto appunto a “supportare” il RUP nella propria attività, che quest’ultimo è libero però di attivare se lo
reputa opportuno, quindi senza la configurabilità di un obbligo giuridico di
coinvolgimento della commissione di gara: la disposizione sembra piuttosto
orientata a imporre alla commissione stessa di fornire, se richiesta dal
responsabile, la propria cooperazione, senza che la stessa possa opporvi
l’estraneità ai propri compiti.
In ogni caso, la nozione di “supporto” –contenuta nelle linee guida ANAC–
non deve essere confusa con quella di “parere”, che appare invece
giuridicamente più chiara, essendo ad esempio espressamente contemplata
nella legge 241/1990 sul procedimento amministrativo (cfr. l’art. 16 di
quest’ultima).
Se ANAC avesse voluto subordinare l’operato del RUP al parere obbligatorio
della commissione, avrebbe presumibilmente utilizzato un diverso lessico,
con l’espresso riferimento all’istituto giuridico, ben noto nel diritto
amministrativo, del “parere”.
A conferma di quanto sopra, si rileva ancora che le linee guida n. 3/2016
sono state modificate dalla stessa ANAC nel 2017 e, per quanto ivi
interessa, il richiamo al “supporto” della commissione è stato accompagnato
dall’introduzione dell’aggettivo “eventuale”, riferito al supporto stesso (cfr.
il punto 5.3 della versione aggiornata delle linee guida citate).
Tale modifica però non vale a confermare la tesi della ricorrente, dovendosi
ritenere che, per il profilo sopra indicato, ANAC abbia soltanto voluto
meglio chiarire e spiegare la portata della precedente disposizione, nel
senso cioè della non obbligatorietà del “supporto”.
Infatti, nella relazione illustrativa di ANAC agli aggiornamenti delle linee
guida n. 3/2016 (cfr. il doc. 16 della ricorrente), la stessa Autorità (cfr.
pag. 5), evidenzia che per effetto dell’aggiornamento i compiti svolti dal
RUP con riferimento alla verifica di congruità delle offerte “sono stati
meglio esplicitati”, quindi non modificati o variati ma semplicemente
chiariti, il che conferma che anche prima dell’aggiornamento il supporto non
aveva carattere obbligatorio.
L’obbligatorietà non può neppure essere desunta dalla citata disposizione
del disciplinare di gara che si riferisce anch’essa al “supporto” della
commissione.
L’interpretazione della lex specialis, infatti, deve essere condotta nel
rispetto di criteri di proporzionalità ed adeguatezza, evitando anche
inutili aggravi o appesantimenti del procedimento, per cui correttamente la
nozione di “supporto” è stata intesa come ausilio facoltativo al RUP, in
conformità alla disciplina normativa sopra indicata.
Da ultimo preme evidenziare che il TAR Veneto, sez. III, con sentenza n.
348/2018, a proposito dei citati aggiornamenti delle linee guida n. 3/2016,
ha espressamente stabilito che: «4.- Con l’ultima doglianza, infine, parte
ricorrente contesta l’omessa acquisizione, in sede di valutazione della
congruità dell’offerta dell’aggiudicataria, del parere della Commissione
giudicatrice, conformemente a quanto asseritamente prescritto dalle linee
guida ANAC in attuazione della disposizione contenuta nell’art. 31, V comma,
del codice dei contratti. L’infondatezza della doglianza è conseguente alla
considerazione che le linee guida ANAC, aggiornate con deliberazione
consiliare 11.10.2017 n. 1007 –tale disposizione ha carattere procedimentale, con conseguente immediata validità-, prevedono che “nel
caso di aggiudicazione con il criterio dell’offerta economicamente più
vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo, il RUP verifica la congruità delle offerte con l’eventuale supporto della
commissione giudicatrice” (cfr. il predetto documento, pag. 9, punto 5.3):
pertanto, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, il supporto
della commissione giudicatrice è soltanto eventuale, a discrezionalità del
RUP».
Nel caso di specie il subprocedimento di verifica dell’anomalia è stato
avviato il 06.12.2017 (cfr. il doc. 2 della ricorrente), mentre la delibera
ANAC di aggiornamento è quella n. 1007 dell’11.10.2017 (cfr. il doc. 16
della ricorrente), per cui anche sotto tale profilo la doglianza appare
infondata.
Si conferma, in definitiva, il rigetto del primo motivo di ricorso.
1.2 Nel secondo motivo l’esponente lamenta la violazione del contraddittorio procedimentale in sede di verifica dell’anomalia, in quanto il RUP, dopo
avere esaminato le giustificazioni, ha disposto l’esclusione senza
interpellare nuovamente la ricorrente.
Sul punto occorre evidenziare che l’art. 97 del codice, innovando rispetto
alla previgente disciplina del D.Lgs. 163/2006, ha semplificato il sub
procedimento di verifica dell’anomalia, stabilendo soltanto (cfr. il comma
5), che la stazione appaltante debba chiedere per iscritto spiegazioni
sull’offerta, senza però che sia previsto l’obbligo di una ulteriore
interlocuzione con il partecipante dopo la trasmissione delle
giustificazioni.
Il codice ha quindi sostituito integralmente la vecchia disciplina, che ai
commi da 1-bis a 7 dell’art. 88 dell’abrogato codice dei contratti, fissava
una minuziosa scansione procedimentale, che prevedeva, dopo le precisazioni
fornite dal partecipante, la convocazione del medesimo per un’audizione.
La giurisprudenza è concorde sul carattere innovativo dell’art. 97, che non
delinea una rigida scansione procedimentale e che ha abbandonato il
procedimento c.d. trifasico di cui all’abrogato art. 88 del D.Lgs. 163/2006
(cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VI, 05.03.2018 n. 1406 e sez. IV, 30.05.2018,
n. 3584, oltre a TAR Lombardia, Milano, sez. IV, 21.07.2017, n. 1654).
Non essendovi più alcun obbligo di contraddittorio ulteriore dopo la
presentazione delle giustificazioni, non può essere reputata illegittima la
decisione dell’amministrazione che, valutate in ogni modo complete le
giustificazioni stesse, si determina immediatamente sulla valutazione di
anomalia, anche ritenendo l’offerta non congrua e procedendo di conseguenza
alla sua esclusione.
Fermo restando quanto sopra esposto, deve anche rilevarsi che, come meglio
sarà illustrato esaminando il terzo mezzo di gravame, il provvedimento di
esclusione appare in ogni modo adeguatamente motivato ed esaustivo, per cui
la presunta violazione procedimentale non darebbe comunque luogo ad
illegittimità del provvedimento finale ai sensi dell’art. 21-octies della
legge 241/1990.
Si conferma quindi il rigetto del secondo motivo. |
EDILIZIA PRIVATA:
Notai - Trasferimento di
beni immobili abusivi e verifica in concreto della gravità
dell'irregolarità urbanistica - Notaio abusivismo edilizio e
doverosa assunzione di responsabilità - Commercio giuridico
degli immobili e nullità urbanistica - Nullità di un
contratto di compravendita - Rimessione della questione alle
sezioni unite - Art. 46 d.p.r. 380/2001.
La nozione di irregolarità urbanistica è
nozione assai ampia, che presenta un esteso ventaglio di
articolazioni, dall'immobile edificato in assenza di
concessione all'immobile edificato in totale difformità
dalla concessione all'immobile che presenta una variazione
essenziale rispetto alla concessione o, ancora, a quello che
presenta una parziale difformità dalla concessione.
Pertanto, la natura sostanziale della nullità urbanistica
finisce con il far dipendere la validità del contratto di
trasferimento da valutazioni -quali quelle legate alla
differenza tra variazione essenziale e variazione non
essenziale, natura primaria o secondaria dell'abuso,
condonabilità o meno dell'abuso stesso- che, se sul piano
teorico possono considerarsi sufficientemente nitide, nella
loro applicazione in una fattispecie concreta possono
implicare non pochi margini di opinabilità.
Tanto più che la questione della verifica in concreto della
gravità dell'irregolarità urbanistica di uno specifico
fabbricato, ai fini della loro sanatoria e dell'applicazione
delle sanzioni di carattere pubblicistico previste dalla
legge per contrastare il fenomeno dell'abusivismo, è
demandata dalla legge alle amministrazioni municipali (le
cui normative ed i cui orientamenti interpretativi non
sempre forniscono criteri di valutazione idonei ad orientare
con chiarezza e certezza le valutazioni dei tecnici delle
parti contraenti e dello stesso notaio rogante), oltre che,
in seconda battuta, al giudice amministrativo.
Per cui, si rende opportuna la rivalutazione, da parte delle
Sezioni Unite, della natura formale o sostanziale della
nullità urbanistica è, in ultima analisi, una ragione di
bilanciamento tra le esigenze del contrasto all'abusivismo
(che potrebbero ritenersi sufficientemente tutelate dalla
nullità formale derivante dalla mancata menzione nell'atto
di trasferimento degli strumenti concessori dell'immobile
ivi dedotto) e le esigenze di tutela dell'acquirente nel
caso di una difformità dell'immobile dal titolo concessorio
menzionato nell'atto che, al momento dell'acquisto, egli (o
i suoi tecnici o il notaio rogante) non abbiano rilevato o,
pur rilevandola, abbiano qualificato come difformità
parziale e non essenziale.
In questo caso -ferma restando la possibilità
dell'acquirente di chiedere, se ne ricorrano i presupposti,
la risoluzione del contratto o la tutela redibitoria o
quella risarcitoria- potrebbe ritenersi, e si rimette la
relativa valutazione alle Sezioni Unite, che la sanzione
della nullità, con la conseguente perdita della proprietà
dell'immobile da parte dell'acquirente che lo abbia pagato,
risulti sproporzionata rispetto al fine pubblicistico che la
legge intende tutelare.
DIRITTO URBANISTICO - EDILIZIA - Atti di trasferimento di
immobili non in regola con la normativa urbanistica -
Principio generale della nullità (di carattere sostanziale)
- Art. 46 d.p.r. 380/2001.
Il «principio generale della nullità (di
carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di
immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si
aggiunge una nullità (di carattere formale) per gli atti di
trasferimento di immobili in regola con la normativa
urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione,
ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi».
Conferma di tale principio viene tratta dal rilievo che la
possibilità che l'atto nullo venga confermato mediante un
atto successivo contenente le menzioni omesse risulta
prevista dall'articolo 40, terzo comma, l. 47/1985 (nonché,
può aggiungersi, dall'articolo 17, quarto comma, l. 47/1985
e, ora, dall'articolo 46, quarto comma, d.p.r. 380/2001)
solo nella ipotesi in cui la mancanza delle dichiarazioni
non sia dipesa dall'insussistenza della licenza o della
concessione o dall'inesistenza della domanda di concessione
in sanatoria al tempo della stipula dell'atto stesso.
Nella specie, ai fini della composizione del rilevato
contrasto diacronico sulla natura della nullità urbanistica,
sono stati rimessi gli atti al Primo Presidente per
l'assegnazione alle Sezioni Unite
.
---------------
Il primo motivo di ricorso pone una questione di
diritto su cui il Collegio ritiene di dover svolgere le
seguenti considerazioni.
La previsione della nullità degli atti relativi a
costruzioni abusive venne introdotta nell'ordinamento dalla
legge n. 10/1977 (c.d. legge Bucalossi); già
precedentemente, peraltro, la sanzione della nullità era
stata prevista la legge n. 765/1967 (c.d. "legge ponte"),
all'articolo 10, per gli atti di compravendita di terreni
abusivamente lottizzati.
L'articolo 15, comma 7, della legge n. 10/1977 (poi abrogato
dall'articolo 2 della legge n. 47/1985) recitava: "gli
atti giuridici aventi per oggetto unità edilizie costruite
in assenza di concessione sono nulli ove da essi non risulti
che l'acquirente era a conoscenza della mancanza della
concessione". La ratio di tale disposizione era
la protezione dell'acquirente più che il contrasto
all'abusivismo e, coerentemente con tale ratio, la
nullità negoziale ivi comminata venne qualificata dalla
giurisprudenza come relativa (Cass. n. 8685/1999 e altre).
Con la successiva legge n. 47 del 1985 (articoli 17, primo
comma, e 40, secondo comma) il legislatore introdusse la
sanzione della nullità ("sono nulli e non possono essere
stipulati") degli atti tra vivi di trasferimento o
costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali
-relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione fosse
iniziata dopo l'entrata in vigore della legge- che non
contenessero, per dichiarazione dell'alienante, gli estremi
della concessione ad edificare (art. 17) o del condono
edilizio o della domanda di condono edilizio con gli estremi
dei prescritti versamenti (art. 40).
La nullità di cui alla legge 47/1985 (oggi riprodotta nella
disposizione del primo comma dell'articolo 46 del d.p.r.
380/2001) si collocava, come è stato osservato in dottrina,
a cavallo di prospettive eterogenee.
Per un verso il legislatore, rimuovendo qualunque
riferimento alla mancata conoscenza della concessione da
parte dell'acquirente dell'immobile, potenziava il profilo
della tutela dell'interesse pubblico al contrasto
all'abusivismo; donde la riconosciuta natura assoluta, e non
relativa, di tale nullità (Cass. 8685/1999, Cass. 630/2003,
Cass. 23541/2017).
Per altro verso, tuttavia, il medesimo legislatore mostrava
un'attenzione all'esigenza di non paralizzare il commercio
giuridico degli immobili maggiore di quella mostrata con la
legge n. 10/1977.
Infatti, sotto un primo profilo, il regime di
incommerciabilità assoluta degli immobili abusivi previsto
da quest'ultima legge (che attingeva qualunque atto "atto
giuridico" avente ad oggetto immobili costruiti in
assenza di concessione) veniva sostituito da un regime in
cui la nullità derivante dalla natura abusiva dell'immobile
dedotto in contratto non incideva né sugli atti concernenti
diritti reali di garanzia e di servitù (per effetto di
previsione normativa espressa), né sugli atti mortis
causa (per effetto della limitazione della previsione
della nullità agli atti tra vivi).
Sotto un secondo profilo, il rigore della sanzione
della nullità risulta attenuato dal rimedio della conferma
dell'atto nullo di cui al quarto comma dell'articolo 17 e al
terzo comma dell'articolo 40 della legge n. 47/1985 (e al
quarto comma dell'articolo 46 del d.p.r. 380/2001).
All'evidenziata ambiguità della disciplina introdotta dalla
legge n. 47/1985 e ripresa dal d.p.r. 380/2001 -la quale, se
da un lato mira a sanzionare l'abusivismo edilizio
precludendo la possibilità che immobili abusivi possano
essere venduti in forza di accordi fra le parti, dall'altro
appare non insensibile all'esigenza di garantire una qualche
forma di tutela del traffico giuridico e dell'interesse
dell'acquirente di evitare la nullità dell'atto di
trasferimento- sembra potersi ricondurre la dicotomia
diacronicamente sviluppatasi nella giurisprudenza di questa
Corte sul modo di intendere la nullità urbanistica.
Secondo un più risalente orientamento, che privilegia
un'interpretazione letterale della norma, gli artt. 17 e 40
della legge 28.02.1985, n. 47 comminano la nullità degli
atti tra vivi con i quali vengano trasferiti diritti reali
su immobili nel caso in cui tali atti non contengano la
dichiarazione degli estremi della concessione edilizia
dell'immobile oggetto di compravendita, ovvero degli estremi
della domanda di concessione in sanatoria, mentre non
prendono in considerazione l'ipotesi della irregolarità
sostanziale del bene sotto il profilo urbanistico, ossia
della conformità o meno della realizzazione edilizia
rispetto alla licenza o alla concessione; tale conformità,
pertanto, rileva sul piano dell'adempimento del venditore ma
non su quello della validità dell'atto di trasferimento.
L'indicazione nell'atto degli estremi dello strumento
concessorio costituisce quindi, secondo questo orientamento,
una tutela per l'acquirente, il quale tramite tale
indicazione viene messo in condizione di controllare la
conformità dell'immobile alle risultanze dalla concessione
edilizia o della concessione in sanatoria; solo la mancanza
di tale indicazione (e non anche la difformità
dell'immobile) comporta, quindi, la nullità del negozio,
giacché impedisce il suddetto controllo all'acquirente (cfr.
sentt. nn. 14025/1999, 8147/2000, 5068/2001, 5898/2004,
26970/2005; si veda anche, per l'affermazione
dell'irrilevanza della non veridicità della dichiarazione
sostitutiva di atto notorio attestante l'inizio dell'opera
in data anteriore al 02.09.1967, sent. n. 16876/2013).
Tale orientamento ha formato oggetto di un radicale riesame
critico nelle sentenze della seconda sezione di questa Corte
nn. 23591/2013 e 28194/2013 (decise nella medesima udienza
del 18.06.2013), le quali hanno ritenuto di trarre dal testo
del secondo comma dell'articolo 40 della legge n. 47/1985 (e
ad onta della «non perfetta formulazione della
disposizione») il «principio generale della nullità (di
carattere sostanziale) degli atti di trasferimento di
immobili non in regola con la normativa urbanistica, cui si
aggiunge una nullità (di carattere formale) per gli atti di
trasferimento di immobili in regola con la normativa
urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione,
ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi».
Conferma di tale principio viene tratta, nelle citate
sentenze, dal rilievo che la possibilità che l'atto nullo
venga confermato mediante un atto successivo contenente le
menzioni omesse risulta prevista dall'articolo 40, terzo
comma, l. 47/1985 (nonché, può aggiungersi, dall'articolo
17, quarto comma, l. 47/1985 e, ora, dall' articolo 46,
quarto comma, d.p.r. 380/2001) solo nella ipotesi in cui la
mancanza delle dichiarazioni non sia dipesa
dall'insussistenza della licenza o della concessione o
dall'inesistenza della domanda di concessione in sanatoria
al tempo della stipula dell'atto stesso.
Alla base di questo più recente orientamento vi è:
- in primo luogo, il rilievo che la tesi della nullità
formale produrrebbe il risultato -contrastante con la ratio
di impedire il trasferimento degli immobili abusivi- di far
giudicare nullo un contratto avente ad oggetto un immobile
urbanisticamente regolare (per il vizio formale della
mancata menzione nell'atto del titolo concessorio) e valido
un contratto avente ad oggetto un immobile anche totalmente
difforme dallo strumento concessorio menzionato nel
contratto;
- in secondo luogo, il rilievo che dal tenore letterale
dell'art. 40, comma 2, l. n. 47/1985 sarebbe possibile
desumere (nonostante la "non perfetta formulazione della
disposizione in questione") la previsione di due
differenti ipotesi di nullità: una, di carattere
sostanziale, che colpisce "gli atti di trasferimento di
immobili non in regola con la normativa urbanistica" e
una, di carattere formale, che colpisce "gli atti di
trasferimento di immobili in regola con la normativa
urbanistica o per i quali è in corso la regolarizzazione,
ove tali circostanze non risultino dagli atti stessi" (i
virgolettati sono tratti da Cass. 23591/2013, pagina 14,
primo capoverso).
Nelle citate sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013 si è
altresì affermato il principio che la summenzionata nullità
«sebbene riferita agli atti di trasferimento con
immediata efficacia reale, si estende al preliminare, con
efficacia meramente obbligatoria, in quanto avente ad
oggetto la stipulazione di un contratto definitivo nullo per
contrarietà a norma imperativa».
Questa seconda affermazione non ha trovato seguito nella
successiva giurisprudenza di legittimità (salvo che, tra le
pronunce massimate, nella sentenza n. 18261/2015, anch'essa
della seconda sezione, la quale ha affermato la nullità ex
art. 40 l. 47/1985 di un contratto qualificato dalla corte
di merito come preliminare senza tuttavia, soffermarsi
espressamente sulla questione della applicabilità di tale
disposizione ai contratti con effetti obbligatori);
l'esclusione dei contratti obbligatori dall'ambito di
operatività della nullità ex art. 40 l. 47/1985
-costantemente affermata nella giurisprudenza anteriore alle
citate sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013 (cfr., tra le
tante, le sentenze nn. 6018/1999, 14489/2005, 9849/2007,
15734/2011)- è stata infatti ribadita, pur dopo le sentenze
nn. 23591/2013 e 28194/2013, nelle sentenze della terza
sezione nn. 28456/2013 e 21942/2017 e nelle sentenze della
seconda sezione nn. 9318/2016 e 11659/2018.
Ai fini del presente giudizio, in cui si discute della
nullità di un contratto di compravendita, rileva tuttavia
soltanto la prima delle suddette affermazioni, ossia quella
relativa alla natura "sostanziale" della nullità di
cui agli articoli 17 e 40 della legge n. 47/1985 (ora
articolo 46, d. p. r. 380/2001); affermazione
successivamente ribadita nelle sentenze 25811/2014 e
18261/2015. Tale orientamento, in sostanza, riconduce la
nullità urbanistica al disposto del primo comma
dell'articolo 1418 c.c., ossia nell'ambito delle nullità
c.d. "virtuali", laddove l'orientamento precedente
considerava tale nullità come una nullità "testuale"
ai sensi dell'ultimo comma del medesimo articolo 1418 c.c..
Ad avviso del Collegio, l'orientamento inaugurato dalle
sentenze nn. 23591/2013 e 28194/2013 merita una
riconsiderazione da parte delle Sezioni Unite.
La tesi della nullità virtuale, oltre a non trovare un
solido riscontro nella lettera della legge (nella quale si
sanziona con la nullità l'assenza di una dichiarazione
negoziale dell'alienante avente ad oggetto gli estremi dei
provvedimenti concessori relativi all'immobile dedotto in
contratto, senza alcun riferimento alla necessità che la
consistenza reale di tale immobile sia conforme a quella
risultante dai progetti approvati con detti provvedimenti
concessori) può risultare foriera di notevoli complicazioni
nella prassi applicativa e, conseguentemente, rischia di
pregiudicare in maniera significativa gli interessi della
parte acquirente; quest'ultima, infatti, si vede esposta,
con la dichiarazione di nullità dell'atto di trasferimento,
alla perdita dell'immobile (con la conseguente necessità di
procedere al recupero del prezzo versato) pure in situazioni
nelle quali aveva fatto incolpevole affidamento sulla
validità dell'atto.
Al riguardo il collegio rileva che la nozione di
irregolarità urbanistica è nozione assai ampia, che presenta
un esteso ventaglio di articolazioni, dall'immobile
edificato in assenza di concessione all'immobile edificato
in totale difformità dalla concessione all'immobile che
presenta una variazione essenziale rispetto alla concessione
o, ancora, a quello che presenta una parziale difformità
dalla concessione.
La giurisprudenza di questa Corte ha espresso un
orientamento "alquanto prudente" (così viene definito
in Cass. 11659/2018, pag. 5) nell'uso dello strumento della
incommerciabilità del bene quale riflesso della nullità
negoziale dipendente dalla irregolarità urbanistica
dell'immobile; si considerino al riguardo, con riferimento
ai contratti a effetti reali, Cass. 52/2010, che giudica
irregolari e, come tali, non commerciabili quei fabbricati
che abbiano subito "modifiche nella sagoma o nel volume
rispetto a quello preesistente"; nonché, con riferimento
all'esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere
un contratto ex art. 2392 c.c., la stessa sentenza n.
11659/2018 e le sentenze nn. 20258/2009 e 8081/2014, secondo
le quali, ai sensi dell'art. 40 della legge n. 47/1985, può
essere pronunciata sentenza di trasferimento coattivo ex
art. 2932 c.c. nel caso in cui l'immobile abbia un vizio di
regolarità urbanistica non oltrepassante la soglia della
parziale difformità rispetto alla concessione.
Tali ultime tre sentenze enunciano principi di particolare
interesse ai fini che ci occupano.
In Cass. n. 20258/2009, pur richiamandosi l'indirizzo,
all'epoca dominante, della natura formale della nullità
urbanistica e della relativa riconduzione alla categoria
delle nullità testuali di cui all'ultimo comma dell'articolo
1418 c.c. ("la legge eleva a requisito formale del
contratto la presenza in esso di alcune dichiarazioni ed è
la loro assenza che di per sé comporta la nullità dell'atto,
a prescindere cioè dalla regolarità dell'immobile che ne
costituisce l'oggetto", pag. 16) si afferma che la
ratio legis è quella di "garantire che il bene nasca
e si trasmetta nella contrattazione soltanto se privo di
determinati caratteri di abusivismo" (pag. 18) e,
richiamando Cass. 9647/2006, si stabilisce che il
presupposto dell'obbligo di dichiarare in contratto gli
estremi della concessione edilizia (o della documentazione
alternativa, rappresentata dalla concessione in sanatoria) è
che tali documenti effettivamente esistano, concludendo
quindi (sul rilievo che la presenza o la mancanza dello
strumento concessorio non possono essere affermate in
astratto, ma devono essere affermate in relazione all'
immobile concretamente dedotto in contratto) nel senso della
nullità di un atto di trasferimento (o della non
eseguibilità in forma specifica di un obbligo di trasferire)
avente ad oggetto immobili costruiti in maniera così diversa
dalla previsione contenuta nella licenza o nella concessione
da non potere essere ricondotti alla stessa.
Con la sentenza n. 20258/2009 si è quindi, in sostanza,
aperto un primo varco nella concezione della natura formale
della nullità urbanistica, affermandosi che, ai fini della
validità dell'atto di trasferimento (e della suscettibilità
di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di contrarre)
non è sufficiente che nell'atto sia menzionato (o nel
giudizio di esecuzione in forma specifica venga prodotto) lo
strumento concessorio, ma è altresì necessario che tale
strumento sia effettivamente riferibile alla concreta
consistenza dell'immobile dedotto in contratto, fermo
restando che a tali fini non è rilevante la mera difformità
parziale dell'immobile rispetto al progetto approvato con lo
strumento concessorio.
I principi espressi nella sentenza n. 20258/09 sono stati
poi ripresi e specificati, in materia di esecuzione in forma
specifica dell'obbligo di contrarre, nelle sentenze
(successive al revirement di cui alle sentenze nn.
23591/2013 e 28194/2013) n. 8081/2014 e 11659/2018.
Nella sentenza n. 8081/2014 -con riguardo alla possibilità
di eseguire in forma specifica un contratto preliminare
relativo ad un immobile difforme dal progetto approvato con
la concessione o il condono- si è valorizzata la distinzione
tra l'ipotesi di difformità totale o variazione essenziale (artt.
7 e 8 della legge n. 47/1985) e l'ipotesi di variazione
parziale e non essenziale (art. 12 della legge n. 47/1985).
Nella sentenza n. 11659/2018 -sempre con riguardo alla
possibilità di eseguire in forma specifica un contratto
preliminare relativo ad un immobile difforme dal progetto
approvato con la concessione o il condono- si è poi
affermato che l'applicazione della regola della nullità come
sanzione va preceduta dalla verifica della esistenza di
norme che consentono alla fattispecie di sfuggire alla norma
imperativa apparentemente applicabile e si è evidenziato
come, in tema di vendita di immobili, il sovrapporsi della
legislazione speciale introdotta a partire dal 1985 imponga
di tener conto della distinzione tra ipotesi di abuso
primario (relativo a beni immobili edificati o resi
abitabili in assenza di concessione e alienati in modo
autonomo rispetto all'immobile principale di cui in ipotesi
facevano parte) e abuso secondario (caratterizzato dalla
circostanza che solo una parte di unità immobiliare già
esistente abbia subito modifica o mutamento di destinazione
d'uso) e si è sottolineato come proprio la normativa in
materia di condoni edilizi costituisca una delle ipotesi di
"disposizioni di legge" che limitano la nullità ex
art. 1418, primo comma, quale effetto di qualsivoglia
irregolarità urbanistica.
Tornando allo specifico tema del presente giudizio, vale a
dire quello della invalidità del contratto ad effetti reali,
il Collegio in primo luogo evidenzia che né nelle sentenze
nn. 23591/2013 e 28194/2013 né nelle sentenze nn. 25811/2014
e 18261/2015 (che a quelle hanno dato seguito), si distingue
tra le ipotesi di difformità totale o variazione essenziale
e l'ipotesi di variazione parziale non essenziale, giacché
in tali pronunce si enuncia il principio generale della
nullità (di carattere sostanziale) degli atti di
trasferimento di "immobili non in regola con la normativa
urbanistica" (così a pag. 14 di Cass. n. 23591/2013, a
pag. 12 di Cass. n. 28194/2013 e a pag. 4 di Cass. n.
25811/2014; di immobili che "non siano in regola con la
normativa urbanistica" si parla, infine, nella sentenza
n. 18261/2015 a pag. 8).
Sotto un primo profilo sarebbe quindi auspicabile un
chiarimento, da parte delle Sezioni Unite, sulla portata
della nozione di irregolarità urbanistica, ai fini che ci
occupano, e sulla possibilità di applicare, in tema di
validità degli atti traslativi, la distinzione -elaborata in
tema di esecuzione specifica dell'obbligo di contrarre- tra
variazione essenziale e variazione non essenziale
dell'immobile dedotto in contratto rispetto al progetto
approvato dall'amministrazione comunale.
Sotto un secondo profilo, il Collegio evidenzia come
la tesi della natura sostanziale della nullità urbanistica
finisca con il far dipendere la validità del contratto di
trasferimento da valutazioni -quali quelle legate alla
differenza tra variazione essenziale e variazione non
essenziale, natura primaria o secondaria dell'abuso,
condonabilità o meno dell'abuso stesso- che, se sul piano
teorico possono considerarsi sufficientemente nitide, nella
loro applicazione in una fattispecie concreta possono
implicare non pochi margini di opinabilità.
Tanto più che la questione della verifica in concreto della
gravità dell'irregolarità urbanistica di uno specifico
fabbricato, ai fini della loro sanatoria e dell'applicazione
delle sanzioni di carattere pubblicistico previste dalla
legge per contrastare il fenomeno dell'abusivismo, è
demandata dalla legge alle amministrazioni municipali (le
cui normative ed i cui orientamenti interpretativi non
sempre forniscono criteri di valutazione idonei ad orientare
con chiarezza e certezza le valutazioni dei tecnici delle
parti contraenti e dello stesso notaio rogante), oltre che,
in seconda battuta, al giudice amministrativo.
La ragione che, ad avviso del Collegio, rende opportuna la
rivalutazione, da parte delle Sezioni Unite, della natura
formale o sostanziale della nullità urbanistica è, in ultima
analisi, una ragione di bilanciamento tra le esigenze del
contrasto all'abusivismo (che potrebbero ritenersi
sufficientemente tutelate dalla nullità formale derivante
dalla mancata menzione nell'atto di trasferimento degli
strumenti concessori dell'immobile ivi dedotto) e le
esigenze di tutela dell'acquirente nel caso di una
difformità dell'immobile dal titolo concessorio menzionato
nell'atto che, al momento dell'acquisto, egli (o i suoi
tecnici o il notaio rogante) non abbiano rilevato o, pur
rilevandola, abbiano qualificato come difformità parziale e
non essenziale.
In questo caso -ferma restando la possibilità
dell'acquirente di chiedere, se ne ricorrano i presupposti,
la risoluzione del contratto o la tutela redibitoria o
quella risarcitoria- potrebbe ritenersi, e si rimette la
relativa valutazione alle Sezioni Unite, che la sanzione
della nullità, con la conseguente perdita della proprietà
dell'immobile da parte dell'acquirente che lo abbia pagato,
risulti sproporzionata rispetto al fine pubblicistico che la
legge intende tutelare.
Il Collegio ritiene quindi di rimettere gli atti al Primo
Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite,
ai fini della composizione del rilevato contrasto diacronico
sulla natura della nullità urbanistica (Corte
di Cassazione, Sez. II civile,
ordinanza 30.07.2018 n. 20061 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materia urbanistica ed edilizia (art. 134,
primo comma, lett. f, c.p.a.) comprende anche la
riscossione, mediante cartella di pagamento o ingiunzione ex
art. 2 del regio decreto n. 639/2010, degli oneri di
urbanizzazione con applicazione delle relative sanzioni,
restando esclusa dall'ambito di cognizione di tale giudice
la sola procedura esecutiva in senso stretto, che ha inizio
con il pignoramento o, quanto ai beni mobili registrati, con
l'eventuale provvedimento di fermo.
La giurisdizione amministrativa non viene meno a
seguito dell'emissione dell'ingiunzione di pagamento ai
sensi dell'articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910, in quanto,
“in materia di opposizione all'ingiunzione per la
riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la
disposizione di cui all'art. 3 del R.D. 14.04.1910, n.
639 non reca deroga alle norme regolatrici della
giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto,
non può essere invocata per ricondurre nella sfera di
competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze
che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla
normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla
cognizione di altro giudice”.
Pertanto, anche i vizi formali dell’ingiunzione di pagamento
e la sussistenza di fatti estintivi del credito sottostante
all’ingiunzione stessa rientrano nella cognizione esclusiva
del giudice amministrativo.
---------------
1. In via preliminare occorre soffermarsi sulle questioni in
rito.
Il Comune di Prato ha eccepito l’inammissibilità, per
difetto di giurisdizione, della quarta e della quinta
censura proposta con i motivi aggiunti, trattandosi da un
lato di questioni dedotte dalla ricorrente in relazione alla
validità formale dell’impugnata ingiunzione e non di
contestazioni del momento autoritativo del rapporto tra
pubblica amministrazione e privato, e dall’altro della
attuale persistenza del credito per decorso del termine di
prescrizione, appartenente alla cognizione del giudice
civile.
L’eccezione è infondata.
Come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza (fra le
più recenti, TAR di Cagliari, Sez. II, n. 555/2016, Cass.
Civ. Sez. Un., n. 15209/2015 e TAR Lombardia, Milano, IV,
n. 389/2014), la giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo in materia urbanistica ed edilizia (art. 134,
primo comma, lett. f, c.p.a.) comprende anche la
riscossione, mediante cartella di pagamento o ingiunzione ex
art. 2 del regio decreto n. 639/2010, degli oneri di
urbanizzazione con applicazione delle relative sanzioni,
restando esclusa dall'ambito di cognizione di tale giudice
la sola procedura esecutiva in senso stretto, che ha inizio
con il pignoramento o, quanto ai beni mobili registrati, con
l'eventuale provvedimento di fermo (TAR Sicilia, Catania, II,
11.10.2016, n. 2531; TAR Campania, Salerno, II, 04.04.2008, n.
474).
La giurisdizione amministrativa non viene meno a
seguito dell'emissione dell'ingiunzione di pagamento ai
sensi dell'articolo 2 del R.D. n. 639 del 1910, in quanto,
“in materia di opposizione all'ingiunzione per la
riscossione di entrate patrimoniali dello Stato, la
disposizione di cui all'art. 3 del R.D. 14.04.1910, n.
639 non reca deroga alle norme regolatrici della
giurisdizione nel vigente ordinamento giuridico e, pertanto,
non può essere invocata per ricondurre nella sfera di
competenza giurisdizionale del giudice ordinario vertenze
che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla
normativa ad essi relativa, debbano essere riservate alla
cognizione di altro giudice” (Cons. Stato, VI, 29.11.2005,
n. 6748).
Pertanto, anche i vizi formali dell’ingiunzione di pagamento
e la sussistenza di fatti estintivi del credito sottostante
all’ingiunzione stessa rientrano nella cognizione esclusiva
del giudice amministrativo.
Ciò premesso, entrando nel merito della trattazione del
ricorso e dei motivi aggiunti, valgono le seguenti
considerazioni (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I crediti dell’Ente relativi agli oneri di urbanizzazione
e al costo di costruzione, in assenza di diversa
disposizione normativa, soggiacciono al termine
prescrizionale ordinario di dieci anni ex art. 2946 c.c..
Il "dies a quo", in
generale, decorre dal rilascio del titolo edilizio, e,
quindi, dal momento in cui sono esattamente noti tutti gli
elementi utili alla determinazione dell'entità del
contributo.
---------------
9. Con la
quarta censura in cui si articolano i motivi
aggiunti (ottava doglianza, considerando anche quelle
dedotte in via principale) l’esponente ha eccepito la
prescrizione quinquennale degli oneri di urbanizzazione e
del costo di costruzione.
Il rilievo è infondato.
I crediti dell’Ente relativi agli oneri di urbanizzazione e
al costo di costruzione, in assenza di diversa disposizione
normativa, soggiacciono al termine prescrizionale ordinario
di dieci anni ex art. 2946 c.c. (ex multis: TAR Puglia,
Bari, III, 09.05.2018, n. 678; TAR. Sicilia, Palermo, Sez. II, 11.06.2014 n. 1493, 11.02.2014 n. 412 e
16.10.2014 2013 n. 1888; TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 14.01.2011, n. 152). Il "dies a quo", in
generale, decorre dal rilascio del titolo edilizio, e,
quindi, dal momento in cui sono esattamente noti tutti gli
elementi utili alla determinazione dell'entità del
contributo.
Nel caso di specie anche considerando, ai fini del decorso
del termine di prescrizione, la comunicazione di variante in
corso d’opera, datata 09.03.2005, l’impugnata ingiunzione,
notificata il 06.07.2011, risulta tempestiva. In ogni caso, ad
avviso del Collegio, il dies a quo è in realtà
successivo al 09.03.2005, ovvero è dato dal giorno
14.04.2006 (indicato nell’impugnata determinazione come
scadenza di pagamento del conguaglio dovuto), in quanto la
ricorrente non ha indicato, nella citata variante, la nuova
destinazione d’uso, di cui l’Ente ha avuto contezza solo in
sede di successivo sopralluogo della Polizia Municipale (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento di destinazione d'uso, anche senza
realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale,
integra il passaggio da una categoria funzionale autonoma
all’altra, tra loro non omogenee, che determina un
incremento del carico urbanistico, facendo soggiacere
pertanto la parte istante all'onere di sopportare gli oneri
concessori conseguenti all'aggravio del carico urbanistico.
L'incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da
un mutamento di destinazione d'uso senza opere, è dunque
presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri
concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al
costo di costruzione, in considerazione del vantaggio
economico che ritrae il richiedente e dell'aggravio
urbanistico insito nella destinazione commerciale rispetto
all'iniziale destinazione industriale.
---------------
3. Con il secondo mezzo l’istante sostiene che, in assenza
di piano di distribuzione e localizzazione delle funzioni,
il cambiamento di destinazione d’uso senza opere è sempre
consentito e non richiede il pagamento del costo di
costruzione, come si evince anche dall’allegato Y del
regolamento edilizio, in virtù del quale tale costo non è
esigibile in caso di variazione di funzioni incluse
all’interno della categoria delle attività industriali e
artigianali, comprendente i magazzini e i depositi coperti e
scoperti.
La censura è infondata.
Il fatto che in assenza del piano di distribuzione delle
funzioni sia sempre consentito il mutamento di destinazione
senza opere non incide sull’obbligo di pagare oneri di
urbanizzazione e costo di costruzione, obbligo che consegue
al diverso (maggiore) carico urbanistico derivante dalla
nuova destinazione dell’immobile.
Rileva al riguardo l’art. 125, comma 3, della L.R. n.
1/2005, che assoggetta l’interessato agli oneri di
urbanizzazione e al costo di costruzione propri della nuova
destinazione, anche se impressa senza opere, a fronte del
maggior carico urbanistico della stessa.
Orbene, l’art. 19 del d.p.r. n. 380/2001 (già art. 10 della
legge n. 10/1977) e l’art. 125, comma 1, della L.R. n.
1/2005 riconoscono il beneficio dell’esonero dal costo di
costruzione per gli immobili adibiti all’attività
industriale. Quest’ultima è contraddistinta da funzioni
strettamente produttive o da attività ad esse collegate.
Rilevano al riguardo il profilo oggettivo (costituito dagli
elementi tecnico-organizzativi) ed il profilo soggettivo
(concernente il soggetto che svolge l’attività economica
nell’immobile); pertanto il fabbricato in questione,
detenuto in affitto da Es. s.p.a. (che notoriamente
non è un soggetto titolare di attività industriale) e
utilizzato dalla stessa come magazzino di merci da
trasferire ai negozi della catena commerciale o all’altro
magazzino in località Osmannoro (si vedano la relazione
della Polizia Municipale del 14.07.2005 e la nota del
Commissario della Polizia Municipale del 24.09.2005 –documento n. 3 depositato in giudizio dal Comune-), non è
assimilabile all’edificio industriale ma all’edificio a
destinazione commerciale, in quanto l'attività del soggetto
che vi svolge, con autonomia, un'attività di gestione dei
magazzini di beni finiti, prodotti da altra azienda,
regolando il flusso ed il deflusso delle scorte sulla base
di valutazioni legate al ciclo di commercializzazione del
bene prodotto, è attratta nell'ambito dell'intermediazione
commerciale (Cons. Stato, V, 27.12.2001, n. 6411).
Nel caso di specie, mancando qualsiasi collegamento o
accessorietà tra il magazzino cui fa riferimento l’impugnata
determinazione e l’attività produttiva (Cons. Stato, V,
13.07.1994, n. 752) e trattandosi di magazzino funzionale
all’attività commerciale di Esselunga, non può trovare
applicazione l’esenzione dal costo di costruzione,
costituente beneficio eccezionalmente ancorato alla
destinazione industriale e non esteso, dal legislatore, agli
immobili commerciali.
Occorre altresì considerare che, ai sensi dell’art. 59 della
L.R. n. 1/2005, costituiscono categorie urbanistiche non
assimilabili tra loro la destinazione industriale e quella
commerciale.
Pertanto il mutamento di destinazione d'uso, anche senza
realizzazione di nuove opere, da industriale a commerciale,
integra il passaggio da una categoria funzionale autonoma
all’altra, tra loro non omogenee, che determina un
incremento del carico urbanistico, facendo soggiacere
pertanto la parte istante all'onere di sopportare gli oneri
concessori conseguenti all'aggravio del carico urbanistico.
L'incremento del carico urbanistico, ancorché discendente da
un mutamento di destinazione d'uso senza opere, è dunque
presupposto sufficiente a determinare la debenza degli oneri
concessori, rapportati agli oneri di urbanizzazione e al
costo di costruzione, in considerazione del vantaggio
economico che ritrae il richiedente e dell'aggravio
urbanistico insito nella destinazione commerciale rispetto
all'iniziale destinazione industriale (TAR Lazio, Roma, II,
19.09.2017, n. 9818).
In siffatto contesto l’art. 15, comma 4, del regolamento
urbanistico, laddove colloca nella medesima categoria le
industrie, i magazzini e i depositi, non può che riguardare
i depositi a servizio di attività industriale, funzionali al
ciclo produttivo e non a quello commerciale, talché il
mutamento di destinazione da industriale a magazzino
funzionale all’attività commerciale comporta il passaggio da
un immobile che non era soggetto al pagamento del costo di
costruzione ad un immobile commerciale, invece tenuto ex lege al pagamento di tale contributo e degli oneri di
urbanizzazione corrispondenti alla nuova destinazione.4. Con la
terza censura la società istante sostiene che nel
caso di specie non si è determinato un maggior carico
urbanistico, in quanto la variazione d’uso dell’immobile è
ricaduta all’interno della stessa categoria generale
prefissata nel regolamento urbanistico; aggiunge che il
conguaglio degli oneri di urbanizzazione, cui fa riferimento
l’atto impugnato, era dovuto, ai sensi della convenzione di
lottizzazione, dal Consorzio e non dal singolo consorziato.
Sotto quest’ultimo profilo la ricorrente lamenta la
disparità di trattamento.
I rilievi sono infondati.
Il cambio di destinazione d’uso è stato realizzato dalla
deducente (che ha presentato, il 09.03.2005, la variante al
permesso di costruire ed ha comunicato, il 31.01.2005, la
variazione di titolarità della concessione edilizia), e non
dal Consorzio lottizzante Macrolotto Industriale n. 2 di
Prato. Pertanto, è appropriata la richiesta del conguaglio
rivolta al ricorrente (ovvero al soggetto che ha attuato
l’intervento modificativo della destinazione d’uso) anziché
al Consorzio (che aveva a suo tempo lottizzato l’area per
scopi prevalentemente industriali).
Né può rilevare la dedotta disparità di trattamento
(peraltro sfornita di adeguato supporto probatorio in ordine
alla sussistenza di caso analogo a quello in questione e
trattato diversamente dal Comune), essendo l’Amministrazione
vincolata ad individuare nella ricorrente il soggetto tenuto
al pagamento degli oneri concessori a conguaglio.
Per il resto rileva nel caso di specie, come visto, la
trasformazione della categoria di destinazione dell’immobile
in una diversa categoria, non assimilabile all’originaria e
contraddistinta da un maggior carico urbanistico, il quale
comporta maggiori oneri di urbanizzazione, oltre al costo di
costruzione originariamente non dovuto (Cons.
Stato, IV, 23.06.2015, n. 3145) (TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 26.07.2018 n. 1098 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati edilizi - Varianti in senso proprio e varianti
essenziali - Caratteristiche e differenze - Artt. 22,
23-ter, 29, 31, 32, 34, 37 e 44 dpr n. 380/2001 -
Giurisprudenza.
In tema di reati edilizi, mentre le
"varianti in senso proprio", ovvero le modificazioni
qualitative o quantitative di non rilevante consistenza
rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un
sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato
rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al
rilascio di permesso in variante, complementare ed
accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa
operante, rispetto all'originario permesso a costruire, le
"varianti essenziali", ovvero quelle caratterizzate da
incompatibilità quali-quantitativa con il progetto
edificatorio originario rispetto ai parametri indicati
dall'art. 32 del d. P.R. n. 380 del 2001, sono soggette al
rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed autonomo
rispetto a quello originario e per il quale valgono le
disposizioni vigenti al momento di realizzazione della
variante.
Nozione di "variante" - Titoli autorizzatori - Incidenza
dell'aspetto qualitativo e quantitativo rispetto
all'originario progetto.
La nozione di "variante" deve
ricollegarsi a modificazioni qualitative o quantitative di
non rilevante consistenza rispetto all'originario progetto e
che gli elementi da prendere in considerazione, al fine di
discriminare un nuovo permesso di costruire dalla variante
ad altro preesistente, riguardano la superficie coperta, il
perimetro, la volumetria, le distanze dalle proprietà
viciniori, nonché le caratteristiche funzionali e
strutturali, interne ed esterne, del fabbricato.
Il nuovo provvedimento (da rilasciarsi con il medesimo
procedimento previsto per il rilascio del permesso di
costruire) rimane in posizione di sostanziale collegamento
con quello originario ed in questo rapporto di
complementarietà e di accessorietà deve ravvisarsi la
caratteristica distintiva del permesso in variante, che
giustifica -tra l'altro- le peculiarità del regime giuridico
cui esso viene sottoposto sul piano sostanziale e
procedimentale.
Rimangono sussistenti, infatti, tutti i diritti quesiti e
ciò rileva specialmente nel caso di sopravvenienza di una
nuova contrastante normativa che, se non fosse ravvisabile
l'anzidetta situazione di continuità, renderebbe
irrealizzabile l'opera.
Mentre, costituisce "variante essenziale", soggetta al
rilascio di permesso a costruire del tutto nuovo ed
autonomo, ogni variante incompatibile con il disegno globale
ispiratore del progetto edificatorio originario, sia sotto
l'aspetto qualitativo che sotto l'aspetto quantitativo (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2018 n. 34148 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Cessione di cubatura - Natura negoziale - Asservimento di un
terreno - Presupposti e condizioni.
La cessione di cubatura è un istituto di
fonte negoziale in forza del quale è consentita, a
prescindere dalla comune titolarità dei due terreni, la
"cessione" della cubatura edificabile propria di un fondo in
favore di altro fondo, cosicché, invariata la cubatura
complessiva risultante, il fondo cessionario sarà
caratterizzato da un indice di edificabilità superiore a
quello originariamente goduto.
Tale meccanismo, onde evitare la facile elusione dei vincoli
posti alla realizzazione di manufatti edili in funzione
della corretta gestione del territorio è soggetto a
determinate condizioni (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2018 n. 34148 - link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Modifica di destinazione d'uso - Configurabilità e
consumazione del reato.
La modifica di destinazione d'uso è
integrata anche dalla realizzazione di sole opere interne,
quali gli impianti tecnologici sottotraccia, e che, quando
la modifica della destinazione d'uso si realizza attraverso
l'esecuzione di opere edili il reato si consuma sin
dall'inizio dei lavori, non essendo necessario attenderne il
completamento (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2018 n. 34148 - link a www.ambientediritto.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Affidamento del servizio di responsabile della protezione
dei dati personali.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto
servizi - Servizio di “responsabile della protezione dei
dati personali” - Fase preliminare di esplorazione del
mercato – Omessa pubblicità – Illegittimità.
E’ illegittimo il provvedimento con
il quale la stazione appaltante (nella fattispecie,
un’azienda sanitaria) ha avviato la procedura per
l’affidamento, mediante procedura negoziata, del servizio di
“responsabile della protezione dei dati personali” (D.P.O.,
Data Protection Officer) previsto dall’art. 37 del
Regolamento UE 2016/679 (G.D.P.R.), allorché, in contrasto
con le indicazioni contenute nel par. 5.1.4 delle Linee
Guida ANAC n. 4 (deliberazione n. 206 del 2018), non sia
stata data pubblicità alla fase preliminare di esplorazione
del mercato, con conseguente violazione dell’art. di cui
all’art. art. 36, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 50 del 2016,
così da precludere la più ampia partecipazione degli
operatori e la selezione di soggetti titolari di effettiva
conoscenza specialistica della normativa e delle prassi in
materia di protezione dei dati (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che non sussistono, nel caso di specie, i
presupposti per dare corso all’affidamento diretto, ai sensi
dell’art. 63, d.lgs. n. 50 del 2016 né l’Amministrazione ha
indicato quelle ragioni di “estrema urgenza derivante da
eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice”
che, se sussistenti, avrebbero consentito di derogare agli
adempimenti previsti dalla procedura adottata. Ha aggiunto
che la deroga appare del tutto incompatibile con la prevista
facoltà di proroga annuale dell’affidamento, dovendosi
considerare che l’esenzione dall’obbligo di pubblicazione
appare consentita solo “nella misura strettamente
necessaria” ad affrontare la specifica situazione
emergenziale, la quale costituisce la causa ovvero
l’occasione dell’affidamento, ciò che precluderebbe la
possibilità di disporre un eventuale rinnovo a favore
dell’aggiudicatario, allorché le condizioni di urgenza siano
inevitabilmente venute meno
(TAR Friuli Venezia Giulia, sentenza
18.07.2018 n. 252 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Niente appalto per gli evasori, inglobate incluse. L’impresa
perde l’appalto se non è in regola col pagamento delle tasse al momento
della domanda. E ciò si verifica anche se a non aver pagato è la società che
essa ha incorporato.
L'impresa perde l'appalto perché la società che ha incorporato non era in
regola con i tributi al momento in cui risulta presentata la domanda per
partecipare alla gara. E ciò anche se, per ipotesi, in seguito ha ottenuto
di poter pagare a rate all'erario il debito della compagine inglobata. Da
una parte la società che procede alla fusione per incorporazione subentra in
tutti gli obblighi dell'altra società che partecipa all'operazione. E
dall'altra l'autorità nazionale anticorruzione ha escluso che il requisito
della regolarità fiscale posso essere acquisito con il soccorso istruttorio
quando è già in corso la procedura di selezione per l'affidamento
dell'appalto.
È quanto emerge dalla
sentenza
17.07.2018 n. 8011,
pubblicata dalla Sez. II-ter del TAR Lazio-Roma.
Soggetto composito.
Casca male, l'impresa: si era assicurata l'appalto di servizio per l'ex
Equitalia, ma scatta la revoca dell'aggiudicazione perché l'Ader, l'attuale
Agenzia delle entrate riscossione, non può consentire che a curare la
manutenzione sia una società che ha pendenze con l'erario, per quanto dovute
alla compagine incorporata. Si applica infatti l'articolo 2504-bis, primo
comma, cc: la società che ingloba non è un successore universale ma neppure
un soggetto altro e dunque le compagini partecipanti all'operazione
proseguono la loro esistenza nel soggetto composito. Insomma: l'incorporante
subentrata nella titolarità delle posizioni giuridiche soggettive facenti
capo all'incorporata.
Par condicio. Per
i debiti col fisco non risulta possibile una regolarizzazione postuma
rispetto alla presentazione delle offerte perché sarebbe contro il principio
della par condicio e autoresponsabilità dei concorrenti. I requisiti per
partecipare alla gara, precisa l'Anac, devono essere mantenuti fino
all'aggiudicazione dell'appalto senza che sia possibile strumentalizzare il
soccorso istruttorio in corso d'opera. La domanda di pagare a rate il debito
con il fisco deve essere stata accettata prima della presentazione
dell'offerta affinché l'impresa possa partecipare alla procedura. Nella
specie la società avrebbe dovuto segnalare la carenza del requisito e
sarebbe stata esclusa.
Dichiarazione in veritiera.
In ogni caso l'estromissione sarebbe comunque scattata perché l'impresa
aggiudicataria ha reso una dichiarazione non veritiera rispetto ai
presupposti per partecipare alla gara secondo quanto dispone l'articolo 80,
comma 5, lettera f-bis) del codice dei contratti pubblici, come introdotto
dal decreto legislativo 56/2017: il dlgs correttivo al codice appalti
risulta applicabile in questo caso perché «l'avviso di indagine di
mercato» risale al 12.07.2017. All'ormai ex aggiudicataria non resta che
pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi del 04.09.2018).
---------------
MASSIMA
La ricorrente, quale incorporante, è subentrata nella titolarità delle
posizioni giuridiche soggettive facenti capo all’incorporata Ka. s.r.l.; la
circostanza, esplicitamente ammessa nel ricorso e nella comunicazione
trasmessa dalla Gl. s.r.l. con nota del 28/02/2018 (allegato 17 all’atto
introduttivo), è coerente con il disposto dell’art. 2504-bis, comma 1 c.c.,
secondo cui “la società che risulta dalla fusione o quella incorporante
assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione,
proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla
fusione”.
Come ha avuto modo di precisare l’Adunanza Plenaria, richiamando la
giurisprudenza del giudice di legittimità (SS.UU. ord. n. 2637/2006), dalla
norma in esame si evince che la fusione per incorporazione di una società in
un'altra è “un evento da cui consegue non già l'estinzione della società
incorporata, bensì l'integrazione reciproca delle società partecipanti
all'operazione, ossia di una vicenda meramente evolutiva del medesimo
soggetto, che conserva la propria identità pur in un nuovo assetto
organizzativo…Infatti la società incorporante o risultante dalla fusione, -se non è, in base a tale ricostruzione, un successore universale,- tuttavia
nemmeno è un soggetto "altro" e "diverso", ma semmai un soggetto composito
in cui proseguono la loro esistenza le società partecipanti all'operazione
societaria” (A.P. n. 21/12).
Ne consegue che la società incorporante risponde anche dei requisiti per
conto dell’incorporata vieppiù in fattispecie, quale quella in esame, in cui
l’incorporazione è avvenuta prima della scadenza del termine di
presentazione delle domande di partecipazione alla gara.
Secondo, poi, l’art. 80, comma 6, d.lgs. n. 50/2016 “le stazioni appaltanti
escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura,
qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti
o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui
ai commi 1, 2, 4 e 5”.
Contrariamente a quanto prospettato nel gravame, la disposizione citata non
ha un ambito applicativo diverso rispetto al comma 4 del medesimo articolo
(secondo cui “un operatore economico è escluso dalla partecipazione a una
procedura d'appalto se ha commesso violazioni gravi, definitivamente
accertate, rispetto agli obblighi relativi al pagamento delle imposte e
tasse o dei contributi previdenziali”), che ad avviso della ricorrente
riguarderebbe solo la fase di presentazione delle domande di partecipazione
alla gara, ma si coordina con essa sancendo in maniera inequivoca, come
norma di chiusura, il principio (già codificato dal previgente art. 38, comma
1, d.lgs. n. 163/2006) secondo cui i requisiti di partecipazione devono
essere posseduti dai concorrenti “in qualunque momento della procedura” e,
quindi, non solo nella fase di presentazione delle domande ma fino
all’aggiudicazione.
L’opzione ermeneutica sostenuta da parte ricorrente, secondo cui dopo la
scadenza del termine di presentazione delle domande, l’esclusione dalla gara
sarebbe possibile nelle sole ipotesi di carenza attuale dei requisiti di
partecipazione, collide con i principi generali di continuità nel possesso
dei requisiti di partecipazione alla gara, di concorrenza, par condicio e
autoresponsabilità dei concorrenti (Cons. Stato A.P. n. 5/2016 e n. 9/2014).
Nel senso dell’impossibilità di configurare una regolarizzazione postuma del
requisito di partecipazione mancante ab origine o venuto meno nel corso
della procedura si è, del resto, espressa l’ANAC con la determinazione n.
1/2015 in cui ha evidenziato che l’istituto del soccorso istruttorio,
all’epoca previsto in una versione non dissimile, quanto a meccanismo di
operatività, da quello disciplinato dall’art. 83 d.lgs. n. 50/2016, "non può,
in ogni caso, essere strumentalmente utilizzato per l'acquisizione, in gara,
di un requisito o di una condizione di partecipazione, mancante alla
scadenza del termine di presentazione dell'offerta. Resta fermo, in
sostanza, il principio per cui i requisiti di partecipazione devono essere
posseduti dal concorrente -che deve essere, altresì, in regola con tutte le
altre condizioni di partecipazioni- alla scadenza del termine fissato nel
bando per la presentazione dell'offerta o della domanda di partecipazione,
senza possibilità di acquisirli successivamente".
Ciò spiega perché la giurisprudenza ha sempre ritenuto, sia nel vecchio
codice (da ultimo Cons. Stato n. 856/2018)
che sotto la vigenza del d.lgs.
n. 50/2016 (Cons. Stato n. 3614/2017)
che i requisiti di partecipazione alle
procedure di appalto debbano essere posseduti, non solo alla data di
presentazione della domanda di partecipazione, ma anche successivamente fino
all'aggiudicazione definitiva della gara e alla stipulazione del contratto;
proprio per questo motivo il Consiglio di Stato ha escluso l’applicabilità
dell’istituto della regolarizzazione ex art. 31 d.l. n. 69/2013 nell’ipotesi
di regolarità contributiva mancante al momento della presentazione della
domanda di partecipazione alla gara (Cons. Stato n. 816/2018; Cons. Stato
A.P. n. 6/2016)
Quanto fin qui evidenziato induce, poi, il Collegio a ritenere non
pertinente il richiamo, presente nella censura, all’art. 21-quinquies l. n.
