|
|
Alcuni files sono in formato Acrobat (pdf): se non riesci a leggerli, scarica
gratuitamente il programma Acrobat Reader (clicca sull'icona a fianco riportata).
-
segnala un
errore nei links
|
|
AGGIORNAMENTO AL 28.08.2017 (ore 23,59) |
ã |
Il destino
crudele così ha voluto ... ma sono convinto che si sarà un
perché, mia adorata Sorella, adesso che hai raggiunto la
Mamma dopo averla amorevolmente assistita per anni con me...
Solo che, al momento, non comprendo e non riesco a farmene
una ragione.
Tuo T. |
IN EVIDENZA |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’obbligo
per i Comuni di assicurare il diritto di accesso nei termini
e nelle modalità di cui al novellato art. 5, comma 2, del
d.lgs. 33/2013 (accesso civico generalizzato) è divenuto
esigibile solamente dal 23.12.2016.
L’originaria forma dell’accesso di civico, introdotta dal
d.lgs. n. 33/2013 anteriormente alle modifiche apportate dal
d.lgs. n. 97/2016, era caratterizzata dalla centralità degli
obblighi di pubblicazione, riguardanti essenzialmente
l'organizzazione amministrativa e specifici campi di
attività, e consentiva di accedere solo ai dati, le
informazioni e i documenti oggetto di specifici obblighi di
pubblicazione (cd. accesso civico chiuso) e che la P.A.
aveva omesso di pubblicare sul sito istituzionale.
L’accesso civico, rafforzato dal d.lgs. n. 97/2016, consente
l’accesso anche ad atti e documenti per i quali non esiste
l’obbligo di pubblicazione e che la P.A. deve quindi fornire
al richiedente (cd. accesso civico aperto o generalizzato).
---------------
Le richieste di accesso civico per cui è causa -presentate
in data 12.07.2016 e decise con i provvedimenti impugnati
del 25.08.2016- sono state correttamente dichiarate
inammissibili dalla P.A. in quanto soggette, ratione
temporis, all’originario regime dell’accesso civico (quello
del 2013) e aventi ad oggetto atti non soggetti a
pubblicazione obbligatoria.
Al caso di specie non è applicabile il più favorevole regime
sull’accesso civico generalizzato introdotto dal d.lgs. n.
97/2016, atteso che, con apposita disposizione transitoria,
il legislatore ha stabilito che “i soggetti di cui
all'articolo 2-bis del decreto legislativo n. 33 del 2013”
si adeguano alle modifiche allo stesso decreto legislativo,
introdotte dal presente decreto, e assicurano l'effettivo
esercizio del diritto di cui all'articolo 5, comma 2, del
decreto legislativo n. 33 del 2013, come modificato
dall'articolo 6 del presente decreto, entro sei mesi dalla
data di entrata in vigore del presente decreto” (art. 42,
primo comma, del d.lgs. 97/2016).
Con tale norma il legislatore ha voluto introdurre una sorta
di “moratoria” nell’azione riformatrice, al fine di lasciare
alla P.A. e a tutti gli interessati il tempo di comprendere
e assimilare appieno le disposizioni già introdotte.
Ne deriva che, in virtù di tale moratoria, benché il d.lgs.
97/2016 nel suo impianto generale sia entrato in vigore il
23.06.2016 (ossia il quindicesimo giorno successivo alla
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale), l’obbligo per i
Comuni di assicurare il diritto di accesso nei termini e
nelle modalità di cui al novellato art. 5, comma 2, del
d.lgs. 33/2013 (accesso civico generalizzato) è divenuto
esigibile solamente dal 23.12.2016 e non poteva, pertanto,
dirsi ancora cogente alla data di adozione del provvedimento
impugnato.
----------------
... per l'annullamento
dei provvedimenti del Comune di Gaiarine prot. n. 6746 e
prot n. 6745 entrambi del 25.08.2016 di rigetto delle
istanze di accesso agli atti formulata della ricorrente ex
art. 5 d.lgs. n. 33/2013 datate 11.07.2016 che assumevano n.
prot. 5712 e n. prot. 5713, nonché annullamento di ogni
altro atto connesso prodromico e conseguente;
-
per l'accertamento del diritto d'accesso dell'istante agi
atti e ordine di esibizione e condanna del Comune di
Gaiarine alla loro ostensione.
...
Si controverte sulla legittimità dei provvedimenti in
epigrafe indicati con cui il Comune resistente ha dichiarato
inammissibili e comunque non accoglibili due istanze con cui
la ricorrente aveva chiesto, ex art. 5 d.lgs n. 33/2013, di
accedere a una serie di titoli edilizi rilasciati alcuni
anni or sono e a taluni atti endoprocedimentali relativi a
un progetto di realizzazione di un impianto di
pirogassificazione (poi rimasto inattuato) che, al momento
della presentazione dell’istanza ostensiva, erano ancora
oggetto di valutazione e approfondimento istruttorio da
parte della P.A..
Il ricorso non merita accoglimento.
L’originaria forma dell’accesso di civico, introdotta dal
d.lgs. n. 33/2013 anteriormente alle modifiche apportate dal
d.lgs. n. 97/2016, era caratterizzata dalla centralità degli
obblighi di pubblicazione, riguardanti essenzialmente
l'organizzazione amministrativa e specifici campi di
attività, e consentiva di accedere solo ai dati, le
informazioni e i documenti oggetto di specifici obblighi di
pubblicazione (cd. accesso civico chiuso) e che la P.A.
aveva omesso di pubblicare sul sito istituzionale.
L’accesso civico, rafforzato dal d.lgs. n. 97/2016, consente
l’accesso anche ad atti e documenti per i quali non esiste
l’obbligo di pubblicazione e che la P.A. deve quindi fornire
al richiedente (cd. accesso civico aperto o generalizzato).
Le richieste di accesso civico per cui è causa -presentate
in data 12.07.2016 e decise con i provvedimenti
impugnati del 25.08.2016- sono state correttamente
dichiarate inammissibili dalla P.A. in quanto soggette, ratione temporis, all’originario regime dell’accesso civico
(quello del 2013) e aventi ad oggetto atti non soggetti a
pubblicazione obbligatoria.
Al caso di specie non è applicabile il più favorevole regime
sull’accesso civico generalizzato introdotto dal d.lgs. n.
97/2016, atteso che, con apposita disposizione transitoria,
il legislatore ha stabilito che “i soggetti di cui
all'articolo 2-bis del decreto legislativo n. 33 del 2013”
si adeguano alle modifiche allo stesso decreto legislativo,
introdotte dal presente decreto, e assicurano l'effettivo
esercizio del diritto di cui all'articolo 5, comma 2, del
decreto legislativo n. 33 del 2013, come modificato
dall'articolo 6 del presente decreto, entro sei mesi dalla
data di entrata in vigore del presente decreto” (art. 42,
primo comma, del d.lgs. 97/2016).
Con tale norma il legislatore ha voluto introdurre una sorta
di “moratoria” nell’azione riformatrice, al fine di lasciare
alla P.A. e a tutti gli interessati il tempo di comprendere
e assimilare appieno le disposizioni già introdotte. Ne
deriva che, in virtù di tale moratoria, benché il d.lgs.
97/2016 nel suo impianto generale sia entrato in vigore il
23.06.2016 (ossia il quindicesimo giorno successivo alla
pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale), l’obbligo per i
Comuni di assicurare il diritto di accesso nei termini e
nelle modalità di cui al novellato art. 5, comma 2, del
d.lgs. 33/2013 (accesso civico generalizzato) è divenuto
esigibile solamente dal 23.12.2016 e non poteva,
pertanto, dirsi ancora cogente alla data di adozione del
provvedimento impugnato (25.08.2016)
(TAR Veneto, Sez. III,
sentenza 31.07.2017 n. 763 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
NOVITA' NEL SITO |
● Inserito il nuovo bottone
dossier SEMINTERRATI |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
ENTI
LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: Decreto legislativo n. 75 del 27.05.2017 recante
disposizioni in materia di Polo unico per le visite fiscali.
Istruzioni amministrative ed operative (INPS,
messaggio 09.08.2017 n. 3265). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuova disciplina per la gestione delle terre e
rocce da scavo (ANCE di Bergamo,
circolare 08.08.2017 n. 143). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Prossima pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ed
entrata in vigore del nuovo regolamento per la gestione
delle terre e rocce da scavo (ANCE di Bergamo,
circolare 04.08.2017 n. 142). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: richiesta di parere in materia di progressioni
economiche orizzontali (Ministero dell‘Economia e delle
Finanze, Dipartimento R.G.S.,
nota
24.03.2017 n. 49781 di prot.). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
28.08.2017 n. 200 "Proroga dell’ordinanza contingibile e
urgente 06.08.2013, come modificata dall’ordinanza
03.08.2015, concernente la tutela dell’incolumità pubblica
dall’aggressione dei cani" (Ministero della Salute,
ordinanza 20.07.2017). |
PATRIMONIO: G.U.
24.08.2017 n. 197 "Approvazione di norme tecniche di
prevenzione incendi per le attività scolastiche, ai sensi
dell’art. 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139"
(Ministero dell'Interno,
decreto 07.08.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
19.08.2017 n. 193 "Disposizioni per la salvaguardia degli
agrumeti caratteristici" (Legge
25.07.2017 n. 127). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
16.08.2017 n. 190 "Accordo, ai sensi dell’articolo 9,
comma 2, lettera c) del decreto legislativo 28.08.1997, n.
281, tra il Governo, le Regioni e gli enti locali
concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati
per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e
istanze (Repertorio atti n. 76/CU)" (Presidenza
Consiglio dei Ministri, Conferenza Unificata,
accordo 06.07.2017).
---------------
MODULISTICA IN MATERIA EDILIZIA
Nuovo modulo unificato e semplificato di Permesso di
costruire. |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
14.08.2017 n. 189 "Legge annuale per il mercato e la
concorrenza" (Legge
04.08.2017 n. 124).
---------------
Di particolare interesse si legga:
●
Art. 1, comma 172
172. All’articolo 6 del testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al
decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380,
il comma 5 è sostituito dal seguente: «5. Riguardo agli
interventi di cui al presente articolo, l’interessato
provvede, nei casi previsti dalle vigenti disposizioni, alla
presentazione degli atti di aggiornamento catastale ai sensi
dell’articolo 34-quinquies , comma 2, lettera b) , del
decreto-legge 10.01.2006, n. 4, convertito, con
modificazioni, dalla legge 09.03.2006, n. 80». |
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 33 del 14.08.2017, "Assestamento
al bilancio 2017/2019 - I provvedimento di variazione con
modifiche di leggi regionali" (L.R.
10.08.2017 n. 22).
---------------
Si leggano, di particolare interesse:
●
Art. 4 (Disposizioni
finanziarie)
4. Alla legge regionale 12.10.2015, n. 33
(Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e
relativa vigilanza in zone sismiche) sono apportate le
seguenti modifiche:
a) dopo il comma 3 dell’articolo 2 sono aggiunti i seguenti:
«3-bis. La Regione, nei limiti delle disponibilità di
bilancio, assegna contributi ai comuni, singoli o associati,
con popolazione fino a 5.000 abitanti, per l’esercizio delle
funzioni di cui al comma 1.
3-ter. La Giunta regionale, con la deliberazione di cui
all’articolo 13, comma 1, stabilisce i criteri e le modalità
per l’assegnazione dei contributi previsti al comma 3-bis,
in funzione delle necessità organizzative e di supporto
specialistico in materia sismica delle strutture tecniche
comunali.»;
b) prima del comma 1 dell’articolo 14 è aggiunto il
seguente:
«01. Alle spese di cui all’articolo 2, comma 3-bis,
quantificate in € 160.000,00 per l’esercizio finanziario
2017 e in € 350.000,00 annui per gli esercizi finanziari
2018 e 2019, si fa fronte con le risorse allocate alla
missione 11 «Soccorso Civile», programma 2 «Interventi a
seguito di calamità naturali» - Titolo 1 «Spese correnti».
Dalle successive annualità si provvede con le leggi di
approvazione di bilancio dei singoli esercizi finanziari.».
● Art. 11 (Modifiche a leggi regionali a
seguito di impegni assunti con il Governo, in attuazione del
principio di leale collaborazione)
2. I commi 1-bis e 1-ter dell’articolo 5, il
comma 4-bis dell’articolo 10 e il comma 1-bis dell’articolo
13 della legge regionale 12.10.2015, n. 33 (Disposizioni in
materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in
zone sismiche), come inseriti dall’articolo 25, comma 1,
lettere a), f) e g), della legge regionale 26.05.2017, n. 15
(Legge di semplificazione 2017), sono abrogati.
4. Alla legge regionale 10.03.2017, n. 7 (Recupero dei vani e
locali seminterrati esistenti) è apportata la seguente
modifica:
a) nel primo periodo del comma 8 e al comma 9 dell’articolo
2 le parole «superficie lorda di pavimento (SLP)» sono
sostituite dalle seguenti: «superficie lorda (SL)».
● Art. 12 (Modifiche agli articoli 1,
2, 3 e 4 della l.r. 7/2017)
1. Alla legge regionale 13.03.2017, n. 7 (Recupero dei vani e
dei seminterrati esistenti) sono apportate le seguenti
modifiche:
a) al comma 4 dell’articolo 1 è aggiunto il seguente
periodo: «Qualora i locali presentino altezze interne
irregolari, si considera l’altezza media, calcolata
dividendo il volume della parte di vano seminterrato la cui
altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa.»;
b) al comma 4 dell’articolo 2 è aggiunto il seguente
periodo: «Per gli interventi di recupero fino a 100 mq. di
superficie lorda, anche nei casi di cambio di destinazione
d’uso, sono esclusi il reperimento di aree per servizi e
attrezzature pubblici e di interesse pubblico o generale e
la monetizzazione.»;
c) il comma 3 dell’articolo 3 è sostituito dal seguente: «3.
Qualora il recupero dei locali seminterrati comporti la
creazione di autonome unità ad uso abitativo, i comuni
trasmettono alle Agenzie di tutela della salute (ATS)
territorialmente competenti copia della segnalazione
certificata presentata ai sensi dell’articolo 24 del d.p.r.
380/2001, che deve essere corredata da attestazione sul
rispetto dei limiti di esposizione al gas radon stabiliti
dal regolamento edilizio comunale o, in difetto, dalle linee
guida di cui al decreto del direttore generale sanità della
Giunta regionale di Regione Lombardia 21.12.2011, n. 12678
(Linee guida per la prevenzione delle esposizioni al gas
radon in ambienti indoor) e successive eventuali modifiche e
integrazioni.»;
d) dopo il comma 3 dell’articolo 3 sono aggiunti i seguenti:
«3 bis. Le pareti interrate dovranno essere protette
mediante intercapedini aerate o con altre soluzioni tecniche
della stessa efficacia.
3-ter. Dovrà essere garantita la presenza di idoneo vespaio
aerato su tutta la superficie dei locali o altra soluzione
tecnica della stessa efficacia.
3-quater. Per il recupero ad uso abitativo inteso come
estensione di un’unità residenziale esistente e solo per
locali accessori o di servizio è sempre ammesso il ricorso
ad aeroilluminazione totalmente artificiale purché la parte
recuperata non superi il 50 per cento della superficie utile
complessiva dell’unità.
3-quinquies. Per il recupero ad uso abitativo inteso come
creazione di unità autonome, il raggiungimento degli indici
di aeroilluminazione con impianti tecnologici non potrà
superare il 50 per cento rispetto a quanto previsto dai
regolamenti locali.
3-sexies. Per il recupero ad uso abitativo, per il calcolo
dei rapporti aeroilluminanti la distanza tra le luci del
locale e il fabbricato prospiciente dovrà essere di almeno
metri 2,5.»;
e) al comma 1 dell’articolo 4 sono apportate le seguenti
modifiche:
1) le parole «Entro il termine perentorio di centoventi giorni
dall’entrata in vigore della presente legge» sono sostituite
dalle seguenti: «Entro il 31.10.2017»;
2) le parole «e comunque non oltre il termine di centoventi giorni
dall’entrata in vigore della legge» sono sostituite dalle
seguenti: «entro il 31.10.2017». |
LAVORI PUBBLICI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 14.08.2017, "Ricognizione
dei comuni dotati di piano di emergenza comunale di
protezione civile alla data del 21.07.2017 - Aggiornamento
del d.d.s. n. 3170 del 11.04.2014 (l. 225/1992 e l.r.
16/2004)" (decreto
D.S. 04.08.2017 n. 9819). |
ENTI LOCALI - VARI:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 32 del 10.08.2017, "Attuazione
delle leggi regionali e valutazione degli effetti delle
politiche regionali per la qualificazione della spesa
pubblica e l’efficacia delle risposte ai cittadini" (L.R.
08.08.2017 n. 20). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 10.08.2017 "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.07.2017, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 07.08.2017 n. 128). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 10.08.2017, "Pubblicazione
dell’elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578, dei
membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame
dei corsi in acustica di cui al d.lgls. 17.02.2017, n. 42,
allegato 2, parte b, punto 2. aggiornamento al 31.07.2017"
(comunicato
regionale 07.08.2017 n. 127). |
PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 32 dell'08.08.2017, "Disciplina
della programmazione dell’offerta abitativa pubblica e
sociale e dell’accesso e della permanenza nei servizi
abitativi pubblici" (regolamento
regionale 04.08.2017 n. 4). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
07.08.2017 n. 183 "Regolamento recante la disciplina
semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai
sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n.
164" (D.P.R. 13.06.2017 n. 120). |
PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
04.08.20147 n. 181 "Disposizioni integrative e correttive
al decreto legislativo 20.06.2016, n. 116, recante modifiche
all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001,
n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s) ,
della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di licenziamento
disciplinare" (D.Lgs.
20.07.2017 n. 118). |
APPALTI - ENTI LOCALI - VARI: G.U.
02.08.2017, suppl. ord. n. 43/L, "Codice del Terzo
settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della
legge 06.06.2016, n. 106" (D.Lgs.
03.07.2017 n. 117). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO:
B.U.R. Lombardia, supplemento n. 31 dell'01.08.2017, "Regolamento
regionale di attuazione della legge regionale 27.02.2017 n.
5 «Rete escursionistica della Lombardia»" (regolamento
regionale 28.07.2017 n. 3). |
PATRIMONIO - VARI:
B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 dell'01.08.2017, "Approvazione
delle linee guida per l’esercizio delle funzioni relative
alle autorizzazioni alla circolazione dei trasporti
eccezionali – l.r. 04.04.2012, n. 6, art. 42" (deliberazione
G.R. 24.07.2017 n. 6931). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U.
10.07.2017 n. 159 "Adeguamento della normativa nazionale
alle disposizioni del regolamento (UE) n. 305/2011, che
fissa condizioni armonizzate per la commercializzazione dei
prodotti da costruzione e che abroga la direttiva 89/106/CEE"
(D.Lgs.
16.06.2017 n. 106). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Regolamento terre e rocce da scavo, “assurdo l'obbligo di
preavviso di 15 giorni”.
Confartigianato Costruzioni di La Spezia boccia la norma che
impone alle imprese, prima di scavare una buca anche di un
solo metro cubo, di avvertire 15 giorni prima il comune
competente e l'Arpa
(25.08.2017 - link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Riforma della VIA, definita la modulistica per presentare le
liste di controllo.
Emanato il decreto direttoriale attuativo delle disposizioni
di cui all’art. 25, comma 1, del D.Lgs. 104/2017 di riforma
della VIA (24.08.2017 - link a www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
Prodotti da costruzione, le nuove norme entrate in vigore il
9 agosto.
Introdotte procedure semplificate per le piccole e medie
imprese e sanzioni anche per i progettisti (22.08.2017
-
link a www.casaeclima.com). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Terre e rocce da scavo, dal 22 agosto in vigore il nuovo
regolamento.
Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il DPR n. 120/2017.
Eliminate le autorizzazioni preventive attraverso la
previsione di un modello di controllo ‘ex post’ (21.08.2017
- link a www.casaeclima.com). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Condanna per lite temeraria.
Basta cause facili o cause perse in
partenza: si rischia di dover risarcire il danno. L’avvocato
deve sempre informare il cliente se conviene iniziare un
processo o meno.
Se si fa causa a una persona sapendo già di avere torto o
che è persa in partenza o senza sapere minimamente cosa
comporta un processo o, ancora, solo per intimidire
l’avversario si rischia una condanna per lite temeraria
(...continua) (11.08.2017 - link a www.laleggepertutti.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Lombardia: abitabilità seminterrati più semplice. Prorogato
al 31 ottobre il termine per i Comuni per recepire la nuova
norma.
La Lombardia ha approvato le modifiche alla legge regionale
7/2017 sull’abitabilità dei seminterrati in virtù di una
maggiore chiarezza e semplicità burocratica. Di seguito
riportiamo le novità introdotte. (...continua) (02.08.2017
- link a www.casaeclima.com). |
QUESITI & PARERI |
ENTI LOCALI:
Servizio di mensa scolastica. Tariffe di compartecipazione
dell'utenza.
Poiché il servizio di refezione
scolastica è un servizio pubblico 'a domanda individuale',
il Comune che facoltativamente decide di istituirlo è
tenuto, per legge, a stabilire la quota di copertura
tariffaria a carico dell'utenza.
La giurisprudenza afferma che la misura della contribuzione
da richiedere ai fruitori del servizio è «il frutto di una
scelta di ampia discrezionalità, riservata per legge
all'amministrazione comunale, la quale deve esercitarla nel
rispetto dei principi di equilibrio economico-finanziario di
gestione del servizio e di pareggio di bilancio».
Il Comune riferisce di aver istituito da tempo il servizio
di mensa scolastica che, ai sensi dell'art. 6 del
decreto-legge 28.02.1983, n. 55, convertito, con
modificazioni, dalla legge 26.04.1983, n. 131 e del decreto
del Ministero dell'interno 31.12.1983 [1],
costituisce servizio pubblico locale 'a domanda
individuale', cosicché l'ente erogatore è tenuto a
richiedere la contribuzione dell'utenza.
Per definire le modalità di compartecipazione dei fruitori
al costo del servizio, il Comune applica il principio della
'capacità contributiva', prevedendo una tariffa
variabile, modulata per fasce ISEE, considerato che il
servizio rientra tra le prestazioni sociali agevolate, di
cui alla Tabella 1 del decreto del Ministero del lavoro e
delle politiche sociali 16.12.2014, n. 206
[2].
Poiché il Comune si è determinato ad esentare da ogni
pagamento i fruitori del servizio aventi un ISEE familiare
fino ad € 6.000,00 [3],
mentre per la fascia ISEE uguale o superiore a € 30.000,00
la tariffa è unica, l'Ente chiede un parere in merito al
proprio operato, anche alla luce dei principi enunciati dal
TAR Piemonte - Sez. I, con sentenza 31.07.2014, n. 1365.
Occorre, anzitutto, ricordare che l'attività consultiva cui
è preposto questo Ufficio è volta a fornire un semplice
ausilio all'ente locale richiedente per le determinazioni
che lo stesso è tenuto ad assumere nell'esercizio delle
proprie funzioni. Rimane, pertanto, ferma la discrezionalità
(e la correlativa responsabilità) dell'amministrazione in
sede di esercizio delle proprie prerogative gestorie.
Ciò posto si ritiene di poter comunque osservare, a fini
meramente collaborativi, che indicazioni volte a ritenere
legittimo l'operato del Comune si rinvengono proprio nella
sentenza citata dall'Ente.
Infatti il TAR, dopo aver rilevato che il servizio di
refezione scolastica è un servizio pubblico, ma 'a
domanda individuale', cosicché, se il Comune decide di
istituirlo [4],
è tenuto per legge a stabilire la quota di copertura
tariffaria a carico dell'utenza [5],
precisa che, nell'esercizio di tale potere-dovere, «il
Comune gode di amplissima discrezionalità, che non trova
nella legge alcuna limitazione in ordine alla misura massima
imputabile agli utenti».
Al riguardo, il TAR osserva che la stessa percentuale 'non
inferiore al 36 per cento' prevista, per gli enti locali
in stato di dissesto, dall'art. 243, comma 2, lett. a)
[6], del
D.Lgs. 267/2000, esprime in ogni caso solo la misura minima
che necessariamente deve essere posta a carico dell'utenza,
non quella massima.
Il TAR rileva che, sussistendo un'adeguata capienza di
bilancio, il comune potrebbe decidere di finanziare
interamente il servizio con risorse proprie, garantendone la
fruizione gratuita da parte dell'utenza [7].
Allo stesso modo, però, sarebbe ugualmente ammissibile che
l'ente locale disponesse di far gravare per intero il costo
del servizio sull'utenza.
Oltre a tali opzioni estreme si pone quella, più consueta,
in cui il costo del servizio è ripartito tra
l'amministrazione e l'utenza secondo modalità variamente
determinate e mutevoli nel tempo, influenzate dalle
disponibilità di bilancio e dalle scelte di politica
economico-sociale dell'ente locale.
Pertanto, secondo il TAR, la misura della contribuzione è,
in definitiva, «il frutto di una scelta di ampia
discrezionalità, riservata per legge all'amministrazione
comunale, la quale deve esercitarla nel rispetto dei
principi di equilibrio economico-finanziario di gestione del
servizio e di pareggio di bilancio».
---------------
[1] Punto 10).
[2] Punto A2.12.
[3] Fissando tale limite in analogia con il disposto
dell'art. 3, comma 1, della legge regionale 10.07.2015, n.
15, nell'ambito della quale sono previste azioni regionali
di sostegno anche per contrastare l'esclusione sociale
determinata da assenza o carenza di reddito.
[4] Non si tratta, infatti, di un servizio pubblico
essenziale, che in quanto tale va garantito necessariamente
alla collettività amministrata, ma di un servizio
facoltativo che l'ente locale può decidere discrezionalmente
di attivare, nei limiti delle proprie disponibilità di
bilancio.
[5] Ai sensi dell'art. 6, comma 1, del già citato D.L.
55/1983 («Le province, i comuni, i loro consorzi e le
comunità montane sono tenuti a definire, non oltre la data
della deliberazione del bilancio, la misura percentuale dei
costi complessivi di tutti i servizi pubblici a domanda
individuale [...] che viene finanziata da tariffe o
contribuzioni ed entrate specificamente destinate.») e
dell'art. 172, comma 1, lett. c), del decreto legislativo
18.08.2000, n. 267 («Al bilancio di previsione sono allegati
[...] i seguenti documenti: [...] c) le deliberazioni con le
quali sono determinati, per l'esercizio successivo, le
tariffe [...] per i servizi locali, nonché, per i servizi a
domanda individuale, i tassi di copertura in percentuale del
costo di gestione dei servizi stessi; [...])».
[6] «Gli enti locali strutturalmente deficitari sono
soggetti ai controlli centrali in materia di copertura del
costo di alcuni servizi. Tali controlli verificano mediante
un'apposita certificazione che:
a) il costo complessivo della gestione dei servizi a domanda
individuale, riferito ai dati della competenza, sia stato
coperto con i relativi proventi tariffari e contributi
finalizzati in misura non inferiore al 36 per cento; [...]».
[7] Sul punto occorre doverosamente segnalare che la Corte
dei conti (cfr., in particolare, Sez. Reg. Contr. Campania,
pareri n. 7/2010 e n. 222/2017 e Sez. Reg. Contr. Sicilia,
parere n. 115/2015) esprime un avviso che si pone in
contrapposizione con la tesi che ritiene ammissibile
l'indiscriminata elargizione gratuita dei servizi pubblici a
domanda individuale, tenuto conto, oltre che della specifica
disciplina in materia, di considerazioni riferibili alla
necessità del rispetto di un principio di elementare
prudenza e di razionalità nell'erogazione delle spese
pubbliche, ai fini della salvaguardia degli equilibri di
bilancio (09.08.2017
-
link a
www.regione.fvg.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Affidamento di incarichi a liberi professionisti. Disciplina
applicabile.
Per stabilire se l'affidamento di
incarichi a liberi professionisti, connessi al funzionamento
di una stazione biologica nell'ambito di una Riserva
naturale regionale, debba avvenire secondo le procedure
previste per gli appalti di servizi dal D.Lgs. 50/2016,
oppure in base a quelle dettate per gli incarichi
individuali dall'art. 7, c. 6, del D.Lgs. 165/2001, occorre
avere riguardo ai caratteri propri dell'incarico che si
intende affidare e, quindi, alla sua qualificazione
giuridica.
La giurisprudenza individua, in termini generali, i
caratteri distintivi delle due fattispecie osservando,
peraltro, che il confine fra contratto d'opera intellettuale
e contratto d'appalto di servizi sfuma in sede di
applicazione della disciplina sui contratti pubblici, che
impone predeterminate procedure ad evidenza pubblica,
prodromiche alla stipulazione dei contratti da parte delle
PP.AA. e adotta una nozione ampia di appalto di servizi che
comprende, in alcuni casi, anche l'attività del
professionista intellettuale.
Il Comune rappresenta di ricevere annualmente un contributo regionale, di
importo costante, per il funzionamento di una stazione
biologica nell'ambito di una Riserva naturale regionale e
che, in ragione di un tanto, nel 2016 ha già affidato
direttamente, ai sensi dell'art. 125, comma 11, del decreto
legislativo 12.04.2006, n. 163, l'incarico triennale per
lo svolgimento di determinate attività a tre professionisti,
esperti in materia ambientale.
Poiché, per il corrente anno, il Comune ha ricevuto un
contributo di importo superiore, esso intende affidare un
'servizio aggiuntivo' ai tre soggetti già incaricati e
chiede di conoscere se l'affidamento delle ulteriori
attività di cui trattasi, nonché la scelta dei
professionisti che dovranno essere individuati in futuro,
debbano avvenire secondo le procedure previste, per gli
appalti di servizi, dal decreto legislativo 18.04.2016,
n. 50, oppure in base a quelle dettate, per gli incarichi
individuali, dall'art. 7, comma 6, del decreto legislativo
30.03.2001, n. 165.
Sentito il Servizio paesaggio e biodiversità della Direzione
centrale infrastrutture e territorio si rappresenta quanto
segue.
Va, anzitutto, chiarito che, per poter stabilire la
qualificazione giuridica degli incarichi che si intendono
affidare, occorre fare riferimento alle specifiche
caratteristiche delle attività/prestazioni che i
professionisti sono chiamati a svolgere: pertanto, tale
valutazione spetta, in via esclusiva, all'amministrazione
procedente.
Un tanto premesso si ritiene, comunque, di poter fornire, in
via meramente collaborativa, alcune considerazioni di
carattere generale, con l'auspicio di poter coadiuvare
l'Ente nell'assunzione delle proprie determinazioni al
riguardo.
È noto che per i contratti d'opera e di opera intellettuale
(nel cui ambito sono riconducibili quelli che le
disposizioni di finanza pubblica definiscono come 'ricerca',
'studio' e 'consulenza') si pone il problema di individuare
la normativa applicabile, atteso che la disciplina statale
che regola i contratti pubblici, nel recepire le direttive
comunitarie in materia, assimila alcuni di essi agli appalti
di servizi
[1].
Sulla tematica è intervenuta tanto la magistratura
contabile
[2]
(alla quale si farà prevalentemente
riferimento, stante il maggior numero di interventi) quanto
quella amministrativa
[3], ai cui insegnamenti è opportuno
rifarsi per ricavare i parametri che dovrebbero consentire
al Comune di stabilire la natura giuridica degli incarichi
che intende affidare e, conseguentemente, identificare la
procedura da osservare.
Gli incarichi a professionisti esterni sono generalmente
riconducibili, secondo il diritto civile, al contratto
d'opera (v. art. 2222
[4]) e, più precisamente, d'opera
intellettuale (v. art. 2229)
[5].
Come si è già accennato, il codice dei contratti pubblici,
delineando l'ambito oggettivo di applicazione, fornisce una
definizione di contratto di appalto di servizi
[6]
molto più
ampia di quella del codice civile, attraendo anche negozi
qualificabili come contratti d'opera o di opera
intellettuale.
Secondo il codice civile, la distinzione tra contratti
d'opera e di opera intellettuale e contratto d'appalto di
servizi (v. art. 1655
[7]) emerge dal carattere personale o
intellettuale delle prestazioni nei primi e dalla natura
imprenditoriale del soggetto esecutore, nel secondo.
L'appalto di servizi, pur presentando elementi di affinità
con il contratto d'opera (autonomia rispetto al
committente), si differenzia da questo per il profilo
dell'organizzazione, considerato che l'appaltatore esegue la
prestazione con mezzi e personale propri, che fanno ritenere
sussistente, assieme al requisito della gestione a proprio
rischio, la qualità di imprenditore commerciale.
Il prestatore d'opera, invece, pur dovendo anch'egli
svolgere, dietro corrispettivo, un servizio a favore del
committente, senza vincolo di subordinazione e con
assunzione del relativo rischio, si obbliga ad eseguirlo con
lavoro prevalentemente proprio, senza una necessaria
organizzazione.
Il confine fra contratto d'opera intellettuale e contratto
d'appalto di servizi sfuma in sede di applicazione della
disciplina sui contratti pubblici, che impone predeterminate
procedure, ad evidenza pubblica, prodromiche alla
stipulazione dei contratti da parte delle pubbliche
amministrazioni.
Il codice dei contratti pubblici adotta certamente una
nozione ampia di appalto di servizi che comprende, in alcuni
casi, anche l'attività del professionista intellettuale, ma
tale nozione è finalizzata ad estendere l'ambito oggettivo
di applicazione della relativa disciplina in aderenza alle
direttive comunitarie di settore, volte a favorire il
confronto concorrenziale fra operatori economici, la libera
circolazione di servizi ed il diritto di stabilimento.
Pertanto, quella nozione non si ripercuote sulle definizioni
di contratto di prestazione d'opera, prestazione d'opera
intellettuale e di appalto di servizi delineate dal codice
civile, atteso che il codice dei contratti pubblici mira a
disciplinare le procedure di affidamento di un'ampia gamma
di contratti che, pur definiti come 'appalto', comprendono
una serie eterogenea di negozi civilistici
(somministrazione, mandato, trasporto, assicurazione, ecc.).
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, si segnala che
anche il Consiglio di Stato
[8], valorizzando le differenze
fra i due contratti ai fini delle conseguenti ricadute in
materia di soggezione al codice dei contratti pubblici,
ritiene elemento qualificante dell'appalto di servizi, oltre
alla complessità dell'oggetto, la circostanza che
l'affidatario dell'incarico necessiti, per l'espletamento
dello stesso, di apprestare una specifica organizzazione
finalizzata a soddisfare i bisogni dell'ente.
---------------
[1] Secondo D. Centrone («Il conferimento di incarichi di
consulenza e collaborazione da parte degli enti locali e
delle società partecipate, alla luce del nuovo Codice dei
contratti pubblici, d.lgs. n. 50 del 2016, e del testo unico
sulle società pubbliche, d.lgs. n. 175 del 2016», relazione
tenuta al Convegno sul tema 'Gli adempimenti in scadenza al
31.01.2017 per la prevenzione della corruzione e le
linee-guida per le città metropolitane', organizzato da UPI-ANCI Piemonte e tenutosi a Torino il 20.01.2017)
tale assimilazione concerne l'individuazione della procedura
di affidamento, «restando impregiudicata la qualificazione
della natura del contratto, da effettuare secondo le regole
del diritto civile interno».
[2] V., tra i più recenti interventi della Corte dei conti:
Sez. reg.le controllo per la Puglia, delib. n. 63/PAR/2014;
Sez. reg.le controllo per la Liguria, delib. n. 79/2015/PAR;
Sez. reg.le controllo per la Lombardia, delib. n.
51/2013/PAR, n. 178/2014/PAR e n. 162/2016/PAR.
[3] V., per tutte, la sent. del Consiglio di Stato - Sez. V,
n. 2730/2012.
[4] «Quando una persona si obbliga a compiere verso un
corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione
nei confronti del committente, si applicano le norme di
questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina
particolare nel libro IV.».