241/1990 che non costituisce idoneo parametro di legittimità della fattispecie
in quanto deve escludersi che l’esclusione dalla gara per l’accertata
carenza dei requisiti di partecipazione sia atto connotato da
discrezionalità.
In realtà, il provvedimento nella specie adottato dalla stazione appaltante
con la disposizione n. 19 del 15.03.2018 e denominato “revoca”, rientra
nella categoria degli atti di “mero ritiro”, in quanto avente ad oggetto un
atto, quale l’aggiudicazione, non ancora efficace in mancanza
dell’accertamento dei requisiti dichiarati, e, come tale, la sua adozione
non è subordinata all’accertamento dei presupposti che la normativa vigente
richiede per gli atti di autotutela (Cons. Stato n. 4620/2006; Cons. Stato n.
114/02).
L’atto in esame, pertanto, risulta essere stato emesso in pedissequa
applicazione dell’art. 32 comma 7, d.lgs. n. 50/2016 (espressamente richiamato
nel provvedimento di aggiudicazione del 26/02/18) che condiziona l’efficacia
della disposta aggiudicazione al positivo riscontro, nella fattispecie
mancante, dei requisiti di partecipazione dichiarati dal concorrente e della
permanenza degli stessi fino all’aggiudicazione.
Il comma 8 dell’art. 32 d.lgs. n. 50/2016 che fa salvi i poteri di autotutela,
richiamato dalla ricorrente, riguarda, invece, le ipotesi, diverse da quella
oggetto di causa, nelle quali, una volta divenuta efficace l’aggiudicazione
con la verifica dei requisiti, l’amministrazione, anche per ragioni di
opportunità, non intenda addivenire alla stipula del contratto.
Nella fattispecie la ricorrente era priva, sin dalla scadenza del termine di
presentazione delle domande, del requisito di regolarità fiscale prescritto
dall’art. 80, comma 4, d.lgs. n. 50/2016 in quanto, come ha avuto modo di
precisare la giurisprudenza, il requisito sussiste solo se la domanda di
rateizzazione è stata accettata prima della scadenza del termine di
partecipazione alla gara (da ultimo Cons. Stato n. 1028/2018; Cons. Stato n.
856/2018) di talché, se la stessa avesse tempestivamente segnalato (come era
tenuta a fare) la circostanza, avrebbe dovuto essere immediatamente esclusa
dalla gara.
Per altro, nella fattispecie l’esclusione della ricorrente è imposta anche
dall’avere la stessa reso una dichiarazione non veritiera in ordine al
possesso dei requisiti di partecipazione in ossequio a quanto disposto
dall’art. 80, comma 5, lettera f-bis), d.lgs. n. 50/2016, come introdotto dal d.lgs. n. 56/2017, applicabile “ratione temporis” alla procedura in esame in
cui l’“avviso di indagine di mercato” è del 12/07/2017.
...
Con la terza censura la ricorrente prospetta la violazione e falsa
applicazione, sotto altro profilo, degli artt. 32 e 80 d.lgs. n. 50/2016 ed
eccesso di potere per difetto di motivazione e d’istruttoria ed errata
valutazione dei presupposti contestando, in particolare, la definitività del
debito tributario in quanto le cartelle di pagamento sarebbero state
notificate a Ka. s.r.l. a mezzo posta elettronica certificata ma non
risulterebbe che la destinataria ne abbia preso visione, mancando qualsiasi
ricevuta di lettura; inoltre, le cartelle sarebbero state notificate
“esclusivamente in copia digitale con formato .pdf. e, dunque, prive della
sottoscrizione digitale dell’autore, quale attestata soltanto nei file con
estensione .p7m” (pag. 15 dell’atto introduttivo).
Il motivo è infondato in quanto l'omessa sottoscrizione della cartella di
pagamento da parte del funzionario competente non comporta l'invalidità
dell'atto, la cui esistenza non dipende tanto dall'apposizione del sigillo o
del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale
elemento sia inequivocabilmente riferibile all'organo amministrativo
titolare del potere di emetterlo, tanto più che, a norma del D.P.R. 29.09.1973, n. 602, art. 25 la cartella, quale documento per la
riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta
secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non
prevede la sottoscrizione dell'esattore, ma solo la sua intestazione e
l'indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (Cass. n.
26142/2017; Cass. n. 26053/2015; Cass. n. 25773/2014).
Per quanto attiene, poi, al vizio di notifica delle cartelle il Tribunale
rileva che tale circostanza è stata dedotta per la prima volta solo con il
presente ricorso laddove, nella precedente comunicazione del 28/02/18
inviata alla stazione appaltante, la ricorrente aveva essa stessa
esplicitamente affermato che la notifica delle cartelle era avvenuta nelle
date ivi indicate.
A ciò si aggiunga, comunque, che la notifica della cartella di pagamento a
mezzo pec non richiede, ai fini del suo perfezionamento, l’avviso di
lettura.
Infatti, secondo l’art. 60 d.p.r. n. 600/1973, richiamato dall’art. 26 d.p.r.
n. 602/1973, “ai fini del rispetto dei termini di prescrizione e decadenza, la
notificazione si intende comunque perfezionata per il notificante nel
momento in cui il suo gestore della casella di posta elettronica certificata
gli trasmette la ricevuta di accettazione con la relativa attestazione
temporale che certifica l'avvenuta spedizione del messaggio, mentre per il
destinatario si intende perfezionata alla data di avvenuta consegna
contenuta nella ricevuta che il gestore della casella di posta elettronica
certificata del destinatario trasmette all'ufficio”.
Né sulla definitività del debito fiscale incide il ricorso davanti alla
Commissione tributaria proposto con atto notificato solo il 31/05/2018 e,
quindi, ben oltre il termine decadenziale d’impugnazione di sessanta giorni
previsto dall’art. 21, comma 1, d.lgs. n. 546/1992 (gli atti impugnati erano
sicuramente a conoscenza della ricorrente alla data del 20.02.2018 in
cui è stata presentata l’istanza di rateizzazione).
...
Con la quarta censura la ricorrente prospetta ancora la violazione degli artt. 32 e 80 d. lgs. n. 50/2016 ed eccesso di potere per sviamento
lamentando, in particolare, che la stazione appaltante avrebbe
illegittimamente ammesso alla gara la seconda classificata Ni. & Pa.
s.p.a. in quanto:
- all’interno del plico presentato dalla controinteressata i sigilli in
ceralacca della busta B, contenente l’offerta tecnica, sarebbero risultati
danneggiati;
- il DGUE presentato dalla controinteressata non sarebbe stato sottoscritto
in originale. Sul punto, il bando tipo n. 1/2017, richiamato dalla stazione
appaltante per ammettere alla gara la Ni. & Pa. s.p.a., sarebbe
inapplicabile “ratione temporis” alla fattispecie;
- l’offerta tecnica e l’offerta economica sarebbero state prive della
sottoscrizione autografa il che avrebbe dovuto comportare l’esclusione dalla
gara come espressamente previsto dalla lettera d’invito;
- in sede di verifica delle offerte economiche, la commissione non avrebbe
dato immediata lettura in seduta pubblica dell’offerta presentata dalla
Ni. & Pa. s.p.a. ma avrebbe comunicato tale dato solo alcuni giorni
dopo, una volta deliberata l’ammissione dell’offerta stessa.
In relazione alle illegittimità in esame, la ricorrente deduce che, “se i
provvedimenti impugnati trovassero ragione nel tentativo di modificare la
graduatoria di gara, anche a tacere di ulteriori risvolti di competenza di
altri ordini giudiziari, se ne dovrebbe dedurre un evidente eccesso di
potere nella figura sintomatica dello sviamento” (pag. 21 dell’atto
introduttivo).
Il motivo è, innanzi tutto, inammissibile per carenza d’interesse.
L’accertata legittimità, in sede di scrutinio delle precedenti doglianze,
dell’esclusione della ricorrente dalla gara priva la stessa dell’interesse
all’esame della censura il cui ipotetico accoglimento non arrecherebbe,
comunque, alcun vantaggio all’esponente, nemmeno in termini di interesse
strumentale alla ripetizione della gara, essendo rimasta inoppugnata la
posizione in graduatoria del terzo concorrente SO. s.p.a..
In ogni caso la censura sarebbe irricevibile nella parte in cui lamenta
l’illegittimità dell’ammissione della ricorrente per la mancata
sottoscrizione del DGUE dal momento che la circostanza in esame è stata
conosciuta sin dal 12.02.2018, data della seduta (successiva
all’ammissione) a cui ha partecipato il rappresentante della società
ricorrente e che il termine per impugnare il provvedimento di ammissione è
dall’art. 120, comma 2-bis, d.lgs. n. 104/2010 fissato in trenta giorni (la
notifica del ricorso introduttivo è stata spedita a mezzo posta il
14/04/2018).
Per altro, anche nel merito, la censura è destituita di fondamento in
quanto:
- l’applicabilità del soccorso istruttorio all’ipotesi di totale mancanza
del DGUE è espressamente riconosciuta dall’art. 83, comma 9, secondo periodo d.lgs. n. 50/2016 con conseguente irrilevanza della questione prospettata nel
gravame circa l’applicabilità del bando tipo n. 1/2017 alla presente
fattispecie;
- il danneggiamento dei sigilli della busta contenente l’offerta tecnica e
la mancata lettura, nella prima seduta pubblica disponibile, dell’offerta
economica della controinteressata costituiscono circostanze che non hanno
influito sul regolare svolgimento della gara, come si evince dal fatto che
la ricorrente è risultata prima in graduatoria;
- dall’esame dei verbali n. 5 del 17.01.2018 e n. 9 del 12.02.2018 emerge che l’offerta tecnica della controinteressata è stata timbrata
in ogni pagina e che la stessa reca nell’ultima pagina il timbro della
società e la scansione ma non la sottoscrizione autografa del legale
rappresentante. L’offerta economica, poi, riporta una sigla autografa in
ogni pagina e “nell’ultima pagina, in calce al contenuto dell’offerta
economica, oltre alla predetta sigla, risulta apposto un timbro recante i
dati identificativi del concorrente e la scansione del suo legale
rappresentante”.
Con riferimento a tale ultimo profilo va, innanzi tutto, rilevato che
l’offerta economica, presentando una sigla autografa in tutte le pagine e in
calce all’atto stesso con annesso timbro, risulta ritualmente sottoscritta
dal momento che “nelle gare pubbliche la funzione della sottoscrizione della
documentazione e dell'offerta è quella di renderla riferibile al
presentatore dell'offerta vincolandolo all'impegno assunto, con la
conseguenza che laddove tale finalità risulta in concreto conseguita, con
salvaguardia del sotteso interesse dell'Amministrazione, non vi è spazio per
interpretazioni puramente formali delle prescrizioni di gara…Pertanto, il
requisito della sottoscrizione dei documenti che costituiscono parte
integrante dell'offerta può essere soddisfatto anche da forme equipollenti,
quali l'apposizione della sola sigla, unitamente al timbro dell'impresa e
alle generalità del legale rappresentante" (Cons. Stato n. 2063/2015; nello
stesso senso Cons. Stato n. 8933/2010; Cons. Stato n. 7016/2010).
Con riferimento, poi, all’offerta tecnica la presenza di una sottoscrizione
non autografa ma scansionata non consente di ritenere la presente
fattispecie assimilabile all’ipotesi di carenza assoluta di firma specie se
si considera che l’apposizione del timbro della società in ogni pagina
consente di ritenere l’offerta stessa riconducibile alla controinteressata.
In quest’ottica la presenza di una clausola espulsiva, prevista dalla
lettera d’invito, non è dirimente ai fini della valutazione di fondatezza
della censura dal momento che l’art. 83, comma 8, d.lgs. n. 50/2016 prevede
la nullità delle clausole di esclusione non conformi a legge.
Per questi motivi il ricorso è infondato e deve essere respinto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Responsabilità dell'esecutore dei lavori edilizi (in
concorso con il committente e il direttore dei lavori) -
Obbligo di verifica delle prescritte autorizzazioni -
Elemento soggettivo del reato - Rilevanza del dolo o della
colpa - Art. 44, lett. b), d.P.R. 380/2001 - Giurisprudenza.
In tema di reati urbanistici,
l'esecutore dei lavori edilizi ha il dovere di controllare
preliminarmente che siano state richieste e rilasciate le
prescritte autorizzazioni, rispondendo a titolo di dolo del
reato di cui all'art. 44 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, in
caso di inizio delle opere nonostante l'accertamento
negativo, e a titolo di colpa, nell'ipotesi in cui tale
accertamento venga omesso, dovendosi ribadire che,
trattandosi di una fattispecie contravvenzionale, l'elemento
soggettivo può essere integrato anche dalla colpa, nei
termini appena indicati (Cass. Sez. 3, n. 16802 del
08/04/2015).
Fattispecie: realizzazione, in concorso con il committente e
il direttore dei lavori, di un box auto assentito come
interrato ma in realtà fuori terra e più alto di quanto
previsto (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 16.07.2018 n. 32478 - link a www.ambientediritto.it). |
APPALTI SERVIZI E FORNITURE: Forniture,
requisiti soft. A maglie larghe la nozione di servizi analoghi. Per il Tar
Palermo non può essere assimilata a quella di beni identici.
La nozione di «servizi analoghi» non può essere
assimilata a quella di «servizi identici», dovendo ritenersi soddisfatta la
prescrizione della legge di gara sulla sussistenza dei requisiti di capacità
tecnica tutte le volte in cui il concorrente abbia dimostrato lo svolgimento
di servizi rientranti nel medesimo settore imprenditoriale o professionale
cui afferisce l'appalto.
Così si è pronunciato il TAR
Sicilia-Palermo, Sez. II, con la
sentenza 12.07.2018 n. 1609.
Nel caso portato all'attenzione del collegio, il dipartimento regionale
delle infrastrutture, della mobilità e dei trasporti della regione siciliana
indiceva una gara di appalto con accordo quadro per la fornitura, «chiavi
in mano», di n. 5 treni automotori a trazione elettrica per il trasporto
di persone su rete ferroviaria, specificando che il possesso del requisito
di capacità tecnica avrebbe richiesto apposita dichiarazione ex dpr n.
445/2000 attestante la produzione negli ultimi tre esercizi di almeno 30
convogli per il trasporto di passeggeri su rete ferroviaria con
caratteristiche analoghe a quelle dei convogli oggetto della gara.
Nel corso dello scrutinio delle offerte, la commissione di gara riscontrava
la carenza dei requisiti di capacità tecnica per una delle concorrenti e,
per l'effetto, ne disponeva l'esclusione. L'impresa, infatti, nonostante
l'oggetto dell'appalto fosse la fornitura di soli convogli a trazione
elettrica, aveva fondato la ricorrenza dei propri requisiti di capacità
tecnica sulla produzione di treni a trazione diesel.
Avverso tale decisione insorgeva la concorrente esclusa, rilevando come, nel
caso di specie, non fosse in contestazione la tipologia di treno oggetto
della procedura di gara, quanto il diverso giudizio circa l'analogia tra i
convogli a trazione diesel e quelli a trazione elettrica ai fini
dell'integrazione dei requisiti di capacità tecnica richiesti dal bando di
gara.
Chiamato a decidere la controversia, il Tar Palermo ha accolto il ricorso
dell'impresa esclusa, osservando che secondo la lex specialis ai fini
dell'ammissione alla gara non è necessario dimostrare la fornitura di
convogli per il trasporto di passeggeri su rete ferroviaria identici a
quelli oggetto della gara (ovverosia convogli a trazione elettrica), ma solo
con caratteristiche analoghe.
La nozione di «servizi analoghi», precisa il collegio, non può essere
assimilata a quella di «servizi identici», dovendo ritenersi
soddisfatta la prescrizione della legge di gara tutte le volte in cui il
concorrente abbia dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel
medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce l'appalto.
Il concetto di servizio o di fornitura analoga, infatti, deve essere inteso
non come identità, ma come mera similitudine tra le prestazioni richieste,
tenendo conto che l'interesse pubblico sottostante non è certamente la
creazione di una riserva a favore degli imprenditori già presenti sul
mercato ma, al contrario, l'apertura del mercato attraverso l'ammissione
alle gare di tutti i concorrenti per i quali si possa raggiungere un
giudizio complessivo di affidabilità.
Quella fornita, conclude la sentenza, è l'unica interpretazione che,
nell'ottica del bilanciamento tra l'esigenza di selezionare un imprenditore
qualificato e il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche,
si dimostra idonea a delineare i contenuti della cd. analogia ai fini della
valutazione dei servizi dichiarati in sede di gara per la dimostrazione del
requisito di capacità tecnica (articolo ItaliaOggi del 22.09.2018).
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MASSIMA
La censura è fondata.
In proposito l’art. III.2.3 del bando di gara e l’art. 8.1, lett. e), punti 3
e 4, del disciplinare imponevano ai concorrenti di provare il possesso del
requisito di capacità tecnica a mezzo della dimostrazione di aver fornito
almeno 30 convogli per il trasporto di passeggeri su rete ferroviaria con
caratteristiche analoghe di quelli di cui alla presente gara.
Secondo la lex specialis, dunque, ai fini dell’ammissione alla gara era
necessario dimostrare la fornitura di “convogli per il trasporto di
passeggeri su rete ferroviaria” non già identici a quelli oggetto della gara
(ovverosia convogli a trazione elettrica) bensì con caratteristiche
“analoghe”.
Secondo condivisibile indirizzo giurisprudenziale dal quale non v’è motivo
di discostarsi, la nozione di “servizi analoghi” non deve essere assimilata
a quella di “servizi identici”, dovendo ritenersi soddisfatta la
prescrizione della legge di gara tutte le volte in cui il concorrente abbia
dimostrato lo svolgimento di servizi rientranti nel medesimo settore
imprenditoriale o professionale cui afferisce l’appalto (cfr., Cons. Stato,
sez. IV, 05.03.2015, n. 1122 che a sua volta richiama Cons. Stato, sez.
III, 05.12.2014, nr. 6035; id., sez. IV, 11.11.2014, nr. 5530; id.,
sez. V, 25.06.2014, nr. 3220; id., 08.04.2014, nr. 1668; id., sez.
III, 25.06.2013, nr. 3437; TAR Toscana, Firenze, sez. II, 21/02/2017 n.
287).
Inoltre il concetto di “servizio analogo”, e parimenti quello di “fornitura
analoga”, deve essere inteso non come identità, ma come mera similitudine
tra le prestazioni richieste, tenendo conto che l’interesse pubblico
sottostante non è certamente la creazione di una riserva a favore degli
imprenditori già presenti sul mercato ma, al contrario, l’apertura del
mercato attraverso l’ammissione alle gare di tutti i concorrenti per i quali
si possa raggiungere un giudizio complessivo di affidabilità (cfr. da
ultimo, TAR Toscana, sez. I, 26.01.2018, n. 132; in termini, Cons.
Stato, Sez. V, 06.04.2017, n. 1608; Cons. Stato, Sez. V, 28/07/2015, n.
3717).
Il Giudice amministrativo ha, quindi, chiaramente delineato i contenuti
della cd. “analogia” ai fini della valutazione dei servizi dichiarati in
sede di gara per la dimostrazione del requisito di capacità tecnica ricomprendendo tutti quei servizi/forniture resi nel medesimo settore
imprenditoriale.
Ed infatti, è principio altrettanto pacifico in giurisprudenza quello in
base al quale “Nelle gare pubbliche, laddove il bando di gara richieda quale
requisito il pregresso svolgimento di «servizi analoghi», tale nozione non
può essere assimilata a quella di «servizi identici» dovendosi
conseguentemente ritenere, in chiave di favor partecipationis, che un
servizio possa considerarsi analogo a quello posto a gara se rientrante nel
medesimo settore imprenditoriale o professionale cui afferisce l'appalto in
contestazione, cosicché possa ritenersi che grazie ad esso il concorrente
abbia maturato la capacità di svolgere quest'ultimo” (cfr. da ultimo, Cons.
Stato, sez. V, 18.12.2017 n. 5944).
L’orientamento sopra riportato è conforme a quanto già statuito dalla
Sezione che ha avuto modo di chiarire che: “quando la lex specialis di gara
richiede, come nella fattispecie, di dimostrare il pregresso svolgimento di
servizi simili, non è consentito alla stazione appaltante di escludere i
concorrenti che non abbiano svolto tutte le attività rientranti nell'oggetto
dell'appalto, né le è consentito di assimilare impropriamente il concetto di
servizi analoghi con quello di servizi identici, considerato che la ratio di
siffatte clausole è proprio quella di perseguire un opportuno
contemperamento tra l'esigenza di selezionare un imprenditore qualificato ed
il principio della massima partecipazione alle gare pubbliche” (Cons. Stato,
V, 25.06.2014, n. 3220)” (cfr. TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 18.11.2014, n. 2892).
In ogni caso va precisato che, secondo parte della giurisprudenza,
quand’anche un singolo servizio (o fornitura) non possa considerarsi
pienamente “analogo” a quello oggetto di gara, la valutazione che dovrà
compiere la stazione appaltante non potrà che essere di tipo complessivo e
ciò in quanto la sommatoria di tutti i servizi o forniture dichiarate può
“ragionevolmente essere considerata quale indice di idoneità tecnica alla
corretta esecuzione dell’appalto” (cfr. anche TAR Toscana, sez. I. 18.01.2016, n. 85).
Né vale a superare tale conclusione l’argomentazione utilizzata dalla difesa
della ST. secondo cui la legge di gara, ai fini della dimostrazione del
possesso dei requisiti, avrebbe individuato, nel “genus” dei mezzi adibiti
al trasporto di passeggeri su rete ferroviaria (all’interno dei quali, come
chiarito dalla stazione appaltante, potevano essere fatti rientrare anche i
treni ad alta velocità), la più particolare “species” dei convogli aventi
analoghe caratteristiche – ovvero a trazione elettrica e alimentazione a
3kVcc.
Tale argomentazione, oltre a ricevere smentita dalla giurisprudenza sopra
menzionata -che, nell’ottica del bilanciamento tra l’esigenza di
selezionare un imprenditore qualificato ed il principio della massima
partecipazione alle gare pubbliche, ha delineato i contenuti della cd.
analogia ai fini della valutazione dei servizi dichiarati in sede di gara
per la dimostrazione del requisito di capacità tecnica- è stata da ultimo
confermata dalla stessa CTU. |
EDILIZIA PRIVATA:
L’affermata precarietà non sussiste sia per
ragioni di carattere strutturale, in quanto alcuni
containers hanno aperture e tamponature laterali e le
tettoie hanno stabili ancoraggi al muro dell’edificio, sia
perché sono utilizzati in modo stabile ed ininterrotto da
lungo tempo.
Come è noto infatti non è solo l’amovibilità di un manufatto
a determinarne la sua ascrivibilità alla categoria degli
interventi edilizi che non necessitano di un titolo
edilizio, ma anche la sua attitudine a soddisfare o meno
esigenze meramente temporanee.
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. b), del DPR 06.06.2001,
n. 380, possono infatti essere eseguite senza alcun titolo
abilitativo solo “le opere dirette a soddisfare obiettive
esigenze contingibili e temporanee e ad essere
immediatamente rimosse al cessare della necessità e,
comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”.
---------------
La Società G. Srl, odierna ricorrente, è un’azienda
siderurgica che svolge l’attività di commercio e taglio di
lamiere leggere nel Comune di Rosà, in area soggetta a
vincolo paesaggistico.
Con il ricorso in epigrafe impugna l’ordinanza n. 51 del
21.04.2017, con la quale gli è stata imposta la demolizione
e la remissione in pristino degli interventi abusivi
realizzati nelle aree all’esterno del fabbricato.
In tale area sono stati realizzati senza alcun titolo
abilitativo molteplici volumi e strutture adibiti a ricovero
e deposito di materiali, che nel sopralluogo eseguito dalla
polizia locale il 10.01.2017, sono così descritti:
- container con pareti metalliche delle dimensioni di metri 12,10 x
2,40, altezza metri 2,70 adibito a ricovero di materiali
inerenti l’attività produttiva (semilavorati metallici). Lo
stesso presenta l’apertura completa di un lato ove risulta
collocata una tenda in Pvc scorrevole;
- container con pareti metalliche delle dimensioni di metri 12,10 x
2,40, altezza metri 2,70, adibito come il precedente a
ricovero di materiali inerenti l’attività produttiva
(semilavorati); presenta apertura laterale con tenda in Pvc
scorrevole;
- container dalle dimensioni di metri 6,70 x 2,40, altezza metri
2,80, adibito a ricovero di materiali inerenti l’attività
produttiva (semilavorati metallici); lo stesso presenta
telaio metallico, tamponature laterali e coperture in Pvc;
- container delle dimensioni di metri 6,70 x 2,40, altezza metri
2,80 con caratteristiche come punto 3;
- container con pareti metalliche delle dimensioni di metri 12,10 x
2,40, altezza metri 2,70, con caratteristiche come punto 1 e
2;
- container con pareti metalliche dalle dimensioni di metri 12,10 x
2,40, altezza metri 2,70, con caratteristiche come punto 1 e
2;
- struttura aderente ed ancorata al corpo di fabbrica dell’edificio
produttivo, realizzata con telaio metallico, copertura in
lamiera grecata e tamponature laterali in Pvc adibita a
magazzino, delle dimensioni di metri 24,00 x 1,85, altezza
minima metri 3,30 e massima 3,55;
- struttura aderente e ancorata al corpo di fabbrica dell’edificio
produttivo, realizzato con tubo metallico a sezione
quadrata, tamponature laterali in Pvc, adibita a magazzino,
delle dimensioni di metri 11,60 x 3,40 altezza minima metri
3,70 massima 4,10”.
...
Nel merito il ricorso è infondato e deve essere respinto.
Il primo motivo con il quale la parte ricorrente
lamenta la mancata considerazione da parte del Comune della
circostanza che si tratta di opere precarie di modesta
entità è infondato in fatto.
L’affermata precarietà non sussiste sia per ragioni di
carattere strutturale, in quanto alcuni containers hanno
aperture e tamponature laterali e le tettoie hanno stabili
ancoraggi al muro dell’edificio, sia perché sono utilizzati
in modo stabile ed ininterrotto da lungo tempo.
Come è noto infatti non è solo l’amovibilità di un manufatto
a determinarne la sua ascrivibilità alla categoria degli
interventi edilizi che non necessitano di un titolo
edilizio, ma anche la sua attitudine a soddisfare o meno
esigenze meramente temporanee.
Ai sensi dell’art. 6, comma 2, lett. b), del DPR 06.06.2001,
n. 380, possono infatti essere eseguite senza alcun titolo
abilitativo solo “le opere dirette a soddisfare obiettive
esigenze contingibili e temporanee e ad essere
immediatamente rimosse al cessare della necessità e,
comunque, entro un termine non superiore a novanta giorni”
(sul punto ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez.
VI, 23.05.2017, n. 2438).
Poiché è pacifico che nel caso di specie le predette
strutture di rilevante entità sono volte a soddisfare le
esigenze connesse alle lavorazioni dell’attività produttiva
in modo stabile, e peraltro sono state realizzate in assenza
dell’autorizzazione paesaggistica, il primo motivo deve
essere respinto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 03.07.2018 n. 718 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'onere della prova circa l'ultimazione dei
lavori entro la data utile per ottenere il condono grava sul
richiedente la sanatoria, dal momento che solo l'interessato
può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi
probatori che siano in grado di radicare la ragionevole
certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto e, in
difetto di tali prove, resta integro il potere
dell'Amministrazione di negare la sanatoria dell'abuso.
---------------
Poiché le conclusioni cui è giunto il Comune risultano
corrette e condivisibili atteso che, come afferma
costantemente la giurisprudenza “l'onere della prova
circa l'ultimazione dei lavori entro la data utile per
ottenere il condono grava sul richiedente la sanatoria, dal
momento che solo l'interessato può fornire inconfutabili
atti, documenti ed elementi probatori che siano in grado di
radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione
di un manufatto e, in difetto di tali prove, resta integro
il potere dell'Amministrazione di negare la sanatoria
dell'abuso" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV,
22.03.2018, n. 1837; Consiglio di Stato, Sez. IV,
03.02.2017, n. 463; Consiglio di Stato, Sez. IV, 10.06.2014,
n. 2960), il primo motivo del ricorso introduttivo deve
pertanto essere respinto (TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 21.06.2018 n. 665 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La normativa di cui al
d.p.r. n. 160 del 2010 nel concentrare in capo al S.u.a.p.
la gestione del procedimento unico per il rilascio di atti
autorizzatori relativi allo svolgimento di attività
produttive, non può valere ad esautorare le competenze e le
funzioni demandate per legge agli altri enti od organi
deputati o preposti all’adozione di atti inerenti interessi
pubblici a vario titolo coinvolti nel procedimento.
Come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, lo
Sportello Unico costituisce una sorta di “procedimento dei
procedimenti”, ovvero un iter procedimentale unico in cui
confluiscono e si coordinano atti ed adempimenti, rientranti
nella competenza di Amministrazioni diverse, ma tutti
richiesti dalla normativa vigente affinché l’esercizio
dell’attività ovvero l’impianto produttivo possano essere
legittimamente realizzati. In questa prospettiva, quelli che
in precedenza erano provvedimenti autonomi, ciascuno dei
quali adottato con un procedimento a sè stante, diventano
“atti istruttori” finalizzati all’adozione dell’unico
provvedimento conclusivo, costituente titolo per la
realizzazione dell’intervento richiesto.
Dal punto di vista procedurale, quindi, la responsabilità
dell’intero procedimento è trasferita allo sportello unico
che trasforma, in forza di un collegamento funzionale, i
singoli procedimenti gestiti da Amministrazioni diverse in
fase endoprocedimentali di un procedimento unitario.
Esso costituisce pertanto l’unico punto di accesso per il
richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative
riguardanti la sua attività produttiva e fornisce, altresì,
una risposta unica e tempestiva in luogo di tutte le
pubbliche amministrazioni comunque coinvolte nel
procedimento. In sostanza la normativa dello sportello unico
si è limitata ad introdurre esclusivamente un modello
procedimentale, ossia uno strumento di raccordo tra le
Amministrazioni competenti a determinare la decisione finale
e a consentire di concentrare in una sola struttura la
responsabilità dell’unico procedimento.
---------------
L’art. 4, comma 2, del d.p.r. n. 160/2010, in tema di
funzioni ed organizzazione del Suap, costituisce una norma
di raccordo tra le funzioni del Suap e quelle degli altri
uffici comunali e le amministrazioni pubbliche diverse dal
Comune interessato deputate al rilascio di atti
autorizzatori, nulla osta e pareri o atti di consenso, anche
a contenuto negativo, ma giammai può incidere sulla
distribuzione delle competenze fra i vari organi.
Ed infatti il successivo comma 6 nell’attribuire al Suap le
competenze dello Sportello Unico dell’edilizia produttiva fa
comunque salva ogni diversa disposizione dei Comuni
interessati.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento prot. n. 9138 del 05.07.2016 del Responsabile
del 3° Settore-Urbanistica ed Edilizia del Comune di
Fossacesia di diniego di rilascio del parere urbanistico
richiesto dalla società ricorrente per la realizzazione di
una piattaforma elevatrice a servizio di un fabbricato
adibito a ricettività turistica;
- della nota prot. n. 9995 del 21.07.2016 con cui lo stesso
responsabile di Settore comunica alla società che i lavori
inerenti la realizzazione della suddetta piattaforma debbano
ritenersi eseguiti in assenza del titolo abilitativo e
quindi abusivi.
...
1. Con ricorso iscritto al n. 298/2016 la società
ricorrente, quale comodataria di un immobile sito in
Fossacesia località Lungomare, oggetto di ristrutturazione
assentita con permesso di costruire prot. 28 del 12.06.2013,
e successive varianti, nonché con il parere favorevole della
Sovrintendenza prot. n. 1091 del 23.01.2013, avendo
inoltrato presso il S.u.a.p. del patto territoriale
sangroaventino una s.c.i.a. n. 82736 in data 11.05.2016 per
la realizzazione di una piattaforma elevatrice a servizio
del fabbricato adibito ad attività turistica, impugnava,
chiedendone l’annullamento, la nota prot. n. 9138 del
05.07.2016 con cui si comunicava l’avvio delle procedure di
repressione di cui all’art. 31 d.p.r. n. 380/2001 per opere
realizzate in assenza di titolo abilitativo e la successiva
del 21.07.2016 con cui si acclarava la natura abusiva
dell’intervento.
...
2. Il ricorso è fondato e merita accoglimento come di
seguito argomentato.
Nel giudizio si controverte in ordine alla legittimità degli
atti inibitori e del parere urbanistico sfavorevole adottati
dal Comune di Fossacesia sulla s.c.i.a inoltrata in data
11.05.2016 dalla società ricorrente al Suap
dell’associazione di Comuni del patto territoriale
sangroaventino, per la realizzazione, ai sensi della legge
n. 13/1989, di una piattaforma elevatrice a servizio di un
fabbricato da destinare ad attività ricettiva, situato in
località lungomare del Comune di Fossacesia, in area
assoggettata a vincolo paesaggistico e già oggetto di
oggetto di ristrutturazione edilizia con p.c. prot. 28/2013,
e successive varianti, nonché con il parere favorevole della
Sovrintendenza prot. n. 1091 del 23.01.2013.
2.1 Preliminarmente va esaminata rivestendo carattere
pregiudiziale, la censura con cui si contesta l’incompetenza
del Comune di Fossacesia poiché intervenuto in luogo del
S.u.a.p. cui era stata inoltrata l’istanza.
Il motivo è infondato, dal momento che, la normativa di cui
al d.p.r. n. 160 del 2010 nel concentrare in capo al
S.u.a.p. la gestione del procedimento unico per il rilascio
di atti autorizzatori relativi allo svolgimento di attività
produttive, non può valere ad esautorare le competenze e le
funzioni demandate per legge agli altri enti od organi
deputati o preposti all’adozione di atti inerenti interessi
pubblici a vario titolo coinvolti nel procedimento.
Come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale (cfr. da
ultimo, Corte Cost. 21.01.2010 n. 15), lo Sportello Unico
costituisce una sorta di “procedimento dei procedimenti”,
ovvero un iter procedimentale unico in cui confluiscono e si
coordinano atti ed adempimenti, rientranti nella competenza
di Amministrazioni diverse, ma tutti richiesti dalla
normativa vigente affinché l’esercizio dell’attività ovvero
l’impianto produttivo possano essere legittimamente
realizzati. In questa prospettiva, quelli che in precedenza
erano provvedimenti autonomi, ciascuno dei quali adottato
con un procedimento a sé stante, diventano “atti
istruttori” finalizzati all’adozione dell’unico
provvedimento conclusivo, costituente titolo per la
realizzazione dell’intervento richiesto.
Dal punto di vista procedurale, quindi, la responsabilità
dell’intero procedimento è trasferita allo sportello unico
che trasforma, in forza di un collegamento funzionale, i
singoli procedimenti gestiti da Amministrazioni diverse in
fase endoprocedimentali di un procedimento unitario. Esso
costituisce pertanto l’unico punto di accesso per il
richiedente in relazione a tutte le vicende amministrative
riguardanti la sua attività produttiva e fornisce, altresì,
una risposta unica e tempestiva in luogo di tutte le
pubbliche amministrazioni comunque coinvolte nel
procedimento. In sostanza la normativa dello sportello unico
si è limitata ad introdurre esclusivamente un modello
procedimentale, ossia uno strumento di raccordo tra le
Amministrazioni competenti a determinare la decisione finale
e a consentire di concentrare in una sola struttura la
responsabilità dell’unico procedimento (cfr. Tar Lazio, Sez.
II, 05.10.2010 n. 32684).
L’art. 4, comma 2, del d.p.r. n. 160/2010, in tema di
funzioni ed organizzazione del Suap, costituisce una norma
di raccordo tra le funzioni del Suap e quelle degli altri
uffici comunali e le amministrazioni pubbliche diverse dal
Comune interessato deputate al rilascio di atti
autorizzatori, nulla osta e pareri o atti di consenso, anche
a contenuto negativo, ma giammai può incidere sulla
distribuzione delle competenze fra i vari organi. Ed infatti
il successivo comma 6 nell’attribuire al Suap le competenze
dello Sportello Unico dell’edilizia produttiva fa comunque
salva ogni diversa disposizione dei Comuni interessati.
La censura di incompetenza del Comune intimato va quindi
disattesa.
2.2 Va altresì esclusa la fondatezza del rilievo circa la
tardività dell’intervento comunale in presenza di
un’inibitoria che, nella ricostruzione di parte ricorrente,
sarebbe intervenuta oltre il termine perentorio di trenta
giorni sancito dall’art. 19, comma 6, della legge n.
241/1990.
In materia edilizia, l’art. 23-bis del d.p.r. n. 380/2001,
stabilisce che, nei casi in cui si applica la disciplina
della segnalazione certificata di inizio attività di cui
all'articolo 19 della legge 07.08.1990, n. 241, prima della
presentazione della segnalazione, l'interessato può
richiedere allo sportello unico di provvedere
all'acquisizione di tutti gli atti di assenso, comunque
denominati, necessari per l'intervento edilizio, o
presentare istanza di acquisizione dei medesimi atti di
assenso contestualmente alla segnalazione.
Lo sportello unico comunica tempestivamente all'interessato
l'avvenuta acquisizione degli atti di assenso. Se tali atti
non vengono acquisiti entro il termine di cui all'articolo
20, comma 3 (sessanta giorni), si applica quanto previsto
dal comma 5-bis del medesimo articolo. In caso di
presentazione contestuale della segnalazione certificata di
inizio attività e dell'istanza di acquisizione di tutti gli
atti di assenso, comunque denominati, necessari per
l'intervento edilizio, l'interessato può dare inizio ai
lavori solo dopo la comunicazione da parte dello sportello
unico dell'avvenuta acquisizione dei medesimi atti di
assenso o dell'esito positivo della conferenza di servizi.
Nella specie rispetto alla realizzazione della piattaforma
elevatrice in argomento è mancato il necessario atto di
assenso comunale richiesto dal S.u.a.p. con nota prot. n.
6792 del 10.06.2016, e su cui il Comune è tempestivamente
intervenuto, entro i prescritti sessanta giorni, con la
comunicazione dei motivi ostativi prot. n. 9138 del
05.07.2016 ex art. 10-bis di cui all’atto prot. n. 8290 del
16.06.2016 e con il successivo parere negativo prot. n. 8290
del 16.06.2016, confluito nell’accertamento prot. n. 9995
del 21.07.2016 della natura abusiva dell’intervento che
risultava interamente eseguito come da nota prot. 9862 del
19.07.2916.
In tale sede, pertanto, il parere tecnico conclusivo del
procedimento edilizio, pur avendo natura endoprocedimentale
all’interno dell’iter avviato innanzi al S.u.a.p.,
costituisce atto avente autonoma e diretta efficacia lesiva
e suscettibile di immediato gravame (TAR Abruzzo-Pescara,
sentenza 09.04.2018 n. 134 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il cambio di destinazione d'uso di un immobile…
da magazzino ad esercizio commerciale, ancorché compatibile
nella medesima zona omogenea, interviene tra categorie
edilizie funzionalmente autonome e non omogenee e, quindi,
integra una modificazione edilizia con effetti incidenti sul
carico urbanistico soggetta a regime concessorio onerosa
indipendentemente dall'esecuzione di opere.
---------------
Tali censure non sono fondate e devono essere rigettate.
Come evidenziato dalla giurisprudenza maggioritaria, che
questo Collegio ritiene di condividere, “il cambio di
destinazione d'uso di un immobile… da magazzino ad esercizio
commerciale, ancorché compatibile nella medesima zona
omogenea, interviene tra categorie edilizie funzionalmente
autonome e non omogenee e, quindi, integra una modificazione
edilizia con effetti incidenti sul carico urbanistico
soggetta a regime concessorio onerosa indipendentemente
dall'esecuzione di opere” (TAR Puglia, Bari, Sez. III
22.02.2006 n. 571; TAR Lazio, Roma, Sez. II, 11.04.2011 n.
3171) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 01.12.2017 n. 11910 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Questa Corte ha in
passato, per un verso, ritenuto che fosse
soggetta a permesso
di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a
realizzare un piazzale mediante
livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse
determinato una
modificazione permanente dello stato materiale e della
conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso
da quello che gli era proprio e, per
altro verso, che la
realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del
previo rilascio del
permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla
sua struttura e
all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da
modificare, come avvenuto nel caso di specie, l'assetto
urbanistico del territorio.
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il
descritto intervento edilizio alla nozione di
"ristrutturazione edilizia" deve, altresì, escludersi che il
medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e a
fortiori mediante semplice D.I.A.), essendo al contrario
necessario il preventivo rilascio del permesso di costruire;
sicché deve ritenersi che la sentenza impugnata abbia
correttamente configurato, nel caso di specie, la
contravvenzione prevista dall'art. 44, comma 1, lett. c),
del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va, infatti, ribadito che in tema di violazioni
urbanistico-edilizie, la responsabilità per abuso edilizio
del committente, del titolare del permesso di
costruire, del direttore dei lavori e del
costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del
d.P.R. n. 380 del 2001, non è esclusa nell'ipotesi di
intervento realizzato direttamente in base ad una D.I.A.
illegittima.
---------------
La legittimità di una procedura di rilascio di un titolo
abilitativo non può essere ricavata, neanche sul piano
indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto
l'organo amministrativo competente, spettando pacificamente
al giudice penale verificare se siano state effettivamente
rispettate la disposizioni stabilite dalla legge al fine di
assentire un determinato intervento edilizio.
---------------
Gli interventi edilizi soggetti al permesso di costruire non
sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con una
denuncia di inizio attività alternativa al permesso di
costruire ex art. 22, comma 3, d.P.R. n. 380 del 2001,
mediante la presentazione di una D.I.A. in sanatoria ai
sensi dell'art. 37 del medesimo decreto, la quale può essere
richiesta unicamente per gli interventi edilizi, realizzati
in assenza o in difformità della denuncia di inizio
attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R.
citato- ma richiedono la procedura di accertamento di
conformità prevista per la sanatoria edilizia dall'art. 36
del citato decreto.
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce che i manufatti abusivi
già realizzati possano essere successivamente assentiti
soltanto mediante il rilascio del permesso di costruire in
sanatoria e non anche mediante D.I.A., in considerazione del
più pregnante controllo richiesto alla pubblica
amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni
originariamente abusive, evidenziato dalla necessità che si
proceda ad una valutazione di doppia conformità agli
strumenti urbanistici e dalla previsione del rigetto tacito
della richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato
accoglimento entro il termine di sessanta giorni.
---------------
E' illegittimo e non determina l'estinzione del reato
edilizio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 36 e
45 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso
di costruire in sanatoria condizionato all'esecuzione di
specifici interventi finalizzati a ricondurre il manufatto
abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti urbanistici,
in quanto detta subordinazione contrasta ontologicamente con
la ratio della sanatoria, collegabile alla già avvenuta
esecuzione delle opere e alla loro integrale rispondenza
alla disciplina urbanistica.
---------------
1. I ricorsi sono manifestamente infondati.
2. Osserva, in primo luogo, il Collegio come la Corte
territoriale abbia
adeguatamente dato conto del fatto che le opere realizzate -consistenti in una
pavimentazione eseguita previa spianatura del terreno
esistente e con posa in
opera di erborelle amovibili, in un'area dell'ampiezza di
700 metri quadri,
parzialmente destinata a viabilità secondo la variante al
P.R.G., in due muri
divisori di metri 5,90 per 1,80 per 0,20 e di metri 18,20
per 1,60 per 0,30 metri,
nonché in un muro di cinta in calcestruzzo delle dimensioni
di metri 56,80 per
2,20 per 0,30- avessero significativamente inciso
sull'assetto urbanistico della
zona de qua attraverso una trasformazione permanente del
suolo; e che, come
tali, esse fossero qualificabili come "nuova costruzione",
tanto da richiedere il
preventivo rilascio di un permesso di costruire ai sensi
dell'art. 10, comma 1, del
d.P.R. n. 380 del 2001.
Sul punto, il ricorso introduttivo argomenta nel senso che
l'intervento
dovesse essere qualificato come "ristrutturazione edilizia",
realizzata a servizio
del fabbricato. E da tale qualificazione sarebbe derivato
che le opere avrebbero
potuto essere assentite con permesso di costruire ai sensi
dell'art. 10, comma 1,
lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001 ovvero con la D.I.A.
sostitutiva o Super-D.I.A.
che ai sensi dell'art. 22, comma 3, lett. a), del predetto
decreto, nella versione
all'epoca vigente, poteva essere adottata, in luogo del
permesso di costruire,
proprio in relazione agli "interventi di ristrutturazione di
cui all'articolo 10,
comma 1, lettera c)".
2.1. La tesi difensiva è, però, manifestamente infondata.
In primo luogo è opportuno osservare che la stessa D.I.A.
presentata dalle
due imputate aveva qualificato l'intervento edificatorio non
come
"ristrutturazione edilizia", quanto piuttosto come
"manutenzione straordinaria";
ciò a riprova del fatto che la denominazione prospettata in
ricorso configuri,
all'evidenza, un tentativo di giustificare ex post il
ricorso allo strumento della
D.I.A. in luogo del permesso di costruire. Tanto è vero che
la sentenza di secondo grado non si è in alcun modo
confrontata, sia pure criticamente, con
tale tesi, mai avanzata nel corso del giudizio di appello.
Al di là di tale osservazione preliminare, rileva il
Collegio che la illegittimità
della D.I.A. presentata dalle ricorrenti fosse stata
correttamente riscontrata dai
giudici di appello sulla base di una serie di concreti
elementi, che le
argomentazioni critiche sviluppate nel ricorso introduttivo
non sono riuscite a
confutare.
Secondo la previsione dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. n.
380 del 2001,
infatti, costituiscono interventi di trasformazione
urbanistica ed edilizia del
territorio e sono subordinati a permesso di costruire: a)
gli interventi di nuova
costruzione; b) gli interventi di ristrutturazione
urbanistica; c) gli interventi di
ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo
edilizio in tutto o in parte
diverso dal precedente e che comportino aumento di unità
immobiliari, modifiche
del volume, della sagoma, dei prospetti o delle superfici,
ovvero che,
limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A,
comportino
mutamenti della destinazione d'uso. E secondo l'art. 3,
comma 1, lett. d), del
medesimo d.P.R. sono qualificati come "interventi di
ristrutturazione edilizia", gli
interventi "rivolti a trasformare gli organismi edilizi
mediante un insieme
sistematico di opere che possono portare ad un organismo
edilizio in tutto o in
parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il
ripristino o la
sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell'edificio,
l'eliminazione, la modifica e
l'inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell'ambito
degli interventi di
ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli
consistenti nella demolizione
e ricostruzione con la stessa volumetria e sagoma di quello
preesistente, fatte
salve le sole innovazioni necessarie per l'adeguamento alla
normativa
antisismica".
In questa prospettiva, deve risolutamente escludersi che
l'intervento edilizio
contestato a Ma. e Ti. Di Re. potesse essere
qualificato come
"ristrutturazione edilizia".
Secondo quanto, infatti, emerso in sede istruttoria, in
luogo dell'originaria
corte costituente pertinenza del fabbricato circostante, era
stata realizzata,
mediante livellamento e successiva pavimentazione, una vasta
area destinata a
parcheggio, con l'erezione di due muri divisori di metri
5,90 per 1,80 per 0,20 e
di metri 18,20 per 1,60 per 0,30 metri, nonché di un muro di
cinta in
calcestruzzo delle dimensioni di metri 56,80 per 2,20 per
0,30.
Un intervento
complessivo, quello appena descritto, pacificamente
riconducibile, secondo la
consolidata interpretazione della giurisprudenza di
legittimità, alla nozione di
"nuova costruzione", secondo quanto ricavabile dal combinato
disposto dell'art.
3, comma 1, lett. d) ed e), del citato d.P.R., avuto
riguardo alla significativa
incidenza delle opere sull'assetto urbanistico del
territorio, riscontrata dai giudici di appello anche alla
stregua della documentazione fotografica in atti.
In
passato,
del resto, questa Corte ha, per un verso, ritenuto che fosse
soggetta a permesso
di costruire l'esecuzione di interventi finalizzati a
realizzare un piazzale mediante
livellamento del terreno, in quanto tale attività avesse
determinato una
modificazione permanente dello stato materiale e della
conformazione del suolo
per adattarlo ad un impiego diverso da quello che gli era
proprio (Sez. 3, n. 1308
del 15/11/2016, dep. 12/01/2017, Palma, Rv. 268847) e, per
altro verso, che la
realizzazione di un muro di recinzione necessitasse del
previo rilascio del
permesso a costruire nel caso in cui, avuto riguardo alla
sua struttura e
all'estensione dell'area relativa, lo stesso fosse tale da
modificare, come
avvenuto nel caso di specie, l'assetto urbanistico del
territorio (Sez. 3, n. 52040
del 11/11/2014, dep. 15/12/2014, Langella e altro, Rv.
261521).
Pertanto, una volta esclusa la possibilità di ricondurre il
descritto intervento
edilizio alla nozione di "ristrutturazione edilizia" deve,
altresì, escludersi che il
medesimo potesse essere assentito mediante Super D.I.A. (e
a fortiori mediante
semplice D.I.A.), essendo al contrario necessario il
preventivo rilascio del
permesso di costruire; sicché deve ritenersi che la sentenza
impugnata abbia
correttamente configurato, nel caso di specie, la
contravvenzione prevista
dall'art. 44, comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001.
Va, infatti, ribadito che
in tema di violazioni urbanistico-edilizie, la
responsabilità per abuso edilizio del
committente, del titolare del permesso di costruire, del
direttore dei lavori e del
costruttore, individuata ai sensi dell'art. 29 del d.P.R. n.
380 del 2001, non è
esclusa nell'ipotesi di intervento realizzato direttamente
in base ad una D.I.A.
illegittima (Sez. 3, n. 10106 del 21/01/2016, dep.
11/03/2016, Torzini, Rv.
266291).
2.2. Né potrebbe argomentarsi, in contrario, seguendo il
percorso
ricostruttivo svolto dalle ricorrenti che la legittimità del
ricorso alla D.I.A. possa
ritenersi dimostrata dal fatto che il comune di Chieri aveva
assentito la
presentazione della D.I.A. in sanatoria, ancorché
subordinatamente al rilascio del
menzionato atto d'obbligo.
In proposito, è appena il caso di rilevare che la
legittimità di una procedura di
rilascio di un titolo abilitativo non può essere ricavata,
neanche sul piano
indiziario, dalla valutazione che di essa abbia fatto
l'organo amministrativo
competente, spettando pacificamente al giudice penale
verificare se siano state
effettivamente rispettate la disposizioni stabilite dalla
legge al fine di assentire
un determinato intervento edilizio.
3. Parimenti infondato è, poi, il secondo profilo di
doglianza, con il quale le
ricorrenti deducono che in ogni caso l'approvazione della
D.I.A. in sanatoria
avrebbe realizzato sostanzialmente un accertamento di
conformità.
Secondo quanto può ricavarsi dalla lettura della sentenza e
dai motivi di
ricorso, infatti, Ma. e Ti. Di Re. avevano
presentato una D.I.A. in
sanatoria secondo la procedura stabilita dall'art. 37 del
d.P.R. n. 380 del 2001, a
norma del quale "la realizzazione di interventi edilizi di
cui all'articolo 22, commi
1 e 2, in assenza della o in difformità dalla denuncia di
inizio attività" consente al
responsabile dell'abuso o al proprietario dell'immobile di
"ottenere la sanatoria
dell'intervento versando la somma, non superiore a 5164 euro
e non inferiore a
516 euro stabilita dal responsabile del procedimento in
relazione all'aumento di
valore dell'immobile valutato dall'agenzia del territorio",
sempre che l'intervento
realizzato risulti conforme alla disciplina urbanistica ed
edilizia vigente sia al
momento della realizzazione dell'intervento, sia al momento
della presentazione
della domanda (comma 4).
Tale disciplina, invero, si presenta del tutto distinta da
quella dettata dall'art.
36 dello stesso decreto, a mente del quale "in caso di
interventi realizzati in
assenza di permesso di costruire, o in difformità da esso
ovvero in assenza di
denuncia di inizio attività nelle ipotesi di cui
all'articolo 22, comma 3, o in
difformità da essa, fino alla scadenza dei termini di cui
agli articoli 31, comma 3,
33, comma 1, 34, comma 1, e comunque fino all'irrogazione
delle sanzioni
amministrative, il responsabile dell'abuso, o l'attuale
proprietario dell'immobile,
possono ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento
risulti conforme alla
disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento
della realizzazione dello
stesso, sia al momento della presentazione della domanda"
(comma 1).
Permesso in sanatoria il cui rilascio "è subordinato al
pagamento, a titolo di
oblazione, del contributo di costruzione in misura doppia,
ovvero, in caso di
gratuità a norma di legge, in misura pari a quella prevista
dall'articolo 16".
Nell'ipotesi di intervento realizzato in parziale
difformità, l'oblazione è calcolata
con riferimento alla parte di opera difforme dal permesso
(comma 2). Sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni
decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata (comma 3).
Ed anzi, secondo il consolidato orientamento di questa
Corte, cui deve essere
data assoluta continuità, gli interventi edilizi soggetti al
permesso di costruire
non sono sanabili -pur se realizzati dall'interessato con
una denuncia di inizio
attività alternativa al permesso di costruire ex art. 22,
comma 3, d.P.R. n. 380
del 2001, mediante la presentazione di una D.I.A. in
sanatoria ai sensi dell'art.
37 del medesimo decreto, la quale può essere richiesta
unicamente per gli
interventi edilizi, realizzati in assenza o in difformità
della denuncia di inizio
attività, previsti dall'art. 22, commi 1 e 2, del d.P.R.
citato- ma richiedono la
procedura di accertamento di conformità prevista per la
sanatoria edilizia dall'art.
36 del citato decreto (Sez. 3, n. 41425 del 29/09/2011, dep.
14/11/2011, Eramo, Rv. 251327; Sez. 3, n. 28048 del
19/05/2009, dep. 09/07/2009,
Barbarossa, Rv. 244580; Sez. 3, n. 9894 del 20/01/2009, dep.
05/03/2009,
Tarallo, Rv. 243099; Sez. 3, n. 41619 del 22/11/2006, dep.
20/12/2006,
Cariello, Rv. 235413).
Ciò in quanto l'art. 36 stabilisce
che i manufatti abusivi già
realizzati possano essere successivamente assentiti soltanto
mediante il rilascio
del permesso di costruire in sanatoria e non anche mediante
D.I.A., in
considerazione del più pregnante controllo richiesto alla
pubblica
amministrazione nell'ipotesi di sanatoria di costruzioni
originariamente abusive,
evidenziato dalla necessità che si proceda ad una
valutazione di doppia
conformità agli strumenti urbanistici e dalla previsione del
rigetto tacito della
richiesta di sanatoria nell'ipotesi di mancato accoglimento
entro il termine di
sessanta giorni.
Sotto altro profilo, deve altresì osservarsi, con
riferimento all'atto d'obbligo
sottoscritto dalla legale rappresentante della società
committente, il quale,
secondo le ricorrenti avrebbe concorso al perfezionamento
della fattispecie
sanante, che anche con riferimento tale aspetto il
consolidato indirizzo
interpretativo di questa Corte ritiene che sia illegittimo e
non determini
l'estinzione del reato edilizio, ai sensi del combinato
disposto degli artt. 36 e 45
del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, il rilascio di un permesso
di costruire in
sanatoria condizionato all'esecuzione di specifici
interventi finalizzati a ricondurre
il manufatto abusivo nell'alveo di conformità agli strumenti
urbanistici, in quanto
detta subordinazione contrasta ontologicamente con la ratio
della sanatoria,
collegabile alla già avvenuta esecuzione delle opere e alla
loro integrale
rispondenza alla disciplina urbanistica (Sez. 3, n. 51013
del 05/11/2015, dep.
29/12/2015, Carratù e altro, Rv. 266034; Sez. 3, n. 19587
del 27/04/2011,
dep. 18/05/2011, Montini e altro, Rv. 250477; Sez. 3, n. 291
del 26/11/2003,
dep. 09/01/2004, P.M. in proc. Fannmiano, Rv. 226871).
Ne consegue la mancata integrazione della fattispecie
sanante, anche a
prescindere dal fatto che l'intervento edilizio incidesse su
un'area parzialmente
destinata a tratti di viabilità e che, per tale motivo, le
opere realizzate si
ponessero in conflitto con la disciplina della relativa
macrozona del Piano di
edilizia economica popolare; ciò che avrebbe, comunque,
impedito, anche sotto
tale concorrente profilo, l'accertamento di conformità,
richiedendo l'art. 36 del
d.P.R. citato la piena conformità alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia
al momento della realizzazione dell'intervento, sia al
momento della
presentazione della domanda (Corte di Cassazione, Sez. III
penale,
sentenza 21.09.2017 n. 43155). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come noto il frazionamento di un’unica unità
abitativa in due distinte unità, stante l'autonoma distinta
utilizzabilità delle stesse, determina un aumento del carico
urbanistico anche in assenza di ampliamento delle superfici
e dei volumi e ancorché realizzato con mere opere interne,
deve ritenersi soggetto al previo rilascio di concessione
edilizia e corresponsione del contributo di urbanizzazione
in relazione all'aumentato carico urbanistico, ciò anche in
assenza di aumenti di superfici utili e di volumi ed in
presenza di sole opere interne, atteso che l'aumento dei
benefici predetti è conseguenza della mera utilizzabilità
autonoma delle due distinte unità abitative.
Analogamente è a dirsi per quanto concerne il consistente
ampliamento del manufatto originariamente adibito a legnaia,
risultato rifinito e pavimentato, che resta assoggettato, al
regime della concessione edilizia, ai sensi dell'art. 1
della L. n. 10/1977 applicabile ratione temporis in quanto,
pur volendo riconoscergli carattere pertinenziale rispetto
all'immobile principale, incide in senso innovativo e
trasformativo sull'assetto edilizio preesistente
---------------
2. Il ricorso è infondato e va respinto come di seguito
argomentato.
In primo luogo va esclusa la dedotta legittimità degli
interventi edilizi oggetto dell’impugnato ordine di
demolizione n. 146 del 22.11.2000 sul presupposto che si
tratterebbe di opere già assentite dal Comune di Capri con
concessione edilizia n. 27/1996 rilasciata per il cambio di
destinazione d’uso del manufatto esistente in abitazione e
per effetto della variante in corso d’opera per l’apertura
di un nuovo vano ingresso rilasciata con autorizzazione
dell’01.07.1998.
A ben vedere, dalla lettura dei medesimi atti allegati al
fascicolo da parte ricorrente, l’Ufficio tecnico del Comune
intimato in sede di sopralluogo effettuato in data
28.09.2000, ha dato atto dell’esistenza dei predetti titoli
abilitativi, evidenziando tuttavia che, sulla base di una
verifica dello stato dei luoghi, risultavano eseguite
ulteriori opere modificative dell’assetto preesistente dei
luoghi, consistenti nell’ampliamento del locale
originariamente adibito a legnaia, e nella chiusura di una
scala di collegamento interna con il superiore livello, con
creazione di un’ulteriore unità abitativa.
Come noto il frazionamento di un’unica unità abitativa in
due distinte unità, stante l'autonoma distinta
utilizzabilità delle stesse, determina un aumento del carico
urbanistico anche in assenza di ampliamento delle superfici
e dei volumi e ancorché realizzato con mere opere interne,
deve ritenersi soggetto al previo rilascio di concessione
edilizia e corresponsione del contributo di urbanizzazione
in relazione all'aumentato carico urbanistico, ciò anche in
assenza di aumenti di superfici utili e di volumi ed in
presenza di sole opere interne, atteso che l'aumento dei
benefici predetti è conseguenza della mera utilizzabilità
autonoma delle due distinte unità abitative. Analogamente è
a dirsi per quanto concerne il consistente ampliamento del
manufatto originariamente adibito a legnaia, risultato
rifinito e pavimentato, che resta assoggettato, al regime
della concessione edilizia, ai sensi dell'art. 1 della L. n.
10/1977 applicabile ratione temporis in quanto, pur
volendo riconoscergli carattere pertinenziale rispetto
all'immobile principale, incide in senso innovativo e
trasformativo sull'assetto edilizio preesistente (cfr. ex
multis C.d.S., Sez. II, 05.02.1997, n. 336) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.07.2017 n. 3960 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La presentazione dell'istanza di sanatoria
implica, comunque, un effetto confessorio, costituendo la
perpetrazione dell'abuso il presupposto dal punto di vista
sia logico che giuridico per la sua presentazione. Tale
istanza non può essere considerata come un atto meramente
cautelativo, e il suo effetto confessorio non può
assolutamente considerarsi come tamquam non esset, qualora
l'interessato muti parere.
Il comportamento della parte -il quale non può che essere
anch'esso improntato ai principi di trasparenza, lealtà e
correttezza- implica una precisa scelta strategica.
L'interessato con la domanda di sanatoria, da un lato,
infatti, riconosce il carattere abusivo delle opere, in
quanto esso è l'unico presupposto che giustifica la sua
presentazione, dall'altro, avvia una attività
amministrativa, caratterizzata da distinte e autonome
istruttoria e valutazione, volta alla verifica delle
condizioni di sanabilità dell'abuso.
Va comunque escluso il rilievo, rispetto alla legittimità
dell’ordine di demolizione, dell’istanza di accertamento di
conformità inoltrata ai sensi dell’art. 13 della legge n.
47/1985, come documentato in atti. Ed infatti, l’intervenuta
presentazione di un’istanza di sanatoria non comporta, come
affermato in ricorso, la perdita di “efficacia”
dell’ordinanza impugnata.
Il Collegio non ignora l’orientamento espresso da una parte
della giurisprudenza amministrativa, compreso questo Tar,
secondo cui la presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, in
epoca successiva all’adozione dell'ordinanza di demolizione,
produce in via automatica la caducazione di tale ordinanza,
rendendola inefficace. Più precisamente, secondo quest’orientamento,
la presentazione dell’istanza di sanatoria rende
improcedibile l’impugnazione contro l’atto demolitorio per
sopravvenuta carenza d’interesse, posto che il riesame,
provocato dall’istanza, del carattere abusivo dell'opera,
sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità,
comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito
(di accoglimento o di rigetto) o implicito (di rigetto),
idoneo comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto di ricorso.
Il Collegio condivide, tuttavia, il diverso orientamento
giurisprudenziale secondo cui la proposizione di un'istanza
di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 13 della
legge n. 47/1985, ora art.36, d.P.R. n. 380 del 2001, in
tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di
demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla
possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la
sanzione, peraltro per un tempo limitato fino alla sua
definizione espressa o tacita, ma non si riverbera sulla
legittimità del precedente provvedimento di demolizione.
Inoltre, in aderenza ad un diffuso orientamento
giurisprudenziale, va ricordato che il silenzio
dell’Amministrazione sulla richiesta di concessione in
sanatoria (ora sulla richiesta di permesso di costruire in
sanatoria) ha un valore legale tipico di rigetto, vale a
dire costituisce un’ipotesi di silenzio-significativo al
quale vengono collegati gli effetti di un provvedimento
esplicito di diniego.
Di contro, non risulta che il ricorrente abbia gravato
l’effetto legale tipico di diniego delineato dalla
fattispecie in commento, che, pertanto, dovrebbe essersi
oramai consolidato, sì da rendere intangibili le misure
repressive disposte. Di qui l’irrilevanza
dell’autorizzazione in sanatoria rilasciata, sul parere
favorevole della C.e.i., con atto n. 36 del 17.03.2004
avente ad oggetto, ai sensi dell’art. 151 d.lgs. 490/1999 il
solo accertamento di compatibilità ambientale e paesistico,
ma non anche la sanatoria edilizia.
Il procedimento sanzionatorio ha, quindi, ripreso il suo
corso una volta scaduto il termine di 90 giorni previsto per
la demolizione, consentendo legittimamente all’Ente
l’accertamento dell’inottemperanza alla demolizione e
l’adozione degli atti conseguenziali.
---------------
2.1 In ogni caso rispetto alle opere in contestazione è da
rilevarsi che, successivamente all’ordine di demolizione
gravato è stata inoltrata in data 18.01.2001 istanza di
accertamento di conformità ai sensi dell’art. 13 della legge
n. 47/1985.
Peraltro la presentazione dell'istanza di sanatoria implica,
comunque, un effetto confessorio, costituendo la
perpetrazione dell'abuso il presupposto dal punto di vista
sia logico che giuridico per la sua presentazione. Tale
istanza non può essere considerata come un atto meramente
cautelativo, e il suo effetto confessorio non può
assolutamente considerarsi come tamquam non esset,
qualora l'interessato muti parere.
Il comportamento della parte -il quale non può che essere
anch'esso improntato ai principi di trasparenza, lealtà e
correttezza- implica una precisa scelta strategica.
L'interessato con la domanda di sanatoria, da un lato,
infatti, riconosce il carattere abusivo delle opere, in
quanto esso è l'unico presupposto che giustifica la sua
presentazione, dall'altro, avvia una attività
amministrativa, caratterizzata da distinte e autonome
istruttoria e valutazione, volta alla verifica delle
condizioni di sanabilità dell'abuso.
2.2 Va comunque escluso il rilievo, rispetto alla
legittimità dell’ordine di demolizione, dell’istanza di
accertamento di conformità inoltrata ai sensi dell’art. 13
della legge n. 47/1985, come documentato in atti. Ed
infatti, l’intervenuta presentazione di un’istanza di
sanatoria non comporta, come affermato in ricorso, la
perdita di “efficacia” dell’ordinanza impugnata.
Il Collegio non ignora l’orientamento espresso da una parte
della giurisprudenza amministrativa, compreso questo Tar,
secondo cui la presentazione dell’istanza di accertamento di
conformità, ai sensi dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001, in
epoca successiva all’adozione dell'ordinanza di demolizione,
produce in via automatica la caducazione di tale ordinanza,
rendendola inefficace. Più precisamente, secondo quest’orientamento,
la presentazione dell’istanza di sanatoria rende
improcedibile l’impugnazione contro l’atto demolitorio per
sopravvenuta carenza d’interesse, posto che il riesame,
provocato dall’istanza, del carattere abusivo dell'opera,
sia pure al fine di verificarne l'eventuale sanabilità,
comporta la formazione di un nuovo provvedimento, esplicito
(di accoglimento o di rigetto) o implicito (di rigetto),
idoneo comunque a superare il provvedimento sanzionatorio
oggetto di ricorso (cfr. Tar Campania, Napoli, sez. VIII,
19.05.2015, n. 2763; Tar Sicilia, Palermo, sez. I,
02.04.2015, n. 813; Tar Liguria, Genova, sez. I, 26.02.2015,
n. 235).
Il Collegio condivide, tuttavia, il diverso orientamento
giurisprudenziale secondo cui la proposizione di un'istanza
di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 13 della
legge n. 47/1985, ora art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, in
tempo successivo all'emissione dell'ordinanza di
demolizione, incide, in definitiva, unicamente sulla
possibilità dell'Amministrazione di portare ad esecuzione la
sanzione, peraltro per un tempo limitato fino alla sua
definizione espressa o tacita, ma non si riverbera sulla
legittimità del precedente provvedimento di demolizione (cfr.
ex multis Tar Napoli Campania sez. VI n. 5519 del
04.12.2013; Tar Campania, VI Sezione, 24.09.2009 n. 5071).
Inoltre, in aderenza ad un diffuso orientamento
giurisprudenziale, più volte fatto proprio da questo
Tribunale, va ricordato che il silenzio dell’Amministrazione
sulla richiesta di concessione in sanatoria (ora sulla
richiesta di permesso di costruire in sanatoria) ha un
valore legale tipico di rigetto, vale a dire costituisce
un’ipotesi di silenzio significativo al quale vengono
collegati gli effetti di un provvedimento esplicito di
diniego (cfr., ex multis, Cons. Stato, sezione
quarta, 06.06.2008, n. 2691, 03.04.2006, n. 1710 e
14.02.2006 n. 598; sezione quinta, 11.02.2003, n. 706; Tar
Campania-Napoli, questa sesta sezione, sentenze 06.09.2010,
n. 17306, 15.07.2010, n. 16805).
Di contro, non risulta che il ricorrente abbia gravato
l’effetto legale tipico di diniego delineato dalla
fattispecie in commento, che, pertanto, dovrebbe essersi
oramai consolidato, sì da rendere intangibili le misure
repressive disposte. Di qui l’irrilevanza
dell’autorizzazione in sanatoria rilasciata, sul parere
favorevole della C.e.i., con atto n. 36 del 17.03.2004
avente ad oggetto, ai sensi dell’art. 151 d.lgs. 490/1999 il
solo accertamento di compatibilità ambientale e paesistico,
ma non anche la sanatoria edilizia.
Il procedimento sanzionatorio ha, quindi, ripreso il suo
corso una volta scaduto il termine di 90 giorni previsto per
la demolizione, consentendo legittimamente all’Ente
l’accertamento dell’inottemperanza alla demolizione e
l’adozione degli atti conseguenziali (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza 26.07.2017 n. 3960 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per orientamento costante di questo Collegio,
l’ordine di demolizione non deve essere necessariamente
preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato,
rispetto al quale non sono richiesti apporti partecipativi
del destinatario ed il cui presupposto è costituto
unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in totale
difformità o in assenza del titolo abilitativo. In ragione
del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli
atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo
procedimento.
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che sia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione.
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera, che il
protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe
ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la
lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario
titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che preserva il
potere-dovere dell'amministrazione di intervenire
nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che
il provvedimento demolitorio non richiede una congrua
motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa.
---------------
3. Infondate sono altresì le censure di natura formale
attinenti la violazione dell’art. 7 della legge n. 241/1990
e la mancata comunicazione del nominativo del responsabile
del procedimento.
Va rimarcato che, per orientamento costante di questo
Collegio, l’ordine di demolizione non deve essere
necessariamente preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, rispetto al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario ed il cui presupposto è
costituto unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera
in totale difformità o in assenza del titolo abilitativo. In
ragione del contenuto rigidamente vincolato che li
caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra
cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non
devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del
relativo procedimento (Consiglio Stato, sez. VI, 24.09.2010,
n. 7129).
Né, per lo stesso motivo, si richiede una specifica
motivazione che sia conto della valutazione delle ragioni di
interesse pubblico alla demolizione o della comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, senza che sussista alcuna violazione dell'art.
3, l. n. 241 del 1990, dato che, ricorrendo i predetti
requisiti, il provvedimento deve intendersi sufficientemente
motivato con l'affermazione dell'accertata abusività
dell'opera, essendo in re ipsa l'interesse pubblico
concreto ed attuale alla sua rimozione (cfr, ex plurimis,
Consiglio Stato, sez. IV, 31.08.2010 , n. 3955).
Anche qualora intercorra un lungo periodo di tempo tra la
realizzazione dell'opera abusiva ed il provvedimento
sanzionatorio, tale circostanza non rileva ai fini della
legittimità di quest'ultimo, sia in rapporto al preteso
affidamento circa la legittimità dell'opera, che il
protrarsi del comportamento inerte del comune avrebbe
ingenerato nel responsabile dell'abuso edilizio, sia in
relazione ad un presunto ulteriore obbligo, per
l'amministrazione procedente, di motivare specificamente il
provvedimento in ordine alla sussistenza dell'interesse
pubblico attuale a far demolire il manufatto, poiché la
lunga durata nel tempo dell'opera priva del necessario
titolo edilizio ne rafforza il carattere abusivo
(trattandosi di illecito permanente), il che preserva il
potere-dovere dell'amministrazione di intervenire
nell'esercizio dei suoi poteri sanzionatori, tanto più che
il provvedimento demolitorio non richiede una congrua
motivazione in ordine all'attualità dell'interesse pubblico
alla rimozione dell'abuso, che è in re ipsa (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 26.07.2017 n. 3960 - link a
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EDILIZIA PRIVATA - PUBBLICO IMPIEGO:
Il dirigente o il responsabile
dell'ufficio urbanistica del Comune è titolare di una posizione di garanzia,
e dunque dell'obbligo di impedire l'evento, discendente dall'art. 27 del d.P.R. n.
380 del 2001, che ne determina la responsabilità ai sensi dell'art. 40,
comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti
interdittivi e cautelari.
---------------
7. E' fondato anche il sesto motivo di ricorso, che ha ad oggetto il
reato di cui al capo D.
7.1. La rubrica imputa ai due dirigenti del Comune di Firenze di aver
concorso nel reato edilizio di cui al capo A omettendo di adottare le misure
amministrative necessarie a impedire l'esecuzione delle opere.
7.2. Al di là
del tipo di addebito (doloso o colposo poco importa, attesa la natura contravvenzionale del reato contestato e il fatto storicamente contestato,
non avendo rilevanza alcuna l'utilizzo nella rubrica dell'art. 110, cod.
pen., piuttosto che 113, cod. pen.), il tema accusatorio, così come
articolato, esclude dal proprio orizzonte la necessaria natura dolosa del
concorso dei due pubblici ufficiali, men che meno la sussistenza di
omissioni intenzionalmente orientate a procurare ai privati un ingiusto
vantaggio o atteggiamenti collusivi.
7.3. E' sufficiente richiamare (e ribadire) il principio già affermato da
questa Corte secondo cui il dirigente o il responsabile dell'ufficio
urbanistica del Comune è titolare di una posizione di garanzia, e dunque
dell'obbligo di impedire l'evento, discendente dall'art. 27 del d.P.R. n.
380 del 2001, che ne determina la responsabilità ai sensi dell'art. 40,
comma secondo, cod. pen. in caso di mancata adozione dei provvedimenti
interdittivi e cautelari (Sez. 3, n. 9281 del 26/01/2011, Bucolo, Rv.
249785; si veda, sul punto, anche Sez. 3, n. 19566 del 25/03/2004,
D'Ascanio, Rv. 228888).
7.4. Non ha perciò alcun fondamento la decisione del Tribunale di assolvere
i due pubblici ufficiali sul solo dato della inesistenza in capo ad essi di
una posizione di garanzia e della mancanza di addebiti di natura collusiva
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
14.02.2017 n. 6873). |
EDILIZIA PRIVATA:
Più volte questa Corte ha affermato il principio che solo le
planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificazioni o
autorizzazioni, redatte, secondo le vigenti disposizioni, dall'esercente una
professione necessitante speciale autorizzazione dello Stato, hanno natura
di certificato, poiché assolvono la funzione di dare alla pubblica
amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi. Ne consegue
che rispondono del delitto previsto dall'articolo 481 cod. pen. il
professionista che redige le planimetrie e la committente che firma la
domanda fondata sulla documentazione infedele.
Esula dall'ambito dell'ipotizzato delitto ogni attività valutativa.
Il concetto è stato bene espresso da Sez. 2, n. 3628 del 12/12/2006,
che, pronunciando in tema di delitto di falsità ideologica
dell'esercente un servizio di pubblica necessità, ha affermato il principio,
condiviso dal Collegio, che non rientrano nella nozione di "certificati"
quegli atti che, nell'ambito di un procedimento amministrativo per il
rilascio di un'autorizzazione, non hanno la funzione di dare
all'Amministrazione un'esatta informazione su circostanze di fatto e,
quindi, di provare la verità di quanto in essi affermato, ma sono espressivi
di un giudizio, di valutazioni e convincimenti soggettivi, sia pure erronei,
ma che non alterano i fatti.
Quel che conta è l'esatta rappresentazione e descrizione grafica
dell'intervento; la valutazione che ne compie il professionista non è
assistita da alcuna presunzione di veridicità, essendo sempre riservata al
dirigente o al responsabile dell'ufficio comunale, nell'ambito dell'attività
di vigilanza di cui all'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, ogni valutazione
sulla conformità dell'opera progettata alle norme di legge e di regolamento
e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, ivi compresa la
qualificazione stessa dell'intervento ed il suo regime edilizio.
Occorre piuttosto precisare che l'art. 20, comma 13, d.P.R. n. 380 del
2001, punisce con pena ancor più severa di quella prevista dall'art. 481,
cod. pen., la condotta di «chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o
asseverazioni di cui al comma 1, dichiara o attesta falsamente l'esistenza
dei requisiti o dei presupposti di cui al medesimo comma è punito con la
reclusione da uno a tre anni».
In questo caso, oggetto materiale della falsità non è il progetto allegato
alla domanda di permesso di costruire, bensì la specifica dichiarazione del
progettista abilitato «che asseveri la conformità del progetto agli
strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti,
e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienicosanitarie, alle norme relative
all'efficienza energetica».
E' evidente il diverso ambito applicativo delle due fattispecie poiché alla prima (art. 481, cod. pen.) è estraneo l'ambito valutativo;
la seconda
fattispecie, invece, incrimina una specifica falsa attestazione che
presuppone necessariamente un giudizio di conformità.
---------------
8. Il quinto motivo di ricorso (che riguarda i fatti-reato di cui al
capo B della rubrica; artt. 81, cpv., 481, cod. pen.) non è fondato.
8.1. Le contestate falsità, infatti, sostanzialmente ricadono sulla "qualificazione"
delle opere da eseguire come "restauro".
8.2. Più volte questa Corte ha affermato il principio che solo le
planimetrie presentate a corredo della richiesta di certificazioni o
autorizzazioni, redatte, secondo le vigenti disposizioni, dall'esercente una
professione necessitante speciale autorizzazione dello Stato, hanno natura
di certificato, poiché assolvono la funzione di dare alla pubblica
amministrazione una esatta informazione dello stato dei luoghi. Ne consegue
che rispondono del delitto previsto dall'articolo 481 cod. pen. il
professionista che redige le planimetrie e la committente che firma la
domanda fondata sulla documentazione infedele (Sez. 5, n. 5098 del
08/03/2000, Stenico, Rv. 216056; Sez. 5, n. 15860 del 21/03/2006, Stivalini,
Rv. 234601; Sez. 3, n. 30401 del 23/06/2009, Zazzaro, Rv. 244588).
8.3. Esula dall'ambito dell'ipotizzato delitto ogni attività valutativa.
8.4. Il concetto è stato bene espresso da Sez. 2, n. 3628 del 12/12/2006,
Pinto, Rv. 235934 che, pronunciando in tema di delitto di falsità ideologica
dell'esercente un servizio di pubblica necessità, ha affermato il principio,
condiviso dal Collegio, che non rientrano nella nozione di "certificati"
quegli atti che, nell'ambito di un procedimento amministrativo per il
rilascio di un'autorizzazione, non hanno la funzione di dare
all'Amministrazione un'esatta informazione su circostanze di fatto e,
quindi, di provare la verità di quanto in essi affermato, ma sono espressivi
di un giudizio, di valutazioni e convincimenti soggettivi, sia pure erronei,
ma che non alterano i fatti.
8.5. Quel che conta è l'esatta rappresentazione e descrizione grafica
dell'intervento; la valutazione che ne compie il professionista non è
assistita da alcuna presunzione di veridicità, essendo sempre riservata al
dirigente o al responsabile dell'ufficio comunale, nell'ambito dell'attività
di vigilanza di cui all'art. 27, d.P.R. n. 380 del 2001, ogni valutazione
sulla conformità dell'opera progettata alle norme di legge e di regolamento
e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici, ivi compresa la
qualificazione stessa dell'intervento ed il suo regime edilizio.
8.6. Occorre piuttosto precisare che l'art. 20, comma 13, d.P.R. n. 380 del
2001, punisce con pena ancor più severa di quella prevista dall'art. 481,
cod. pen., la condotta di «chiunque, nelle dichiarazioni o attestazioni o
asseverazioni di cui al comma 1, dichiara o attesta falsamente l'esistenza
dei requisiti o dei presupposti di cui al medesimo comma è punito con la
reclusione da uno a tre anni».
In questo caso, oggetto materiale della falsità non è il progetto allegato
alla domanda di permesso di costruire, bensì la specifica dichiarazione del
progettista abilitato «che asseveri la conformità del progetto agli
strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti,
e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di
sicurezza, antincendio, igienicosanitarie, alle norme relative
all'efficienza energetica».
8.7. E' evidente il diverso ambito applicativo delle due fattispecie poiché
alla prima (art. 481, cod. pen.) è estraneo l'ambito valutativo; la seconda
fattispecie, invece, incrimina una specifica falsa attestazione che
presuppone necessariamente un giudizio di conformità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
14.02.2017 n. 6873). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
E’ infatti pacifico in giurisprudenza il principio secondo il quale gli atti
amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore
letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà
dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato,
cosicché occorre prescindere dal nomen iuris ad essi
attribuito al momento della adozione.
---------------
In punto di diritto l’art. 21-nonies, comma 1, della legge
n. 241/1990 nel testo attualmente in vigore (comma così
modificato dall'art. 25, comma 1, lett. b-quater), nn. 1) e
2), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni,
dalla L. 11.11.2014, n. 164, e, successivamente, dall'art.
6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124) dispone:
“1. Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo
articolo 21-octies, comma 2, può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole, comunque non superiore a diciotto mesi
dal momento dell'adozione dei provvedimenti di
autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici,
inclusi i casi in cui il provvedimento si sia formato ai
sensi dell'articolo 20, e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.
Rimangono ferme le responsabilità connesse all'adozione e al
mancato annullamento del provvedimento illegittimo”.
Il ricorso all'autotutela (mediante annullamento d'ufficio)
può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui
all'art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990, ovvero
sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce della novella di cui all'art. 6 della
legge 07.08.2015, n. 124, sussiste ora uno sbarramento
temporale all'esercizio del potere di autotutela, fissato in
“diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici”.
---------------
Il Collegio ritiene che la norma introdotta dalla legge n.
07.08.2015, n. 124 sia applicabile in ogni caso in cui il
provvedimento di autotutela sia intervenuto successivamente
alla novella legislativa, ancorché riguardi un titolo
abilitativo rilasciato sotto il regime precedente.
Inoltre l'annullamento d'ufficio del permesso di costruire
richiede necessariamente un'espressa motivazione in ordine
all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino
dello status quo ante, ai sensi dell'art. 21-nonies della L.
n. 241/1990, preminente su quello privato alla conservazione
del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di
autotutela della P.A., entro un termine ragionevole, non
essendo, pure nella materia edilizia, sufficiente l'intento
di operare un mero astratto ripristino della legalità
violata.
Nel caso in esame, al contrario, il Comune resistente non ha
fornito alcuna ragione, per quanto succinta, di interesse
pubblico in base alla quale giustificare l’esercizio del
potere di autotutela, né ha valutato il grado di incisione
del suddetto potere sugli interessi dei suddetti ricorrenti,
in bilanciamento con quelli pubblici. Nella specie manca il
requisito rappresentato dalla valutazione motivata della
posizione dei soggetti destinatari del provvedimento.
Inoltre, come condivisibilmente prospettato da parte
ricorrente, il suo affidamento era particolarmente
qualificato in ragione del lungo tempo trascorso
dall’adozione del permesso di costruire annullato,
risultando trascorsi undici anni dal rilascio del titolo
edilizio oggetto di annullamento.
---------------
Il ricorso è fondato e, in quanto tale, va accolto.
Il Collegio deve innanzitutto qualificare la determina
dirigenziale prot. n. 12 del 16.02.2016, oggetto di
impugnazione, con la quale il Comune di Sessa Aurunca ha
annullato in autotutela il permesso di costruire n. 2 del 13.01.2005, rilasciato in variante alla concessione
edilizia n. 320 del 16.10.1992, in quanto il Comune
resistente, nell’oggetto del provvedimento stesso, dopo
averlo qualificato “revoca in autotutela” ha rappresentato
espressamente di averlo adottato “ai sensi dell'art. 21-nonies della L. 241/1990”, che disciplina l’annullamento
d’ufficio, e, nella parte dispositiva del provvedimento, ha
disposto “l’annullamento in autotutela del permesso di
costruire n. 2 del 13/01/2005”.
E’ infatti pacifico in giurisprudenza il principio,
condiviso dal Collegio, secondo il quale gli atti
amministrativi vanno interpretati non solo in base al tenore
letterale, ma anche risalendo alla effettiva volontà
dell'amministrazione ed al potere concretamente esercitato,
cosicché occorre prescindere dal nomen iuris ad essi
attribuito al momento della adozione (cfr. Consiglio di
Stato, Sez. IV, 09.06.2015, n. 2836, Consiglio di Stato, Sez. V, 28.06.2004, n. 4756, 15.10.2003, n. 6316,
Adunanza Plenaria Consiglio di Stato, 23.01.2003, n. 3,
TAR Lombardia Milano Sez. II, 18.09.2013, n.
2170).
Nella fattispecie oggetto di gravame deve ritenersi che il
provvedimento sia stato effettivamente adottato ai sensi
dell'art. 21-nonies della L. 241/1990, che disciplina
l’annullamento d’ufficio, in quanto risulta annullato per
violazione delle distanze previste dall’art. 9 del D.M. 02.04.1968 n. 1444 e dall’art. 907 c.c. e per essere stato
rilasciato sulla scorta della documentazione tecnica
presentata dall’odierno ricorrente che non rappresentava la
distanza tra la finestra di proprietà del sig. Si. e
gli edifici di progetto, inducendo pertanto in errore la P.A.,
e, quindi, dopo aver riscontrato un vizio di legittimità del
permesso di costruire oggetto di autotutela, circostanza
risolutiva ai fini della qualificazione del provvedimento
quale annullamento d’ufficio.
Premesso quanto sopra, nel merito si ritiene di confermare
quanto già sostenuto da questa Sezione nell’ordinanza
cautelare di accoglimento n. 1133 dell’11.07.2016 in
relazione alla mancanza delle condizioni per disporre
l’annullamento del permesso di costruire.
Colgono infatti nel segno le censure di cui al secondo
motivo di ricorso con le quali parte ricorrente lamenta la
violazione dell’art. 21-nonies, comma 1, della legge n.
241/1990 per insussistenza dei presupposti richiesti dalla
suddetta disposizione normativa.
Ad avviso di parte ricorrente l’adozione del provvedimento
di annullamento d’ufficio presuppone, unitamente al
riscontro dell’originaria illegittimità dell’atto, la
valutazione della rispondenza della sua rimozione ad un
interesse pubblico non solo attuale e concreto, ma anche
prevalente rispetto all’interesse del privato che ha riposto
affidamento nella legittimità e stabilità del titolo
medesimo, tanto più quando un simile affidamento si sia
consolidato per effetto del decorso di un rilevante arco
temporale.
Nel caso di specie sarebbe stato adottato un provvedimento
di annullamento in autotutela dopo ben 11 anni (nonostante
un ulteriore permesso di costruire in variante rilasciato
nel 2008 e rinnovato nel 2012), senza indicare o motivare
quale sia l'interesse pubblico specifico e senza minimamente
tenere in considerazione l'affidamento del privato nella
conservazione del titolo abilitativo, consolidatosi
nell'arco temporale cospicuo trascorso tra il rilascio e
l'annullamento e, conseguentemente, con l’ordinanza di
demolizione oggetto di impugnazione, sarebbe stata ordinata
illegittimamente la demolizione delle opere realizzate.
In punto di diritto l’art. 21-nonies, comma 1, della legge
n. 241/1990 nel testo attualmente in vigore (comma così
modificato dall'art. 25, comma 1, lett. b-quater), nn. 1) e
2), D.L. 12.09.2014, n. 133, convertito, con
modificazioni, dalla L. 11.11.2014, n. 164, e,
successivamente, dall'art. 6, comma 1, lett. d), n. 1), L. 07.08.2015, n. 124) ed applicabile
ratione temporis alla
fattispecie per cui è causa, dispone: “1. Il provvedimento
amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies,
esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma
2, può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni
di interesse pubblico, entro un termine ragionevole,
comunque non superiore a diciotto mesi dal momento
dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di
attribuzione di vantaggi economici, inclusi i casi in cui il
provvedimento si sia formato ai sensi dell'articolo 20, e
tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da
altro organo previsto dalla legge. Rimangono ferme le
responsabilità connesse all'adozione e al mancato
annullamento del provvedimento illegittimo”.
Il ricorso all'autotutela (mediante annullamento d'ufficio)
può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui
all'art. 21-nonies della L. n. 241 del 1990, ovvero
sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Peraltro, alla luce della novella di cui all'art. 6 della
legge 07.08.2015, n. 124, sussiste ora uno sbarramento
temporale all'esercizio del potere di autotutela, fissato in
“diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici” (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762, 10.12.2015, n. 5625).
Nel caso di specie l’annullamento d’ufficio è intervenuto il
16.02.2016 e, quindi, ben oltre il termine dei
diciotto mesi dal rilascio, il 13.01.2005, indicato dal
citato art. 21-nonies della legge n. 241/1990, così come
modificato dalla legge 07.08.2015, n. 124, quale limite
per procedere all’annullamento in autotutela dei titoli
autorizzativi, senza che sia stata dimostrata la sussistenza
delle circostanze di cui al comma 2-bis del medesimo
articolo, che prevedono la possibilità di procedere
ugualmente all’annullamento ex officio.
Al riguardo il Collegio ritiene che la norma introdotta
dalla legge n. 07.08.2015, n. 124 sia applicabile in ogni
caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto
successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi
un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente
(TAR Puglia Bari, Sez. III, 17.03.2016, n. 351, TAR
Campania Napoli, Sez. III, 22.09.2016, n. 4373).
Inoltre l'annullamento d'ufficio del permesso di costruire
richiede necessariamente un'espressa motivazione in ordine
all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino
dello status quo ante, ai sensi dell'art. 21-nonies della L.
n. 241/1990, preminente su quello privato alla conservazione
del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di
autotutela della P.A., entro un termine ragionevole, non
essendo, pure nella materia edilizia, sufficiente l'intento
di operare un mero astratto ripristino della legalità
violata (TAR Puglia Lecce Sez. III, 20.10.2016, n.
1602; TAR Campania Salerno Sez. I, 24.02.2016, n.
446).
Nel caso in esame, al contrario, il Comune resistente non ha
fornito alcuna ragione, per quanto succinta, di interesse
pubblico in base alla quale giustificare l’esercizio del
potere di autotutela, né ha valutato il grado di incisione
del suddetto potere sugli interessi dei suddetti ricorrenti,
in bilanciamento con quelli pubblici.
Nella specie manca il requisito rappresentato dalla
valutazione motivata della posizione dei soggetti
destinatari del provvedimento. Inoltre, come
condivisibilmente prospettato da parte ricorrente, il suo
affidamento era particolarmente qualificato in ragione del
lungo tempo trascorso dall’adozione del permesso di
costruire annullato, risultando trascorsi undici anni dal
rilascio del titolo edilizio oggetto di annullamento (cfr.
Consiglio di Stato, sez. VI, 31.08.2016, n. 3762, 10.12.2015, n. 5625 cit., TAR Lombardia Brescia Sez.
II, 09.05.2016, n. 634) (TAR Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 03.01.2017 n. 60 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il costruttore risponde del cattivo isolamento
acustico.
Del cattivo isolamento acustico l'appaltatore risponde per i
danni, purché la denunzia del vizio avvenga entro un anno
dalla scoperta. Ma soprattutto ne risponde anche oltre il
confine del rapporto committente-appaltatore: due sentenze
assai poco note, infatti, aiutano a comprendere questo
principio.
Il TRIBUNALE di Milano, con sentenza 13.11.2015, ha
riconosciuto, in primo luogo, la legittimazione attiva a far
valere i vizi costruttivi non solo al committente e ai suoi
aventi causa, ma anche all'acquirente dell'immobile. E ha
classificato l'inadeguatezza dell'isolamento acustico come «grave
difetto costruttivo» tutelato dall'articolo 1669 del
Codice civile.
Poi ha chiarito come, dal lato passivo, concorrano con
l'appaltatore tutti quei soggetti, quali il progettista e il
direttore dei lavori che, prestando a vario titolo la loro
opera nella realizzazione dell'opera, abbiano contribuito,
per colpa professionale, alla determinazione dell'evento
dannoso, costituito dall'insorgenza dei vizi in questione.
Il Tribunale di Milano ha poi ribadito come la "scoperta
del vizio", da cui decorrono i termini per la denuncia,
debba essere completa, ricomprendendo quindi anche l'esatta
conoscenza della gravità dei difetti costruttivi e
l'esistenza del nesso causale tra i vizi e l'attività
progettuale e costruttiva espletata. L'adeguatezza o meno
dell'isolamento acustico dell'edificio potrà essere valutata
con riferimento ai parametri contenuti del Dpcm del
05.12.1997, certamente utili a verificare il rispetto delle
regole dell'arte da parte del costruttore (in tal senso
anche si è espresso anche il Tribunale di Vicenza con
sentenza del 10.02.2016).
Quanto al danno patrimoniale conseguente al difetto di
insonorizzazione, il giudice meneghino ritiene che lo stesso
possa essere quantificato tenendo in considerazione il minor
valore dell'immobile rispetto a quello di mercato,
considerati i costi necessari per effettuare gli interventi
utili a ripristinare un corretto isolamento acustico del
bene (articolo Il Sole 24 Ore del 25.09.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
D.i.a. e regime sanzionatorio.
Nei casi previsti dai commi 1 e 2
dell’art. 22 del TU n. 380/2001 —in cui la DIA si pone come
titolo abilitativo esclusivo (non alternativo, cioè, al
permesso di costruire)— la mancanza della denunzia di inizio
dell’attività o la difformità delle opere eseguite rispetto
alla DIA effettivamente presentata non comportano
l’applicazione di sanzioni penali ma sono sanzionate
soltanto in via amministrativa (art. 37, 6° comma, del TU.
n. 380/2001).
Dovendo ritenersi, però, che sia comunque punibile ai sensi
dell’art. 44, lett. a), del T.U. n. 380/2001 —pure se
preceduta da rituale denuncia d’inizio— l’esecuzione di
interventi sostanzialmente difformi da quanto stabilito da
strumenti urbanistici e regolamenti edilizi.
Nei casi previsti dal 3° comma dell’art. 22 del T.U. n
380/2001, invece —in cui la DIA si pone come alternativa al
permesso di costruire— (ai sensi del comma 2-bis del
successivo art. 44) l’assenza sia del permesso di costruire
sia della denunzia di inizio dell’attività ovvero la totale
difformità delle opere eseguite rispetto alla DIA
effettivamente presentata integrano il reato di cui al
successivo art. 44, lett. b).
Non trova comunque sanzione penale la difformità parziale (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 08.09.2010 n. 32947 - link a
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sull’omessa previa acquisizione del parere della commissione
edilizia, va confermato l’orientamento giurisprudenziale che esonera
l’amministrazione procedente dall’assunzione del parere nel
caso in cui, come nel caso di specie, sia acclarata la
mancanza del presupposto di fatto per fruire del condono,
qual è per -l’appunto- l’ultimazione dei lavori oltre il
termine perentorio.
In tale evenienza, venendo meno il presupposto di storico di
fatto, è preclusa alla radice, anche per ragioni d’economia
del procedimento, ogni altra valutazione che cognita causa
condiziona ordinariamente lo scrutinio d’ammissibilità del
condono.
---------------
Qualora non ricorrano le ipotesi previste dal codice civile
(artt. 1324 e 1427 e ss c.c.) che consentono l’astratta
rittrattabilità della dichiarazione negoziale (ndr: istanza
di condono edilizio), essa produce irrevocabilmente per la
parte istante -fatto salvo ovviamente il potere di verifica
dell’amministrazione- tutti gli effetti conseguenti, primi
fra tutti l’individuazione dei termini e delle condizioni di
definizione del condono.
Certo è che in ordine ai fatti indicati essa integra a tutti
gli effetti la c.d. “contra se pronuntiatio” sull’entità
effettiva delle opere realizzate, oggetto della sanatoria
legale.
---------------
Il ricorso è infondato.
Sull’omessa previa acquisizione del parere della commissione
edilizia, va confermato l’orientamento giurisprudenziale, da
cui non v’è motivo per discostarsi, che esonera
l’amministrazione procedente dall’assunzione del parere nel
caso in cui, come nel caso di specie, sia acclarata la
mancanza del presupposto di fatto per fruire del condono,
qual è per -l’appunto- l’ultimazione dei lavori oltre il
termine perentorio (cfr., Cons. St., sez. V, 03.07.2003 n.
3974; Tar Sardegna, sez. II; 18.09.2007 n. 1753).
In tale evenienza, venendo meno il presupposto di storico di
fatto, è preclusa alla radice, anche per ragioni d’economia
del procedimento, ogni altra valutazione che cognita causa
condiziona ordinariamente lo scrutinio d’ammissibilità del
condono.
Anche le residue censure non meritano migliore sorte.
È fuor d’opera in questa sede soffermarsi sulla
qualificazione negoziale dell’istanza di condono, con il
corollario che, qualora non ricorrano le ipotesi previste
dal codice civile (artt. 1324 e 1427 e ss c.c.) che
consentono l’astratta rittrattabilità della dichiarazione
negoziale, essa produce irrevocabilmente per la parte
istante -fatto salvo ovviamente il potere di verifica
dell’amministrazione- tutti gli effetti conseguenti, primi
fra tutti l’individuazione dei termini e delle condizioni di
definizione del condono.
Certo è che in ordine ai fatti indicati essa integra a tutti
gli effetti la c.d. “contra se pronuntiatio”
sull’entità effettiva delle opere realizzate, oggetto della
sanatoria legale.
Del resto strutturamente la domanda si compone di una parte
nella quale si indicano le opere abusivamente realizzate e,
sulla cui scorta, s’esprime, nella residua parte, la volontà
di corrispondere la somma necessaria per fruire del
provvedimento clemenziale.
Sicché “il fatto” dichiarato dal ricorrente
nell’istanza di condono del 03.13.2004, oltretutto espresso
ai sensi dell’art. 47 d.P.R. n. 445/2000, ossia il cambio di
destinazione d’uso in abitativo dei manufatti già destinati
a fienile magazzino e serra, circoscrive irretrattabilmente
l’oggetto del procedimento amministrativo di condono:
l’amministrazione, a quella stregua, effettua le verifiche
conseguenti per accogliere o meno l’istanza.
Qualora, come nel caso che ne occupa, sia stata respinta,
nessun rilievo assumono gli argomenti che, in quello stesso
procedimento, comportano una totale capovolgimento dei fatti
come originariamente dichiarati.
Conclusivamente il secondo motivo di censura impostato sul
registro della ritrattazione dei fatti dichiarati
nell’istanza di condono deve essere respinto.
In ordine alla data di ultimazione dei lavori, vale a dire
al completamento funzionale delle opere strumentali al
mutamento di destinazione d’uso, sono decisive le
acquisizioni istruttorie riprodotte per tabulas nel
provvedimento impugnato.
Le dichiarazioni del direttore dei lavori (29.07.2003), il
certificato di collaudo (25.07.2003) e la richiesta del
certificato di agibilità (29.07.2003) univocamente attestano
che al 31.03.2003, oltre a non essere stato effettuato il
completamento funzionale ai fini residenziale, non era stata
ultimata nemmeno la copertura della serra (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 29.10.2008 n. 1862 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il mutamento di destinazione d’uso da agricolo ad abitativo,
realizzato con opere edilizie, senza titolo, con incidenza
negativa sugli standards edilizi, integra illecito edilizio
di cui al combinato disposto degli artt. 31 e 32, comma 1,
lett. a) d.P.R. n. 380/2001 sanzionato con la misura
ripristinatoria.
---------------
Da ultimo sulla censura avente ad oggetto la sanzione della
demolizione in luogo di quella pecuniaria.
Il mutamento di destinazione d’uso da agricolo ad abitativo,
realizzato con opere edilizie, senza titolo, con incidenza
negativa sugli standards edilizi, integra illecito edilizio
di cui al combinato disposto degli artt. 31 e 32, comma 1,
lett. a), d.P.R. n. 380/2001 sanzionato con la misura
ripristinatoria.
Conclusivamente il ricorso deve essere respinto (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 29.10.2008 n. 1862 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AGGIORNAMENTO
AL 03.09.2018 |
ã |
IN EVIDENZA |
APPALTI:
L’Adunanza plenaria pronuncia sulla corretta applicazione
del computo del cd. ”fattore di correzione”.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte - Cd.
”fattore di correzione” – Computo - Art. 97, comma 2, lett.
b), secondo alinea, d.lgs. n. 50 del 2016 – Criterio.
L’art. 97, comma 2, lett. b), d.lgs.
18.04.2016, n. 50 si interpreta nel senso che la locuzione
“offerte ammesse” (al netto del c.d. ‘taglio delle ali’) da
prendere in considerazione ai fini del computo della media
aritmetica dei ribassi e la locuzione “concorrenti ammessi”
da prendere in considerazione al fine dell’applicazione del
fattore di correzione fanno riferimento a platee omogenee di
concorrenti; conseguentemente, la somma dei ribassi offerti
dai concorrenti ammessi (finalizzata alla determinazione del
fattore di correzione) deve essere effettuata con
riferimento alla platea dei concorrenti ammessi, ma al netto
del c.d. ‘taglio delle ali’” (1).
---------------
La questione era stata rimessa all’Adunanza plenaria da
Cons. St., sez. V, ord., 08.06.2018, n. 3472.
(1) Ha chiarito l’Adunanza plenaria che la previsione di cui
all’art. 97, comma 2, lett. b), del nuovo Codice dei
contratti ha dato luogo ad interpretazioni contrastanti.
Secondo un primo orientamento (condiviso dalla Sezione
remittente) le due parti di cui si compone la disposizione
in esame dovrebbero essere interpretate ed applicate secondo
un criterio di carattere –per così dire– ‘dissociativo’.
In base a tale opzione interpretativa, il Legislatore
avrebbe consapevolmente tenuto distinte: i) (da un lato) la
platea dei concorrenti in relazione ai quali determinare la
media aritmetica dei ribassi (platea che andrebbe
individuata previo il ‘taglio delle ali’) e ii)
dall’altro, la platea dei concorrenti da prendere in
considerazione al fine della determinazione del c.d. ‘fattore
di correzione’ (platea che andrebbe identificata con
l’intero novero dei concorrenti ammessi, senza ‘taglio
delle ali’).
In base a un secondo orientamento la disposizione in esame
dovrebbe invece essere intesa secondo un criterio di
carattere –per così dire– ‘associativo’.
Secondo tale opzione la locuzione ‘offerte ammesse’
(al netto del ‘taglio delle ali’) di cui alla prima
parte del comma 2, lett. b), e la locuzione ‘concorrenti
ammessi’ di cui alla seconda parte della disposizione
farebbero riferimento a platee omogenee (ambedue da
individuare previo il ‘taglio delle ali’).
L’Adunanza plenaria ritiene che prevalenti ragioni inducano
a propendere per la seconda delle richiamate opzioni, alla
quale aderisce la prevalente giurisprudenza di secondo grado
(Cons.
St., sez. V, 23.01.2018, n. 435; id.
17.05.2018, n. 2959).
Elementi di carattere teleologico e sistematico militino nel
senso di “[ritenere] corretta l'interpretazione secondo
cui la previa esclusione (c. d. taglio delle ali) va inclusa
anche nel calcolo dello scarto medio aritmetico dei ribassi
percentuali superiori alla media”. Non emergono valide
ragioni per cui, una volta eliminate alcune offerte dal
criterio di calcolo, le stesse possano successivamente
rientrare a farne parte. In modo parimenti condivisibile si
è escluso che il Legislatore abbia inteso applicare il
calcolo della media limitatamente ai ribassi ammessi dopo il
taglio delle ali per poi successivamente calcolare,
all’opposto, la somma dei ribassi prendendo in
considerazione tutti i ribassi originali, seppur già
esclusi.
Ragioni di coerenza sistematica inducono a ritenere che la
sostanziale presunzione su cui si fonda lo stesso meccanismo
del ‘taglio delle ali’ è tale da non soffrire
eccezioni o intermittenze nello sviluppo logico ed
aritmetico della determinazione della soglia di anomalia. Ne
consegue che un metodo di calcolo il quale prendesse in
considerazione tale presunzione ai fini della prima
operazione, ma la escludesse dalla seconda, risulterebbe
intrinsecamente contraddittorio
(Consiglio di Stato, A.P.,
sentenza 30.08.2018 n. 13 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
3. E’ quindi possibile esaminare il merito della
questione devoluta a questa Adunanza plenaria
Giova premettere alcune puntualizzazioni in fatto e alcune
in diritto.
3.1. In punto di fatto va qui premesso
- che la gara all’origine dei fatti di causa è stata indetta da
ANAS s.p.a. quale soggetto attuatore di protezione civile
per la realizzazione degli interventi di ripristino e messa
in sicurezza della viabilità delle infrastrutture stradali
di propria competenza (e di competenza di altri soggetti
pubblici) a seguito degli eventi sismici che hanno colpito
il territorio delle Regioni Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo
a partire dal 24.08.2016;
- che la gara in questione aveva ad oggetto la realizzazione di
lavori urgenti di ripristino sulla S.S. 685 (‘Tre Valli
Umbre’) delle reti a contatto, di perlustrazione dei
versanti e disgaggio ed installazione di barriere paramassi;
- che la gara si è svolta attraverso una procedura aperta
accelerata ai sensi del comma 3 dell’articolo 60 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 (recante il ‘Codice dei
contratti pubblici’), con il criterio del massimo
ribasso;
- che la lex specialis prevedeva l’esclusione automatica
delle offerte anomale ai sensi del comma 8 dell’articolo 97
del richiamato decreto legislativo n. 50 del 2016 (tale
previsione era possibile trattandosi di affidamento sotto la
soglia di rilevanza comunitaria);
- che, ai sensi del comma 2 dell’articolo 97 del ‘Codice dei
contratti pubblici’ e al fine di rendere non
predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento
della soglia di anomalia, la stazione appaltante procedeva a
sorteggiare uno dei criteri di cui al medesimo comma 2.
Veniva quindi sorteggiato il criterio di cui alla lettera b)
(sul punto, v. infra);
- che, ritenendo di applicare nel modo più corretto la richiamata
previsione legislativa, la stazione appaltante procedeva: i)
ad ordinare le offerte ammesse ponendole in ordine crescente
di ribasso offerto; ii) ad escludere (rectius: ad
accantonare) il venti per cento delle offerte caratterizzate
–rispettivamente– dal maggiore e dal minore ribasso (c.d. ‘taglio
delle ali’); iii) a calcolare la media aritmetica dei
ribassi delle offerte ammesse residuate dopo il ‘taglio
delle ali’; iv) a calcolare la somma dei ribassi di
tutti i concorrenti ammessi; v) a lasciare invariata la
media sub iii in quanto la somma dei ribassi sub iv
presentava la prima cifra dopo la virgola dispari; vi) a
fissare, quindi, la soglia di anomalia nella percentuale già
individuata sub iii); vi) ad escludere i via automatica
dalla procedura tutti i concorrenti (fra cui l’appellante)
che presentassero un ribasso percentuale superiore alla
soglia di anomalia; vii) ad aggiudicare la gara all’A.T.I.
Pr./Ci., che aveva proposto in gara la prima delle offerte
non anomale
3.2. In punto di diritto va qui osservato che, a seguito
delle modifiche apportate dal decreto legislativo
19.04.2017, n. 56 (recante ‘Disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50’),
il comma 2 dell’articolo 97 del Codice (articolo rubricato ‘Offerte
anormalmente basse’) stabilisce che: “Quando il
criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso la
congruità delle offerte è valutata sulle offerte che
presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di
anomalia determinata; al fine di non rendere
predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento
per il calcolo della soglia, il RUP o la commissione
giudicatrice procedono al sorteggio, in sede di gara, di uno
dei seguenti metodi: (…)
b) media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le
offerte ammesse, con esclusione del venti per cento
rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle
di minor ribasso arrotondato all'unità superiore, tenuto
conto che se la prima cifra dopo la virgola, della somma dei
ribassi offerti dai concorrenti ammessi è pari ovvero uguale
a zero la media resta invariata; qualora invece la prima
cifra dopo la virgola, della somma dei ribassi offerti dai
concorrenti ammessi è dispari, la media viene decrementata
percentualmente di un valore pari a tale cifra”.
Il c.d. ‘decreto correttivo’ del 2017 ha apportato
una duplice modifica alle disposizioni che qui vengono in
rilievo:
- in primo luogo, ha chiarito che la determinazione della soglia di
anomalia secondo le previsioni in parola e le conseguenti
operazioni di sorteggio sono operate dal RUP ovvero dalla
commissione giudicatrice;
- in secondo luogo, ha chiarito che il c.d. ‘taglio delle ali’
finalizzato alla determinazione della media da assumere
quale base di calcolo per la fissazione della soglia di
anomalia debba interessare il venti per cento delle offerte
ammesse –rispettivamente- con il maggiore e il minore
ribasso, con arrotondamento all’unità superiore (nella
precedente formulazione veniva semplicemente sancita una “esclusione
del 10%”, senza ulteriori indicazioni).
Sempre dal punto di vista normativo va qui chiarito che il
criterio di determinazione della soglia di anomalia di cui
all’articolo 97, comma 2, lettera b), del nuovo ‘Codice
dei contratti’, pur presentando alcuni punti di contatto
con il pregresso criterio determinativo di cui al comma 1
dell’articolo 86 del decreto legislativo 12.04.2006, n 163,
presenta altresì caratteri di indubbia novità, sì da rendere
non utilizzabili (almeno, non in modo integrale) le
acquisizioni conseguite nella vigenza di tale decreto
legislativo.
Come è noto, infatti, il comma 1 dell’articolo 86, cit.
stabiliva che, nel caso di aggiudicazione con il criterio
del prezzo più basso, la verifica di anomalia avrebbe
riguardato le offerte che presentassero “un ribasso pari
o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per
cento, arrotondato all’unità superiore, rispettivamente
delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor
ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei
ribassi percentuali che superano la predetta media”.
Pertanto, per ciò che riguarda la determinazione della
soglia di anomalia nel caso di aggiudicazione con il
criterio del prezzo più basso, le principali novità che qui
mette conto di segnalare rispetto all’attuale comma 2
dell’articolo 97 sono in particolare due.
In primo luogo si segnala che, mentre nel ‘Codice’
del 2006 la determinazione della soglia di anomalia veniva
affidata a un criterio matematico sostanzialmente univoco
(sia pure temperato dal c.d. ‘taglio delle ali’ e dal
meccanismo dell’incremento dello scarto medio aritmetico);
al contrario il ‘Codice’ del 2016 ha affidato il
compito di rendere non predeterminabile la richiamata soglia
al meccanismo del sorteggio fra i diversi possibili metodi
di computo di cui all’articolo 97.
In secondo luogo si segnala che, mentre nel ‘Codice’
del 2006 era palese che le uniche offerte da prendere in
considerazione ai fini del computo della media aritmetica (e
quindi, della soglia di anomalia) fossero quelle ‘ammesse’,
ma al netto del c.d. ‘taglio delle ali’; al contrario
il nuovo ‘Codice’ non fornisce immediata chiarezza
circa le offerte da prendere in considerazione ai fini delle
operazioni di computo di cui al più volte richiamato
articolo 97, comma 2, lettera b).
Ed infatti:
- mentre (ai fini della fissazione della prima media aritmetica dei
ribassi) è del tutto chiaro che essa debba essere
determinata prendendo in considerazione le sole offerte
ammesse a seguito del ‘taglio delle ali’;
- al contrario, non è del tutto chiaro se (ai fini
dell’applicazione del c.d. ‘fattore di correzione’ di
cui al comma 2, lettera b) la locuzione “somma dei
ribassi offerti dai concorrenti ammessi” debba essere
riferita a tutti i concorrenti ammessi in gara, ovvero ai
soli concorrenti residuati all’esito del ‘taglio delle
ali’ di cui alla medesima lettera b).
4. La questione interpretativa appena richiamata risulta
rilevante ai fini della definizione della presente
controversia in quanto (almeno nella prospettazione
dell’appellante)
- laddove si opti (come ha fatto l’appellata ANAS) per
l’interpretazione secondo cui la locuzione “somma dei
ribassi offerti dai concorrenti ammessi” include i soli
concorrenti che residuano al ‘taglio delle ali’,
allora la soglia di anomalia resterebbe fissata nella misura
del 29,310 per cento (con la conseguenza di determinare
l’esclusione automatica dell’appellante, il cui ribasso
percentuale offerto era del 29,497 per cento);
- laddove invece si opti (come auspicato dall’appellante, con
opzione di fatto condivisa dall’ordinanza di rimessione –sul
punto, v. infra-) per l’interpretazione secondo cui la
richiamata locuzione farebbe riferimento, per la
determinazione del fattore di correzione, a tutti i
concorrenti ammessi (i.e.: anche a quelli interessati
dal ‘taglio delle ali’), allora la soglia di anomalia
resterebbe fissata nella misura del 29,606 per cento (con la
conseguenza che la gara dovrebbe essere aggiudicata alla
stessa appellante, la quale avrebbe formulato la prima delle
offerte non anomale).
L’ANAS ha peraltro obiettato che l’appellante avrebbe tenuto
sul punto un contegno ondivago, affermando in un primo
momento che l’adesione alla tesi invocata dalla stessa
appellante avrebbe portato a una soglia di anomalia del
29,393 per cento e, in un secondo momento, che l’adesione a
tale tesi avrebbe portato a una soglia di anomalia del
29,606 per cento.
Si tratta di un aspetto che potrà essere valutato in sede di
decisione di merito e che non impedisce di affrontare la
questione di diritto demandata a questa Adunanza plenaria
nei suoi termini generali.
5. Ora, come puntualmente riferito nell’ambito
dell’ordinanza di rimessione, la previsione di cui
all’articolo 97, comma 2, lettera b), del ‘Codice’ ha
dato luogo ad interpretazioni contrastanti.
5.1. Secondo un primo orientamento (condiviso dal
Collegio remittente) le due parti di cui si compone la
disposizione in esame dovrebbero essere interpretate ed
applicate secondo un criterio di carattere –per così dire– ‘dissociativo’.
In base a tale opzione interpretativa, il Legislatore
avrebbe consapevolmente tenuto distinte:
i) (da un lato) la platea dei concorrenti in relazione ai
quali determinare la media aritmetica dei ribassi (platea
che andrebbe individuata previo il ‘taglio delle ali’)
e
ii) dall’altro, la platea dei concorrenti da prendere in
considerazione al fine della determinazione del c.d. ‘fattore
di correzione’ (platea che andrebbe identificata con
l’intero novero dei concorrenti ammessi, senza ‘taglio
delle ali’).
L’opzione interpretativa in questione è stata di fatto
condivisa dall’ANAS (che vi si è conformata al fine di
determinare la soglia di anomalia), dal primo Giudice e
dallo stesso Collegio remittente.
Fra i principali argomenti a sostegno di tale tesi
(peraltro, puntualmente indicati dall’ordinanza di
rimessione), si richiamano qui:
- l’argomento (di carattere testuale) secondo cui se il Legislatore
avesse inteso escludere le offerte che residuano dopo il
taglio delle ali, oltre che nel calcolo della media, anche
ai fini della determinazione del ‘fattore di correzione’,
avrebbe dovuto stabilirlo in maniera espressa, senza far
ricorso alla generica locuzione “ribassi offerti dai
concorrenti ammessi”;
- l’argomento (di carattere sostanziale) secondo cui le offerte ‘tagliate’
ai fini della media matematica di cui alla prima parte della
disposizione sono e restano offerte ‘ammesse’ ai fini
del ‘fattore di correzione’ di cui alla seconda parte
della medesima disposizione;
- l’argomento (di carattere logico) secondo cui, siccome l’articolo
97, comma 2, lettera b), richiede di effettuare due
operazioni ontologicamente distinte (una media nella prima
parte della disposizione e una sommatoria nella seconda
parte di essa), del tutto coerentemente i termini da tenere
in considerazione ai fini di tali distinte operazioni
dovrebbero restare anch’essi distinti fra loro;
- l’argomento (di carattere sistematico) secondo cui se la ratio
della disposizione nel suo complesso è quella di rendere il
più possibile non predeterminabile la soglia di anomalia,
allora il richiamato criterio ‘dissociativo’ risulterebbe
quello più coerente con la ratio legis, rendendo
ancora più difficilmente predeterminabile la soglia di
anomalia.