[5] «La legge determina le professioni intellettuali per
l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in
appositi albi o elenchi.
L'accertamento dei requisiti per l'iscrizione negli albi o
negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere
disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni
professionali, sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la
legge disponga diversamente.
Contro il rifiuto dell'iscrizione o la cancellazione dagli
albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che
importano la perdita o la sospensione del diritto
all'esercizio della professione è ammesso ricorso in via
giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi
speciali.».
[6] V. l'art. 3, comma 1, lett. dd), ii) e ss), del D.Lgs.
50/2016.
[7] «L'appalto è il contratto col quale una parte assume,
con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a
proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio
verso un corrispettivo in danaro.».
[8] Sez. V, sent. n. 2730/2012 (02.08.2017
-
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Regolare svolgimento delle sedute del Consiglio comunale.
La giurisprudenza amministrativa ha
ritenuto legittima la norma regolamentare che preveda
l'espulsione del consigliere intemperante, precisando,
tuttavia che può addivenirsi a tale estremo rimedio solo se
congruamente motivato e dopo che il presidente ha
inutilmente richiamato il consigliere una o più volte, ed
evidenziando soprattutto che non è possibile prefigurare
anche il potere di allontanamento, con il ricorso alla forza
pubblica, in quanto qui si incide direttamente sulla libertà
individuale, tutelata dall'articolo 13 della Costituzione.
Il Comune chiede un parere afferente la disciplina del
funzionamento delle sedute del consiglio comunale.
In particolare, lo stesso vorrebbe apportare al vigente
regolamento sul funzionamento del consiglio comunale alcune
modifiche atte a consentire l'ordinato svolgimento delle
sedute del consiglio comunale. Queste consisterebbero nella
possibilità per il presidente del consiglio comunale,
eventualmente a seguito di apposita deliberazione da parte
dell'organo consiliare, di disporre l'allontanamento del
consigliere comunale che, previamente più volte richiamato
all'ordine, non consenta con il proprio comportamento la
prosecuzione dei lavori.
L'allontanamento si sostanzierebbe nel prevedere che
l'amministratore interessato si sieda tra il pubblico e,
pertanto, nel considerarlo assente per il resto della seduta
consiliare in atto. A tale previsione se ne accosterebbe una
ulteriore, afferente il comportamento del pubblico presente
in aula che, qualora si sostanziasse in tumulti o
comportamenti reiterati di disturbo, consentirebbe al
presidente del consiglio comunale, anche eventualmente a
seguito di apposita deliberazione da parte dell'organo
consiliare, di disporre la prosecuzione dell'adunanza a
porte chiuse.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'articolo 39, comma 1, del decreto legislativo 18.08.2000,
n. 267 prevede che al presidente del consiglio siano
attribuiti, tra gli altri, 'i poteri di convocazione e
direzione dei lavori e delle attività del consiglio' da
intendere, come rilevato dal Ministero dell'Interno, per
quel che rileva in questa sede, nel senso di dover
assicurare lo svolgimento ordinato delle sedute, sempre nel
rispetto delle disposizioni regolamentari e comprendenti,
dunque, anche 'la c.d. polizia dell'adunanza, cioè il
potere discrezionale di mantenere l'ordine, l'osservanza
della legge e la regolarità delle discussioni e
deliberazioni' [1].
A tal riguardo il vigente regolamento del consiglio comunale
prevede che 'il Sindaco è il Presidente delle adunanze
del Consiglio Comunale e ne dirige i lavori assicurandone il
buon andamento nel rispetto della legge, dello Statuto
comunale e delle norme del presente regolamento'
(articolo 34, comma 1) e che 'il Presidente
dell'assemblea consiliare rappresenta l'intero Consiglio
Comunale, ne è l'oratore ufficiale, deve tutelarne la
dignità e le funzioni, assicura il buon andamento dei lavori
[...]. Il presidente è investito di potere discrezionale per
mantenere l'ordine e per assicurare l'osservanza delle leggi
e dei regolamenti, la regolarità delle discussioni e la
legalità delle deliberazioni' (articolo 35, commi 1 e
2).
Con specifico riguardo al comportamento dei consiglieri
comunali soccorre, poi, l'articolo 41 del vigente
regolamento consiliare il quale, al comma 3, prevede che: 'Se
un consigliere turba l'ordine, pronuncia parole sconvenienti
o lede i principi affermati nei precedenti commi,
[2]
il Presidente lo richiama, nominandolo'. Il successivo
comma 4 dispone, poi, che: 'Dopo un secondo richiamo
all'ordine nella stessa seduta, fatto ad uno stesso
consigliere senza che questi tenga conto delle osservazioni
rivoltegli, il Presidente deve interdirgli ulteriormente la
parola, fino alla conclusione dell'affare in discussione. Se
il consigliere contesta la decisione, il Consiglio, su sua
richiesta, decide votando per alzata di mano, senza
ulteriore discussione'.
Rispetto alle previsioni attuali la modifica regolamentare
intenderebbe prevedere la possibilità da parte del
presidente di disporre l'espulsione del consigliere comunale
nel caso in cui i precedenti ammonimenti siano risultati
infruttuosi. La giurisprudenza amministrativa ha, al
riguardo, ritenuto legittima la norma regolamentare che
preveda l'espulsione del consigliere intemperante,
precisando, tuttavia che può addivenirsi a tale estremo
rimedio solo se congruamente motivato e dopo che il
presidente ha inutilmente richiamato il consigliere una o
più volte, ed evidenziando soprattutto che non è possibile
prefigurare anche il potere di allontanamento,
[3] con il
ricorso alla forza pubblica, in quanto qui si incide
direttamente sulla libertà individuale, tutelata
dall'articolo 13 della Costituzione, il quale prescrive la
previsione legislativa e l'atto motivato dell'autorità
giudiziaria per assumere provvedimenti restrittivi e
limitativi di detto diritto.
Il Ministero dell'Interno, al riguardo, ha precisato che
l'espulsione 'produce l'effetto di escludere
l'amministratore locale dalla partecipazione alla seduta del
Consiglio. [...] Pertanto, il consigliere espulso che non si
allontanasse spontaneamente dall'aula sarebbe considerato
assente, ad ogni effetto (TAR Abruzzo, 26.06.2002, n. 526),
ma non può essere coattivamente allontanato'
[4].
A supporto di un tanto il Ministero dell'Interno, in un
proprio parere [5]
ha richiamato l'articolo 297 del TUEL del 1915
[6]
affermando che lo stesso 'benché anteriore alla
Costituzione, limitava il potere di espulsione alle sole
persone presenti tra l'uditorio che fossero causa di
disordine, escludendone invece i componenti del consiglio
comunale.'.
Concludendo su tale punto, si ritiene rispondente alle
considerazioni sopra riportate la previsione regolamentare
che l'Ente intende inserire nel proprio regolamento,
ribadendosi tuttavia che i poteri del sindaco quale
presidente del consiglio di valutare e sanzionare i
comportamenti dei consiglieri nel corso dell'attività
consiliare deve sempre essere rispettosa della funzione di
garante imparziale e neutrale della maggioranza e
dell'opposizione consiliare sullo stesso gravante.
In particolare, si ritiene che, al fine di non porre in
essere condotte sproporzionate ed incompatibili con il
proprio ruolo di arbitro, il presidente del consiglio
comunale deve eserciate il potere di 'allontanamento'
dei consiglieri solamente nelle ipotesi in cui questi
pongano in essere comportamenti 'gravi' tali da
impedire il regolare e corretto svolgimento dell'attività
istituzionale. Tale gravità deve presentare un carattere
oggettivo, pena diversamente il rischio che la
discrezionalità presidenziale assurga a mero arbitrio,
inammissibile ed incompatibile con il ruolo del Presidente
quale primo garante del manifestarsi della dialettica
democratica nell'ambito dell'assemblea rappresentativa del
Comune.
Da ultimo, su tale punto, si osserva che l'alternativa tra
il far assumere la decisione 'sanzionatoria' nei
confronti dell'amministratore al sindaco quale presidente
del consiglio o, piuttosto, al consiglio comunale, rientra
nella scelta decisionale discrezionale dell'Ente medesimo
essendo entrambe le soluzioni percorribili. Infatti, la
decisione può essere rimessa o al sindaco stesso, stante le
funzioni di cui lo stesso è investito quale presidente del
consiglio, o dallo stesso rimesse al consiglio comunale
qualora si ritenga opportuno il coinvolgimento su una tale
decisione dell'intero organo collegiale, il quale potrebbe
essere tenuto alla votazione senza necessità di una previa
discussione sul punto.
Passando a trattare della seconda questione posta, si rileva
che il vigente regolamento sul funzionamento del consiglio
già contiene una norma dai contenuti analoghi a quelli
oggetto della modifica regolamentare proposta. In
particolare, l'articolo 44 del regolamento consiliare
rubricato 'Comportamento del pubblico', recita, al
comma 5: 'Qualora il comportamento del pubblico ostacoli
il proseguimento della seduta il Presidente può disporre lo
sgombero dell'aula da parte di tutti i disturbatori. Quindi,
ove gravi motivi di ordine pubblico lo impongano, con
decisione motivata presa a maggioranza dal Consiglio ed
annotata a verbale, può essere disposta la prosecuzione
della seduta a porte chiuse'. [7]
Sul tema la dottrina [8]
ha affermato che: «Appare evidente, quindi, che, quando i
comportamenti del pubblico giungono a travalicare le
ordinarie regole di convivenza, tali da turbare o,
alternativamente, interrompere le sedute del consiglio
comunale, ovvero ostacolare il normale funzionamento,
manifestando disapprovazione con metodi espositivi
minacciosi, ingiuriosi o grida [...] e sino a giungere
all'occupazione dell'aula in segno di protesta, siamo di
fronte a cd. 'tumulti' che possono impedire di fatto da una
parte, la continuazione dei lavori, dall'altra, la serenità
d'animo per poter liberamente esprimere un voto o un
pensiero: l'esercizio della funzione.»
Prosegue l'Autore rilevando che: 'Per le ragioni sopra
esposte, si può validamente sostenere la legittimità di una
clausola del regolamento consiliare (fonte normativa di
riferimento) finalizzato a impedire comportamenti ad extra
continuativi, con l'intento di minare la funzionalità del
consiglio comunale.'
---------------
[1] Ministero dell'Interno, parere del 17.02.2006.
[2] L'articolo 41, comma 1, del regolamento del consiglio
comunale così recita: 'I consiglieri comunali nella
discussione degli affari hanno il più ampio diritto di
esprimere apprezzamenti, critiche, rilievi e censure, ma
esse devono riguardare atteggiamenti, opinioni o
comportamenti politico - amministrativi'. Il successivo
comma 2 dispone, poi, che: 'Tale diritto va esercitato
escludendo qualsiasi riferimento alla vita privata ed alle
qualità personali di chicchessia e va in ogni caso contenuto
entro i limiti dell'educazione, della prudenza e del civile
rispetto, senza l'uso di parole sconvenienti e senza
degenerare. È rigorosamente vietato a tutti di fare
imputazioni di mala intenzione, che possano offendere
l'onorabilità di chicchessia'.
[3] Così Cassazione penale, sez. VI, sentenza del
22.10.1996, n. 10696 ove si afferma che: 'Deve ritenersi
atto arbitrario la disposizione data dal sindaco alla forza
pubblica, presente nell'aula comunale in cui è in corso
l'adunanza del consiglio, di allontanare i consiglieri della
opposizione al fine di riportare l'ordine all'interno
dell'organo collegiale: invero, trattasi di comportamento
illegittimo, non consentito da norma alcuna del testo unico
della legge comunale e provinciale, che per altro verso,
oggettivamente manifesta una volontà irrispettosa del
diritto delle minoranze di partecipare alla adunanza sino a
quando essa, nel suo complesso, non venga sospesa o
sciolta'.
[4] Ministero dell'Interno, parere del 17.02.2006.
[5] Ministero dell'Interno, parere dell'11.04.2006.
[6] L'articolo 297 del R.D. 04.02.1915, n. 148, al terzo
comma, prevede che: 'Può [cfr. chi presiede l'adunanza dei
Consigli] nelle sedute pubbliche, dopo aver dato gli
opportuni avvertimenti, ordinare che venga espulso
dall'uditorio chiunque sia causa di disordine, ed anche
ordinarne l'arresto'.
[7] Cfr. al riguardo articolo 38, comma 7, del TUEL il quale
recita: 'Le sedute del consiglio e delle commissioni sono
pubbliche salvi i casi previsti dal regolamento'. La
dottrina ha, al riguardo, rilevato come 'postulata la
sussistenza di siffatto principio, si deve necessariamente
convenire che i casi di esclusione della pubblicità delle
sedute consiliari siano una assoluta eccezione, e che gli
stessi siano giustificabili essenzialmente solo da
motivazioni di ordine pubblico, ovvero riferibili ai casi in
cui il consiglio debba trattare di questioni concernenti
singole persone e vi sia al contempo un'effettiva e grave
esigenza di riservatezza. Sarà, infine, cura del regolamento
individuare e fissare, in forma analitica e tassativa
(trattandosi di deroga ad un diverso e contrario principio
fissato dal legislatore), i casi di esclusione della
pubblicità delle sedute conferendo al presidente della
assemblea il potere di disporre la celebrazione segreta
delle relative riunioni' (Si veda 'L'ordinamento degli enti
locali', Commentario al Testo Unico, Ipsoa editore, II
Edizione, pag. 354 e, nello stesso senso, E. Maggiora, 'Il
funzionamento del consiglio comunale e provinciale', Giuffrè
editore, 2000, pag. 148).
[8] M. Lucca, 'Diritti dei consiglieri comunali, condotte
ostruzionistiche e tumulti in Consiglio comunale:
trasparenza e bilanciamento di poteri per una soluzione
concreta', in LexItalia.it, 13.06.2017, n. 6
(21.07.2017
-
link a
www.regione.fvg.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Lavori finanziati con fondi europei. Incarico di RUP esterno.
L'affidamento libero-professionale dei
compiti di supporto al RUP, di cui all'art. 5, comma 7,
della L.R. 14/2002, deve avvenire secondo le procedure
previste dal codice dei contratti pubblici (v. art. 31 del
D.Lgs. 50/2016).
L'esternalizzazione della funzione di RUP,
prevista dal comma 8 della predetta norma regionale, ma
inammissibile in base al D.Lgs. 50/2016 richiede, invece, di
verificare -e ciò spetta, in via esclusiva,
all'amministrazione procedente- quale sia la disciplina
applicabile, avuto riguardo ai caratteri propri
dell'incarico che si intende affidare e, quindi, alla sua
qualificazione giuridica (contratto d'opera intellettuale o
appalto di servizi).
Posto che l'art. 5, comma 2, della L.R. 14/2002, si limita a
prevedere che «Le amministrazioni aggiudicatrici nominano,
secondo i propri ordinamenti, un responsabile unico del
procedimento [...]», l'individuazione del RUP esterno spetta
al soggetto posto al vertice della struttura amministrativa
(che, negli Enti privi di dirigenti, è il titolare della
P.O.) competente a realizzare il lavoro, fatte salve le
diverse previsioni eventualmente contenute nella convenzione
cui il Comune ha aderito.
Il Comune ha chiesto chiarimenti in tema di
esternalizzazione della funzione di responsabile unico del
procedimento (RUP)
[1], ai sensi dell'art. 5, comma 8
[2],
della legge regionale 31.05.2002, n. 14 («Disciplina
organica dei lavori pubblici»), ponendo tre specifiche
questioni:
1) se, nell'ambito della realizzazione di lavori di
particolare complessità, finanziati con fondi europei, il
cui bando prevede espressamente l'applicazione della
normativa europea, sia possibile designare quale RUP un
soggetto esterno alla stazione appaltante, atteso che il
decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 («Codice dei
contratti pubblici»), non contempla una tale possibilità;
2) se l'incarico di cui trattasi si configuri quale
prestazione di servizi oppure quale prestazione d'opera,
come tale soggetta alle limitazioni di cui all'art. 6, comma
7
[3], del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito,
con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30.07.2010, n. 122;
3) quale soggetto sia competente alla designazione del RUP
esterno, qualora la convenzione per la gestione associata
della Centrale unica di committenza, approvata dall'Ente,
preveda espressamente che il RUP per i lavori sia il
titolare della Posizione Organizzativa.
Questo Ufficio ha ritenuto di dover rimettere, per
competenza, la risoluzione delle questioni poste al Servizio
lavori pubblici, infrastrutture di trasporto e comunicazione
della Direzione centrale infrastrutture e territorio
[4].
Il predetto Servizio -che il Comune ha già direttamente
investito della questione n. 1), ricevendo una risposta
affermativa- ritiene, invece, che spetti a questo Ufficio
riscontrare i quesiti formulati ai nn. 2) e 3)
[5].
In relazione a tali quesiti si osserva quanto segue.
L'art. 5
[6]
della L.R. 14/2002 oltre a prevedere,
analogamente a quanto stabilito dalla disciplina statale
allora vigente
[7], la possibilità di affidare incarichi
libero professionali per lo svolgimento di compiti di
supporto al RUP
[8], consente anche, al ricorrere di una
determinata condizione
[9], l'esternalizzazione della
funzione
[10], mai contemplata dal legislatore statale
[11].
Poiché le disposizioni regionali
[12]
non forniscono
indicazione alcuna circa le modalità di individuazione dei
soggetti destinati a svolgere i predetti compiti di supporto
o ad assumere la funzione di RUP, si ritiene che, per la
prima fattispecie, si debba fare riferimento all'art. 31 del
D.Lgs. 50/2016 che, disciplinando gli incarichi
[13]
e i
compiti
[14]
di supporto all'attività della predetta figura,
ne prescrive l'affidamento secondo le procedure previste in
tale contesto normativo.
Per quanto attiene, invece, all'esternalizzazione della
funzione di RUP, inammissibile in base al codice dei
contratti pubblici, occorre verificare -e ciò spetta, in
via esclusiva, all'amministrazione procedente- quale sia la
disciplina applicabile, avuto riguardo ai caratteri propri
dell'incarico che si intende affidare e, quindi, alla sua
qualificazione giuridica.
È noto, infatti, che per i contratti d'opera e di opera
intellettuale (nel cui ambito sono riconducibili quelli che
le disposizioni di finanza pubblica definiscono come
'ricerca', 'studio' e 'consulenza') si pone il problema di
individuare la normativa applicabile, atteso che la
disciplina statale che regola i contratti pubblici, nel
recepire le direttive comunitarie in materia, assimila
alcuni di essi agli appalti di servizi
[15].
Sulla tematica è intervenuta tanto la magistratura
contabile
[16], quanto quella amministrativa
[17], ai cui
insegnamenti è opportuno rifarsi per ricavare i parametri
che dovrebbero consentire al Comune di stabilire la natura
giuridica dell'incarico che intende affidare e,
conseguentemente, identificare la procedura da
osservare
[18].
Gli incarichi a professionisti esterni sono generalmente
riconducibili, secondo il diritto civile, al contratto
d'opera (v. art. 2222
[19]) e, più precisamente, d'opera
intellettuale (v. art. 2229)
[20].
Come si è già accennato, il codice dei contratti pubblici,
delineando l'ambito oggettivo di applicazione, fornisce una
definizione di contratto di appalto di servizi
[21]
molto più
ampia di quella del codice civile, attraendo anche negozi
qualificabili come contratti d'opera o di opera
intellettuale.
Secondo il codice civile, la distinzione tra contratti
d'opera e di opera intellettuale e contratto d'appalto di
servizi (v. art. 1655
[22]) emerge dal carattere personale o
intellettuale delle prestazioni nei primi e dalla natura
imprenditoriale del soggetto esecutore, nel secondo.
L'appalto di servizi, pur presentando elementi di affinità
con il contratto d'opera (autonomia rispetto al
committente), si differenzia da questo per il profilo
dell'organizzazione, considerato che l'appaltatore esegue la
prestazione con mezzi e personale propri, che fanno ritenere
sussistente, assieme al requisito della gestione a proprio
rischio, la qualità di imprenditore commerciale.
Il prestatore d'opera, invece, pur dovendo anch'egli
svolgere, dietro corrispettivo, un servizio a favore del
committente, senza vincolo di subordinazione e con
assunzione del relativo rischio, si obbliga ad eseguirlo con
lavoro prevalentemente proprio, senza una necessaria
organizzazione.
Il confine fra contratto d'opera intellettuale e contratto
d'appalto di servizi sfuma in sede di applicazione della
disciplina sui contratti pubblici, che impone predeterminate
procedure, ad evidenza pubblica, prodromiche alla
stipulazione dei contratti da parte delle pubbliche
amministrazioni.
Il codice dei contratti pubblici adotta certamente una
nozione ampia di appalto di servizi che comprende, in alcuni
casi, anche l'attività del professionista intellettuale, ma
tale nozione è finalizzata ad estendere l'ambito oggettivo
di applicazione della relativa disciplina in aderenza alle
direttive comunitarie di settore, volte a favorire il
confronto concorrenziale fra operatori economici, la libera
circolazione di servizi ed il diritto di stabilimento.
Pertanto, quella nozione non si ripercuote sulle definizioni
di contratto di prestazione d'opera, prestazione d'opera
intellettuale e di appalto di servizi delineate dal codice
civile, atteso che il codice dei contratti pubblici mira a
disciplinare le procedure di affidamento di un'ampia gamma
di contratti che, pur definiti come 'appalto', comprendono
una serie eterogenea di negozi civilistici
(somministrazione, mandato, trasporto, assicurazione, ecc.).
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, si segnala che
anche il Consiglio di Stato
[23], valorizzando le differenze
fra i due contratti ai fini delle conseguenti ricadute in
materia di soggezione al codice dei contratti pubblici,
ritiene elemento qualificante dell'appalto di servizi, oltre
alla complessità dell'oggetto, la circostanza che
l'affidatario dell'incarico necessiti, per l'espletamento
dello stesso, di apprestare una specifica organizzazione
finalizzata a soddisfare i bisogni dell'ente.
Circa, infine, l'ultima questione prospettata, si ritiene
che, posto che l'art. 5, comma 2, della L.R. 14/2002, si
limita a prevedere che «Le amministrazioni aggiudicatrici
nominano
[24], secondo i propri ordinamenti, un responsabile
unico del procedimento [...]»
[25], l'individuazione del RUP
esterno spetti al soggetto posto al vertice della struttura
amministrativa
[26]
competente a realizzare il lavoro, fatte
salve le diverse previsioni eventualmente contenute nella
convenzione cui il Comune ha aderito.
---------------
[1] Con e-mail del 31.05.2017.
[2] «Qualora le professionalità interne siano insufficienti
in rapporto ai lavori programmati, l'amministrazione può
nominare responsabile unico del procedimento un
professionista esterno ovvero un dipendente di altra
amministrazione, con l'obbligo della stipula della polizza
assicurativa di cui al comma 6.».
[3] «Al fine di valorizzare le professionalità interne alle
amministrazioni, a decorrere dall'anno 2011 la spesa annua
per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella
relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a
pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche
amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della
legge 31.12.2009, n. 196, [...] non può essere
superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell'anno
2009. L'affidamento di incarichi in assenza dei presupposti
di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e
determina responsabilità erariale. [...]».
Circa l'applicabilità della disposizione v. l'art. 21-bis
del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, come inserito dalla
legge di conversione 21.06.2017, n. 96, ai sensi del
quale:
«1. Per l'anno 2017, ai comuni e alle loro forme associative
che hanno approvato il rendiconto 2016 entro il 30.04.2017 e che hanno rispettato nell'anno precedente il saldo
tra entrate finali e spese finali di cui all'articolo 9
della legge 24.12.2012, n. 243, non si applicano le
limitazioni e i vincoli di cui:
a) all'articolo 6, commi 7, 8, fatta eccezione delle spese
per mostre, 9 e 13, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010,
n. 122;
[...]
2. A decorrere dall'esercizio 2018 le disposizioni del comma
1 si applicano esclusivamente ai comuni e alle loro forme
associative che hanno approvato il bilancio preventivo
dell'esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell'anno
precedente e che hanno rispettato nell'anno precedente il
saldo tra entrate finali e spese finali di cui all'articolo
9 della legge 24.12.2012, n. 243.».
[4] Nota prot. 5346 del 01.06.2017.
[5] Nota prot. 77889 del 20.07.2017.
[6] Che, ad eccezione del comma 6, irrilevante ai fini
dell'odierno esame, è rimasto invariato.
[7] L'art. 7, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109
(«Legge quadro in materia di lavori pubblici»).
[8] Il comma 7 della norma regionale dispone, infatti, che
«Le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare compiti
di supporto a professionisti singoli o associati nelle forme
di cui alla legge 23.11.1939, n. 1815, e successive
modificazioni, o alle società di cui all'articolo 9, comma
1, lettere e) ed f), aventi le necessarie competenze
specifiche di carattere tecnico, economico-finanziario,
amministrativo, organizzativo e legale e che abbiano
stipulato a proprio carico adeguata polizza assicurativa a
copertura dei rischi di natura professionale.».
[9] Che «le professionalità interne siano insufficienti in
rapporto ai lavori programmati».
[10] Tanto a favore di un soggetto privato, quanto di un
dipendente di altra amministrazione (v. nota n. 2).
[11] Il quale ha addirittura sancito, da ultimo, che
«L'ufficio di responsabile unico del procedimento è
obbligatorio e non può essere rifiutato.» (art. 31, comma 1,
ultimo periodo, del D.Lgs. 50/2016).
[12] Comprese quelle contenute nel regolamento di attuazione
della legge, approvato con decreto del Presidente della
Regione 05.06.2003, n. 0165/Pres..
[13] V. i commi 7 e 8, riguardanti gli incarichi a supporto
dell'attività del RUP, consentiti per appalti di particolare
complessità, in relazione all'opera da realizzare, che
richiedono valutazioni e competenze altamente
specialistiche.
[14] V. il comma 11, concernente l'affidamento dei compiti
di supporto al RUP, ammesso nell'ipotesi di carenze
accertate nell'organico della stazione appaltante o di
assenza di soggetto in possesso della specifica
professionalità necessaria.
[15] Secondo D. Centrone («Il conferimento di incarichi di
consulenza e collaborazione da parte degli enti locali e
delle società partecipate, alla luce del nuovo Codice dei
contratti pubblici, d.lgs. n. 50 del 2016, e del testo unico
sulle società pubbliche, d.lgs. n. 175 del 2016», relazione
tenuta al Convegno sul tema 'Gli adempimenti in scadenza al
31.01.2017 per la prevenzione della corruzione e le
linee-guida per le città metropolitane', organizzato da UPI-ANCI Piemonte e tenutosi a Torino il 20.01.2017)
tale assimilazione concerne l'individuazione della procedura
di affidamento, «restando impregiudicata la qualificazione
della natura del contratto, da effettuare secondo le regole
del diritto civile interno».
[16] V., tra i più recenti interventi della Corte dei conti:
Sez. reg.le controllo per la Puglia, delib. n. 63/PAR/2014;
Sez. reg.le controllo per la Liguria, delib. n. 79/2015/PAR;
Sez. reg.le controllo per la Lombardia, delib. n.
51/2013/PAR, n. 178/2014/PAR e n. 162/2016/PAR.
[17] V., per tutte, la sent. del Consiglio di Stato - Sez.
V, n. 2730/2012.
[18] Si ritiene utile riferirsi, prevalentemente, alla più
copiosa magistratura contabile, che si è espressa anche con
riferimento ad incarichi di natura prettamente tecnica.
[19] «Quando una persona si obbliga a compiere verso un
corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro
prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione
nei confronti del committente, si applicano le norme di
questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina
particolare nel libro IV.».
[20] «La legge determina le professioni intellettuali per
l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in
appositi albi o elenchi.
L'accertamento dei requisiti per l'iscrizione negli albi o
negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere
disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni
professionali, sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la
legge disponga diversamente.
Contro il rifiuto dell'iscrizione o la cancellazione dagli
albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che
importano la perdita o la sospensione del diritto
all'esercizio della professione è ammesso ricorso in via
giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi
speciali.».
[21] V. l'art. 3, comma 1, lett. dd), ii) e ss), del D.Lgs.
50/2016.
[22] «L'appalto è il contratto col quale una parte assume,
con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a
proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio
verso un corrispettivo in danaro.».
[23] Sez. V, sent. n. 2730/2012.
[24] L'espressione conferma che la figura viene
ordinariamente reperita nell'ambito del personale dipendente
dell'amministrazione.
[25] L'art. 31, comma 1, del D.Lgs. 50/2016 dispone, invece,
che «[...] il RUP è nominato con atto formale del soggetto
responsabile dell'unità organizzativa, che deve essere di
livello apicale [...]».
[26] Che, negli Enti privi di dirigenti, è il titolare della
Posizione Organizzativa (20.07.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Amministratori divieto speciale di acquisto ex art. 1471
c.c..
L'art. 1471, n. 1, c.c., sancisce il
divieto, tra gli altri, per gli amministratori comunali di
acquistare beni del comune affidati alla loro cura.
La giurisprudenza di merito, il Ministero dell'Interno e l'Anci
hanno interpretato la locuzione 'amministratori' in senso
ampio, comprensiva del sindaco, degli assessori e dei
consiglieri (e anche dei coniugi di questi).
La Corte di Cassazione, con la recente pronuncia n.
2447/2014, ha affermato che gli amministratori per cui vale
il divieto speciale di acquisto ex art. 1471, n. 1, c.c., si
identificano con 'i componenti degli organi esecutivi di
tali enti ma, verosimilmente, non con quelli degli organi
deliberanti'.
Peraltro, il rilievo della Suprema Corte è contenuto in una
sentenza che dichiara improponibile la domanda introduttiva
del giudizio di primo grado -volta ad ottenere la
dichiarazione di nullità dell'atto di compravendita di un
immobile comunale da parte di un consigliere comunale (con
cointestazione anche al coniuge), per violazione dell'art.
1471 c.c.- senza pronunciarsi sulla questione della nullità
o meno dell'atto di compravendita (e sulla ripercussione
dell'eventuale nullità sulla sfera giuridica del coniuge).
Il che induce, in via prudenziale, a confermare le posizioni
di giurisprudenza di merito e prassi espresse nel senso
della suddetta accezione ampia della nozione di
amministratori di cui all'art. 1471 c.c..
Il Comune riferisce di aver disposto, con delibera
consiliare del 2017, la dismissione di immobili entrati a
far parte del proprio patrimonio disponibile nel contesto
delle procedure di ricostruzione di cui alla L.R. n.
63/1997.
In particolare, il Comune richiama l'art. 30, c. 1,
di detta legge regionale, che consente al Comune di cedere
in proprietà le nuove unità immobiliari acquisite, anche in
deroga alle disposizioni vigenti sull'alienazione dei beni
patrimoniali, e ai sensi del quale il consiglio comunale ha
deliberato la dismissione degli immobili 'ad ogni altro
soggetto, anche privo di contributo' (c. 1, lett. c),
prevedendo per l'individuazione dei contraenti la
possibilità di esercizio del diritto di prelazione per
coloro che avessero in essere un contratto di locazione con
il Comune riguardante detti immobili.
Tra i soggetti conduttori vi sono l'attuale Sindaco e il
coniuge di un consigliere comunale, per cui il Comune chiede
di inquadrare la situazione tenuto conto della particolarità
della disciplina applicabile e del divieto speciale di
acquisto cui all'art. 1471 c.c..
Ai sensi dell'art. 1471 cod. civ., contenuto nel libro IV
'Delle obbligazioni', non possono essere compratori nemmeno
all'asta pubblica, né direttamente né per interposta persona
gli amministratori dei beni dello Stato, dei comuni, delle
province o degli altri enti pubblici, rispetto ai beni
affidati alla loro cura (comma 1, n. 1). La violazione del
divieto di acquisto in commento è sanzionata con la nullità
(comma 2).
Per quanto concerne l'aspetto dell'applicazione dell'art.
1471 c.c. alle procedure di dismissione degli immobili
secondo la disciplina della L.R. n. 633/1977, la Corte di
Cassazione
[1]
ha affermato l'inderogabilità, da parte del
legislatore regionale, delle norme dettate dal codice civile
per il diritto delle obbligazioni, in particolare, per
quanto qui di interesse, delle norme imperative, cui
appartiene il divieto di cui all'art. 1471, c. 1, n. 1, c.c.,
previsto a pena di nullità
[2].
Ciò premesso, si esprimono alcune considerazioni sull'ambito
soggettivo di applicazione dell'art. 1471, c. 1, n. 1, c.c..
La giurisprudenza di merito ha ritenuto che il divieto
speciale di acquisto ex art. 1471, c. 1, n. 1, c.c., si
estenda non solo agli organi esecutivi, ma anche ai
componenti i corpi collegiali competenti a deliberare la
vendita dei beni degli enti pubblici
[3].
Allo stesso modo, il Ministero dell'Interno ha affermato che
il divieto sancito dall'art. 1471 n. 1 cod. civ., in quanto
finalizzato a prevenire ogni irregolarità o conflitto di
interessi, appare di ampia portata. E così, avuto riguardo
alla locuzione amministratori dell'art. 1471 c.c., tra i
destinatari del divieto ivi previsto devono comprendersi non
solo il sindaco e gli assessori ma anche i consiglieri,
anche in considerazione della valenza generale che riveste
l'individuazione delle categorie degli amministratori
effettuata dal comma 2 dell'art. 77 del D.Lgs. n.
267/2000
[4].
Del pari, l'Anci ha espresso più volte l'avviso per cui il
divieto di acquisto ex art. 1471, c. 1, n. 1, c.c. operi nei
confronti di tutti gli amministratori (sindaco, assessori e
consiglieri), con conseguente nullità del contratto di
compravendita effettuato in sua violazione
[5].
Sulla scia di detto orientamento, questo Servizio ha
affermato l'applicazione del divieto ex art. 1471, c. 1, n.
1, c.c., agli organi di governo dell'ente locale
[6]
-e
dunque, Sindaco, assessori, consiglieri- e, per quanto qui
di interesse, al coniuge del consigliere, qualora i coniugi
siano in regime di comunione di beni
[7].
Peraltro, di recente, la Corte di Cassazione, sez. II, 04.02.2014, n. 2447, ha espresso considerazioni in tema
di divieto speciale di acquisto ex art. 1471, n. 1, c.c.,
che si riportano.
La Suprema Corte è intervenuta su una controversia originata
dalla pretesa nullità dell'atto di compravendita di un
immobile comunale, per il fatto di rivestire il soggetto
acquirente del bene (con cointestazione dell'acquisto anche
alla sua consorte) la carica di consigliere comunale e di
aver partecipato in questa sua veste all'approvazione della
delibera consiliare con cui era stato deciso di alienare il
bene, in tal modo risultando violato il divieto previsto
dall'art. 1471 c.c..
La sentenza d'appello -che aveva confermato la sentenza del
Giudice di prime cure dichiarativa della nullità dell'atto
di compravendita e contenente l'ordine all'acquirente di far
rientrare il bene nella piena disponibilità del comune- è
stata impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione.
Ebbene, la Suprema Corte -seppur abbia cassato senza rinvio
la sentenza della Corte del merito, perché ha ritenuto di
accogliere i rilievi dell'acquirente/consigliere comunale (e
del coniuge) relativi al difetto di legittimazione attiva
della parte attrice del giudizio di primo grado, per carenza
di un proprio concreto interesse ad agire, e non si sia
pronunciata dunque sulla nullità o meno dell'atto di
compravendita (e sulla ripercussione dell'eventuale nullità
sulla sfera giuridica del coniuge), per violazione dell'art.
1471 c.c.- ha fatto delle affermazioni in ordine al divieto
speciale di acquisto ex art. 1471 c.c..