5.2. In base a un secondo orientamento (non condiviso
dal Collegio remittente) la disposizione in esame dovrebbe
invece essere intesa secondo un criterio di carattere –per
così dire– ‘associativo’.
Secondo tale opzione la locuzione ‘offerte ammesse’
(al netto del ‘taglio delle ali’) di cui alla prima
parte del comma 2, lettera b) e la locuzione ‘concorrenti
ammessi’ di cui alla seconda parte della disposizione
farebbero riferimento a platee omogenee (ambedue da
individuare previo il ‘taglio delle ali’).
6. L’Adunanza plenaria ritiene che prevalenti ragioni
inducano a propendere per la seconda delle richiamate
opzioni.
6.1. Si osserva in primo luogo al riguardo che l’opzione in
questione risulta ad oggi del tutto prevalente nella
giurisprudenza di appello e che gli assunti logici e
sistematici su cui si fondano i precedenti giurisprudenziali
specifici risultano del tutto persuasivi.
In particolare, le sentenze della Quinta Sezione di questo
Consiglio 23.01.2018, n. 435 e 17.05.2018, n. 2959 hanno
aderito alla soluzione secondo cui, ai fini
dell’applicazione dell’articolo 97, comma 2, lettera b) del
‘Codice dei contratti pubblici’, l’esclusione (rectius:
accantonamento) delle offerte interessate dal taglio delle
ali operi sia in relazione al calcolo della media aritmetica
dei ribassi, sia in relazione alla somma dei ribassi offerti
dai concorrenti ammessi.
In particolare, la seconda delle richiamate decisioni ha
condivisibilmente affermato (richiamando peraltro Cons.
Stato, VI, 17.10.2017, n, 4803) che elementi di carattere
teleologico e sistematico militino nel senso di “[ritenere]
corretta l'interpretazione secondo cui la previa esclusione
(c. d. taglio delle ali) va inclusa anche nel calcolo dello
scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali superiori
alla media”.
Nell’occasione si è sottolineato che non emergono valide
ragioni per cui, una volta eliminate alcune offerte dal
criterio di calcolo, le stesse possano successivamente
rientrare a farne parte.
In modo parimenti condivisibile si è escluso che il
Legislatore abbia inteso applicare il calcolo della media
limitatamente ai ribassi ammessi dopo il taglio delle ali
per poi successivamente calcolare, all’opposto, la somma dei
ribassi prendendo in considerazione tutti i ribassi
originali, seppur già esclusi.
Si è inoltre osservato che ragioni di coerenza sistematica
inducono a ritenere che la sostanziale presunzione su cui si
fonda lo stesso meccanismo del ‘taglio delle ali’ è
tale da non soffrire eccezioni o intermittenze nello
sviluppo logico ed aritmetico della determinazione della
soglia di anomalia. Ne consegue che un metodo di calcolo il
quale prendesse in considerazione tale presunzione ai fini
della prima operazione, ma la escludesse dalla seconda,
risulterebbe intrinsecamente contraddittorio (in tal senso:
Cons. Stato, VI, 4803 del 2017)
Un tale effetto –come già stabilito con il precedente da
ultimo richiamato– si rivelerebbe irragionevolmente
contraddittorio, “poiché farebbe perno su due giudizi di
valore giuridico tra loro antitetici e incompatibili e,
dunque, comprometterebbe la stessa ragion d'essere del primo
accantonamento, peraltro indubitabilmente voluta dalla legge”.
6.2. Si osserva poi che l’opposta soluzione (dinanzi
compendiata nella formula del ‘criterio dissociativo’)
non risulta suffragata –e contrariamente a quanto affermato
nell’ordinanza di rimessione- da elementi testuali di
portata dirimente.
Se infatti il Legislatore, nell’ambito della medesima
disposizione, ha dapprima utilizzato la locuzione “offerte
ammesse” (abbinata al meccanismo del ‘taglio delle
ali’) e poco oltre ha fatto riferimento ai “concorrenti
ammessi”, non se ne inferisce in via necessaria che la
seconda di tali locuzioni risulti incompatibile con il
riferimento al meccanismo del taglio delle ali.
Al contrario, elementi di carattere testuale sembrano
deporre nell’opposto senso per cui l’omogeneo riferimento ad
offerte e concorrenti “ammessi” stia a significare
che in entrambi i casi il sintagma si riferisca a una platea
parimenti omogenea (determinata all’esito del ‘taglio
delle ali’).
6.3. Non risulta poi risolutivo al fine di suffragare la
tesi opposta a quella qui indicata l’argomento secondo cui
le offerte ‘tagliate’ ai fini della media matematica
di cui alla prima parte dell’articolo 97, comma 2, lettera
b), sono e restano offerte ‘ammesse’ ai fini del ‘fattore
di correzione’ di cui alla seconda parte della medesima
disposizione.
Ed infatti, la circostanza secondo cui la disposizione fa
riferimento in ambo i casi ad offerte ‘ammesse’ non
esclude (ma anzi, rafforza) l’esigenza di coerenza interna
volta ad assicurare che in entrambi i casi si faccia
riferimento a una platea di carattere omogeneo.
6.4. Per ragioni del tutto analoghe, il fatto che le due
parti della disposizione facciano riferimento ad operazioni
distinte (la determinazione di una media nel primo caso e di
una sommatoria nel secondo) non indebolisce in alcun modo
–ma semmai rafforza- l’esigenza per cui i termini di computo
siano assunti in modo omogeneo per ciascuna delle due
operazioni
6.5. Non appare inoltre risolutivo l’argomento secondo cui
il criterio di carattere ‘dissociativo’ andrebbe
preferito atteso che la ratio della disposizione nel suo
complesso è quella di rendere il più possibile non
predeterminabile la soglia di anomalia.
Si osserva in senso contrario che l’argomento in parola
poteva risultare persuasivo nella vigenza di un quadro
normativo (quale quello di cui al decreto legislativo n. 163
del 2006) il quale contemplava un’unica modalità per
determinare le offerte anomale nel caso di aggiudicazione
con il criterio del prezzo più basso (ci si riferisce al
criterio di cui all’articolo 86, comma 1, di quel ‘Codice’).
Solo nella vigenza di tale corpus normativo infatti (e a
fronte di dubbi interpretativi) poteva risultare
effettivamente persuasiva l’adesione al criterio che
impedisse in massimo grado la predeterminazione delle medie
di gara da parte dei concorrenti, anche ricorrendo a basi di
computo fra loro disomogenee.
Si osserva tuttavia che, nel diverso sistema introdotto dal
nuovo ‘Codice dei contratti pubblici’, le richiamate
esigenze risultano adeguatamente soddisfatte attraverso la
scelta di demandare al sorteggio l’individuazione del
criterio determinativo della soglia di anomalia.
Non risulta quindi necessario, ai fini di cui sopra, il
ricorso ad ulteriori meccanismi volti ad introdurre elementi
di disomogeneità fra le basi di computo. Il ricorso a
siffatti meccanismi introdurrebbe infatti elementi di
disomogeneità nell’applicazione di una disposizione sotto
ogni altro aspetto coerente, senza che ciò risulti
funzionale all’obiettivo di rendere non predeterminabili le
medie di gara (obiettivo il cui perseguimento è invece
affidato al meccanismo del sorteggio).
6.6. Si osserva infine che anche l’ANAC (sia pure con atti
di portata non vincolante) ha aderito all’opzione
interpretativa di cui sopra.
In particolare, le Linee Guida n. 4 (recanti “Procedure
per l’affidamento dei contratti pubblici di importo
inferiore alle soglie di rilevanza comunitaria, indagini di
mercato e formazione e gestione degli elenchi di operatori
economici”, nel testo aggiornato con la delibera n, 206
del 01.03.2018), al punto 5.2.6, sub k) hanno stabilito che
“nel caso di sorteggio del metodo di cui all’articolo 97,
comma 2, lettera b), del Codice dei contratti pubblici, una
volta operato il cosiddetto taglio delle ali, occorre
sommare i ribassi percentuali delle offerte residue e,
calcolata la media aritmetica degli stessi, applicare
l’eventuale decurtazione stabilita della norma tenendo conto
della prima cifra decimale del numero che esprime la
sommatoria dei ribassi”.
Si tratta, in definitiva, di un approccio del tutto
coincidente con quello condiviso dall’orientamento
giurisprudenziale ad oggi prevalente.
7. In conclusione l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato
enuncia il seguente principio di diritto: “l’articolo
97, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 50 del 2016
(‘Codice dei contratti pubblici’) si interpreta nel senso
che la locuzione “offerte ammesse” (al netto del c.d.
‘taglio delle ali’) da prendere in considerazione ai fini
del computo della media aritmetica dei ribassi e la
locuzione “concorrenti ammessi” da prendere in
considerazione al fine dell’applicazione del fattore di
correzione fanno riferimento a platee omogenee di
concorrenti.
Conseguentemente, la somma dei ribassi offerti dai
concorrenti ammessi (finalizzata alla determinazione del
fattore di correzione) deve essere effettuata con
riferimento alla platea dei concorrenti ammessi, ma al netto
del c.d. ‘taglio delle ali’”. |
IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
L’Adunanza plenaria pronuncia sulla rideterminazione del
contributo di costruzione e sulla tutela del privato con
l’azione di accertamento.
---------------
●
Edilizia – Oneri di costruzione – Determinazione – Termine
di prescrizione decennale.
●
Edilizia – Oneri di costruzione – Rideterminazione – Termine
di prescrizione decennale – Tutela del privato – Azione di
accertamento.
●
Edilizia – Oneri di costruzione – Rideterminazione – Art.
1431 c.c. – Inapplicabilità – Ratio.
●
Edilizia – Oneri di costruzione – Rideterminazione – Buona
fede del privato – Riconoscimento – Limiti.
●
Gli atti con i quali la Pubblica amministrazione determina e
liquida il contributo di costruzione, previsto dall’art. 16,
d.P.R. n. 380 del 2001, non hanno natura autoritativa, non
essendo espressione di una potestà pubblicistica, ma
costituiscono l’esercizio di una facoltà connessa alla
pretesa creditoria riconosciuta dalla legge al Comune per il
rilascio del permesso di costruire, stante la sua onerosità,
nell’ambito di un rapporto obbligatorio a carattere
paritetico e soggetta, in quanto tale, al termine di
prescrizione decennale, sicché ad essi non possono
applicarsi né la disciplina dell’autotutela dettata
dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più in
generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per
gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio (1).
●
La Pubblica amministrazione, nel corso del rapporto
concessorio, può sempre rideterminare, sia a favore che a
sfavore del privato, l’importo del contributo di
concessione, in principio erroneamente liquidato,
richiedendone o rimborsandone a questi la differenza
nell’ordinario termine di prescrizione decennale (art. 2946
c.c.) decorrente dal rilascio del titolo edilizio, senza
incorrere in alcuna decadenza, mentre per parte sua il
privato non è tenuto ad impugnare gli atti determinativi del
contributo nel termine di decadenza, potendo ricorrere al
giudice amministrativo, munito di giurisdizione esclusiva ai
sensi dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo
termine di dieci anni, anche con un’azione di mero
accertamento (2).
●
L’amministrazione comunale, nel rideterminare l’importo del
contributo di concessione con atti non aventi natura
autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato, ai
sensi dell’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241 del 1990, senza
che sia applicabile la disciplina dell’errore riconoscibile
di cui all’art. 1431 c.c., in quanto l’errore nella
liquidazione del contributo, compiuto dalla pubblica
amministrazione, non attiene ad elementi estranei o ignoti
alla sfera del debitore ed è quindi per lui in linea di
principio riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione
delle tabelle parametriche, che al privato sono o devono
essere ben note, o è determinato da un mero errore di
calcolo, ben percepibile dal privato, errore che dà luogo
alla semplice rettifica (3).
●
La tutela dell’affidamento e il principio della
buona fede, che in via generale devono essere osservati
anche dalla pubblica amministrazione dell’attuazione del
rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione in caso
di rideterminazione del contributo di costruzione nella
quale, ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività
dei parametri da applicare al contributo di costruzione, di
cui all’art. 16, d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato
il conteggio da parte della pubblica amministrazione,
consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità
da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo
nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e
verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza
richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375
c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta
all’attuazione del rapporto obbligatorio e al
soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal
Comune.
---------------
La questione era
stata rimessa all’Adunanza plenaria da
C.g.a. 27.03.2018, n. 175.
(1) Ha chiarito l’Alto Consesso che la peculiare natura del titolo
edilizio –la concessione edilizia della l. n. 10 del 1977 e,
ora, il permesso di costruire del d.P.R. n. 380 del 2001–
induce a ritenere che esso, al di là del suo carattere
sostanzialmente autorizzatorio, sia comunque, direttamente o
indirettamente, attributivo, per il privato, di rilevanti
benefici economici, a fronte dei quali è previsto in termini
di controprestazione il pagamento di una somma di danaro,
appunto il contributo di costruzione (sulla cui natura v.
Cons. St., A.P., 07.12.2016, n. 24), non
altrimenti qualificabile che come corrispettivo di diritto
pubblico.
L’Adunanza plenaria ha quindi affermato che al quesito
inerente alla natura, privatistica o pubblicistica, degli
atti con i quali l’amministrazione comunale determina o
ridetermina il contributo di costruzione, di cui all’art.
16, d.P.R. n. 380 del 2001, debba rispondersi con la
riaffermazione della loro natura privatistica.
Il contributo per gli oneri di urbanizzazione è un
corrispettivo di diritto pubblico, di natura non tributaria,
posto a carico del concessionario a titolo di partecipazione
ai costi delle opere di urbanizzazione e in proporzione
dell’insieme dei benefici che la nuova costruzione acquista,
senza alcun vincolo di scopo in relazione alla zona
interessata alla trasformazione urbanistica e
indipendentemente dalla concreta utilità che il
concessionario può conseguire dal titolo edificatorio e
dall’ammontare delle spese effettivamente occorrenti per la
realizzazione delle opere (Cons.
St., sez. IV, 05.05.2017, n. 2055).
L’obbligazione di corrispondere il contributo nasce nel
momento in cui viene rilasciato il titolo ed è a tale
momento che occorre aver riguardo per la determinazione
dell’entità del contributo (Cons.
St., sez. IV, 30.11.2015, n. 5412; id.,
sez. V, 13.06.2003, n. 3332).
L’atto di imposizione e di liquidazione del contributo,
quale corrispettivo di diritto pubblico richiesto per la
compartecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione,
non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di
una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto
ricognitivo e contabile, in applicazione di rigidi e
prestabiliti parametri regolamentari e tabellari. Gli oneri
di urbanizzazione, ai sensi dell’art. 16, comma 3, d.P.R. n.
380 del 2001, sono corrisposti sulla base delle tabelle
parametriche, predisposte dalle Regioni, tabelle che devono
essere recepite dal Comune in una propria deliberazione,
atto amministrativo generale impugnabile solo con il
concreto provvedimento applicativo.
La costante giurisprudenza del Consiglio di Stato ha sempre
ribadito che il contributo per gli oneri di urbanizzazione,
per quanto non abbia natura tributaria, costituisce,
comunque, un corrispettivo di diritto pubblico posto a
carico del costruttore, connesso al rilascio della
concessione edilizia, a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all’insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae, e che «per la determinazione di
esso deve essere fatto necessario ed esclusivo riferimento
alle norme di legge che regolano i relativi criteri di
conteggio, norme che vanno rigorosamente rispettate anche in
osservanza del principio di cui all’art. 23 della
Costituzione , secondo il quale nessuna prestazione
patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge»
(Cons.
St., sez. V, 21.04.2006, n. 2228).
L’affermazione secondo cui il contributo di costruzione
costituisce una prestazione patrimoniale imposta e rientra a
tale titolo nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico in
quanto necessariamente legata al rilascio del titolo
edilizio, tuttavia, non comporta ex se che i relativi
atti di determinazione abbiano necessariamente carattere
autoritativo, si colorino, per così dire, di imperatività e
siano espressione di potestà pubblicistica. Il privato che
intende ottenere il permesso di costruire ha avanti a sé la
scelta di corrispondere il contributo di costruzione o di
rinunciare al rilascio del titolo. Effettuata questa scelta,
che comporta la necessaria corresponsione del corrispettivo
di diritto pubblico, il pagamento di questo, esclusa
pacificamente la sua natura tributaria, non può che
costituire l’oggetto di un ordinario rapporto obbligatorio,
disciplinato dalle norme di diritto privato, come prescrive
l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241 del 1990, salvo che la
legge disponga diversamente.
È vero che il credito dell’amministrazione, per la sua
particolare finalità, è assistito da particolari sanzioni e
da speciali procedure coattive di riscossione, come ha pure
ricordato la stessa
Adunanza plenaria nella sentenza n. 24 del 2016
richiamando le disposizioni di cui agli artt. 42 e 43,
d.P.R. n. 380 del 2001, ma ciò non contrasta con la
fondamentale natura del rapporto obbligatorio paritetico
inerente al pagamento del contributo e accessorio al
rilascio del permesso di costruire. Anche la disciplina
degli atti non autoritativi della pubblica amministrazione
può conoscere, infatti, previsioni derogatorie rispetto alla
ordinaria disciplina privatistica, come prevede chiaramente
l’art. 1, comma 1-bis, l. n. 241 del 1990, senza che ciò
comporti lo snaturamento del rapporto paritetico che ne è
alla base, la loro integrale attrazione alla sfera
pubblicistica o, nel caso di specie, l’assimilazione ad una
fattispecie paraimpositiva di stampo tributario.
L’Adunanza plenaria ha quindi escluso che a tali rapporti di
natura meramente obbligatoria e agli atti iure gestionis,
di carattere contabile e aventi finalità liquidatoria,
adottati dal Comune, si applichi la disciplina dell’autotutela
di cui all’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990 o, più in
generale, la disciplina dettata dalla stessa l. n. 241 del
1990 per gli atti provvedimentali espressivi di potestà
pubblicistica.
(2) Ha ricordato l’Adunanza plenaria che la natura paritetica
dell’atto di determinazione consente che la pubblica
amministrazione possa apportarvi modifiche, sia in favore
del privato che in senso contrario, purché ciò avvenga nei
limiti della prescrizione decennale del relativo diritto di
credito (Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n. 6033; id.
17.09.2010, n. 6950). Si tratta, infatti, di una
determinazione che obbedisce a prescrizioni desumibili da
tabelle, in ordine alla quale l’amministrazione comunale si
limita ad applicare dei parametri, aventi per la stessa
natura cogente, laddove è esclusa qualsivoglia
discrezionalità applicativa (Cons. St., sez. IV, 28.11.2012,
n. 6033).
Ha ancora ricordato l’Alto Consesso come la giurisprudenza è
consolidata nell’affermare che la controversia in ordine
alla spettanza e alla liquidazione del contributo per gli
oneri di urbanizzazione, riservata alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo a norma dell’art. 16,
l. n. 10 del 1977 e, oggi, dell’art. 133, comma 1, lett. f),
c.p.a., ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di
credito a prescindere dall’esistenza di atti della pubblica
amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni
impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai
rispettivi termini di decadenza.
(3) L’Adunanza plenaria ha escluso che in caso di rideterminazione
del quantum del contributo di costruzione sia applicabile la
disciplina dell’errore riconoscibile, di cui all’art. 1431
c.c.. l’applicazione delle tabelle parametriche da parte
dell’amministrazione comunale, per quanto complessa,
costituisce comunque una operazione contabile che, essendo
al privato ben note dette tabelle, questi può verificare
nella sua esattezza, anzitutto con l’ausilio del progettista
che l’assiste nella presentazione della propria istanza, con
un ordinario sforzo di diligenza, richiedibile secondo il
canone della buona fede al debitore già solo, e anzitutto,
nel suo stesso interesse, per evitare che gli venga
richiesto meno o più del dovuto.
La complessità delle operazioni di calcolo o l’eventuale
incertezza nell’applicazione di alcune tabelle o
coefficienti determinativi, dovuti a ragioni di ordine
tecnico, non sono eventi estranei o ignoti alla sfera del
debitore, che invece con l’ordinaria diligenza, richiesta
dagli artt. 1175 e 1375 c.c., può e deve controllarne
l’esattezza sin dal primo atto di loro determinazione.
Certamente, e a sua volta, il Comune ha l’obbligo di
adoperarsi affinché la liquidazione del contributo di
costruzione venga eseguita nel modo più corretto, sollecito,
scrupoloso e preciso, sin dal principio, ma la
collaborazione tra l’autorità comunale e il privato
richiedente, in una visione del diritto amministrativo
improntata al principio di buon andamento e alla legalità
sostanziale, è imprescindibile in questa materia, già solo
sul piano dell’interlocuzione procedimentale, e non può
certo affermarsi, proprio per questo, una incomunicabilità o
inconoscibilità tra la sfera dell’una e quella dell’altro
che porti all’applicazione dell’art. 1431 c.c., quasi che
l’iniziale errore nell’applicazione delle tabelle o dei
coefficienti, da parte dell’autorità comunale, sia un fatto
“del tutto naturalmente” incomprensibile o
imponderabile dal privato perché puramente interno alla
sfera dell’amministrazione creditrice
(Consiglio
di Stato, A.P.,
sentenza 30.08.2018 n. 12 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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SENTENZA
1. L’Adunanza plenaria ritiene che ai tre quesiti
posti dal Consiglio di giustizia amministrativa per la
Regione Siciliana con l’ordinanza n. 175 del 17.03.2018
debbano darsi le risposte che seguono.
2. Con il primo quesito, come si è accennato
nell’esposizione del fatto (v., supra, §4), il Consiglio
chiede all’Adunanza se la rideterminazione degli oneri
concessori sia estrinsecazione di un potere autoritativo, da
parte della pubblica amministrazione, nell’ambito dell’autotutela
pubblicistica soggetta ai presupposti e ai requisiti
dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 o sia
espressione di una sua legittima facoltà, nell’ambito del
rapporto paritetico di natura creditizia, conseguente al
rilascio del titolo edilizio a carattere oneroso, sottoposto
nelle sue forme di esercizio al termine prescrizionale
ordinario.
2.1. A tale quesito si deve rispondere che la
rideterminazione degli oneri concessori costituisce
l’esercizio di una legittima facoltà nell’ambito di un
rapporto paritetico tra la pubblica amministrazione e il
privato.
2.2. Questa Adunanza non ignora, invero, come non sia
tuttora sopito il dibattito in ordine alla natura giuridica
e al corretto inquadramento del contributo di costruzione,
previsto dal vigente art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001,
dibattito legato, inscindibilmente, anche alla vexata
quaestio dell’inerenza del c.d. ius aedificandi
al diritto di proprietà (su cui v., per tutte, Corte cost.,
30.01.1980, n. 5, Cons. St., sez. V, 19.02.1982, n. 122).
2.3. Non è questa ovviamente la sede per ripercorrere
siffatta questione, ora comunque superata dalla ormai
riconosciuta natura autorizzatoria del permesso di
costruire, ma basti dire, ai fini che qui rilevano, che la
peculiare natura del titolo edilizio –la concessione
edilizia della l. n. 10 del 1977 e, ora, il permesso di
costruire del d.P.R. n. 380 del 2001– induce a ritenere che
esso, al di là del suo carattere sostanzialmente
autorizzatorio, sia comunque, direttamente o
indirirettamente, attributivo, per il privato, di rilevanti
benefici economici, a fronte dei quali è previsto in termini
di controprestazione il pagamento di una somma di danaro,
appunto il contributo di costruzione, non altrimenti
qualificabile che come corrispettivo di diritto pubblico.
2.4. La stessa ordinanza n. 175 del 27.03.2018 ha ricordato,
in modo completo e approfondito, quale sia la consolidata
giurisprudenza amministrativa in questa materia, seppure con
alcune significative divergenze, di cui si dirà oltre, in
ordine alla disciplina civilistica da applicare alla
rideterminazione del contributo di costruzione, previsto
dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001.
3. Occorre qui richiamare in premessa, salvo poi soffermarsi
su di essi con maggiore attenzione nel prosieguo della
trattazione, i principî affermati di recente da questa
Adunanza plenaria nella sentenza n. 24 del 07.12.2016
riguardo alla natura del contributo di costruzione dovuto
dal soggetto che intraprenda un’iniziativa edificatoria.
3.1. Detto contributo, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n.
380 del 2001 e articolato nelle due voci inerenti agli oneri
di urbanizzazione e al costo di costruzione (prescindendo
qui dalla singola funzione, e natura, di dette voci),
rappresenta, secondo la qualificazione datane da questa
stessa Adunanza plenaria, una compartecipazione del privato
alla spesa pubblica occorrente alla realizzazione delle
opere di urbanizzazione.
3.2. In altri termini, fin dalla legge che ha introdotto
nell’ordinamento il principio della onerosità del titolo a
costruire (art. 1 della l. n. 10 del 1977), la ragione della
compartecipazione alla spesa pubblica del privato è da
ricollegare sul piano eziologico al surplus di opere
di urbanizzazione che l’amministrazione comunale è tenuta ad
affrontare in relazione al nuovo intervento edificatorio del
richiedente il titolo edilizio.
3.3. Il contributo per il rilascio del permesso di costruire
ha natura di prestazione patrimoniale imposta, di carattere
non tributario, ed ha carattere generale, prescindendo
totalmente delle singole opere di urbanizzazione che devono
in concreto eseguirsi, venendo altresì determinato
indipendentemente sia dall’utilità che il concessionario
ritrae dal titolo edificatorio sia dalle spese
effettivamente occorrenti per realizzare dette opere.
3.4. In sostanza, le opere di urbanizzazione –per la cui
remunerazione il contributo viene imposto– hanno spesso
portata più ampia rispetto a quelle strettamente necessarie
ad urbanizzare il nuovo insediamento edilizio posto in
essere da chi abbia ottenuto il titolo edilizio ed hanno
quindi sovente natura indivisibile, nel senso che non sono
frazionabili in porzioni funzionali al soddisfacimento delle
esigenze dei singoli nuovi insediati.
3.5. In ragione di tanto, per l’esecuzione di dette opere,
da realizzare in conseguenza del fatto edificatorio in sé
considerato, l’amministrazione comunale attinge normalmente
alla fiscalità generale, senza necessariamente attendere il
pagamento del contributo da parte dell’obbligato, e quindi a
prescindere dal suo puntuale adempimento.
3.6. Per tale motivo, quand’anche risultino trasfuse in una
apposita convenzione urbanistica, le prestazioni da
adempiere da parte dell’amministrazione comunale e del
privato intestatario del titolo edilizio non sono tra loro
in posizione sinallagmatica.
3.7. L’amministrazione comunale, infatti, è tenuta ad
eseguire le opere di urbanizzazione e a dotare degli
indispensabili standard il comparto ove viene allocato il
nuovo insediamento edilizio a prescindere dal puntuale
pagamento del contributo di costruzione da parte del
soggetto che abbia ottenuto il titolo edilizio; per parte
sua, questi è tenuto al pagamento del contributo senza poter
pretendere la previa realizzazione delle opere di
urbanizzazione.
3.8. Da ciò discende che il soggetto obbligato sia tenuto a
corrispondere il contributo di costruzione nel rispetto dei
termini convenuti e che l’amministrazione comunale deve
eseguire le opere di urbanizzazione in coerenza, anche sul
piano temporale, allo sviluppo edilizio del territorio.
3.9. Tali, in sintesi, sono i principî che l’Adunanza
plenaria ha affermato in subiecta materia sulla
scorta, peraltro, di un consolidato indirizzo ermeneutico
del giudice amministrativo.
4. Occorre adesso esaminare, proprio alla luce di questi
fondamentali principî, il primo quesito posto
dall’ordinanza di rimessione.
4.1. Questa ricorda che secondo una prima tesi, seguita
dallo stesso Consiglio di giustizia amministrativa (nelle
sentenze nn. 64, 188, 244, 373, 422 e 790 del 2007), la
determinazione del contributo darebbe luogo ad un rapporto
paritetico che, seppur azionabile da ambo le parti nel
rispetto del termine prescrizionale ordinario di dieci anni,
si cristallizzerebbe nel quantum al momento del rilascio del
titolo edilizio, nel senso che lo stesso non sarebbe
suscettibile di modifiche successive (se non nei casi di
manifesto errore di calcolo), in quanto, in applicazione dei
principi desumibili dalla disciplina dei contratti, non
darebbe mai luogo ad un errore riconoscibile (donde
l’intangibilità pressoché assoluta della originaria
determinazione amministrativa).
4.2. In base a tale approccio ermeneutico, come pure ben
rammenta l’ordinanza di rimessione, non vi sarebbe ragione
per l’applicazione dell’istituto dell’autotutela
amministrativa per la eventuale rideterminazione del
contributo, proprio perché il rapporto inter partes è
di natura paritetica, né vi sarebbe spazio per una modifica
successiva per errore perché questo, in quanto maturato
nella sfera riservata della pubblica amministrazione,
sarebbe per definizione non riconoscibile e quindi
irrilevante, con la conseguenza che si dovrebbe sempre
salvaguardare la tutela dell’affidamento della parte
privata.
4.3. Un’altra tesi, fatta propria in alcune sentenze della
sez. IV di questo Consiglio di Stato (cfr., in particolare,
Cons. St., sez. IV, 27.09.2017 n. 4515, Cons. St., sez. IV,
12.06.2017 n. 2821), benché muova da una analoga
impostazione sulla natura paritetica del rapporto, giunge
tuttavia a conclusioni opposte.
4.4. Si è osservato, infatti, che proprio perché si tratta
di un rapporto di debito-credito di natura paritetica,
soggetto a prescrizione decennale, la rettifica sarebbe
sempre possibile sia in bonam che in malam partem,
entro il limite della prescrizione del diritto reciproco
delle parti alla correzione delle esatte somme dovute,
perché per un verso il procedimento sarebbe svincolato dal
rispetto delle condizioni legali di esercizio dell’autotutela
amministrativa (in particolare, di quelle previste all’art.
21-nonies della l. n. 241 del 1990) e, per altro verso, la
rideterminazione del contributo dovuto secondo rigidi
parametri regolamentari o tabellari non soltanto sarebbe
possibile, ma costituirebbe atto dovuto, residuando
altrimenti un indebito oggettivo, inammissibile nei rapporti
di diritto amministrativo.
4.5. Più in particolare, osserva ancora l’ordinanza di
rimessione, nella sentenza n. 2821 del 2017 di questo
Consiglio di Stato si afferma che, in sostanza,
l’applicazione di una tariffa diversa da quella corretta
altro non è che un errore di calcolo della tariffa, sicché
vi sarebbe sempre spazio per la rettifica, purché si tratti
della tariffa vigente all’epoca del rilascio del titolo
edilizio (con esclusione quindi di ogni forma di
applicazione di regimi tariffari in via retroattiva).
4.6. Entrambe le tesi, osserva il Consiglio di giustizia
amministrativa, muoverebbero dal rilievo, ampiamente diffuso
nella giurisprudenza amministrativa, secondo cui le
controversie in tema di determinazione della misura dei
contributi edilizi concernono l’accertamento di diritti
soggettivi che traggono origine direttamente da fonti
normative, sicché sarebbero proponibili, a prescindere
dall’impugnazione di provvedimenti dell’amministrazione, nel
termine di prescrizione (Cons. St., sez. IV, 20.11.2012 n.
6033; Cons. St., sez. V, 04.05.1992, n. 360) e ribadiscono
che si tratta di rapporto creditorio paritetico, ma
pervengono, come detto, a conclusioni assai diversificate
sul piano della tutela da apprestare alla parte privata che,
come nel caso di specie, abbia subito una rideterminazione
in peius.
5. L’ordinanza di rimessione individua, tuttavia, una
posizione diversa e innovativa rispetto ai riferiti
orientamenti giurisprudenziali, quantomeno in ordine alla
impostazione teorica delle questioni, in un’altra sentenza
della quarta sezione del Consiglio di Stato (cfr. Cons. St.,
sez. IV, 21.12.2016, n. 5402).
5.1. Nella vicenda esaminata da detta pronuncia il rapporto
nascente dalla determinazione del contributo (nel caso
esaminato, di costruzione) è attratto nell’orbita del regime
di diritto pubblico, in quanto qualificato prestazione
patrimoniale imposta di carattere non tributario, con la
conseguente applicabilità, in astratto, delle regole dell’autotutela
amministrativa.
5.2. E tuttavia, sul piano della tutela dell’affidamento
della parte privata rispetto ad una delibera di giunta
comunale di rideterminazione del contributo di costruzione
(sia pur di adeguamento alla soglia minima del 5% fissata
dalla legge nazionale all’art. 16, comma 3, del d.P.R. n.
380 del 2001), si afferma che le garanzie partecipative (in
particolare quelle di cui all’art. 10-bis della l. n. 241
del 1990) devono essere pur sempre coordinate con le
previsioni dell’art. 21-octies della l. cit. e con le
esigenze di finalizzazione del procedimento con
l’applicazione della tariffa dovuta.
5.3. Si richiama al proposito la giurisprudenza del
Consiglio di Stato sul recupero di somme indebitamente
corrisposte dalla amministrazione (Cons. St., sez. V,
30.12.2015, n. 5863), fattispecie che viene assimilata a
quella di causa, relativa a somme dovute dal privato e non
riscosse dall’ente comunale.
5.4. Al di là del contenuto negativo delle statuizioni sui
singoli capi di domanda, osserva ancora l’ordinanza di
rimessione, la decisione si segnalerebbe per il «cambio
di passo» rispetto ai precedenti arresti della medesima
sezione in ordine all’inquadramento generale nei sensi
anzidetti dell’istituto del contributo previsto dall’art. 16
del d.P.R. n. 380 del 2001.
5.5. In tale contesto, aggiunge ancora l’ordinanza di
rimessione, non potrebbe non farsi menzione di quanto
affermato dalla Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
nella sentenza n. 24 del 2016, di cui si è già detto in
premessa.
5.6. In tale decisione, resa sulla diversa questione della
applicabilità delle sanzioni per ritardo nel pagamento dei
contributi, pur in presenza di una polizza fideiussoria a
garanzia del debito del contributo ammesso a dilazione, si è
tra l’altro affermato –per quel che qui rileva– che il
contributo dovuto dal privato in occasione del ritiro di un
permesso di costruire, quale prestazione patrimoniale
imposta funzionale a remunerare l’esecuzione di opere
pubbliche, si colloca pacificamente nell’alveo dei rapporti
di diritto pubblico.
5.7. Si è in particolare affermato che il contributo di
costruzione dovuto dal soggetto che intraprenda
un’iniziativa edificatoria rappresenta una compartecipazione
del privato alla spesa pubblica occorrente alla
realizzazione delle opere di urbanizzazione e ha natura di
prestazione patrimoniale imposta, di carattere non
tributario.
5.8. Per tale motivo, dunque, le prestazioni da adempiere da
parte dell’amministrazione comunale e del privato
intestatario del titolo edilizio non sono tra loro in
posizione sinallagmatica, con la conseguenza che il soggetto
obbligato è tenuto a corrispondere il contributo di
costruzione nel rispetto dei termini stabiliti.
5.9. Il suo mancato pagamento legittima quindi
l’Amministrazione ad esercitare il suo potere-dovere in
ordine all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in
rapporto all’entità del ritardo, ai sensi dell’art. 42 del
d.P.R. n. 380 del 2001, e, in caso di persistenza
dell’inadempimento, alla riscossione del contributo e delle
sanzioni secondo le norme vigenti in materia di riscossione
coattiva delle entrate, ai sensi dell’art. 43 dello stesso
d.P.R. n. 380 del 2001.
6. Le conclusioni raggiunte dall’Adunanza plenaria, secondo
l’ordinanza di rimessione, meriterebbero condivisione,
quantomeno se restano ferme le conclusioni sulla natura di
prestazione patrimoniale imposta del contributo di cui si
controverte e sul suo carattere non sinallagmatico rispetto
agli interventi di urbanizzazione che mettono capo all’ente
pubblico, secondo un livello di programmazione temporale e
qualitativo sul quale il privato non avrebbe titolo per
interferire.
6.1. L’ascrizione all’alveo dei rapporti di diritto pubblico
del contributo in questione imporrebbe quindi, in via
consequenziale, l’applicazione del regime proprio dell’autotutela
amministrativa all’attività di rideterminazione delle somme
dovute a tal titolo dalla parte privata, quantomeno nei casi
in cui non si tratti di por mano ad un semplice errore
materiale di calcolo desumibile dagli atti del procedimento
ovvero non si tratti di rideterminazione imposta
dall’adozione di un nuovo provvedimento abilitativo
edilizio, anche semplicemente per effetto della intervenuta
decadenza temporale del primo (ma qui si resterebbe in ogni
caso fuori dall’ambito dell’autotutela).
6.2. L’ordinanza di rimessione esprime una preferenza
rispetto alle suindicate opzioni ermeneutiche e osserva che
la soluzione da ultimo proposta, oltre a recuperare coerenza
sul piano dogmatico con il sistema giuridico di riferimento,
si rivelerebbe più appropriata anche in ordine al miglior
grado di contemperamento delle esigenze pubblicistiche
sottese alla corretta determinazione del contributo dovuto
(e alla salvaguardia degli interessi erariali), anche in
sede di emenda di precedenti errori di quantificazione, e le
esigenze di tutela della parte privata riguardo
all’affidamento riposto nella originaria determinazione
dell’ente.
6.3. A tale ultimo proposito, infatti, soccorrerebbero gli
istituti posti a presidio delle garanzie partecipative
previsti per l’attività amministrativa di secondo grado,
oltre che naturalmente il rispetto delle stesse condizioni
legali di legittimo esercizio dell’autotutela, avuto
riguardo ai tempi, alle forme ed ai contenuti motivazionali
dell’atto espressivo del c.d. ius poenitendi (cfr.,
in particolare, artt. 21-quinquies, 21-octies e 21-nonies
della l. n. 241 del 1990).
7. L’Adunanza plenaria osserva che al quesito inerente alla
natura, privatistica o pubblicistica, degli atti con i quali
l’amministrazione comunale determina o ridetermina il
contributo di costruzione, di cui all’art. 16 del d.P.R. n.
380 del 2001, debba rispondersi con la riaffermazione della
loro natura privatistica, sin qui ribadita dalla
giurisprudenza di questo Consiglio.
7.1. E in particolare, per quanto attiene alla specifica
vicenda di cui è causa, va qui ribadito, in conformità
all’orientamento sin qui ricordato, che il contributo per
gli oneri di urbanizzazione è un corrispettivo di diritto
pubblico, di natura non tributaria, posto a carico del
concessionario a titolo di partecipazione ai costi delle
opere di urbanizzazione e in proporzione dell’insieme dei
benefici che la nuova costruzione acquista, senza alcun
vincolo di scopo in relazione alla zona interessata alla
trasformazione urbanistica e indipendentemente dalla
concreta utilità che il concessionario può conseguire dal
titolo edificatorio e dall’ammontare delle spese
effettivamente occorrenti per la realizzazione delle opere (Cons.
St., sez. IV, 05.05.2017, n. 2055).
7.2. L’obbligazione di corrispondere il contributo nasce,
come è noto, nel momento in cui viene rilasciato il titolo
ed è a tale momento che occorre aver riguardo per la
determinazione dell’entità del contributo (Cons. St., sez.
IV, 30.11.2015, n. 5412, ma v. anche Cons. St., sez. V,
13.06.2003, n. 3332).
7.3. L’atto di imposizione e di liquidazione del contributo,
quale corrispettivo di diritto pubblico richiesto per la
compartecipazione ai costi delle opere di urbanizzazione,
non ha natura autoritativa né costituisce esplicazione di
una potestà pubblicistica, ma si risolve in un mero atto
ricognitivo e contabile, in applicazione di rigidi e
prestabiliti parametri regolamentari e tabellari.
7.4. Va ricordato, infatti, che gli oneri di urbanizzazione,
ai sensi dell’art. 16, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001,
sono corrisposti sulla base delle tabelle parametriche,
predisposte dalle Regioni, tabelle che devono essere
recepite dal Comune in una propria deliberazione, atto
amministrativo generale impugnabile solo con il concreto
provvedimento applicativo.
7.5. La determinazione degli oneri di urbanizzazione si
correla ad una precisa disciplina regolamentare, con la
conseguenza che, per costante orientamento
giurisprudenziale, i provvedimenti applicativi della stessa
non richiedono alcuna puntuale motivazione allorché le
scelte operate dalla pubblica amministrazione si conformino
ai criterî stessi di cui alle tabelle parametriche (Cons. St.,
sez. V, 09.02.2001, n. 584).
7.6. Per l’altrettanto consolidata giurisprudenza del
Consiglio di Stato, la natura paritetica dell’atto di
determinazione consente che la pubblica amministrazione
possa apportarvi modifiche, sia in favore del privato che in
senso contrario, purché ciò avvenga nei limiti della
prescrizione decennale del relativo diritto di credito (v.,
inter multas, Cons. St., sez. IV, 28.11.2012, n.
6033, Cons. St., sez. IV, 17.09.2010, n. 6950).
7.7. Si tratta, infatti, di una determinazione che obbedisce
a prescrizioni desumibili da tabelle, in ordine alla quale
l’amministrazione comunale si limita ad applicare dei
parametri, aventi per la stessa natura cogente, laddove è
esclusa qualsivoglia discrezionalità applicativa (Cons. St.,
sez. IV, 28.11.2012, n. 6033).
7.8. La giurisprudenza è consolidata, per parte sua,
nell’affermare, che la controversia in ordine alla spettanza
e alla liquidazione del contributo per gli oneri di
urbanizzazione, riservata alla giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo a norma dell’art. 16 della l. n. 10
del 1977 e, oggi, dell’art. 133, comma 1, lett. f), c.p.a.,
ha ad oggetto l’accertamento di un rapporto di credito a
prescindere dall’esistenza di atti della pubblica
amministrazione e non è soggetta alle regole delle azioni
impugnatorie-annullatorie degli atti amministrativi e ai
rispettivi termini di decadenza.
7.9. La natura non autoritativa dei relativi atti e
l’assenza di discrezionalità, nell’ambito di un rapporto
paritetico tra la pubblica amministrazione e il privato,
rendono perciò concettualmente inconfigurabile l’esercizio
dell’autotutela pubblicistica, quale potere di secondo grado
che viene incidere, secondo determinati presupposti e
limiti, su un primigenio episodio di esercizio del potere
autoritativo, che qui non sussiste ab origine (cfr.,
sul punto, Cons. St., sez. IV, 12.06.2017, n. 2821; Cons. St.,
sez. IV, 27.09.2017, n. 4515).
8. E del resto, anche in riferimento alla contigua
fattispecie del recupero delle somme indebitamente percepite
dal pubblico dipendente, la giurisprudenza di questo
Consiglio di Stato ha ritenuto non accettabile il richiamo
alla teoria, secondo la quale il recupero di una somma da
parte della pubblica amministrazione presupporrebbe
l’annullamento, in sede di autotutela, del provvedimento
recante la determinazione dell’emolumento in misura maggiore
di quella dovuta.
8.1. Invero, ove pure si prescinda dalla considerazione che
tale teoria si concreta, sovente, in una fictio iuris,
mancando del tutto un provvedimento siffatto, «quest’ultimo,
anche ove esistente, si risolve nella rideterminazione della
somma effettivamente spettante per legge (o per contratto),
in luogo di quella erroneamente corrisposta, onde, una volta
affermata la doverosità della sua adozione, esso non può che
partecipare della stessa natura paritetica dell’atto che va
a rimuovere, concretandosi in null’altro che in un diverso
accertamento dell’entità del debito retributivo della p.a. e
del correlato credito del dipendente» (Cons. St., sez.
VI, 20.04.2004, n. 2203).
9. L’Adunanza plenaria ritiene che, peraltro, al nuovo
indirizzo interpretativo, che sembrerebbe delinearsi nella
sentenza n. 5402 del 21.12.2016 della IV sezione di questo
Consiglio di Stato e nella stessa pronuncia n. 24 del 2016
di questa Adunanza, non possa attribuirsi il significato
sistematico, con tutte le conseguenti ricadute applicative
in termini di disciplina applicabile, che l’ordinanza di
rimessione loro annette.
9.1. Nella sentenza n. 5402 del 21.12.2016 della IV sezione
di questo Consiglio di Stato si fa riferimento, è vero,
all’istituto dell’autotutela pubblicistica per giustificare
ad abundantiam la correttezza della rideterminazione
del contributo relativo al costo di costruzione da parte del
Comune, ma si ribadisce, ancora una volta, il noto principio
(cfr., per tutti, Cons. St., sez. IV, 06.06.2016 n. 2394) «secondo
cui l’azione volta alla declaratoria di insussistenza o di
diversa entità del debito contributivo correlato al rilascio
del permesso di costruire può essere intentata senza onere
d’impugnazione o di esistenza dell’atto con il quale è
richiesto il pagamento (essendo un giudizio d’accertamento
di un rapporto obbligatorio pecuniario paritetico e
bilaterale) ed è proponibile nel termine prescrizionale
avanti a questo Giudice in sede di cognizione esclusiva ex
art. 133, co. 1, lett. f), c.p.a.».
9.2. Parimenti, nella sentenza n. 24 del 07.12.2016 di
questa Adunanza, si afferma, nel § 5.3, che il contributo di
costruzione, quale prestazione patrimoniale imposta
funzionale a remunerare l’esecuzione di opere pubbliche, si
colloca pacificamente «nell’alveo dei rapporti di diritto
pubblico», come sarebbe dimostrato dal fatto che il suo
mancato pagamento legittima l’amministrazione
all’applicazione di sanzioni pecuniarie crescenti in
rapporto all’entità del ritardo (art. 42 d.P.R. n. 380 del
2001) e, in caso di persistenza dell’inadempimento, alla
riscossione del contributo e delle sanzioni secondo le norme
vigenti in materia di riscossione coattiva delle entrate
(art. 43 d.P.R. del d.P.R. n. 380 del 2001).
9.3. Da queste considerazioni, tuttavia, non è possibile
trarre alcuna conclusione sul piano sistematico in ordine
alla natura pubblicistica del rapporto tra l’amministrazione
e il soggetto obbligato.
9.4. Il contributo di costruzione è e rimane, infatti, un
corrispettivo di diritto pubblico, proprio per il
fondamentale principio dell’onerosità del titolo edilizio
introdotto dall’art. 1 della l. n. 10 del 1977 –lo ricorda
la stessa Adunanza plenaria nel § 5.2 della sentenza n. 24
del 2016– e poi recepito dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del
2011, e come tale, benché esso non sia legato da un rigido
vincolo di sinallagmaticità rispetto del rilascio del
permesso di costruire, rientra anche, e coerentemente, nel
novero delle prestazioni patrimoniali imposte di cui
all’art. 23 Cost.
9.5. La costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato
ha sempre ribadito che il contributo per gli oneri di
urbanizzazione, per quanto non abbia natura tributaria,
costituisce, comunque, un corrispettivo di diritto pubblico
posto a carico del costruttore, connesso al rilascio della
concessione edilizia, a titolo di partecipazione del
concessionario ai costi delle opere di urbanizzazione in
proporzione all’insieme dei benefici che la nuova
costruzione ne ritrae, e che «per la determinazione di
esso deve essere fatto necessario ed esclusivo riferimento
alle norme di legge che regolano i relativi criteri di
conteggio, norme che vanno rigorosamente rispettate anche in
osservanza del principio di cui all’art. 23 della
Costituzione , secondo il quale nessuna prestazione
patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge»
(Cons. St., sez. V, 21.04.2006, n. 2228).
10. L’affermazione secondo cui il contributo di costruzione
costituisce una prestazione patrimoniale imposta e rientra a
tale titolo nell’ambito dei rapporti di diritto pubblico in
quanto necessariamente legata al rilascio del titolo
edilizio, tuttavia, non comporta ex se che i relativi
atti di determinazione abbiano necessariamente carattere
autoritativo, si colorino, per così dire, di imperatività e
siano espressione di potestà pubblicistica.
10.1. Il privato che intende ottenere il permesso di
costruire ha avanti a sé la scelta di corrispondere il
contributo di costruzione o di rinunciare al rilascio del
titolo.
10.2. Effettuata questa scelta, che comporta la necessaria
corresponsione del corrispettivo di diritto pubblico, il
pagamento di questo, esclusa pacificamente la sua natura
tributaria, non può che costituire l’oggetto di un ordinario
rapporto obbligatorio, disciplinato dalle norme di diritto
privato, come prescrive l’art. 1, comma 1-bis, della l. n.
241 del 1990, salvo che la legge disponga diversamente.
10.3. È vero che il credito dell’amministrazione, per la sua
particolare finalità, è assistito da particolari sanzioni e
da speciali procedure coattive di riscossione, come ha pure
ricordato questa stessa Adunanza plenaria nella sentenza n.
24 del 2016 richiamando le disposizioni di cui agli artt. 42
e 43 del d.P.R. n. 380 del 2001, ma ciò non contrasta con la
fondamentale natura del rapporto obbligatorio paritetico
inerente al pagamento del contributo e accessorio al
rilascio del permesso di costruire.
10.4. Anche la disciplina degli atti non autoritativi della
pubblica amministrazione può conoscere, infatti, previsioni
derogatorie rispetto alla ordinaria disciplina privatistica,
come prevede chiaramente l’art. 1, comma 1-bis, della l. n.
241 del 1990, senza che ciò comporti lo snaturamento del
rapporto paritetico che ne è alla base, la loro integrale
attrazione alla sfera pubblicistica o, nel caso di specie,
l’assimilazione ad una fattispecie paraimpositiva di stampo
tributario.
11. Deve quindi escludersi che a tali rapporti di natura
meramente obbligatoria e agli atti iure gestionis, di
carattere contabile e aventi finalità liquidatoria, adottati
dal Comune, si applichi la disciplina dell’autotutela di cui
all’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 o, più in
generale, la disciplina dettata dalla stessa l. n. 241 del
1990 per gli atti provvedimentali espressivi di potestà
pubblicistica.
11.1. Il carattere paritetico del rapporto, va solo qui
aggiunto, non esclude la doverosità della rideterminazione
quante volte la pubblica amministrazione si accorga che
l’iniziale determinazione degli oneri di urbanizzazione sia
dipesa da un’inesatta applicazione delle tabelle o anche da
un semplice errore di calcolo.
11.1. Il Comune è pur sempre, infatti, titolare del
potere-dovere di richiedere il contributo di costruzione
secondo i parametri e nei limiti fissati dalla legge e dalle
disposizioni regolamentari integrative fissate dalle
Regioni, facendone una applicazione vincolata alla
predeterminazione di coefficienti, che il privato deve
conoscere e ben può verificare.
12. Discende da quanto detto che gli atti con i quali la
pubblica amministrazione determina e liquida il contributo
di costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del
2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione
di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio
di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta
dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di
costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un
rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in
quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad
essi non possono applicarsi la disciplina dell’autotutela
dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più
in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per
gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio.
12.1. Si è cioè al cospetto di un rapporto obbligatorio, di
contenuto essenzialmente pecuniario (salva l’ipotesi di
opere a scomputo di cui all’art. 16, comma 1, del d.P.R. n.
380 del 2001), al quale si applicano le disposizioni di
diritto privato, salve le specifiche disposizioni previste
dalla legge (come, ad esempio, i già citati artt. 42 e 43
del d.P.R. n. 380 del 2001) per la peculiare finalità del
credito vantato dall’amministrazione comunale in ordine al
pagamento del contributo (oneri di urbanizzazione e costo di
costruzione).
13. Quanto al secondo quesito, posto dall’ordinanza
di rimessione n. 175 del 27.03.2018, la qui riaffermata
natura non autoritativa degli atti con i quali l’autorità
comunale provvede alla determinazione degli oneri, atti non
riconducibili –come detto– all’espressione di una potestà
pubblicistica, comporta che nell’ordinario termine decennale
di prescrizione, decorrente dal rilascio del titolo
edilizio, essa sia sempre possibile, e anzi doverosa, da
parte della pubblica amministrazione, nell’esercizio delle
facoltà connesse alla propria posizione creditoria, la
rideterminazione del contributo, quante volte la pubblica
amministrazione si accorga che l’originaria liquidazione di
questo sia dipesa dall’applicazione inesatta o incoerente di
parametri e coefficienti determinativi, vigenti al momento
in cui il titolo fu rilasciato, o da un semplice errore di
calcolo, con l’ovvia esclusione della possibilità di
applicare retroattivamente coefficienti successivamente
introdotti, non vigenti al momento in cui il titolo fu
rilasciato.
14. L’ordinanza di rimessione pone, infine, un terzo
quesito e intende conoscere se in alternativa, e a
prescindere dall’inquadramento giuridico della fattispecie,
secondo le categorie sopra richiamate, e quale che sia la
categoria giuridica da riconnettere al provvedimento
determinativo degli oneri concessori, se vi sia spazio, e in
quali limiti, perché possa trovare applicazione nella
fattispecie in esame il principio del legittimo affidamento
del privato, da ricostruire vuoi sulla base della disciplina
pubblicistica dell’autotutela, vuoi su quella privatistica
della lealtà e della buona fede nell’esecuzione delle
prestazioni contrattuali, ovvero sulla base dei principî
desumibili dai limiti posti dall’ordinamento civile per
l’annullamento del contratto per errore o per altra causa.
14.1. Al quesito deve rispondersi anzitutto, in conformità
con quanto prevede in via generale il già richiamato art. 1,
comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, inserito dall’art. 1,
comma 1, lett. b), della l. n. 15 del 2005, il quale
stabilisce che la pubblica amministrazione, nell’adozione di
atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di
diritto privato, salvo che la legge disponga diversamente.
14.2. E tuttavia il quesito, di fronte ad un evidente
contrasto interpretativo sussistente tra il Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, con le
pronunce del 2007, e al giurisprudenza di questo Consiglio
di Stato, mira specificamente a comprendere, e ad enucleare,
le regole che siano o meno applicabili al rapporto
obbligatorio di cui si discute.
14.3. Ritiene questa Adunanza plenaria che la disciplina
dell’errore riconoscibile, di cui all’art. 1431 c.c., non
sia applicabile all’atto con il quale la pubblica
amministrazione ridetermini l’importo del contributo.
14.4. Il contrario indirizzo seguito dal Consiglio di
giustizia amministrativa per la Regione Siciliana riposa
sull’assunto secondo il quale, applicandosi la disciplina
dell’art. 1431 c.c., sarebbe lecito dubitare che ricorra la
riconoscibilità dell’errore considerando che la
determinazione del contenuto dell’obbligazione incombe alla
pubblica amministrazione e, in particolare, all’ente
territoriale, che istituzionalmente provvede alla disciplina
dei criterî generali e all’applicazione di questi ai singoli
casi.
14.5. In questa situazione, salvi errori macroscopici di
evidenza ictu oculi, sarebbe «difficile ipotizzare
che l’eventuale errore dell’Amministrazione sia
riconoscibile dal privato che, del tutto naturalmente, viene
indotto a prestare affidamento alla correttezza dell’autoliquidazione
del proprio credito da parte dell’Amministrazione creditrice»
(così, ad esempio, Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 07.09.2007,
n. 790).
14.6. Un simile ragionamento, tuttavia, tralascia di
considerare che l’applicazione delle tabelle parametriche da
parte dell’amministrazione comunale, per quanto complessa,
costituisce comunque una operazione contabile che, essendo
al privato ben note dette tabelle, questi può verificare
nella sua esattezza, anzitutto con l’ausilio del progettista
che l’assiste nella presentazione della propria istanza, con
un ordinario sforzo di diligenza, richiedibile secondo il
canone della buona fede al debitore già solo, e anzitutto,
nel suo stesso interesse, per evitare che gli venga
richiesto meno o più del dovuto.
14.7. La complessità delle operazioni di calcolo o
l’eventuale incertezza nell’applicazione di alcune tabelle o
coefficienti determinativi, dovuti a ragioni di ordine
tecnico, non sono eventi estranei o ignoti alla sfera del
debitore, che invece con l’ordinaria diligenza, richiesta
dagli artt. 1175 e 1375 c.c., può e deve controllarne
l’esattezza sin dal primo atto di loro determinazione.
14.8. Certamente, e a sua volta, il Comune ha l’obbligo di
adoperarsi affinché la liquidazione del contributo di
costruzione venga eseguita nel modo più corretto, sollecito,
scrupoloso e preciso, sin dal principio, ma la
collaborazione tra l’autorità comunale e il privato
richiedente, in una visione del diritto amministrativo
improntata al principio di buon andamento e alla legalità
sostanziale, è imprescindibile in questa materia, già solo
sul piano dell’interlocuzione procedimentale, e non può
certo affermarsi, proprio per questo, una incomunicabilità o
inconoscibilità tra la sfera dell’una e quella dell’altro
che porti all’applicazione dell’art. 1431 c.c., quasi che
l’iniziale errore nell’applicazione delle tabelle o dei
coefficienti, da parte dell’autorità comunale, sia un fatto
“del tutto naturalmente” incomprensibile o
imponderabile dal privato perché puramente interno alla
sfera dell’amministrazione creditrice.
14.9. La tutela del legittimo affidamento e il principio
della buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), che in via
generale devono essere osservati anche dalla pubblica
amministrazione nell’attuazione del rapporto obbligatorio
(v., sul punto, Cass., sez. L, 07.04.1992, n. 4226), possono
trovare applicazione ad una fattispecie come quella in esame
nella quale, ordinariamente, l’oggettività dei parametri da
applicare al contributo di costruzione rende vincolato il
conteggio da parte della pubblica amministrazione,
consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità
da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo
nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e
verificabilità non siano possibili con il normale sforzo
richiesto al debitore, secondo appunto buona fede,
nell’ottica di una leale collaborazione finalizzata
all’attuazione del rapporto obbligatorio e al
soddisfacimento dell’interesse creditorio.
15. In conclusione,
e riassumendo quindi i principî di diritto sin qui
diffusamente enunciati, si può quindi
affermare che:
a) gli atti con i quali la pubblica
amministrazione determina e liquida il contributo di
costruzione, previsto dall’art. 16 del d.P.R. n. 380 del
2001, non hanno natura autoritativa, non essendo espressione
di una potestà pubblicistica, ma costituiscono l’esercizio
di una facoltà connessa alla pretesa creditoria riconosciuta
dalla legge al Comune per il rilascio del permesso di
costruire, stante la sua onerosità, nell’ambito di un
rapporto obbligatorio a carattere paritetico e soggetta, in
quanto tale, al termine di prescrizione decennale, sicché ad
essi non possono applicarsi né la disciplina dell’autotutela
dettata dall’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990 né, più
in generale, le disposizioni previste dalla stessa legge per
gli atti provvedimentali manifestazioni di imperio;
b) la pubblica amministrazione, nel corso di tale
rapporto, può pertanto sempre rideterminare, sia a favore
che a sfavore del privato, l’importo di tale contributo, in
principio erroneamente liquidato, richiedendone o
rimborsandone a questi la differenza nell’ordinario termine
di prescrizione decennale (art. 2946 c.c.) decorrente dal
rilascio del titolo edilizio, senza incorrere in alcuna
decadenza, mentre per parte sua il privato non è tenuto ad
impugnare gli atti determinativi del contributo nel termine
di decadenza, potendo ricorrere al giudice amministrativo,
munito di giurisdizione esclusiva ai sensi dell’art. 133,
comma 1, lett. f), c.p.a., nel medesimo termine di dieci
anni, anche con un’azione di mero accertamento;
c) l’amministrazione comunale, nel richiedere i
detti importi con atti non aventi natura autoritativa,
agisce quindi secondo le norme di diritto privato, ai sensi
dell’art. 1, comma 1-bis, della l. n. 241 del 1990, ma si
deve escludere l’applicabilità dell’art. 1431 c.c. a questa
fattispecie, in quanto l’errore nella liquidazione del
contributo, compiuto dalla pubblica amministrazione, non
attiene ad elementi estranei o ignoti alla sfera del
debitore ed è quindi per lui in linea di principio
riconoscibile, in quanto o riguarda l’applicazione delle
tabelle parametriche, che al privato sono o devono essere
ben note, o è determinato da un mero errore di calcolo, ben
percepibile dal privato, errore che dà luogo alla semplice
rettifica;
d) la tutela dell’affidamento e il principio della
buona fede, che in via generale devono essere osservati
anche dalla pubblica amministrazione dell’attuazione del
rapporto obbligatorio, possono trovare applicazione ad una
fattispecie come quella in esame nella quale,
ordinariamente, la predeterminazione e l’oggettività dei
parametri da applicare al contributo di costruzione, di cui
all’art. 16 del d.P.R. n. 380 del 2001, rendono vincolato il
conteggio da parte della pubblica amministrazione,
consentendone a priori la conoscibilità e la verificabilità
da parte dell’interessato con l’ordinaria diligenza, solo
nella eccezionale ipotesi in cui tali conoscibilità e
verificabilità non siano possibili con l’ordinaria diligenza
richiesta al debitore, secondo buona fede (artt. 1175 e 1375
c.c.), nell’ottica di una leale collaborazione volta
all’attuazione del rapporto obbligatorio e al
soddisfacimento dell’interesse creditorio vantato dal
Comune. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
PATRIMONIO: Oggetto:
Occupazione arbitraria di immobili. Indirizzi [Ministero dell'Interno,
nota 01.09.2018 n. 11001/123/111(1)]. |
APPALTI SERVIZI: Oggetto:
Comune di Castellanza (VA) - Proroga affidamento gestione campi da calcio (Autorità
Garante della Concorrenza e del Mercato,
decisione 04.06.2018 n. AS-1520). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
APPALTI:
G.U. 27.08.2018 n. 198 "Proroga dell’ordinanza 06.08.2013, e
successive modificazioni, concernente la tutela dell’incolumità pubblica
dall’aggressione dei cani"
(Ministero della Salute,
ordinanza 25.06.2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 16.08.2018 n. 189 "Individuazione delle categorie merceologiche, ai
sensi dell’articolo 9, comma 3, del decreto-legge 24.04.2014, n. 66,
convertito, con modificazioni, dalla legge 23.07.2014, n. 89" (D.P.C.M.
11.07.2018).
---------------
Consip
sopra i 40 mila euro.
Acquisiti centralizzati tramite convenzioni Consip (o altri soggetti
aggregatori) per 24 categorie merceologiche su 25.
Lo prevede il dpcm 11.07.2018, pubblicato sulla G.U. n. 189 del 16/08/2018
il quale stabilisce l'obbligo della procedura aggregata quando il valore
delle forniture e dei servizi supera i 40 mila euro.
L'obbligo entra in
vigore dal giorno della pubblicazione in Gazzetta per tutte le categorie
menzionate nel dpcm tranne la manutenzione delle strade per la quale
l'obbligo slitta di un anno (articolo
ItaliaOggi del 18.08.2018). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, supplemento n. 33 del 14.08.2018 "Assestamento al bilancio
2018-2020 con modifiche di leggi regionali" (L.R.
10.08.2018 n. 12).
----------------
Di interesse, si leggano:
● Art. 16 - (Modifiche all’art. 16
della l.r. 28/2016)
1. All’articolo 16 della legge regionale 17.11.2016, n. 28 (Riorganizzazione
del sistema lombardo di gestione e tutela delle aree regionali protette
delle altre forme di tutela presenti sul territorio) sono apportate le
seguenti modifiche:
● Art. 21 - (Disposizioni in materia di
usi delle acque. Modifica degli articoli 3 e 4 del r.r. 2/2006) |
INCARICHI
PROFESSIONALI - PATRIMONIO:
G.U. 11.08.2018 n. 186 "Testo
del decreto-legge 12.07.2018, n. 87, coordinato con la legge di conversione
09.08.2018, n. 96, recante: «Disposizioni urgenti per la
dignità dei lavoratori e delle imprese»".
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Di interesse, si leggano:
● Art. 12. Split payment
● Art. 13. Società sportive dilettantistiche |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
G.U. 09.08.2018 n. 184 "Regolamento recante la definizione dei
contenuti minimi e i formati dei verbali di accertamento, contestazione e
notificazione dei procedimenti di cui all’articolo 29 del decreto
legislativo 03.04.2006, n. 152, come modificato dall’articolo 18 del decreto
legislativo 16.06.2017, n. 104" (Ministero dell'Ambiente e della
Tutela del Territorio e del Mare,
decreto 28.03.2018 n. 94).
---------------
Il decreto individua i contenuti minimi dei verbali di accertamento,
contestazione e notificazione dei procedimenti di valutazione di impatto
ambientale di cui all’articolo 29 del decreto legislativo 03.04.2006, n.
152. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 09.08.2018 "Modifiche alla d.g.r.
09.06.2017, n. X/6698 inerente il riordino e la razionalizzazione delle
disposizioni attuative della disciplina regionale in materia di
distribuzione carburanti e rettifica della d.g.r. 28.06.2018 n. XI/278" (deliberazione
G.R. 02.08.2018 n. 434). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 07.08.2018 "Elenco dei criteri di
gestione obbligatori e delle buone condizioni agronomiche e ambientali ai
sensi dell’articolo 94 del Reg. (CE) n. 1306/2013 (regime di condizionalità)
e del d.m. 18.01.2018, n. 1867: modifiche e integrazioni alla delibera della
Giunta regionale X/3351 del 01.04.2015"
(deliberazione
G.R. 02.08.2018 n. 421). |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 06.08.2018 "Determinazioni in ordine
agli incarichi attribuiti ai componenti della Giunta regionale" (decreto
P.G.R. 01.08.2018 n. 87). |
INCARICHI
PROFESSIONALI - PATRIMONIO:
G.U. 13.07.2018 n. 161 "Disposizioni urgenti per la dignità dei
lavoratori e delle imprese" (D.L.
12.07.2018 n. 87).
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Di interesse, si leggano:
● Art. 12. Split payment
● Art. 13. Società sportive dilettantistiche |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ I gruppi cambiano nome. Anche se statuto
e regolamento tacciono. La chance rientra nelle scelte proprie delle
formazioni politiche.
Se le norme statutarie e regolamentari vigenti in un
comune prevedono solo la modifica della composizione dei gruppi consiliari,
è possibile modificarne anche la denominazione?
L'esistenza dei gruppi
consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume
implicitamente dalle disposizioni normative che contemplano diritti e
prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39,
comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia deve, comunque, essere disciplinata da apposite norme statutarie
e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia
organizzativa riconosciuta ai consigli comunali dall'art. 38 del citato
Testo unico degli enti locali.
È da ritenersi consentita la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero
l'adesione a diversi gruppi esistenti, a seguito dei mutamenti che possono
sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio
comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di
appartenenza. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della
propria potestà di organizzazione, a dover dettare, in materia, norme
statutarie e regolamentari.
Nel caso di specie, il mutamento di denominazione del gruppo consiliare,
anche se in assenza di una specifica disposizione statutaria o
regolamentare, sembra rientrare nelle scelte proprie delle formazioni
politiche presenti nel consiglio che sono, in genere, da ritenersi
ammissibili.
Peraltro, sebbene sia lo statuto che il regolamento dell'ente locale
presentino una certa rigidità nella formazione dei gruppi, ancorandola alla
denominazione della corrispondente lista di elezione, lo stesso statuto
comunale consente la costituzione di gruppi non corrispondenti alle liste
elettorali, purché siano composti da almeno tre membri.
Pertanto, può ritenersi che tale valore numerico costituisca il limite per
la costituzione di gruppi con denominazioni diverse da quelle originarie
(articolo
ItaliaOggi del 31.08.2018). |
NEWS |
LAVORI
PUBBLICI: Grandi
opere, progetti nel Dup. Vanno individuati l’investimento e la copertura
finanziaria. L’effetto dell’ottavo decreto correttivo dell’armonizzazione
contabile licenziato da Arconet.
Per le opere maggiori gli enti locali dovranno
obbligatoriamente programmare e progettare.
È una delle novità più importanti previste
dall'ottavo decreto correttivo dell'armonizzazione contabile (dlgs
118/2011), licenziato prima delle ferie dalla Commissione Arconet e in corso
di pubblicazione.
Le modifiche all'allegato 4/2 principio contabile applicato sulla
contabilità finanziaria), in particolare, mirano a rendere più semplice il
raccordo fra le norme contabili e quelle sugli appalti di lavori pubblici,
introducendo numerose novità, soprattutto per quanto concerne l'impatto
contabile della progettazione e della realizzazione delle opere. Non sono
norme di facile lettura e presuppongono, anche per essere comprese, una
forte sinergia fra uffici finanziari e uffici tecnici.
In primo luogo, viene disciplinata la registrazione del livello minimo di
progettazione richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma
triennale e nell'elenco annuale. Parliamo, quindi, di opere di taglio pari o
superiore a 100 mila euro: in tali casi, le spese di progettazione devono
essere registrate a bilancio prima dello stanziamento riguardante l'opera
cui la progettazione si riferisce. Per tale ragione, affinché la spesa di
progettazione possa essere contabilizzata tra gli investimenti, è necessario
che i documenti di programmazione dell'ente (e segnatamente il Dup)
individuino in modo specifico l'investimento a cui la spesa di progettazione
è destinata e la relativa copertura finanziaria.
In ogni caso, la progettazione esterna deve essere spesata al titolo II,
mentre quella interna a Titolo I o al Titolo II a seconda della natura
economica della spesa: ad esempio, gli stipendi al personale sono
classificati tra le spese di personale (Titolo I), mentre l'acquisto di
macchinari necessari è classificato tra gli «impianti e macchinari» (Titolo
II).
A seguito della validazione del livello di progettazione minima previsto
dall'art. 21 del dlgs 50/2016, gli interventi sono inseriti nel programma
triennale dei lavori pubblici e le relative spese sono stanziate nel Titolo
II del bilancio di previsione nel rispetto del principio della competenza
finanziaria potenziata. In particolare, nei casi in cui la copertura di tali
spese risulti costituita da entrate esigibili nel medesimo esercizio in cui
sono esigibili le spese correlate, nel bilancio di previsione gli
stanziamenti di entrata e di spesa sono iscritti distintamente con
imputazione ai singoli esercizi di esigibilità. Nei casi in cui la copertura
di tali spese risulti costituita da entrate esigibili anticipatamente
rispetto all'esigibilità delle spese correlate, nel bilancio di previsione è
iscritto il fondo pluriennale vincolato di spesa.
Gli stanziamenti sono interamente prenotati a seguito dell'avvio del
procedimento di spesa, e sono via via impegnati a seguito della stipula dei
contratti concernenti le fasi di progettazione successive al minimo o la
realizzazione dell'intervento.
Anche gli impegni sono imputati contabilmente nel rispetto del principio
della competenza finanziaria potenziata. Non rileva più, quindi, il momento
dell'aggiudicazione dei lavori (tranne che nei casi di esecuzione
anticipata), ma quella della stipula dei diversi contratti.
Per gli interventi di valore stimato inferiore a 100 mila euro, invece, la
spesa può essere stanziata in bilancio senza dover attendere l'inserimento
degli interventi nel programma triennale dei lavori pubblici.
La spesa di progettazione riguardante i livelli successivi a quello minimo
richiesto per l'inserimento di un intervento nel programma triennale dei
lavori pubblici è registrata nel titolo secondo della spesa, con imputazione
agli stanziamenti riguardanti l'opera complessiva, sia nel caso di
progettazione interna che di progettazione esterna.
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Più tempo per riprogrammare i ribassi.
Più tempo per riprogrammare i
ribassi d'asta. È un'altra delle novità previste dall'ottavo decreto
correttivo del dlgs 118/2011. La materia è disciplinata dal punto 5.4. del
principio contabile applicato sulla contabilità finanziaria (allegato 4/2
del dlgs 118/2011).
Nella sua versione originaria, esso disponeva che «a
seguito dell'aggiudicazione definitiva della gara, le spese contenute nel
quadro economico dell'opera prenotate, ancorché non impegnate, continuano a
essere finanziate dal Fondo pluriennale vincolato, mentre gli eventuali
ribassi di asta, costituiscono economie di bilancio e confluiscono nella
quota vincolata del risultato di amministrazione a meno che, nel frattempo,
sia intervenuta formale rideterminazione del quadro economico progettuale da
parte dell'organo competente che incrementa le spese del quadro economico
dell'opera finanziandole con le economie registrate in sede di
aggiudicazione».
Tale periodo era già stato sostituito dal seguente a opera dell'art. 6-ter
del ddl 91/2017): «A seguito dell'aggiudicazione definitiva della gara, le
spese contenute nel quadro economico dell'opera prenotate, ancorché non
impegnate, continuano ad essere finanziate dal Fondo pluriennale vincolato,
mentre gli eventuali ribassi di asta costituiscono economie di bilancio e
confluiscono nella quota vincolata del risultato di amministrazione se entro
il secondo esercizio successivo all'aggiudicazione non sia intervenuta
formale rideterminazione del quadro economico progettuale da parte
dell'organo competente che incrementa le spese del quadro economico
dell'opera stessa finanziandole con le economie registrate in sede di
aggiudicazione e l'ente interessato rispetti i vincoli di bilancio definiti
dalla legge 24.12.2012, n. 243».
Come si nota, quindi, mentre in precedenza la riprogrammazione doveva
avvenire prima dell'aggiudicazione definitiva (o comunque entro l'esercizio
in cui questa è avvenuta), nel testo vigente essa rimane aperta fino alla
fine del secondo esercizio a essa successivo. Solo dopo tale termine, le
somme devono essere riportate in avanzo (vincolato) e non possono più essere
conservate nel fondo pluriennale vincolato.
L'emanando decreto allungherà ancora i tempi, consentendo di mantenere
finanziate da Fondo pluriennale vincolato le economie derivanti da ribasso
d'asta se non si provvede all'approvazione di nuovo quadro economico entro
due anni dalla stipula del contratto, non più entro due anni
dall'aggiudicazione.
Da notare, infine, sempre in materia di fondo pluriennale vincolato, la
revisione della disciplina riguardante le variazioni da apportare a seguito
di economie. Il nuovo paragrafo 5.4.13 precisa che, ove nel corso
dell'esercizio sia cancellato un impegno finanziato dal Fpv dopo
l'approvazione del rendiconto dell'esercizio precedente, ciò comporta la
necessità di procedere alla contestuale dichiarazione di indisponibilità di
una corrispondente quota del Fpv iscritto in entrata e in occasione del
rendiconto dell'esercizio in corso alla riduzione di pari importo del Fpv di
spesa con corrispondente liberazione delle risorse a favore del risultato di
amministrazione (articolo
ItaliaOggi del 31.08.2018). |
APPALTI SERVIZI: Concessioni,
la proroga richiede sempre la gara. Per l’Antitrust
è necessario rispettare i principi della Ue.
Illegittima la proroga di una concessione per la gestione di campi sportivi;
è sempre necessario esperire una gara per assicurare il rispetto dei
principi Ue e la contendibilità del mercato.
È quanto ha affermato l'Autorità garante della concorrenza e del mercato,
con la
decisione 04.06.2018 n. AS-1520 pubblicata sul bollettino n. 26 del
09.07.2018)
in merito a una fattispecie concernente la proroga di una concessione
decennale per la gestione di campi sportivi. Il quesito riguardava la
possibile proroga della gestione di tre impianti sportivi comunali di
calcio, affidati per il periodo 01.01.2016-30.06.2020, di durata
pari al periodo decennale di ammortamento del mutuo necessario per la
realizzazione degli investimenti a carico del gestore.
L'Autorità, preliminarmente, ha osservato che l'affidamento in questione
rientra nel quadro della concessione di servizi, trattandosi della gestione
di un servizio di rilevanza economica e poi ha rilevato che per il servizio
in questione esiste un mercato (perlomeno potenziale) di interesse per altri
operatori economici. Nel provvedimento si evidenzia, inoltre, come in questo
schema contrattuale l'eventuale gestione in perdita, anche a fronte del
corrispettivo pubblico, formalmente destinato alla copertura delle spese di
gestione, rientra nella normale alea connessa all'esercizio di un'attività
economica in un contesto di mercato. È infatti la stessa
convenzione-contratto a lasciare al titolare del contratto margini di
redditività nella gestione del servizio, oltre alla determinazione del
livello tariffario.
L'Antitrust ritiene quindi che il comune debba applicare la disciplina di
cui alla prima e seconda parte del codice dei contratti pubblici e, in
particolare, anche l'articolo 30 (nella prima parte del codice) che per
quanto attinente alla fattispecie considerata dall'Autorità impone all'ente
concedente il rispetto dei «principi di libera concorrenza, non
discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le
modalità indicate nel presente codice». Questa disposizione, unitamente
all'articolo 164 che la richiama, fa dire all'Antitrust che il comune non
può sottrarsi all'applicazione dei principi di matrice comunitaria, quali
quelli di concorrenza, parità di trattamento e non discriminazione, anche
alle concessioni di servizi.
Rispetto alla possibilità di una proroga decennale a favore del gestore,
oltre i termini fissati dall'originaria procedura, l'Antitrust ha rilevato
che «tale scelta dovrebbe rappresentare una circostanza del tutto
eccezionale e temporalmente limitata, in ragione della sua portata
potenzialmente contraria ai principi sopra richiamati». Dieci anni,
conclude, non possono essere considerati un tempo proporzionato rispetto
alla durata originaria dell'affidamento, in quanto concessa per un arco
temporale ben più ampio della stessa.
Occorre poi assicurare la piena contendibilità del mercato e la parità di
trattamento di tutti gli operatori economici interessati e una proroga così
estesa di fatto «produce, in ogni caso, l'effetto di chiudere il mercato
alla concorrenza e frustrare, per tale via, una delle finalità cui è volta
la normativa di matrice comunitaria dettata dal codice dei contratti
pubblici»
(articolo
ItaliaOggi del 31.08.2018). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Valutazione
ambientale via web. Moduli unificati in tutta Italia. E tempi certi per il
rilascio. Il ministero dell’ambiente detta tempi e
istruzioni per la Via. Il rilascio entro due mesi.
La valutazione di impatto
ambientale (Via) viaggia on-line. Con una modulistica unificata ed
elettronica utilizzabile sull'intero territorio nazionale. E con tempi certi
per il suo rilascio. Infatti, il ministro dell'ambiente dovrà adottare il
provvedimento di Via entro 60 giorni dall'acquisizione dello schema di
provvedimento predisposto dalla direzione valutazione ambientale (Dva). Il
tutto previa acquisizione del concerto del ministro dei beni e delle
attività culturali che dovrà essere reso entro 30 giorni dalla richiesta da
parte della Dva.
Con una
guida, redatta dai tecnici del dicastero guidato da
Sergio Costa, vengono dettate le istruzioni operative per il rilascio della
Via. Il documento reca in allegato la modulistica da presentare, alla luce
delle modifiche apportate dal dlgs 16.06.2017 n. 104, in attuazione
della direttiva 2014/52/Ue alla parte II del codice dell'ambiente (dlgs
152/2006).
Ricordiamo che per i progetti di competenza statale, il
proponente potrà chiedere, in alternativa alla Via, il rilascio di un
«provvedimento unico ambientale», che coordini e sostituisca tutti i titoli
abilitativi o autorizzativi riconducibili ai fattori ambientali (si veda ItaliaOggi del 18.08.2018).
Valutazione di impatto ambientale obbligatoria. Sono soggetti alla
valutazione di impatto ambientale obbligatoria:
• gli impianti termici per la produzione di energia elettrica;
• il vapore e acqua calda con potenza termica complessiva superiore a 150 mW;
• la realizzazione di autostrade e strade extraurbane principali;
• gli impianti eolici per la produzione di energia elettrica sulla terraferma
con potenza complessiva superiore a 30 mW.
Presentazione dell'istanza. Il proponente trasmette alla Dva l'istanza per
l'avvio del procedimento di valutazione di impatto ambientale utilizzando
l'apposito modulo disponibile nella sezione «specifiche tecniche e
modulistica» del portale delle valutazioni ambientali. All'istanza deve
essere allegata la seguente documentazione in formato digitale:
• il progetto di fattibilità tecnico-economica (o eventuale diverso livello
di progettazione);
• lo studio di impatto ambientale;
• la sintesi non tecnica;
• le informazioni sugli eventuali impatti transfrontalieri del progetto;
• l'avviso al pubblico;
• la dichiarazione sostitutiva di atto notorio attestante il valore delle
opere da realizzare e l'importo del contributo versato;
• copia della ricevuta di avvenuto pagamento del contributo per gli oneri
istruttori;
• i risultati della procedura di dibattito pubblico eventualmente svolta.
La documentazione trasmessa dal proponente viene acquisita dalla Dva che
effettua la verifica amministrativa sulla completezza dell'istanza e della
documentazione allegata, incluso l'avvenuto pagamento del contributo per gli
oneri istruttori. Parallelamente, viene verificata la conformità della
documentazione in formato digitale, requisito indispensabile per la
pubblicazione della stessa nel portale delle valutazioni ambientali.
---------------
Le novità legate alla Via
●
La valutazione di impatto ambientale
(Via) viaggia telematicamente. Con una modulistica unificata ed elettronica
utilizzabile sull'intero territorio nazionale. E con tempi certi per il suo
rilascio. Requisito indispensabile per la pubblicazione della stessa nel
portale delle valutazioni ambientali.
●
Qualora la documentazione risulti
incompleta, la Dva richiede al proponente la documentazione integrativa con
un termine perentorio per la trasmissione fissato entro 30 giorni. Scaduto
tale termine, ovvero, qualora dall’esito della verifica la documentazione
risulti ancora incompleta, l’istanza sarà archiviata (articolo
ItaliaOggi del 30.08.2018). |
APPALTI:
Commissari gare in albo.
Dal 10.09.2018 al via l'iscrizione all'albo nazionale dei commissari di gara
gestito dall'Anac. I commissari iscritti nell'albo potranno essere
utilizzati per le gare la cui scadenza delle offerte è fissata dal 15.01.2019. A partire da tale data, le stazioni appaltanti non potranno
più nominare commissari di gara in modo discrezionale.
Con il
Comunicato del Presidente 18.07.2018 scorsi l'autorità nazionale
anticorruzione ha chiarito i temi dell'entrata in vigore delle linee guida (attuative
del dlgs 18.04.2016, n. 50) contenenti l'elenco delle sottosezioni per
l'iscrizione all'albo nazionale obbligatorio dei commissari di gara.
Per
formare la commissione giudicatrice, la stazione appaltante dovrà fornire
all'Anac il Cig (Codice identificativo gara) della procedura di affidamento
e una serie di informazioni. Tra cui quelle per determinare se si tratti di
un affidamento di particolare complessità.
L'Anac, previa verifica, fornirà
la lista degli esperti sorteggiati tra quelli con minor numero di nomine e
livello di esperienza adeguata. La lista dei commissari verrà poi pubblicata
dalla stazione appaltante per ragioni di trasparenza (articolo
ItaliaOggi del 28.08.2018). |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Omissione dell'indicazione dei costi della manodopera
nell’offerta: esclusione?
Parte ricorrente non mira alla riedizione della procedura né
chiede l’aggiudicazione; domanda, bensì, di essere riammessa
-previo soccorso istruttorio- e che la procedura prosegua
con l’esame delle controdeduzioni sull’anomalia
dell’offerta.
Al riguardo il Collegio osserva, tuttavia, che il carattere
escludente della mancata indicazione nell’offerta economica
del costo della mano d’opera (integrato solo con le
controdeduzioni in sede sull’anomalia dell’offerta), essendo
elemento dell’offerta economica non suscettibile di soccorso
istruttorio, come già affermato da questo Tribunale
amministrativo regionale, rende sostanzialmente inutile tale
riammissione.
Infatti, l’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016,
innovando rispetto al regime di cui al d.lgs. n. 163 del
2006, ha imposto l’obbligo per tutti gli operatori economici
di indicare in sede di offerta economica i propri costi
della manodopera e gli oneri aziendali concernenti
l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro (ad esclusione delle
forniture senza posa in opera, dei servizi di natura
intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36,
comma 2, lett. a), del d.lgs. n. 50 del 2016).
Sebbene la questione non sia pacifica in giurisprudenza, un
orientamento interpretativo, al quale ha aderito anche
questo Tribunale, ritiene che il suddetto obbligo sussista
anche in ipotesi di silenzio del bando, da ritenersi sul
punto eterointegrato, con conseguente esclusione del
concorrente silente, non potendosi ricorrere nemmeno al
soccorso istruttorio diversamente dal sistema previgente,
trattandosi di indicazione costituente elemento essenziale
dell’offerta.
Ciò posto, osserva in linea generale il Collegio che, anche
in assenza di un’esplicita previsione di richiamo alla
previsione imperativa e cogente dell’art. 95, comma 10,
d.lgs. n. 50 del 2016, opererebbe l'istituto della
eterointegrazione del bando di gara in base alla normativa
in materia, analogamente a quanto avviene nel diritto civile
ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via
suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato
dalla pubblica amministrazione.
Sennonché, nella gara in esame, emerge direttamente la piena
operatività della previsione appena richiamata del codice
dei contratti pubblici, essendo l’indicazione separata del
costo della manodopera espressamente richiesta dalla lex
specialis, con l’effetto di poter ravvisare l’esistenza
nella legge di gara di una previsione ad hoc senz’altro
idonea, nella necessaria sinergia con la chiara norma di
legge, a rendere edotto il concorrente degli obblighi
compilativi su di esso gravanti.
Difatti, nella lettera di invito si esplicita che “A pena di
esclusione, la “Busta B - Offerta economica” dovrà essere
redatta secondo il Modello di Offerta Economica, allegato al
presente disciplinare (all. 2) a cui dovrà essere apposta
una marca da bollo di € 16.00 e nel quale il concorrente
dovrà esplicitare la propria offerta economica e la propria
offerta relativa al tempo. … Si precisa che il mancato
utilizzo dei Moduli predisposti dal comune di Bevagna per la
presentazione delle offerte non costituisce causa di
esclusione a condizione che siano egualmente trasmesse tutte
le dichiarazioni e informazioni in essi richiesti e che
siano rilasciate nelle forme previste dalle vigenti
disposizioni richiamate nei predetti Moduli. Pertanto, al
fine di ridurre al minimo le esclusioni dalla gara per
inesattezze e/o omissioni si raccomanda vivamente di usare i
modelli di istanza ed offerta (Allegati 1, 2 e 3) acclusi
alla presente Lettera d’invito”; il modulo contenuto
nell’Allegato 2, al punto 3, richiedeva l’indicazione della
stima dei costi della manodopera, ai sensi dell’art. 95,
comma 10, del Codice.
Nel caso in esame, pertanto, l’obbligo di indicazione in
sede di offerta economica del costo della manodopera era
chiaramente evincibile dalla legge di gara, essendo
espressamente indicato nella modulistica per l’offerta
economica -inviata dall’Amministrazione procedente- il campo
a ciò dedicato.
Non vale neanche opporre che l’Amministrazione avrebbe
indotto in errore la ricorrente inviando una nuova
modulistica in sostituzione della precedente –effettivamente
utilizzata dalla SO.CO.EM. s.r.l. per la presentazione
dell’offerta economica– in quanto l’Allegato 2 alla lettera
di invito, recante il modulo per la presentazione
dell’offerta economica, si compone di un’unica pagina,
pertanto facilmente confrontabile con il precedente da parte
di un operatore medio, senza la possibilità di invocare
l’errore scusabile.
Né può ammettersi nel caso in esame il soccorso istruttorio,
previsto dall'art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016
per la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e del documento di gara unico
europeo di cui all'art. 85, con esclusione di quelle
afferenti all'offerta tecnica ed economica, in quanto i
costi della manodopera e gli oneri di sicurezza interni
attengono direttamente all'offerta economica e, per la loro
finalità di tutela del lavoro, ne costituiscono elemento
essenziale.
Non ignora il Collegio che circa l’ammissibilità del
soccorso istruttorio in caso omessa indicazione degli
elementi di cui all’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del
2016, ed in particolare degli oneri di sicurezza aziendale,
la giurisprudenza non ha raggiunto una posizione unanime in
merito ad un dibattito risalente alla previgente normativa.
L’Adunanza plenaria 27.07.2016, n. 19, ha affermato, anche
alla luce della giurisprudenza europea, che per le gare
bandite prima del nuovo codice degli appalti pubblici e
delle concessioni (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), laddove
l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza
aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara,
l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non
dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare
l’offerta dalla stazione appaltante.
Va aggiunto che la questione è stata altresì esaminata dalla
Corte di Giustizia UE a seguito di rinvio pregiudiziale ai
sensi dell’art. 267 TFUE, affermando che “il principio della
parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come
attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento
delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi, devono essere
interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un
offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto
offerente, dell’obbligo di indicare separatamente
nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro,
obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con
l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente
dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì
emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal
meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice
nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali
documenti”.
Dalle pronunce richiamate, anche a voler ignorare il mutato
quadro normativo, non si ritiene comunque possibile far
discendere la possibilità di soccorso istruttorio in
ipotesi, come quella in esame, ove, come detto, l’obbligo di
esplicitazione dei costi della manodopera, così come di
quelli relativi agli oneri per la sicurezza, era chiaramente
evincibile dalla lex specialis.
---------------
1. È materia del contendere la legittimità degli atti
inerenti la procedura negoziata, senza previa pubblicazione
di un bando di gara, per l’intervento di efficientamento
energetico della scuola primaria “Ten. Ugo Marini”
nel Comune di Bevagna.
...
3. Per quanto attiene al merito del ricorso, la ricorrente
chiede l’annullamento dei predetti provvedimenti e, in
conseguenza di ciò, che sia dichiarato l’obbligo
dell’amministrazioni resistenti di procedere alla verifica
dell’anomalia dell’offerta del ATI SO.CO.EM. s.r.l./SI.SE.
s.r.l. nonché, qualora nelle more della decisione di merito
venga stipulato il contratto d’appalto, di dichiarare
l’inefficacia di quest’ultimo, di dichiarare in subordine il
diritto della ricorrente al subentro nel predetto contratto
nonché condannare l’Amministrazione resistente al
risarcimento dei danni.
Parte ricorrente, pertanto, non mira alla riedizione della
procedura né chiede l’aggiudicazione; domanda, bensì, di
essere riammessa -previo soccorso istruttorio- e che la
procedura prosegua con l’esame delle controdeduzioni
sull’anomalia dell’offerta.
Al riguardo il Collegio osserva, tuttavia, che il carattere
escludente della mancata indicazione nell’offerta economica
del costo della mano d’opera (integrato solo con le
controdeduzioni in sede sull’anomalia dell’offerta), essendo
elemento dell’offerta economica non suscettibile di soccorso
istruttorio, come già affermato da questo Tribunale
amministrativo regionale, rende sostanzialmente inutile tale
riammissione.
Infatti, l’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016,
innovando rispetto al regime di cui al d.lgs. n. 163 del
2006, ha imposto l’obbligo per tutti gli operatori economici
di indicare in sede di offerta economica i propri costi
della manodopera e gli oneri aziendali concernenti
l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e
sicurezza sui luoghi di lavoro (ad esclusione delle
forniture senza posa in opera, dei servizi di natura
intellettuale e degli affidamenti ai sensi dell'articolo 36,
comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 50 del 2016).
Sebbene la questione non sia pacifica in giurisprudenza, un
orientamento interpretativo, al quale ha aderito anche
questo Tribunale, ritiene che il suddetto obbligo sussista
anche in ipotesi di silenzio del bando, da ritenersi sul
punto eterointegrato, con conseguente esclusione del
concorrente silente, non potendosi ricorrere nemmeno al
soccorso istruttorio diversamente dal sistema previgente,
trattandosi di indicazione costituente elemento essenziale
dell’offerta (TAR Umbria, 22.01.2018, n. 56; inoltre, ex
multis, TAR Sicilia, Catania, sez. III, 31.07.2017, n.
1981; TAR Umbria, 17.05.2017, n. 390; TAR Campania, Salerno,
sez. I, 05.01.2017, n. 34; TAR Molise, 2016, n. 513; TAR
Calabria, Reggio Calabria, 25.02.2017, n. 166; TAR Veneto,
21.02.2017, n. 182; TAR Campania, Napoli, 2017, n. 2358;
Consiglio di Stato ord. 15.12.2016, n. 5582).
Ciò posto, osserva in linea generale il Collegio che, anche
in assenza di un’esplicita previsione di richiamo alla
previsione imperativa e cogente dell’art. 95, comma 10,
d.lgs. n. 50 del 2016, opererebbe l'istituto della
eterointegrazione del bando di gara in base alla normativa
in materia, analogamente a quanto avviene nel diritto civile
ai sensi degli artt. 1374 e 1339 c.c., colmandosi in via
suppletiva le eventuali lacune del provvedimento adottato
dalla pubblica amministrazione (c.f.r., C.d.S., sez. III,
24.10.2017, n. 4903).
Sennonché, nella gara in esame, emerge direttamente la piena
operatività della previsione appena richiamata del codice
dei contratti pubblici, essendo l’indicazione separata del
costo della manodopera espressamente richiesta dalla lex
specialis, con l’effetto di poter ravvisare l’esistenza
nella legge di gara di una previsione ad hoc
senz’altro idonea, nella necessaria sinergia con la chiara
norma di legge, a rendere edotto il concorrente degli
obblighi compilativi su di esso gravanti.
Difatti, nella lettera di invito, al punto 14, relativo al
contenuto dell’offerta economica, si esplicita che “A
pena di esclusione, la “Busta B - Offerta economica” dovrà
essere redatta secondo il Modello di Offerta Economica,
allegato al presente disciplinare (all. 2) a cui dovrà
essere apposta una marca da bollo di € 16.00 e nel quale il
concorrente dovrà esplicitare la propria offerta economica e
la propria offerta relativa al tempo. … Si precisa che il
mancato utilizzo dei Moduli predisposti dal comune di
Bevagna per la presentazione delle offerte non costituisce
causa di esclusione a condizione che siano egualmente
trasmesse tutte le dichiarazioni e informazioni in essi
richiesti e che siano rilasciate nelle forme previste dalle
vigenti disposizioni richiamate nei predetti Moduli.
Pertanto, al fine di ridurre al minimo le esclusioni dalla
gara per inesattezze e/o omissioni si raccomanda vivamente
di usare i modelli di istanza ed offerta (Allegati 1, 2 e 3)
acclusi alla presente Lettera d’invito”; il modulo
contenuto nell’Allegato 2, al punto 3, richiedeva
l’indicazione della stima dei costi della manodopera, ai
sensi dell’art. 95, comma 10, del Codice.
Nel caso in esame, pertanto, l’obbligo di indicazione in
sede di offerta economica del costo della manodopera era
chiaramente evincibile dalla legge di gara, essendo
espressamente indicato nella modulistica per l’offerta
economica inviata dall’Amministrazione procedente in data
16.01.2018 il campo a ciò dedicato.
Non vale neanche opporre che l’Amministrazione avrebbe
indotto in errore la ricorrente inviando una nuova
modulistica in sostituzione della precedente –effettivamente
utilizzata dalla SO.CO.EM. s.r.l. per la presentazione
dell’offerta economica– in quanto l’Allegato 2 alla lettera
di invito, recante il modulo per la presentazione
dell’offerta economica, si compone di un’unica pagina,
pertanto facilmente confrontabile con il precedente da parte
di un operatore medio, senza la possibilità di invocare
l’errore scusabile.
Né può ammettersi nel caso in esame il soccorso istruttorio,
previsto dall'art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016
per la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e del documento di gara unico
europeo di cui all'art. 85, con esclusione di quelle
afferenti all'offerta tecnica ed economica, in quanto i
costi della manodopera e gli oneri di sicurezza interni
attengono direttamente all'offerta economica e, per la loro
finalità di tutela del lavoro, ne costituiscono elemento
essenziale.
Non ignora il Collegio che circa l’ammissibilità del
soccorso istruttorio in caso omessa indicazione degli
elementi di cui all’art. 95, comma 10, del d.lgs. n. 50 del
2016, ed in particolare degli oneri di sicurezza aziendale,
la giurisprudenza non ha raggiunto una posizione unanime in
merito ad un dibattito risalente alla previgente normativa.
L’Adunanza plenaria 27.07.2016, n. 19, ha affermato, anche
alla luce della giurisprudenza europea, che per le gare
bandite prima del nuovo codice degli appalti pubblici e
delle concessioni (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), laddove
l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza
aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara,
l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non
dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare
l’offerta dalla stazione appaltante.
Va aggiunto che la questione è stata altresì esaminata dalla
Corte di Giustizia UE a seguito di rinvio pregiudiziale ai
sensi dell’art. 267 TFUE, affermando che “il principio
della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come
attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e
del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento
delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di
lavori, di forniture e di servizi, devono essere
interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un
offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto
pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto
offerente, dell’obbligo di indicare separatamente
nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro,
obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con
l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente
dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì
emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal
meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice
nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali
documenti” (Corte di Giustizia UE sez. VI, ordinanza
10.11.2016 (causa C-162/16)).
Dalle pronunce richiamate, anche a voler ignorare il mutato
quadro normativo, non si ritiene comunque possibile far
discendere la possibilità di soccorso istruttorio in
ipotesi, come quella in esame, ove, come detto, l’obbligo di
esplicitazione dei costi della manodopera, così come di
quelli relativi agli oneri per la sicurezza, era chiaramente
evincibile dalla lex specialis (TAR Umbria,
sentenza 31.08.2018 n. 489 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Vincoli ambientali senza deroga. Lo stato di crisi aziendale non
consente l’inosservanza. La Cassazione: la responsabilità dell’imprenditore
resta anche in caso di difficoltà economica.
Lo stato di crisi e di difficoltà economica di una
azienda non consente l'inosservanza delle norme ambientali configurandosi ad
ogni modo la responsabilità dell'imprenditore per i relativi reati.
La Corte di Cassazione, Sez. III
penale, con la recente
sentenza 28.08.2018 n. 39032
ha esaminato la questione delle conseguenze della crisi societaria, nel caso
di mancato rispetto di norme ambientali e della conseguente contestazione
dei relativi reati.
La questione veniva prospettata ai supremi giudici, a seguito di un ricorso
dell'imputato condannato in secondo grado, nei confronti di una sentenza
della Corte di appello di Trieste, la quale applicava le pene di legge
previste per il reato di cui all'art. 256, comma 1, lett. b), del dlgs
152/2006, per avere effettuato attività di gestione di rifiuti in assenza
dei presupposti di legge.
Rappresentava il ricorrente in apposito motivo di ricorso come
l'inosservanza della normativa sanzionata quale reato era conseguente allo
stato di forte crisi in cui versava l'impresa, che aveva impedito ai suoi
dirigenti di ottemperare ai disposti della normativa in materia ambientale.
Assumeva il ricorrente come lo stato di abbandono dei rifiuti nelle
dipendenze aziendali, e il difetto del loro trattamento ai sensi di legge
era dovuto allo stato di forte crisi dell'azienda, senza essere conseguente
a un comportamento consapevole dei quadri dirigenti, invocando pertanto lo
stato di necessità quale scusante e il conseguente difetto di colpevolezza.
La Corte riteneva tale motivo di ricorso infondato, osservando come nel caso
in cui le risorse aziendali siano state impiegate per fini diversi da quello
di ottemperare alla normativa, ciò porta a escludere la configurazione dello
stato di forza maggiore, potendosi fare riferimento a tale esimente nel solo
caso in cui si sia in presenza di un fatto, non imputabile all'imprenditore,
dal quale sia dipeso il verificarsi del reato contestato. La Corte suprema
segue comunque la linea interpretativa già enucleatasi in seno allo stesso
organo per l'esame della responsabilità dell'imprenditore nel caso di
scarichi di acque inquinate.
In questo ultimo caso infatti, gli ermellini hanno ritenuto configurabile lo
stato di necessità solo nell'ipotesi in cui il reato dipenda da un evento
derivante dalla natura o dall'opera dell'uomo, che non possa essere
preveduto o impedito. Aggiungendo che il semplice stato di difficoltà
economica dell'azienda non è idoneo a determinare la configurazione
dell'esimente prevista dalla legge (articolo
ItaliaOggi del 31.08.2018).
---------------
MASSIMA
Ciò posto, osserva il Collegio come le scelte di
politica imprenditoriale con cui, in una situazione di crisi di liquidità,
si opti per impiegare le risorse aziendali a certi fini piuttosto che ad
altri non possono essere invocate per escludere la punibilità dell'agente il
quale abbia conseguentemente violato la legge penale, posto che le condotte
penalmente rilevanti possono essere attribuite a forza maggiore solo quando
derivino da fatti non imputabili all'imprenditore, il quale non abbia potuto
tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che
sfuggono al suo dominio finalistico
(Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263128, relativa
al mancato adempimento dell'obbligazione tributaria).
Nella condivisibile motivazione di tale sentenza si legge infatti che «la
forza maggiore postula la individuazione di un fatto imponderabile,
imprevisto ed imprevedibile, che esule del tutto dalla condotta dell'agente,
sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell'evento, non potendo
ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od omissione cosciente e volontaria
dell'agente», sicché questa
Suprema Corte «ha sempre escluso, quando la specifica questione è stata
posta, che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano
integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del
04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez. 1, n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv.
255880; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805; Sez. 3, n.
9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232; Sez. 3, n. 64.3 del 22/10/1984,
Bottura, Rv. 167495; Sez. 3, n. 7779 del 07/05/1984, Anderi, Rv. 165822)
5.20.Costituisce corollario di queste affermazioni il fatto che nei reati
omissivi integra la causa di forza maggiore l'assoluta impossibilità, non la
semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso (Sez. 6, n.
10116 del 23/03/1990, Iannone, Rv. 184856)» (Sez. 3, n. 8352 del
24/06/2014, dep. 2015, Schirosi).
Se questi principi valgono per condotte imprenditoriali di
carattere omissivo, in cui l'azione dovuta ed illecitamente non compiuta
richiede un esborso di denaro, a maggior ragione debbono trovare
applicazione laddove, come nella specie, il reato consista in condotte
commissive, certamente coscienti e volontarie, ripetute e protratte nel
tempo.
Con riguardo ai reati ambientali, del resto, si è da tempo
affermato che non può rientrare tra gli eventi di forza maggiore di cui
all'art. 45 cod. pen. l'inosservanza degli obblighi imposti dalla legge in
materia di inquinamento delle acque per difficoltà economiche dell'impresa
titolare degli scarichi dato che la forza maggiore si concreta soltanto in
un evento, derivante dalla natura o da fatto dell'uomo, che non può essere
preveduto o impedito (Sez. 3, n.
643 del 22/10/1984, dep. 1985, Bottura, Rv. 167495), aggiungendosi che
le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente non sono
riconducibili al concetto di forza maggiore che postulando la individuazione
di un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, esula del tutto
dalla condotta dell'agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi
dell'evento, non potendo ricollegarsi in alcun modo ad un'azione od
omissione cosciente e volontaria dell'agente
(Sez. 1, Sentenza n. 18402 del 05/04/2013, Giro, Rv. 255880, relativa al
reato di cui all'art. 650 cod. pen. per violazione di ordinanza sindacale in
tema di smaltimento di rifiuti).
Analoghi principi sono stati affermati in materia di
violazione di norme antinfortunistiche
(Sez. 3, n. 9041 del 18/09/1997, Chiappa, Rv. 209232). |
EDILIZIA PRIVATA:
Individuazione del momento in cui comincia ad applicarsi
l’istituto del silenzio-assenso.
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Silenzio della P.A. – Silenzio assenso – Ambito temporale
di applicazione – Individuazione.
Il silenzio–assenso, quale speciale
effetto attribuito dalla legge alla fattispecie complessa
costituita dalla proposizione dell’istanza, corredata dalla
necessaria documentazione, e dal decorso del termine
normativamente previsto, non può farsi retroagire alle
istanze avanzate prima dell’entrata in vigore della
normativa che tale fattispecie disciplini, atteso che solo
un'istanza posteriore a tale momento può ritenersi
qualificata come elemento della relativa fattispecie;
E' necessario, cioè, che sia stata avanzata sotto il vigore
della norma che prevede il prodursi di quel particolare
effetto, che impone ex novo uno speciale e pregnante obbligo
dell'amministrazione, in precedenza non configurabile, di
attivarsi tempestivamente.
L’effetto del silenzio-assenso
non può prodursi neppure nell’ipotesi in cui l’istanza sia
stata avanzata dopo la pubblicazione della legge di nuova
introduzione ma prima della sua entrata in vigore,
successiva al periodo di vacatio legis, poiché non può
attribuirsi all’inerzia dell’amministrazione un effetto che
non era previsto nel momento in cui tale inerzia, anche solo
in parte, ha avuto luogo (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che in Sicilia il silenzio-assenso
sull’istanza di accertamento di conformità è stato
introdotto con la legge regionale n. 16 del 10.08.2016, che,
all’art. 14, comma 3, ha stabilito che “In presenza della
documentazione e dei pareri previsti, sulla richiesta di
permesso in sanatoria il dirigente o il responsabile del
competente ufficio comunale si pronuncia con adeguata
motivazione, entro novanta giorni decorsi i quali la
richiesta si intende assentita”.
Tale regime, dunque, è andato a sostituire –per un breve
periodo, ossia fino all’intervento della Corte
Costituzionale– l’opposto regime del silenzio-rigetto,
dettato dall’art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001. Ai sensi del
comma 3 di tale articolo, “Sulla richiesta di permesso in
sanatoria il dirigente o il responsabile del competente
ufficio comunale si pronuncia con adeguata motivazione,
entro sessanta giorni decorsi i quali la richiesta si
intende rifiutata”.
Il Tar ha quindi stabilito, in assenza di disposizione
transitoria, quale dei due regimi normativi sia applicabile
al procedimento sottoposto al suo esame, avviato con istanza
avanzata il 30.08.2016.
Ha chiarito che la legge regionale n. 16 del 2016 è stata
pubblicata nel supplemento ordinario alla Gazzetta ufficiale
della Regione Siciliana n. 36 del 19.08.2016 e, pertanto, ai
sensi dell’art. 13 dello Statuto regionale, che prevede un
periodo di vacatio legis di 15 giorni, è entrata in
vigore il 03.09.2016.
Alla data di proposizione della domanda, dunque, la
normativa di nuova introduzione, disciplinante l’istituto
del silenzio-assenso, non era entrata in vigore. Tale
circostanza impedisce che alla stessa possa applicarsi la
nuova disciplina.
Lo speciale effetto attribuito dalla legge alla fattispecie
complessa costituita dalla proposizione dell’istanza,
corredata dalla necessaria documentazione, e dal decorso del
termine normativamente previsto non può infatti farsi
retroagire alle istanze avanzate prima dell’entrata in
vigore della normativa che tale fattispecie disciplini
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 28.08.2018 n. 1741 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
SENTENZA
Preliminarmente, occorre rilevare l’infondatezza delle
eccezioni di inammissibilità e di irricevibilità sollevate
dal Comune.
La mancata impugnazione dell’ingiunzione di demolizione non
preclude, infatti, l’impugnazione del provvedimento relativo
all’istanza di accertamento di conformità.
Né può dirsi che sia stata prestata acquiescenza alla nota
prot. 14404 del 04.05.2017, atteso che i ricorrenti hanno
impugnato tale atto con il ricorso in esame, notificato il
13.10.2017 e quindi tempestivamente, posto che gli stessi
ricorrenti hanno dichiarato di avere conosciuto la citata
nota solo in occasione della notifica della nota prot. n.
23242 del 14.07.2017, spedita con raccomandata del
19.07.2017; circostanza, questa, non contestata dal comune.
Ciò premesso, deve passarsi all’esame del ricorso,
valutando, preliminarmente, la natura degli atti impugnati,
anche tenuto conto della proposizione, da parte dei
ricorrenti, di una pluralità di doglianze, graduate in
ragione di ciò che questo Collegio riterrà essere il
contenuto di tali atti.
La nota prot. n. 14404/2017, infatti, è stata contestata:
quale semplice atto con cui, nel presupposto che
sull’istanza di accertamento di conformità non si sia
formato un provvedimento tacito di assenso, si è
preannunciata l’adozione di un provvedimento di diniego
(primo motivo); quale atto di ritiro del provvedimento di
assenso (secondo motivo) e quale provvedimento di rigetto
dell’istanza di accertamento di conformità (terzo motivo).
Orbene, ritiene il Collegio che non possa prescindersi dal
dato testuale (“questo ufficio … provvederà ad emettere
il provvedimento definitivo di diniego”), che non
consente di attribuire natura provvedimentale alla nota, che
preavvisa dell’adozione di un successivo provvedimento di
diniego.
Benché tale atto contenga l’indicazione delle ragioni per le
quali l’ufficio “ritiene di non accogliere la richiesta
di accertamento di conformità”, la manifestazione di
tale intendimento deve ritenersi abbia la natura di avviso
ex art. 10-bis l. 241/1990, più che di provvedimento
sull’istanza e ciò nonostante un primo preavviso di rigetto
fosse stato adottato con nota del 24.12.2016.
L’atto, dunque, è stato adottato nel presupposto della
pendenza del procedimento e, quindi, della mancata
formazione di un provvedimento tacito di assenso; benché si
tratti di atto endoprocedimentale, esso presenta autonoma
lesività nella misura in cui implicitamente nega che si sia
formato il silenzio-assenso e, sotto tale profilo, ne va
vagliata la legittimità.
Va, in altre parole, scrutinata la questione dell’avvenuta
formazione, nel caso in esame, del provvedimento tacito di
assenso.
Il silenzio-assenso sull’istanza di accertamento di
conformità è stato introdotto con la legge regionale n. 16
del 10.08.2016, che, all’art. 14, co. 3, ha così stabilito:
“In presenza della documentazione e dei pareri previsti,
sulla richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro novanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende assentita”.
Tale regime, dunque, è andato a sostituire –per un breve
periodo, ossia fino all’intervento della Corte
Costituzionale– l’opposto regime del silenzio-rigetto,
dettato dall’art. 36, D.P.R. 380/2001.
Ai sensi del terzo comma di tale articolo, “Sulla
richiesta di permesso in sanatoria il dirigente o il
responsabile del competente ufficio comunale si pronuncia
con adeguata motivazione, entro sessanta giorni decorsi i
quali la richiesta si intende rifiutata”.
Occorre stabilire, in assenza di disposizione transitoria,
quale dei due regimi normativi sia applicabile al
procedimento in esame, avviato con istanza avanzata il
30.08.2016.
Deve rilevarsi, a tale proposito, che la legge regionale n.
16/2016 è stata pubblicata nel supplemento ordinario alla
gazzetta ufficiale della Regione Siciliana n. 36 del
19.08.2016 e, pertanto, ai sensi dell’art. 13 dello Statuto
regionale, che prevede un periodo di vacatio legis di
15 giorni, è entrata in vigore il 03.09.2016.
Alla data di proposizione della domanda, dunque, la
normativa di nuova introduzione, disciplinante l’istituto
del silenzio-assenso, non era entrata in vigore. Tale
circostanza impedisce che alla stessa possa applicarsi la
nuova disciplina.
Lo speciale effetto attribuito dalla legge alla fattispecie
complessa costituita dalla proposizione dell’istanza,
corredata dalla necessaria documentazione, e dal decorso del
termine normativamente previsto non può infatti farsi
retroagire alle istanze avanzate prima dell’entrata in
vigore della normativa che tale fattispecie disciplini.
Ha affermato, in proposito, il Consiglio di Stato: “La
procedura di silenzio-assenso è applicabile soltanto alle
istanze presentate successivamente all'entrata in vigore
delle norme che la istituiscono, atteso che solo un'istanza
posteriore a tale momento può ritenersi qualificata come
elemento della relativa fattispecie, cioè posta in essere
quando è previsto il prodursi di quel particolare effetto di
pendenza che impone ex novo uno speciale e pregnante obbligo
dell'amministrazione, in precedenza non configurabile, di
attivarsi tempestivamente o, in alternativa, l'operare di un
effetto abilitativo/permissivo favorevole all'istante,
connesso all'inerzia dell'amministrazione oltre il limite
temporale indicato dalla norma” (sez. V, 02.10.2008, n.
4755; nello stesso senso, sez. VI, 31.01.2006, n. 327).
La peculiarità della presente fattispecie –che la distingue
dai casi esaminati nei precedenti appena citati- sta nel
fatto che la nuova normativa è entrata in vigore in pendenza
del termine per provvedere e non dopo il suo decorso. Tale
circostanza, tuttavia, non consente di pervenire a
conclusioni diverse, atteso che, comunque, non potrebbe
attribuirsi all’inerzia dell’amministrazione un effetto che
non era previsto nel momento in cui tale inerzia, anche solo
in parte, ha avuto luogo; ciò anche in considerazione del
particolare effetto ad essa connesso, che è quello di “un
surrettizio condono edilizio” (così Corte Cost. n.
232/2017).
In altri termini, anche in considerazione della necessità di
fissare la regola da applicare al procedimento, non sembra
logico che l’esito dello stesso e, soprattutto, la
conseguenza della condotta (silenziosa) da parte
dell’Amministrazione possa essere mutevole in ragione di una
normativa sopravvenuta, venendo meno, così, la certezza del
significato del comportamento che quest’ultima deve tenere.
Invero, si ribadisce con la previgente normativa, il mancato
esito all’istanza avrebbe manifestato il diniego, mentre,
con quella successiva, l’assenso e, quindi, la necessità di
attivarsi (in virtù di una norma sopravvenuta), al fine di
evitare l’eventuale diniego ritenuto legittimo.
Consegue il rigetto del ricorso. |
TRIBUTI: Canone
per interramento di condutture di pubblici
servizi
E' illegittimo
l’assoggettamento al canone non ricognitorio,
previsto dall’art. 27 del codice della
strada, nelle ipotesi di utilizzo del
sottosuolo della sede stradale che -come nel
caso di condutture elettriche- non
impediscano o limitino in alcun modo la
fruizione pubblica della sede viaria, ferma
restando la legittima imposizione del canone
per il tratto di tempo durante il quale le
lavorazioni di posa e realizzazione
dell’infrastruttura a rete impediscono la
piena fruizione della sede stradale.
Il codice della strada ha assoggettato a
canone unicamente le occupazioni idonee a
sottrarre il bene all’uso pubblico (id est:
peso imposto al bene pubblico) ciò che non
accade nell’ipotesi di occupazioni che si
sostanzino nell’interramento di condutture
finalizzate all’esercizio di pubblici
servizi
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 27.08.2018 n. 2030 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
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MASSIMA
Oggetto della domanda di annullamento
proposta con il ricorso in epigrafe sono il
regolamento con il quale il Comune di
Carnate ha disciplinato l’applicazione del
canone non ricognitorio previsto dall’art.
27 del d.lgs. n. 285 del 1992 nonché il
conseguente atto applicativo.
Parte ricorrente ritiene che detto
regolamento contrasti con il parametro
normativo di riferimento avendo
illegittimamente assoggettato al canone di
cui trattasi gli «impianti elettrici
insistenti sia sul suolo sia nel sottosuolo
di proprietà comunale» in violazione
disposizioni di carattere «speciale»
(art. 120 r.d. M. 1775/1933, art. 1, c. 6,
l. n. 239 del 2004, art. 4 l. n. 1501/1961 e
art. 6 d.m. n. 258/1998). Osserva, altresì,
che ai sensi dell’art. 27 del d.lgs. n. 285
del 1992 il canone deve essere, in tesi,
determinato sulla base sia del peso imposto
al bene pubblico, sia del lucro che il
concessionario trae dall’utilizzazione del
bene stesso.
Con nota del 28.10.2013, in applicazione di
siffatta disciplina, il Comune ha chiesto il
pagamento delle relative somme previa
trasmissione, da parte della Società, di
taluni dati inerenti all’impianto.
...