In particolare, per la Suprema Corte, i soggetti individuati
al n. 1) del comma 1, dell'art. 1471 c.c., cioè gli
amministratori degli enti pubblici per cui vale il divieto
speciale di comprare rispetto ai beni affidati alla loro
cura, si identificano con 'i componenti degli organi
esecutivi di tali enti ma, verosimilmente, non con quelli
degli organi deliberanti'.
Quest'espressione della Corte di Cassazione porterebbe ad
applicare il divieto speciale di acquisto ex art. 1471, c.
1, n. 1, c.c., a sindaco ed assessori, ma non ai consiglieri
(e di conseguenza neanche ai coniugi dei consiglieri).
Peraltro, il fatto che il rilievo della Suprema Corte sia
contenuto in una sentenza che non risolve la questione della
nullità o meno dell'atto di acquisto del consigliere
comunale
[8], il fatto che ad oggi le posizioni di
giurisprudenza e prassi siano espresse nel senso
dell'accezione in senso ampio della locuzione
'amministratori' di cui all'art. 1471 c.c. in commento,
comprensiva del sindaco, degli assessori e dei consiglieri
(e anche dei coniugi di questi), inducono a confermare la
posizione già espressa in questo senso da questo Servizio.
Ciò, ferma restando, ovviamente, l'autonomia dell'Ente
nell'operare una diversa valutazione.
---------------
[1] Cass. civ., sez. I, 26.10.2015, n. 21713. V. anche
Cass. civ., sez. II, 04.02.2014, n. 2447, di cui si
dirà nel prosieguo, che contiene un passaggio
sull'applicazione del divieto speciale di acquisto per i
soggetti di cui all'art. 1471, n. 1, c.c., qui di interesse,
alle procedure riguardanti la dismissione degli immobili di
proprietà pubblica.
[2] Ai sensi dell'art. 1418 c.c., il contratto è nullo
quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge
disponga diversamente.
[3] Appello Milano, 28.04.1961, GI, 1961, I, 2, 538,
richiamata in Commentario al codice civile. Artt. 1470-1547:
Vendita, Paolo Cendon, Giuffrè Editore, p. 1471. La
pronuncia è, altresì, richiamata in Dizionario giuridico del
notariato: nella casistica pratica, Consiglio nazionale del
notariato. Ufficio Studi, Giuffrè Editore, 2006, p. 397. Nel
testo, a titolo esemplificativo, vengono indicati gli
assessori comunali, provinciali e regionali, ma anche i
consiglieri comunali, provinciali e regionali.
[4] Ministero dell'interno, Dipartimento per gli affari
interni e territoriali, parere del 22 novembre 2004 avente
ad oggetto: 'Doveri degli amministratori. Quesito in merito
alla possibilità di acquistare'.
[5] Pareri ANCI 03.05.2005, 26.01.2013, 27.01.2016.
[6] Cfr. nota n. 8965 del 31.05.2007. Le note di questo
Servizio sono consultabili all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it/
[7] Cfr. nota n. 9370 del 31.05.2005, richiamata
dall'Ente istante, ove si è affermato che il divieto non si
estende ai parenti del consigliere ed al coniuge in regime
di separazione dei beni, in quanto si tratta di soggetti
terzi. Peraltro, nell'ipotesi in cui i coniugi siano in
regime di comunione dei beni, il divieto non dovrebbe
operare nei confronti del coniuge dell'amministratore
soltanto qualora l'acquisto sia escluso dalla comunione.
Conforme sull'estensione del divieto di acquisto per gli
amministratori (Sindaco, assessore e consigliere) anche al
coniuge: Anci, parere 26.01.2013, cit..
[8] Ed invero, in quella fattispecie, l'acquisto del
consigliere è rimasto salvo in conseguenza della ritenuta
improponibilità della domanda introduttiva del giudizio di
primo grado (20.07.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
URBANISTICA:
Oggetto: Parere in merito al rapporto tra previsioni del
piano di zona ex legge 167/1962 e del piano regolatore
generale – Comune di Pomezia (Regione Lazio,
nota 18.07.2017 n. 369426 di prot.). |
PATRIMONIO:
Acquisto terreni.
L'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011,
introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, e da ultimo
modificato dall'art. 14-bis, c. 1, D.L. n. 50/2017,
stabilisce, a decorrere dal 2014, limitazioni all'acquisto
di beni immobili per gli enti territoriali, tenuti a
comprovarne l'indispensabilità e l'indilazionabilità,
nell'ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori
rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
La giurisprudenza contabile tende ad escludere
dall'applicazione del comma 1-ter le procedure
espropriative, caratterizzate dal fatto che è riconosciuto
al proprietario non un prezzo di acquisto ma un indennizzo,
e al cui interno trovano comunque adeguata considerazione le
prerogative del comma 1-ter.
L'art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall'art.
11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui
all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall'art. 1,
c. 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali
del Friuli Venezia Giulia per gli acquisti finanziati in
tutto o in parte con legge regionale.
Il Comune riferisce di aver concluso nel 2015 la
realizzazione di una pista forestale, per cui ha avuto un
finanziamento in parte regionale e in parte comunale (mutuo)
e avendo ottenuto preventivamente dai proprietari dei
terreni interessati la disponibilità alla cessione dei
medesimi, per il corrispettivo pattuito, mediante accordo
bonario del 2008, ratificato dal Consiglio comunale nel
2014.
L'Ente chiede, dunque, al fine di regolarizzare la
pratica, se può procedere all'acquisto dei terreni già
previsto nell'accordo bonario del 2008, tenuto conto dei
vigenti limiti previsti dall'art. 12, c. 1-ter, D.L. n.
98/2011, e della giurisprudenza in proposito o, in caso
contrario, se possa sanare l'intervento acquisendo l'area
secondo le norme di interesse contenute nel Testo unico
sulle espropriazioni
[1].
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione
centrale si esprime quanto segue.
L'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, come novellato
dall'art. 14-bis, D.L. n. 50/2017, prevede che a decorrere
dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di
spesa ulteriori rispetto a quelli previsti da patto di
stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del
Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di
acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità
attestate dal responsabile del procedimento. Le disposizioni
di cui al primo periodo non si applicano agli enti locali
che procedano alle operazioni di acquisto di immobili a
valere su risorse stanziate con apposita delibera del
Comitato interministeriale per la programmazione economica o
cofinanziate dall'Unione europea ovvero dallo Stato o dalle
regioni e finalizzate all'acquisto degli immobili stessi. La
congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio
previo rimborso delle spese.
Sul piano dell'ordinamento regionale, l'art. 11, c. 11, L.R.
n. 5/2013, come novellato dall'art. 11, c. 5, L.R. n.
6/2013, prevede che le disposizioni di cui all'art. 12, D.L.
n. 98/2011, come modificato dall'articolo 1, comma 138,
della legge 228/2012, non si applicano agli enti locali
della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in
tutto o in parte con legge regionale.
Avuto riguardo a quest'ultima previsione regionale, l'Ente
potrà innanzitutto verificare se nei decreti di assegnazione
dei fondi regionali di finanziamento vi sia la specifica
previsione delle somme a disposizione per l'acquisizione dei
terreni interessati dalla pista forestale. In tal caso,
infatti, le operazioni di acquisto saranno possibili ai
sensi di detta norma regionale.
Se così non fosse, in relazione alle ipotesi prospettate
dall'Ente di acquistare i terreni secondo l'accordo bonario
con i rispettivi proprietari ratificato con atto consiliare
nel 2014, oppure di sanare l'intervento acquisendo l'area
secondo la disciplina di interesse contenuta nel Testo unico
sulle espropriazione, si esprimono le seguenti
considerazioni, con la precisazione che l'aspetto
dell'acquisizione sanante ai sensi del D.P.R. n. 327/2001
verrà trattato in generale sotto il profilo della
riconducibilità dell'espropriazione per pubblica utilità
nell'ambito di applicazione del comma 1-ter vigente, avuto
riguardo alla giurisprudenza formatasi sul punto. Ulteriori
considerazioni puntuali sul punto potranno essere espresse,
per quanto di competenza, dal Servizio lavori pubblici,
infrastrutture di trasporto e comunicazione, che legge per
conoscenza, qualora lo riterrà opportuno.
Le acquisizioni di immobili da parte delle pp.aa. a mezzo
procedura espropriativa o in quanto programmate da delibere
dei competenti organi comunali sono state poste dal
legislatore come fattispecie derogatorie alla previgente
norma di divieto di acquisto di immobili, di cui al comma
1-quater dell'art. 1 del D.L. n. 98/2011, valida per l'anno
2013.
Con l'art. 10-bis del D.L. 08.04.2013, n. 35, inserito
dalla legge di conversione 06.06.2013, n. 64, il
legislatore ha, infatti, dettato una norma di
interpretazione autentica dell'art. 12, c. 1-quater, D.L. n.
98/2011, escludendo dal divieto di acquisto ivi previsto,
tra l'altro, le 'procedure relative all'acquisto a titolo
oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica
utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, nonché
[...] alle operazioni di acquisto programmate da delibere
assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi
degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi
immobiliari oggetto delle operazioni [...]'.
Visto che l'atto consiliare dell'Ente di ratifica
dell'accordo bonario risulta avvenuto nel 2014 e dunque
successivamente alla data del 31.12.2012 prevista
dalla norma di interpretazione autentica, la possibilità di
estendere le fattispecie di salvezza ivi previste anche alla
disposizione dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, è
circoscritta alla sola ipotesi derogatoria della procedura
espropriativa.
In proposito, si sono espresse alcune Sezioni regionali
della Corte dei conti nel senso di escludere dette procedure
espropriative dall'ambito di applicazione del comma 1-ter
vigente.
La Corte dei conti Lombardia, sulla scia delle Sezioni
regionali per il Veneto e per la Puglia, ha espresso
l'avviso per cui la formulazione del comma 1-ter disciplina
le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un
prezzo di acquisto, e quindi i soli acquisti iure privatorum,
ove le pp.aa. agiscono al pari dei soggetti privati, mentre
non si applica alle procedure espropriative per pubblica
utilità, ove è riconosciuto al proprietario non un prezzo di
acquisto ma un indennizzo, che non può rappresentare un
corrispettivo.
Questo, peraltro, non significa -afferma la
Sezione lombarda- che all'interno del procedimento
espropriativo non trovino adeguata considerazione le
prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la
necessità di comprovare l'indispensabilità e la non
dilazionabilità dell'operazione, nell'ottica di conseguire
risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal
patto di stabilità interno. Ed infatti, attraverso la
dichiarazione di pubblica utilità, l'autorità espropriante è
tenuta a ponderare e confrontare gli interessi coinvolti e
le prerogative di cui sono portatori i soggetti del
procedimento, fra le quali devono essere ricompresi i
vincoli di finanza pubblica. Ciò è testimoniato anche dal
fatto che il d.p.r. n. 327/2001 è ispirato espressamente ai
principi di economicità ed efficienza, oltre che di
pubblicità e semplificazione (art. 2, comma 2)
[2].
Peraltro, per completezza espositiva, va segnalato anche
l'orientamento della Corte dei conti Piemonte, la quale,
successivamente alla norma di interpretazione autentica del
comma 1-quater recata dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013,
osserva che per quanto riguarda la previsione del comma 1-ter non risultano essere state identificate eccezioni, alle
condizioni ivi indicate, in sede d'interpretazione
autentica
[3].
---------------
[1] D.P.R. 08.06.2001 n. 327, recante: 'Testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia di
espropriazione per pubblica utilità (Testo A)'.
[2] Corte dei conti Lombardia 05.03.2014, n. 97, che
richiama Corte dei conti Veneto 12.06.2013, n. 148 e
Corte dei conti Puglia, deliberazione 03.05.2013, n. 89.
Per la Sezione pugliese, l'estensione delle limitazioni
all'acquisto di beni immobili di cui al comma 1-ter anche
alle procedure espropriative si tradurrebbe nel divieto di
avviare o proseguire procedimenti di espropriazione per
pubblica utilità in assenza di un'espressa disposizione
legislativa ed in contrasto con l'art. 42, comma 3, della
Costituzione recante, invece, il fondamento della potestà
espropriativa della pubblica amministrazione. (Secondo il
dettato dell'art. 42, c. 3, Cost., la proprietà privata può
essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo,
espropriata per motivi di interesse generale).
La tesi dell'esclusione delle procedure espropriative dalla
soggezione alla disciplina del comma 1-ter è confermata da
Corte dei conti Lombardia, 24.09.2015, n. 310.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n. 402. Ed invero, nel caso sottoposto al suo esame,
la Corte dei conti ritiene escluso dall'applicazione del
comma 1-ter il procedimento ablativo, per la circostanza
specifica di essere questo già in corso e già nello stadio
successivo all'approvazione del progetto definitivo e alla
dichiarazione di pubblica utilità, in una fase cioè in cui
risulta in re ipsa integrato il requisito di
indispensabilità e indilazionabilità richiesto dal comma 1-ter citato. D'altro canto, la ratio della deroga,
espressamente disposta per il 2013, dall'art. 10-bis, D.L.
n. 35/2013, a favore delle procedure espropriative,
risulterebbe vanificata se poi, per la prosecuzione delle
stesse nell'esercizio 2014, fossero richieste le restrittive
condizioni di cui al comma 1-ter (17.07.2017 -
link a
www.regione.fvg.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
La certificazione dei periodi di servizio.
DOMANDA:
Un dipendente può richiedere al Comune suo datore di lavoro
la certificazione dei periodi di servizio e delle
retribuzioni utili ai fini pensionistici -Modello PA04- da
produrre all’INPS gestione ex INPDAP unitamente alla
richiesta di inserimento di periodi contributivi intermedi
non risultanti nel proprio estratto contributivo?
RISPOSTA:
Si teme che non sia più possibile; non è comunque più
automatica la redazione di questo documento, in quanto una
circolare Inps lo esclude espressamente.
Per i lavoratori iscritti alle casse pensioni della gestione
pubblica diverse dallo Stato sono infatti intervenuti
profondi cambiamenti. Poi è evidente che le informazioni che
prima venivano esposte nel Modello PA04 verranno comunque
fornite all’Inps dal datore di lavoro pubblico che le
detiene, ma non in questa fase e non con questo modello. Le
procedure da seguire per andare in pensione per i lavoratori
della Gestione ex INPDAP ora iscritti all’Inps, sono state
oggetto di apposita circolare. L’ Inps, infatti, ha
comunicato le modifiche con propria
circolare 22.03.2016 n. 54 in cui ha chiarito
anche che le domande di pensione provenienti da questi
lavoratori devono essere presentate con congruo anticipo,
per la precisione almeno 6 mesi prima rispetto alla data di
uscita dal lavoro.
Il dipendente pubblico che ha intenzione di andare in
pensione deve ora presentare due distinte domande:
1) domanda di pensione all’INPS, avvalendosi direttamente del sito
web, del contact center o procedendo attraverso un
patronato, con almeno 6 mesi di anticipo rispetto alla data
prevista per il suo collocamento a riposo;
2) domanda di cessazione dal servizio al proprio ente pubblico
datore di lavoro, quindi alla propria amministrazione,
secondo le scadenze e le modalità previste dall’ordinamento
dell’Ente; ovviamente quest’ultimo deve dare al lavoratore
tutti i chiarimenti e gli strumenti allo stesso necessari
per agevolarne l’iter di pensionamento: ricevuta la copia
della domanda di pensione, l’amministrazione pubblica nella
sua veste di datore di lavoro è tenuta a controllare nello
specifico la regolarità delle denunce contributive, sia
sulla base della documentazione in atti che attraverso la
funzione INPS “visualizzazione denunce contributive”.
Nel caso in cui dovesse riscontrare che mancano o sono
riportati in modo inesatto o parziale,periodi di servizio o
retribuzioni, anche per effetto di denunce contributive
inesatte, omesse o non correttamente caricate, è tenuta ad
apportare le relative correzioni, seguendo le nuove
indicazioni fornite dall’Istituto (con precedente
circolare 29.01.2016. n. 12, Par. 2).
In particolare l’Inps evidenzia che gli Enti datori di
lavoro degli iscritti alle Casse pensioni diverse dallo
Stato, ai fini della liquidazione della pensione, non sono
più tenuti ad inviare il modello PA04, che secondo le
precisazioni dell’INPS stessa , poteva essere trasmesso,
solo eccezionalmente e a soli fini correttivi, sino al
30.04.2016. Nel caso in cui i tempi risultassero stretti per
correggere eventuali errori, non accade nulla di
irreparabile, in quanto la prima liquidazione della pensione
è comunque provvisoria, e il trattamento corrispondente sarà
opportunamente rivalutato non appena saranno disponibili
tutti i dati richiesti. Si fa rimando quindi alla circolare
INPS 54/2016 e all’iter ivi descritto.
Nel caso di specie, si ritiene che l’ente se ha acquisito in
atti le informazioni relative a periodi non inseriti, come
ultimo datore di lavoro del dipendente possa farlo, secondo
l’iter ammesso, non più attraverso la modulistica
preesistente (link a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
Adempimenti per la prima convocazione del consiglio comunale.
Non esiste una nozione assoluta di
consigliere anziano. In particolare, la legge regionale non
disciplina la figura del consigliere anziano, laddove,
invece, il legislatore statale ne fornisce una definizione
all'articolo 40, comma 2, del TUEL, ai fini
dell'individuazione del soggetto tenuto a presiedere il
consiglio comunale nei comuni con popolazione superiore ai
15.000 abitanti, fino all'elezione del presidente del
consiglio.
Atteso che l'art. 46, co 3, del TUEL stabilisce solamente
che il sindaco deve presentare al consiglio il documento
programmatico, non sussiste un obbligo d legge che impone
una votazione da parte dell'organo assembleare.
Il Comune formula due quesiti afferenti, il primo, la
definizione di consigliere anziano e, il secondo, la
necessità o meno di approvazione da parte dell'organo
consiliare delle linee programmatiche relative alle azioni e
ai progetti da realizzare nel corso del mandato.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed
elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Con riferimento alla prima questione, l'Ente si pone il
dubbio circa l'applicabilità della norma statutaria, che
contiene una espressa definizione di consigliere anziano
basata sui risultati elettorali, in considerazione della
normativa intervenuta successivamente all'entrata in vigore
dello statuto. Più in particolare, si rileva che lo statuto
comunale è stato approvato con deliberazione consiliare del
12 luglio 1996, è entrato in vigore il 01.02.1997 e non
risultano intervenute successive modifiche. Lo stesso,
all'articolo 24, prevede che: 'Il consigliere anziano è
quello che ha conseguito, nella elezione alla carica di
consigliere comunale, la cifra individuale (ottenuta
sommando ai voti di lista le preferenze personali) più alta.
Sono esclusi il Sindaco ed i candidati alla carica di
Sindaco proclamati consiglieri'.
Si tratta di una definizione che, nel determinare i criteri
di individuazione del consigliere anziano si basa, come
sopra già rilevato, sui risultati elettorali. In
particolare, la definizione statutaria ha contenuto analogo
a quella della norma di legge al tempo in vigore, ovverosia
l'articolo 1, comma 2-ter, della legge 25.03.1993, n. 81.
[1]
Attesa la successiva entrata in vigore della legge regionale
05.12.2013, n. 19, la quale, all'articolo 69, comma 1, lett.
d), individua un differente criterio di determinazione della
cifra individuale di ciascun candidato alla carica di
consigliere comunale, [2]
l'Ente si pone il dubbio circa la corretta individuazione
del soggetto da qualificare quale 'consigliere anziano'.
Ciò premesso, ed al fine di fornire un quadro più organico
della questione posta, si rileva, in primis, che non esiste
una nozione assoluta di consigliere anziano. In particolare,
la legge regionale non disciplina la figura del consigliere
anziano, laddove, invece, il legislatore statale ne fornisce
una definizione all'articolo 40, comma 2, del TUEL, ai fini
dell'individuazione del soggetto tenuto a presiedere il
consiglio comunale nei comuni con popolazione superiore ai
15.000 abitanti, fino all'elezione del presidente del
consiglio (tale soggetto si identifica, per l'appunto, con
il consigliere anziano). Tuttavia, il successivo comma 6 del
medesimo articolo 40 del D.Lgs. 267/2000 stabilisce la
natura cedevole di tale norma laddove afferma che 'le
disposizioni di cui ai commi 2, 3, 4 , 5 si applicano salvo
diversa previsione regolamentare nel quadro dei principi
stabiliti dallo statuto'. [3]
Alla luce di quanto sopra affermato segue che lo statuto
comunale ha, nella propria autonomia, accolto una nozione di
consigliere anziano fondata sui risultati elettorali.
Si tratta, tuttavia, di stabilire se la definizione
contenuta all'articolo 24, comma 7, dello statuto debba
essere letta ed interpretata in maniera letterale, o se di
essa debba essere fornita una interpretazione 'evolutiva'
che tenga cioè conto della normativa successivamente
intervenuta, e, in particolare, dell'entrata in vigore della
legge regionale 19/2013.
Al riguardo si ricorda che l'interpretazione delle norme
statutarie compete unicamente all'organo consiliare che ha
elaborato le stesse.
È, pertanto, rimesso all'autonomia consiliare stabilire se
la norma in commento debba essere interpretata in senso
letterale con la conseguenza di individuare il consigliere
anziano in colui che ha conseguito, nella elezione alla
carica di consigliere comunale, la cifra individuale
(ottenuta sommando ai voti di lista le preferenze personali)
più alta o, invece, considerare la nozione di cifra
individuale con riferimento alla definizione elaborata dal
legislatore regionale (cfr. legge regionale 19/2013,
articolo 69, comma 1, lett. d)) e, di conseguenza, ritenere
che consigliere anziano sia colui che ha conseguito nella
elezione alla carica di consigliere comunale la più alta
cifra individuale, costituita dal totale dei voti validi di
preferenza ottenuti in tutte le sezioni del comune.
Nel ribadire che la scelta di quale sia la soluzione
interpretativa da adottare spetta unicamente al consiglio
comunale, chi scrive ritiene preferibile la prima ipotesi
proposta. Ciò in quanto a livello interpretativo,
nell'applicare una disposizione 'normativa' si deve,
in primis, privilegiare quella letterale secondo cui 'nell'applicare
la legge non si può ad essa attribuire altro senso che
quello fatto palese dal significato proprio delle parole
secondo la connessione di esse'. [4]
A ciò si aggiunga che la seconda soluzione proposta sarebbe
il frutto di una commistione di fonti di rango differente:
non solo quella statutaria e quella legislativa ma,
soprattutto, combinerebbe la fonte statale (definizione di
consigliere anziano) con la fonte regionale (definizione di
cifra individuale), ciascuna relativa ad un diverso
contesto.
Si segnala, inoltre, che, qualora si seguisse tale ultima
soluzione interpretativa, sarebbe opportuna l'adozione da
parte dell'organo consiliare di una interpretazione
autentica della disposizione statutaria in oggetto.
Con riferimento alla seconda questione posta si confermano
le considerazioni già espresse nel parere rilasciato dai
nostri Uffici, [5]
al quale si rinvia, ove si afferma che: 'Lo statuto dovrà
indicare il termine entro il quale le linee programmatiche
devono essere presentate al Consiglio, i termini di
intervento, da parte dello stesso Consiglio, sul documento
presentato, nonché le modalità di esame e dell'eventuale
approvazione formale. Qualora lo statuto non sia ancora
intervenuto, con specifiche norme, nella disciplina di tali
aspetti, si ritiene che non sussista un obbligo di legge che
impone la votazione da parte del Consiglio. Infatti,
l'articolo 46, comma 3, del D.Lgs. 267/2000, stabilisce
solamente l'obbligo di presentare all'organo assembleare il
documento programmatico, anche in considerazione della
natura dell'atto, caratterizzato da una forte valenza
politica'.
Il medesimo parere conclude affermando che: 'Si ritiene,
pertanto, che il Consiglio comunale, organo a cui detto
programma di governo viene presentato, possa autonomamente
stabilire, in via transitoria, se procedere alla votazione
del documento, ovvero limitarsi ad una mera presa d'atto
dello stesso, tenuto conto della specifica competenza
attribuitagli dall'articolo 42, comma 3, del D.Lgs.
267/2000, in ordine alla partecipazione alla definizione
delle linee programmatiche'. [6]
---------------
[1] L'articolo 1, comma 2-ter della legge 81/1993
recitava: 'È consigliere anziano colui che ha ottenuto la
maggior cifra individuale ai sensi dell'articolo 72, quarto
comma, del testo unico delle leggi per la composizione e la
elezione degli organi delle amministrazioni comunali,
approvato con decreto del Presidente della Repubblica
16.05.1960, n. 570, con esclusione del sindaco neoeletto e
dei candidati alla carica di sindaco, proclamati consiglieri
ai sensi dell'articolo 7, comma 7, della presente legge.'.
Quanto all'individuazione della maggior cifra individuale
l'articolo 72, quarto comma, del D.P.R. 570/1960 prevedeva
che: 'La cifra individuale di ciascun candidato è costituita
dalla cifra di lista aumentata dei voti di preferenza.'.
Per completezza espositiva merita segnalare che le modalità
di individuazione del consigliere anziano sono attualmente
contenute nel D.Lgs. 267/2000 e, in particolare,
all'articolo 40, comma 2, TUEL e all'articolo 73 dallo
stesso richiamato, aventi contenuto analogo alle precedenti
previsioni statali ora abrogate.
[2] In particolare, l'articolo 69 della legge regionale
19/2013, al comma 1, prevede che: 'Nei comuni con
popolazione superiore a 15.000 abitanti, entro il lunedì
successivo alla votazione o al più tardi entro il martedì,
l'Adunanza dei presidenti compie le seguenti operazioni: a)
omissis; b) omissis, c) omissis; d) determina la cifra
individuale di ciascun candidato alla carica di consigliere
comunale, costituita dal totale dei voti validi di
preferenza ottenuti da ciascun candidato in tutte le sezioni
del comune; e) omissis.'. La normativa statale mantiene,
invece, tuttora il criterio richiamato nella nota 1.
[3] In questo senso è interessante riportare un parere del
Ministero dell'Interno (parere del 18.12.2002) ove si
afferma che: 'si rileva che la nozione di 'consigliere
anziano' è espressamente contemplata dall'art. 40 comma 2
del d.lgs. n. 267/2000 dove si afferma che è consigliere
anziano colui che ha ottenuto la maggiore cifra individuale,
ai sensi dell'art. 73 dello stesso T.U.E.L. n. 267/2000 con
esclusione del sindaco neoeletto e dei candidati alla carica
di sindaco, proclamati consiglieri ai sensi dell'art. 73
comma 1 del T.U.E.L. n. 267/2000.
Va tuttavia rilevato che tale norma non solo è espressamente
circoscritta, quanto all'ambito di applicazione, ai Comuni
con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, ma riveste
altresì la natura di norma cedevole, in quanto il comma 6
del medesimo art. 40 prevede espressamente che le relative
disposizioni si applicano 'salvo diversa previsione
regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo
statuto'. Ben potranno, pertanto, lo statuto ed il
regolamento sul funzionamento del consiglio individuare
altri criteri di scelta del consigliere anziano, diversi da
quello fondato sui risultati elettorali, quali, ad esempio,
la maggiore età o l'anzianità di consiliature.'.
[4] Così articolo 12 delle preleggi.
[5] Parere del 29.09.2005, prot. n. 15925.
[6] In dottrina si veda R. Nobile, 'Presentazione del
programma generale di mandato e votazione in consiglio',
03.09.2009, in www.diritto.it e L. Bisio, 'Linee
programmatiche, DUP, Peg e pareri al centro della nuova
programmazione', 12.01.2016, in
www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com
(06.07.2017
-
link a
www.regione.fvg.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Immobili di proprietà della Fondazione IRCCS Cà
Granda - Ospedale maggiore policlinico di Milano -
conferimento del diritto di usufrutto - quesito (MIBACT,
Ufficio Legislativo,
nota 01.12.2016 n. 34182 di prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. 8175 del 03.08.2016 con la
quale codesta Direzione, nel trasmettere la richiesta di
parere, di cui alla nota prot. 5399 del 15.07.2016, del
Segretariato regionale per la Lombardia in merito al
conferimento del diritto di usufrutto dei fabbricati di
esecuzione ultrasettantennale di proprietà della Fondazione
IRCCS Cà Granda - Ospedale Maggiore Policlinico di Milano a
favore della Fondazione Sviluppo Cà Granda, concordando con
l'avviso prospettato dal Segretariato regionale, ritiene
che, sulla base di un'interpretazione non estensiva del
codice di settore, considerato che il conferimento del
diritto di usufrutto tra le due fondazioni lascerebbe
immutata la proprietà degli immobili, il conferimento in
argomento non sia soggetto al regime di autorizzazione
previsto per le alienazioni.
Al riguardo, nel ritenere condivisibile l'orientamento di
codesta Direzione, si rappresenta quanto segue.
L'art. 54, comma 2, lett. a), del codice di settore, prevede
la temporanea inalienabilità dei beni immobili aventi più di
settanta anni di cui all'art. 10, comma 1, ove appartenenti
a persone giuridiche private senza fine di lucro e fino alla
conclusione del procedimento di verifica dell'interesse
culturale previsto dall'art. 12 del codice medesimo. Se tale
procedimento si conclude con esito (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Comune di Sumirago. Istanza relativa alla installazione di una stazione radio base presentata da Vodafone Omnitel S.p.A (ora Vodafone Omnitel N.V.). Richiesta di rimessione alla delibera del Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 14-quater, comma 3, della legge n. 241/1990. Richiesta parere (MIBACT,
nota 14.07.2015 n. 16813 di prot.). --------------- Si fa riferimento alla nota prot. n. 4429 del 06.02.2015, con la quale codesto Dipartimento ha chiesto un parere in merito all'individuazione delle norme sulla tutela paesaggistica da applicare (articolo 146 ovvero dell'articolo 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio) ad una fattispecie in relazione alla quale è stata richiesta la rimessione al Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 14-quater, comma 3, della legge n. 241/1990.
Il caso in esame riguarda la concessione edilizia e la relativa
autorizzazione paesaggistica rilasciata, nell'anno 2003, a Vodafone Omnitel
s.p.a. per l'installazione di una stazione radiobase, in aerea su cui
insiste il vincolo paesaggistico ex lege, trattandosi di zona boschiva (art.
142) comma 1, lettera g).
Tali provvedimenti sono stati annullati, a seguito di ricorso straordinario
al Capo dello Stato, con decreto del 18.05.2011, in considerazione del
difetto di competenza del Comune di Sumirago a dare l'autorizzazione
paesaggistica, trattandosi di funzione delegata alla Provincia, ai sensi
dell'art. 6 della legge regionale n. 18 del 1997 (così parere del Consiglio
di Stato n. 241 del 18.01.2011).
Essendo stata, nelle more del giudizio, costruita la stazione radio, il
Comune di Sumirago ha indetto una conferenza di servizi per il riavvio del
procedimento amministrativo finalizzato ad acquisire nuovamente la
concessione edilizia e la connessa autorizzazione paesaggistica. La
conferenza di servizi si è conclusa, assente la competente Soprintendenza,
per il dissenso espresso, in ordine alle modalità di conduzione del
procedimento, dalla Provincia di Varese, che ritiene debba chiedersi, nel
caso di specie, l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria ex art. 167 del
codice di settore, differentemente dall'amministrazione comunale procedente,
che invoca, invece, l'applicazione dell'art. 146 del codice.
La questione è stata così rimessa all'esame del Consiglio dei Ministri
trattandosi di dissenso espresso da un'autorità preposta alla tutela
paesaggistica (Provincia).
Al riguardo, si osserva, preliminarmente, che la questione attiene alla
stessa ammissibilità di una fase di riedizione del potere, in presenza di
disposizioni (articoli 146, comma 4, 159, comma 5, 167, commi 4 e 5, del
d.lgs. n. 42 del 2004) che hanno stabilito il divieto di sanatoria di opere
realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica. (...continua). |
NEWS |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Personale, progressioni con tempi blindati -
Rischio sanzioni con la retroattività oltre l’anno.
Il cerchio si chiude: dopo la Funzione Pubblica e l’Aran,
anche la Ragioneria generale dello Stato chiarisce che le
progressioni economiche non possono avere una decorrenza
retroattiva al 1° gennaio dell’anno in cui le relative
graduatorie sono approvate.
Il parere della Ragioneria
In questa direzione va il parere della Ragioneria generale
dello Stato di cui alla
nota 24.03.2017 n. 49781 di prot.,
che peraltro richiama precedenti indicazioni formulate dalla
stessa Ragioneria negli anni precedenti. Per cui si ha
finalmente un quadro consolidato a livello di ministeri e
dell’Aran, e di conseguenza eventuali scelte diverse che in
qualche ente si dovessero fare in termini di decorrenza
retroattiva oltre l’anno delle progressioni economiche
espongono gli amministratori ed i dirigenti al rischio della
maturazione di responsabilità amministrativa. Non possono
infatti sussistere, a questo punto, dubbi
sull’interpretazione delle disposizioni contrattuali e
legislative.
Occorre ricordare che le amministrazioni devono evitare di
commettere gli altri errori che si sono manifestati negli
anni scorsi, oltre alla retroattività oltre l’anno. In primo
luogo, si deve evidenziare che sulla base delle previsioni
del Dlgs 150/2009 i beneficiari delle progressioni
orizzontali devono essere una quota limitata di dipendenti,
per cui diventa palesemente illegittimo non solo stanziare
risorse che finanzino progressioni economiche per tutto il
personale, ma anche per la maggioranza. E ancora si deve
ricordare che gli oneri per le progressioni economiche
devono provenire in modo permanente ed esclusivo dalla parte
stabile del fondo per la contrattazione decentrata.
La formazione delle graduatorie
È utile evidenziare che l’indicazione per cui non si può
andare con una decorrenza retroattiva rispetto al 1° gennaio
dell’anno in cui le graduatorie vengono approvate, determina
conseguenze sulle valutazioni che devono essere assunte come
criterio per la formazione delle graduatorie per la
individuazione dei beneficiari di questo istituto. Di
conseguenza, se le progressioni economiche vengono
finanziate dal fondo del 2017 e si vuole concludere il
relativo iter con l’approvazione delle graduatorie entro
l’anno, non si potrà assumere tra le valutazioni di cui
tenere conto per la formazione della graduatoria quella
dell’anno in corso.
In tal caso, infatti la valutazione non potrebbe essere
formulata prima della fine dell’anno, il che impedirebbe la
assegnazione con decorrenza retroattiva rispetto all’anno di
approvazione delle stesse. Di conseguenza la valutazione o
l’ultima valutazione di cui tenere conto, se l’ente ha
scelto di utilizzare quelle dell’ultimo triennio o di un
periodo comunque più lungo dell’anno, deve necessariamente
essere quella del 2016.
È necessario sottolineare infine che (elemento presente
anche nel conto annuale del personale del 2016, elaborazione
che le Pubbliche amministrazioni –in particolare il
responsabile di ragioneria e il revisore dei conti- devono
trasmettere entro la fine del mese di maggio) viene dedicata
una particolare attenzione al monitoraggio delle
progressioni economiche effettuate lo scorso anno dai
singoli enti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa
dell'08.05.2017). |
GIURISPRUDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Canne fumarie, la Cassazione sulla presunzione di
pericolosità.
La presunzione assoluta di nocività e pericolosità prescinde
da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un
regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza.
Il rispetto
della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e
pericolosi dall'art. 890 del Codice civile, nella cui
regolamentazione rientrano anche le canne fumarie, è
collegato ad una presunzione assoluta di nocività e
pericolosità.
Lo ha precisato la II Sez. civile della Corte di
Cassazione nella
sentenza
24.08.2017 n. 20357.
La suprema Corte ha evidenziato che la suddetta presunzione
assoluta di nocività e pericolosità “prescinde da ogni
accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento
edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima;
mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha
pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure
relativa, che può essere superata solo ove la parte
interessata al mantenimento del manufatto dimostri che
mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo od
al danno del fondo vicino”.
Sempre nella sentenza n. 20357/2017, la
Cassazione ha ricordato che “rappresenta ormai principio
consolidato in seno a questa Corte, dal quale non v'è
ragione di discostarsi, quello secondo cui, in tema di
distanze legali nelle costruzioni, qualora sopravvenga una
disciplina normativa meno restrittiva, l'edificio in
contrasto con la regolamentazione in vigore al momento della
sua ultimazione, ma conforme alla nuova, non può più essere
ritenuto illegittimo, cosicché il confinante non può
pretendere l'abbattimento o, comunque, la riduzione alle
dimensioni previste dalle norme vigenti al momento della sua
costruzione. Tale effetto non deriva dalla retroattività
delle nuove norme, di regola esclusa dall'art. 11 delle preleggi, ma dal fatto che, pur rimanendo sussistente
l'illecito di chi abbia costruito in violazione di norme
giuridiche allora vigenti e la sua responsabilità per i
danni subiti dal confinante fino all'entrata in vigore della
normativa meno restrittiva, viene meno però l'illegittimità
della situazione di fatto determinatasi con la costruzione,
essendo questa conforme alla normativa successiva e, quindi,
del tutto identica a quella delle costruzioni realizzate
dopo la sua entrata in vigore”.
Da tali considerazioni consegue “la inammissibilità
dell'ordine di demolizione di costruzioni che, illegittime
secondo le norme vigenti al momento della loro
realizzazione, tali non siano più alla stregua delle norme
vigenti al momento della decisione, salvo, ove ne ricorrano
le condizioni, il diritto al risarcimento dei danni
prodottisi medio tempore, ossia di quelli conseguenti alla
illegittimità della costruzione nel periodo compreso tra la
sua costruzione e l'avvento della nuova disciplina”
(commento tratto da www.casaeclima.com).
---------------
MASSIMA
4.1.
Rappresenta ormai principio consolidato in seno a
questa
Corte, dal quale
non v'è ragione di discostarsi, quello
secondo cui, in tema di distanze legali nelle costruzioni,
qualora sopravvenga
una disciplina normativa meno restrittiva, l'edificio in
contrasto con
la regolamentazione in vigore al momento della sua
ultimazione,
ma conforme alla nuova, non può più essere ritenuto
illegittimo,
cosicché il confinante non può pretendere l'abbattimento o,
comunque, la riduzione alle dimensioni previste dalle norme
vigenti
al momento della sua costruzione.
Tale effetto non deriva
dalla
retroattività delle nuove norme, di regola esclusa dall'art.
11 delle
preleggi, ma dal fatto che, pur rimanendo sussistente
l'illecito di chi
abbia costruito in violazione di norme giuridiche allora
vigenti e la
sua responsabilità per i danni subiti dal confinante fino
all'entrata in
vigore della normativa meno restrittiva, viene meno però
l'illegittimità della situazione di fatto determinatasi con
la
costruzione, essendo questa conforme alla normativa
successiva e,
quindi, del tutto identica a quella delle costruzioni
realizzate dopo
la sua entrata in vigore (Sez. 2, Sentenza n. 1368 del
22/02/1996;
Sez. 2, Sentenza n. 5173 del 06/04/2001; Sez. 2, Sentenza n.
8512 del 28/05/2003; Sez. 2, Sentenza n. 22086 del
22/10/2007;
Cass. civ., sez. II, 02/11/2010, n. 22288).
Ne consegue la inammissibilità dell'ordine di demolizione di
costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al
momento
della loro realizzazione, tali non siano più alla stregua
delle norme
vigenti al momento della decisione, salvo, ove ne ricorrano
le
condizioni, il diritto al risarcimento dei danni prodottisi
medio
tempore, ossia di quelli conseguenti alla illegittimità
della
costruzione nel periodo compreso tra la sua costruzione e
l'avvento
della nuova disciplina (Sez. 2, Sentenza n. 14446 del
15/06/2010).
Analoghe considerazioni valgono per il caso in cui, in
presenza di
una successione nel tempo di norme edilizie, la nuova
disciplina sia
meno restrittiva (Sez. 2, Sentenza n. 4980 del 02/03/2007).
Orbene, non è revocabile in dubbio, nella fattispecie in
esame, che,
a voler accedere all'impostazione seguita dalla corte di
merito, la
normativa regolamentare sopravvenuta (vale a dire, l'art.
11r della normativa collegata al PUC) sarebbe più favorevole
rispetto a
quella precedente (rappresentata dall'art. 20-bis delle NTA
del
P.F.), in quanto la prima prevedrebbe una distanza minima
delle
costruzioni dai confini di metri tre, in luogo della
distanza minima di
metri sei in precedenza prescritta (cfr. pag. 9 del
controricorso).
Da ciò consegue che il terzo motivo del ricorso, nella sua
prima
parte, è fondato, nella prospettazione con la quale censura
la
sentenza d'appello per aver ritenuto applicabile la
normativa
vigente al momento della costruzione dell'opera (cfr. pag. 8
della
sentenza).
In quest'ottica, restano assorbite le ulteriori censure,
sollevate con
il medesimo terzo motivo, concernenti l'applicabilità in
concreto
dell'art. 20-bis, nonostante si riferisca solo agli
interventi edilizi
incidenti sull'"indice di fabbricabilità fondiario" e,
comunque, tenuto
conto che trattasi di impianti termici (caldaia) e, quindi,
di volumi
tecnici indispensabili (cfr. pagg. 32-36 ricorso).
...
6. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la
violazione, la falsa
e/o l'errata applicazione degli artt. 873 e 890 c.c., con
riferimento
all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver la corte
territoriale ritenuto
la canna fumaria alla stregua di una costruzione ed
applicabile, ai fini delle distanze, l'art. 873 c.c.,
laddove avrebbe dovuto trovare
applicazione l'art. 890 c.c., con la conseguenza che, avendo
il ctu
rilevato la "buona qualità dell'aria", non si sarebbe dovuto
ordinare
la sua demolizione.
6.1. Il motivo si rivela inammissibile, in quanto, non
essendovi
cenno della questione nella sentenza impugnata, la
ricorrente
avrebbe dovuto indicare con precisione in quale fase e con
quale
atto processuale l'avesse sollevata.
In proposito, occorre, peraltro, ricordare che
il rispetto
della
distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e
pericolosi dall'art.
890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche le
canne
fumarie, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività
e
pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel
caso
in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che
stabilisca la
distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione
regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di
pericolosità,
seppure relativa, che può essere superata solo ove la parte
interessata al mantenimento del manufatto dimostri che
mediante
opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo od al danno
del
fondo vicino (Sez. 2, Sentenza n. 3199 del 06/03/2002; conf.
Sez.
2, Sentenza n. 22389 del 22/10/2009). In quest'ottica, non
sarebbe comunque sufficiente invocare l'applicabilità alla
fattispecie
concreta dell'art. 890 c.c..
D'altra parte, la ricorrente, in violazione del principio di
autosufficienza, omette di trascrivere l'ordinanza emessa
dalla
corte d'appello in data 19.06.2007, con la quale la stessa
avrebbe
anticipato (senza, peraltro, vincoli sulla successiva
decisione finale)
la necessità di applicazione dell'art. 890 c.c. per la canna
fumaria.
In ogni caso, sempre in violazione del principio di
autosufficienza,
non vengono riportati i passaggi salienti della c.t.u.
svolta in primo
grado, dalla quale si sarebbe dovuto evincere che l'attuale
distanza
preserva il fondo dei resistenti da ogni danno alla
salubrità ed alla sicurezza. |
EDILIZIA PRIVATA:
I regolamenti edilizi sono espressione di una potestà
normativa
attribuita all'amministrazione, secondaria rispetto alla
potestà
legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti
giuridici
mediante una regolazione attuativa o integrativa della
legge, ma
ugualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico
esistente,
con la conseguenza che l'interpretazione di tali norme va
condotta
non già secondo i criteri di ermeneutica contrattuale (pur
con gli
adattamenti imposti dalla natura di tali atti), ma secondo
quelli dettati dall'art. 12 delle preleggi e, nell'ipotesi
in cui
l'interpretazione letterale degli stessi non sia sufficiente
ad
individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo
significato e la
connessa portata precettiva, l'interprete deve ricorrere al
criterio
sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame
complessivo del
testo, della mens legis.
Qualora, poi, ciò nonostante,
residuino
incertezze in ordine al significato obiettivo a riconoscersi
alla norma
regolamentare, non trova applicazione la regola ermeneutica
dettata per i contratti dall'art. 1367 c.c., a tenore della
quale, nel
dubbio, il contratto o le singole clausole devono
interpretarsi nel
senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in
quello
secondo cui non ne avrebbero alcuno.
---------------
4.2. Avuto riguardo alla questione della interpretazione
dell'art.
11r, va premesso che, a differenza degli atti e
provvedimenti
amministrativi generali -che sono espressione di una
semplice
potestà amministrativa e sono rivolti alla cura concreta
d'interessi
pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità
di
destinatari non necessariamente determinati nel
provvedimento,
ma determinabili-, i regolamenti sono espressione di una
potestà
normativa attribuita all'amministrazione, secondaria
rispetto alla
potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di
rapporti giuridici
mediante una regolazione attuativa o integrativa della
legge, ma
ugualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico
esistente,
con precetti aventi i caratteri della generalità e
dell'astrattezza
(Sez. 3, Sentenza n. 5062 del 05/03/2007).
Da ciò consegue
che
l'interpretazione di tali norme va condotta non già secondo
i criteri
di ermeneutica contrattuale (pur con gli adattamenti imposti
dalla
natura di tali atti), ma secondo quelli dettati dall'art. 12
delle
preleggi.
Orbene, in base all'art. 12 delle preleggi, nell'ipotesi in
cui
l'interpretazione letterale di una norma di legge o (come
nella
specie) regolamentare non sia sufficiente ad individuarne,
in modo
chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa
portata
precettiva, l'interprete deve ricorrere al criterio
ermeneutico
sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame
complessivo del
testo, della mens legis.
In particolare, qualora la lettera
della
norma medesima risulti ambigua, l'elemento letterale e
l'intento del
legislatore, insufficienti in quanto utilizzati
singolarmente,
acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento
ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario
e
funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da
interpretare
(Cassazione civile, sez. I, 06/04/2001, n. 5128).
Dovendo in siffatta evenienza l'intenzione del legislatore
fungere da
criterio comprimario di ermeneutica, atto ad ovviare
all'equivocità
della formulazione del testo da interpretare, non è
revocabile in
dubbio che il Comune di Bonassola, nel momento in cui ha
regolamentato la distanza minima che una nuova costruzione
deve
osservare rispetto al confine con la proprietà limitrofa,
abbia inteso,
nel richiamare, sia pure genericamente, il codice civile,
fissare tale
limite.
Tuttavia, la circostanza che nella sezione VI del
libro III del
codice civile siano disciplinate varie distanze [oltre,
all'art. 873 c.c,
gli artt. 889 (Distanze per pozzi, cisterne, fossi e tubi),
890
(Distanze per fabbriche e depositi nocivi o pericolosi), 891
(Distanze per canali e fossi), 892 (Distanze per alberi) e
896-bis
(Distanze minime per gli apiari) c.c.; senza tralasciare gli
artt. 875
e 877 c.c., che consentirebbero, l'erezione di una
costruzione,
rispettivamente, in appoggio e in aderenza ad altra
preesistente]
preclude di ritenere in termini di assoluta ed oggettiva
certezza che
il generico riferimento al codice civile debba intendersi
operato
all'art. 873 c.c..
Da ciò deriva che, non trovando applicazione, neppure in via
estensiva, le regole ermeneutiche dettate dagli artt. 1362
ss., non può ricorrersi, nella permanere dell'incertezza,
all'art. 1367 c.c., a
mente del quale, nel dubbio, il contratto o le singole
clausole
devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche
effetto,
anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.
Per quanto la nota negativa dell'08.11.2007 a firma del
"responsabile del piano" del Comune di Bonassola geom.
Ge.
non sia vincolante per il giudice e, comunque, non corretta
(in
quanto, a tutto concedere, il predetto responsabile avrebbe
dovuto
attestare l'esistenza attuale nelle NTA al PUC di una
disposizione
disciplinante le distanze minime delle costruzioni dal
confine, pur
evidenziando, semmai, la difficoltà ad individuare la norma
del
codice civile di riferimento ai fini della determinazione di
tali
distanze), deve, allora pervenirsi alla conclusione che tra
le norme
tecniche di attuazione del PUC vigenti all'epoca della
proposizione
della domanda giudiziale e della decisione della
controversia non ve
ne fosse una disciplinate specificamente la distanza delle
costruzioni dal confine.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, la
interpretazione
dell'art. 11r offerta dalla corte territoriale (nel senso di
riferire il
richiamo operato genericamente al "codice civile" alla
distanza
minima di tre metri prevista dall'art. 873 c.c.) si rivela
non
corretta, con la conseguenza che il primo motivo di ricorso
merita
accoglimento.
In base al primo comma dell'art. 384 c.p.c., va enunciato il
seguente principio di diritto:
«I regolamenti edilizi sono espressione di una potestà
normativa
attribuita all'amministrazione, secondaria rispetto alla
potestà
legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti
giuridici
mediante una regolazione attuativa o integrativa della
legge, ma
ugualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico
esistente,
con la conseguenza che l'interpretazione di tali norme va
condotta
non già secondo i criteri di ermeneutica contrattuale (pur
con gli
adattamenti imposti dalla natura di tali atti), ma secondo
quelli dettati dall'art. 12 delle preleggi e, nell'ipotesi
in cui
l'interpretazione letterale degli stessi non sia sufficiente
ad
individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo
significato e la
connessa portata precettiva, l'interprete deve ricorrere al
criterio
sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame
complessivo del
testo, della mens legis.
Qualora, poi, ciò nonostante,
residuino
incertezze in ordine al significato obiettivo a riconoscersi
alla norma
regolamentare, non trova applicazione la regola ermeneutica
dettata per i contratti dall'art. 1367 c.c., a tenore della
quale, nel
dubbio, il contratto o le singole clausole devono
interpretarsi nel
senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in
quello
secondo cui non ne avrebbero alcuno».
Per completezza va evidenziato che il richiamo operato dalla
ricorrente al P.R.G. adottato dal Comune di Bonassola in
data
21.06.1996 (cfr. pag. 24 del ricorso), al fine di porre in
rilievo che
non era nello stesso prevista, tra i parametri urbanistici
per la zona
in discussione, la distanza dai confini, è del tutto
irrilevante, in
quanto la detta normativa non era quella vigente né
all'epoca di
costruzione dell'opera (avvenuta nel 1995) né all'attualità
(dovendosi far riferimento, come detto, alle NTA del PUC
attualmente in vigore).
4.3. Resta assorbita nell'accoglimento della precedente la
censura
concernente l'asserita violazione e/o falsa ed erronea
applicazione
dell'art. 11r per aver la corte genovese confermato la
sentenza di
primo grado nella parte in cui ha ordinato alla Ne. la
demolizione
di tutte le modifiche dimensionali apportate al locale
caldaia nel
1995, anziché, al limite, solo quelle eccedenti il limite
minimo di tre
metri (cfr. pagg. 25-26 del ricorso).
4.4. E' chiaro che, nel momento in cui si è accertato che le
norme
tecniche di attuazione del PUC attualmente vigente nel
Comune di
Bonassola non contengono una espressa previsione sulla
distanza
minima delle costruzioni dal confine, la tesi difensiva
della
ricorrente, a mente della quale ella avrebbe potuto, in
applicazione del principio di "prevenzione temporale",
costruire sul confine "in
aderenza", risulta fondata sul piano giuridico.
Invero, solo qualora i regolamenti edilizi stabiliscano
espressamente la necessità di rispettare determinate
distanze dal
confine, non può ritenersi consentita (salvo concreta,
diversa
previsione della norma regolamentare) la costruzione in
aderenza o
in appoggio, poiché l'imposizione di un distacco assoluto
dal confine
mira a tutelare interessi generali, quali l'assetto
urbanistico di una
certa zona, e non soltanto ad evitare la formazione di
intercapedini
nocive all'igiene, alla salute ed alla sicurezza (Sez. 2,
Sentenza n.
14261 del 07/07/2005).
Anche di recente le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U,
Sentenza
n. 10318 del 19/05/2016) hanno ribadito che il principio
della
prevenzione si applica anche nell'ipotesi in cui il
regolamento
edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore
di
quella ex art. 873 c.c. e, tuttavia, non imponga una
distanza
minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata
integrativa della disposizione regolamentare si estende
all'intero
impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della
prevenzione,
sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul
confine o a
distanza dal confine inferiore alla metà di quella
prescritta tra le
costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in
appoggio o in
aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c..
Orbene, non è contestato e, comunque, risulta ex actis (cfr.
pagg.
4 della sentenza impugnata e 27-28 del ricorso) che la Negri
negli
anni 1994-1995 abbia ampliato il locale già posizionato sul
confine
al fine di collocarvi la caldaia del riscaldamento,
posizionando
l'ampliamento in aderenza al muro posto sul confine.
In applicazione del principio di prevenzione temporale e
della
regola enunciata dall'art. 877 c.c., la condotta della
odierna
ricorrente non è suscettibile di censura
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
24.08.2017 n. 20357). |
APPALTI:
Decorrenza del termine per impugnare le ammissioni ed
esclusioni dalla gara e compatibilità comunitaria della
relativa disciplina processuale.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super
accelerato – Impugnazione di ammissioni e esclusioni – Dies
a quo – Individuazione.
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super
accelerato – Proposizione di due ricorsi, uno avverso
ammissione e l’altro avverso aggiudicazione – Aggravio
processuale – Rinvio alla Corte di giustizia ue –
Esclusione.
La presenza di un rappresentante la
società concorrente ad una gara pubblica alla seduta durante
la quale sono disposte le ammissioni e le esclusioni non fa
decorrere il termine di trenta giorni per la relativa
impugnazione, che decorre, invece, ai sensi dell’art. 120,
comma 2-bis, c.p.a., dalla pubblicazione del provvedimento
che determina esclusioni/ammissioni sul profilo della
stazione appaltante (1).
Il sistema del rito c.d. super accelerato previsto dall’art.
120, comma 2-bis, c.p.a., nella parte in cui obbliga alla
proposizione di due ricorsi, uno avverso l'ammissione e
l’altro avverso l'aggiudicazione, non si pone in contrasto
con il principio di miglioramento dell’efficacia delle
procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli
appalti pubblici di cui alla direttiva 89/665/CE (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che stante la specialità della previsione
contenuta nel comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., essa
inevitabilmente è destinata a prevalere su ogni altra
previsione o applicazione di tipo giurisprudenziale.
In altre parole, anche a voler ammetter che il termine di
reazione processuale decorra, in caso di aggiudicazione,
dalla piena conoscenza della determinazione lesiva della PA,
ossia dal momento in cui si conclude la seduta di gara in
cui sono eventualmente presenti i legali rappresentanti
della società che si ritiene lesa, in caso di
ammissione/esclusione vale comunque il diverso momento della
pubblicazione sul sito della stazione appaltante del
relativo provvedimento che tale decisione formalizza. E ciò
in quanto il dies a quo per le suddette impugnazioni
di esclusione/ammissione è assistito da un regime di
specialità rispetto ad ogni altra tipologia di impugnazione
in materia di gare pubbliche.
(2) Ha chiarito il Tar che non viola i principi comunitari di
effettività della tutela e di efficacia dei mezzi di ricorso
giurisdizionale l’assenza di una fase cautelare, all’interno
di tale particolare rito. Come chiarito dal Consiglio di
Stato, in sede di parere (comm.
spec., 01.04.2016, n. 855) sullo schema di
decreto delegato poi sfociato nel Codice dei contratti
pubblici, “con riguardo al rito «super speciale» previsto
per le ammissioni e le esclusioni … la tutela cautelare
diventa, di fatto e nella ordinarietà dei casi, superflua,
attesi i tempi strettissimi in cui si perviene alla
decisione di merito, di cui può anche essere anticipata la
pubblicazione del dispositivo. Sicché la funzione
anticipatoria che è propria e tipica della tutela cautelare
non troverà ordinariamente possibilità di pratica
esplicazione”.
A ciò si aggiunga che lo stesso Codice del processo
amministrativo, nel momento in cui ha provveduto a
disciplinare determinati istituti di carattere processuale
caratterizzati dall’estrema semplicità e celerità del
sotteso procedimento giurisdizionale (cfr. ottemperanza,
accesso agli atti, silenzio inadempimento), non ha parimenti
previsto una fase cautelare quale quella invocata dalla
difesa di parte ricorrente. E ciò pur sempre nella dirimente
considerazione per cui determinati riti speciali risultano
ipso iure idonei ad assorbire e comunque a rendere
del tutto superflua l’adozione di determinate decisioni di
natura provvisoria ed interinale.
Il Tar ha poi escluso che l’onere di proporre due distinti
ricorsi, il primo avverso le ammissioni ed il secondo
avverso l’aggiudicazione, possa costituire un evidente
aggravio di natura processuale ed economica. Aderendo a
precedenti in termini (Tar
Napoli, sez. VIII, 19.01.2017, n. 434;
Tar Bari, sez. I, 07.12.2016, n. 1367), ha
affermato che sarebbe ben possibile ricorrere all’istituto
dei motivi aggiunti, da proporre avverso il successivo
provvedimento di aggiudicazione.
E ciò in quanto:
1) il comma 7 dell’art. 120 c.p.a. deve essere interpretato
nel senso di riconoscere alla parte ricorrente la facoltà (e
non l’obbligo) di proporre autonoma impugnativa avverso il
provvedimento di aggiudicazione della gara, ove questo sia
sopraggiunto all’introduzione del non ancora definito
giudizio ex art. 120, comma 6-bis, c.p.a.;
2) una eventuale preclusione di questo genere (obbligo e non
facoltà di proporre giudizi separati) sarebbe contraria a
fondamentali principi di “economia processuale”;
3) in questa stessa direzione depone tra l’altro il
principio generale della cumulabilità delle azioni connesse
soggette a riti diversi di cui all'art. 32, comma 1, c.p.a.
(TAR Lazio-Roma,
Sez. III-quater,
sentenza 22.08.2017 n. 9379
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380/2001, che
costituisce la reazione dell'ordinamento al duplice illecito
posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale
difformità o in assenza del titolo edilizio e, poi, non
adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il
termine fissato, è misura di carattere sanzionatorio che
opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine
assegnato quale effetto previsto dalla legge (cfr. comma 3),
con la conseguenza che l’accertamento dell'inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione, essendo normativamente
configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente
dichiarativa che si limita a formalizzare l’effetto
verificatosi alla scadenza di quel termine, ha esclusiva
funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del
diritto di proprietà ed assume rilevanza soltanto come
titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione
nei registri immobiliari (cfr. comma 4), come pacificamente
riconosciuto dalla giurisprudenza.
In particolare, in base all’espressa e specifica previsione
dell’art. 31, comma 3, l’effetto acquisitivo è automatico
per le opere abusive e la loro area di sedime, nonché per
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive.
Ai fini del rigetto dell’istanza di restituzione, pertanto,
era irrilevante che l’ordinanza di acquisizione non
contenesse alcun riferimento espresso anche all'area di
sedime del fabbricato, poiché quest’ultima era, comunque,
divenuta di proprietà del Comune per effetto legale del
mancato adempimento alla ingiunzione di demolizione né,
trattandosi di un acquisto automatico ope legis.
Inoltre, poiché l’acquisizione gratuita dell’atto
costituisce una sanzione autonoma e non, invece, una misura
strumentale per consentire al Comune di eseguire al
demolizione, né una sanzione accessoria di questa, non può fondatamente
tacciarsi il Comune di essere incorso in sviamento di potere
per il fatto che, demolita la costruzione abusiva (ad opera
del giudice penale), l’area non sia stata riqualificata,
riutilizzata ovvero retrocessa al suo primitivo
proprietario.
---------------
Il ricorso è affidato a due motivi di doglianza.
Con il primo motivo il ricorrente sostiene che, poiché con
l’ordinanza dirigenziale n. 22 del 03.03.2012 il Comune ha
proceduto all'acquisizione a titolo gratuito al proprio
patrimonio disponibile del solo manufatto abusivo senza
alcun riferimento all'area di sedime sulla quale insisteva
l'abuso, una volta che è stato abbattuto l'edificio
l'acquisita titolarità del diritto di proprietà
dell'amministrazione resistente sull’area di sedime
mancherebbe di presupposto, soprattutto sotto il profilo
dell'emissione di un apposito provvedimento che avrebbe
dovuto legittimare l'immissione nel possesso e sancire
espressamente l'acquisto originario del diritto di
proprietà.
Con il secondo motivo di impugnazione, sull’assunto che
nella fattispecie acquisitiva in questione la perdita del
diritto di proprietà assumerebbe i connotati di una sanzione
accessoria e tenderebbe a soddisfare anche un eventuale
interesse dell’amministrazione ad utilizzare per un fine
pubblicistico l'opera abusiva ovvero l'area di sedime sulla
quale esisteva, il ricorrente argomenta che, non essendo
stato manifestato dall'amministrazione nessun interesse per
il suolo, che sarebbe in stato di abbandono e non
destinatario di alcun intervento di urbanizzazione o di
riqualificazione, si verterebbe di un caso di sviamento di
potere, in quanto il Comune, anziché utilizzare il frutto di
un comportamento illecito per un fine pubblico a vantaggio
della collettività, avrebbe posto in essere un’attività
meramente repressiva e sanzionatoria.
Le censure, che si prestano ad essere esaminate
congiuntamente, sono infondate.
L'acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380/2001, che
costituisce la reazione dell'ordinamento al duplice illecito
posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale
difformità o in assenza del titolo edilizio e, poi, non
adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il
termine fissato, è misura di carattere sanzionatorio che
opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine
assegnato quale effetto previsto dalla legge (cfr. comma 3),
con la conseguenza che l’accertamento dell'inottemperanza
all’ingiunzione di demolizione, essendo normativamente
configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente
dichiarativa che si limita a formalizzare l’effetto
verificatosi alla scadenza di quel termine, ha esclusiva
funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del
diritto di proprietà ed assume rilevanza soltanto come
titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione
nei registri immobiliari (cfr. comma 4), come pacificamente
riconosciuto dalla giurisprudenza (ex multis, C.d.S., sez.
VI, 04.03.2015, n. 1064; sez. IV, 18.11.2014, n.
5666; sez. VI, 08.02.2013, n. 718).
In particolare, in base all’espressa e specifica previsione
dell’art. 31, comma 3, l’effetto acquisitivo è automatico
per le opere abusive e la loro area di sedime, nonché per
quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni
urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle
abusive.
Ai fini del rigetto dell’istanza di restituzione, pertanto,
era irrilevante che l’ordinanza di acquisizione non
contenesse alcun riferimento espresso anche all'area di
sedime del fabbricato, poiché quest’ultima era, comunque,
divenuta di proprietà del Comune per effetto legale del
mancato adempimento alla ingiunzione di demolizione né,
trattandosi di un acquisto automatico ope legis.
Inoltre, poiché l’acquisizione gratuita dell’atto
costituisce una sanzione autonoma e non, invece, una misura
strumentale per consentire al Comune di eseguire al
demolizione, né una sanzione accessoria di questa (cfr. C.
Cost., sent. n. 345 del 1991), non può fondatamente
tacciarsi il Comune di essere incorso in sviamento di potere
per il fatto che, demolita la costruzione abusiva (ad opera
del giudice penale), l’area non sia stata riqualificata,
riutilizzata ovvero retrocessa al suo primitivo
proprietario.
In ordine, infine, agli ulteriori profili di doglianza
introdotti con la memoria del 16.05.2017, se ne deve
rilevare l’inammissibilità in quanto introdotti con atto non
notificato.
In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve
essere rigettato perché infondato
(TAR Campania-Napoli, Sez. II,
sentenza 21.08.2017 n. 4096 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Una
volta rilevata l’assenza in atti della
mancata sottoscrizione della dichiarazione
sostitutiva relativa all’assenza di condanne ostative ex
articolo 38, comma 1, lettera c), la
stazione appaltante non può escludere dalla gara il
partecipante ma piuttosto deve –nel doveroso esercizio del
‘soccorso istruttorio’– mettere il medesimo in condizione di
rendere la dichiarazione carente e, comunque, disporre
l’esclusione soltanto se emerga la presenza in concreto di
condanne ostative.
Infatti, si sensi dell’articolo 38, comma 2-bis, del Codice
dei contratti pubblici del 2006 (si tratta della
disposizione sul c.d. ‘soccorso istruttorio' a pagamento
ratione temporis rilevante ai fini del presente giudizio),
“la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive
di cui al comma 2” avrebbe comunque imposto
all’amministrazione di ammettere il concorrente al beneficio
del soccorso istruttorio.
L’omessa presentazione in gara della dichiarazione
sostitutiva in ordine all’assenza dei reati ostativi di cui
all’articolo 38, comma 2, lettera c), lungi dal
rappresentare una ‘falsa dichiarazione’ (di per sé idonea a
giustificare l’esclusione del concorrente dalla gara), si
configurava appunto come “mancanza di una dichiarazione
sostitutiva”, in quanto tale certamente ammissibile al
soccorso istruttorio.
---------------
4. Ma anche a prescindere dalla decettività delle
indicazioni desumibili dal richiamato allegato al Bando di
gara, il Collegio osserva che la mancata sottoscrizione da
parte dei due soci della Eu. s.r.l. delle dichiarazioni
sostitutive relative all’assenza di condanne ostative ex
articolo 38, comma 1, lettera c), non avrebbe comunque potuto
condurre ex se all’esclusione del Consorzio appellante dalla
gara.
Infatti, una volta rilevata l’assenza in atti di tali
dichiarazioni, la stazione appaltante non avrebbe potuto
escludere dalla gara il Consorzio appellante, ma avrebbe
piuttosto dovuto –nel doveroso esercizio del ‘soccorso
istruttorio’– mettere il Consorzio in condizione di rendere
la dichiarazione carente e, comunque, disporre l’esclusione
soltanto se fosse emersa la presenza in concreto di condanne
ostative.
Infatti, si sensi dell’articolo 38, comma 2-bis, del Codice
dei contratti pubblici del 2006 (si tratta della
disposizione sul c.d. ‘soccorso istruttorio' a pagamento
ratione temporis rilevante ai fini del presente giudizio),
“la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità
essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive
di cui al comma 2” avrebbe comunque imposto
all’amministrazione di ammettere il concorrente al beneficio
del soccorso istruttorio.
L’omessa presentazione in gara della dichiarazione
sostitutiva in ordine all’assenza dei reati ostativi di cui
all’articolo 38, comma 2, lettera c), lungi dal
rappresentare una ‘falsa dichiarazione’ (di per sé idonea a
giustificare l’esclusione del concorrente dalla gara), si
configurava appunto come “mancanza di una dichiarazione
sostitutiva”, in quanto tale certamente ammissibile al
soccorso istruttorio.
Al contrario (e diversamente da quanto affermato dal primo
giudice) la richiamata omissione non era riconducibile alla
nozione di “incertezza assoluta sul contenuto o sulla
provenienza dell'offerta, [di] difetto di sottoscrizione o
di altri elementi essenziali” di cui al successivo articolo
46, comma 1-bis (ipotesi in cui la lacuna imputabile al
concorrente non ammette il ricorso al ‘soccorso istruttorio’
e comporta ex se l’esclusione dalla gara).
Del resto, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato,
nell’interpretare la portata innovativa dell’articolo 39 del
decreto-legge n. 90 del 2014 (che ha introdotto il
richiamato comma 2-bis nell’ambito del decreto legislativo
n. 163 del 2006) ha chiarito che esso testimonia “[la]
chiara volontà del legislatore di evitare (nella fase del
controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione
alla gara delle offerte presentate) esclusioni dalla
procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche
la mancanza assoluta delle dichiarazioni), di imporre
un’istruttoria veloce, ma preordinata ad acquisire la
completezza delle dichiarazioni (prima della valutazione
dell’ammissibilità della domanda), e di autorizzare la
sanzione espulsiva quale conseguenza della sola
inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, all’obbligo
di integrazione documentale (entro il termine perentorio
accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante)”.
In definitiva (e contrariamente a quanto ritenuto dal primo
giudice), l’amministrazione non avrebbe potuto escludere
dalla gara il Consorzio in ragione della richiamata carenza
dichiarativa imputabile a una sua consorziata, ma avrebbe
dovuto riconoscere le garanzie procedimentali e sostanziali
del c.d. ‘soccorso istruttorio a pagamento’.
4.1. La sentenza va dunque in parte qua riformata e
va disposto l’annullamento del provvedimento di esclusione
impugnato in primo grado
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.08.2017 n. 4048 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Anche in vigenza dell’articolo 676 del
codice penale Vassalli [la] giurisprudenza più attenta [ha
rilevato] che l’effetto estintivo operi ex lege per effetto
del decorso inattivo del tempo e non abbisogni di alcun
provvedimento, non rilevando in contrario l’attribuzione al
giudice dell’esecuzione della competenza a decidere in
merito all’estinzione del reato dopo la condanna.
Invero, con la sentenza n. 2 del 2014 le Sezioni Unite della
Cassazione, seppure con riferimento al tema dell’indulto,
hanno ritenuto maggiormente coerente con i criteri
ermeneutici che sottendono il codice processuale il
principio secondo cui, quando un determinato effetto
giuridico si verifichi per decorso inattivo del tempo, esso
si verifica ope legis al momento in cui siano per legge
maturate le condizioni cui è condizionato l’effetto.
Corollario di tale approccio ermeneutico è che il
provvedimento dichiarativo dell’estinzione, successivo e
ricognitivo di un effetto già verificatosi, resta estraneo
ai fini dell’estinzione del reato e si pone in funzione
meramente formale e ricognitiva di un effetto già
verificato, nel mentre l’automatismo degli effetti
dell’estinzione del reato si pone in coerenza con i principi
comunitari di ragionevole durata dei processi, sollecita
definizione e di minor sacrificio esigibile, evincibili
dagli articoli 5 e 6 CEDU.
---------------
5. Con il quarto motivo di appello il CTA lamenta che
erroneamente il primo giudice abbia respinto il motivo di
ricorso che censurava il provvedimento di esclusione, atteso
che i reati commessi dai due soci della consorziata Eu.
erano da considerarsi estinti ope legis prima ancora della
presentazione della domanda di partecipazione.
L’appellante osserva che l’assenza del provvedimento che
dichiara l’estinzione del reato non rileverebbe in senso
preclusivo atteso che l’effetto estintivo opererebbe ex lege
per effetto del decorso del tempo.
5.1. Il motivo è meritevole di accoglimento, potendosi fare
applicazione dei principi enunciati da Cons. Stato, V, 13.11.2015, n. 5192.
Il precedente ha infatti chiarito che “anche in vigenza
dell’articolo 676 del codice penale Vassalli [la]
giurisprudenza più attenta [ha rilevato] che l’effetto
estintivo operi ex lege per effetto del decorso inattivo del
tempo e non abbisogni di alcun provvedimento, non rilevando
in contrario l’attribuzione al giudice dell’esecuzione della
competenza a decidere in merito all’estinzione del reato
dopo la condanna” (vengono richiamate al riguardo: Cass. pen.,
V, 14.05.2015, n. 20068; Cass., SS.UU., 30.10.2014,
n. 2).
Il precedente prosegue osservando che “con la sentenza n. 2
del 2014 le Sezioni Unite della Cassazione, seppure con
riferimento al tema dell’indulto, hanno ritenuto
maggiormente coerente con i criteri ermeneutici che
sottendono il codice processuale il principio secondo cui,
quando un determinato effetto giuridico si verifichi per
decorso inattivo del tempo, esso si verifica ope legis al
momento in cui siano per legge maturate le condizioni cui è
condizionato l’effetto.