Va preliminarmente disattesa l’eccezione di
difetto di interesse sollevata da parte
resistente sul rilievo che la nota del
28.10.2013, pur nella sua configurazione di
elemento istruttorio e malgrado non sia
stata impugnata, in realtà costituisce atto
rilevante che esprime la valutazione
dell’Amministrazione di ritenere la
particolare fattispecie compresa nella
previsione regolamentare come tale
assoggettabile al canone patrimoniale (TAR
Lombardia, Milano, n. 265 del 2018).
Sul punto deve essere evidenziato che, a
differenza del precedente di questo
Tribunale dato dalla sentenza n. 1078/2018
riguardante un caso in cui il Comune aveva
trasmesso una mera comunicazione di avvenuta
adozione del regolamento, nella vicenda per
cui è causa l’Amministrazione ha evidenziato
i criteri da applicarsi per la
quantificazione delle somme ed ha richiesto
alla ricorrente la conferma dei dati
contenuti nelle cartografie in possesso
dello stesso Comune, circostanza, questa,
che dà atto della ‘soggettività passiva’
della ricorrente.
Nel merito il ricorso è meritevole di
accoglimento.
Come si è detto, parte ricorrente ha
evidenziato che in realtà il d. lgs. n. 285
del 1992 ha assoggettato a canone unicamente
le occupazioni idonee a sottrarre il bene
all’uso pubblico (id est: peso
imposto al bene pubblico) ciò che non accade
nell’ipotesi di condutture elettriche quali
quelle nel caso di specie installate dalla
ricorrente.
La questione, in relazione ad analoghe
controversie, è stata già solcata dalla
giurisprudenza la quale ha, in modo del
tutto condivisibile, ritenuto che, in
realtà, nessuna norma primaria autorizzi le
amministrazioni locali ad applicare il
canone non ricognitorio di cui all’art. 27
del Codice della Strada ad occupazioni che
si sostanzino nell’interramento di
condutture finalizzate all’esercizio di
pubblici servizi.
Sul punto ritiene il Collegio di non dovere
discostarsi dall’approdo interpretativo del
Giudice d’appello secondo cui,
valorizzando una lettura del Codice
della Strada «come corpo normativo inteso
alla sicurezza delle persone nella
circolazione stradale, e rispetto al quale
interesse generale le sue norme sono
evidentemente serventi», è stata esclusa
la legittima esigibilità del canone non
ricognitorio nelle ipotesi di utilizzo del
sottosuolo della sede stradale le quali
-come nel caso che qui rileva- non
impediscano o limitino in alcun modo la
fruizione pubblica della sede viaria, ferma
restando la legittima imposizione del canone
per il tratto di tempo durante il quale le
lavorazioni di posa e realizzazione
dell’infrastruttura a rete impediscono la
piena fruizione della sede stradale.
Ne discende l’accoglimento della domanda di
annullamento del Regolamento impugnato. |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla non sanabilità di un abuso edilizio inerente parti
condominiali.
Le fotografie presenti nel fascicolo
di parte ricorrente e anche le tavole progettuali rivelino
come egli abbia inteso trasformare in balconi i cornicioni
del più ampio fabbricato condominiale.
Ora, per la loro attinenza alla facciata, i cornicioni
debbono di regola considerarsi parte comune dell’edificio.
Ebbene, in base all'art. 11, comma 1, d.P.R. 06.06.2001, n.
380, il permesso di costruire è rilasciato al proprietario
dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria.
Alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi
possono provvedere anche ogni altro soggetto interessato al
conseguimento della sanatoria medesima; ciò, però, a
condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso
comunque manifestato dal proprietario.
Non a caso, è stato considerato inapplicabile l'istituto del
condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo
condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di
prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso
che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per
legittimare una sostanziale appropriazione di spazi
condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di
una possibile volontà contraria degli altri, i quali
potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso
anche in via amministrativa e non solo con azioni
privatistiche.
---------------
1. – Gi.Ru. si duole del provvedimento con il quale il
Comune di Rossano gli ha negato il permesso di costruire in
sanatoria relativo alla messa in opera di ringhiera
metallica e pavimentazione su esistenti balconi e apertura
di un accesso su un parapetto al sesto piano di un edificio
insistente su via ....
In particolare, l’amministrazione non ha concesso il
richiesto titolo in quanto le opere sarebbero state
realizzate non già su balconi preesistenti, bensì su un
cornicione e su un un parapetto, e cioè su beni che
ricadrebbero in comunione e in relazione ai quali, in ogni
caso, il ricorrente non avrebbe dato prova del titolo di
disponibilità.
Inoltre, dalla documentazione prodotta non si evincerebbe se
i cornicioni a sbalzo siano atti a sopportare i
sovraccarichi, permanentio accidentali, previstidalla
normativa vigente per le civili abitazioni.
...
5. – Nel merito della vicenda controversa, osserva il
Collegio come le fotografie presenti nel fascicolo di parte
ricorrente e anche le tavole progettuali rivelino come egli
abbia inteso trasformare in balconi i cornicioni del più
ampio fabbricato condominiale.
Ora, per la loro attinenza alla facciata, i cornicioni
debbono di regola considerarsi parte comune dell’edificio (cfr.
C. App. Salerno, 16.03.1992, in Giur. Merito, 1994; ma sulla
nozione di facciata cfr. anche Cass. Civ., Sez. II ,
14.12.2017, n. 30071).
5. – Ebbene, in base all'art. 11, comma 1, d.P.R.
06.06.2001, n. 380, il permesso di costruire è rilasciato al
proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per
richiederlo.
Secondo un pacifico orientamento giurisprudenziale, il
Comune, prima di rilasciare il titolo, ha sempre l'onere di
verificare la legittimazione del richiedente, accertando che
questi sia il proprietario dell'immobile oggetto
dell'intervento costruttivo o che, comunque, ne abbia un
titolo di disponibilità sufficiente per eseguire l'attività
edificatoria (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 04.04.2012, n.
1990).
Alla richiesta di sanatoria e agli adempimenti relativi
possono provvedere anche ogni altro soggetto interessato al
conseguimento della sanatoria medesima; ciò, però, a
condizione che sia acquisito in modo univoco il consenso
comunque manifestato dal proprietario (cfr. Cons. Stato,
Sez. IV, 25.09.2014, n. 4818; Cons. Stato, Sez. IV,
26.01.2009, n. 437; Cons. Stato, Sez. IV, 22.06.2000, n.
3520).
Non a caso, è stato considerato inapplicabile l'istituto del
condono, laddove l'abuso sia realizzato dal singolo
condomino su aree comuni, in assenza di ogni elemento di
prova circa la volontà degli altri comproprietari, atteso
che, diversamente opinando, l'amministrazione finirebbe per
legittimare una sostanziale appropriazione di spazi
condominiali da parte del singolo condomino, in presenza di
una possibile volontà contraria degli altri, i quali
potrebbero essere interessati all'eliminazione dell'abuso
anche in via amministrativa e non solo con azioni
privatistiche (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 27.06.2008, n.
3282).
7. – In questi termini, l’operato dell’amministrazione
intimata appare corretto (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 21.08.2018 n. 1556 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Mancata
allegazione della copia fotostatica del
documento del sottoscrittore della
dichiarazione sostitutiva in una gara
d'appalto.
L'allegazione della
copia fotostatica del documento del
sottoscrittore della dichiarazione
sostitutiva, prescritta dal comma 3
dell'art. 38 d.P.R. n. 445 del 2000, è
adempimento inderogabile, atto a conferire
legale autenticità alla sottoscrizione
apposta in calce alla dichiarazione e
giuridica esistenza ed efficacia
all'autocertificazione.
Pertanto, in una gara d’appalto l'assenza
della copia fotostatica del documento di
identità non determina una mera
incompletezza del documento, idonea a far
scattare il potere di soccorso della
stazione appaltante tramite la richiesta di
integrazioni o chiarimenti sul suo
contenuto, bensì la sua giuridica
inesistenza, con la conseguenza che, in
ossequio al principio della par condicio e
della parità di trattamento tra le imprese
partecipanti, l'impresa deve essere esclusa
per mancanza della prescritta dichiarazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 20.08.2018 n. 4959 -
commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
Venendo ora al primo motivo dell’appello
iscritto al numero di registro generale 7737
del 2017, con esso si censura la sentenza
impugnata nella parte in cui ha confermato
l’esclusione dell’appellante dalla procedura
di gara per non aver allegato alla
dichiarazione sostitutiva dell’atto di
notorietà (di cui al paragrafo 6, punto 2
del disciplinare) la copia fotostatica del
documento di identità del dichiarante.
Ad avviso dell’appellante, nel caso di
specie non sarebbero revocabili in dubbio né
la provenienza, né l’ascrivibilità al legale
rappresentante dell’impresa partecipante
alla gara del documento oggetto di
autocertificazione; né la carenza sarebbe
stata tale da incidere sulla regolarità e
legittimità della dichiarazione, non
trattandosi di mancanza afferente ad
elementi di carattere tecnico.
In ogni caso, né il disciplinare di gara, né
gli artt. 38 e 47 del d.P.R. n. 445 del 2000
prevedono espressamente alcuna sanzione
automatica di esclusione della concorrente
dalla gara nell’ipotesi di mancanza della
copia fotostatica del documento di identità
del dichiarante (laddove, per contro, la
dichiarazione sostitutiva e l’allegazione
del documento di identità costituirebbero
adempimenti distinti, aventi una funzione
diversa, sebbene complementare).
L’irregolarità riscontrata avrebbe dunque
carattere meramente formale, ragion per cui
la stazione appaltante, prima di procedere
all’esclusione, avrebbe dovuto richiedere
l’integrazione del documento mancante o
comunque dei chiarimenti, anche in ossequio
ai principi di economicità ed efficacia
dell’attività amministrativa nonché di
massima partecipazione e di proporzionalità.
Il motivo non è fondato, dovendosi
confermare il principio di cui al precedente
di Cons. Stato, V, 26.03.2012, n. 1739 –dal
quale non vi è motivo di discostarsi, nel
caso di specie- a mente del quale
l’allegazione della copia
fotostatica del documento del sottoscrittore
della dichiarazione sostitutiva, prescritta
dal comma 3 dell'art. 38 d.P.R. n. 445 del
2000, è adempimento inderogabile, atto a
conferire –in considerazione della sua
introduzione come forma di semplificazione–
legale autenticità alla sottoscrizione
apposta in calce alla dichiarazione e
giuridica esistenza ed efficacia
all'autocertificazione.
Si tratta pertanto di un
elemento integrante della fattispecie
normativa, teso a stabilire, data l’unità
della fotocopia sostitutiva del documento di
identità e della dichiarazione sostitutiva,
un collegamento tra la dichiarazione ed il
documento ed a comprovare, oltre alle
generalità del dichiarante, l'imputabilità
soggettiva della dichiarazione al soggetto
che la presta
(ex multis, Cons. Stato, VI,
02.05.2011, n. 2579; VI, 04.06.2009, n.
3442; V, 07.11.2007, n. 5761; 11.05.2007, n.
2333).
L'assenza della copia
fotostatica del documento di identità non
determina, pertanto, una mera incompletezza
del documento, idonea a far scattare il
potere di soccorso della stazione appaltante
tramite la richiesta di integrazioni o
chiarimenti sul suo contenuto, bensì la sua
giuridica inesistenza, con la conseguenza
che, in ossequio al principio della par
condicio e della parità di trattamento
tra le imprese partecipanti, l'impresa deve
essere esclusa per mancanza della prescritta
dichiarazione.
Tale omissione, per espressa disposizione di
legge (art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del
2016), non poteva essere sanata con il
soccorso istruttorio, né con “l’utilizzo”
del documento depositato nella busta
contenente la documentazione amministrativa,
come ipotizzato dall’appellante.
Correttamente, quindi, il primo giudice ha
ritenuto legittima l’esclusione dalla gara
di Fcs Co. s.r.l. e, conseguentemente,
improcedibili i motivi aggiunti da questa
proposti per sopravvenuta carenza di
interesse.
Anche per questa ragione la reiezione del
primo motivo di appello, avente carattere
eminentemente processuale, risulta
interamente assorbente delle ulteriori
censure di merito dedotte dall’appellante. |
EDILIZIA PRIVATA:
Circa il diniego di sanatoria edilizia ordinaria
(ex art. 13 l. 47/1985, ora art. 36 d.p.r. n. 380/2001) con
riguardo ai due locali deposito realizzati mediante
edificazione di un solaio intermedio, non presentando tali
locali, aventi un’altezza interna netta di mt. 1,95, i
requisiti di altezza minima prescritti dalla normativa
vigente, essi non possono essere oggetto di sanatoria
mediante l’invocato istituto dell’accertamento di conformità
ex art. 13 l. 47/1985, il quale, come è noto e costantemente
affermato dalla giurisprudenza amministrativa, è diretto a
sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite
senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella
sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area
su cui sorgono, vigente sia al momento della loro
realizzazione che al momento della presentazione
dell'istanza di sanatoria (cd. doppia conformità).
---------------
Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75
del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato,
l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi
dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive
eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti
nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a
piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano
con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando
così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito
in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva
ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Il ricorso è solo in parte fondato e va accolto per quanto
di ragione.
La attività istruttoria svolta in corso di giudizio ha
accertato l’inesistenza di un volume realizzato in assenza
di titolo sul ballatoio, di tal che per questa parte l’atto
impugnato va considerato illegittimo sotto il profilo della
carenza istruttoria.
Il provvedimento resiste, però, alle censure attoree nella
parte in cui reca il diniego di sanatoria edilizia ordinaria
(ex art. 13 l. 47/1985, ora art. 36 d.p.r. n. 380/2001) con
riguardo ai due locali deposito realizzati mediante
edificazione di un solaio intermedio: non presentando tali
locali, aventi un’altezza interna netta di mt. 1,95, i
requisiti di altezza minima prescritti dalla normativa
vigente, essi non possono essere oggetto di sanatoria
mediante l’invocato istituto dell’accertamento di conformità
ex art. 13 l. 47/1985, il quale, come è noto e costantemente
affermato dalla giurisprudenza amministrativa, è diretto a
sanare le opere solo formalmente abusive, in quanto eseguite
senza il previo rilascio del titolo, ma conformi nella
sostanza alla disciplina urbanistica applicabile per l'area
su cui sorgono, vigente sia al momento della loro
realizzazione che al momento della presentazione
dell'istanza di sanatoria (cd. doppia conformità; cfr. ex
multis, TAR Campania, sez. IV, 31/01/2018 n. 695).
Il rilievo esposto consente, dunque, di ritenere superato il
primo motivo di doglianza (TAR Campania-Napoli, Sez.
IV,
sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il privato sanzionato con l'ordine di demolizione
per la costruzione di un'opera edilizia abusiva non può
invocare l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2,
l. n. 47 del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del
2001), che comporta l'applicazione della sola sanzione
pecuniaria nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa
avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità, se non fornisce seria ed idonea dimostrazione
del pregiudizio stesso sulla struttura e sull'utilizzazione
del bene residuo, a nulla valendo che la demolizione
implicherebbe una notevole spesa e potrebbe incidere sulla
funzionalità del manufatto, perché per impedire
l'applicazione della sanzione demolitoria occorre un
effettivo pregiudizio alla restante parte dell'edificio,
consistente in una menomazione dell'intera stabilità del
manufatto.
---------------
Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75
del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato,
l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi
dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive
eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti
nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a
piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano
con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando
così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito
in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva
ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Sono del pari da disattendere il secondo e il
terzo motivo di ricorso.
Quanto al secondo, con il quale parte ricorrente
lamenta che l’Amministrazione avrebbe illegittimamente
pretermesso di valutare l’irrogazione della sanzione
pecuniaria in luogo di quella demolitoria, il Collegio
osserva che, nel caso di specie, non si rinviene alcun
elemento da cui inferire che l’esecuzione della sanzione
applicata (riduzione al pristino stato dei locali al piano
terra) potrebbe arrecare pregiudizio alla restante parte
dell’edificio regolarmente assentita, cosicché alcuna
censura può muoversi alla determinazione assunta
dall’Amministrazione sulla base di una valutazione
tecnico-discrezionale: per giurisprudenza pacifica "il
privato sanzionato con l'ordine di demolizione per la
costruzione di un'opera edilizia abusiva non può invocare
l'applicazione in suo favore dell'art. 12, comma 2, l. n. 47
del 1985 (oggi, art. 34, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001),
che comporta l'applicazione della sola sanzione pecuniaria
nel caso in cui l'ingiunta demolizione non possa avvenire
senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, se non
fornisce seria ed idonea dimostrazione del pregiudizio
stesso sulla struttura e sull'utilizzazione del bene
residuo, a nulla valendo che la demolizione implicherebbe
una notevole spesa e potrebbe incidere sulla funzionalità
del manufatto, perché per impedire l'applicazione della
sanzione demolitoria occorre un effettivo pregiudizio alla
restante parte dell'edificio, consistente in una menomazione
dell'intera stabilità del manufatto" (TAR Campania
Napoli, sez. IV, 05.08.2013, n. 4056; nello stesso senso
Cons. St., sez. VI 08.07.2011 n. 4102) (TAR Campania-Napoli,
Sez. IV,
sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La
indiscussa natura di “intervento libero” che deve essere
riconosciuta alla struttura progettata dal ricorrente (ndr:
installazione di una tettoia con copertura
retrattile -cd. “pergotenda”- della superficie di 16 mq)
impedisce solo che questa debba essere assoggettata a
provvedimenti abilitativi di matrice comunale, tendenti a
valutare la fattibilità urbanistica ed edilizia del
manufatto.
Ma, nel caso di specie, la realizzazione di una struttura da
collocare sulla terrazza sommitale di un edificio risulta
potenzialmente idonea ad incidere su valori (diversi da
quelli urbanistici) di carattere paesaggistico, in ragione
del fatto che l’intera area comunale è sottoposta a vincolo
di notevole interesse pubblico istituito nel lontano 1978.
Pertanto, è di intuitiva evidenza che il medesimo intervento
-non assoggettato ad alcun limite o atto di assenso sul
piano edilizio- richieda il preventivo parere dell’organo
tutorio se inserito all’interno di un comune soggetto a
vincolo paesaggistico, mentre potrebbe essere liberamente
eseguito nell’ambito di un territorio comunale che non fosse
assoggettato a tali vincoli.
Sicché, risulta irrilevante sia il fatto che l’intervento
sia qualificabile come “neutro” (o libero) dal punto di
vista edilizio, sia l’asserito errore di fatto commesso
dalla Soprintendenza nel qualificare il manufatto come
“tettoia” piuttosto che “tenda”.
Sia che si trattasse di una “tettoia”, che in ipotesi mera
“tenda”, la Soprintendenza non avrebbe potuto sottrarsi
all’obbligo di valutare (peraltro, su richiesta dello stesso
soggetto interessato) l’incidenza dell’intervento progettato
rispetto ai valori paesaggistici ed ambientali affidati per
legge alla sua cura.
In una vicenda per certi versi analoga, infatti, la
giurisprudenza ha affermato che “Una serra mobile, sebbene
ricada nell'attività edilizia libera, richiede
l'autorizzazione paesaggistica, poiché anche tale tipologia
di manufatto può recare pregiudizio ai valori paesistici e
ambientali protetti ed esige, quindi, un esame preventivo da
parte dell'autorità competente”.
---------------
La Soprintendenza di Messina ha respinto l’istanza
presentata dal ricorrente D’Al., con la quale si richiedeva
il parere di compatibilità paesaggistica ai fini
dell’installazione di una tettoia con copertura retrattile
(cd. “pergotenda”), della superficie di 16 mq, da
collocare su una terrazza posta all’ultimo piano di un
edificio sito nel Comune di Castelmola.
Il provvedimento, in particolare, rilevava l’esistenza di un
vincolo di notevole interesse pubblico apposto su tutto il
territorio del Comune di Castelmola con DPRS 2976/1978, e
del Piano Paesaggistico Ambito 9 approvato con D.A.
6682/2016; aggiungeva inoltre la circostanza che
l’intervento proposto ricade in area soggetta al livello di
tutela 1 del citato P.P.A.
In applicazione di tali strumenti di tutela del territorio,
la Soprintendenza ha ritenuto di dover esprimere –con l’atto
ora impugnato– parere contrario al progetto, trattandosi di
intervento che “comporterebbe un notevole impatto
negativo al paesaggio tutelato” essendo “ricadente in
zona di notevole intervisibilità panoramica ai margini del
tessuto urbano di Castelmola”.
Il ricorrente ha allora impugnato in questa sede il parere
negativo espresso dalla Soprintendenza, assumendo che sia
affetto dai seguenti vizi: ...
...
Il primo motivo
di ricorso è infondato.
La indiscussa natura di “intervento libero” che deve
essere riconosciuta alla struttura progettata dal ricorrente
impedisce solo che questa debba essere assoggettata a
provvedimenti abilitativi di matrice comunale, tendenti a
valutare la fattibilità urbanistica ed edilizia del
manufatto.
Ma, nel caso di specie, la realizzazione di una struttura da
collocare sulla terrazza sommitale di un edificio risulta
potenzialmente idonea ad incidere su valori (diversi da
quelli urbanistici) di carattere paesaggistico, in ragione
del fatto che l’intera area comunale di Castelmola è
sottoposta a vincolo di notevole interesse pubblico
istituito nel lontano 1978, nonché inquadrata nel Piano
Paesaggistico Ambito 9, più di recente varato dalla Regione
Sicilia con riferimento alla provincia di Messina.
Pertanto, è di intuitiva evidenza che il medesimo intervento
-non assoggettato ad alcun limite o atto di assenso sul
piano edilizio- richieda il preventivo parere dell’organo
tutorio se inserito all’interno di un comune soggetto a
vincolo paesaggistico, mentre potrebbe essere liberamente
eseguito nell’ambito di un territorio comunale che non fosse
assoggettato a tali vincoli.
A ben vedere, tale distinguo risulta ben conosciuto dal
ricorrente, che non a caso ha inviato richiesta di nulla
osta alla Soprintendenza di Messina prima di avviare alcun
tipo di attività, salvo poi dolersi del parere contrario
espresso dall’amministrazione.
Alla luce di quanto esposto risulta irrilevante sia il fatto
che l’intervento sia qualificabile come “neutro” (o
libero) dal punto di vista edilizio, sia l’asserito errore
di fatto commesso dalla Soprintendenza nel qualificare il
manufatto come “tettoia” piuttosto che “tenda”.
Sia che si trattasse di una “tettoia”, che in ipotesi
mera “tenda”, la Soprintendenza non avrebbe potuto
sottrarsi all’obbligo di valutare (peraltro, su richiesta
dello stesso soggetto interessato) l’incidenza
dell’intervento progettato rispetto ai valori paesaggistici
ed ambientali affidati per legge alla sua cura.
In una vicenda per certi versi analoga, infatti, la
giurisprudenza ha affermato che “Una serra mobile,
sebbene ricada nell'attività edilizia libera, richiede
l'autorizzazione paesaggistica, poiché anche tale tipologia
di manufatto può recare pregiudizio ai valori paesistici e
ambientali protetti ed esige, quindi, un esame preventivo da
parte dell'autorità competente” (Tar Veneto 1007/2017)
(TAR
Sicilia-Catania, Sez. IV,
sentenza 30.07.2018 n. 1635 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Risulta indiscussa l’applicazione del principio
tempus regit actum al rilascio dei titoli edilizi.
Invero, “Costituisce diritto vivente l’affermazione che nel
procedimento relativo al rilascio di un titolo edilizio, la
situazione normativa vigente alla data di presentazione
della domanda, in ragione del generale principio tempus
regit actum, non costituisce un vincolo per
l’Amministrazione. Le norme coeve alla domanda, infatti, non
possono ritenersi “cristallizzate” fino alla determinazione
finale sulla stessa. I limiti enucleati all’applicazione di
norme sopravvenute nel corso del procedimento non possono
dunque riguardare la materia edilizia, tenuto conto che essi
trovano accesso solo nel caso di procedimenti di tipo
comparativo o lato sensu selettivo (gare, concorsi e così
via), retti, in funzione di garanzia della par condicio,
dalle disposizioni vigenti al momento in cui gli stessi
hanno avuto inizio”
---------------
In base al principio tempus regit actum ogni provvedimento
amministrativo deve essere emesso in base alle norme vigenti
nel momento in cui lo stesso viene emanato. La legittimità
di un provvedimento amministrativo va pertanto valutata in
base alla situazione di fatto e di diritto esistente alla
data della sua adozione.
Nel caso di varianti in corso d’opera a queste ultime andrà
pertanto applicata, limitatamente alle opere che ne
costituiscono oggetto, la normativa in vigore alla data in
cui le stesse sono assentite.
Ciò significa, per quanto concerne gli oneri di
urbanizzazione, che “Con la concessione in variante il
Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli
oneri e il corrispondente contributo non in relazione
all'intero complesso in via di realizzazione, ma con
riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie
assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla
base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del
titolo in variante. Sulla complessiva somma dovuta per
oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la
somma già versata dalla società ricorrente”.
Diversamente operando la nuova disciplina, più favorevole,
troverebbe applicazione ad una fattispecie orami esaurita
con il rilascio dell’originario permesso di costruire, in
violazione del principio generale di irretroattività delle
leggi disciplinato dall’articolo 11 delle preleggi.
---------------
Il ricorso è infondato.
La nota del responsabile dello sportello unico dell’edilizia
impugnata con il ricorso introduttivo motiva l’impossibilità
di applicare la normativa urbanistica sopravvenuta e più
favorevole all’intero intervento edilizio in ragione
dell’applicazione del principio tempus regit actum, e
sostenendo conseguentemente che “va applicata la
normativa sui parcheggi pertinenziali vigente al momento in
cui si è formalizzato il titolo edilizio che ha consentito
l’intervento di ristrutturazione, quindi la normativa
vigente alla data di presentazione della DIA n. 849/2014,
che imponeva la dotazione di parcheggi pertinenziali nella
quantità in allora stabilita, normativa in base alla quale
era stata presentata la fideiussione.”
Risulta indiscussa l’applicazione del principio tempus
regit actum al rilascio dei titoli edilizi; sul punto si
richiama –ex pluris- C.d.S., sez. IV, 14.11.2017, n. 5230,
secondo cui: “Costituisce diritto vivente l’affermazione
che nel procedimento relativo al rilascio di un titolo
edilizio, la situazione normativa vigente alla data di
presentazione della domanda, in ragione del generale
principio tempus regit actum, non costituisce un vincolo per
l’Amministrazione. Le norme coeve alla domanda, infatti, non
possono ritenersi “cristallizzate” fino alla determinazione
finale sulla stessa (cfr. Cons. Stato, sez. IV, n.
5854/2011). I limiti enucleati all’applicazione di norme
sopravvenute nel corso del procedimento non possono dunque
riguardare la materia edilizia, tenuto conto che essi
trovano accesso solo nel caso di procedimenti di tipo
comparativo o lato sensu selettivo (gare, concorsi e così
via), retti, in funzione di garanzia della par condicio,
dalle disposizioni vigenti al momento in cui gli stessi
hanno avuto inizio (cfr. Cons. Stato, Adunanza plenaria n.
9/2011).”
In base al principio tempus regit actum ogni
provvedimento amministrativo deve essere emesso in base alle
norme vigenti nel momento in cui lo stesso viene emanato. La
legittimità di un provvedimento amministrativo va pertanto
valutata in base alla situazione di fatto e di diritto
esistente alla data della sua adozione. Nel caso di varianti
in corso d’opera a queste ultime andrà pertanto applicata,
limitatamente alle opere che ne costituiscono oggetto, la
normativa in vigore alla data in cui le stesse sono
assentite.
Ciò significa, per quanto concerne gli oneri di
urbanizzazione, che “Con la concessione in variante il
Comune deve quindi determinare, in via di conguaglio gli
oneri e il corrispondente contributo non in relazione
all'intero complesso in via di realizzazione, ma con
riferimento alle sole opere nuove e ulteriori volumetrie
assentite con la concessione in variante, da calcolare sulla
base del nuovo parametro vigente al momento del rilascio del
titolo in variante. Sulla complessiva somma dovuta per
oneri, da quantificarsi come sopra, va poi scorporata la
somma già versata dalla società ricorrente” (cfr. TAR
Sardegna, sez. II, 28.11.2013, n. 780; TAR Molise,
05.03.2018, n. 114).
Diversamente operando la nuova disciplina, più favorevole,
troverebbe applicazione ad una fattispecie orami esaurita
con il rilascio dell’originario permesso di costruire, in
violazione del principio generale di irretroattività delle
leggi disciplinato dall’articolo 11 delle preleggi.
Nel caso di specie, del resto, la società interessata ha
realizzato una variante in senso proprio, cioè una modifica
che non ha sostanzialmente e radicalmente mutato il progetto
iniziale. “Il nuovo provvedimento rimane in posizione di
sostanziale collegamento con quello originario” e tale
rapporto di complementarietà “giustifica la peculiarità
del regime giuridico cui esso viene sottoposto sul piano
sostanziale e procedimentale. Rimangono sussistenti,
infatti, tutti i diritti quesiti e ciò rileva specialmente
nel caso di sopravvenienza di una nuova contrastante
normativa che, se non fosse ravvisabile l’anzidetta
situazione di continuità, renderebbe irrealizzabile l’opera”
(Cass. penale, III, 24.06.2010, n. 24236) (TAR Liguria, Sez.
I,
sentenza 30.07.2018 n. 655 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della legittimità dell'iter
procedimentale posto in essere dall'Amministrazione per il
ripristino dei valori giuridici offesi dalla realizzazione
dell'opera edilizia abusiva, è sufficiente la notifica
dell'ordinanza di demolizione, così come degli atti
consequenziali, ad uno solo dei comproprietari e in ogni
caso al responsabile dell'illecito, dovendo questo
adoperarsi, in ragione della funzione ripristinatoria e non
sanzionatoria dell'atto, per eliminare l'illecito, onde
sottrarsi, salvo comprovare l'indisponibilità effettiva del
bene, al pregiudizio della perdita della propria quota
ideale di comproprietà. Il comproprietario pretermesso,
quindi, può comunque autonomamente impugnare il
provvedimento sanzionatorio, facendo valere le proprie
ragioni entro il termine decorrente dalla piena conoscenza
dell'ingiunzione.
Altresì, “La mancata notifica dell'ordinanza di demolizione
a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità,
comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti
del solo proprietario ignaro, ai fini della successiva
acquisizione del bene al patrimonio pubblico. L'ordinanza
demolitoria di abusi edilizi deve essere, infatti,
notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili
dell'abuso anche al proprietario dell'area. La ragione per
la quale quest'ultimo deve essere il destinatario
dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni
coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
realizzate, si individua nella considerazione che la legge
pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe
oggettiva e come tale contraria ai principi
dell'ordinamento), ma un obbligo di cooperazione nella
rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può
produrre l'ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita del
fondo”.
---------------
Parte ricorrente impugna la disposizione dirigenziale n. 75
del 22/01/2001 con la quale veniva respinta, da un lato,
l'istanza di concessione edilizia in sanatoria ai sensi
dell'art. 13 l. 47/1985, in relazione alle opere abusive
eseguite in Napoli, alla Piazza ... n. 6, e consistenti
nella realizzazione di un solaio intermedio nel locale a
piano terra e frazionamento dell'appartamento al primo piano
con accorpamento dei nuovi vani realizzati, determinando
così una nuova unità abitativa autonoma del fabbricato sito
in Napoli, alla via Piazza ... n. 6 e, dall’altro, veniva
ordinata la rimessione in pristino dello stato dei luoghi.
...
Va disatteso, infine, il terzo e ultimo motivo di
ricorso, con il quale parte ricorrente denuncia
l’illegittimità dell’atto impugnato in quanto notificato ad
uno solo dei comproprietari, alla stregua del consolidato
orientamento di questo Tribunale: “ai fini della
legittimità dell'iter procedimentale posto in essere
dall'Amministrazione per il ripristino dei valori giuridici
offesi dalla realizzazione dell'opera edilizia abusiva, è
sufficiente la notifica dell'ordinanza di demolizione, così
come degli atti consequenziali, ad uno solo dei
comproprietari e in ogni caso al responsabile dell'illecito,
dovendo questo adoperarsi, in ragione della funzione
ripristinatoria e non sanzionatoria dell'atto, per eliminare
l'illecito, onde sottrarsi, salvo comprovare
l'indisponibilità effettiva del bene, al pregiudizio della
perdita della propria quota ideale di comproprietà. Il
comproprietario pretermesso, quindi, può comunque
autonomamente impugnare il provvedimento sanzionatorio,
facendo valere le proprie ragioni entro il termine
decorrente dalla piena conoscenza dell'ingiunzione” (TAR
Napoli, sez. VI, 06/03/2018 n. 1416); “La mancata
notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei
comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone
semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo
proprietario ignaro, ai fini della successiva acquisizione
del bene al patrimonio pubblico. L'ordinanza demolitoria di
abusi edilizi deve essere, infatti, notificata oltre che al
soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al
proprietario dell'area. La ragione per la quale quest'ultimo
deve essere il destinatario dell'ordine di demolizione, pur
in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle
opere non realizzate, si individua nella considerazione che
la legge pone a suo carico non una responsabilità (che
sarebbe oggettiva e come tale contraria ai principi
dell'ordinamento), ma un obbligo di cooperazione nella
rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può
produrre l'ulteriore sanzione dell'acquisizione gratuita del
fondo” (TAR Napoli, sez. III, 07/11/2017 n. 5212) (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 02.08.2018 n. 5171 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Asfaltatura
di una strada vicinale.
Quanto alla legittimità
dell’asfaltatura di una strada vicinale
eseguita in assenza di titolo edilizio, ogni
attività di trasformazione del territorio
assume rilevanza se risulta idonea a
modificarlo in modo permanente e
significativo; difatti, vanno ricondotti
alla categoria della trasformazione edilizia
urbanistica le opere che modificano
significativamente la realtà urbanistica e
territoriale, indipendentemente dal fatto
che la loro realizzazione richieda attività
edificatoria in senso stretto.
Più precisamente, devono ritenersi inclusi
in tale categoria gli interventi di
trasformazione del suolo, quali, ad esempio,
la sua cementificazione o lo spianamento di
un terreno al fine di ottenerne un piazzale,
in quanto anche essi creano un nuovo assetto
urbanistico: tali mutamenti di destinazione
possono avere luogo solo se siano stati
espressamente consentiti da una previsione
urbanistica;
Da ciò discende l’illegittimità
dell’asfaltatura di una strada sterrata
senza alcun permesso, considerato che,
trattandosi di una significativa
trasformazione del contesto urbanistico ed
edilizio, per la sua realizzazione è
richiesto il previo rilascio di un permesso
di costruire
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.07.2018 n. 1886 - commento tratto da
https://camerainsubria.blogspot.com).
---------------
MASSIMA
2. Con la prima doglianza si assume
l’illegittimità del provvedimento comunale
demolitorio, atteso che la strada vicinale
che consente l’accesso al sito produttivo di
proprietà della ricorrente sarebbe esistente
da un rilevante lasso di tempo e la posa di
asfalto sulla stessa sarebbe conforme alla
normativa edilizia, richiedendosi al limite
la presentazione di una s.c.i.a., non
sanzionabile con la demolizione ma soltanto
con pena pecuniaria.
2.1. La doglianza è infondata.
Appare opportuno premettere che l’ordinanza
comunale, sebbene in maniera non del tutto
perspicua, ha inteso sanzionare
l’asfaltatura della strada vicinale e non la
realizzazione dell’arteria viaria in se
considerata. Ne discende che la parte del
motivo di ricorso relativo alla legittimità
della costruzione della predetta strada
risulta inconferente ai fini della soluzione
del contenzioso in essere.
2.2. Quanto alla legittimità
dell’asfaltatura della strada vicinale senza
la necessità di alcun titolo edilizio, va
evidenziato che ogni
attività di trasformazione del territorio
assume rilevanza se risulta idonea a
modificarlo in modo permanente e
significativo.
Difatti, secondo la giurisprudenza,
condivisa dal Collegio,
vanno ricondotti «alla
categoria della trasformazione edilizia
urbanistica le opere che modificano
significativamente la realtà urbanistica e
territoriale, indipendentemente dal fatto
che la loro realizzazione richieda attività
edificatoria in senso stretto.
Più precisamente, devono ritenersi inclusi
in tale categoria gli interventi di
trasformazione del suolo, quali, ad esempio,
la sua cementificazione
(Cons. St., Sez. V., n. 1442 del 2001)
o lo spianamento di un terreno al
fine di ottenerne un piazzale
(Cons. St., Sez. IV, n. 5035 del 2007),
in quanto anche essi creano un nuovo
assetto urbanistico: tali mutamenti di
destinazione possono avere luogo solo se
siano stati espressamente consentiti da una
previsione urbanistica.
In particolare (…) rileva anche il principio
(Cons. St., Sez. V, n. 7343 del 2005)
secondo cui: un intervento di
spargimento di ghiaia su un’area che ne era
precedentemente priva rappresenta attività
urbanisticamente rilevante nella misura in
cui “appaia preordinata alla modifica della
precedente destinazione d’uso”»
(Consiglio di Stato, VI, 03.07.2018, n.
4066).
Da ciò discende
l’illegittimità dell’asfaltatura di una
strada sterrata senza alcun permesso,
considerato che, trattandosi di una
significativa trasformazione del contesto
urbanistico ed edilizio, per la sua
realizzazione è richiesto il previo rilascio
di un permesso di costruire. |
EDILIZIA PRIVATA: Appare
legittimo rivolgere l’ordine di demolizione
nei confronti di chi abbia la disponibilità
dell’opera, indipendentemente dal fatto che
tale soggetto si sia reso responsabile
dell’abuso per averlo concretamente
realizzato, rilevando tale aspetto
esclusivamente sotto il profilo della
responsabilità penale, ma non certo ai fini
della legittimità dell’ordine di
demolizione.
L’ordinanza di demolizione di un’opera
abusiva, infatti, può legittimamente essere
emanata nei confronti del proprietario
attuale, anche se non responsabile
dell’abuso, considerato che l’abuso edilizio
costituisce illecito permanente e che
l’ordinanza stessa ha carattere
ripristinatorio e non prevede l’accertamento
del dolo o della colpa del soggetto cui si
imputa la trasgressione.
---------------
Non può determinare l’annullamento
dell’ordine di demolizione la mancata
indicazione dell’area da acquisire in caso
di inottemperanza allo stesso ordine, in
quanto, come sostenuto da un consolidato
orientamento giurisprudenziale, “l’omessa o
imprecisa indicazione di un’area che verrà
acquisita di diritto al patrimonio pubblico
non costituisce motivo di illegittimità
dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il
contenuto dispositivo di quest’ultima si
commina, appunto, la sanzione della
demolizione del manufatto abusivo,
l’indicazione dell’area costituisce
presupposto accertativo ai fini
dell’acquisizione, che costituisce distinta
misura sanzionatoria. Persiste infatti la
netta distinzione tra ordinanza di
demolizione e atto di acquisizione,
preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a
demolire. Quindi, l’individuazione dell’area
da acquisirsi non deve essere
necessariamente contenuta nel provvedimento
di ingiunzione di demolizione, a pena di
illegittimità dello stesso, ben potendo
essere riportata nel momento in cui si
procede all’acquisizione del bene”.
---------------
2.3. Inoltre, appare legittimo rivolgere
l’ordine di demolizione nei confronti di chi
abbia la disponibilità dell’opera,
indipendentemente dal fatto che tale
soggetto si sia reso responsabile dell’abuso
per averlo concretamente realizzato,
rilevando tale aspetto esclusivamente sotto
il profilo della responsabilità penale, ma
non certo ai fini della legittimità
dell’ordine di demolizione; l’ordinanza di
demolizione di un’opera abusiva, infatti,
può legittimamente essere emanata nei
confronti del proprietario attuale, anche se
non responsabile dell’abuso, considerato che
l’abuso edilizio costituisce illecito
permanente e che l’ordinanza stessa ha
carattere ripristinatorio e non prevede
l’accertamento del dolo o della colpa del
soggetto cui si imputa la trasgressione (TAR
Lombardia, Milano, II, 03.05.2018, n. 1198;
27.02.2018, n. 574; 03.11.2016, n. 2013, TAR
Sicilia, Catania, I, 20.09.2016, n. 2261).
2.4. Pertanto, la censura deve essere
respinta.
3. Con la seconda doglianza si
deducono la genericità e l’indeterminatezza
dell’ordinanza di demolizione per mancata
specifica individuazione sia dell’area
interessata dall’asfaltatura abusiva che
dell’eventuale area di sedime che verrebbe
acquisita di diritto al patrimonio comunale
in caso di inottemperanza da parte della
ricorrente.
3.1. La doglianza è infondata.
Va premesso che in data 05.05.2017 gli
Uffici comunali hanno trasmesso alla
ricorrente la planimetria catastale
contenente l’indicazione dei mappali da
acquisirsi in caso di inottemperanza
all’ordinanza di demolizione (all. 11 del
Comune); in ogni caso deve sottolinearsi
come fosse possibile individuare agevolmente
le parti di strada su cui intervenire al
fine di rimuovere l’asfaltatura abusivamente
realizzata, vista la sua immediata
rilevabilità.
Ciò rende irrilevante l’originaria omissione
del Comune, che ha provveduto celermente a
trasmettere la planimetria, comunque non
indispensabile ai fini dell’ottemperanza.
3.2. Ulteriormente va evidenziato come non
possa determinare l’annullamento dell’ordine
di demolizione la mancata indicazione
dell’area da acquisire in caso di
inottemperanza allo stesso ordine, in
quanto, come sostenuto da un consolidato
orientamento giurisprudenziale, condiviso
dal Collegio, “l’omessa o imprecisa
indicazione di un’area che verrà acquisita
di diritto al patrimonio pubblico non
costituisce motivo di illegittimità
dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il
contenuto dispositivo di quest’ultima si
commina, appunto, la sanzione della
demolizione del manufatto abusivo,
l’indicazione dell’area costituisce
presupposto accertativo ai fini
dell’acquisizione, che costituisce distinta
misura sanzionatoria. Persiste infatti la
netta distinzione tra ordinanza di
demolizione e atto di acquisizione,
preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a
demolire. Quindi, l’individuazione dell’area
da acquisirsi non deve essere
necessariamente contenuta nel provvedimento
di ingiunzione di demolizione, a pena di
illegittimità dello stesso, ben potendo
essere riportata nel momento in cui si
procede all’acquisizione del bene”
(Consiglio di Stato, VI, 05.01.2015, n. 13;
altresì, TAR Lombardia, Milano, II,
02.05.2018, n. 1190; 18.07.2017, n. 1644)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 30.07.2018 n. 1886 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La realizzata “recinzione” (costituita da un vero
e proprio muro in calcestruzzo di 1,30 m di altezza, 20 cm
di spessore e 70 metri di lunghezza) è di entità notevole,
non essendo una mera “recinzione del cantiere” (non ritenuta
idonea a integrare l’inizio dei lavori), ma un vero e
proprio muro di contenimento con annesso sbancamento e
terrazzamento del terreno adiacente.
Sicché, dovendosi valutare l’inizio dei lavori in concreto e
in rapporto all’entità dell’intervento edilizio programmato,
va affermato che la realizzazione del muro descritto già
effettuato costituisce senz’altro un valido inizio dei
lavori in quanto implica l’attivazione del cantiere e
rappresenta inequivocamente la volontà di realizzare l’opera
programmata.
---------------
... per l'annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
dell’ordinanza n. 113 del 16.09.2005 recante l’ordine di
demolizione di una recinzione di un lotto di terreno sito in
Caserta alla strada comunale La Rocca;
...
1.1. Con il presente gravame, MU.Ma., impugna il
provvedimento n. 113 del 16.09.2005 con cui il Comune di
Caserta ha ordinato la demolizione di una recinzione di un
lotto di terreno sito in Caserta alla strada comunale La
Rocca in seguito alla decadenza del permesso di costruire
rilasciato per il lotto medesimo (permesso n. 271 del
29.11.2001).
...
2.1. Il risalente provvedimento è adottato, in sostanza, sul
presupposto dell’avvenuta decadenza del titolo edilizio n.
271 del 29.11.2001 che, pacificamente, contemplava la
recinzione in questione tra le opere da realizzare.
2.2. Il Comune di Caserta rileva che il permesso di
costruire sarebbe decaduto per il mancato inizio dei lavori
entro l’anno come previsto dall’art. 15, co. 2, del D.P.R.
380/2001 (“il termine per l'inizio dei lavori non può
essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello
di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori”)
e, pertanto, ingiunge la demolizione della recinzione poiché
effettuata senza titolo edilizio.
3. In punto di fatto, occorre considerare che la “recinzione”
è costituita da un vero e proprio muro in calcestruzzo di
1,30 m di altezza, 20 cm di spessore e 70 metri di
lunghezza, effettuato previo terrazzamento dei terreni
adiacenti (v. perizia a firma del geom. Toscano), realizzato
a partire dal 18.11.2002, come da comunicazione di inizio
lavori inviata in pari data (in atti).
4.1. La circostanza appena descritta dimostra la fondatezza
della censura sub III che assume rilievo assorbente.
4.2. L’entità dell’opera realizzata, infatti, è notevole non
essendo una mera “recinzione del cantiere” (non
ritenuta idonea a integrare l’inizio dei lavori), ma un vero
e proprio muro di contenimento con annesso sbancamento e
terrazzamento del terreno adiacente.
4.3. Dovendosi valutare l’inizio dei lavori in concreto e in
rapporto all’entità dell’intervento edilizio programmato (v.
Consiglio di Stato, sez. V, 31/08/2017, n. 4150), va
affermato che la realizzazione del muro descritto già
effettuato costituisce senz’altro un valido inizio dei
lavori in quanto implica l’attivazione del cantiere e
rappresenta inequivocamente la volontà di realizzare l’opera
programmata (sull’idoneità di lavori di sbancamento e di
realizzazione di un muro di contenimento a rappresentare
l’inizio dei lavori, v. Cassazione penale, sez. II,
06/02/1979; v. anche Consiglio di Stato, sez. VI,
19/09/2017, n. 4381 e, in termini, TAR Genova, sez. I,
28/01/2016, n. 93).
5. Giova precisare che, al momento dell’adozione del
provvedimento impugnato (in cui si dava per assodata la
decadenza dal titolo edilizio), il 15.09.2004, non era
ancora decorso il termine ultimo per la conclusione dei
lavori (tre anni dall’inizio dei lavori, art. 15, co. 2,
D.P.R. 380/2001, cit.) che, parimenti, avrebbe implicato la
decadenza del titolo edilizio. In ragione dell’adozione del
provvedimento impugnato, peraltro, legittimamente la
ricorrente ha sospeso ogni attività edilizia e, pertanto,
dovrà essere rimessa in termini per concludere l’opera di
cui al menzionato permesso di costruire con un’opportuna
proroga.
6. Il ricorso va, pertanto, accolto nei sensi sopra
precisati. Le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a
carico del Comune intimato per il principio di soccombenza e
dovendosi comunque stigmatizzare il contegno processuale di
mancata ottemperanza all’ordinanza istruttoria n. 628/2018 (TAR
Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 26.07.2018 n. 5016 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Il legittimo esercizio dell’attività commerciale
è ancorato non solo in sede di rilascio dei titoli
abilitativi, ma anche per la intera sua durata di
svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il
profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene
posta in essere, con conseguente potere-dovere dell’autorità
amministrativa di inibire l'attività commerciale esercitata
in locali rispetto ai quali siano stati adottati
provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle
opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in
modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale.
Sicché, risulta legittimo il provvedimento comunale di
chiusura dell’attività determinato dalla riscontrata
abusività dell’edificio in cui essa si svolge.
---------------
Va osservato –infatti– in punto di diritto che “Il
legittimo esercizio dell’attività commerciale è pertanto
ancorato, non solo in sede di rilascio dei titoli
abilitativi, ma anche per la intera sua durata di
svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il
profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene
posta in essere, con conseguente potere-dovere dell’autorità
amministrativa di inibire l'attività commerciale esercitata
in locali rispetto ai quali siano stati adottati
provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle
opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in
modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale (cfr.
Cons. Stato, VI, 23.10.2015, n. 4880)” – da ultimo
Consiglio di Stato, sez. V, sent. 29/05/2018 n. 3212.
Alla stregua di tale consolidato orientamento, risulta
legittimo il provvedimento comunale di chiusura
dell’attività determinato dalla riscontrata abusività
dell’edificio in cui essa si svolge (TAR Campania-Napoli,
Sez. VIII,
sentenza 26.07.2018 n. 4979 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’agibilità di un locale in cui è svolta
un’attività commerciale o artigianale non può essere
frazionata per le parti in cui esso si compone, poiché
l’utilizzo della parte abusiva si riflette
sull’incompatibilità dell’attività nel complesso.
---------------
4.3 - Va per completezza, altresì, evidenziato che in
fattispecie relativa –come quella in esame– ad inagibilità
di un (solo) manufatto realizzato in ampliamento, è stato
sostenuto: “Né può affermarsi che il carattere abusivo
riguarda solo una parte dell’immobile (mantenendosi invece
l’agibilità per la restante porzione), trattandosi di un
requisito unico ed inscindibile.
L’agibilità di un locale in cui è svolta un’attività
commerciale o artigianale non può essere frazionata per le
parti in cui esso si compone, poiché l’utilizzo della parte
abusiva si riflette sull’incompatibilità dell’attività nel
complesso (nella specie, la chiusura perimetrale dello
spazio ha incrementato le superfici destinate all’attività,
risultando per ciò svolta in un immobile con caratteristiche
nuove rispetto alla richiesta del certificato di agibilità)”
– TAR Campania-Napoli, sez. III, sent. 13/01/2016 n. 141 (TAR
Campania-Napoli, Sez. VIII,
sentenza 26.07.2018 n. 4979 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Quand'anche si ritenesse di poter qualificare
come strada poderale la realizzata pista “off-road” per test
drive dei veicoli, appare evidente che tale intervento non
rientrerebbe comunque nella citata fattispecie, in quanto
sono sottratte all’obbligo di titolo abilitativo
esclusivamente quelle strade poderali e interpoderali
finalizzate all’attività agro-silvo-pastorale.
Al riguardo la giurisprudenza consolidata ha affermato che
l'esecuzione di movimenti terra, finalizzati ad usi diversi
da quelli agricoli, richieda il titolo abilitativo, anche in
mancanza di finalità edilizie degli scavi o dei movimenti di
terra allorquando la notevole entità dell'intervento sul
territorio sia tale da connotarlo come di rilevanza
urbanistica.
In particolare, è stato di recente ribadito che “ai fini
della necessità o meno del permesso di costruire
relativamente a lavori di sbancamento del terreno, occorre
distinguere tra gli scavi finalizzati ad utilizzo edilizio e
le consimili attività non connesse all'edificazione.
Soltanto nella prima ipotesi essi sono da ritenersi compresi
nell'intervento complessivo e non richiedono uno specifico
titolo autorizzativo, mentre i lavori di sbancamento in
assenza di opere in muratura necessitano del permesso di
costruire ove modifichino in modo durevole l'ambiente
circostante.
In particolare, quindi, l'esecuzione di questo tipo di
lavori richiede il titolo abilitativo, anche in mancanza di
finalità edilizie degli scavi o dei movimenti di terra,
allorquando la notevole entità dell'intervento sul
territorio sia tale da connotarlo come di rilevanza
urbanistica.
Anche secondo la giurisprudenza penale questa tipologia di
lavori necessita del permesso di costruire quando la
notevole entità dell'intervento sul territorio sia tale da
connotarli come di rilevanza urbanistica, ovverosia allorché
la morfologia del territorio venga alterata in conseguenza
di rilevanti opere di scavo, sbancamenti, livellamenti
finalizzati ad usi diversi da quelli agricoli, compresi
quelli turistici o sportivi”.
---------------
1. La materia del contendere attiene alla legittimità degli
provvedimenti posti in essere dal Comune di Perugia a
seguito della presentazione da parte dell’odierna ricorrente
di una S.C.I.A. per la realizzazione di una pista “off-road”
per test drive dei veicoli.
Gli interventi compiuti dall’odierna ricorrente consistono
in movimenti terra e riporti di materiale inerte e nella
realizzazione di un dosso avente altezza massima di 4 metri
dal piano di campagna ed altri accumuli di terra di altezza
variabile, per un totale stimato di circa 300 mc.
L’opera in esame, come detto, insiste su un sedime destinato
dal vigente piano urbanistico a fascia di igiene ambientale
ove, ai sensi dell’art. 139 del T.U.N.A., “è fatto
obbligo del loro mantenimento allo stato naturale”
consentendo la norma in commento solo alcuni limitati
interventi.
...
3. Ciò posto, le residue censure riferibili all’ordinanza n.
23 del 13.06.2017 sono infondate.
L’ordinanza di demolizione è adottata ai sensi dell’art. 143
della l.r. n. 1 del 2015 e contesta la realizzazione di
opere in assenza di permesso di costruire ed in contrasto
con la normativa di piano regolatore.
Rinviando al punto precedente per quanto attiene al secondo
aspetto, in merito all’individuazione del titolo abilitativo
edilizio necessario per l’intervento realizzato va rilevato,
in primo luogo, che non appare condivisibile l’affermazione
del ricorrente secondo la quale le suddette opere andrebbero
ricondotte al novero dell’edilizia libera.
Ai sensi dell’art. 118, comma 1, della l.r. n. 1 del 2015,
nell’elencare gli interventi che possono essere eseguiti
senza titolo abilitativo edilizio, include alla lett. f) “la
realizzazione di strade poderali e interpoderali, i
movimenti di terra strettamente pertinenti all'esercizio
dell'attività agricola, effettuati con compensazione tra
scavo e riporto e senza asportazione di terreno o di altro
materiale al di fuori dell'azienda agricola interessata
dagli interventi, da effettuare comunque nel rispetto
dell'assetto morfologico e paesaggistico locale”.
Anche qualora si ritenesse di poter qualificare come strada
poderale la realizzata pista per il test drive delle
autovetture, appare evidente che tale intervento non
rientrerebbe comunque nella citata fattispecie, in quanto
sono sottratte all’obbligo di titolo abilitativo
esclusivamente quelle strade poderali e interpoderali
finalizzate all’attività agro-silvo-pastorale, come
ricordato anche dalla giurisprudenza di questo Tribunale (cfr.
TAR Umbria, 09.03.2017, n. 201).
Allo stesso modo la finalità agricola –palesemente assente
nel caso in esame– è determinante anche per la sottrazione
al titolo abilitativo dei movimenti di terra; l’art. 118,
comma 1, lett. f), l.r. n. 1 del 2015 espressamente
richiama, infatti, “i movimenti di terra strettamente
pertinenti all'esercizio dell'attività agricola”.
Al riguardo la giurisprudenza consolidata, dalla quale
questo Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi, ha
affermato che l'esecuzione di movimenti terra, finalizzati
ad usi diversi da quelli agricoli, richieda il titolo
abilitativo, anche in mancanza di finalità edilizie degli
scavi o dei movimenti di terra allorquando la notevole
entità dell'intervento sul territorio sia tale da connotarlo
come di rilevanza urbanistica.
In particolare, è stato di recente ribadito che “ai fini
della necessità o meno del permesso di costruire
relativamente a lavori di sbancamento del terreno, occorre
distinguere tra gli scavi finalizzati ad utilizzo edilizio e
le consimili attività non connesse all'edificazione (TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 01.06.2010, n. 11362; TAR
Campania, Napoli, sez. IV, 13.05.2008, n. 4263). Soltanto
nella prima ipotesi essi sono da ritenersi compresi
nell'intervento complessivo e non richiedono uno specifico
titolo autorizzativo, mentre i lavori di sbancamento in
assenza di opere in muratura necessitano del permesso di
costruire (TAR Piemonte, Torino, sez. I, 14.12.2005, n.
4057) ove modifichino in modo durevole l'ambiente
circostante (TAR Campania, Napoli, sez. IV, 13.05.2008, n.
4261; TAR Campania, Napoli, 20.10.2003, n. 12922; TAR
Piemonte, Torino, sez. I, 14.12.2005, n. 4057).
In particolare, quindi, l'esecuzione di questo tipo di
lavori richiede il titolo abilitativo, anche in mancanza di
finalità edilizie degli scavi o dei movimenti di terra,
allorquando la notevole entità dell'intervento sul
territorio sia tale da connotarlo come di rilevanza
urbanistica (TAR Sicilia, Palermo, sez. III, 25.05.2005, n.
883, Consiglio Stato, sez. V, 21.12.1989, n. 877).
Anche secondo la giurisprudenza penale questa tipologia di
lavori necessita del permesso di costruire quando la
notevole entità dell'intervento sul territorio sia tale da
connotarli come di rilevanza urbanistica (Cass. pen., sez.
III, 05.06.2001, n. 30833), ovverosia allorché la morfologia
del territorio venga alterata in conseguenza di rilevanti
opere di scavo, sbancamenti, livellamenti finalizzati ad usi
diversi da quelli agricoli, compresi quelli turistici o
sportivi (Cass. pen., sez. III, 30.09.2002, n. 38055)”
(TAR Campania, Napoli, sez. VIII, 18.04.2018 n. 2520).
Per quanto attiene il caso in esame, l’Amministrazione ha,
seppur succintamente, motivato in merito alla rilevanza
edilizia degli interventi realizzati, qualificando
l’intervento in oggetto come nuova costruzione “in quanto
comportante modificazione rilevante e duratura dello stato
dei luoghi e, pertanto, la trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio”.
Non appare, infine, rilevante ai fini di un eventuale
affidamento della ricorrente il nulla osta rilasciato
dall’ufficio mobilità del Comune, in quanto attinente a
profili diversi da quelli edilizi.
4. Per quanto esposto, i residui motivi di ricorso devono
essere respinti (TAR Umbria,
sentenza 25.07.2018 n. 469 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'annullamento in autotutela del titolo edilizio
sorretto da valutazioni logico-giuridiche, e non da
valutazioni di ordine tecnico-edilizio, non abbisogna del
previo parere della Commissione Edilizia.
Inoltre, quando l’illegittimità del titolo edilizio dipende
dall’erronea rappresentazione della realtà in capo
all’amministrazione procedente causata dal comportamento del
richiedente (non importa se doloso o colposo), l’interesse
pubblico concreto ed attuale all’annullamento dell'atto può
ritenersi sussistente “in re ipsa”, non opponendosi a ciò
posizioni di interesse del privato degne di particolare
tutela.
---------------
Venendo in rilievo un annullamento in autotutela sorretto da
valutazioni logico-giuridiche, e non da valutazioni di
ordine tecnico-edilizio, non risultava necessario acquisire
il previo parere della Commissione Edilizia (per tutte, cfr.
Tar Milano, II, n. 4493/2009).
Inoltre, come affermato dalla giurisprudenza (sul punto cfr.
Tar Milano, II, n. 841/2013), quando l’illegittimità del
titolo edilizio dipende dall’erronea rappresentazione della
realtà in capo all’amministrazione procedente causata dal
comportamento del richiedente (non importa se doloso o
colposo), l’interesse pubblico concreto ed attuale
all’annullamento dell'atto può ritenersi sussistente “in
re ipsa”, non opponendosi a ciò posizioni di interesse
del privato degne di particolare tutela (CGARS,
sentenza 25.07.2018 n. 448 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla differenza, in
termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare
ed un terrazzo.
Esiste una differenza, in termini di
disciplina urbanistica, tra un lastrico solare ed un
terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur
praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una
copertura di ambienti sottostanti, mentre il terrazzo
è inteso come ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce
già delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o
muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e
utilizzo per utenti.
Invero, “mentre il lastrico solare, al pari del
tetto, assolve essenzialmente la funzione di copertura
dell'edificio, di cui forma parte integrante sia sotto il
profilo meramente materiale, sia sotto il profilo giuridico,
la terrazza è invece costituita da una superficie
scoperta posta al sommo di alcuni vani e nel contempo sullo
stesso piano di altri, dei quali forma parte integrante
strutturalmente e funzionalmente, nel senso che per il modo
in cui è realizzata, risulta destinata non tanto a coprire
le verticali di edifici sottostanti, quanto e soprattutto a
dare un affaccio e ulteriori comodità all'appartamento cui è
collegata e del quale costituisce una proiezione verso
l'esterno”.
---------------
Al riguardo, occorre precisare che esiste una differenza, in
termini di disciplina urbanistica, tra un lastrico solare
ed un terrazzo.
Il primo è una parte di un edificio che, pur
praticabile e piana, resta un tetto, o quanto meno una
copertura di ambienti sottostanti, mentre il terrazzo
è inteso come ripiano anch'esso di copertura, ma che nasce
già delimitato all'intorno da balaustre, ringhiere o
muretti, indici di una ben precisa funzione di accesso e
utilizzo per utenti (TAR Salerno-Campania- sez. II
03.01.2018 n. 24).
Come precisato dalla condivisibile giurisprudenza
amministrativa, “mentre il lastrico solare, al
pari del tetto, assolve essenzialmente la funzione di
copertura dell'edificio, di cui forma parte integrante sia
sotto il profilo meramente materiale, sia sotto il profilo
giuridico, la terrazza è invece costituita da una
superficie scoperta posta al sommo di alcuni vani e nel
contempo sullo stesso piano di altri, dei quali forma parte
integrante strutturalmente e funzionalmente, nel senso che
per il modo in cui è realizzata, risulta destinata non tanto
a coprire le verticali di edifici sottostanti, quanto e
soprattutto a dare un affaccio e ulteriori comodità
all'appartamento cui è collegata e del quale costituisce una
proiezione verso l'esterno” (TAR Roma, Lazio, sez. II
04.04.2016 n. 4043) (TAR Abruzzo-L'Aquila,
sentenza 24.07.2018 n. 305 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Affidamenti
sotto soglia, il bando è da pubblicare. L’urgenza
non legittima l'omissione.
In un affidamento di importo stimato fra 40 mila e 150 mila euro l'urgenza
non legittima l'omessa effettuazione della pubblicità di un affidamento e la
consultazione di mercato.
Lo ha stabilito il TAR Friuli Venezia Giulia con la
sentenza 18.07.2018 n. 252
relativamente ad una procedura per l'affidamento del servizio di Data protection officer di importo compreso fra 40 mila e 150 mila euro bandita
ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettera b), del codice dei contratti
pubblici. Era accaduto che l'amministrazione avesse omesso di dare corso
alla pubblicazione dell'avviso, in una situazione in cui neppure
sussistevano i presupposti per dare corso all'affidamento diretto, ai sensi
dell'art. 63 del codice dei contratti pubblici.
Si legge nella sentenza che l'amministrazione non aveva neppure indicato le
ragioni di estrema urgenza che, se sussistenti, avrebbero consentito di
derogare agli adempimenti previsti dalla procedura adottata (art. 63, comma
2, lett. c). Viceversa la stazione appaltante avrebbe dovuto applicare l'articolo 36, comma 2, lett. b), del codice dei contratti pubblici che
consente alle stazioni appaltanti la facoltà di dare corso alla procedura
semplificata nel caso di affidamento di contratti di importo pari o
superiore a 40 mila euro e inferiore a 150mila euro occorreva però
procedere alla «consultazione, ove esistenti, di almeno dieci operatori
economici per i lavori, e, per i servizi e le forniture di almeno cinque
operatori economici individuati sulla base di indagini di mercato o tramite
elenchi di operatori economici, nel rispetto di un criterio di rotazione
degli inviti».
Su questa procedura, peraltro, l'Anac (linee guida n. 4
dell'01/03/2018) hanno precisato che la stazione appaltante deve assicurare
l'opportuna pubblicità dell'attività di esplorazione del mercato, scegliendo
gli strumenti più idonei in ragione della rilevanza del contratto per il
settore merceologico di riferimento e della sua contendibilità, da valutare
sulla base di parametri non solo economici.
In questi casi, ha detto l'Anac, la durata della pubblicazione è stabilita
in ragione della rilevanza del contratto, per un periodo minimo
identificabile in 15 giorni, salva riduzione per motivate ragioni di urgenza
a non meno di cinque giorni (articolo
ItaliaOggi del 31.08.2018).
---------------
MASSIMA
Rilevato, inoltre, che:
- il ricorso è manifestamente fondato in relazione al primo motivo con il
quale viene dedotto: violazione dell’art. 36, co. 2, lett. b), del d.lgs.
50/2016; violazione delle Linee Guida dell’ANAC n. 4; violazione degli artt.
4 e 30 del d.lgs. 50/2016 e dei principi di libera concorrenza, non
discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità delle procedure
di affidamento;
- l’art. 36, comma 2, lett. b), D.Lgs. n. 50 del 2016 consente alle
stazioni appaltanti la facoltà di dare corso alla procedura semplificata nel
caso di affidamento di contratti di importo pari o superiore a € 40.000,00 e
inferiore a € 150.000,00;
- come testualmente previsto dalla disposizione richiamata, detta procedura
negoziata deve essere preceduta dalla “consultazione, ove esistenti, di
almeno dieci operatori economici per i lavori, e, per i servizi e le
forniture di almeno cinque operatori economici individuati sulla base di
indagini di mercato o tramite elenchi di operatori economici, nel rispetto
di un criterio di rotazione degli inviti”;
- in relazione allo svolgimento di tale attività di consultazione degli
operatori economici le Linee Guida ANAC n. 4, approvate con deliberazione
01.03.2018, n. 206, precisano che “la stazione appaltante assicura
l'opportuna pubblicità dell’attività di esplorazione del mercato, scegliendo
gli strumenti più idonei in ragione della rilevanza del contratto per il
settore merceologico di riferimento e della sua contendibilità, da valutare
sulla base di parametri non solo economici. A tal fine la stazione
appaltante pubblica un avviso sul profilo di committente, nella sezione
«amministrazione trasparente» sotto la sezione «bandi e contratti», o
ricorre ad altre forme di pubblicità. La durata della pubblicazione è
stabilita in ragione della rilevanza del contratto, per un periodo minimo
identificabile in quindici giorni, salva la riduzione del suddetto termine
per motivate ragioni di urgenza a non meno di cinque giorni” (punto 5.1.4);
- nel caso di specie, l’Amministrazione ha omesso di dare corso alla
prescritta pubblicazione dell’avviso, adempimento del quale (al di là di un
generico cenno all’interno della memoria di costituzione - p. 11) non viene
fornita prova alcuna;
- come correttamente evidenziato dal ricorrente, neppure sussistono nel caso
di specie i presupposti (al di là del laconico riferimento all’urgenza di
affidare il servizio) per dare corso all’affidamento diretto, ai sensi
dell’art. 63, D.Lgs. n. 50 del 2016;
- l’Amministrazione non ha neppure indicato quelle ragioni di “estrema
urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice” che, se sussistenti, avrebbero consentito di derogare agli
adempimenti previsti dalla procedura adottata (art. 63, comma 2, lett. c);
- la deroga, peraltro, appare del tutto incompatibile con la prevista
facoltà di proroga annuale dell’affidamento, dovendosi considerare che
l’esenzione dall’obbligo di pubblicazione appare consentita solo “nella
misura strettamente necessaria” ad affrontare la specifica situazione
emergenziale, la quale costituisce la causa ovvero l’occasione
dell’affidamento, ciò che precluderebbe la possibilità di disporre un
eventuale rinnovo a favore dell’aggiudicatario, allorché le condizioni di
urgenza siano inevitabilmente venute meno;
- in conclusione, la rilevata carenza della prescritta pubblicità
dell’avviso rende del tutto inattendibile la procedura di selezione del
contraente posta in essere dall’Amministrazione e, nel contempo, si dimostra
direttamente lesiva della posizione del ricorrente, avendone
illegittimamente precluso la partecipazione, nonostante egli risultasse in
possesso dei titoli prescritti;
- per le considerazioni anzidette, devono dunque essere annullati gli atti
di gara oggetto del presente giudizio, potendosi prescindere dall’esame dei
restanti motivi, da dichiararsi assorbiti, in ragione dell’accoglimento del
primo profilo di censura; |
EDILIZIA PRIVATA: Il
soppalco? Non serve permesso a costruire.
Per il soppalco non serve il permesso di costruire solo quando l'opera sia
tale da non incrementare la superficie dell'immobile. Tuttavia, quest'ultima
ipotesi si verifica solo nel caso in cui lo spazio realizzato col soppalco
consista in un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna
modesta, tale da renderlo non fruibile alle persone.
È il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 09.07.2018 n. 4166 sulla realizzazione di un soppalco e
sulla tipologia di permesso richiesto per la costruzione.
Il caso: in una casa di alto valore storico di proprietà di una società
venne compiuto un sopralluogo da parte di tecnici comunali da cui era emersa
la realizzazione di opere edilizie in difformità dai titoli edilizi
abilitativi. Per tale ragione la società presentava istanza di concessione
in sanatoria per la realizzazione di un soppalco e il cambio di destinazione
d'uso delle opere.
Il comune ha respinto l'istanza. E la società ha
presentato ricorso al Tar. I giudici del Consiglio di stato affermano che la
realizzazione di un soppalco quando comporta ulteriore superficie
calpestabile ed autonomi spazi rientra nel novero degli interventi di
ristrutturazione edilizia. In quanto determina un aumento della superficie
utile dell'unità con conseguente aggravio del carico urbanistico.
Il
Collegio, però, non ha disconosciuto l'orientamento che mitiga il principio
innanzi ricordato e volto a ricondurre la realizzazione di un soppalco
nell'ambito degli interventi edilizi minori, per i quali non è richiesto il
permesso di costruire, qualora l'opera sia tale da non incrementare la
superficie dell'immobile.
Nel caso di specie, sostengono i giudici di
Palazzo Spada, al contrario dalle rappresentazioni fotografiche prodotte in
causa, il soppalco in questione, seppur di modeste dimensioni, integra un
aumento di superficie fruibile, concretizzando la possibilità di accedervi
in sicurezza per lo svolgimento del normale esercizio di calpestio e di
posizionamento di carichi variabili.
Ne consegue che, su tale aspetto, la
statuizione del Tar risulta assolutamente condivisibile. In definitiva,
l'appello deve essere respinto, con condanna della società appellante al
pagamento delle spese di lite (articolo
ItaliaOggi del 28.08.2018). |
INCARICHI
PROFESSIONALI: Il
rimborso spese è automatico. Stampe, fotocopie e cancelleria: difensore
ristorato. AVVOCATI/ La Corte di cassazione si pronuncia sulle spettanze
previste dalla legge.
Il rimborso forfettario delle spese generali (nella
specie ai sensi dell'art. 1, comma 2, del dm n. 140 del 2012) compete
automaticamente al difensore anche in assenza di allegazione specifica e di
apposita istanza. Quest'ultima deve ritenersi implicita nella domanda di
condanna al pagamento degli onorari giudiziali che grava sulla parte
soccombente.
È
con l'ordinanza 30.05.2018, n. 13693
che la Corte di Cassazione, Sez. I civile, si pronuncia sulla
spettanza automatica del rimborso forfettario delle spese generali di
giustizia di competenza dei legali. Le spese generali sono riconosciute
all'avvocato per legge.
I giudici di Cassazione ricordano che l'articolo 13,
comma 10, della legge numero 147/2012, stabilisce che «oltre al compenso per
la prestazione professionale, all'avvocato è dovuta, sia dal cliente in caso
di determinazione contrattuale, sia in sede di liquidazione giudiziale,
oltre al rimborso delle spese effettivamente sostenute e di tutti gli oneri
e contributi eventualmente anticipati nell'interesse del cliente, una somma
per il rimborso delle spese forfetarie».
La previsione legale del rimborso forfettario del 15% comporta, quindi, il diritto ad ottenere tale somma
anche a prescindere da un'esplicita indicazione delle stesse in sentenza.
Quando si parla di spese generali i giudici fanno riferimento ad esempio,
alle numerose stampe e fotocopie effettuate dal legale per partecipare ai
processi, alle spese di cancelleria, a quelle per reperire il materiale per
studiare la questione giuridica e così via.
La mancata liquidazione in
favore dell'avvocato della parte vittoriosa delle somme dovute per spese
generali costituisce un errore materiale della sentenza, che può essere
corretto con il procedimento di cui agli articoli 287 e seguenti cod. proc.
civ., in quanto l'omissione riguarda una statuizione di natura accessoria e
a contenuto normativamente obbligato, che richiede al giudice una mera
operazione tecnico-esecutiva, da svolgersi sulla base di presupposti e
parametri oggettivi (articolo
ItaliaOggi del 30.08.2018).
---------------
MASSIMA
8. Il quinto motivo, infine, che censura la condanna alle spese
inflitta al Veronese dal Tribunale di Bolzano e la sua quantificazione, è
infondato.
8.1. Il giudice di merito, nell'applicare il principio di soccombenza
-certamente non incorrendo, per ciò solo, nel vizio di violazione di legge (cfr.,
ex plurimis, Cass. n. 19613 del 2017; Cass. n. 8421 del 2017; Cass.
n. 14349 del 2012; Cass. nn. 17145 e 25270 del 2009)- ha liquidato le spese
giudiziali «...secondo i criteri di cui al d.m. 20.07.2012, n. 140, preso
come riferimento lo scaglione da € 100.000,01 a € 500.000,00 ed applicati i
valori medi di liquidazione, con riduzione del 50% dei soli valori medi
della fase decisoria, in considerazione della ridotta attività processuale
espletata nella detta fase (partecipazione ad un'unica udienza di
discussione senza redazione di memorie conclusionali)» (cfr. pag. 11 del
decreto impugnato).
8.2. Il ricorrente assume che tale decisione violerebbe «platealmente»
il complesso normativo desumibile dal d.m. n. 140 del 2012: «in primo
luogo, perché la quantificazione dei compensi ... avrebbe dovuto essere, a
norma di legge, inferiore, ed in secondo luogo perché non avrebbe potuto
comunque pronunciarsi la condanna anche al rimborso forfettario pari al
12,5%» (cfr. 48 del ricorso).
8.2.1. Quest'ultima doglianza è infondata atteso che l'art. 1, comma 2, del
d.m. predetto (oggi sostituito dal d.m. n. 55 del 2014, ma qui applicabile
ratione temporis), prevede[va] che «nei compensi non sono comprese
le spese da rimborsare secondo qualsiasi modalità, compresa quella
concordata in modo forfettario».
Posta, allora,
la diversità tipologica e concettuale chiaramente esistente tra
compenso spettante al difensore e spese dal medesimo sostenute
nell'espletamento dell'attività professionale svolta per il cliente, giova
solo ricordare, da un lato, che le spese cd. generali (o forfetarie)
sono quelle di norma sostenute durante una causa, la cui dimostrazione è
difficile oppure oltremodo gravosa, sicché il loro rimborso è dovuto anche
senza la prova del relativo sostenimento; dall'altro, che costituisce
principio consolidato quello secondo il quale il rimborso cd. forfetario
delle spese generali costituisce una componente delle spese giudiziali, la
cui misura è predeterminata dalla legge, che spetta automaticamente al
professionista difensore, anche in assenza di allegazione specifica e di
apposita istanza, dovendosi quest'ultima ritenere implicita nella domanda di
condanna al pagamento degli onorari giudiziali che incombe sulla parte
soccombente (cfr. Cass. 15818 del
2013, in motivazione; Cass. n. 4209 del 2010). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto della controversia è l’assoggettamento a contributo
di costruzione delle autorimesse ubicate al piano terra
delle nuove costruzioni assentite con il permesso impugnato in parte qua.
Deve darsi atto che parte ricorrente tende a confondere i
parcheggi pertinenziali esterni al fabbricato, per i quali
il Comune non ha calcolato alcun costo di costruzione, con
le autorimesse chiuse e collocate al piano terra dei nuovi
edifici.
La pretesa che si tratti, anche per queste ultime, di “opere
di urbanizzazione” che rientrano nella previsione di cui
all’art. 17 del dpr 380/2001, in virtù del disposto
dell’art. 11 della legge Tognoli del 1989, non può essere
condivisa.
La suddetta previsione recita “Le opere e gli interventi
previsti dalla presente legge costituiscono opere di
urbanizzazione anche ai sensi dell’art. 9, primo comma,
lettera f), della legge 28.01.1977”.
Le opere e gli interventi previsti dalla legge Tognoli sono
i parcheggi da realizzare nel sottosuolo o al piano terreno
dei fabbricati o nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato.
Si tratta pertanto di destinazioni a parcheggio o di locali
nel sottosuolo di edifici o di aree pertinenziali o,
all’evidenza, di locali al piano terra di edifici
preesistenti.
Già la legge del 1989, nonostante dovesse affrontare la
mancanza di parcheggi pertinenziali, non vi ricomprende
autorimesse fuori terra in aree esterne al fabbricato.
Non si prevede la costruzione di nuovi volumi fuori terra,
ma solo la destinazione ad autorimessa di locali al piano
terra di edifici già esistenti per i quali il contributo di
costruzione era stato già assolto.
Ai sensi dell’art. 9, primo comma, lett. f), della legge n.
10/1977 [e, oggi, ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. c),
del d.p.r. n. 380/2001], il contributo per il rilascio della
concessione non è dovuto “per gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché
per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati,
in attuazione di strumenti urbanistici”.
Il carattere eccezione della previsione esclude una
interpretazione estensiva della stessa a ipotesi non
strettamente previste.
Per i parcheggi da realizzare in costruzioni di nuova
realizzazione trova applicazione la previsione di cui
all’art. 41-sexies della legge n. 1150/1942, il quale impone
che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di
pertinenza delle costruzioni stesse” siano “riservati
appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un
metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Tali spazi, a differenza di quelli previsti dall’art.
41-quinquies, non sono qualificabili come aree pubbliche
conteggiabili nella dotazione degli standards, ed inoltre, in seguito alla novella di
cui all'art. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246 (“Semplificazione
e riassetto normativo per l'anno 2005”), che ha aggiunto
un secondo comma all’art. 41-sexies, non sono assoggettati
a vincoli pertinenziali e sono dunque autonomamente
trasferibili.
Infine, perché si possa beneficiare dell’esonero dal
contributo concessorio, deve trattarsi di parcheggi da
realizzare, con vincolo di pertinenzialità alle unità
immobiliari dei residenti, in edifici già esistenti (nel
sottosuolo, e completamente interrati, o in locali al piano
terreno) o comunque -sempre a uso esclusivo dei residenti-
al servizio di edifici già esistenti (su aree esterne o
anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne).
La giurisprudenza di diverso tenore invocata da parte
ricorrente riguarda
controversie alle quali si applicano leggi regionali che
hanno, come nel caso della legge regione Lombardia n.
12/2005, ampliato l’ambito di applicazione dell’esonero
anche a parcheggi non collegati ad edifici esistenti.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento del Comune di Correggio (R.E.), notificato alla
società Ed. in data 14/12/2016, con il quale è stato
comunicato l'avvenuto rilascio del permesso di costruire n.
2016/11537, prot. n. 16206 datato 02/09/2016, subordinato al
pagamento del contributo di costruzione anche per le
autorimesse di pertinenza;
- del permesso di costruire opere di nuova costruzione per la
realizzazione di edificio residenziale, limitatamente alla
parte in cui impone alla ricorrente il pagamento del costo
di costruzione anche per le autorimesse di pertinenza;
nonché di qualsiasi altro atto connesso, presupposto e/o
conseguente non conosciuto ed anche indirettamente connesso
agli atti sopra indicati;
- nonché per l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione
comunale di restituire le somme percepite a titolo di
contributo di concessione connesso al permesso di costruire
n. 2016/11537 del 02/09/2016 e la conseguente condanna del
Comune di Correggio a corrispondere le somme dovute,
unitamente ad interessi e rivalutazione; del diritto della
ricorrente al risarcimento dei danni subiti per effetto dei
provvedimenti impugnati e per la condanna
dell'amministrazione al risarcimento del danno subito dalla
ricorrente da quantificarsi in corso di causa o da
liquidarsi in via equitativa.
...
FATTO
Con ricorso, spedito per la notifica il 09.02.2017 e
depositato il successivo 21 febbraio, la società Ed. impugna
il permesso di costruire richiesto al Comune di Correggio
nella parte in cui vengono richiesti i costi di costruzione
anche per la superficie delle autorimesse.
Avverso il provvedimento, nella parte impugnata, la
ricorrente deduce la violazione di legge per errata
applicazione degli artt. 9, comma 1, lett. f), della legge
10/1977 e 11 della legge 24.03.1989 n. 122, dell’art. 17 del
dpr 380/2001, eccesso di potere per mancanza assoluta di
motivazione, per carenza di istruttoria, per
contraddittorietà ed ultroneità nei fini, atteso che l’art.
17 del dpr 380/2001 esonera, secondo la prospettazione
attorea, dal contributo di costruzione “le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici” e che, in base all’art. 11 della
legge Tognoli (122/1989) sono opere di urbanizzazione anche
i parcheggi ubicati nelle nuove costruzioni realizzati nella
misura di legge (1 metro quadrato per ogni 10 metri cubi di
costruzione).
Il 14.04.2017 si è costituito il Comune di Correggio che
resiste nel merito rappresentando che:
- l’attività edificatoria prevedeva parcheggi pertinenziali per una
dotazione di 366,22 mq, ossia in misura superiore rispetto
ai dovuti 237,28 mq;
- il conteggio del contributo di costruzione veniva eseguito
calcolando, tra l’altro, la quota di costo di costruzione
dovuta per le autorimesse, senza tenere conto delle
superfici scoperte adibite a parcheggio.
La difesa del Comune, inoltre, eccepisce la tardività del
ricorso per essere stato notificato oltre i termini di
decadenza applicabili in quanto viene contestato, non il
mero calcolo del contributo, ma i presupposti per la sua
applicazione (cita Consiglio di Stato, sezione V,
28.05.2012, n. 3122; sezione IV, 10.03.2011, n. 1565) e
specifica che parte ricorrente pretende di assoggettare ad
autorizzazione gratuita non semplici parcheggi, ossia posti
auto scoperti, ma vere e proprie di autorimesse coperte
sopra terra, ossia garage che, in quanto parte dell’immobile
assentito, implicano l’occupazione di una volumetria
rilevante ai fini edificatori e sono, pertanto, oggetto di
autorizzazione e di corrispondente contribuzione e non
rientrano nelle opere di urbanizzazione.
Conclude il Comune che, a fronte di uno standard minimo
richiesto di 237,28 mq di parcheggio, Ed. ha realizzato 195
mq di parcheggio in area cortiliva per i quali nessun costo
è stato addebitato, essendo stati considerati solo i 162,09
mq relativi alle autorimesse.
...
DIRITTO
Il ricorso è infondato e ciò esime il Collegio dallo
scrutinio della eccezione di tardività proposta dal Comune
resistente.
Oggetto della controversia è l’assoggettamento a contributo
di costruzione delle autorimesse ubicate al piano terra
delle nuove costruzioni assentite con il permesso impugnato
in parte qua.
Deve darsi atto che parte ricorrente tende a confondere i
parcheggi pertinenziali esterni al fabbricato, per i quali
il Comune non ha calcolato alcun costo di costruzione, con
le autorimesse chiuse e collocate al piano terra dei nuovi
edifici.
La pretesa che si tratti, anche per queste ultime, di “opere
di urbanizzazione” che rientrano nella previsione di cui
all’art. 17 del dpr 380/2001, in virtù del disposto
dell’art. 11 della legge Tognoli del 1989, non può essere
condivisa.
La suddetta previsione recita “Le opere e gli interventi
previsti dalla presente legge costituiscono opere di
urbanizzazione anche ai sensi dell’art. 9, primo comma,
lettera f), della legge 28.01.1977”.
Le opere e gli interventi previsti dalla legge Tognoli sono
i parcheggi da realizzare nel sottosuolo o al piano terreno
dei fabbricati o nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato.
Si tratta pertanto di destinazioni a parcheggio o di locali
nel sottosuolo di edifici o di aree pertinenziali o,
all’evidenza, di locali al piano terra di edifici
preesistenti (tra le tante da ultimo, Consiglio di Stato,
Sez. IV, n. 02.02.2017, n. 450).
Già la legge del 1989, nonostante dovesse affrontare la
mancanza di parcheggi pertinenziali, non vi ricomprende
autorimesse fuori terra in aree esterne al fabbricato.
Non si prevede la costruzione di nuovi volumi fuori terra,
ma solo la destinazione ad autorimessa di locali al piano
terra di edifici già esistenti per i quali il contributo di
costruzione era stato già assolto (così, ex multis,
Tar Sicilia, Catania, II, 1576/2016, Cons. St., V, n.
3690/2014 e n. 5676/2009, nonché Cons. St., IV, n. 2185/
2012 e n. 1565/ 2011).
Ai sensi dell’art. 9, primo comma, lett. f), della legge n.
10/1977 [e, oggi, ai sensi dell’art. 17, comma 3, lett. c),
del d.p.r. n. 380/2001], il contributo per il rilascio della
concessione non è dovuto “per gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché
per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati,
in attuazione di strumenti urbanistici”.
Il carattere eccezione della previsione esclude una
interpretazione estensiva della stessa a ipotesi non
strettamente previste.
Per i parcheggi da realizzare in costruzioni di nuova
realizzazione trova applicazione la previsione di cui
all’art. 41-sexies della legge n. 1150/1942, il quale impone
che “nelle nuove costruzioni ed anche nelle aree di
pertinenza delle costruzioni stesse” siano “riservati
appositi spazi per parcheggi in misura non inferiore ad un
metro quadrato per ogni dieci metri cubi di costruzione”.
Tali spazi, a differenza di quelli previsti dall’art.
41-quinquies, non sono qualificabili come aree pubbliche
conteggiabili nella dotazione degli standards (Così, Sez. IV,
08.01.2013 n. 32), ed inoltre, in seguito alla novella di
cui all'art. 12, comma 9, della legge 28.11.2005, n. 246 (“Semplificazione
e riassetto normativo per l'anno 2005”), che ha aggiunto
un secondo comma all’art. 41-sexies, non sono assoggettati
a vincoli pertinenziali e sono dunque autonomamente
trasferibili.
Infine, perché si possa beneficiare dell’esonero dal
contributo concessorio, deve trattarsi di parcheggi da
realizzare, con vincolo di pertinenzialità alle unità
immobiliari dei residenti, in edifici già esistenti (nel
sottosuolo, e completamente interrati, o in locali al piano
terreno) o comunque -sempre a uso esclusivo dei residenti-
al servizio di edifici già esistenti (su aree esterne o
anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne).
La giurisprudenza di diverso tenore invocata da parte
ricorrente (v. ad es. CdS IV 4937/2016) riguarda
controversie alle quali si applicano leggi regionali che
hanno, come nel caso della legge regione Lombardia n.
12/2005, ampliato l’ambito di applicazione dell’esonero
anche a parcheggi non collegati ad edifici esistenti.
Di contro, la legge regionale Emilia Romagna n. 15/2013
all’art. 32, ove disciplina l’esonero del contributo di
costruzione, rinviando all'articolo 9, comma 1, della legge
n. 122 del 1989 e all'articolo 41-sexies della legge
17.08.1942, n. 1150, non consente di estendere l’ambito
della gratuità ad ipotesi ulteriori rispetto a quelle
previste dalla normativa statale.
Alla luce di quanto osservato il ricorso va respinto, poiché
infondato (TAR Emilia Romagna-Parma,
sentenza 28.03.2018 n. 89 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
PER AMPLIAMENTO, CAMBIO DI DESTINAZIONE D’USO E MANUTENZIONE
STRAORDINARIA IN ZONA SISMICA NECESSARIO IL PROGETTO AL
S.U.E.
In materia di reati antisismici, i
lavori di ampliamento e cambio di destinazione d’uso
parziale, nonché di manutenzione straordinaria di un
fabbricato in zona sismica, necessitano della presentazione
del progetto allo sportello unico per l’edilizia; ne
consegue che l’eventuale omissione integra la
contravvenzione di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art.
95.
Il tema affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza
in
esame attiene alla necessità o meno di presentare il
progetto
allo Sportello Unico dell’Edilizia in caso di interventi
edilizi in
zona sismica.
La vicenda processuale segue alla sentenza con
cui il Tribunale aveva condannato un imputato per i reati di
cui al
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, artt. 83 e 95 e L.R. 07.01.1983, n. 9, art. 2, stante l’omesso previo deposito degli
atti
progettuali relativi a lavori di ampliamento e cambio di
destinazione
di un fabbricato di sua proprietà.
Avverso la detta
sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in
particolare
sostenendo che dall’istruttoria esperita non era stato
possibile desumere né le modalità né la tipologia
d’intervento
eseguito sull’immobile, laddove solamente in caso di
realizzazione
di costruzioni, riparazioni, sopraelevazioni in zona
sismica vi era obbligo alla presentazione del progetto allo
sportello unico per l’edilizia per essere autorizzato
dall’Ufficio
tecnico regionale.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini
che,
sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima,
hanno
ricordato che, in materia di reati antisismici, integra la
contravvenzione
di cui al d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 95, qualsiasi
intervento edilizio, con la sola eccezione di quelli di
semplice
manutenzione ordinaria, effettuato in zona sismica,
comportante
o meno l’esecuzione di opere in conglomerato cementizio
armato, che non sia preceduto dalla previa denuncia al
competente ufficio con presentazione di un progetto redatto
da tecnico abilitato, o per il quale non sia stato
rilasciato il titolo
abilitativo, i cui lavori non siano stati svolti sotto la
direzione di
professionista abilitato (Cass. pen., Sez. III, 17.09.2014, n. 48005, G. e altro, CED, 261155; Id., Sez. III, 17.06.2010, n. 34604, T., CED, 248330).
In particolare, anzi, è
stato
precisato che, in tema di prevenzione del rischio sismico,
il
reato previsto dall’art. 95 cit. è applicabile a qualsiasi
opera,
eseguita in assenza della prescritta autorizzazione
antisismica,
in grado di esporre a pericolo la pubblica incolumità, senza
che
le Regioni possano adottare in via amministrativa deroghe
per
particolari categorie di interventi (in specie si trattava
di opere
di sostegno di cartellonistica pubblicitaria di rilevanti
dimensioni,
illegittimamente qualificate da delibera della regione
Calabria come “opere minori”, sottratte alle leggi nazionali
e
regionali in materia di edilizia sismica: Cass. pen., Sez.
III, 14.01.2015, n. 19185, G., CED, 263376).
Nel caso
esaminato,
era emerso che l’imputato aveva eseguito lavori di
ampliamento e cambio di destinazione d’uso parziale, nonché
di manutenzione straordinaria del fabbricato di sua
proprietà in
zona sismica, omettendo la presentazione del progetto allo
sportello unico per l’edilizia. Alla stregua dei rilievi che
precedono,
quindi, l’intervento siccome eseguito, si legge nella
sentenza della Cassazione, postulava la presentazione del
progetto allo sportello unico, non risolvendosi in una mera
ordinaria manutenzione del fabbricato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.03.2018 n. 10794 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ORDINE DI DEMOLIZIONE CONSERVA LA SUA EFFICACIA NEI
CONFRONTI DELL’EREDE DEL CONDANNATO E NON È CONTRARIO ALLA
CEDU.
Nell’ipotesi di acquisto dell’immobile
per successione mortis causa intervenuto dopo la
irrevocabilità della sentenza di condanna, l’ordine di
demolizione conserva la sua efficacia nei confronti
dell’erede del condannato stante la preminenza
dell’interesse pubblico cui è preordinato il provvedimento
amministrativo emesso dal giudice penale, ovverosia la
tutela dell’assetto paesaggistico od urbanistico, rispetto a
quello privatistico della conservazione del manufatto nel
proprio patrimonio vantato dall’avente causa, non entrando
in gioco, in ragione della diversa natura rivestita dalla
ingiunzione demolitoria, il carattere personale della pena;
ne discende, altresì, che l’ordine demolitorio non
perseguendo, a differenza delle sanzioni penali detentive e
pecuniarie, alcuna finalità punitiva, è del tutto conforme
alla Convenzione e.d.u., essendo insuscettibile ad essere
declinato in termini quantitativi che consentano di
evidenziarne la particolare afflittività rispetto al
patrimonio del condannato.
Il tema
oggetto di attenzione da parte della S.C. con la sentenza
in esame è quello relativo alla natura, penale od
amministrativa,
dell’ordine di demolizione ed alla sua compatibilità con i
principi
fissati dalla giurisprudenza della Corte e.d.u. con
riferimento, in
particolare, agli artt. 7 e 1, protocollo n. 1 della
Convenzione e.d.u.
La vicenda processuale segue alla ordinanza con cui il
Tribunale,
adito in funzione di G.E., aveva rigettato il ricorso con
cui
l’interessata, destinataria di ordine di demolizione delle
opere
edilizie abusive per le quali era stata pronunciata nei suoi
confronti sentenza penale di condanna da parte dello stesso
Tribunale, divenuta irrevocabile, aveva richiesto la revoca
dell’ingiunzione
demolitoria sul presupposto, per quanto qui interessa,
della sua sopravvenuta estinzione per prescrizione e
della propria estraneità al procedimento penale, essendo
stata la pronuncia di condanna e la conseguente sanzione
accessoria resa nei confronti di altro soggetto, deceduto,
cui
era subentrata jure successionis.
Avverso tale sentenza
aveva
proposto ricorso per cassazione l’interessata, in
particolare
sostenendo che l’ordine di demolizione non può ricadere su
di un soggetto estraneo all’illecito penale, tale essendo la
condizione della stessa, erede del condannato deceduto, e
che sotto tale profilo l’ordinanza impugnata si poneva in
contrasto
con i principi sia sovrannazionali (art. 7 Cedu) che interni
(art. 42 c.p.) secondo cui nessuno può essere punito per un
fatto che non abbia commesso, dovendo la pena seguire la
persona e non potendo ricadere su soggetti ad essa estranei:
anche considerando la natura amministrativa dell’ordine di
demolizione, trattasi pur sempre di una pena accessoria alla
condanna penale, tanto è vero che la stessa viene revocata
nel
caso di improcedibilità dell’azione penale o per morte del
reo
quando il decesso interviene in corso di causa.
La Corte di cassazione, nel respingere il ricorso
dell’interessata,
ha ricordato che è pacifico nella giurisprudenza di
legittimità
che l’ordine di demolizione delle opere abusive emesso
dal giudice penale ha carattere reale e natura di sanzione
amministrativa a contenuto ripristinatorio e deve pertanto
essere eseguito nei confronti di tutti i soggetti che sono
in
rapporto col bene e vantano su di esso un diritto reale o
personale di godimento, anche se si tratti di soggetti
estranei
alla commissione del reato: esso conserva, pertanto, la sua
efficacia anche nei confronti dell’erede o dante causa del
condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o
personale di godimento, potendo essere revocato solo nel
caso in cui siano emanati, dall’ente pubblico cui è affidato
il
governo del territorio, provvedimenti amministrativi con
esso
assolutamente incompatibili (Cass. pen., Sez. III, 11.12.2009, n. 47281, A., CED, 245403; Id., Sez. III, 23.10.2015,
n. 42699, C., CED, 265193 che ha ritenuto legittimamente
eseguibile l’ordine di demolizione di immobile conferito,
dall’erede
dell’autore dell’abuso, in fondo patrimoniale, oggetto
di successiva azione revocatoria esperita dai creditori).
È
chiaro dunque che la titolarità del manufatto, a qualunque
titolo conseguita, fa sì che anche i terzi subiscano le
conseguenze
della demolizione, allo stesso modo in cui sono soggetti
agli effetti della acquisizione gratuita del manufatto con
la
relativa area di sedime al patrimonio indisponibile del
Comune,
d.P.R. n. 380 del 2001, ex art. 31, in quanto la natura
pubblicistica
dell’ordine che colpisce il bene abusivo in ragione della
lesione arrecata all’ambiente, prescinde dalle vicende
traslative
di natura civilistica (Cass. pen., Sez. III, 11.04.2014,
n.
16035, A., CED, 259802; Id., Sez. III, 23.10.2015, n.
42699, C., CED, 265193).
Conclusione questa che peraltro
vanifica, per i Supremi Giudici, alla radice l’ulteriore
rilievo
difensivo relativo all’eccessiva severità della pena
ritenuta
dalla Corte di Strasburgo quale elemento costitutivo della
natura penale della sanzione: non perseguendo l’ordine di
demolizione, a differenza delle sanzioni pecuniarie
applicate
nella fattispecie sottoposta all’esame dei giudici europei,
alcuna finalità punitiva ne consegue l’insuscettibilità
della
medesima ad essere declinata in termini quantitativi che
consentano
di evidenziarne la particolare afflittività rispetto al
patrimonio del condannato.
Né d’altra parte potrebbe
ritenersi,
sempre con riferimento all’ordinamento sovrannazionale, che
la pronuncia resa dalla Corte di Strasburgo in ordine alla
violazione
dell’art. 4 del Protocollo 7 della Convenzione Europea dei
Diritti dell’Uomo e del conseguente principio del ne bis in
idem
discendente dal sistema del doppio binario, amministrativo e
penale, relativo alle norme di diritto interno volte alla
repressione
degli abusi di mercato in seguito alle modifiche apportate
dalla L. 18.04.2005, n. 62 al D.Lgs. 24.02.1998,
n.
58 per essere stati i ricorrenti perseguiti, dopo
l’applicazione
delle sanzioni amministrative particolarmente afflittive sul
piano patrimoniale, nell’ambito di un procedimento penale
per gli stessi fatti, possa avere ricadute dirette sulla
fattispecie
in esame (cfr. Cedu 04.03.2014, Grande Stevens c. Italia)
nella quale in tanto scatta, nell’ottica di garantire le
esigenze di
celerità sottese alla riduzione in pristino dell’assetto del
territorio,
l’ordine di demolizione giudiziale in quanto non abbia
trovato esecuzione quello amministrativo: lungi dall’attuare
una duplicazione sanzionatoria per il medesimo fatto
illecito, la
sanzione in esame resta sempre la medesima, e dunque di
natura amministrativa, ancorché irrogabile dal giudice
penale
all’esito dell’affermazione della responsabilità penale che
peraltro opera a prescindere dal fatto come sopra
evidenziato
che l’opera abusiva sia di proprietà del soggetto condannato (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 05.03.2018
n. 9886 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL C.D. EQUILIBRIO URBANISTICO NON È SUFFICIENTE A
GIUSTIFICARE L’ESISTENZA DEL PERICULUM PER IL REATO
PAESAGGISTICO.
In tema di sequestro preventivo, al fine
di ritenere sussistente il periculum in mora legittimante
l’instaurazione ed il permanere del vincolo cautelare, in
relazione al reato paesaggistico, è imprescindibile fare
riferimento non tanto e non solo all’incidenza dell’uso
degli immobili sul carico urbanistico (essendo ciò rilevante
per il reato edilizio), ma è necessaria la valutazione circa
il permanere della lesività della struttura abusiva già
completata, sotto il profilo del pericolo concreto per il
paesaggio, inteso in relazione all’assetto geomorfologico,
all’assetto idraulico e all’assetto della costa.
La questione
affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame
verte sulla possibilità di giustificare l’adozione di un
provvedimento
di sequestro preventivo disposto anche in presenza di
un reato paesaggistico con il semplice richiamo
all’esistenza
stessa dell’opera abusiva.
La vicenda processuale segue alla
ordinanza con cui il Tribunale aveva rigettato la richiesta
di
riesame avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal
Giudice per le indagini preliminari relativo ad un immobile
(e più
dettagliatamente della sopraelevazione costituente il terzo
piano fuori terra di un immobile, nonché della scala in
cemento
armato realizzata in luogo dell’immobile di collegamento tra
i
due corpi di fabbrica insistenti in loco, il sottotetto
costituente
copertura dell’intero fabbricato, la veranda fronte mare sul
suolo demaniale per mq 3,20) in relazione ai reati di cui
all’art.
110 c.p. e d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 44, lett. c),
art. 110
c.p. e artt. 54 e 1161 c. nav., art. 110 c.p. e D.Lgs. 22.01.2004, n. 42, art. 181 e artt. 110 e 323 c.p. In particolare,
la
decisione era stata assunta a seguito dell’annullamento con
rinvio pronunciato dalla stessa Cassazione di una precedente
ordinanza che confermava il menzionato decreto di sequestro
preventivo.
La sentenza della Cassazione aveva rilevato che
il
sequestro trovava fondamento essenzialmente nella
contestazione
di cui al capo B (art. 110 c.p. e d.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, lett. c), incentrata sulla inosservanza delle
previsioni del
Piano stralcio di assetto idrogeologico della Regione
Calabria,
dalla quale era scaturita l’illegittimità dei titoli edilizi
rilasciati ai
proprietari dell’immobile. La pronuncia censoria aveva
trovato
ragione unicamente nel fatto che, in relazione al periculum
in
mora, il giudice del riesame aveva omesso di accertare in
concreto se l’uso dell’immobile, abusivamente realizzato in
zona vincolata, determinasse un aggravamento delle
conseguenze
del reato, istituendo una sorta di “automatismo” tra
detto uso e l’alterazione dell’interesse tutelato dal
vincolo.
Decidendo quindi in sede di rinvio il Tribunale del riesame
si
era diffuso sulle ragioni che a suo avviso rendevano
sussistente
il periculum in mora, legittimante l’instaurazione ed il
permanere del vincolo cautelare, facendo riferimento
all’incidenza
dell’uso degli immobili sul carico urbanistico.
Contro l’ordinanza proponevano nuovo ricorso per cassazione
gli indagati, in particolare lamentando che il Tribunale
aveva
omesso del tutto di pronunciarsi sul tema rimarcato dalla
sentenza di annullamento, ovvero la relazione tra uso
dell’immobile
e aggravamento delle conseguenze del reato perché, pur non essendo stato contestato alcun profilo urbanistico,
la
valutazione del Tribunale aveva fatto perno esclusivamente
sull’incidenza dell’uso dei beni sul carico urbanistico ed
aveva,
quindi, omesso ogni valutazione circa le conseguenze
dell’utilizzo dell’immobile in relazione alla ratio delle
disposizioni
del vincolo PAI. Aggiungevano gli indagati che nel caso
concreto non sussisteva pericolo per la sicurezza e l’incolumità
pubblica, alla cui tutela correlano il vincolo Pai, e l’incongruenza
di un sequestro che funzionale a fronteggiare siffatto
pericolo
aveva ad oggetto il bilocale sito all’ultimo piano
dell’edificio e
non questo nella sua interezza.
La tesi ha convinto gli Ermellini che, nel dichiarare
fondato il
ricorso, hanno osservato come effettivamente il Tribunale
aveva posto la sua attenzione sull’incidenza dell’utilizzo
del
bene sul carico urbanistico, ovvero sull’equilibrio
urbanistico,
che però è cosa diversa dalla preservazione delle coste e
dalla
sicurezza idrogeologica.
Sul punto, i Supremi Giudici hanno
ricordato che in una recente decisione (Cass. pen., Sez. III,
28.11.2016, n. 50336, G., CED, 268331) si è rammentato
che secondo la giurisprudenza di legittimità più recente la
mera esistenza di una struttura abusiva ultimata “non
integra
i requisiti della concretezza ed attualità del pericolo, in
assenza
di ulteriori elementi idonei a dimostrare che la
disponibilità
della stessa, da parte del soggetto indagato o di terzi,
possa
implicare una effettiva lesione dell’ambiente e del
paesaggio”
(Cass. pen., Sez. III, 13.10.2015 n. 48958, G., CED,
266011; Id., Sez. III, 27.10.2010, n. 40486, Pm in proc.
P. e altro, CED, 248701 ha precisato che “l’esclusione
dell’idoneità
dell’uso della cosa a deteriorare ulteriormente
l’ecosistema,
protetto dal vincolo, deve formare oggetto di un esame
particolarmente approfondito”; principio di recente ribadito
da
Cass. pen., Sez. III, 24.08.2016, n. 35456, F.,
inedita).
Da qui, dunque, la fondatezza del ricorso, con nuovo
annullamento
dell’ordinanza (Corte
di Cassazione, Sez. IV penale,
sentenza 28.02.2018 n. 9196 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL N.O. RILASCIATO DOPO L’ESECUZIONE DEI LAVORI IN MANCANZA
DELLE CONDIZIONI NON EQUIVALE AD AUTORIZZAZIONE
PAESAGGISTICA.
L’autorizzazione postuma da parte
dell’autorità amministrativa preposta alla tutela del
vincolo, che prevede, ai sensi dell’art. 167, D.Lgs. n.
42/2004, la possibilità di una valutazione della
compatibilità paesaggistica di alcuni interventi minori già
realizzati, non determina di per sé una neutralizzazione del
reato contravvenzionale disciplinato dall’art. 181, comma 1,
del medesimo decreto, non essendo il nulla osta intervenuto
dopo l’inizio dell’attività soggetta al necessario controllo
paesaggistico preventivo sufficiente per rimuovere
l’antigiuridicità penalmente rilevante dell’attività già
compiuta in assenza di titolo abilitativo.
La Corte di cassazione si sofferma, con la sentenza in
esame,
ad analizzare la questione giuridica relativa
all’individuazione
dei possibili effetti che possono essere esplicati dal
rilascio di
nulla osta paesaggistico.
La vicenda processuale trae
origine
dalla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva
integralmente
confermato la pronuncia con cui il Tribunale di Oristano
aveva
ritenuto l’imputato responsabile dei reati di cui al d.P.R.
n. 380
del 2001, artt. 44, lett. c) e D.Lgs. n. 42 del 2004, art.
181 per
aver, nella qualità di proprietario di un terreno soggetto a
vincolo paesaggistico e committente, realizzato, in assenza
del permesso di costruire e delle prescritte autorizzazioni,
tre
piste di varia lunghezza e dimensioni eliminando la
vegetazione
esistente formata da piante della macchia mediterranea
e livellando il terreno.
Contro la sentenza proponeva
ricorso
per cassazione l’imputato, in particolare sostenendo
l’errore in
cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nella specie per aver
ritenuto l’irrilevanza del nulla osta tardivamente
conseguito
dall’imputato atteso che l’assenso della P.A. in relazione
al
vincolo paesaggistico, sia pure ottenuto ad opere già
ultimate,
dimostrava che le stesse non erano incompatibili con
l’ambiente,
attestandone al contrario la conformità ed agli strumenti
urbanistici operativi al momento della loro realizzazione,
ed avendo perciò in tal caso il nulla osta efficacia
sanante.
La tesi è stata respinta dalla Corte di cassazione che, sul
punto,
nell’affermare il principio di cui in massima, ha ribadito
il
costante orientamento giurisprudenziale secondo cui
l’autorizzazione paesaggistica costituisce, secondo quanto
previsto dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 146, comma 4, atto
autonomo e presupposto rispetto agli altri titoli edilizi
legittimanti
l’intervento edilizio e, all’infuori dei casi tassativamente
previsti dal D.Lgs. n. 42 del 2004, art. 167, commi 4 e 5,
non
può essere rilasciata in sanatoria successivamente alla
realizzazione,
anche parziale, degli interventi.
Pertanto l’autorizzazione
postuma da parte dell’autorità amministrativa preposta
alla tutela del vincolo, che prevede, ai sensi del citato
art. 167,
la possibilità di una valutazione della compatibilità
paesaggistica
di alcuni interventi minori già realizzati, non determina di
per sé una neutralizzazione del reato contravvenzionale
disciplinato
dall’art. 181, comma 1, del medesimo decreto legislativo,
non essendo il nulla osta intervenuto dopo l’inizio
dell’attività soggetta al necessario controllo paesaggistico
preventivo sufficiente per rimuovere l’antigiuridicità
penalmente
rilevante dell’attività già compiuta in assenza di titolo
abilitativo (Cass. pen., Sez. III, 07.05.2010, n. 17535,
M.,
CED, 247166; Id., Sez. III, 03.07.2007, n. 37318, C.,
CED,
237562; Corte Cost., ord. n. 158 del 1998).
È tuttavia
prevista,
in deroga alla regola generale, una speciale ipotesi di
estinzione
del reato in presenza di autorizzazione postuma allorquando
questa venga rilasciata alle condizioni ed all’esito della
speciale procedura di cui all’art. 181, comma 1-quater dello
stesso decreto.
Trattasi invero di un procedimento
applicabile
ai soli interventi ivi tassativamente indicati,
caratterizzati da un
impatto sensibilmente più modesto sull’assetto del
territorio
vincolato rispetto agli altri considerati nella medesima
disposizione
di legge, che postula, in ogni caso, l’osservanza di una
rigida sequenza temporale che, come ritenuto dalla
giurisprudenza,
non può prescindere dal necessario parere della
sovrintendenza
che la norma espressamente prevede e qualifica
come vincolante (Cass. pen., Sez. III, 13.06.2016, n.
24410, P. e altro, CED, 267191; Id., Sez. III, 07.03.2008,
n. 12951, S., CED, 239355), né ammette equipollenti
(Cass. pen., Sez. III, 29.11.2011, n. 889, F., CED,
251639).
All’infuori di tali puntuali condizioni il rilascio
dell’autorizzazione
paesaggistica postuma, comportando la qualificata
ricognizione dell’assenza di conseguenze dannose o
pericolose per l’ambiente, inibisce solo la demolizione e/o
la
riduzione in pristino dello stato dei luoghi che ha funzione
direttamente ripristinatoria del bene offeso (Cass. pen.,
Sez.
III, 03.07.2007, n. 37318; Id., Sez. III, 26.11.2002, n.
40269, N., CED, 222703; Id., Sez. III, 03.07.2007, n.
37318, cit.) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2018 n. 8853 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
PER LA REALIZZAZIONE DI UNA PISCINA ACCESSORIA AD UN
FABBRICATO È NECESSARIO IL P.D.C. NON ESSENDO QUALIFICABILE
COME PERTINENZA.
Affinché un manufatto presenti il
carattere di pertinenza, tale da non richiedere per la sua
realizzazione il permesso di costruire, è necessario che
esso sia preordinato a un’oggettiva esigenza funzionale
dell’edificio principale, sia sfornito di un autonomo valore
di mercato, sia di volume non superiore al 20% di quello
dell’edificio cui accede, di guisa da non consentire,
rispetto a quest’ultimo e alle sue caratteristiche, una
destinazione autonoma e diversa (fattispecie relativa alla
realizzazione di una piscina).
La questione oggetto di esame da parte della Cassazione
verte
sulla frequente nozione di pertinenza e sulla realizzabilità
con
titolo abilitativo semplificato di manufatti apparentemente
svolgenti una funzione accessoria.
La vicenda processuale
segue alla sentenza con cui la Corte d’Appello aveva
confermato
la sentenza del Tribunale con cui l’imputata era stata
condannata in relazione al reato di cui al d.P.R. n. 380 del
2001,
art. 44, lett. b) (per avere realizzato, in assenza del
permesso di
costruire, una piscina interrata di forma rettangolare,
delle
dimensioni di metri 7,70x13,35, profonda circa metri 2,30,
un vano interrato delle dimensioni di metri 2,00x2,00x2,70,
due docce in muratura e un bagno retrostante, delle
dimensioni
di metri 1,70x1,20; nonché, in totale difformità dal
permesso di costruire, una scala scoperta in posizione e di
dimensioni diverse rispetto a quelle autorizzate, una
maggiore
profondità del porticato, un ampliamento dell’immobile e la
modifica della sua partizione interna).
Per quanto qui di
interesse,
i giudici di merito avevano escluso la natura pertinenziale
della piscina e dei manufatti a servizio della stessa, in
considerazione delle dimensioni non trascurabili e delle
caratteristiche
della stessa, con la conseguente disapplicazione del
permesso di costruire in sanatoria rilasciato.
Avverso la
detta
sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputata, in
particolare
sostenendo l’errata esclusione della pertinenzialità
della piscina, essendo la stessa posta a servizio del
fabbricato
principale e in rapporto adeguato e non esorbitante rispetto
alle esigenze di un uso normale da parte del soggetto
residente
nell’edificio principale, con la conseguenza che non
richiedeva per la sua realizzazione il permesso di costruire
ma solamente una denunzia di inizio attività (D.I.A.) o una
segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.),
trattandosi
di opera priva di destinazione autonoma e non in contrasto
con
gli strumenti urbanistici.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini
che,
sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima,
hanno
richiamato il tradizionale orientamento secondo cui,
affinché
un manufatto presenti il carattere di pertinenza, tale da
non
richiedere per la sua realizzazione il permesso di
costruire, è
necessario che esso sia preordinato a un’oggettiva esigenza
funzionale dell’edificio principale, sia sfornito di un
autonomo
valore di mercato, sia di volume non superiore al20% di
quello
dell’edificio cui accede, di guisa da non consentire,
rispetto a
quest’ultimo e alle sue caratteristiche, una destinazione
autonoma
e diversa (così, da ultimo: Cass. pen., Sez. III, 14.07.2016, n. 52835, F., CED, 268552; Id., Sez. III, 30.05.2012,
n. 25669, Z., CED, 253064; Id., Sez. III, 24.11.2011,
n.
6593, C., CED, 252442; Id., Sez. III, 21.05.2009, n.
39067,
V., CED, 244903; Id., Sez. III, 11.06.2008, n. 37257,
A.,
CED, 241278).
Una tale analisi, rileva la S.C., era stata
del tutto
omessa dall’imputata, che pure ne sarebbe stata onerata alla
luce della sua allegazione difensiva,non avendo indicato
alcunché
circa il rapporto tra la piscina e il fabbricato cui essa
accede,
ed avendo, anzi, compiuto una valutazione parcellizzata
delle
opere prive di permesso di costruire o realizzate in totale
difformità da quello ottenuto, volta a sminuirne
l’incidenza,
dovendo, invece, essere compiuta una valutazione complessiva
dell’opera (cfr., Cass. pen., Sez. III, 26.11.2014, n.
15442, P., CED, 263339; Id., Sez. III, 08.04.2015, n.
16622,
C., CED, 263473), onde qualificarla, accertare il suo
completamento,
verificarne la rispondenza agli strumenti urbanistici e
stabilirne anche il regime di assentibilità.
Dalla sola
descrizione
delle opere contenuta nella imputazione emergeva, comunque,
per i Supremi Giudici, l’idoneità a un utilizzo autonomo
della piscina, in considerazione delle sue dimensioni, come
pure dei manufatti a essa accessori, trattandosi di una
piscina
interrata di forma rettangolare, delle dimensioni di metri
7,70x13,35, profonda circa metri 2,30, di un vano interrato delle
dimensioni di metri 2,00x2,00x2,70, di due docce in
muratura e di un bagno retrostante, delle dimensioni di metri
1,70x1,20,
di cui, oltre a non emergere la destinazione a una oggettiva
esigenza funzionale dell’edificio principale, riguardo alla
quale
l’imputata non aveva prospettato nulla di specifico (se non
la
generica qualificabilità di una piscina come pertinenza), si
ricavava senza necessità di indagini tecniche l’idoneità a
un
utilizzo autonomo (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
22.02.2018 n. 8540 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL RILASCIO DELLA AUTORIZZAZIONE ALL’OCCUPAZIONE TEMPORANEA
DEL SUOLO PUBBLICO NON SCUSA L’IMPUTATO CHE COMMETTE ABUSI
EDILIZI.
La valutazione dello stato soggettivo
dell’imputato, al fine dell’accertamento della sua buona
fede, idonea a escludere la colpevolezza, deve tenere conto
tanto dei fattori esterni che possono aver determinato
nell’agente l’ignoranza della rilevanza penale del suo
comportamento, quanto delle conoscenze e delle capacità del
medesimo, sicché è necessaria una siffatta indagine onde
verificare la esistenza di uno stato di buona fede o la
scusabilità dell’errore di diritto.
La questione
giuridica oggetto di esame da parte della Suprema
Corte verte sul tema dell’applicabilità della scriminante
della
buona fede nelle contravvenzioni edilizie in costanza di un
convincimento
soggettivo di liceità del proprio comportamento sotto
il profilo urbanistico-edilizio.