Corollario di tale approccio ermeneutico è che il
provvedimento dichiarativo dell’estinzione, successivo e
ricognitivo di un effetto già verificatosi, resta estraneo
ai fini dell’estinzione del reato e si pone in funzione
meramente formale e ricognitiva di un effetto già
verificato, nel mentre l’automatismo degli effetti
dell’estinzione del reato si pone in coerenza con i principi
comunitari di ragionevole durata dei processi, sollecita
definizione e di minor sacrificio esigibile, evincibili
dagli articoli 5 e 6 CEDU”.
Ma anche a tacere del rilievo (pur dirimente) di quanto
osservato, resta che, in sede di rivalutazione della
posizione dell’appellante nel doveroso esercizio del
soccorso istruttorio, la stazione appaltante dovrebbe
comunque valutare la risalenza nel tempo dei reati di cui è
stata omessa la dichiarazione, la loro complessiva tenuità e
la non riconducibilità al novero dei “reati gravi in danno
dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità
professionale” (infatti, in un caso di trattava di una
condanna per guida in stato di ebbrezza e in un altro caso
della conseguenza di un insoluto contributivo pari ad appena
123 euro).
5.2. Anche per tale ragione l’appello è meritevole di
accoglimento
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 21.08.2017 n. 4048 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: I
rigorosi presupposti per il
legittimo esercizio del potere di adottare –nella specie, da
parte del Sindaco, sulla base degli artt. 50 e 54 del
T.U.E.L.– ordinanze di necessità volta a volta finalizzate
alla salvaguardia di rilevanti interessi pubblici legati
all’igiene ed alla sicurezza della collettività, sono
rappresentati:
a) dalla straordinarietà (intesa come difetto di tipici e nominati
atti preordinati, anche in contesti necessitati, alla
gestione degli interessi coinvolti);
b) dell’urgenza (intesa come impossibilità di differire, senza
pericolo di compromissione di quegli interessi, l’azione
amministrativa, con il ricorso alle ordinarie tempistiche);
c) dell’imprevedibilità delle situazioni di pericolo;
d) della contingibilità (che connota l’urgente necessità quale
accidentale, provvisoria ed improvvisa.
Il difetto dell’uno o dell’altro di tali requisiti appare
idoneo a compromettere (anche in relazione alla normale
distribuzione delle attribuzioni competenziali) il superiore
principio di legalità dell’azione amministrativa (art. 1 l.
n. 241/1990), prefigurando l’uso sviato di poteri per
definizione extra ordinem e, come tali, assoggettati ad un
rigoroso e stretto scrutinio di necessità.
---------------
... per l'annullamento:
a) dell'ordinanza n. 11 del 02.08.2016, notificata, in pari
data, a mani proprie del ricorrente, nella qualità di erede
e di rappresentante degli altri coeredi del de cuius
geom. Gu.Le., con la quale il Sindaco del Comune di
Castelnuovo Cilento (SA), ritenuto necessario urgente ed
indifferibile l'adempimento dell'art. 7 dell'accordo prot.
n. 3803 del 07.09.2010, approvato con deliberazione di
Consiglio Comunale n. 20 del 05.10.2010, accessivo alla
Convenzione di lottizzazione stipulata il 12.05.2005 dal
geom. Gu.Le., dalla società "Tr.Re.Es. S.p.a." e
altri, ha ingiunto, ai sensi dell'art. 50, comma 5, D.Lgs.
18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.), ai lottizzanti "Gu.Le.
(eredi aventi causa) e Tr.Re.Es. S.p.a. (curatore
fallimentare dott. comm. Ra.Si.)", così come individuati
nel citato accordo del 07.09.2010, all'art. 7, di
provvedere, nella qualità di coobbligati in solido e a tutti
i titolari di diritti reali o personali o di godimento
sull'area, a proprie spese e cura, nel termine di gg. 8
(otto), al completamento della pavimentazione/asfaltatura di
via Fiei;
...
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
1.2.- Vale, in premessa ed in termini generali, rammentare
come i rigorosi presupposti per il legittimo esercizio del
potere di adottare –nella specie, da parte del Sindaco,
sulla base degli artt. 50 e 54 del T.U.E.L.– ordinanze di
necessità volta a volta finalizzate alla salvaguardia di
rilevanti interessi pubblici legati all’igiene ed alla
sicurezza della collettività, sono rappresentati:
a) dalla straordinarietà (intesa come difetto di tipici e nominati
atti preordinati, anche in contesti necessitati, alla
gestione degli interessi coinvolti);
b) dell’urgenza (intesa come impossibilità di differire, senza
pericolo di compromissione di quegli interessi, l’azione
amministrativa, con il ricorso alle ordinarie tempistiche);
c) dell’imprevedibilità delle situazioni di pericolo;
d) della contingibilità (che connota l’urgente necessità quale
accidentale, provvisoria ed improvvisa.
Il difetto dell’uno o dell’altro di tali requisiti appare
idoneo a compromettere (anche in relazione alla normale
distribuzione delle attribuzioni competenziali) il superiore
principio di legalità dell’azione amministrativa (art. 1 l.
n. 241/1990), prefigurando l’uso sviato di poteri per
definizione extra ordinem e, come tali, assoggettati
ad un rigoroso e stretto scrutinio di necessità.
1.3.- Orbene, nel caso di specie –sia pure evocando
generiche e non meglio qualificate ragioni di salvaguardia
della igiene e della sicurezza pubblica, in tesi compromesse
dalla mancato completamento del manto stradale in zona
effettivamente urbanizzata ed interessata da traffico
importante– l’Amministrazione appare essersi risolta, di
fatto, ad ingiungere alla parte ricorrente l’urgente ed
immediata ottemperanza alle obbligazioni a suo tempo
assunte, quanto al rifacimento ed alla ripavimentazione del
manto stradale, in sede di stipula della convenzione di
lottizzazione e con la scrittura convenuta inter partes
in data 07.08.2010.
Appare evidente, cioè, che l’adempimento degli obblighi
convenzionali avrebbe potuto (e dovuto) essere conseguito
(trattandosi, per giunta, di situazione non eccezionale né
imprevedibile, in quanto –alla luce della documentazione
versata in atti– da tempo nota alle parti, che ne avevano,
tra l’altro, fatto oggetto di reiterate iniziative
compositive) mediante gli strumenti ordinari di azione
amministrativa e non già con l’attivazione dei poteri
extra ordinem.
1.4.- Per tal via, il ricorso deve essere accolto
(discendendone la consequenziale illegittimità anche degli
atti pedissequamente preordinati alla esecuzione in danno, i
cui profili patrimoniali dovranno essere apprezzati in sede
di complessivo apprezzamento della vicenda relativa alla
lottizzazione convenzionata)
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 21.08.2017 n. 1304 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Anche
in relazione ai procedimenti ad evidenza pubblica per
l’affidamento di lavori, servizi e forniture,
l’amministrazione conserva il potere di annullare il bando,
le singole operazioni di gara e lo stesso provvedimento di
aggiudicazione, ancorché definitivo, in presenza di gravi
vizi dell’intera procedura, dovendo tener conto delle
preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse.
Più volte è stato ribadito che, anche se nei contratti della
pubblica amministrazione l’aggiudicazione, quale atto
conclusivo del procedimento di scelta del contraente, segna
normalmente il momento dell’incontro delle volontà
dell’amministrazione e del privato in ordine alla
conclusione del contratto (volontà che per quanto riguarda
la posizione dell’amministrazione si è manifestata con la
individuazione dell’offerta ritenuta migliore), non è
tuttavia precluso all’amministrazione di procedere con
successivo atto (e con un richiamo ad un preciso e concreto
interesse pubblico) all’annullamento d’ufficio
dell’aggiudicazione.
Tale potere di autotutela trova fondamento nei principi di
legalità, imparzialità e buon andamento, cui deve essere
improntata l’attività della pubblica amministrazione, ai
sensi dell’articolo 97 Cost., in attuazione dei quali
l’amministrazione deve adottare atti il più possibile
rispondenti ai fini da conseguire; fermo l’obbligo
nell’esercizio di tale potere, anche in considerazione del
legittimo affidamento eventualmente ingeneratosi nel
privato, di rendere effettive le garanzie procedimentali, di
fornire un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni che
giustificano la differente determinazione e di una ponderata
valutazione degli interessi, pubblici e privati, in gioco.
Pertanto, il provvedimento di aggiudicazione definitiva non
costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile
al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che
all’annullamento degli atti amministrativi che ne
costituiscono il presupposto.
---------------
Quanto alla verifica in concreto del potere esercitato
dall’amministrazione con i provvedimenti emessi in
autotutela ed impugnati, deve osservarsi che, sempre secondo
il già ricordato consolidato indirizzo giurisprudenziale, in
linea generale, la legittimità di un provvedimento di
autotutela è subordinata, oltre che alla comunicazione di
avvio del procedimento, anche ad una adeguata motivazione
circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi, la
sussistenza di un interesse pubblico attuale alla sua
eliminazione (che non può ridursi all’esigenza del mero
ripristino della legalità violata), la comparazione tra
quest’ultimo e la contrapposta posizione consolidata
dell’aggiudicatario e la ragionevole durata del tempo
intercorso tra l’atto illegittimo e la sua rimozione.
---------------
11. In generale, è opportuno premettere che, secondo un
consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è
motivo per discostarsi, anche in relazione ai procedimenti
ad evidenza pubblica per l’affidamento di lavori, servizi e
forniture, l’amministrazione conserva il potere di annullare
il bando, le singole operazioni di gara e lo stesso
provvedimento di aggiudicazione, ancorché definitivo, in
presenza di gravi vizi dell’intera procedura, dovendo tener
conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico
interesse (tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, n. 8554 del
2010, sez. V, n. 7273 del 2010; sez. IV, n. 5374 del 2006).
Più volte è stato ribadito che, anche se nei contratti della
pubblica amministrazione l’aggiudicazione, quale atto
conclusivo del procedimento di scelta del contraente, segna
normalmente il momento dell’incontro delle volontà
dell’amministrazione e del privato in ordine alla
conclusione del contratto (volontà che per quanto riguarda
la posizione dell’amministrazione si è manifestata con la
individuazione dell’offerta ritenuta migliore), non è
tuttavia precluso all’amministrazione di procedere con
successivo atto (e con un richiamo ad un preciso e concreto
interesse pubblico) all’annullamento d’ufficio
dell’aggiudicazione. Tale potere di autotutela trova
fondamento nei principi di legalità, imparzialità e buon
andamento, cui deve essere improntata l’attività della
pubblica amministrazione, ai sensi dell’articolo 97 Cost.,
in attuazione dei quali l’amministrazione deve adottare atti
il più possibile rispondenti ai fini da conseguire; fermo
l’obbligo nell’esercizio di tale potere, anche in
considerazione del legittimo affidamento eventualmente
ingeneratosi nel privato, di rendere effettive le garanzie
procedimentali, di fornire un’adeguata motivazione in ordine
alle ragioni che giustificano la differente determinazione e
di una ponderata valutazione degli interessi, pubblici e
privati, in gioco (Cons. Stato, sez. V, n. 11 del 2011; sez.
VI, n. 4864 del 2010; sez. IV, n. 6456 del 2006).
Pertanto, il provvedimento di aggiudicazione definitiva non
costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile
al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che
all’annullamento degli atti amministrativi che ne
costituiscono il presupposto
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.08.2017 n. 4027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Quanto alla verifica in concreto del potere esercitato
dall’amministrazione con i provvedimenti emessi in
autotutela ed impugnati, deve osservarsi che, sempre secondo
il già ricordato consolidato indirizzo giurisprudenziale, in
linea generale, la legittimità di un provvedimento di
autotutela è subordinata, oltre che alla comunicazione di
avvio del procedimento, anche ad una adeguata motivazione
circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi, la
sussistenza di un interesse pubblico attuale alla sua
eliminazione (che non può ridursi all’esigenza del mero
ripristino della legalità violata), la comparazione tra
quest’ultimo e la contrapposta posizione consolidata
dell’aggiudicatario e la ragionevole durata del tempo
intercorso tra l’atto illegittimo e la sua rimozione.
---------------
11.1. Quanto alla verifica in concreto del potere esercitato
dall’amministrazione con i provvedimenti emessi in
autotutela ed impugnati, deve osservarsi che, sempre secondo
il già ricordato consolidato indirizzo giurisprudenziale, in
linea generale, la legittimità di un provvedimento di
autotutela è subordinata, oltre che alla comunicazione di
avvio del procedimento, anche ad una adeguata motivazione
circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi, la
sussistenza di un interesse pubblico attuale alla sua
eliminazione (che non può ridursi all’esigenza del mero
ripristino della legalità violata, Cons. Stato, n. 7125 del
2010), la comparazione tra quest’ultimo e la contrapposta
posizione consolidata dell’aggiudicatario e la ragionevole
durata del tempo intercorso tra l’atto illegittimo e la sua
rimozione (tra le tante, Cons. Stato, sez. V, n. 7273 del
2010; sez. VI, n. 2178 del 2010; su tutti questi profili,
sez. V, n. 5032 del 2011)
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 17.08.2017 n. 4027 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Se
è innegabile che qualunque struttura sia utile a sostenere
quella sovrastante, risulta parimenti evidente che il citato
art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 subordina il
mantenimento dell’opera abusiva, ferma l’applicazione della
sanzione pecuniaria, alla condizione che la rimozione
dell’intervento pregiudichi la stabilità della porzione di
fabbricato legittimamente costruita.
---------------
Il citato art. 34 va interpretato, in modo coerente con la
valenza derogatoria della disposizione rispetto alla regola
generale della demolizione degli interventi e delle opere
realizzati ”in difformità”, nel senso che la sanzione
pecuniaria si applica soltanto se sia oggettivamente
impossibile procedere alla demolizione.
Affinché possa trovare applicazione la sanzione pecuniaria
deve risultare cioè in modo inequivoco che la demolizione,
per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla
stabilità dell'edificio nel suo complesso: la sanzione
pecuniaria prevista dal secondo comma dell’art. 34 del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 per gli interventi in parziale
difformità dal titolo edilizio deroga alla regola generale
della demolizione negli illeciti edilizi prevista dal primo
comma: è perciò applicabile solo quando sia «oggettivamente
impossibile» procedere alla demolizione delle parti difformi
senza incidere, per le sue conseguenze materiali, sulla
stabilità dell’intero edificio.
---------------
Al riguardo è corretto, come osserva il Comune appellato,
per avvalorare la difendibilità della scelta di non disporre
una verificazione o una CTU, che in questa situazione la CTU
o la verificazione sarebbero state un aggravamento
istruttorio inutile, posto che le perizie prodotte dai
ricorrenti non avevano in effetti accertato che la rimozione
della chiusura al primo piano avrebbe pregiudicato la parte
del fabbricato realizzata legittimamente, ma solo che tale
chiusura esercitava un effetto benefico (un contributo
migliorativo al comportamento dinamico della porzione di
edificio legittima), senza però che della permanenza di tale
chiusura si attestasse la necessità in termini strutturali.
Ora, se è innegabile che qualunque struttura sia utile a
sostenere quella sovrastante, risulta parimenti evidente che
il citato art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001
subordina il mantenimento dell’opera abusiva, ferma
l’applicazione della sanzione pecuniaria, alla condizione
che la rimozione dell’intervento pregiudichi la stabilità
della porzione di fabbricato legittimamente costruita.
In definitiva, la valutazione compiuta in via amministrativa
in ordine alla insussistenza dei presupposti per ammettere
la proprietà al pagamento della sanzione pecuniaria in luogo
della eliminazione della volumetria abusiva risulta essere
stata formulata in maniera motivata e non irragionevole, e
l’apprezzamento del primo giudice in ordine alla non
ammissione della CTU o della verificazione risulta non
irragionevolmente esercitato.
Del resto, il citato art. 34 va interpretato, in modo
coerente con la valenza derogatoria della disposizione
rispetto alla regola generale della demolizione degli
interventi e delle opere realizzati ”in difformità”,
nel senso che la sanzione pecuniaria si applica soltanto se
sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Affinché possa trovare applicazione la sanzione pecuniaria
deve risultare cioè in modo inequivoco che la demolizione,
per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla
stabilità dell'edificio nel suo complesso: la sanzione
pecuniaria prevista dal secondo comma dell’art. 34 del
d.P.R. 06.06.2001 n. 380 per gli interventi in parziale
difformità dal titolo edilizio deroga alla regola generale
della demolizione negli illeciti edilizi prevista dal primo
comma: è perciò applicabile solo quando sia «oggettivamente
impossibile» procedere alla demolizione delle parti
difformi senza incidere, per le sue conseguenze materiali,
sulla stabilità dell’intero edificio (ex plurimis,
Cons. Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1484; Sez. VI,
09.04.2013 n. 1912)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 16.08.2017 n. 4013 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
VARI:
Alla Corte costituzionale lo scioglimento del Corpo
Forestale dello Stato e l’assorbimento del suo personale
nell’Arma dei Carabinieri e nelle altre Forze di Polizia ad
ordinamento militare.
---------------
Militari, Forze armate e di polizia – Corpo forestale
dello Stato – Soppressione e assorbimento del personale
nell’Arma dei Carabinieri e nelle altre Forze di Polizia ad
ordinamento militare – Art. 8, lett. a, l. n. 124 del 2015 e
7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19, d.lgs. n.
177 del 2016 – Violazione artt. 2, 3, commi 1 e 2, 4, 9, 32,
76, 77, comma 1, e 81 Cost. – Rilevanza e non manifesta
infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 8, lett. a), l. 07.08.2015, n. 124, per contrasto
con gli artt. 3, commi 1 e 2, 9, 32, 76, 77, comma 1, e 81
Cost. e degli artt. 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17,
18 e 19, d.lgs. 19.08.2016, n. 177, nella parte in cui hanno
disposto lo scioglimento del Corpo Forestale dello Stato e
l’assorbimento del suo personale nell’Arma dei Carabinieri e
nelle altre Forze di Polizia ad ordinamento militare, per
contrasto con gli artt. 2, 3, commi 1 e 2, 4, 76 e 77, comma
1, Cost. (1).
---------------
(1) Ha preliminarmente ricordato il Tar che ai sensi dell’art. 8,
lett. a), l. 07.08.2015, n. 124 (c.d. Riforma Madia) il
Governo era delegato a provvedere alla riorganizzazione del
Corpo forestale dello Stato ed eventuale assorbimento del
medesimo in altra Forza di polizia salvaguardando le
professionalità esistenti, le specialità e l'unitarietà
delle funzioni da attribuire, assicurando la necessaria
corrispondenza tra le funzioni trasferite e il transito del
relativo personale. Il Governo ha attuato tale delega
disponendo l’assorbimento del Corpo Forestale nell’Arma dei
Carabinieri, facendo confluire in quest’ultima quasi tutte
le sue funzioni e il personale a esse preposto.
La riforma si pone, ad avviso del Tar, in violazione di
numerosi principi costituzionali.
Quanto alla disciplina dell’assorbimento, il Tar ha chiarito
che ai sensi dell’art. 12, d.lgs. 19.08.2016, n. 177, il
personale assegnato all’Arma dei Carabinieri (o ad altra
forza di polizia o al Ministero delle politiche agricole),
se rinuncia, di fatto, a tale assegnazione si espone a
procedure di mobilità e al collocamento in disponibilità,
quindi ad un sicuro peggioramento delle condizioni
giuridiche ed economiche del rapporto di lavoro e a una
possibile estinzione dello stesso, previa collocazione in
disponibilità per 24 mesi. È quindi evidente la ragione per
cui ben pochi hanno alla fine deciso di non “accettare”
il transito nella Forza di Polizia per essi designata, e nel
caso dei Carabinieri e della Guardia di Finanza anche la
modifica della condizione, da civile a militare.
La “scelta” della gran parte del personale di non
tentare l’insidiosa e incerta strada della mobilità non
appare pertanto frutto di volontà libera da coazione, quanto
piuttosto dal desiderio di non mettere a rischio la propria
professionalità (ricollocarsi in altra Amministrazione di
diversa natura e con diverse mansioni rispetto al comparto
sicurezza), oltre in generale le proprie condizioni
lavorative ed economiche, e quindi indirettamente anche
familiari.
Sotto tale profilo appare quindi violato l’art. 2 Cost.,
perché non è stato rispettato il principio di
autodeterminazione del personale del Corpo Forestale nel
consentire le limitazioni, all’esercizio di alcuni diritti
costituzionali, derivanti dall’assunzione non pienamente
volontaria dello status di militare, e l’art. 4 Cost.,
perché il rapporto di impiego e di servizio appare
radicalmente mutato con l’assunzione dello status di
militare, pur in mancanza di una scelta pienamente libera e
volontaria da parte del medesimo personale del Corpo
Forestale.
Ha aggiunto il Tar che la mancata previsione della facoltà
di scelta, nel senso di poter mantenere il precedente stato
(militare o civile che sia) senza dover rinunciare
all’esercizio delle precedenti funzioni di polizia, quindi
la mancata previsione della possibilità di poter comunque
scegliere di transitare in altra Forza di Polizia con il
medesimo ordinamento, connota sotto ulteriore profilo
l’illegittimità costituzionale del decreto delegato per
violazione degli artt. 76 e 77 Cost., laddove il Governo,
nell’interpretare i principi e criteri direttivi, non ha
optato per un’attuazione conforme anche a tale tradizione
normativa (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 340 del
2007), ma ha scelto la militarizzazione obbligatoria e non
solo facoltativa del personale del Corpo Forestale (ove
destinato alla Guardia di Finanza o all’Arma dei
Carabinieri), salva la rinuncia di quest’ultimo
all’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, e
peraltro per contingenti assai limitati per la mobilità
verso altre Amministrazioni civili.
Ha ancora rilevato il Tribunale che la scelta del Governo
non si presenta neanche razionale, con conseguente
violazione dell’art. 3, commi 1 e 2, Cost., atteso che la
militarizzazione, a fronte del notevole sacrificio imposto
al personale, non appare proporzionale allo scopo (cfr.
Corte costituzionale, sentenza n. 223 del 2012) del
mantenimento dell’efficienza che al Corpo è sempre stata
riconosciuta. Sicché appare evidente come tale “militarizzazione”
si ponga quantomeno in controtendenza rispetto alla
legislazione preesistente sia in senso generale con riguardo
alle altre Forze del comparto sicurezza sia in particolare
con riguardo allo stesso Corpo Forestale dello Stato, il cui
ordinamento civile, sul piano dell’efficienza, era stata
confermata dal legislatore poco più di un decennio fa, con
la l. 06.02.2004, n. 36.
E, come noto, secondo la Corte costituzionale (sentenza n.
340 del 2007), il legislatore delegato non può mai, non solo
derogare ai principi ispiratori della delega, ma neanche
porsi in contrasto con la tradizione precedente, dettando
arbitrariamente principi innovativi, atteso che, per quanta
ampiezza possa a questo riconoscersi, il libero
apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere
a principio o a criterio direttivo, in quanto agli antipodi
di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la
legislazione su delega.
La riforma appare incostituzionale, per violazione degli
artt. 76 e 77, comma 1, Cost., anche nella parte in cui si è
scelto di assorbire il Corpo Forestale in una Forza di
polizia a ordinamento militare e non civile, cosi violando
in via diretta il contenuto della delega, che tra l’altro
imponeva la salvaguardia delle peculiarità ordinamentali e
la facoltà di scelta per il personale ai fini del transito
in altre Forze di polizia, ove ne derivasse un mutamento
della condizione da civile a militare.
Ancora, appare altresì violato l’art. 3, commi 1 e 2, Cost.,
laddove si è ritenuto semplicisticamente che l’assorbimento,
di un Corpo così specializzato, in altra Forza di polizia ad
ordinamento militare, con smembramento di alcune sue
funzioni in altre Forze di polizia e nei Vigili del Fuoco,
non possa creare alcuna diminuzione nella incontestata
efficienza assicurata e garantita dal Corpo medesimo a
tutela dei menzionati beni di rilevanza costituzionale; e
laddove si è inoltre ritenuto del tutto irragionevolmente
che tale smembramento dell’organizzazione e delle competenze
potesse condurre ad una razionalizzazione dei costi e ad una
semplificazione organizzativa, mantenendo gli stessi
standard qualitativi acquisiti in anni di storia (TAR
Abruzzo-Pescara,
ordinanza 16.08.2017 n. 235
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza costante, il ricorso
all'autotutela può avvenire solamente ricorrendo le
condizioni di cui alla appena citata norma ovvero
sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Sicché, il Collegio ritiene che l'annullamento d'ufficio di
una autorizzazione paesaggistica, indipendentemente dal tipo
di intervento che deve essere realizzato sul territorio,
richieda necessariamente un'espressa motivazione in ordine
all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino
dello status quo ante, preminente su quello privato alla
conservazione del provvedimento, che giustifichi il ricorso
al potere di autotutela della pubblica amministrazione,
entro un termine ragionevole, non essendo sufficiente
l'intento di operare un mero astratto ripristino della
legalità violata.
--------------
5. – Dalla documentazione acquisita in giudizio emerge che
la Sovrintendenza con nota 11770 del 16.04.2014 aveva
espresso parere favorevole alla installazione dei due
cartelloni “non essendosi rilevati elementi avversi la
conformità e la compatibilità dei lavori di cui si tratta
(…)” (così, testualmente, nell’atto sopra richiamato e
depositato in giudizio).
Con la successiva nota qui impugnata del 04.01.2016,
adottata in seguito alla riapertura del procedimento,
provocato dalla nota che il Comune di Fiumicino, in data
07.09.2015, aveva trasmesso alla Soprintendenza chiedendo un
ulteriore approfondimento istruttorio ed al preavviso di
diniego di cui alla nota del 03.11.2015, la Soprintendenza
ribaltava totalmente il precedente avviso favorevole
specificando testualmente che:
- il luogo oggetto dell’intervento di installazione di
cartellonistica pubblicitaria su strada di cui alla
richiesta di autorizzazione si colloca “in una zona
sottoposta a tutela paesaggistica, in un punto di grande
visibilità”;
- “la proposta è risultata non compatibile, in quanto propone la
messa in opera di due strutture per insegna pubblicitaria di
ampia dimensione, collocate su suolo pubblico in un'area
che, pur vulnerata dalla presenza diffusa di un'edificazione
disomogenea e di scarsa qualità, presenta ancora visuali
sufficientemente libere da interferenze visive”;
- l'installazione in esame, ove realizzata, a causa delle sue
dimensioni e della tipologia di forme e materiali scelti,
causerebbe un disturbo percepibile dei valori paesaggistici
tutelati, che si aggiungerebbe al disordine esistente, in
contrasto con le finalità di miglioramento della qualità
paesaggistica indicate dalla normativa di tutela vigente.
La Sovrintendenza poi, nel corpo del medesimo atto rilevava
(sempre testualmente) come “nelle osservazioni prodotte,
la richiedente cita l'autorizzazione ottenuta da questo
Ufficio per altre due installazioni simili. Tale
argomentazione, non può essere assunta come parametro ai
fini della autorizzazione di "compatibilità paesaggistica"
di competenza di questo Ufficio ai sensi dell'art. 146, co.
8, del D.lgsl. 42/2004. Come già asserito nel preavviso di
diniego espresso da questa Soprintendenza con la nota citata
a margine, l'art. 153 del Codice riguarda esclusivamente le
installazioni pubblicitarie, che per loro natura sono
considerate dalla normativa paesaggistica, pertanto, in via
di principio generale come elementi di forte disturbo dei
valori paesaggistici ("il paesaggio è l'ambiente nel suo
aspetto visivo", vv. sentenza C. Cost. n. 367/2007).
Pertanto, per quanto attiene gli aspetti strettamente
paesaggistici (vv. sentenza Cons. Stato n. 3652/2015), si
ritiene che il permanere, e/o il proliferare di simili
installazioni in zone che, essendo sottoposte a tutela
paesaggistica ai sensi dell'art. 9 della Costituzione,
necessitano di particolare attenzione, a causa dell'aspetto
intrusivo di tali manufatti è da considerarsi non solo non
accettabile ma censurabile”.
Concludeva la Sovrintendenza la motivazione della decisione
sfavorevole segnalando al Comune di Fiumicino che, “si
rimanda l'autorizzazione eventuale di strutture
pubblicitarie, ove possibile, ad una fase successiva alla
rivisitazione della normativa comunale di riferimento
attualmente in vigore, normativa che è comunque sempre
subordinata a quella paesaggistica”.
6. – Pare evidente, dalla semplice lettura della motivazione
dell’atto qui impugnato con il ricorso introduttivo, che il
revirement della Soprintendenza non è accompagnato da
alcun espressa divulgazione delle ragioni tecnico-giuridiche
che hanno imposto la rivalutazione della compatibilità
paesaggistica dell’installazione della cartellonistica
stradale né –e ciò è ancora meno comprensibile– delle
ragioni che hanno indotto gli uffici in un primo tempo a
rilasciare con nettezza e senza oscillazioni il nulla osta
alla installazione per poi, ad una distanza temporale
inferiore a due anni, mutare totalmente avviso con
riferimento all’identico contesto paesaggistico ambientale
rispetto al quale la installazione non avrebbe avuto,
secondo il primo parere, nessun impatto pregiudizievole per
i valori da proteggere nell’area interessata.
Peraltro tale contraddizione non risolta da una adeguata
motivazione era stata già sottolineata dalla odierna
ricorrente all’epoca dell’invio delle controdeduzioni al
preavviso di diniego del 03.11.2015, ma la Soprintendenza
non ha ritenuto, neppure nella parte del provvedimento di
diniego nel quale mostra di esprimere una risposta alle
controdeduzioni, di fornire riferimenti più puntuali in
merito, limitandosi, per vero in modo piuttosto
semplicistico, ad affermare come il riferimento segnalato
nelle controdeduzioni all’autorizzazione ottenuta dalla
società per altre due installazioni simili costituisce “argomentazione
(che n.d.r.) non può essere assunta come parametro ai fini
della autorizzazione di "compatibilità paesaggistica" di
competenza di questo Ufficio”.
7. – Sotto altro versante va poi rilevato che il
provvedimento della Soprintendenza costituisce un diniego di
autorizzazione paesaggistica frutto dell’esercizio del
potere attribuito al ridetto ente dall’art. 146 del d.lgs.
22.01.2004, n. 42.
Il legislatore ha concepito l’intero procedimento ed il
provvedimento conclusivo dello stesso come un autonomo
procedimento amministrativo indipendente rispetto “al
permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti
l'intervento urbanistico-edilizio” (così, testualmente,
al comma 4).
Orbene risulta agli atti che la Soprintendenza aveva già
esercitato tale potere, concludendo il relativo procedimento
con l’autorizzazione di cui alla nota n. 11770 del
16.04.2014, esprimendo parere favorevole alla installazione
dei due cartelloni. Ne deriva che il nuovo provvedimento
adottato il 04.01.2016 costituisce una duplicazione
dell’esercizio dello stesso potere (già esercitato) senza
che mai, neppure nel provvedimento qui impugnato, la
Soprintendenza abbia posto nel nulla il precedente atto
secondo le coordinate della disciplina legislativa degli
atti di ritiro, vale a dire nel rispetto degli artt.
21-quinquies e 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241.
Posto che non appare francamente revocabile in dubbio che il
provvedimento del 04.01.2016 contenga un implicito
annullamento del precedente avviso favorevole del
18.04.2014, posto che lo supera nei fatti e sotto il profilo
giuridico ponendolo nel nulla, nell’adottarlo la
Soprintendenza avrebbe dovuto rispettare le prescrizioni
dettate per l’adozione degli atti di ritiro dall’art.
21-nonies l. 241/1990.
Infatti, per giurisprudenza costante, il ricorso
all'autotutela può avvenire solamente ricorrendo le
condizioni di cui alla appena citata norma ovvero
sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati.
Il Collegio, condividendo l'orientamento giurisprudenziale
anche di questa Sezione, ritiene che l'annullamento
d'ufficio di una autorizzazione paesaggistica,
indipendentemente dal tipo di intervento che deve essere
realizzato sul territorio, richieda necessariamente
un'espressa motivazione in ordine all'interesse pubblico
concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante,
preminente su quello privato alla conservazione del
provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di
autotutela della pubblica amministrazione, entro un termine
ragionevole, non essendo sufficiente l'intento di operare un
mero astratto ripristino della legalità violata (cfr., in
termini, Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015 n. 2123 e
20.09.2012 n. 4997 nonché TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
13.08.2015 n. 1896 e TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
03.02.2015 n. 654).
8. – Ad avviso del Collegio, quindi, sono fondate le censure
con le quali la Un. contesta la contraddittorietà del
comportamento mantenuto dalla Soprintendenza rispetto al
precedente parere espresso in senso favorevole alla
installazione, del quale non ha tenuto in adeguato conto
nella motivazione dell’atto di diniego qui impugnato con il
ricorso introduttivo nonché i profili di doglianza che
attengono ad una non corretta applicazione della disciplina
regolatrice gli atti di ritiro. Il rilievo delle doglianze
accolte, nel palinsesto di legittimità dell’atto impugnato,
provoca la irrilevanza dello scrutinio degli ulteriori
motivi di gravame dedotti.
La fondatezza dei suindicati motivi di censura provoca,
inevitabilmente, l’accoglimento anche del ricorso recante
motivi aggiunti con il quale veniva impugnato, anche per
illegittimità derivata, il provvedimento comunale
conseguente che, traendo forza giuridica dal parere
sfavorevole della Soprintendenza alla installazione dei due
cartelloni, negava il rilascio della relativa autorizzazione
comunale
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.08.2017 n. 9297 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Come è noto, per giurisprudenza costante, va
distinto l’interesse di fatto del vicino, del proprietario
dell’immobile nel quale sarebbero stati realizzati abusi
edilizi, acché tali opere abusive siano eliminate, rispetto
all’interesse dello stesso ad essere presente nel giudizio
proposto nei confronti dell’ordinanza di demolizione in
qualità di parte necessaria del processo nella veste di
controinteressato, tanto da doversi ritenere inammissibile
il gravame proposto senza che sia stato notificato al vicino
(o, comunque, a colui che ha denunciato la costruzione di
opere abusive al competente Comune).
Si afferma in proposito, infatti, che:
- la qualità di controinteressato, cui il ricorso giurisdizionale
dev'essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia
un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il
provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca
conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto
che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed
immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria
sfera giuridica.
Siffatto riconoscimento opera non in relazione ad esigenze
processuali, ma dev'essere condotto sulla scorta o del c.d.
elemento sostanziale (individuazione della titolarità di un
interesse analogo e contrario alla posizione legittimante
del ricorrente), oppure del c.d. elemento formale
(indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne
abbia un interesse qualificato alla conservazione); in
conformità a ciò, il proprietario finitimo di un fabbricato,
in ordine al quale sia stata ordinata la demolizione di una
scala interna, non riveste una posizione giuridica di contro
interesse nel giudizio instaurato per l'annullamento
dell'ordinanza;
- pertanto, nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non
sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali
sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso
in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso
deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia
un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il
provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal
provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e
immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera
giuridica;
- se ne può dunque concludere che nell'impugnazione di un diniego
di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione
non sono normalmente configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario instaurare un
contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la
posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo
dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione
l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità
di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato,
va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche
legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e
tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o
riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica.
Pertanto, in ragione di quanto sopra, se è vero che la
qualità di controinteressato in senso formale e quindi di
contraddittore necessario nel processo amministrativo
impugnatorio va riconosciuta al soggetto che dal
provvedimento impugnato riceva una concreta e diretta
utilità giuridica e abbia pertanto un qualificato interesse
a mantenere nel proprio patrimonio tale utilità, il vicino o
il denunciante l’abuso edilizio, pur essendo stato coinvolto
in processi aventi ad oggetto l’impugnazione di un pregresso
permesso di costruire ovvero di una ordinanza di demolizione
e pur avendo un indiscutibile interesse a opporsi a
trasformazioni urbanistiche sul suolo che non siano
legittime, non è destinatario in forza dell'ordinanza di
demolizione impugnata di alcuna diretta utilità giuridica.
In altri termini il vantaggio che il vicino o il denunciante
riceve dalla eventuale reiezione del ricorso avverso
l’ordinanza di ingiunzione a demolire le opere abusive è
indiretto e mediato e, se ciò lo legittima senz'altro a
intervenire nel processo, non gli conferisce la qualità di
controinteressato in senso formale, cioè di (unico)
contraddittore, da cui discenderebbe, non essendo stato
chiamato in giudizio, la declaratoria di inammissibilità del
ricorso.
---------------
9. – Va anzitutto scrutinata l’eccezione preliminare
sollevata dalla parte intervenuta ad opponendum che
sostiene la inammissibilità del ricorso perché alla stessa
non notificaoa nella qualità di controinteressato.
L’eccezione non ha pregio.
Come è noto, per giurisprudenza costante, va distinto
l’interesse di fatto del vicino, del proprietario
dell’immobile nel quale sarebbero stati realizzati abusi
edilizi, acché tali opere abusive siano eliminate, rispetto
all’interesse dello stesso ad essere presente nel giudizio
proposto nei confronti dell’ordinanza di demolizione in
qualità di parte necessaria del processo nella veste di
controinteressato, tanto da doversi ritenere inammissibile
il gravame proposto senza che sia stato notificato al vicino
(o, comunque, a colui che ha denunciato la costruzione di
opere abusive al competente Comune).
Si afferma in proposito, infatti, che:
- la qualità di controinteressato, cui il ricorso giurisdizionale
dev'essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia
un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il
provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca
conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto
che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed
immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria
sfera giuridica. Siffatto riconoscimento opera non in
relazione ad esigenze processuali, ma dev'essere condotto
sulla scorta o del c.d. elemento sostanziale (individuazione
della titolarità di un interesse analogo e contrario alla
posizione legittimante del ricorrente), oppure del c.d.
elemento formale (indicazione nominativa nel provvedimento
di colui che ne abbia un interesse qualificato alla
conservazione); in conformità a ciò, il proprietario
finitimo di un fabbricato, in ordine al quale sia stata
ordinata la demolizione di una scala interna, non riveste
una posizione giuridica di contro interesse nel giudizio
instaurato per l'annullamento dell'ordinanza (così Cons.
Stato, Sez. V, 03.07.1995 n. 991);
- pertanto, nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non
sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali
sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso
in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe
per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed
anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare
all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso
deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia
un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il
provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca
conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal
provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e
immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera
giuridica (così, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2011 n. 3380);
- se ne può dunque concludere che nell'impugnazione di un diniego
di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione
non sono normalmente configurabili controinteressati nei
confronti dei quali sia necessario instaurare un
contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la
posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo
dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il
terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione
l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità
di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato,
va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche
legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e
tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o
riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un
vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento
della propria sfera giuridica (così, Cons. Stato, Sez. III,
12.12.2014 n. 6138).
Pertanto, in ragione di quanto sopra, se è vero che la
qualità di controinteressato in senso formale e quindi di
contraddittore necessario nel processo amministrativo
impugnatorio va riconosciuta al soggetto che dal
provvedimento impugnato riceva una concreta e diretta
utilità giuridica e abbia pertanto un qualificato interesse
a mantenere nel proprio patrimonio tale utilità, il vicino o
il denunciante l’abuso edilizio, pur essendo stato coinvolto
in processi aventi ad oggetto l’impugnazione di un pregresso
permesso di costruire ovvero di una ordinanza di demolizione
e pur avendo un indiscutibile interesse a opporsi a
trasformazioni urbanistiche sul suolo che non siano
legittime, non è destinatario in forza dell'ordinanza di
demolizione impugnata di alcuna diretta utilità giuridica.
In altri termini il vantaggio che il vicino o il denunciante
riceve dalla eventuale reiezione del ricorso avverso
l’ordinanza di ingiunzione a demolire le opere abusive è
indiretto e mediato e, se ciò lo legittima senz'altro a
intervenire nel processo, non gli conferisce la qualità di
controinteressato in senso formale, cioè di (unico)
contraddittore, da cui discenderebbe, non essendo stato
chiamato in giudizio, la declaratoria di inammissibilità del
ricorso (cfr., in tal senso, TAR Lazio, Latina, Sez. I,
11.01.2017 n. 12, TAR Marche, Sez. I, 11.12.2015 n. 871, TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. II, 09.12.2015 n. 1850, TAR
Campania Napoli, Sez. VI, 03.03.2015 n. 1356 e TAR Liguria,
Sez. I, 12.02.2015 n. 176).
Nel caso di specie, quindi, correttamente la Pe. ’90 non ha
notificato il ricorso introduttivo (che è dunque
ammissibile) al Signor Ca.Fe. e, altrettanto correttamente,
quest’ultimo è intervenuto in giudizio
ad
opponendum per
poter illustrare nel corso del processo le proprie ragioni e
valutazioni in ordine alla ammissibilità e fondatezza degli
atti di gravame
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.08.2017 n. 9294 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Secondo il diffusissimo orientamento
giurisprudenziale, il ricorso proposto contro l’atto di
accertamento dell’inottemperanza ad un ordine di demolizione
è inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto
endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle
operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale
non è attribuita la competenza all'adozione di atti di
amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale
atto di accertamento della competente autorità
amministrativa.
Tale atto endoprocedimentale è inidoneo a produrre alcun
effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale
viene incisa solo a seguito e per l'effetto dell'emanazione
del provvedimento conclusivo del procedimento
amministrativo, costituito dall'ordinanza di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale, unico atto contro cui è
possibile proporre impugnazione.
---------------
13. – Passando ora ad esaminare i due ulteriori gravami
proposti con ricorsi recanti entrambi motivi aggiunti, va
segnalato come con il primo dei due mezzi di impugnazione la
Pe. '90 ha chiesto l’annullamento dell’atto di accertamento
di inottemperanza all’ordine di demolizione n. 95/2015,
adottato dal Comune di Fiano Romano in data 11.04.2016 prot.
n. 11401.
Con tale atto gli uffici comunali, dopo aver nuovamente
ripercorso nella parte in premessa l’intera vicenda che, a
partire dal rilascio del permesso di costruire n. 36 del
19.06.2008, aveva condotto, attraverso le già note peripezie
giudiziarie, all’emanazione dell’ordinanza di demolizione n.
95 dell’01.10.2015, si limitavano:
1) a ricordare come “in data 05/04/2016 al prot. 10808 è stata
prodotta, dal Responsabile del Procedimento Geom. Br. Di
Gi., puntuale relazione (allegata al presente atto) relativa
al sopralluogo condotto in data 01/04/2016, dal quale si
evince con certezza che il fabbricato oggetto di ordinanza
95/2015, distinto in catasto, con l'area di sua stretta
pertinenza, al foglio 22, particella 1069, non è stato
demolito, e che si è accertato inoltre che l'immobile è
occupato da diverse famiglie”;
2) a dare atto di avere accertato “ai sensi dell'art. 15 della
L.R. 15/2008, l'inottemperanza all'Ordinanza n. 95 del
01/10/2015, attraverso la quale veniva disposta la
demolizione con ripristino dello stato dei luoghi del
fabbricato residenziale insistente sul terreno attualmente
distinto in catasto al foglio 22, particella 1069,
corrispondente alla superficie coperta del fabbricato stesso
ed all'area di sua stretta pertinenza con complessiva
consistenza pari a mq 800, constando il fabbricato di 13
appartamenti, ciascuno di consistenza tra 2,5 e 3 vani
catastali, disposti su 5 livelli fuori terra”;
3) ad avvisare che “tenuto conto dell'avvenuta ultimazione delle
opere e della presenza di vincolo paesaggistico, il presente
atto di accertamento dell'inottemperanza, previa notifica,
costituisce, ai sensi dell'art. 15, comma 3, della L.R.
15/2008, titolo per l'immissione nel possesso e per la
trascrizione nei registri immobiliari; l'acquisizione,
secondo quanto disposto dall'art. 15, comma 6, della L.R.
15/2008, avviene "... a favore dell'ente cui compete la
-vigilanza sull'osservanza del vincolo ..." "... che procede
alla demolizione delle opere abusive e al ripristino dello
stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso”;
4) e nel contempo ad “applicare alla Pe. '90 spa, valutata
l'entità delle opere, una sanzione pecuniaria pari a euro
18.000,00 (diciottomila/00) ai sensi dell'art. 15, c. 3,
L.R. 15/2008, il quale prevede che "... l'accertamento
dell'inottemperanza comporta, altresì, l'applicazione di una
sanzione pecuniaria da un minimo di 2 mila euro ad un
massimo di 20 mila euro, in relazione all'entità delle opere".
14. – Dei quattro punti sopra riprodotti, attraverso i quali
si è ritenuto di scomporre per comodità l’atto impugnato con
il primo ricorso recante motivi aggiunti dalla Pe. '90, i
primi tre attengono ad un ordinario accertamento di
inottemperanza all’ordine di ingiunzione a demolire n. 95
dell’01.10.2015 rispetto al quale va dichiarata la
inammissibilità del gravame.
Sul punto è sufficiente richiamare il diffusissimo
orientamento giurisprudenziale a mente del quale il ricorso
proposto contro l’atto di accertamento dell’inottemperanza
ad un ordine di demolizione è inammissibile, in quanto
avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia
meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla
polizia municipale alla quale non è attribuita la competenza
all'adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo
occorrendo un formale atto di accertamento della competente
autorità amministrativa.
Tale atto endoprocedimentale è inidoneo a produrre alcun
effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale
viene incisa solo a seguito e per l'effetto dell'emanazione
del provvedimento conclusivo del procedimento
amministrativo, costituito dall'ordinanza di acquisizione
gratuita al patrimonio comunale, unico atto contro cui è
possibile proporre impugnazione (cfr., tra le ultime, TAR
Campania, Napoli, Sez. III, 06.02.2017 n. 749, TAR Lazio,
Sez. I, 04.05.2016 n. 5123 e TAR Emilia Romagna-Bologna,
Sez. II, 13.05.2015 n. 458).
Ne deriva che in parte qua il primo ricorso recante
motivi aggiunti è inammissibile per originaria carenza di
interesse, in quanto prodotto avverso un verbale di
accertamento di ottemperanza che, in quanto atto
endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma
impugnazione
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 11.08.2017 n. 9294 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: Ai
sensi dell’art. 22, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241, gli atti
amministrativi soggetti all’accesso sono anche quelli
interni concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale, allo scopo di assicurare
l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa.
Di conseguenza, la nozione di documento amministrativo
ricomprende tutti gli atti trasmessi o, comunque, presi in
considerazione nell’ambito di un procedimento
amministrativo, ancorché di natura privatistica, purché
correlati ad un’attività amministrativa.
---------------
Com’è noto, l’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel
prevedere, immediatamente dopo l’individuazione a opera del
comma 6 delle fattispecie di documenti sottratti
all’accesso, che “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”, ha sancito la tendenziale
prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche sulle
antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica
o commerciale delle parti contro-interessate>>.
---------------
1.- Rilevato che:
- Eni S.p.A. è proprietaria di una raffineria nel Comune di
Taranto.
- in data 23.11.2017 essa richiedeva ad ARPA Puglia -
Dipartimento Provinciale di Taranto, nell’ambito di un
procedimento di verifica avente a oggetto gli scarichi della
raffineria medesima e avendo ricevuto una diffida da parte
del Ministero dell’Ambiente -di cui Eni chiedeva poi la
revoca e che, in ogni caso, impugnava davanti a questo
TAR con ricorso n. 1636/2016-, una serie di documenti
tecnici elaborati dall’Agenzia regionale durante l’analisi
dei campioni (e in specie: - Cromatogramma del bianco filtrato
per il parametro Fluoruri monitorato presso gli scarichi Eni
“UB” e “WR” al fine di verificare il protocollo di analisi
utilizzato (rif. RdP ARPA Puglia n. 1889-2016 e 1890-2016);
- Documentazione tecnico-analitica relativa ai controlli di
taratura al termine delle analisi (in accordo al paragrafo
7.2.1 del metodo APAT-IRSA 4020) effettuate per la
determinazione del parametro Fluoruri agli scarichi UB e WR
(rif. RdP ARPA Puglia n. 1889-2016 e 1890-2016);
- Documentazione tecnico-analitica, in accordo a quanto
previsto al paragrafo 5.3 del metodo “APAT-IRSA 4020”,
relativa al fattore di capacità, di efficienza, di
risoluzione e di asimmetria ottenuti per le analisi del
parametro Fluoruri effettuato presso gli Scarichi UB e WR
(rif. RdP ARPA Puglia n. 1889- 2016 e 1890-2016.);
- Documentazione tecnico-analitica relativa all’applicazione o
meno dei criteri previsti al paragrafo 7.1.2 del metodo
“APAT-IRSA 4020” sulla riproducibilità dei tempi di
ritenzione dei singoli analiti. Questo in relazione alla
presenza di eventuali interferenti, causa probabile degli
scostamenti tra i tempi di ritenzione dei picchi attribuiti
ai fluoruri nelle analisi dei campioni n. 1889-bis e
1890-bis e quello riscontrato nell’ultimo controllo, ovvero
nel Cromatogramma del campione standard “59 std an 3”,
analizzato immediatamente prima dei campioni incogniti;
- Documentazione tecnico-analitica di riscontro sull’utilizzo
di una eventuale fase stazionaria con maggiore capacità di
ritenzione, oppure sull’utilizzo di un eluente con una
minore forza ionica, nella determinazione del parametro
fluoruri negli scarichi UB e WR (rif. RdP ARPA Puglia n.
1889-2016 e 1890-2016); - Documentazione tecnico-analitica
sulla tipologia di cartuccia utilizzata per la filtrazione
dei Cloruri nei campioni analizzati, sulla eventuale
validazione della “modifica” al metodo utilizzato dall’ente
di Controllo, sulle motivazioni dei perché la modalità di
preparazione dei campioni non sia stata applicata anche alle
soluzioni di riferimento).
2.- Considerato che l’ARPA respingeva l’istanza -con la
determinazione impugnata- evidenziando che: “la
documentazione richiesta non è amministrativa né contiene
dati ambientali”.
3.- Osservato che l’interesse all’accesso in parola dev’essere
invece ricondotto alla situazione di allegata contestazione
da parte della ricorrente, in sede amministrativa e
giurisdizionale, delle analisi e delle conseguenti
valutazioni compiute dalle pp.aa. procedenti -mediante atti
dei quali non si vede perché negare la natura amministrativa
e l’attinenza a profili ambientali: ai sensi dell’art. 22,
comma 1, l. 07.08.1990, n. 241, gli atti amministrativi
soggetti all’accesso sono anche quelli interni concernenti
attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla
natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale, allo scopo di assicurare l’imparzialità e la
trasparenza dell’azione amministrativa; di conseguenza, la
nozione di documento amministrativo ricomprende tutti gli
atti trasmessi o, comunque, presi in considerazione
nell’ambito di un procedimento amministrativo, ancorché di
natura privatistica, purché correlati ad un’attività
amministrativa; da ultimo TAR Marche, I, 15.12.2016, n.
714 -rispetto ai campioni di acqua prelevati presso due
scarichi della raffineria di Taranto- situazione di
contestazione relativamente alla quale non compete a questo
Giudice, in fase di accesso, esprimere alcun giudizio,
dovendosi soltanto ‘registrare’, ai fini dell’accoglimento
del ricorso, l’obiettiva esistenza della medesima; l’essere
l’istanza ricollegabile a iniziative di tutela, anche
giudiziaria, della propria sfera giuridica, è difatti
circostanza in relazione alla quale il legislatore, all’art.
24 comma 7 della legge n. 241/1990, come novellato con legge
n. 15 dell’11.02.2005, ha disposto una indubbia
prevalenza sugli altri interessi coinvolti: <<Com’è noto,
d’altronde, l’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel
prevedere, immediatamente dopo l’individuazione a opera del
comma 6 delle fattispecie di documenti sottratti
all’accesso, che “deve comunque essere garantito ai
richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui
conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i
propri interessi giuridici”, ha sancito la tendenziale
prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche sulle
antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica
o commerciale delle parti contro-interessate>> (Tar
Puglia Lecce, II, 19.12.2016, n. 1919).
4.- Ritenuto che:
- deve dunque dichiararsi l’illegittimità del
rifiuto opposto dall’Amministrazione intimata all’istanza di
accesso e, conseguentemente, ordinarsi alla stessa di
esibire i documenti oggetto dell’istanza medesima, con
facoltà per la ricorrente di estrarre copia di quelli di
ritenuta utilità
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 10.08.2017 n. 1400 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale se in
gara ci sono più di due concorrenti.
---------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorso
principale e ricorso incidentale – Rapporto – Con più di due
concorrenti in gara – Individuazione.
Nel caso di accoglimento del ricorso
incidentale proposto per la mancata esclusione dalla gara,
alla quale hanno partecipato otto concorrenti, del
ricorrente principale persiste l’interesse di quest’ultimo
all’accoglimento della sua domanda di annullamento dei
provvedimenti di ammissione del ricorrente incidentale e di
aggiudicazione dell’appalto in favore di quest’ultimo (1).
---------------
(1) Il Tar richiama, a supporto delle conclusioni cui è pervenuto,
la sentenza del
Consiglio di Stato, sez. III, 26.08.2016, n. 3708,
nella quale è stata chiarita l’effettiva portata
conformativa del principio di diritto affermato nella nota
pronuncia della Corte di Giustizia UE 05.04.2016, C-689/13
(sentenza c.d. Puligienica), secondo il quale il diritto
dell’Unione «osta a che un ricorso principale proposto da
un offerente, il quale abbia interesse a ottenere
l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o
rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del
diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle
norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere
l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato
irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali
che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale
presentato dall’altro offerente».
Ha chiarito il giudice di appello che un’interpretazione del
richiamato principio di diritto che ammettesse sempre
l’obbligo dell’esame del ricorso principale, a prescindere
da qualsivoglia scrutinio in concreto della sussistenza di
un interesse (anche strumentale) alla sua decisione, deve
essere rifiutata “perché si rivelerebbe del tutto
incoerente sia con il richiamo, ivi operato, all’art. 1
della direttiva n. 89/665 CEE, quale norma che resterebbe
violata da una regola che preludesse l’esame del ricorso
principale, sia con il rispetto del principio generale, di
ordine processuale, codificato dall’art. 100 c.p.c. (e da
intendersi richiamato nel processo amministrativo dall’art.
39, comma 1, c.p.a.)”.
Ha aggiunto che il “principio, del tutto compatibile con
la formulazione della regola contenuta nella sentenza c.d.
Puligienica, per cui l’esame del ricorso principale (a
fronte della proposizione di un ricorso incidentale
“escludente”) è doveroso, a prescindere dal numero delle
imprese che hanno partecipato alla gara, quando
l’accoglimento dello stesso produce, come effetto
conformativo, un vantaggio, anche mediato e strumentale, per
il ricorrente principale, tale dovendosi intendere anche
quello al successivo riesame, in via di autotutela, delle
offerte affette dal medesimo vizio riscontrato con la
sentenza di accoglimento, mentre resta compatibile con il
diritto europeo sull’effettività della tutela in subiecta
materia una regola nazionale che impedisce l’esame del
ricorso principale nelle ipotesi in cui dal suo accoglimento
il ricorrente principale non ricavi, con assoluta certezza,
alcuna utilità (neanche in via mediata e strumentale)”.
Alla luce di tali principi di diritto il Tar ha ritenuto
–preso atto che il seggio di gara non aveva provveduto ad
escludere dalla gara le due concorrenti che hanno presentato
offerte tecniche affette da carenze progettuali così gravi
da configurare ipotesi di aliud pro alio- che non si
possa escludere “con assoluta certezza” che il seggio
di gara abbia assunto anche nei confronti degli altri
concorrenti inseriti nella graduatoria finale decisioni
parimenti illegittime.
Ha quindi concluso che persiste l’interesse della ricorrente
principale all’esame della sua domanda, quantomeno nei
limiti dell’interesse strumentale connesso al successivo
riesame da parte della stazione appaltante, in via di
autotutela, delle altre offerte al fine di verificare se le
stesse siano affette da vizi analoghi a quelli già
riscontrati con l’esame dei fatti di causa (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 08.08.2017 n. 252
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere realizzate in violazione della disciplina
antisismica e sulle opere in cemento armato - Efficacia
estintiva del permesso di costruire in sanatoria -
Esclusione - Artt. 44, lett. b), 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95
d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
L'efficacia estintiva del permesso di costruire in
sanatoria, deve escludersi per le opere realizzate in
violazione della disciplina antisismica e sulle opere in
cemento armato. Sul punto la giurisprudenza (Cass. Sez. 3,
n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino; Sez. 3, n. 19256 del
13/04/2005, Cupelli; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep.
1998), Agnesse) (Corte Cost. sent. 149 del 30/04/1999). Tali
esclusioni riguardano anche la disciplina delle opere in
cemento armato (Cass. Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna
A.; Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997 (dep. 1998), Casà G. ed
altre prec. conf.).
Intervento abusivo - Violazioni edilizie
e paesaggistiche - Valutazione della particolare tenuità.
Ai fini della valutazione della particolare tenuità del
fatto in tema di violazioni edilizie e paesaggistiche la
consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di
intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive)
costituisce solo uno dei parametri di valutazione, perché,
per ciò che riguarda gli aspetti urbanistici, in
particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali,
ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul
carico urbanistico.
Inoltre, altro indice sintomatico della non particolare
tenuità del fatto è rappresentato dalla contestuale
violazione di più disposizioni quale conseguenza
dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano
contestualmente violate, mediante la realizzazione
dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela
di interessi diversi (norme in materia di costruzioni in
zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del
paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione
delle aree demaniali) (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M.
in proc. Derossi; Conf. Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016,
Mancuso) (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.08.2017 n. 38953
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Natura di sottoprodotto di una sostanza
- Accertamento tramite prova testimoniale - Esclusione -
Natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina
ordinaria in tema di rifiuti - Onere della prova - Profilo
prettamente tecnico - Protezione della salute e
dell'ambiente - Artt. 184-bis e 256, c. 3 d.lgs. n. 152/2006
- Giurisprudenza.
La natura di sottoprodotto di una sostanza non è accertabile
tramite prova testimoniale. Il legislatore ha voluto
specificare in modo dettagliato quali siano le condizioni
perché un determinato residuo possa qualificarsi come
sottoprodotto e che la sussistenza delle condizioni indicate
debba essere contestuale, sicché, anche in mancanza di una
sola di esse, il residuo rimarrà soggetto alle disposizioni
sui rifiuti.
Inoltre, trattandosi, in tali casi di norme aventi natura
eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria
in tema di rifiuti, l'onere della prova circa la sussistenza
delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che
ne richiede l'applicazione (Sez. 3, n. 17453 del 17/4/2012,
Busè; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello; Sez. 3, n.
41836 del 30/09/2008, Castellano).
E' del tutto evidente che tale prova non può certo essere
fornita mediante mera testimonianza, atteso che l'art.
184-bis d.lgs. 152/2006 richiede condizioni specifiche che
devono essere adeguatamente documentate anche e sopratutto
sotto il profilo prettamente tecnico, involgendo, come è
noto, le caratteristiche del ciclo di produzione, il
successivo reimpiego, eventuali successivi trattamenti, la
presenza di caratteristiche atte a soddisfare, per
l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti
riguardanti i prodotti e la protezione della salute e
dell'ambiente e l'assenza di impatti complessivi negativi
sull'ambiente o la salute umana (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.08.2017 n. 38950
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Scarichi e
autorizzazioni - Assimilazione di determinate acque reflue
alle acque reflue domestiche - Azienda vinicola - Artt. 101,
c. 7, 137, c. 1, d.lgs. n. 152/2006.
Ai fini della disciplina degli scarichi e delle
autorizzazioni, l'assimilazione di determinate acque reflue
alle acque reflue domestiche deve ritenersi subordinata alla
prova della esistenza delle condizioni individuate dalle
leggi che la prevedono, restando applicabili, in difetto, le
regole ordinarie. Fattispecie: un'azienda vinicola,
effettuava lo scarico non autorizzato in pubblica fognatura
di acque reflue industriali derivanti da attività di
cantina.
INQUINAMENTO IDRICO - Nozione di scarico
- Immissione discontinua o occasionale - Irrilevanza - Nesso
funzionale e diretto - Disciplina applicabile -
Giurisprudenza.
Lo "scarico" viene definito dall'art. 74, comma 1,
lett. ff), d.lgs. 152/2006 come "qualsiasi immissione
effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di
collettamento che collega senza soluzione di continuità il
ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore in
acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete
fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante,
anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione".
L'immissione occasionale, originariamente prevista dal
previgente d.lgs. 152/1999, non è più contemplata dalla
normativa attuale, pur mantenendo rilevanza con riferimento
alla disciplina sul divieto di abbandono di rifiuti.
Da ciò consegue che la disciplina delle acque trova
applicazione in tutti quei casi nei quali si è in presenza
di uno scarico di acque reflue (liquide o semiliquide) in
uno dei corpi recettori individuati dalla legge (acque
superficiali, suolo, sottosuolo, rete fognaria) effettuato
tramite condotta (ovvero tramite tubazioni, o altro sistema
stabile) anche se soltanto periodico, discontinuo o
occasionale.
In ogni altro caso, nel quale venga a mancare il nesso
funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo
recettore, si applicherà la disciplina in tema di rifiuti,
ove configurabile. La giurisprudenza ha anche evidenziato la
irrilevanza, in ordine alla nozione di scarico, di
considerazioni attinenti alla accidentalità dello scarico
stesso o alla sua episodicità, pur dandosi atto che, nel
caso di uno sversamento, non ragionevolmente prevedibile,
provocato da negligenza del soggetto agente, non possa
pretendersi la presentazione da parte di quest'ultimo di una
regolare richiesta di autorizzazione (Sez. 3, n. 5239 del
15/12/2016 (dep. 2017), Buja; V. anche Sez. 3, n. 47038 del
07/10/2015, Branca) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 07.08.2017 n. 38946
- link a www.ambientediritto.it). |
PUBBLICO IMPIEGO: Il
conferimento di posizioni organizzative al personale non
dirigente delle Pubbliche Amministrazioni esula dall’ambito
degli atti amministrativi autoritativi e si iscrive nella
categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i
poteri del datore di lavoro privato.
Siffatta qualificazione comporta che le relative
controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria,
non ostandovi che vengano in considerazione atti
amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei
criteri per l’attribuzione della posizione organizzativa,
atteso che anche in tal caso con l’instaurazione del
giudizio ordinario la tutela del pubblico dipendente è
pienamente assicurata mediante la eventuale disapplicazione
dell’atto ai sensi dell’art. 63, comma 1, del Dlgs. n.
165/2001.
---------------
Ebbene, il
Collegio condivide un consolidato indirizzo
giurisprudenziale secondo cui il conferimento di posizioni
organizzative al personale non dirigente delle Pubbliche
Amministrazioni esula dall’ambito degli atti amministrativi
autoritativi e si iscrive nella categoria degli atti
negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di
lavoro privato.
Siffatta qualificazione comporta che le relative
controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria,
non ostandovi che vengano in considerazione atti
amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei
criteri per l’attribuzione della posizione organizzativa,
atteso che anche in tal caso con l’instaurazione del
giudizio ordinario la tutela del pubblico dipendente è
pienamente assicurata mediante la eventuale disapplicazione
dell’atto ai sensi dell’art. 63, comma 1, del Dlgs. n.
165/2001 (cfr Tar Puglia, sentenza n. 290/2016; TAR Lazio,
Sez. II-ter, sentenza n. 4049 del 21.03.2017).
In conclusione, la controversia in esame esula dalla
giurisdizione del giudice amministrativo e rientra nella
sfera di cognizione del giudice ordinario dinanzi al quale
parte ricorrente potrà riassumere il gravame ai sensi
dell’art. 11 del c.p.a.
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter,
sentenza 04.08.2017 n. 9225 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Rapporti tra Sindaco e Imprenditore: quando si verifica
l’abuso d’ufficio?
La
sentenza 03.08.2017 n. 38695
della Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, riguarda il
sindaco di un Comune calabrese e il legale rappresentante di
una società edile, entrambi accusati dei reati di turbata
libertà degli incanti e di abuso d’ufficio.
Ai fini della configurabilità del
concorso del privato nel delitto di abuso d’ufficio,
l’esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico
ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra
la richiesta dell’uno e il provvedimento adottato
dall’altro, essendo invece necessario che il contesto
fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti,
ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del
privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita
dall’accordo con il pubblico ufficiale.
Quanto alla turbata libertà degli
incanti, la Suprema corte ricorda che il reato di cui
all’articolo 353 del codice penale può realizzarsi in
qualsiasi momento, sia prima che dopo la gara, e con le più
svariate modalità dirette ad allontanare gli offerenti,
«assumendo rilievo la sola lesione della libera concorrenza
che la norma penale intende tutelare a garanzia degli
interesse della Pubblica amministrazione».
---------------
MASSIMA
9. Alla stessa sorte non si sottrae la censura di violazione
di legge in
relazione all'affermazione della responsabilità penale per
il reato di abuso in atti
di ufficio di cui al capo B).
Il motivo, che si limita a riportare massime della
giurisprudenza di
legittimità, secondo cui per il concorso nel reato del
privato occorre la
dimostrazione dell'attività di istigazione o agevolazione
nell'esecuzione del reato
da parte del pubblico ufficiale, appare connotato da apsecificità ed è, comunque,
manifestamente infondato, avendo, i giudici del merito,
fatto corretta
applicazione della legge penale con motivazione congrua e
corretta sul piano del
diritto.
E' sufficiente, qui, ricordare che l'istanza di svolgimento
di lavori di
pubblico utilità in luogo del pagamento del prezzo,
costituiva l'incipit
indispensabile e conditio sine qua non per la successiva
condotta del pubblico
ufficiale di affidamento diretto dei lavori di pubblica
utilità al richiedente
(affidamento in violazione della legge ex art. 2, 11 e 53 del d.lvo 12.04.2006,
n. 163 che prescrivono l'affidamento con gara pubblica in
luogo dell'affidamento
diretto), condotta del pubblico ufficiale che ha, così,
procurato un indubbio
doppio vantaggio patrimoniale ben descritto a pag. 14.
Ma
non solo, la Corte
d'appello, lungi dall'aver ritenuto la responsabilità
concorsuale del privato nel
reato commesso dal pubblico ufficiale sulla base del mero
comportamento,
ancorché illegittimo, di costui, ha evidenziato, a chiare
lettere, una pluralità di
elementi fattuali di contorno, tra cui la pregressa
conoscenza tra privato e
pubblico ufficiale, per avere il ricorrente eseguito lavori
in un alloggio del
pubblico ufficiale, e la mancata precisa indicazione dei
tempi di versamento del prezzo nel bando di gara e di
diverse modalità di pagamento del prezzo, idonei a
configurare il previo concerto.
La Corte d'appello ha, dunque, fatto buon governo dei
principi affermato
dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui,
ai fini
della configurabilità del
concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio,
l'esistenza di una collusione tra
il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta
dalla mera coincidenza
tra la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato
dall'altro, essendo invece
necessario che il contesto fattuale, i rapporti personali
tra i predetti soggetti,
ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del
privato sia stata
preceduta, accompagnata o seguita dall'accordo con il
pubblico ufficiale (Sez. 6,
n. 33760 del 23/06/2015, Lo Monaco e altri, Rv. 264460) (Corte
di Cassazione, Sez. feriale penale,
sentenza 03.08.2017 n. 38695). |
APPALTI:
E' noto che in materia di turbata libertà degli incanti, la
turbativa può
realizzarsi non solo nel momento preciso in cui la gara si
svolge, ma anche nel
complesso procedimento che porta alla gara, del quale sono
protagonisti gli
stessi concorrenti, o fuori della gara medesima, assumendo
rilievo la sola lesione
della libera concorrenza che la norma penale intende
tutelare a garanzia degli
interessi della pubblica amministrazione.
Quanto alle condotte, tassativamente indicate dall'art. 353
cod. pen., il
reato è integrato da comportamenti collusivi, fraudolenti o,
come nel caso in
esame, da condotte di violenza e/o minaccia diretta a
turbare la gara o
allontanare gli offerenti, poiché anche in tale caso si
realizza l'evento
naturalistico del reato di turbata libertà degli incanti,
che può essere costituito
oltre che dall'impedimento della gara anche da un suo
turbamento, situazione
che può verificarsi quando la condotta fraudolenta o
collusiva abbia anche
soltanto influito sulla regolare procedura della gara
medesima essendo
irrilevante che si produca un'effettiva alterazione dei
risultati di essa.
---------------
MASSIMA
4. Entrambi i ricorsi sono, pur per ragioni diverse,
inammissibili.
5. Il ricorso di Ru.Ma. appare, quanto al primo motivo
attinente al
merito dell'affermazione di responsabilità per il reato di
cui all'art. 353 cod.pen.,
inammissibile perché diretto, come chiaramente desumibile
dal riepilogo del
contenuto del motivo (vedi supra n. 2.1.1. del ritenuto in
fatto), a richiedere una
lettura dei fatti alternativa a quella già effettuata dai
giudici di appello in punto
accertamento del momento nel quale il Russo ha proferito la
minacce ai
Ro. al fine di allontanarli dalla gara, ed anche
ripetitivo della stessa
censura già devoluta nei motivi di appello e da quei giudici
disattesa con
motivazione congrua, adeguata e priva di illogicità.
6. A prescindere da tale assorbente considerazione, la
sentenza
impugnata ponendosi in continuità con quella del Tribunale,
ha disatteso la censura difensiva, in punto individuazione
del momento temporale della condotta
del Ru., evidenziando che la discussione tra il Sindaco
Ru. e i fratelli
Ro., nel corso della quale era stata proferita la
minaccia di effettuare
controlli ai cantieri di costoro al fine di farli desistere
dalla partecipazione alla
gara e la minaccia di chiedere, nel caso di esito a loro
favorevole della gara,
l'immediato pagamento del prezzo, era avvenuta dopo che
Ro.Nu. si
era recato in Comune per acquisire informazioni in merito al
bando di gara,
sicché era destituito di fondamento l'assunto difensivo
secondo cui non sarebbe
configurabile la condotta materiale del reato perché la
minaccia proferita ai
fratelli Ro. non sarebbe stata rivolta nei confronti
di "offerenti" perché
costoro, non avendo presentato alcuna offerta, non avevano
partecipato alla
gara.
Ora i ricorrenti ripropongono la medesima censura che muove
dall'interpretazione della norma di cui all'art. 353
cod. pen. non conforme alla
giurisprudenza di legittimità.
E' noto che in materia di turbata libertà degli incanti, la
turbativa può
realizzarsi non solo nel momento preciso in cui la gara si
svolge, ma anche nel
complesso procedimento che porta alla gara, del quale sono
protagonisti gli
stessi concorrenti, o fuori della gara medesima, assumendo
rilievo la sola lesione
della libera concorrenza che la norma penale intende
tutelare a garanzia degli
interessi della pubblica amministrazione (cfr.
ex multis
Sez. 6, n. 18161
del 05/04/2012, P.G. in proc. Bevilacqua Rv. 252638).
Quanto alle condotte, tassativamente indicate dall'art. 353
cod. pen., il
reato è integrato da comportamenti collusivi, fraudolenti o,
come nel caso in
esame, da condotte di violenza e/o minaccia diretta a
turbare la gara o
allontanare gli offerenti, poiché anche in tale caso si
realizza l'evento
naturalistico del reato di turbata libertà degli incanti,
che può essere costituito
oltre che dall'impedimento della gara anche da un suo
turbamento, situazione
che può verificarsi quando la condotta fraudolenta o
collusiva abbia anche
soltanto influito sulla regolare procedura della gara
medesima essendo
irrilevante che si produca un'effettiva alterazione dei
risultati di essa (Sez. 6, n.