La vicenda processuale
trae origine
dalla sentenza con cui il Tribunale aveva dichiarato non
doversi
procedere nei confronti dell’imputato in relazione al reato
di cui al
d.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma1, lett. b),
contestatogli per
avere realizzato, in assenza di titolo abilitativo e in
contrasto con
gli strumenti urbanistici, una pedana delle dimensioni di
metri 6x5 e della superficie di 30 metri quadrati, utilizzata come
area per il
consumo di alimenti nell’anno 2015 e nell’anno 2016 per un
tempo superiore a novanta giorni, ritenendo mancante
l’elemento
soggettivo di tale reato, in conseguenza del rilascio da
parte della amministrazione comunale di autorizzazione alla
occupazione
del suolo pubblico per un periodo superiore a sei mesi, ai
sensi della L.R. Emilia Romagna n. 15 del 2013, art. 7,
lett. f).
Avverso tale decisione proponeva ricorso il PM, in sintesi
sostenendo che era stato impropriamente ritenuto scusabile
un
errore sulla legge penale, eccependo l’irrilevanza dell’atto
amministrativo
favorevole adottato dalla amministrazione comunale a
favore dell’imputato, trattandosi solamente della
autorizzazione
alla occupazione del suolo pubblico e non anche ad
edificare,
inidonea a scusare l’errore sulla legge penale ritenuto
configurabile
dal Tribunale, ricordando comunque l’orientamento
interpretativo
secondo cui è obbligo del privato verificare comunque,
anche in caso di rilascio di provvedimento favorevole da
parte
della pubblica amministrazione, la conformità delle opere
edilizie
alle norme urbanistiche.
La tesi ha convinto i Supremi giudici, che, nell’affermare
il
principio di cui in massima, hanno accolto il ricorso del
P.M.,
rilevando come la sentenza risultava fondata esclusivamente
sul dato formale del rilascio della autorizzazione alla
occupazione
del suolo pubblico per un periodo non superiore a sei
mesi, che avrebbe determinato nell’imputato la convinzione
della liceità della sua condotta anche sul piano urbanistico-edilizio,
in assenza di qualsiasi indagine a proposito delle
conoscenze
e delle informazioni assunte dall’imputato, nonché
riguardo alle eventuali assicurazioni fornitegli dagli
uffici amministrativi
ai quali si era rivolto e alle prassi esistenti nella realtà
territoriale di riferimento, cosicché risultava mancante il
dato
della evidenza della sussistenza della causa di
proscioglimento
che aveva determinato il G.I.P. a pronunciare la sentenza
impugnata.
Nel caso in esame, il giudice, richiesto di emettere
decreto penale di condanna nei confronti dell’imputato,
aveva
disatteso tale richiesta e pronunciato la sentenza di
proscioglimento
impugnata, ritenendo, sia pur implicitamente, evidente
la mancanza di rilevanza penale della condotta
dell’imputato, in
assenza, però, di qualsiasi approfondimento circa le sue
conoscenze
della disciplina applicabile, il suo stato soggettivo, la
sua
eventuale buona fede, che avrebbero potuto ipoteticamente
consentire di addivenire a una sentenza di proscioglimento
per
l’erroneo, ma incolpevole, convincimento della liceità della
condotta (v., per i precedenti in materia: Cass. pen., Sez.
VI,
22.06.2011, n. 43646, S., CED, 251045) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 21.02.2018 n. 8410 -
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EDILIZIA PRIVATA:
LA VALUTAZIONE DI ORDINE ECONOMICO INERENTE AL COSTO DELLE
SPESE DI DEMOLIZIONE NON GIUSTIFICA IL MANTENIMENTO
DELL’OPERA ABUSIVA.
La valutazione cui deve conseguire la
non eseguibilità della demolizione (ovvero, il prevalente
interesse pubblico e l’assenza di contrasto del manufatto
con rilevanti interessi urbanistici), ove la stessa sia di
ordine economico, inerente al costo delle spese di
demolizione, non può qualificare l’interesse al mantenimento
dell’opera abusiva, posto che ove assunta con criterio di
indefettibile interesse pubblico al mantenimento dell’opera
finirebbe per tradursi in fattore di contrasto con
l’interesse a demolire, in contrasto con il d.P.R. n. 380
del 2001, art. 31, che verrebbe in tale senso reso
inoperante.
La questione
affrontata dalla S.C. con la sentenza in esame
concerne un tema assai rilevante nella pratica applicazione
in
sede esecutiva dell’ordine di demolizione, attinente alla
individuazione
delle condizioni in presenza delle quali la P.A. può
“bloccare” l’esecuzione di tale ordine in costanza di un
interesse
pubblico al mantenimento dell’opera.
La vicenda processuale segue all’ordinanza con cui il
Tribunale,
quale giudice dell’esecuzione, aveva revocato l’ordine di
demolizione
delle opere abusive, di cui alla sentenza di condanna
divenuta irrevocabile, in presenza di acquisizione del bene
al
patrimonio del Comune e dell’adozione di una delibera
comunale
con la quale veniva dichiarato l’interesse pubblico al
mantenimento
dell’opere abusiva.
In particolare, il Consiglio
comunale aveva dichiarato la prevalenza dell’interesse pubblico
alla conservazione del manufatto perché da destinarsi a
concessione
in locazione o dismissione in conformità con quanto
previsto dalla L.R. Campania n. 5 del 2013, art. 1, comma 65,
e
del regolamento edilizio approvato dal Comune. Sulla scorta
di
tali dati di fatto, il Tribunale, con il provvedimento
impugnato,
aveva revocato l’ordine di demolizione imposto con la
sentenza
di condanna.
Contro tale ordinanza proponeva ricorso per
cassazione
il P.M., in particolare sostenendo che la delibera del
Comune, con cui era dichiarato il prevalente interesse
pubblico
alla conservazione del manufatto, conteneva una generica
indicazione
della destinazione dell’opera a “concessione in locazione
o dismissione... in conformità a quanto previsto dalla L.R.
n. 5 del 2013”, senza, peraltro, farne corretta applicazione
in
quanto la legge citata, che disciplina il c.d. housing
sociale,
all’art. 1, comma 65 prevede, quale criterio per
l’assegnazione
delle opere in questione, “riconoscendo precedenza a coloro
che, al tempo dell’acquisizione, occupavano il cespite,
previa
verifica che gli stessi non dispongono di altra idonea
soluzione
abitativa, nonché procedure di un piano di dismissione degli
stessi”, non risultando, per contro, che il Comune aveva in
concreto verificato se l’occupante avesse i requisiti per
concorrere
all’assegnazione e non disponesse di altra utile dimora.
La tesi del P.M. è stata accolta dai giudici di legittimità
che,
nell’annullare l’ordinanza del tribunale, hanno ricordato
che il
Consiglio comunale può dichiarare legittimamente la
prevalenza
di interessi pubblici ostativi alla demolizione alle
seguenti condizioni:
1) assenza di contrasto con rilevanti interessi urbanistici
e,
nell’ipotesi di costruzione in zona vincolata, assenza di
contrasto
con interessi ambientali: in quest’ultimo caso l’assenza di
contrasto
deve essere accertata dall’amministrazione preposta alla
tutela del vincolo;
2) adozione di una formale deliberazione
del
consiglio con cui si dichiari formalmente la sussistenza di
entrambi i presupposti;
3) la dichiarazione di contrasto
della
demolizione con prevalenti interessi pubblici, quali ad
esempio
la destinazione del manufatto abusivo ad edificio pubblico,
ecc.
(Cass. pen., Sez. III, 10.10.2008, n. 41339, C. e altra,
inedita).
La natura eccezionale di tali ipotesi rispetto a quella che
dovrebbe essere la ordinaria conseguenza, ovvero l’esito
demolitorio,
impone una interpretazione restrittiva dei presupposti che
il giudice dell’esecuzione ha il potere-dovere di
verificarne la
sussistenza, non potendosi fondare, la delibera comunale che
dichiara l’esistenza di un interesse pubblico prevalente sul
ripristino
dell’assetto urbanistico violato, su valutazioni di
carattere
generale (Cass. pen.,Sez. III, 29.01.2013 n. 11419, B., CED,
254421; Id., Sez. III, 22.05.2013, n. 25824, CED,
257140).
Il
tribunale non aveva dunque per i Supremi Giudici fatto
corretta
applicazione dei principi ermeneutici sopra riportati ed in
particolare
quello affermato nella sentenza (Cass. pen., Sez. III, 22.05.2013, n. 25824, cit.), nella quale è stato ribadito
il
principio secondo cui l’esistenza di un interesse pubblico
prevalente
sul ripristino dell’assetto urbanistico violato non può
essere
fondato su un “generico” riferimento alla destinazione, in
questo
caso a “concessione in locazione o dismissione... in
conformità a
quanto previsto dalla L.R. n. 5 del 2013”, genericamente
enunciato,
e da quanto affermato anche da Sez. III, 29.01.2013,
n. 11419 B., cit., secondo cui non può giustificarsi
l’interesse
concreto nel caso in cui, di fatto, la delibera costituisce
piuttosto
atto di indirizzo politico in quanto rimanda a successivi
atti
amministrativi (anche solo al fine di verificare i
presupposti
applicativi della Legge Regionale c.d. sull’housing sociale)
e dunque, rimanda, in definitiva, la valutazione dei
presupposti di
legge cui l’art. 31 cit. condiziona la non operatività della
demolizione.
Dunque, per la S.C., la valutazione di ordine economico,
inerente al costo delle spese di demolizione, non può
qualificare
l’interesse al mantenimento dell’opera abusiva, posto che
ove
assunta con criterio di indefettibile interesse pubblico al
mantenimento
dell’opera finirebbe per tradursi in fattore di contrasto
con l’interesse a demolire, in contrasto con il d.P.R. n.
380 del
2001, art. 31, che verrebbe in tale senso reso inoperante (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.02.2018 n. 8055 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL MUTAMENTO DELLA DESTINAZIONE D’USO TRA CATEGORIE NON
OMOGENEE (DA CATEGORIA COMMERCIALE A RESIDENZIALE) RICHIEDE
IL P.D.C.
In materia di reati edilizi, il
passaggio dalla destinazione di un immobile da spogliatoio
annesso ad una sala da ballo (categoria commerciale),
utilizzato in via funzionale ad altro fabbricato, a due mini
appartamenti (categoria residenziale) determina non solo un
cambio tra categorie non omogenee, ma è anche idoneo a
incidere sul carico urbanistico sul semplice rilievo che la
destinazione precedente prevede una presenza saltuaria di
persone, in luogo della presenza continua di chi dimora in
una abitazione, né rileva la circostanza che solo con la L.
n. 164 del 2014 è stato introdotto nel d.P.R. n. 380 del
2001, l’art. 23-ter (mutamento d’uso urbanisticamente
rilevante), atteso che con esso il legislatore ha inteso
normativizzare principi già affermati dalla giurisprudenza
ordinaria e amministrativa, non potendosi quindi farsi
discendere la conclusione secondo cui l’intervento
realizzato in epoca antecedente sia comunque consentito in
assenza di titolo abilitativo.
Il tema
affrontato dalla Corte di cassazione con la sentenza in
esame attiene alla questione, annosa e ricorrente nella
prassi
delle aule giudiziarie, della individuazione del titolo abilitativo
necessario in presenza di un mutamento di destinazione
d’uso.
La vicenda processuale segue alla sentenza con cui il
Tribunale aveva condannato un imputato per il reato di cui
all’art. 44, comma 1, lett. a), d.P.R. n. 380 del 2001, per
avere
effettuato, senza permesso di costruire, un mutamento di
destinazione d’uso, senza opere, “funzionale” tra categorie
non omogenee, passando dalla classe D alla classe A così
rendendo l’immobile, di cui era proprietario, in origine
destinato
a spogliatoio a servizio della sala da ballo, in due unità
abitative (mini appartamenti) con variazione degli standard
urbanistici, che cedeva in locazione a terzi.
Avverso la
detta
sentenza proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in
particolare
sostenendo non essere stato realizzato un mutamento
di destinazione d’uso incompatibile con le previsioni
contenute nello strumento urbanistico, in quanto la
trasformazione
da spogliatoio annesso a locale sala da ballo in due unità
abitative non avrebbe comportato alcun aumento del carico
urbanistico, giacché erano previsti tutti gli allacci alla
rete
elettrica, idrica e fognaria, ma al contrario per la
presenza di
un singolo occupante il medesimo sarebbe stato anche meno
grave. Inoltre, non poteva trovare applicazione, in quanto
norma intervenuta successivamente ai fatti, la L. n. 164 del
2014, art. 23-ter rubricato “mutamento d’uso urbanisticamente
rilevante”.
La tesi difensiva è stata ritenuta infondata dagli Ermellini
che,
sul punto, nell’affermare il principio di cui in massima,
hanno
ricordato che costituisce ius receptum il principio secondo
cui
in tema di reati edilizi, il mutamento di destinazione d’uso
senza opere è assoggettato a D.I.A. (ora SCIA), purché
intervenga nell’ambito della stessa categoria urbanistica,
mentre è richiesto il permesso di costruire per le modifiche
di destinazione che comportino il passaggio di categoria o,
se il
cambio d’uso sia eseguito nei centri storici, anche
all’interno di
una stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 05.04.2016, n. 26455, P.M. in proc. S., CED, 267106; Id., Sez. III,
03.12.2015, n. 12904, P., CED, 266483; Id., Sez. III, 24.06.2014, n. 39897, F., CED, 260422; Id., Sez. III, 13.12.2013 n. 5712, T., CED, 258686).
La destinazione
d’uso è infatti un elemento che qualifica la connotazione
dell’immobile e risponde agli scopi di interesse pubblico
perseguiti
dalla pianificazione. Essa, infatti, individua il bene sotto
l’aspetto funzionale, specificando le destinazioni di zona
fissate
dagli strumenti urbanistici in considerazione della
differenziazione
infrastrutturale del territorio, prevista e disciplinata
dalla normativa sugli standard, diversi per qualità e
quantità
proprio a seconda della diversa destinazione di zona.
In
tale
ambito solo gli strumenti di pianificazione,
generali ed attuativi,
possono decidere, fra tutte quelle possibili, la
destinazione
d’uso dei suoli e degli edifici, poiché alle varie e diverse
destinazioni, in tutte le loro possibili relazioni, devono
essere
assegnate -proprio in sede pianificatoria- determinate
qualità
e quantità di servizi. Da cui l’ovvia conseguenza che le
modifiche
non consentite della singola destinazione, incidendo
sull’assetto
del territorio comunale come pianificato, incidono
negativamente sull’organizzazione dei servizi, alterando
appunto la possibilità di una gestione ottimale del
territorio.
Dunque, come è stato costantemente osservato, il mutamento
di destinazione d’uso giuridicamente rilevante è solo
quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di
vista urbanistico che influisce sul carico urbanistico
(TAR
Campania, Sez. VII, 06.11.2017 n. 5152) tenuto conto
che nell’ambito delle stesse categorie possono aversi
mutamenti
di fatto, ma non diversi regimi urbanistici stanti le
sostanziali equivalenze dei carichi urbanistici nell’ambito
della medesima categoria.
Per individuare in concreto il
mutamento
della precedente destinazione d’uso si dovrà tenere
conto, come indicato dalla giurisprudenza amministrativa
(Cons. Stato, Sez. V, 24.10.1996, n. 3) della
destinazione
indicata nell’ultimo provvedimento abilitativo (licenza o
concessione
edilizia), della tipologia dell’immobile e della attitudine
funzionale che il bene viene ad assumere.
Ed allora,
concludono i Supremi Giudici, è evidente che il passaggio
dalla destinazione dell’immobile da spogliatoio annesso ad
una sala da ballo (categoria commerciale), utilizzato in via
funzionale ad altro fabbricato, a due mini appartamenti
(categoria
residenziale) determina senza ombra di dubbio non solo
un cambio tra categorie non omogenee, ma anche idoneo a
incidere sul carico urbanistico sul semplice rilievo che la
destinazione
precedente prevedeva una presenza saltuaria di persone,
in luogo della presenza continua di chi dimora in una
abitazione (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza
15.02.2018 n. 7271 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
I PARCHEGGI PERTINENZIALI OBBLIGATORI REALIZZATI NELLE NUOVE
COSTRUZIONI NON POSSONO DEROGARE AGLI STRUMENTI URBANISTICI.
In materia edilizia, la deroga agli
strumenti urbanistici per la realizzazione di nuovi
parcheggi è consentita, in linea con le finalità della legge
“Tognoli”, per gli edifici esistenti, al fine di
incrementare detti spazi e purché i nuovi parcheggi si
trovino nel sottosuolo ovvero al piano terreno degli
edifici.
Ciò non significa che i parcheggi pertinenziali
obbligatori, che debbono essere realizzati nelle nuove
costruzioni (ai sensi della L. n. 1150 del 1942, art.
41-sexies) possano derogare agli strumenti urbanistici,
giacché -se questa fosse stata l’intenzione del legislatore-
la possibilità di deroga sarebbe stata inserita direttamente
in quella disposizione.
Semmai, il combinato disposto della L. n. 1150 del 1942, art. 41-sexies e L. n. 122 del 1989,
art. 9, comma 1 può consentire, anche nelle nuove
costruzioni, l’esecuzione di parcheggi in deroga alle norme
urbanistiche e quindi, dei volumi realizzabili, soltanto se
ulteriori a quelli obbligatori.
La
interessante questione esaminata dalla Corte di cassazione
con l’ampia e approfondita decisione qui commentata è quella
relativa ai rapporti tra la c.d. legge Tognoli e la
normativa
introdotta dall’art. 41-sexies della c.d. legge Urbanistica
del
1942, al fine di verificare se per la realizzazione di
parcheggi
pertinenziali alle nuove costruzioni possano essere previste
deroghe agli strumenti urbanistici.
La vicenda processuale
segue alla sentenza con cui la Corte d’appello di Bari,
aveva
accolto l’impugnazione proposta dall’imputato proposta
avverso la sentenza con cui il G.U.P. del Tribunale l’aveva
invece ritenuto responsabile per due reati di abuso
d’ufficio
(commessi in concorso con il responsabile dell’ufficio
tecnico
comunale e con il progettista e direttore dei lavori),
nonché per
le contravvenzioni di abuso edilizio e di violazione della
normativa
antisismica.
I reati contestati consistevano, in
particolare,
in:
- un primo delitto continuato di abuso d’ufficio per aver
istigato o comunque determinato il tecnico comunale a non
notificare all’imputato, quale amministratore unico della
società
committente, così intenzionalmente procurando a quest’ultima
un ingiusto vantaggio patrimoniale, l’ordine motivato di non
effettuare i lavori di cui a due dd.ii.a., che comportavano
profonde
modifiche all’intervento edilizio di costruzione di edificio
residenziale di cui ad una precedente concessione edilizia,
illegittimamente rilasciata in contrasto con le previsioni
urbanistiche,
ordine che sarebbe stato ex lege dovuto trattandosi di
varianti che richiedevano il previo rilascio del permesso di
costruire perché incidenti sui volumi, le sagome, i
prospetti, i
balconi e le superfici edificate in modo peraltro difforme
dalle
prescrizione del P.R.G. e senza il prescritto parere
preventivo
dell’Autorità di bacino;
- un secondo delitto di abuso
d’ufficio
consistente nell’aver quindi istigato il pubblico ufficiale
a rilasciare
alla società dell’imputato, in assenza del prescritto parere
preventivo dell’Autorità di bacino ed in violazione del d.P.R. n.
380 del 2001, art. 12, comma 1, l’illegittimo permesso di
costruire in variante rispetto alla predetta concessione
edilizia,
consentendo la realizzazione di un ulteriore piano rispetto
alle
precedenti previsioni progettuali, e così di nove piani
rispetto ai
tre autorizzabili secondo il P.R.G., violando altresì le
prescrizioni
in quest’ultimo stabilite quanto ad altezza massima
complessiva
del fabbricato e volumetria totale dell’edificio;
- un’ipotesi
di
abuso edilizio per aver quindi avviato e realizzato sino al
sequestro
del manufatto, in base ai suddetti titoli edilizi
illegittimi e/o
illeciti, un fabbricato ad uso residenziale in contrasto con
le
suddette prescrizioni urbanistiche e che peraltro
fuoriusciva
dall’area edificabile e dai lotti di proprietà della società
committente
occupando una porzione di suolo pubblico comunale;
- due
contravvenzioni alla disciplina in materia antisismica per
aver
eseguito tali lavori, in zona sismica e in modo difforme dal
progetto depositato, senza darne preavviso scritto al
competente
ufficio tecnico regionale e senza la preventiva
autorizzazione
scritta di competenza di quest’ultimo.
Contro la sentenza
assolutoria d’appello per insussistenza dei fatti addebitati
(sostanzialmente fondata sulla rinnovazione di una perizia,
che aveva escluso le principali difformità in primo
grado ritenute
tra i progetti e le opere realizzate e le previsioni
urbanistiche e
aveva evidenziato l’irrilevanza di altre minori difformità
ai fini
della valutazione circa la sussistenza delle fattispecie incriminatrici),
proponeva ricorso per cassazione la parte civile, sostenendo
l’errore in cui era incorsa la Corte d’appello
nell’applicazione della legge penale in relazione ai criteri
di
calcolo delle altezze, dei volumi e del numero dei piani
stabiliti
dalle N.T.A. del comune, anche con riguardo
all’interpretazione
delle stesse N.T.A.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha
accolto il ricorso, pur dovendo dichiarare estinti per
prescrizione
i reati.
In particolare, i Supremi Giudici, per quanto qui
di
interesse, hanno osservato che avendo il Comune
legittimamente
deciso di considerare i parcheggi coperti (non interrati)
ai fini del calcolo del volume massimo edificabile -e non
essendo detta previsione incompatibile con la successiva
legge Tognoli- quei volumi si sarebbero dovuti computare
quantomeno con riferimento alla quota- arte di parcheggi
obbligatori richiesti dalla L. n. 1150 del 1942, art. 41-sexies
rispetto al restante volume dell’edificio, potendosi
soltanto
escludere, ai sensi della L. n. 122 del 1989, art. 9, comma
1, -sempre che collocati nel sottosuolo o al piano terreno- i
volumi
degli eventuali ulteriori parcheggi realizzati in aggiunta a
quelli
obbligatori, per i quali varrebbero le limitazioni di
trasferimento
previste dalla L. n. 122 del 1989, art. 9, comma 5
(disposizione
che, facendo espressamente salva la previsione di cui alla L. n.
1159 del 1942, art. 41-sexies, conferma come la speciale
disciplina valga soltanto per i parcheggi diversi da quelli
obbligatori).
La giurisprudenza amministrativa, peraltro, osserva la
Corte di cassazione, è consolidata nell’affermare che la
realizzazione
di autorimesse e parcheggi, se non effettuata in
locali preesistenti o totalmente al di sotto del piano di
campagna
naturale, è soggetta alla disciplina urbanistica che regola
le
nuove costruzioni fuori terra (Cons. Stato, Sez. IV, 26.09.2008, n. 4645; Cons. Stato, Sez. IV, 11.11.2006, n.
6065; Cons. Stato, Sez. V, 29.03.2006, n. 1608; Cons.
Stato, Sez. V, 29.03.2004, n. 1662; TAR Lazio, sede di
Roma, Sez. I, 16.04.2008, n. 3259; TAR Campania, Sez.
II,
23.06.2010, n. 15731).
Salva diversa previsione, dunque,
le opere indicate nel d.P.R. n. 380 del 2001, art. 17, comma
3,
devono rispettare gli standards urbanistici, ivi compresi i
limiti
di cubatura edificabile (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 12.02.2018 n. 6738 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
IL MUTAMENTO DI DESTINAZIONE D’USO INTERVENUTO TRA CATEGORIE
URBANISTICHE DISOMOGENEE DI UTILIZZAZIONE NECESSITA DI
P.D.C.
In materia edilizia, poiché
l’organizzazione e la gestione del territorio comunale
vengono realizzate attraverso il coordinamento delle varie
destinazioni d’uso in tutte le loro possibili relazioni,
sulle quali vanno ad incidere negativamente le modifiche non
consentite alterando il rapporto con i servizi in dotazione
rispetto alle singole zone, non è sufficiente dimostrare che
il mutamento della destinazione d’uso sia stato eseguito in
assenza di opere edilizie interne, ma occorre, per contro,
provare che il cambio della destinazione presenti il
requisito dell’omogeneità nel senso che sia intervenuto tra
categorie urbanistiche omogenee.
Interessante
la questione esaminata dalla Corte di cassazione
con la sentenza qui commentata, in cui i giudici di
legittimità si pronunciano nuovamente a distanza di pochi
giorni (cfr. Sez.
III, 15.02.2018, n. 7271, supra commentata) sul tema
della individuazione del titolo abilitativo necessario al
fine di
eseguire interventi edilizi comportanti un mutamento
dell’originaria
destinazione d’uso.
La vicenda processuale segue alla
sentenza con cui la Corte di Appello aveva confermato la
pronuncia di primo grado che aveva condannato l’imputato
per plurime violazioni del d.P.R. n. 380 del 2001 in materia
di
edilizia avendo, in assenza del permesso di costruire
previsto
dall’art. 44, lett. b), mutato la destinazione d’uso,
all’interno di
un fabbricato ubicato in zona B2 del PRG, dell’unità al
piano
rialzato da artigiana ad abitativa e del seminterrato da
deposito
ad uso anch’esso abitativo e per aver omesso di adempiere
alle prescrizioni previste dagli artt. 64, 65, 71 e 72 in
relazione
all’utilizzo di cemento armato, nonché dagli artt. 93 e 95
trattandosi di manufatto in zona sismica.
Contro la sentenza
proponeva ricorso per cassazione l’imputato, in particolare
sostenendo la mancanza di prove e di indizi a fondamento
del mutamento di destinazione d’uso contestatogli, il quale,
secondo l’univoca interpretazione della giurisprudenza
amministrativa,
in tanto ricorre in quanto le opere edilizie realizzate
comportino un aumento volumetrico o di superficie o una
trasformazione rilevante, altrimenti risolvendosi in una
mera
espressione della facoltà di godimento liberamente esercitabile
dal proprietario dell’unità immobiliare interessata. Poiché
invece nella specie non era stato dimostrato che fossero
stati
eseguiti nel fabbricato interventi tali da determinare
modifiche
della sua sagoma, superficie o volumetria, doveva escludersi
il
fondamento della condanna pronunciata, ben potendo la
trasformazione
essere effettuata con d.i.a., titolo di cui l’imputato
era munito.
La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in
massima, ha
respinto il ricorso.
In particolare, i Supremi Giudici hanno
ritenuto che la sentenza avesse correttamente disatteso le
contestazioni svolte dalla difesa in ordine all’irrilevanza
penale
degli interventi edilizi in difetto aumenti volumetrici o di
superficie
del fabbricato. Non essendo in contestazione l’intervenuto
mutamento di destinazione dell’unità posta al piano
rialzato del fabbricato e di parte del piano seminterrato da
uso artigianale ovvero di deposito, al medesimo connesso,
ad uso residenziale, doveva escludersi per gli Ermellini che
le
attività edilizie a tal fine eseguite fossero realizzabili
mediante
semplice denuncia di inizio attività indipendentemente dalla
loro consistenza specifica.
Nella vigente disciplina la
rilevanza
penale del mutamento di destinazione c.d. “senza opere”,
allorquando comporti il passaggio dall’una all’altra
categoria
funzionale, che connota cioè il bene in relazione alla sua
funzione nell’assetto urbanistico, emerge inconfutabilmente
dal d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter, introdotto dalla
Legge di
conversione n. 164 del 2014 del D.L. n. 133 del 2014.
Dunque,
la trasformazione da destinazione artigianale così come da
deposito ad uso residenziale, come nel caso di specie,
costituisce
oggi ex lege, un mutamento rilevante della destinazione
d’uso.
Alle medesime conclusioni si perviene, comunque, osserva la
S.C., anche in applicazione della previgente normativa. Il
d.P.R. 06.06.2001, n. 380, art. 10, comma 2, ribadendo le
previsioni
contenute nella L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 60,
dispone che le Regioni stabiliscono con legge quali
mutamenti,
connessi o meno a trasformazioni fisiche, dell’uso di
immobili o di loro parti sono subordinati a permesso di
costruire o a denuncia di attività.
In particolare, con
riferimento
al caso esaminato, la Regione Campania, con la L. 28.11.2001, n. 19, art. 2, modificata dalla L.R. 22.12.2004,
n. 16, ha stabilito che possono essere realizzati in base a
semplice denunzia d’inizio attività (oggi SCIA) “i mutamenti
di destinazione d’uso d’immobili o loro parti, che non
comportino
interventi di trasformazione dell’aspetto esteriore, e di
volumi e superfici”, aggiungendo che “la nuova destinazione
d’uso deve essere compatibile con le categorie consentite
dalla strumentazione urbanistica per le singole zone
territoriali
omogenee” (comma 1, lett. f).
Ha inoltre stabilito che “il
mutamento di destinazione d’uso senza opere, nell’ambito
di categorie compatibili alle singole zone territoriali omogenee,
è libero” (comma 5). Secondo la citata normativa, pertanto,
il
mutamento di destinazione d’uso senza opere in tanto
fuoriesce
dall’orbita penale in quanto avvenga nell’ambito di
categorie
tra loro compatibili nell’ambito di una zona che, secondo
gli strumenti urbanistici, possa definirsi territorialmente
omogenea,
dove il concetto di compatibilità passa necessariamente
attraverso quello di categoria funzionale di cui al
vigente d.P.R. n. 380 del 2001, art. 23-ter: secondo la
normativa
della Regione Campania il mutamento di destinazione è
quindi giuridicamente irrilevante solo allorquando non
determini
un passaggio tra categorie funzionalmente autonome,
mentre rientra nella fattispecie incriminatrice di cui al
d.P.R. n.
380 del 2001, art. 44 quando, in assenza del permesso di
costruire, si verifichi, invece, il passaggio dall’una
all’altra
categoria funzionale, salvo che nei centri storici dove il
mutamento
della destinazione d’uso rileva anche all’interno di una
stessa categoria omogenea (Cass. pen., Sez. III, 20.01.2009 n. 9894, T., CED, 243102).
Inserendosi infatti il
suddetto
intervento edilizio nell’ambito di un preesistente piano
urbanistico,
è evidente la ratio perseguita attraverso la suddetta
disposizione, volta a tutelare, in considerazione della
differenziazione
infrastrutturale tra le singole zone, il corretto ed
ordinato
assetto del territorio, così da mantenere inalterato il
carico urbanistico, inteso come rapporto tra insediamenti e
servizi in un determinato territorio, e, conseguentemente da
scongiurare il pericolo di sconvolgimento degli equilibri
prefigurati
dalla strumentazione urbanistica (Cons. Stato 25.05.2012 n. 759), cui si aggiunge anche quello della tutela
dell’interesse patrimoniale dell’ente territoriale che si
vedrebbe altrimenti privato del contributo economico
correlato
all’effettivo carico urbanistico conseguente alla
pianificazione
dell’assetto territoriale.
In tal senso si è costantemente
orientata l’interpretazione della Corte di cassazione,
affermando
che ai fini della configurabilità del reato di cui al d.P.
R. n. 380 del 2001, art. 44, nel caso di interventi eseguiti
in
difetto o in difformità del permesso di costruire,
costituisce
“mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” ogni forma di
utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare
diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da
opere edilizie, purché tale da comportare il passaggio
dall’una
all’altra categoria urbanistica, essendo invece sufficiente
la
D.I.A. (ora SCIA) per le modifiche di destinazione che
intervengano
nell’ambito della stessa categoria omogenea
(Cass. pen., Sez. III, 31.03.2016 n. 12904, P., CED,
266483; Id., Sez. III, 24.06.2016 n. 26455, P.M. in proc.
S., CED, 267106 in fattispecie relativa a sequestro
preventivo
di locali trasformati mediante opere edilizie da cantina
garage
ad abitazione, con conseguente passaggio dalla categoria
d’uso non residenziale alla diversa categoria residenziale;
Cass. pen., Sez. III, 05.02.2014, n. 5712, T., CED,
258686 in fattispecie relativa a sequestro preventivo dei
locali
di un albergo, originariamente adibiti a deposito e
lavanderia,
trasformati in camere per gli ospiti in assenza del permesso
di
costruire e del nulla osta paesaggistico).
Essendo, nel caso
di
specie, il mutamento intervenuto tra categorie urbanistiche
disomogenee di utilizzazione, quali si configurano le
destinazioni artigianale e di deposito rispetto a quella
residenziale,
le conclusioni raggiunte dalla Corte d’appello dovevano
per la S.C. ritenersi esatte (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.02.2018 n. 5770 -
Urbanistica e appalti 3/2018). |
EDILIZIA PRIVATA:
È illegittima la consistenza edilizia che, pur
realizzata anteriormente al 1967 ma in assenza di titolo
abilitativo, in esito a C.T.U. si riveli ricadente in ambito
territoriale all’epoca di edificazione già ampiamente
urbanizzato.
---------------
4. Con il primo motivo di impugnazione parte
ricorrente contesta il carattere abusivo dell’opera.
Sul punto è stata svolta c.t.u., la quale con valutazione
condivisibile e priva di vizi logici, ha anzitutto (cfr.
relazione originaria e successiva integrazione) descritto
l’immobile oggetto della controversia (cfr. p. 4 della
relazione depositata in data 16.08.2012).
L’immobile in
questione risulta realizzato in data anteriore al 1967, con
la conseguenza che, come precisato dall’art. 31 della l. n.
1150 del 1942, “chiunque intenda eseguire nuove
costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o
modificarne la struttura o l’aspetto nei centri abitati ed
ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le
zone di espansione di cui al n. 2 dell’art. 7, deve
chiederne apposita licenza al Podestà del Comune”. La
rigorosa individuazione delle fattispecie soggette a licenza
edilizia determinò, per esclusione, che al di fuori dei
centri abitati o nelle zone non comprese nella
pianificazione urbanistica lo jus aedificandi non fosse
soggetto a limiti.
Il citato art. 31 fu poi sostituito dall’art. 10 della legge
765/1967 (c.d. legge Ponte), in cui fu previsto che
“chiunque intenda nell’ambito del territorio comunale
eseguire nuove costruzioni, ampliare, modificare o demolire
quelle esistenti ovvero procedere all’esecuzione di opere di
urbanizzazione del terreno, deve chiedere apposita licenza
al Sindaco”, e, a seguito dell’entrata in vigore della legge
10/1977 (c.d. legge Bucalossi), fu stabilito che “ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa
relativi e la esecuzione delle opere è subordinata a
concessione da parte del sindaco, ai sensi della presente
legge”.
Nel 1959, anno di realizzazione dei fabbricati, il Comune
risultava privo di strumenti urbanistici, con la conseguenza
che occorre valutare, anche a prescindere dalla mancanza di
una puntuale regolamentazione e indiretta applicazione
dell’art. 31 della l. n. 1150 del 1942, se il fabbricato
ricada o meno all’interno del centro abitato.
In seguito
alla richiesta di integrazione formulata dal collegio, il
consulente con la relazione integrativa depositata, esente
da vizi logici e quindi pienamente condivisibile, ha
concluso nel senso della collocazione dell’immobile
all’interno del centro abitato, sulla base di una serie di
indici (p. 2 ss. della relazione integrativa, la relativa
documentazione risulta allegata alla stessa, nonché le
osservazioni alle controdeduzioni del c.t.p. p. 5 ss.), ai
quali si rinvia.
La documentazione in questione, in quanto
depositata presso enti pubblici in base a una richiesta
formulata da ordinanza istruttoria e acquisita
tempestivamente risulta utilizzabile nel corso del giudizio.
Per quanto concerne il diritto di difesa si può precisare
che il ricorrente ha avuto modo di contraddire su tale
documentazione e non ne ha contestato l’autenticità, né deve
ritenersi necessaria la partecipazione di tutte le parti del
giudizio ad ogni attività svolta dal consulente, specie se
tale mancata partecipazione non si traduca in un vizio del
contraddittorio o del diritto di difesa.
In particolare: (punto n. 1) già nel 1910 nel progetto
redatto dall’ing. So., per conto del comune per la
realizzazione della scuola esistente di fronte agli edifici
oggetto del giudizio, si precisa che in tale zona sono già
sorti numerosi fabbricati, lasciando il suolo destinato
all’edificio scolastico nel centro di essi; nel 1930 (punto
n. 2), sempre con riferimento all’edificio scolastico,la
relazione tecnica redatta dall’ing. Fr. osserva che
l’edificio sorgerà sull’area segnata nella planimetria
dell’abitato già scelto dalla commissione tecnica sanitaria;
negli anni ’50, diverse delibere e atti del Comune fanno
riferimento alla zona qualificandola come abitato o centro
abitato (punti nn. 3,4,5); negli anni ‘40 e ‘50 risulta il
completamento, la realizzazione o la stipulazione di
contratti relativi al sistema fognario (punti 5,7), al
sistema di illuminazione (punto 7), all’acquedotto (punto
6), alla nettezza urbana (punto n. 9).
Si tratta di documenti che, complessivamente valutati e come
condivisibilmente analizzati dal consulente nelle relazioni
depositate, consentono di ritenere adeguatamente provato ai
fini del giudizio (nella traduzione fornita dalla
giurisprudenza del “più probabile che non”) che l’immobile
si trovasse all’interno del centro abitato e che nella zona
in cui esso si trovava vi fosse già un agglomerato di
edifici e delle strutture idonee a fornire servizi pubblici.
Ne discende che il primo motivo di ricorso non può trovare
accoglimento (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.01.2018 n. 17 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per
la formazione del silenzio-assenso
sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano
i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione
dovuta e degli oneri di concessione, che dell’avvenuto
deposito di tutta la documentazione prevista per l’istanza
di condono. Ciò affinché possano essere utilmente esercitati
i poteri di verifica da parte dell’amministrazione comunale.
Pertanto, l’assenza di completezza della domanda di
sanatoria osta alla formazione tacita del titolo abilitativo,
potendosi esso formare per effetto del silenzio assenso
soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i
requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta,
rappresentando, il mero decorso del tempo, soltanto un
elemento costitutivo, tra gli altri, della fattispecie
autorizzativa.
In particolare la documentazione da produrre al momento
della presentazione dell’istanza deve riguardare il tempo di
ultimazione dei lavori, l’ubicazione, la consistenza delle
opere e ogni altro elemento rilevante affinché possano
essere utilmente esercitati i poteri di verifica
dell’amministrazione comunale, differenziandosi il tacito
accoglimento della domanda di condono dalla decisione
esplicita solo per l’aspetto formale.
Il semplice decorso del termine per provvedere costituisce,
pertanto, solo uno degli elementi necessari, di per sé non
sufficiente, per il perfezionamento della fattispecie, ai
cui fini occorre la conformità della domanda di sanatoria al
relativo modello legale.
---------------
Per quanto concerne la mancata comunicazione di avvio del
procedimento con riferimento al rigetto dell’istanza di
condono occorre considerare che l’esito del procedimento non
avrebbe potuto essere differente in considerazione dei vizi
dell’istanza in applicazione dell’art. 21-octies della l. n.
241 del 1990, come indicato in motivazione.
---------------
Se il decorso del tempo non può incidere sulla doverosità
degli atti volti a perseguire l’illecito attraverso
l’adozione della relativa sanzione, deve conseguentemente
essere escluso che l’ordinanza di demolizione di un immobile
abusivo (pur se tardivamente adottata) debba essere motivata
sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e
attuale al ripristino della legalità violata.
In tal caso, è del tutto congruo che l’ordine di demolizione
sia adeguatamente motivato mercé il richiamo al comprovato
carattere abusivo dell’intervento, senza che si impongano
sul punto ulteriori oneri motivazionali, applicabili nel
diverso ambito dell’autotutela decisoria.
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo,
anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare
l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver
riscontrato opere abusive: quando è realizzato un abuso
edilizio non è radicalmente prospettabile un legittimo
affidamento e il proprietario non si può di certo dolere
dell’eventuale ritardo con cui l’amministrazione –a causa
del mancato accertamento dell’abuso o per la connivenza
degli organi pubblici pro tempore– abbia emanato il
provvedimento che la legge impone di emanare immediatamente.
---------------
5. Parte ricorrente eccepisce ancora l’illegittimità dei
provvedimenti impugnati per violazione dell’art. 35, comma
17, della l. n. 47 del 1985. In particolare, il ricorrente
ha proposto nel 1986 una domanda di sanatoria e, in mancanza
di alcuna risposta da parte del comune dei due anni
successivi, si sarebbe formato il silenzio assenso.
Il motivo di impugnazione non risulta meritevole di
accoglimento.
Come da costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa (cfr. Cons. St. 4703/2017; Cons. St.
187/2017) per la formazione del silenzio-assenso
sull’istanza di condono edilizio è necessario che ricorrano
i requisiti sia dell’avvenuto pagamento dell’oblazione
dovuta e degli oneri di concessione, che dell’avvenuto
deposito di tutta la documentazione prevista per l’istanza
di condono. Ciò affinché possano essere utilmente esercitati
i poteri di verifica da parte dell’amministrazione comunale.
Pertanto, l’assenza di completezza della domanda di
sanatoria osta alla formazione tacita del titolo abilitativo,
potendosi esso formare per effetto del silenzio assenso
soltanto se la domanda di sanatoria presentata possegga i
requisiti soggettivi e oggettivi per essere accolta,
rappresentando, il mero decorso del tempo, soltanto un
elemento costitutivo, tra gli altri, della fattispecie
autorizzativa.
In particolare la documentazione da produrre al momento
della presentazione dell’istanza deve riguardare il tempo di
ultimazione dei lavori, l’ubicazione, la consistenza delle
opere e ogni altro elemento rilevante affinché possano
essere utilmente esercitati i poteri di verifica
dell’amministrazione comunale, differenziandosi il tacito
accoglimento della domanda di condono dalla decisione
esplicita solo per l’aspetto formale. Il semplice decorso
del termine per provvedere costituisce, pertanto, solo uno
degli elementi necessari, di per sé non sufficiente, per il
perfezionamento della fattispecie, ai cui fini occorre la
conformità della domanda di sanatoria al relativo modello
legale (TAR Catania, 24.03.2016, n. 869; TAR Lecce,
12.04.2012, n. 625).
Nel caso di specie, l’incompletezza
della documentazione depositata emerge dalle richieste di
integrazioni formulate da parte del comune resistente (doc.
5 del fascicolo di parte resistente), tra le quali presenta
particolare rilievo la mancanza del titolo di proprietà o di
altra documentazione idonea.
Sul punto, occorre precisare che la volontà contraria del
proprietario appare ostativa alla stessa possibilità per il
ricorrente di ottenere il provvedimento ad effetti
incrementativi di sanatoria, in base al prevalente
orientamento della giurisprudenza amministrativa. Nel caso
di specie il proprietario del bene immobile ha manifestato
espressamente la propria contrarietà alla sanatoria
dell’immobile, circostanza di per sé ostativa all’esito
positivo della richiesta di condono formulata da parte
ricorrente (di alcun valore è la mera variazione catastale,
quale proprietà superficiaria, in mancanza di un titolo
idoneo al trasferimento di un tale diritto dal dante causa
al ricorrente).
L’originaria autorizzazione alla
realizzazione del capannone contenuta nel contratto di
locazione (da realizzarsi in senso conforme alla normativa
urbanistica vigente) appare inidonea a consentire la
realizzazione di un immobile difforme dalla normativa
edilizia per poi chiederne la regolarizzazione; in sostanza
altro è il consenso a realizzare un bene, altro è il
consenso alla regolarizzazione o al condono (specie se si
considera l’espresso dissenso manifestato dal proprietario).
La motivazione del provvedimento appare sufficiente per
descrivere la violazione posta in essere nel caso di specie
dal ricorrente. Il riferimento all’abusività deve, in
particolare, essere collegato alla documentazione richiesta
(doc. 5 del fascicolo di parte resistente ove emerge anche
la consegna delle richieste di integrazione sia al
ricorrente stesso che alla moglie) e non prodotta dal
ricorrente, con la conseguenza che il rigetto dell’istanza
di condono appare adeguatamente motivato con la mancanza
della documentazione richiesta che si traduce nell’abusività
dell’immobile per contrasto con la normativa edilizia.
La mera inerzia da parte dell’amministrazione nell’esercizio
di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti
finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire
legittimo ciò che (l’edificazione sine titulo) è sin
dall’origine illegittimo.
Allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare
un affidamento di carattere “legittimo” in capo al
proprietario dell’abuso, non destinatario di un atto
amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un’aspettativa
giuridicamente qualificata. La giurisprudenza amministrativa
ha infatti evidenziato che non si può applicare a un fatto
illecito (l’abuso edilizio) il complesso di acquisizioni
che, in tema di valutazione dell’interesse pubblico, è stato
enucleato per la diversa ipotesi dell’autotutela decisoria.
Se pertanto il decorso del tempo non può incidere sulla
doverosità degli atti volti a perseguire l’illecito
attraverso l’adozione della relativa sanzione, deve
conseguentemente essere escluso che l’ordinanza di
demolizione di un immobile abusivo (pur se tardivamente
adottata) debba essere motivata sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della
legalità violata. In tal caso, è del tutto congruo che
l’ordine di demolizione sia adeguatamente motivato mercé il
richiamo al comprovato carattere abusivo dell’intervento,
senza che si impongano sul punto ulteriori oneri
motivazionali, applicabili nel diverso ambito dell’autotutela
decisoria.
Pertanto, quando risulta realizzato un manufatto abusivo,
anche a distanza di tempo l’amministrazione deve emanare
l’ordine di demolizione per il solo fatto di aver
riscontrato opere abusive (cfr. C.d.S., Sez. VI, 21.03.2017, n. 1267; Sez. VI,
06.03.2017, n. 1060 e n. 1058; Sez. V, 11.07.2014, n. 3568; Sez. IV, 31.08.2010, n.
3955): quando è realizzato un abuso edilizio non è
radicalmente prospettabile un legittimo affidamento e il
proprietario non si può di certo dolere dell’eventuale
ritardo con cui l’amministrazione –a causa del mancato
accertamento dell’abuso o per la connivenza degli organi
pubblici pro tempore– abbia emanato il provvedimento che la
legge impone di emanare immediatamente (cfr. C.d.S., Sez.
VI, 21.03.2017, n. 1267; Sez. VI, 06.03.2017, n. 1060, cit.).
Per quanto concerne la mancata comunicazione di avvio del
procedimento con riferimento al rigetto dell’istanza di
condono occorre considerare che l’esito del procedimento non
avrebbe potuto essere differente in considerazione dei vizi
dell’istanza in applicazione dell’art. 21-octies della l. n.
241 del 1990, come indicato in motivazione (TAR
Calabria-Catanzaro, Sez. II,
sentenza 05.01.2018 n. 17 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Certamente non si può sostenere che il vincolo idraulico ex
art. 96, lett. f), del RD 523/1904 sia derogabile
semplicemente per effetto degli usi locali.
La norma ha, al
contrario, la finalità di interrompere la pericolosa tendenza
a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a
tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione
preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che
potrebbero derivare dalle esondazioni.
La natura degli
interessi pubblici tutelati fa ritenere che il vincolo operi
con un effetto conformativo particolarmente ampio
determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di
rispetto.
Sfuggono a questa regola solo le costruzioni che abbiano
un’oggettiva funzione ambientale di filtro per i solidi
sospesi e gli inquinanti, di stabilizzazione delle sponde e
di conservazione della biodiversità.
---------------
Nel caso in esame tuttavia non possono essere trascurate le
conseguenze derivanti dal rilascio della licenza edilizia e
dal decorso del tempo.
In particolare il titolo edilizio, benché illegittimo per
contrasto con il preesistente vincolo idraulico, cambia la
situazione giuridica dell’immobile, in quanto elimina la
presenza formale dell’abuso.
Il carattere abusivo si concentra quindi sugli interventi di
ristrutturazione e ampliamento. Occorre peraltro precisare
che le innovazioni non hanno condotto a un organismo
edilizio radicalmente diverso, e dunque non vi è stata
alcuna soluzione di continuità rispetto al rustico
originario.
In tale contesto risulta possibile superare la questione
dell’inderogabilità del vincolo idraulico: essendovi un
radicato affidamento circa la collocazione dell’immobile
all’interno della fascia di rispetto (per via della licenza
edilizia e del tempo trascorso) la medesima aspettativa si
estende alle opere successive, che possono essere intese
come interventi pertinenziali.
Questa soluzione è coerente con alcune indicazioni
provenienti sia dalla disciplina speciale sul condono sia
dai principi in materia di abusi edilizi.
Da un lato l’art. 32, comma 5, della legge 47/1985 ammette
il condono degli abusi sulle aree demaniali estendendo la
sanatoria alle “pertinenze strettamente necessarie”. In
questo modo viene evidenziato il favore legislativo per una
soluzione unitaria che eviti la coesistenza nello stesso
immobile di situazioni sanabili e altre insanabili. Il
carattere positivo di questa regola e le esigenze di
razionalizzazione urbanistica che ne sono alla base
permettono di utilizzare la norma anche al di fuori del caso
specifico.
Dall’altro lato l’art. 11 della legge 47/1985 (v. ora l’art.
38 del DPR 06.06.2001 n. 380) prevede che nell’ipotesi di
annullamento del titolo edilizio la remissione in pristino
di quanto edificato sulla base del suddetto titolo possa
essere motivatamente sostituita da una sanzione pecuniaria
con effetto sanante.
Il caso in esame può essere confrontato con questa
fattispecie. In effetti se un fabbricato (previa valutazione
dell’interesse pubblico) può evitare la demolizione
nonostante l’annullamento del relativo titolo edilizio, non
vi sono motivi per negare il condono a un edificio che sia
in parte conforme a un titolo edilizio illegittimo ma ancora
efficace, qualora in un lungo periodo di tempo non sia stato
individuato alcun interesse pubblico all’annullamento di
tale titolo.
---------------
... per l'annullamento:
- del provvedimento del responsabile dell’Area Gestione Territorio
prot. n. 8854 del 21.07.1998, con il quale è stato
comunicato il pronunciamento sfavorevole sulla richiesta di
condono edilizio;
- dell’ordinanza del responsabile del Settore Lavori Pubblici n.
1130 del 12.09.1998, con la quale è stata ingiunta la
demolizione delle opere abusive;
- del parere negativo espresso dal responsabile del Servizio
Provinciale Genio Civile della Regione in data 06.04.1995;
...
1. Il ricorrente Ed.Cr. è proprietario per successione
ereditaria dal padre Do.Cr. di un rustico realizzato da
quest’ultimo nel 1962 nella frazione Corti S. Rocco del
Comune di Costa Volpino. L’edificio si trova a meno di 10
metri dall’argine del torrente Supine e quindi rientra nella
fascia sottoposta al vincolo di inedificabilità di cui
all’art. 96, lett. f), del RD 25.07.1904 n. 523.
2. La costruzione dell’edificio era stata assentita mediante
licenza edilizia. Il documento non è stato prodotto in
giudizio in quanto il ricorrente non ne è mai venuto in
possesso.
L’esistenza del titolo edilizio può tuttavia desumersi dai
seguenti elementi: (a) progetto del geom. Ma.Zu. del
03.11.1962; (b) verbale della riunione della commissione
edilizia del 12.12.1962, che al punto 2 approva il progetto
del rustico presentato da Donato Cretti; (c) nulla-osta agli
effetti tributari rilasciato il 16.11.1962 dall’Ufficio
Imposte di Consumo di Costa Volpino per l’inizio dei lavori
edilizi (v. art. 39 del RD 14.09.1931 n. 1175).
3. Nel 1964-1965 il ricorrente ha eseguito abusivamente dei
lavori interni ed esterni trasformando il rustico in
edificio residenziale. In data 30.05.1986 il ricorrente ha
poi presentato domanda di condono ai sensi degli art. 31-44
della legge 28.02.1985 n. 47. Non avendo all’epoca la
materiale disponibilità dei documenti indicati sopra al
punto 2 il ricorrente ha chiesto il condono sia con
riferimento alla costruzione del rustico sia relativamente
alla trasformazione dello stesso in edificio residenziale
(nella domanda si afferma che il fabbricato era stato
costruito in assenza di licenza edilizia). Peraltro una
volta acquisita la suddetta documentazione, nel luglio 1998,
il ricorrente ha avvertito (ma solo verbalmente) l’ufficio
tecnico comunale.
4. In considerazione del vincolo idraulico il Comune ha
interpellato il Servizio Provinciale Genio Civile della
Regione, che mediante parere del responsabile della
struttura del 06.04.1995 si è espresso negativamente circa
la possibilità di condono. La motivazione è che, non essendo
l’edificio assentibile fin dall’inizio, non sarebbe
possibile neppure l’applicazione della normativa sul
condono, tenuto conto dei limiti imposti dagli art. 32 e 33
della legge 47/1985.
Sulla base di questo parere la commissione edilizia ha
escluso il riconoscimento del condono, e il responsabile
dell’Area Gestione Territorio con nota del 21.07.1998 ha
dato rilievo esterno a tale posizione decretando così la
reiezione della domanda del ricorrente. A questo ha fatto
seguito l’ordinanza del responsabile del Settore Lavori
Pubblici del 12.09.1998, con la quale è stata ingiunta la
demolizione delle opere abusive.
5. Contro i suddetti provvedimenti il ricorrente ha
presentato impugnazione con atto notificato il 13.11.1998 e
depositato il 04.12.1998. Le censure contengono plurimi
profili che possono essere sintetizzati nei seguenti vizi:
(i) travisamento dei fatti (non avendo l’amministrazione
tenuto conto della licenza edilizia e del tempo trascorso);
(ii) erronea applicazione dell’art. 96, lett. f), del RD
523/1904 (che potrebbe essere derogato quando, come avviene
nel Comune di Costa Volpino, vi sia un’antica consuetudine
locale relativa all’edificazione in prossimità dei
torrenti).
Il Comune e la Regione non si sono costituiti in giudizio.
6. Gli argomenti proposti nel ricorso sono condivisibili
solo in parte, ma in misura sufficiente a giungere a una
sentenza di accoglimento.
Certamente non si può sostenere che il vincolo idraulico ex
art. 96, lett. f), del RD 523/1904 sia derogabile
semplicemente per effetto degli usi locali. La norma ha al
contrario la finalità di interrompere la pericolosa tendenza
a occupare gli spazi prossimi al reticolo idrico, sia a
tutela del regolare scorrimento delle acque sia in funzione
preventiva rispetto ai rischi per le persone e le cose che
potrebbero derivare dalle esondazioni. La natura degli
interessi pubblici tutelati fa ritenere che il vincolo operi
con un effetto conformativo particolarmente ampio
determinando l’inedificabilità assoluta della fascia di
rispetto (v. CS Sez. V 26.03.2009 n. 1814).
Sfuggono a questa regola solo le costruzioni che abbiano
un’oggettiva funzione ambientale di filtro per i solidi
sospesi e gli inquinanti, di stabilizzazione delle sponde e
di conservazione della biodiversità (v. art. 115 del Dlgs.
03.04.2006 n. 152).
7. Nel caso in esame tuttavia non possono essere trascurate
le conseguenze derivanti dal rilascio della licenza edilizia
(v. sopra al punto 2) e dal decorso del tempo. In
particolare il titolo edilizio, benché illegittimo per
contrasto con il preesistente vincolo idraulico, cambia la
situazione giuridica dell’immobile, in quanto elimina la
presenza formale dell’abuso, almeno in relazione al rustico
originario.
Il carattere abusivo si concentra quindi sugli
interventi di ristrutturazione e ampliamento (quest’ultimo
emerge confrontando il progetto iniziale con quello allegato
alla domanda di condono). Occorre peraltro precisare che le
innovazioni non hanno condotto a un organismo edilizio
radicalmente diverso, e dunque non vi è stata alcuna
soluzione di continuità rispetto al rustico originario.
8. In tale contesto risulta possibile superare la questione
dell’inderogabilità del vincolo idraulico: essendovi un
radicato affidamento circa la collocazione dell’immobile
all’interno della fascia di rispetto (per via della licenza
edilizia e del tempo trascorso) la medesima aspettativa si
estende alle opere successive, che possono essere intese
come interventi pertinenziali.
Questa soluzione è coerente con alcune indicazioni
provenienti sia dalla disciplina speciale sul condono sia
dai principi in materia di abusi edilizi.
Da un lato l’art. 32, comma 5, della legge 47/1985
ammette il condono degli abusi sulle aree demaniali
estendendo la sanatoria alle “pertinenze strettamente
necessarie”. In questo modo viene evidenziato il favore
legislativo per una soluzione unitaria che eviti la
coesistenza nello stesso immobile di situazioni sanabili e
altre insanabili. Il carattere positivo di questa regola e
le esigenze di razionalizzazione urbanistica che ne sono
alla base permettono di utilizzare la norma anche al di
fuori del caso specifico.
Dall’altro lato l’art. 11 della legge 47/1985 (v. ora
l’art. 38 del DPR 06.06.2001 n. 380) prevede che
nell’ipotesi di annullamento del titolo edilizio la
remissione in pristino di quanto edificato sulla base del
suddetto titolo possa essere motivatamente sostituita da una
sanzione pecuniaria con effetto sanante.
Il caso in esame può essere confrontato con questa
fattispecie. In effetti se un fabbricato (previa valutazione
dell’interesse pubblico) può evitare la demolizione
nonostante l’annullamento del relativo titolo edilizio, non
vi sono motivi per negare il condono a un edificio che sia
in parte conforme a un titolo edilizio illegittimo ma ancora
efficace, qualora in un lungo periodo di tempo non sia stato
individuato alcun interesse pubblico all’annullamento di
tale titolo.
9. Il ricorso deve quindi essere accolto con il conseguente
annullamento degli atti impugnati. Occorre precisare che la
possibilità di applicare la sanatoria edilizia non attenua i
poteri di polizia idraulica dell’amministrazione a tutela
del reticolo idrico, compresa la facoltà di imporre
interventi di sistemazione dell’edificio e dell’area
circostante.
In considerazione dell’originaria formulazione della domanda
di condono, che faceva riferimento a un abuso integrale
indirizzando in questo senso le valutazioni del Comune, è
possibile disporre la compensazione delle spese tra le parti (TAR
Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 26.02.2010 n. 986 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
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