41365 del 27/09/2013, Murgolo, Rv. 256276).
Tale situazione è certamente sussistente nel caso in
scrutinio in presenza
di condotte minacciose poste in essere al fine di
allontanare i partecipanti, posto
che l'allontanamento di persone interessate alla gara
realizza l'evento del reato e
la lesione della libera concorrenza che la norma penale
intende tutelare a
garanzia degli interessi della pubblica amministrazione.
Ne consegue la manifesta infondatezza della prospettazione
difensiva
secondo cui la qualifica di "offerenti" sarebbe ravvisabile
solo in capo a chi, nel corso della gara, ha già
formalizzato un'offerta e sia poi stato oggetto delle
condotte previste dall'art. 353 cod. pen. (Corte
di Cassazione, Sez. feriale penale,
sentenza 03.08.2017 n. 38695). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - Attività organizzate per il traffico
illecito di rifiuti - Mezzo utilizzato per l'abbandono e il
trasporto di rifiuti speciali - Terzo estraneo al reato -
Sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria
- Effetti anche con riguardo a chi il reato non abbia
commesso - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata -
Artt. 256, 260-ter, c. 5, d.lgs. n. 152/2006 - Artt. 240,
comma 3, cod. pen., e 321, comma 2, cod. proc. pen.
L'art. 260-ter, comma 5, del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede
che a seguito della confisca del veicolo o di qualunque
altro mezzo utilizzato per il trasporto del rifiuto consegue
obbligatoriamente anche all'accertamento delle violazioni di
cui al comma 1 dell'art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
A fronte dunque di una tale misura obbligatoria e dei suoi
effetti anche con riguardo a chi il reato non abbia
commesso, incombe sul terzo estraneo al reato che,
qualificandosi come proprietario o titolare di altro diritto
reale sul mezzo sottoposto a sequestro preventivo
finalizzato alla confisca obbligatoria, ne invochi la
restituzione in suo favore, l'onere di provare la propria
buona fede, ovvero che l'uso illecito della "res" gli
era ignoto e non collegabile ad un suo comportamento
colpevole o negligente (Cass., Sez. 3, n. 12473 del
02/12/2015, dep. 24/03/2016, Liguori; Sez. 3, n. 18515 del
16/01/2015, dep. 05/05/2015, Ruggeri) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.08.2017 n. 38688
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 e sentenza
della Corte cost. n. 56/2016 - Art. 349 cod. pen. - DIRITTO
PROCESSUALE PENALE - Dichiarazione di incostituzionalità di
norme - Trattamento sanzionatorio - Rilevabilità d'ufficio -
Rimodulazione del trattamento sanzionatorio -
Inammissibilità del ricorso - Impugnazione tardiva -
Preclusioni.
Il reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42
del 2004, dichiarato costituzionalmente illegittimo per
effetto della sopravvenuta sentenza della Corte cost. n. 56
del 11/01/2016, nella parte in cui lo stesso prevede: "«:
a) ricadano su immobili od aree che, per le loro
caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di
notevole interesse pubblico con apposito provvedimento
emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori;
b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi
dell'articolo 142 ed», oggi è configurabile quale
contravvenzione ex art. 181, comma 1, d.lgs. cit., e non più
quale delitto.
Inoltre, l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione
di incostituzionalità di norme riguardanti, come nella
specie, il trattamento sanzionatorio, è rilevabile d'ufficio
anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel
caso di impugnazione, come nella specie, correttamente
ritenuta tardiva; infatti in questo caso si è in presenza di
un gravame sin dall'origine inidoneo a instaurare un valido
rapporto processuale, in quanto il decorso del termine
derivante dalla mancata proposizione dello stesso ha già
trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale,
sicché il giudice dell'impugnazione si limita a verificare
il decorso del termine e a prenderne atto.
Questa speciale causa di inammissibilità è quindi preclusiva
di un'eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio,
anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalità della
pena (Cass. Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, dep.
28/07/2015, Jazouli) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.08.2017 n. 38687
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
RIFIUTI - AGRICOLTURA - Materiali vegetali -
Attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli
- Attività di gestione dei rifiuti - Esclusione - CODICE
DELL'AMBIENTE - Rifiuti urbani vegetali provenienti da aree
verdi, quali giardini parchi e aree cimiteriali -
Combustione di residui vegetali abbandonati o depositati in
modo incontrollato - Disciplina applicabile - Combustione
illecita di materiale agricolo o forestale naturale - Art.
182, 184, 185, 255, 256 e 256-bis d.lgs. n. 152/2006 - Artt.
674 e 734 cod. pen..
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli
cumuli dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma
1, lettera f), effettuate con le modalità ed alle condizioni
indicate dall'art. 182, comma 6-bis non rientrano tra le
attività di gestione dei rifiuti, non costituendo
smaltimento, e non integrano alcun illecito.
Al di fuori di tali modalità e condizioni non opera alcuna
deroga e divengono applicabili le sanzioni previste
dall'art. 256 d.lgs. 152/2006 per l'illecita gestione di
rifiuti. Se, invece, la combustione di residui vegetali
riguarda rifiuti abbandonati o depositati in modo
incontrollato si applicano, ai sensi dell'art. 256-bis,
comma 6, d.lgs. 152/2006, le sanzioni amministrative di cui
all'art. 255 per i rifiuti urbani vegetali provenienti da
aree verdi, quali giardini parchi e aree cimiteriali di cui
all'art. 184, comma 2, lett. e), d.lgs. 152/2006, mentre,
sempre in forza dell'art. 256-bis, comma 6, resta esclusa
dall'applicazione di tale disposizione la combustione
illecita di materiale agricolo o forestale naturale, anche
derivato da verde pubblico o privato, rispetto alla quale
restano applicabili le sanzioni di cui all'art. 256.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - ARIA - Getto
pericoloso di cose - Emissioni in atmosfera - Potenzialità
offensiva dei fumi - Configurabilità dell'articolo 674 cod.
pen. - Superamento della normale tollerabilità - motivazione
sintetica adeguata.
In tema di getto pericoloso di cose, l'ipotesi
contravvenzionale considerata dall'articolo 674 cod. pen.
configura un reato di pericolo finalizzato a prevenire esiti
dannosi o pericolosi per le persone conseguenti al getto o
versamento di cose atte ad offendere, imbrattare o comunque
molestare, ovvero all'emissione di gas, vapori o fumi idonei
a cagionare i medesimi effetti.
Mentre, la seconda parte dell'articolo 674 cod. pen. prevede
la rilevanza penale delle emissioni di gas vapori o fumi "nei
casi non consentiti dalla legge" ed è evidente che, nel
caso di specie, (rimozione della vegetazione spontanea a
mezzo escavatore e successivo incenerimento della stessa in
una buca all'uopo predisposta, operazioni, finalizzate alla
preparazione dell'area per la successiva realizzazione di un
vivaio; sicché la combustione del materiale vegetale aveva
come scopo evidente il definitivo smaltimento), costituendo
la combustione una illecita attività di smaltimento,
l'emissione di fumo non poteva certo ritenersi consentita.
Inoltre, l'emissioni di fumo, propagatesi a distanza e per
diverse ore (tanto che un teste riferiva che il giorno
successivo all'intervento dei vigili del fuoco dalla fossa
utilizzata per la combustione continuava ad uscire fumo che
interessava l'area circostante) superavano la normale
tollerabilità ed erano idonee ad arrecare molestia alle
persone, dando dunque conto, con motivazione sintetica ma
certamente adeguata, della potenzialità offensiva dei fumi
già evidenziata nell'imputazione, laddove si precisava che
erano stati i residenti dell'abitato circostante a
sollecitare l'intervento dei vigili del fuoco.
AGRICOLTURA E ZOOTECNIA - Evoluzione
giurisprudenziale su incenerimento di sfalci e potature -
Processi e metodi costituenti normali pratiche agronomiche -
Raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli -
Incenerimento di residui vegetali effettuato nel luogo di
produzione - Giurisprudenza.
L'eliminazione mediante incenerimento di sfalci e potature
non integra il reato di smaltimento non autorizzato di
rifiuti speciali non pericolosi di cui all'art. 256, comma
primo, lett. a), trattandosi di residui vegetali che non
sono classificabili come rifiuti e che sono utilizzati in
agricoltura mediante processi e metodi costituenti normali
pratiche agronomiche disciplinate dagli artt. 182, comma
6-bis, e 185, comma 1, lett. f), in quanto non danneggiano
l'ambiente, né mettono in pericolo la salute umana (Cass.
Sez. 3, n. 76 del 07/10/2014 (dep. 2015), P.M. in proc.
Urcioli) (Conf. Sez. 3, n. 34098 del 27/2/2014, PM in
processo lannaccone; Sez. 3 n. 34097 del 27/02/2014 Cava;
Sez. 3 n. 39203 del 09/07/2014, Urcioli; Sez. 3 n. 41715 del
09/07/2014, Guarino; Sez. 3 n. 44886 del 02/10/2014,
Fortunato; Sez. 3 n. 47663 del 08/10/2014, De Santis; Sez. 3
n. 50635 del 05/11/2014, Argento).
Altra pronuncia (Sez. 3, n. 21936 del 05/04/2016, Ascolese)
ha successivamente ritenuto che l'attività di raggruppamento
e abbruciamento in piccoli cumuli in quantità giornaliere
non superiori a 3 m steri per ettaro dei materiali vegetali
di cui all'art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel luogo
di produzione non sono sanzionate penalmente ai sensi degli
artt. 256 e 256-bis d.lgs. 152/2006.
Infine, in tema di gestione dei rifiuti, l'incenerimento di
residui vegetali effettuato nel luogo di produzione al di
fuori delle condizioni previste dall'art. 182, comma 6-bis,
primo e secondo periodo, integra il reato di smaltimento non
autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui
all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 03.04.2006 n. 152 e
non invece la disciplina sanzionatoria di cui all'art.
256-bis (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016 Lazzarini) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.08.2017 n. 38658
- link a www.ambientediritto.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Concorrendo tutte le seguenti condizioni:
1) la tipologia dell'attività
(raggruppamento e
abbruciamento);
2) la quantità di materiale (piccoli cumuli
e in quantità giornaliere
non superiori a tre metri steri per ettaro);
3) la tipologia
dei materiali (materiali
vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f);
4) il luogo in cui l'attività descritta deve svolgersi (luogo di
produzione),
le attività di raggruppamento e abbruciamento
non rientrano
nell'ampia nozione di gestione e si ritiene costituiscano
"normali pratiche agricole",
consentite, però, "per il reimpiego dei materiali come
sostanze concimanti o
ammendanti", ponendosi, così, un'ulteriore condizione per
l'operatività della deroga.
In altre parole, un'attività che, in base alle regole
generali, rientrerebbe, per
come svolta, tra quelle di smaltimento, a determinate
condizioni viene sottratta alla
disciplina comune per espressa deroga contenuta nell'art.
182, comma 6-bis, d.lgs.
152/2006.
---------------
L'art. 182 comma 6-bis esclude che
costituisca smaltimento, fase residuale della gestione dei
rifiuti, la combustione, con le modalità ed alle condizioni
descritte, di materiali che, per origine non sono rifiuti,
poiché vengono richiamati i "materiali vegetali" di cui
all'articolo 185, comma 1,
lettera f), che sono, appunto, esclusi dalla disciplina di
settore.
Tale esclusione, tuttavia, non riguarda tutti i materiali
vegetali, senza
distinzione di sorta, ma soltanto, come si è visto, quelli
che rispettino le ulteriori
condizioni che la richiamata disposizione prevede e che
riguardano, come già detto,
provenienza, natura e, sopratutto, destinazione successiva
(normali pratiche
agricole e zootecniche o utilizzazione in agricoltura, nella
silvicoltura o per la
produzione di energia), con la conseguenza che tutto ciò che
non presenta tali requisiti è da considerarsi rifiuto,
soggetto, quindi, alla disciplina ordinaria ed alle
relative sanzioni, quali quelle previste per la gestione in
assenza di titolo abilitativo.
In particolare, ricorrendone ovviamente i presupposti,
andranno applicate le
sanzioni di cui all'art. 256 d.lgs. 152/2006 e, nel caso i
fatti siano commessi in
territorio soggetto alla disciplina emergenziale, quelle
previste dal quasi speculare
articolo 6 legge 210/2008.
Diverso è il caso della combustione illecita di cui
all'art. 256-bis, trattandosi,
nel caso previsto dal comma 1, di condotta che si configura
con l'appiccare il fuoco
a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera
incontrollata, quindi non
sottoposti ad alcuna attività di gestione e rispetto alla
quale si applicano le sanzioni
amministrative di cui all'art. 255 nel caso di combustione
illecita di rifiuti di cui
all'art. 184, comma 2, lettera e), mentre, essendo esclusa,
come si è visto,
l'applicabilità della disposizione nelle ipotesi di abbruciamento di materiale agricolo
o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o
privato (fermo restando
quanto stabilito dall'art. 182, comma 6-bis per i materiali,
diversi dai rifiuti, ivi
considerati), verificandosi tale evenienza devono ritenersi
applicabili, qualora detti
materiali siano qualificabili come rifiuti e ricorrendone le
condizioni, le disposizioni
generali in materia di illecita gestione di cui all'art.
256.
---------------
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli dei
materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera
f), effettuate con le
modalità ed alle condizioni indicate dall'art. 182, comma
6-bis non rientrano tra le
attività di gestione dei rifiuti, non costituendo
smaltimento, e non integrano alcun
illecito.
Al di fuori di tali modalità e condizioni non opera alcuna
deroga e divengono applicabili le sanzioni previste
dall'art. 256 d.lgs. 152106 per l'illecita gestione.
Se, invece, la combustione di residui vegetali riguarda
rifiuti abbandonati o
depositati in modo incontrollato si applicano, ai sensi
dell'art. 256-bis, comma, 6
d.lgs. 152106, le sanzioni amministrative di cui all'art.
255 per i rifiuti urbani vegetali
provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree
cimiteriali di cui all'art. 184,
comma 2, lett. e), d.lgs. 152106, mentre, sempre in forza
dell'art. 256-bis, comma, 6,
resta esclusa dall'applicazione di tale disposizione la
combustione illecita di
materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da
verde pubblico o privato,
rispetto alla quale restano applicabili le sanzioni di cui
all'art. 256.
E' appena il caso di ricordare, inoltre, che, come più
volte affermato da
questa Corte, l'eventuale applicazione di norme aventi
natura eccezionale e
derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di
rifiuti fa sì che l'onere della
prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba
essere assolto da colui
che ne richiede l'applicazione.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Palermo, con sentenza del
02/12/2016 ha parzialmente
riformato la decisione emessa, in data 11/06/2015, dal
Tribunale di quella città,
assolvendo l'imputato Sa.PI. dalla contravvenzione
di cui all'art. 734 cod.
pen. e rideterminando la pena per i residui reati di cui
agli artt. 6, lett. d), n. 1 legge
210/2008 e 674 cod. pen., contestatigli perché, quale
amministratore della "Pi.Vi.
s.r.l.", affittuaria di un fondo rustico, smaltiva
direttamente, tramite combustione e
senza titolo abilitativo, vegetali derivanti da sfalci,
potature e ripuliture dentro uno
scavo, di circa 15 metri quadrati e profondo circa 2 metri,
realizzato nel fondo
medesimo ed, inoltre, perché, attraverso la combustione,
provocava emissioni di
fumo atte a molestare i residenti dell'abitato circostante,
i quali sollecitavano
l'intervento dei vigili del fuoco, che provvedevano allo
spegnimento delle fiamme (in
Palermo, il 22/09/2012).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per
cassazione tramite il
proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito
enunciati nei limiti
strettamente necessari per la motivazione, ai sensi
dell'art. 173 disp. att. cod. proc.
pen..
2. Con un primo motivo di ricorso denuncia la violazione di
legge ed il vizio di
motivazione, osservando che, in ragione di quanto disposto
dagli artt. 185, comma
1, lett. O e dal d. I. 91/2014, convertito, con
modificazioni, nella legge 116/2014, gli
scarti vegetali devono ritenersi esclusi dal novero dei
rifiuti.
Lamenta che la Corte territoriale, pur considerando la
normativa di riferimento,
avrebbe erroneamente ritenuto la sussistenza del reato,
affermando che l'attività
oggetto di contestazione sarebbe avvenuta al di fuori delle
condizioni previste
dall'art. 182, comma 6-bis, d.lgs. 152/2006, poiché non sarebbe
stato rispettato il limite
delle quantità non superiori ai tre metri steri per ettaro,
violazione rispetto alla quale
sarebbe eventualmente applicabile la sola sanzione
amministrativa.
Aggiunge che tale superamento, inoltre, non sarebbe stato
compiutamente accertato, ma soltanto supposto dai giudici
del merito.
3. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di
legge ed il vizio di
motivazione, rilevando che la motivazione in ordine alla
sussistenza della
contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen. sarebbe
meramente apparente e
fondata su mere congetture.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
La questione trattata e le disposizioni normative,
succedutesi nel tempo,
richiamate in ricorso ed in sentenza, rendono necessaria un
sintetica descrizione
dello svolgimento dei fatti, come accertato nel giudizio di
merito e la successiva
ricostruzione del sistema di norme applicabili nella
fattispecie.
2. Risulta dalla sentenza impugnata che l'attività oggetto
di contestazione era
stata posta in essere nell'ambito di operazioni finalizzate
ad adibire a vivaio un
fondo rustico, di circa 2.000 mq, rimasto per anni
abbandonato, con presenza di
vegetazione cresciuta in modo incontrollato, tanto da
rendere necessario l'uso di un
escavatore per l'estirpazione e l'accumulo di detto
materiale, che veniva poi raccolto
in cumuli e bruciato in una buca appositamente scavata, come
indicato
nell'imputazione.
I fatti, come appena descritti, si sono svolti in territorio
in cui vige la disciplina
emergenziale.
3. Il decreto-legge 06.11.2008, n. 172, convertito con
la legge 30.12.2008, n. 210, reca «Misure straordinarie per
fronteggiare l'emergenza nel
settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione
Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale».
Tale disciplina speciale, applicabile nei territori in cui
vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, dichiarato ai
sensi della legge 24.02.1992, n. 225, ha introdotto, con l'articolo 6, uno specifico
sistema sanzionatorio che
prende in considerazione diverse fattispecie già contemplate
dal d.lgs. n. 152/2006,
inasprendo le pene previste e trasformando le ipotesi
contravvenzionali in delitti,
modificandone, in alcuni casi, anche i contenuti.
Con specifico riferimento all'articolo 6, lettera d),
contestato al ricorrente, va
ricordato che le sanzioni previste in ragione della diversa
tipologia di rifiuto
(pericoloso o non pericoloso), sono applicabili a "chiunque
effettua un'attività di
raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed
intermediazione di rifiuti in
mancanza dell'autorizzazione, iscrizione o comunicazione
prescritte dalla normativa
vigente", prevedendosi così una fattispecie di illecita
gestione la cui parte precettiva
coincide, sostanzialmente, con quella dell'articolo 256,
comma primo, d.lgs.
152/2006, tranne che per un richiamo generico alla
«normativa vigente», con
riferimento ai titoli abilitativi richiesti e l'assenza
della clausola di riserva riferita ai
casi sanzionati ai sensi dell'articolo 29-quattuordecies,
comma 1 del d.lgs. 152/2006
Ciò che viene dunque punita è l'illecita gestione di
rifiuti.
4. Tra le attività di gestione rientra, come si rileva dal
testo della norma
richiamata (ed anche dall'art. 256 d.lgs. 152/2006), lo
smaltimento, attività nella quale
è astrattamente riconducibile quella contestata all'odierno
ricorrente, poiché
l'Allegato B alla Parte Quarta del d.lgs. 152/2006 indica,
alla lettera D10,
l'incenerimento a terra tra le attività di smaltimento.
Le disposizioni generali in materia di smaltimento sono
contenute nell'art. 182
d.lgs. 152/2006, il quale stabilisce, nel comma 6-bis,
introdotto dal d.l. 91/2014,
convertito, con modificazioni, nella legge 116/2014, che "le
attività di
raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in
quantità giornaliere non
superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali
vegetali di cui all'articolo 185,
comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione,
costituiscono normali pratiche
agricole consentite per il reimpiego dei materiali come
sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione
dei rifiuti.
Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi,
dichiarati dalle regioni, la
combustione di residui vegetali agricoli e forestali è
sempre vietata.
I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia
ambientale hanno la
facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione
del materiale di cui al
presente comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono
condizioni
meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in
tutti i casi in cui da tale
attività possano derivare rischi per la pubblica e privata
incolumità e per la salute
umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli
annuali delle polveri sottili
(PM10)".
5. Come si evince dalla mera lettura della disposizione
appena richiamata, la
stessa pone, nella prima parte, che qui interessa,
una serie
di condizioni che
riguardano, nell'ordine:
1) la tipologia dell'attività
(raggruppamento e
abbruciamento);
2) la quantità di materiale (piccoli cumuli
e in quantità giornaliere
non superiori a tre metri steri per ettaro);
3) la tipologia
dei materiali (materiali
vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f);
4) il
luogo in cui l'attività descritta
deve svolgersi (luogo di produzione).
Concorrendo tutte queste condizioni, le attività descritte
non rientrano
nell'ampia nozione di gestione e si ritiene costituiscano
"normali pratiche agricole",
consentite, però, "per il reimpiego dei materiali come
sostanze concimanti o
ammendanti", ponendosi, così, un'ulteriore condizione per
l'operatività della deroga.
In altre parole, un'attività che, in base alle regole
generali, rientrerebbe, per
come svolta, tra quelle di smaltimento, a determinate
condizioni viene sottratta alla
disciplina comune per espressa deroga contenuta nell'art.
182, comma 6-bis, d.lgs.
152/2006.
6. Va poi osservato che merita particolare attenzione, tra
le richiamate
condizioni, quella riguardante la tipologia dei materiali,
in quanto la deroga è limitata
a quelli contemplati dall'art. 185, comma 1, lettera f), del
d.lgs. 152/2006.
Tale ultima disposizione, come è noto, esclude dal campo di
applicazione della disciplina dei rifiuti determinati
materiali, ponendo, peraltro, in alcuni casi, ulteriori
condizioni.
Per ciò che qui rileva, il comma 1, lettera f), dell'art.
185, nell'attuale
formulazione, introdotta dall'art. 41, comma 1, della legge
28.07.2016, n. 154, che
ne ha ulteriormente ampliato l'originario ambito di
operatività, stabilisce che non
rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui
rifiuti "le materie fecali, se
non contemplate dal comma 2, lettera b), del presente
articolo, la paglia, gli sfalci e
le potature provenienti dalle attività di cui all'articolo
184, comma 2, lettera e), e
comma 3, lettera a), nonché ogni altro materiale agricolo o
forestale naturale non
pericoloso destinati alle normali pratiche agricole e
zootecniche o utilizzati in
agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di
energia da tale biomassa, anche
al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a
terzi, mediante processi o
metodi che non danneggiano l'ambiente ne' mettono in
pericolo la salute umana".
Con specifico riferimento a paglia, sfalci e potature la
disposizione in esame
ora precisa che devono provenire dalle attività di cui
all'articolo 184, comma 2,
lettera e) (rifiuti urbani costituiti da rifiuti vegetali
provenienti da aree verdi, quali
giardini, parchi e aree cimiteriali) e comma 3, lettera a)
(rifiuti speciali da attività
agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli effetti
dell'art. 2135 cod. civ.),
aggiungendo poi all'elenco "ogni altro materiale agricolo o
forestale naturale non
pericoloso".
Viene tuttavia posta la condizione —riguardante tutte le
tipologie di materiali
precedentemente elencati, ivi compresi paglia, sfalci e
potature, come evidenzia
l'uso del plurale— che detti materiali siano destinati alle
normali pratiche agricole e
zootecniche o utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura
o per la produzione di energia
da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione
ovvero con cessione a
terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano
l'ambiente né mettono in
pericolo la salute umana.
7. Va altresì tenuto conto anche di quanto dispone,
attualmente, l'art. 256-bis
d.lgs. 152/2006, introdotto dal d.l. 136/2013, convertito con
modificazioni dalla L. 06.02.2014, n. 6, il quale sanziona la combustione
illecita di rifiuti e dispone, all'ultimo comma, modificato
anch'esso dal già menzionato d.l. 91/2014, convertito,
con modificazioni, nella legge 116/2014, che "si applicano
le sanzioni di cui
all'articolo 255 se le condotte di cui al comma 1 hanno a
oggetto i rifiuti di cui
all'articolo 184, comma 2, lettera e). Fermo restando quanto
previsto dall'articolo 182,
comma 6-bis, le disposizioni del presente articolo non si
applicano all'abbruciamento
di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato
da verde pubblico o privato."
La disposizione, introducendo il delitto di combustione
illecita, prevede, dunque,
che nei confronti di chiunque appicchi il fuoco a rifiuti
abbandonati, ovvero
depositati in maniera incontrollata, qualora si tratti di
rifiuti urbani costituiti da rifiuti
vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e
aree cimiteriali -quelli, cioè,
contemplati dall'art. 184, comma 2, lettera e)- siano
applicate le sanzioni
amministrative previste per l'abbandono di rifiuti dall'art.
255.
Inoltre, richiamando l'esclusione dalla disciplina generale
sullo smaltimento
delle attività contemplate dall'art. 182, comma 6-bis, di
cui si è detto in precedenza,
l'art. 256-bis stabilisce che le disposizioni in esso
contenute non si applicano
quando la combustione riguarda "materiale agricolo o
forestale naturale, anche
derivato da verde pubblico o privato".
8. Riassumendo il contenuto delle disposizioni fini qui
esaminate, può
sinteticamente rilevarsi che l'art. 182
comma 6-bis esclude che costituisca smaltimento, fase
residuale della gestione dei rifiuti, la combustione, con le
modalità ed alle condizioni descritte, di materiali che, per
origine non sono rifiuti, poiché vengono richiamati i "materiali vegetali" di cui
all'articolo 185, comma 1,
lettera f), che sono, appunto, esclusi dalla disciplina di
settore.
9. Tale esclusione, tuttavia, non riguarda tutti i materiali
vegetali, senza
distinzione di sorta, ma soltanto, come si è visto, quelli
che rispettino le ulteriori
condizioni che la richiamata disposizione prevede e che
riguardano, come già detto,
provenienza, natura e, sopratutto, destinazione successiva
(normali pratiche
agricole e zootecniche o utilizzazione in agricoltura, nella
silvicoltura o per la
produzione di energia), con la conseguenza che tutto ciò che
non presenta tali requisiti è da considerarsi rifiuto,
soggetto, quindi, alla disciplina ordinaria ed alle
relative sanzioni, quali quelle previste per la gestione in
assenza di titolo abilitativo.
In particolare, ricorrendone ovviamente i presupposti,
andranno applicate le
sanzioni di cui all'art. 256 d.lgs. 152/2006 e, nel caso i
fatti siano commessi in
territorio soggetto alla disciplina emergenziale, quelle
previste dal quasi speculare
articolo 6 legge 210/2008.
10. Diverso è il caso della combustione illecita di cui
all'art. 256-bis, trattandosi,
nel caso previsto dal comma 1, di condotta che si configura
con l'appiccare il fuoco
a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera
incontrollata, quindi non
sottoposti ad alcuna attività di gestione e rispetto alla
quale si applicano le sanzioni
amministrative di cui all'art. 255 nel caso di combustione
illecita di rifiuti di cui
all'art. 184, comma 2, lettera e), mentre, essendo esclusa,
come si è visto,
l'applicabilità della disposizione nelle ipotesi di abbruciamento di materiale agricolo
o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o
privato (fermo restando
quanto stabilito dall'art. 182, comma 6-bis per i materiali,
diversi dai rifiuti, ivi
considerati), verificandosi tale evenienza devono ritenersi
applicabili, qualora detti
materiali siano qualificabili come rifiuti e ricorrendone le
condizioni, le disposizioni
generali in materia di illecita gestione di cui all'art.
256.
11. Vanno ora richiamate le decisioni di questa Corte che
hanno preso in
considerazione il delitto in questione.
Alcune (Sez. 3, n. 34098 del 27/02/2014, PM in processo lannaccone, non
massimata; Sez. 3 n. 34097 del 27/02/2014 Cava, non massimata;
Sez. 3 n. 39203
del 09/07/2014, Urcioli, non massimata; Sez. 3 n. 41715 del
09/07/2014, Guarino, non
massimata; Sez. 3 n. 44886 del 02/10/2014, Fortunato, non massimata; Sez. 3 n.
47663 del 08/10/2014, De Santis, non massimata; Sez. 3 n.
50635 del 05/11/2014,
Argento, non massimata) sono giunte a conclusioni non
uniformi, peraltro assunte
in relazione all'assetto normativo al momento vigente.
Di ciò ha tenuto conto una successiva pronuncia (Sez. 3, n.
76 del 07/10/2014
(dep. 2015), P.M. in proc. Urcioli, Rv. 26179001) nella
quale si è affermato che l'eliminazione mediante
incenerimento di sfalci e potature non integra il reato di
smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non
pericolosi di cui all'art. 256,
comma primo, lett. a), trattandosi di residui vegetali che
non sono classificabili
come rifiuti e che sono utilizzati in agricoltura mediante
processi e metodi
costituenti normali pratiche agronomiche disciplinate dagli
artt. 182, comma 6-bis, e
185 comma 1, lett. f), in quanto non danneggiano l'ambiente,
né mettono in pericolo
la salute umana.
Altra pronuncia (Sez. 3, n. 21936 del 05/04/2016, Ascolese, Rv.
26747001) ha
successivamente ritenuto che l'attività di raggruppamento e abbruciamento in
piccoli cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m
steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'art. 185, comma 1, lett. f), effettuate
nel luogo di produzione non
sono sanzionate penalmente ai sensi degli artt. 256 e
256-bis d.lgs. 152/2006.
Si è inoltre discostata dalle conclusioni cui è pervenuta la
sentenza 76/2015 altra decisione (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016 Lazzarini, Rv.
26583801) nella quale si
è affermato, dando peraltro atto, come era già stato fatto
in precedenza, della
difficoltà interpretativa, originata da interventi
normativi, in materia,
cronologicamente stratificati e sistematicamente non
omogenei, che in tema di
gestione dei rifiuti, l'incenerimento di residui vegetali
effettuato nel luogo di
produzione al di fuori delle condizioni previste dall'art.
182, comma 6-bis, primo e
secondo periodo, integra il reato di smaltimento non
autorizzato di rifiuti speciali
non pericolosi di cui all'art. 256, comma 1, lett. a),
d.lgs. 03.04.2006 n. 152 e non
invece la disciplina sanzionatoria di cui all'art. 256-bis.
12. Condividendosi, pertanto,
le conclusioni cui è pervenuta
tale ultima
pronuncia, può affermarsi, alla luce delle considerazioni
dianzi svolte, il principio
secondo il quale le attività di raggruppamento e
abbruciamento in piccoli cumuli dei
materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera
f), effettuate con le
modalità ed alle condizioni indicate dall'art. 182, comma
6-bis non rientrano tra le
attività di gestione dei rifiuti, non costituendo
smaltimento, e non integrano alcun
illecito.
Al di fuori di tali modalità e condizioni non opera alcuna
deroga e divengono applicabili le sanzioni previste
dall'art. 256 d.lgs. 152/2006 per l'illecita gestione.
Se, invece, la combustione di residui vegetali riguarda
rifiuti abbandonati o
depositati in modo incontrollato si applicano, ai sensi
dell'art. 256-bis, comma 6,
d.lgs. 152/2006, le sanzioni amministrative di cui all'art.
255 per i rifiuti urbani vegetali
provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree
cimiteriali di cui all'art. 184,
comma 2, lett. e), d.lgs. 152/2006, mentre, sempre in forza
dell'art. 256-bis, comma, 6,
resta esclusa dall'applicazione di tale disposizione la
combustione illecita di
materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da
verde pubblico o privato,
rispetto alla quale restano applicabili le sanzioni di cui
all'art. 256.
13. E' appena il caso di ricordare, inoltre, che, come più
volte affermato da
questa Corte, l'eventuale applicazione di norme aventi
natura eccezionale e
derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di
rifiuti fa sì che l'onere della
prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba
essere assolto da colui
che ne richiede l'applicazione
(Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini, Rv.
26583901, cit. in relazione proprio ai residui vegetali, ma
v. anche, con riferimento ad
altri settori, Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini Rv.
258860 in tema di impianti
mobili adibiti alla sola attività di riduzione volumetrica e
separazione delle frazioni
estranee; Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè, Rv. 252385;
Sez. 3, n. 16727 del
13/04/2011, Spinello, non massimata; Sez. 3, n. 41836 del
30/09/2008, Castellano,
Rv. 241 504 in tema di sottoprodotti; Sez. 3, n. 1 5680 del
03/03/2010, Abbatino, non
massimata; Sez. 3, n. 21587 del 17/03/2004, Marucci, non
massimata; Sez. 3, n.
30647 del 15/06/2004, Dell'Angelo, non massimata, in tema di
deposito temporaneo
e, con riferimento alle terre e rocce da scavo, Sez. 3, n.
16078 del 10/03/2015,
Fortunato, Rv. 26333601; Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009,
Bastone Rv. 244784; Sez.
3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087; Sez. 3, n.
9794 del 29/11/2006
(dep. 2007), Montigiani, non massimata sul punto. In tema di
interramento in sito
della posidonia e delle meduse spiaggiate rinvenute in
battigia, art. 39, undicesimo
comma, d.lgs. 152/2006, v. Sez. 3, n. 3943 del 17/12/2014 dep.
(2015), Aloisio, Rv.
262159).
14. Ciò detto, deve rilevarsi, con riferimento al caso in
esame, che le attività
poste in essere dal ricorrente rientrano senza dubbio
nell'attività di illecita gestione
di rifiuti.
Invero, come pacificamente emerge dalla mera descrizione dei
fatti così come
accertati nel giudizio di merito, l'attività svolta non
rientrava nella deroga di cui
all'art. 182, comma 6-bis d.lgs. 152/2006 non soltanto per
difetto del dato quantitativo,
rilevato dalla Corte territoriale, ma anche per non aver
riguardato materiali di cui
all'art. 185, comma 1, lettera f), d.lgs. 152/2006, per non
essere stata dimostrata la
destinazione alle normali pratiche agricole e zootecniche o
l'utilizzazione in
agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di
energia come richiesto dalla
norma.
Ha infatti precisato la Corte di appello che la rimozione
della vegetazione
spontanea a mezzo escavatore ed il successivo incenerimento
della stessa in una
buca all'uopo predisposta erano finalizzate alla
predisposizione dell'area per la
successiva realizzazione di un vivaio, sicché la combustione
del materiale vegetale
aveva come scopo evidente il definitivo smaltimento.
Le conclusioni cui sono pervenuti i giudici del gravame
risultano,
conseguentemente giuridicamente corrette ed assistite da
idonea motivazione.
15. Altrettanto deve dirsi con riferimento all'ulteriore
contestazione, riguardante
il reato di cui all'art. 674 cod. pen., di cui tratta il
secondo motivo di ricorso.
Va rilevato, a tale proposito, che detto motivo è generico,
limitandosi ad
affermare apoditticamente che la mera apparenza della
motivazione e la mancanza
di un accertamento sulla idoneità offensiva delle emissioni
provocate.
Ciò posto, deve osservarsi, in ogni caso, che l'ipotesi
contravvenzionale
considerata dall'articolo 674 cod. pen. configura, come è
noto, un reato di pericolo
finalizzato a prevenire esiti dannosi o pericolosi per le
persone conseguenti al getto
o versamento di cose atte ad offendere, imbrattare o
comunque molestare, ovvero
all'emissione di gas, vapori o fumi idonei a cagionare i
medesimi effetti.
Con specifico riferimento alle emissioni in atmosfera, è
tale ultima ipotesi che viene ovviamente presa in
considerazione (anche se non può escludersi, quale
conseguenza di tali attività, la emissione di polveri che,
data la loro diversa
consistenza, rientrano nel concetto di "cose" contemplato
nella prima parte
dell'articolo).
La seconda parte dell'articolo 674 cod. pen. prevede la
rilevanza penale delle
emissioni di gas vapori o fumi "nei casi non consentiti
dalla legge" ed è evidente che,
nel caso di specie, costituendo la combustione una illecita
attività di smaltimento,
l'emissione di fumo non poteva certo ritenersi consentita.
La Corte territoriale ha inoltre evidenziato come le
emissioni di fumo,
propagatesi a distanza e per diverse ore (tanto che un teste
riferiva che il giorno
successivo all'intervento dei vigili del fuoco dalla fossa
utilizzata per la combustione continuava ad uscire fumo che interessava l'area
circostante) superavano la
normale tollerabilità ed erano idonee ad arrecare molestia
alle persone, dando
dunque conto, con motivazione sintetica ma certamente
adeguata, della potenzialità
offensiva dei fumi già evidenziata nell'imputazione, laddove
si precisava che erano
stati i residenti dell'abitato circostante a sollecitare
l'intervento dei vigili del fuoco (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 02.08.2017 n.
38658). |
APPALTI:
Esclusione non automatica in caso di gravi precedenti
inadempimenti contrattuali non contestati in giudizio.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Per pregressa risoluzione anticipata del
contratto per significative carenze nell’esecuzione –
Risoluzione non cointestata in giudizio – Art. 80, d.lgs. n.
50 del 2016 – Non determina l’esclusione automatica.
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
18.04.2016, n. 50 -nella parte in cui dispone che tra i
gravi illeciti commessi dal concorrente e che ne determinano
l’esclusione rientrano “le significative carenze
nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata,
non contestata in giudizio”- non introduce una forma di
esclusione automatica, essendo comunque necessaria una
compiuta e concreta valutazione della stazione appaltante
circa la gravità e rilevanza dell’inadempimento contrattuale
pregresso rispetto alla persistenza del rapporto di fiducia
(1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che il comma 5 dell’art. 80, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 contiene anche un indice di riconoscimento
delle “significative carenze” ancorato agli effetti
giuridici che le stesse hanno prodotto, vale a dire la
risoluzione anticipata del contratto, divenuta definitiva
perché non contestata in giudizio, ovvero confermata
all'esito di un giudizio: il legislatore ha così inteso
perseguire finalità di semplificazione probatoria, in quanto
la mancata produzione di tali effetti tipicizzati rende ben
più complesso fornire la prova incontestabile che il
pregresso inadempimento è stato significativo. E’ la
stazione appaltante a essere gravata dell’onere di
dimostrare l’inaffidabilità del concorrente e non
quest’ultimo a dover dimostrare la propria affidabilità.
In esecuzione del comma 13 del citato art. 80, d.lgs. n. 50
del 2016 l’Anac ha adottato le
Linee guida 20.12.2016, n. 6, con le quali è
stato precisato quali mezzi di prova debbano considerarsi
adeguati, ovvero quali carenze nell'esecuzione di un
precedente contratto di appalto siano significative ai fini
del precedente comma 5, lett. c).
Dopo aver indicato a titolo esemplificativo una serie di
comportamenti che, ove abbiano comportato la risoluzione del
precedente contratto di appalto, costituiscono gravi
illeciti professionali, l’Autorità ha chiarito che i
comportamenti gravi e significativi accertati a carico dei
concorrenti devono essere valutati dalla stazione appaltante
“ai fini dell’eventuale esclusione” e ha dettato i
criteri cui le stazioni appaltanti debbono attenersi
nell’effettuare detta valutazione.
La gravità del comportamento deve essere valutata con
riferimento all’idoneità dell’azione a incidere
sull’interesse della stazione appaltante a contrattare con
l’operatore economico interessato, alla stregua di un
giudizio discrezionale che deve tenere conto delle
circostanze di fatto, della tipologia di violazione, delle
conseguenze sanzionatorie, del tempo trascorso e delle
eventuali recidive, il tutto in relazione all’oggetto e alle
caratteristiche dell’appalto. Il provvedimento di esclusione
deve essere adeguatamente motivato con riferimento agli
elementi indicati.
Non è dunque sufficiente, per disporre l’esclusione, che la
stazione appaltante richiami l’esistenza di una risoluzione
anticipata non contestata, dovendo invece tale esclusione
essere limitata ai soli casi in cui sia dimostrato in
concreto, con riferimento alle specifiche esigenze della
singola procedura di gara, il nesso causale tra il pregresso
illecito professionale e l’esclusione fondata sul giudizio
discrezionale di inaffidabilità del concorrente.
In altri termini, non ogni inadempimento pregresso, per
quanto grave e tale da aver condotto alla risoluzione di un
precedente contratto d’appalto, giustifica l’esclusione
dalla partecipazione a gare successive, in assenza di una
esplicita valutazione prognostica della stazione appaltante
circa la capacità del concorrente di eseguire in maniera
corretta le prestazioni oggetto del nuovo affidamento (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 01.08.2017 n. 1011
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
3.1. Il motivo è fondato.
3.1.1. Si è visto che l’art. 80, co. 5, lett. c), del d.lgs. n.
50/2016 identifica il grave illecito professionale, ostativo
alla partecipazione alle procedure di affidamento di
contratti pubblici, con le significative carenze commesse
nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di
concessione. Come autorevolmente osservato, la norma
contiene anche un indice di riconoscimento delle
“significative carenze” ancorato agli effetti giuridici che
le stesse hanno prodotto, vale a dire la risoluzione
anticipata del contratto, divenuta definitiva perché non
contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un
giudizio: il legislatore ha così inteso perseguire finalità
di semplificazione probatoria, in quanto la mancata
produzione di tali effetti tipicizzati (cui si aggiungono la
condanna al risarcimento del danno o l’applicazione di altre
sanzioni) rende ben più complesso fornire la prova
incontestabile che il pregresso inadempimento è stato
significativo, secondo una scelta che appare in linea con
gli orientamenti della giurisprudenza eurounitaria (cfr.
Cons. Stato, Commissione speciale, parere 03.11.2016,
n. 2286, reso sulle linee-guida ANAC recanti l’indicazione
dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione
di un precedente contratto d’appalto, in attuazione del
comma 13 dello stesso art. 80 cit. Sulle linee guida, v.
anche infra).
Ricordato che è la stazione appaltante a essere gravata
dell’onere di dimostrare l’inaffidabilità del concorrente e
non quest’ultimo a dover dimostrare la propria affidabilità,
la condizione minima perché possa configurarsi il
presupposto per l’esclusione dalla gara è, dunque, che la
risoluzione contrattuale contestata al concorrente abbia
assunto carattere di definitività a seguito di verifica
giurisdizionale in ordine alla effettiva sussistenza dei
comportamenti contestati al concorrente medesimo.
Un tale accertamento manca nella fattispecie in esame, né
può sostenersi che l’odierna ricorrente abbia fatto
acquiescenza alle contestazioni mosse nei suoi riguardi
dalla stazione appaltante S.A.C.. Con nota del 26.03.2016
la società consortile Fo., costituita dalle imprese
del raggruppamento aggiudicatario dell’appalto cui si
riferisce la dichiarazione resa dalla ricorrente ai sensi
dell’art. 80, co. 5, lett. c), d.lgs. n. 50/2016, ha
contestato di essere responsabile del ritardo
nell’esecuzione delle opere; quindi, con diffida notificata
il 19.09.2016, l’impresa mandataria del
raggruppamento in questione ha contestato a S.A.C. la
responsabilità dei ritardi nell’esecuzione delle opere
oggetto di appalto e la strumentalità del recesso dal
contratto esercitato dalla stessa S.A.C., e il contenzioso è
ulteriormente proseguito in sede stragiudiziale con la nota
della società Fontanarossa del 26.01.2017, contenente
un invito alla composizione bonaria della vertenza.
La non definitività della risoluzione contrattuale
autodichiarata dalla ricorrente, non avendo formato oggetto
di alcun accertamento giudiziale e non potendo considerarsi
altrimenti consolidata, impedisce di valutare come
“significative” le supposte carenze commesse
dall’appaltatore nell’esecuzione dell’appalto a suo tempo
affidato da S.A.C.. Ne risulta pregiudicato, di conseguenza,
l’intero ordito motivazionale del provvedimento impugnato,
che si incentra in modo pressoché esclusivo proprio sulla
mancata impugnativa dell’atto di risoluzione in danno
adottato dalla stazione appaltante S.p.a. nei confronti
della società Fontanarossa, costituita (anche) da R. S.r.l..
3.1.2. Alle considerazioni esposte, deve aggiungersi che il
rilievo di “significative carenze” nell’esecuzione di un
precedente appalto, pur se riscontrato dalla definitiva
risoluzione del sottostante rapporto contrattuale, non è di
per sé sufficiente a dimostrare l’inaffidabilità
dell’operatore economico.
L’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, al comma 13, demanda all’ANAC
di precisare –mediante l’adozione di specifiche linee guida
volte a garantire omogeneità di prassi da parte delle
stazioni appaltanti– quali mezzi di prova debbano
considerarsi adeguati, ovvero quali carenze nell'esecuzione
di un precedente contratto di appalto siano significative ai
fini del precedente comma 5, lett. c).
Con le linee guida n. 6, pubblicate il 20.12.2016 ed
entrate in vigore il 03.01.2017, l’ANAC ha indicato a
titolo esemplificativo una serie di comportamenti che, ove
abbiano comportato la risoluzione del precedente contratto
di appalto, costituiscono gravi illeciti professionali
(l’inadempimento di una o più obbligazioni contrattuali; le
carenze del prodotto o servizio fornito, tali da renderlo
inutilizzabile per lo scopo previsto; l’adozione di
comportamenti scorretti; il ritardo nell’adempimento;
l’errore professionale nell’esecuzione della prestazione;
l’aver indotto in errore l’amministrazione circa la fortuità
dell’evento che dà luogo al ripristino dell’opera
danneggiata per caso fortuito interamente a spese
dell’amministrazione stessa; qualunque omissione o errore di
progettazione imputabile all’esecutore che abbia determinato
una modifica o variante; qualunque omissione o errore di
progettazione imputabile al progettista, che abbia
determinato, nel successivo appalto di lavori, una modifica
o variante).
L’Autorità ha altresì chiarito che i comportamenti gravi e
significativi accertati a carico dei concorrenti debbono
essere valutati dalla stazione appaltante “ai fini
dell’eventuale esclusione”, e ha dettato i criteri cui le
stazioni appaltanti debbono attenersi nell’effettuare detta
valutazione.
In particolare, il paragrafo VI delle linee guida stabilisce
che la rilevanza delle situazioni accertate ai fini
dell’esclusione deve essere valutata nel rispetto del
principio di proporzionalità, assicurando: che le
determinazioni adottate dalla stazione appaltante perseguano
l’obiettivo di assicurare che l’appalto sia affidato a
soggetti che offrano garanzia di integrità e affidabilità;
che l’esclusione sia disposta soltanto quando il
comportamento illecito incida in concreto sull’integrità o
sull’affidabilità dell’operatore economico in considerazione
della specifica attività che lo stesso è chiamato a svolgere
in esecuzione del contratto da affidare; che l’esclusione
non sia tale da gravare in maniera eccessiva
sull'interessato e sia disposta all’esito di una valutazione
che operi un apprezzamento complessivo del candidato in
relazione alla specifica prestazione affidata.
La gravità
del comportamento deve essere valutata con riferimento
all’idoneità dell’azione a incidere sull’interesse della
stazione appaltante a contrattare con l’operatore economico
interessato, alla stregua di un giudizio discrezionale che
deve tenere conto delle circostanze di fatto, della
tipologia di violazione, delle conseguenze sanzionatorie,
del tempo trascorso e delle eventuali recidive, il tutto in
relazione all’oggetto e alle caratteristiche dell’appalto.
Il provvedimento di esclusione deve essere adeguatamente
motivato con riferimento agli elementi indicati.
Pur affermando di aver tenuto conto delle linee guida n. 6
nel deliberare l’esclusione di R. dalla procedura (si veda
la nota del 06.02.2017), la resistente CS. ha
frontalmente disatteso le indicazioni dell’ANAC, limitandosi
a desumere la sussistenza del grave illecito professionale
dal mancato promovimento di iniziative giurisdizionali (o in
sede arbitrale) a seguito della anticipata risoluzione
dell’appalto conferito dalla S.A.C..
L’illegittimità degli atti impugnati, beninteso, risiede nel
contrasto con la superiore norma di legge, prima ancora che
con le linee guida, non vincolanti. Nella parte in cui
escludono l’esistenza di automatismi espulsivi, le linee
guida –per definizione prive di autonomo contenuto
normativo– muovono infatti da una lettura del tutto
condivisibile dell’art. 80, co. 5, lett. c), del d.lgs. n.
50/2016, improntata ai canoni di ragionevolezza e
proporzionalità cui il legislatore è tenuto a conformarsi,
in modo da limitare l’esclusione dalle gare ai soli casi in
cui sia dimostrato in concreto, con riferimento alle
specifiche esigenze della singola procedura di gara, il
nesso causale tra il pregresso illecito professionale e
l’esclusione fondata sul giudizio discrezionale di
inaffidabilità del concorrente.
In altri termini, non ogni inadempimento pregresso, per
quanto grave e tale da aver condotto alla risoluzione di un
precedente contratto d’appalto, giustifica l’esclusione
dalla partecipazione a gare successive, in assenza di una
esplicita valutazione prognostica della stazione appaltante
circa la capacità del concorrente di eseguire in maniera
corretta le prestazioni oggetto del nuovo affidamento
(questo potrebbe presentare contenuti del tutto differenti
da quello non correttamente adempiuto, così come i
comportamenti a suo tempo addebitati al concorrente
potrebbero apparire irrilevanti ai fini della stipula di un
nuovo contratto, o costituire un’eccezione isolata
nell’ambito di un curriculum altrimenti immacolato
dell’operatore economico).
Ne discende, in ultima analisi, la correttezza di una
interpretazione dell’art. 80, co. 5, lett. c), che si pone in
linea con gli orientamenti giurisprudenziali formatisi
sull’art. 38, co. 1, lett. f), dell’abrogato d.lgs. n. 163/2006
(per tutte, cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 05.07.2017, n. 3288; id., 20.02.2017, n. 742).
La diversa
formulazione letterale delle due norme (l’art. 38, co. 1,
lett. f), rinviava alla “motivata valutazione della stazione
appaltante”) è superabile senza difficoltà, ritenendo che
la
“dimostrazione con mezzi adeguati” oggi richiesta riguardi
non solo gli illeciti professionali commessi in passato, ma
anche e soprattutto l’idoneità degli illeciti stessi a
mettere in dubbio l’integrità o affidabilità del
concorrente: conclusione imposta dalla necessità di leggere
in senso costituzionalmente orientato la nuova disciplina.
Sul piano procedimentale, correlativamente, le linee guida
n. 6 non fanno altro che esprimere una ovvia esigenza di
rispetto delle regole generali che governano l’esercizio
della discrezionalità amministrativa, a partire dall’obbligo
di motivazione sancito dall’art. 3 della legge n. 241/1990.
Di contro, lo si è detto, gli atti impugnati non espongono
alcuna valutazione concreta in ordine alla pretesa
inaffidabilità della società ricorrente, riferita alle
prestazioni oggetto dell’affidamento. Né la valutazione
mancante può dirsi supplita dal generico riferimento della
nota CS. in data 07.03.2017 alla “specifica attività” da
svolgere “in esecuzione del contratto da affidare”.
4. In forza di tutto quanto precede, il ricorso deve essere
accolto. L’esclusione disposta a carico della società
ricorrente va pertanto dichiarata illegittima e annullata,
nei già chiariti limiti dell’utilità residua
dell’annullamento. |
EDILIZIA PRIVATA: Il
Collegio ritiene di aderire all’orientamento, tuttora
maggioritario, della giurisprudenza amministrativa, secondo
cui la risalenza nel tempo dell’opera, di per sé, non incide
sul potere di repressione dell’abuso da parte della P.A.,
sicché in sede di emissione dell’ordinanza di demolizione
non si richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni
d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo
con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure
una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto.
---------------
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto
destinatario dell’ordine di demolizione, l’art 31 del d.P.R.
n. 380/2001, nell’individuare i soggetti colpiti dalle
misure repressive nel proprietario e nel responsabile
dell’abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo
della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al
proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del d.P.R.
n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione
abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di
demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile
dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si
limita a prevedere la legittimazione passiva del
proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di
demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di
una qualche responsabilità.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino
non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche
nella commissione dell'illecito, ma è correlato
all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con
quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e
all’individuazione di un soggetto il quale abbia la
titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il
proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in
modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico,
non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del
proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Il nuovo acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su
cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici
attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e
relativi al bene ceduto, ivi compresa l’abusiva
trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di
sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso
prima della traslazione della proprietà.
Rimane salva, naturalmente, la facoltà di rivalsa del
privato sul dante causa. Opinare diversamente consentirebbe
di eludere in modo agevole la normativa edilizia, a danno
del territorio e della collettività locale.
---------------
3.3. Infine, sulla necessità, o meno, di un obbligo
motivazionale “rinforzato”, segnatamente in ordine
all’esistenza e alla indicazione di un interesse pubblico
attuale e concreto alla applicazione della sanzione demolitoria, anche in relazione a una comparazione di detto
interesse con gli altri interessi coinvolti, questo Collegio
di appello ritiene condivisibili le argomentazioni e le
conclusioni alle quali è giunto il Tar.
La Sezione ben conosce l’orientamento giurisprudenziale
secondo cui, fermo il carattere dovuto dell’ingiunzione a
demolire, in presenza della constatata realizzazione di
un’opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da
esso) e, in linea di principio, la sufficienza della
motivazione limitata all’affermazione dell'accertata
abusività dell'opera, la repressione dell'abuso edilizio,
disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una
puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino
dei luoghi.
In tali casi, infatti, per il lungo lasso di
tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi
dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza,
si ritiene che si sia ingenerata una posizione di
affidamento nel privato, in relazione alla quale l'esercizio
del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua
motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla
tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse,
evidentemente diverso da quello ripristino della legalità,
idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto
interesse privato.
Tuttavia, con riferimento al caso di specie questo Collegio,
come fondatamente osservato dal Tar, ritiene che
l’orientamento suindicato non possa trovare applicazione.
Prima di tutto, e in termini generali, il Collegio ritiene
di aderire all’orientamento, tuttora maggioritario, della
giurisprudenza amministrativa, secondo cui la risalenza nel
tempo dell’opera, di per sé, non incide sul potere di
repressione dell’abuso da parte della P.A., sicché in sede
di emissione dell’ordinanza di demolizione non si richiede
alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse
pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non essendo
configurabile alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di illecito permanente, che
il tempo non può legittimare in via di fatto (così, ex multis, Cons. di Stato, sez. VI, nn. 13 del 2015, 5792 del
2014 e 6702 del 2012).
Nella fattispecie, l’ordinanza di demolizione irrogata alla
società Ze. risulta sufficientemente motivata attraverso
l’individuazione della struttura e delle sue
caratteristiche, e mediante l’indicazione del carattere
abusivo dell’intervento compiuto per l’assenza del
necessario permesso di costruire, risultando così in re ipsa
l’interesse pubblico ai corretti uso e gestione del
territorio.
Per quanto riguarda il reiterato rilievo difensivo di parte
appellante incentrato sull’assai lungo lasso di tempo
trascorso tra la realizzazione del manufatto (tra l’altro,
nemmeno da parte della ricorrente ma direttamente dal
costruttore e comunque dal precedente proprietario e dante
causa; e in disparte la soluzione da dare alla questione,
non necessaria per decidere, sulla data effettiva della
esecuzione dei lavori oggetto dell’ordinanza di
demolizione), e l’emissione dell’ordinanza impugnata, tale
elemento non assume rilievo nel senso prospettato dalla
società appellante e ciò perché non risulta comprovato che
il Comune fosse sin da epoca risalente a conoscenza
dell’abuso commesso –si sostiene- negli anni 1963-1965,
durante la costruzione del fabbricato.
Neppure risulta comprovata la conoscenza dell’abuso, da
parte del Comune, con riferimento alla data della
presentazione della istanza di sanatoria.
E’ esatto infatti quanto afferma la difesa civica e, cioè,
che il Comune ha attivato il procedimento di repressione
dell’abuso edilizio –illecito permanente- non appena la
società ha rinunciato alla istanza di sanatoria, il che è
avvenuto nel giugno del 2014, come risulta in atti.
Tra l’istanza di archiviazione della sanatoria e l’adozione
della misura repressiva impugnata in primo grado, datata 27.04.2015, è dunque trascorso meno di un anno (senza
considerare che l’avviso di avvio del procedimento di
repressione dell’abuso edilizio è stato consegnato alla
società Ze. il 16.02.2015), periodo di tempo, come
appare evidente, tale da non far sorgere in capo al privato
un affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva o, perlomeno, tale da
subordinare la legittimità dell’ingiunzione di demolizione a
una motivazione rinforzata sull’interesse pubblico
prevalente alla demolizione della struttura.
Sul punto vanno aggiunte altre due considerazioni.
La prima attiene al fatto che il fabbricato ricade in zona
sottoposta a vincolo paesaggistico (v. d.m. 14.12.1959,
recante dichiarazione di notevole interesse pubblico del
complesso insulare di Chioggia; cfr., ora, l’art. 157, lett.
c), del t.u. n. 42 del 2004; v. anche l’art. 167 del t.u.
cit., oltre a essere posta all’interno della conterminazione
lagunare – l. n. 366 del 1963), e in tale ipotesi la
prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato è
comunque da considerarsi in re ipsa, in considerazione del
rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2,
Cost. (sulla tutela del paesaggio inserita dall’art. 9 Cost.
tra i propri principi fondamentali, così da assurgere a
valore primario o assoluto, si può fare rinvio a Corte cost., n. 367/07), sicché sono da considerarsi recessivi gli
interessi privati in conflitto con il preminente interesse
alla tutela del bene paesaggio (cfr. Cons. Stato, sez. V, n.
4610 del 2012).
La seconda annotazione riguarda la legittimazione passiva
della società Ze. rispetto all’ordine di demolizione, e
si collega con il profilo di censura d’appello basato sulla
affermata, omessa considerazione dell’affidamento della
società ricorrente in ordine alla “legittimità”
dell’immobile acquistato.
Il Collegio –in disparte le considerazioni difensive
comunali che inducono a dubitare della fondatezza della tesi
della buona fede di parte appellante in quanto nuova
proprietaria; e precisato che la circolare comunale del
29.01.2008 si riferiva agli interventi edilizi realizzati
prima del 1967 al di fuori del centro abitato, mentre
l’edificio in esame rientra nel centro abitato, fatto
coincidere con il perimetro individuato dal d.m. del
14.12.1959-, ritiene che la legittimazione passiva non sia
esclusa per il fatto che la realizzazione dell’abuso sia
avvenuta, come si sostiene, prima dell’acquisto della
proprietà da parte della ricorrente.
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto
destinatario dell’ordine di demolizione, infatti, l’art 31
del d.P.R. n. 380/2001, nell’individuare i soggetti colpiti
dalle misure repressive nel proprietario e nel responsabile
dell’abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo
della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere
concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al
proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del d.P.R.
n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione
abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di
demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile
dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si
limita a prevedere la legittimazione passiva del
proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di
demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di
una qualche responsabilità.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino
non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche
nella commissione dell'illecito, ma è correlato
all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con
quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e
all’individuazione di un soggetto il quale abbia la
titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il
proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in
modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico,
non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del
proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Il nuovo acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su
cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici
attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e
relativi al bene ceduto, ivi compresa l’abusiva
trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di
sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione
successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso
prima della traslazione della proprietà (cfr. Consiglio di
Stato, VI, n. 3210 del 2017; V, n. 40 del 2007).
Rimane salva, naturalmente, come il Comune appellato non
manca di rilevare, la facoltà di rivalsa del privato sul
dante causa.
Opinare diversamente consentirebbe di eludere in modo
agevole la normativa edilizia, a danno del territorio e
della collettività locale.
In conclusione, non sussistono né il difetto di motivazione
e neppure la carenza di istruttoria rilevati nell’atto di
appello che, dunque, va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 28.07.2017 n. 3789 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Per
consolidata giurisprudenza, la pubblica amministrazione non
ha l’obbligo giuridico di pronunciarsi su un’istanza diretta
a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela, che
costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità
amministrativa, di cui essa è titolare per la tutela
dell'interesse pubblico e che, in quanto tale, è
incoercibile dall'esterno.
In particolare, la giurisprudenza è costante nell'affermare
che “non è ravvisabile alcun obbligo per l'Amministrazione
di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un
provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile
ab extra l'attivazione del procedimento di riesame della
legittimità di atti amministrativi mediante l'istituto del
silenzio-rifiuto, costituendo l'esercizio del potere di
autotutela facoltà ampiamente discrezionale
dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di
esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun
obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino
l'esercizio; per cui sulle stesse non si forma il silenzio e
la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è
da ritenersi inammissibile”.
--------------
Invero, secondo i principi espressi dell’Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato (dalla sentenza n. 11 del 2016),
pronunciatasi proprio sulla questione dell’applicabilità
della normativa sopravvenuta alle ipotesi di riesercizio del
potere amministrativo dopo la formazione di un giudicato
favorevole al ricorrente, occorre innanzitutto interpretare
il contenuto dispositivo della pronuncia passata in
giudicato da ottemperare, al fine di verificare se in esso
sia stata sancita espressamente la spettanza del bene della
vita (ipotesi nella quale le nuove norme non possono
incidere pregiudicando la pretesa sostanziale
dell’interessato già riconosciuta come spettante dal Giudice
Amministrativo), ovvero se a seguito del giudicato il potere
dell’Amministrazione di esprimersi sulla fondatezza
sostanziale della pretesa sia rimasto inalterato, essendosi
il Giudice Amministrativo limitato ad affermare l’obbligo
per l’Ente di esercitare nuovamente il potere, senza invece
vagliare la fondatezza della domanda sostanziale (e quindi
il diritto al bene della vita) articolata dal privato (caso
quest’ultimo, invece, nel quale la normativa sopravvenuta va
applicata, anche laddove da ciò derivi il necessario
respingimento della domanda articolata dal ricorrente, sulla
base della nuova legge applicabile).
Nel caso in esame la sentenza n. 724/2016 ha semplicemente
dichiarato l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza
con qualsiasi provvedimento, senza pronunciarsi sulla
spettanza del bene della vita, sicché bene ha fatto il
Comune ad applicare la normativa portata dal citato art. 8
della LR. 17/2015, in vigore al momento dell’istruttoria e
dell’adozione del provvedimento citato, rispettando quindi
perfettamente il principio del tempus regit
(regolatore dell’adozione dei provvedimenti amministrativi).
Non può neppure sostenersi la illegittimità della seconda
nota del 28.2.2017 con la quale il Comune di Nardò ha
rilevato di non poter annullare in autotutela in bando già
pubblicato.
Come chiarito, giusta provvedimento 19.05.2016, lo stesso
aveva già prestato ottemperanza alla sentenza n. 724/201 e,
comunque, per consolidata giurisprudenza, dalla quale non si
ravvisano ragioni per discostarsi, la pubblica
amministrazione non ha l’obbligo giuridico di pronunciarsi
su un’istanza diretta a sollecitare l’esercizio del potere
di autotutela, che costituisce una manifestazione tipica
della discrezionalità amministrativa, di cui essa è titolare
per la tutela dell'interesse pubblico e che, in quanto tale,
è incoercibile dall'esterno (ex multis, Consiglio di
Stato, Sez. V, 04.05.2015, n. 2237; id., Sez. IV,
26.08.2013, n. 4309).
In particolare, la giurisprudenza è costante nell'affermare
che “non è ravvisabile alcun obbligo per
l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad
ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo
coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di
riesame della legittimità di atti amministrativi mediante
l'istituto del silenzio-rifiuto, costituendo l'esercizio del
potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale
dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di
esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun
obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino
l'esercizio; per cui sulle stesse non si forma il silenzio e
la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è
da ritenersi inammissibile” (TAR Lazio, Sez. I-ter,
18.07.2016, n. 9563)
(TAR Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 28.07.2017 n. 1329 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia dell’Unione europea le conseguenza
dell’omessa indicazione nell’offerta dei costi di sicurezza
aziendale.
---------------
Appalti pubblici – Oneri di sicurezza aziendale – Omessa
indicazione in assenza di espressa prescrizione nella lex
specialis – Esclusione dalla gara – Compatibilità con il
diritto europeo – Rinvio pregiudiziale alla Corte di
giustizia U.E.
Deve essere rimessa alla Corte di
giustizia dell’UE la seguente questione pregiudiziale ex
art. 267 del TFUE:
a) Se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e
di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera
circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di
libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul
Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi
che ne derivano, come la parità di trattamento, la non
discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità
e la trasparenza, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE,
ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale
quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt.
95, comma 10, e 83, comma 9, del D. Lg.vo n. 50/2016,
secondo la quale l’omessa separata indicazione dei costi di
sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una
procedura di affidamento di appalti pubblici, determina, in
ogni caso, l’esclusione della ditta offerente senza
possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in
cui l’obbligo di indicazione separata non sia stato
specificato nell’allegato modello di compilazione per la
presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla
circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta
rispetti effettivamente i costi minimi di sicurezza
aziendale (1).
---------------
(1) I. - Il rinvio pregiudiziale è stato occasionato da una
controversia in materia di affidamento di servizi sanitari
sottosoglia, indetto nella vigenza del nuovo codice dei
contratti pubblici, in cui la commissione di gara, rilevando
l’omessa specifica indicazione nell’offerta economica degli
oneri di sicurezza, ha consentito la “regolarizzazione”
dell’offerta medesima mediante “soccorso istruttorio”.
Il provvedimento di ammissione è stato poi impugnato da una
delle imprese concorrenti lamentando la violazione del
d.lgs. n. 50 del 2016 nella parte in cui prevede l’obbligo
di indicazione separata, all’atto della predisposizione
delle offerte per partecipare ad una procedura ad evidenza
pubblica di affidamento di appalto di servizi, dei costi
interni di sicurezza aziendale (ai sensi dell’artt. 95,
comma 10, a mente del quale “nell’offerta economica
l’operatore deve indicare i propri costi aziendali
concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di
salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”), con divieto
di successiva sanatoria (a mente dell’art. 83, comma 9, che
esclude la sanabilità delle carenze essenziali della domanda
di partecipazione “afferenti all’offerta tecnica e
all’offerta economica”), anche qualora siffatta
indicazione separata non sia prevista nel modulo predisposto
dall’amministrazione per la presentazione delle offerte,
secondo l’orientamento giurisprudenziale nazionale allo
stato prevalente (v. Tar per la Calabria, Reggio Calabria,
25.02.2017, n. 166; Cons. Stato, sez. V, ord. 15.12.2016, n.
5582; Tar per il Molise, 09.12.2016, n. 513; Tar per la
Campania, Salerno, 06.07.2016, n. 1604 citate in motivazione
cui adde Tar per la Campania , Napoli, sez. III, 03.05.2017,
n. 2358; contra (e con ampia ricostruzione della
problematica) si veda di recente Tar per il Lazio, sez.
I-bis, 17.05.2017, n. 7042).
La natura inderogabile di siffatto obbligo legale, da
assolvere sin dalla fase di predisposizione dell’offerta
economica e senza possibilità di successiva integrazione,
viene giustificata dalla giurisprudenza amministrativa
nazionale al fine di garantire la massima trasparenza
dell'offerta economica nelle sue varie componenti, evitando
che la stessa possa essere modificata ex post nelle sue
componenti di costo, in sede di verifica dell'anomalia, con
possibile alterazione dei costi della sicurezza al fine di
rendere sostenibili e quindi giustificabili le voci di costo
riferite alla fornitura del servizio o del bene.
Il Tar, richiamati gli orientamenti del giudice nazionale e
comunitario formatisi nella vigenza del d.lgs. 163/2006,
dubita della compatibilità comunitaria delle sopravvenute
disposizioni del d.lgs. 50/2016, che, con portata innovativa
rispetto al passato, prevedono oggi espressamente l’obbligo
di dichiarazione separata, in sede di predisposizione
dell’offerta economica, dei costi aziendali per la
sicurezza, vietando in tal caso (stando almeno
all’orientamento prevalente anche se non univoco cfr. sul
punto Tar per il Lazio n. 7042 del 2017 cit.) il ricorso al
soccorso istruttorio.
L’ordinanza di rimessione ritiene, in particolare, che
l’inderogabilità di siffatto obbligo legale si ponga in
contrasto con il diritto comunitario e, segnatamente, con i
principi di tutela dell’affidamento, del favor
partecipationis e della proporzionalità, valevoli anche
per gli appalti sotto soglia, nei casi in cui l’indicazione
separata degli oneri di sicurezza non sia espressamente
prevista nel modulo predisposto dall’amministrazione per la
presentazione delle offerte.
Ciò in quanto:
a) L’impresa ha fatto affidamento, per l’appunto, sulle indicazioni
fornite dalla stessa stazione appaltante ai fini della
partecipazione ad una gara attenendosi alla modulistica a
tal fine predisposta sicché è dubbio che possa configurarsi
una colpa “sanzionabile” con l’esclusione nel
comportamento di chi abbia omesso l’indicazione degli oneri
di sicurezza interni sebbene prescritta dalla legge. Tale
conseguenza viene ritenuta in contrasto anche con i principi
di proporzionalità e di certezza del diritto;
b) in assenza di espressa e motivata contestazione circa la
congruità dell’offerta rispetto ai costi di sicurezza
aziendale, la sanzione dell’esclusione verrebbe a
configurarsi quale conseguenza di una violazione meramente
formale in violazione dei principi comunitari del favor
partecipationis e della parità di trattamento
sostanziale tra le imprese concorrenti, con l’effetto anche
di restringere indebitamente la platea dei possibili
concorrenti e, quindi, con sostanziale violazione dei
connessi principi di libera concorrenza e di libera
prestazione dei servizi nell’ambito del territorio
dell’Unione europea.
II. – In relazione alla precedente normativa (europea e
nazionale) si sono pronunciate:
c)
Corte giust. UE sez. VI, 10.11.2016, C-162/16, Spinosa
(in Appalti & Contratti, 2016, fasc. 12, 22 (m); nonché
oggetto della
News US in data 25.11.2016 secondo cui «il
principio della parità di trattamento e l’obbligo di
trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa
al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli
appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi,
devono essere interpretati nel senso che ostano
all’esclusione di un offerente dalla procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito
dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo
di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per
la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è
sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non
risulta espressamente dai documenti di gara o dalla
normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di
tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con
l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le
lacune presenti in tali documenti. I principi della parità
di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere
interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere
a un tale offerente la possibilità di rimediare alla
situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine
fissato dall’amministrazione aggiudicatrice») che, a sua
volta, richiama
Corte giust. UE, 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo
(oggetto della
News US in data 05.07.2016 nonché in Foro it.,
2017, IV, 206 con nota di CONDORELLI), secondo cui «Il
principio di parità di trattamento e l’obbligo di
trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano
all’esclusione di un operatore economico da una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato
rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non
risulta espressamente dai documenti relativi a tale
procedura o dal diritto nazionale vigente, bensì da
un’interpretazione di tale diritto e di tali documenti
nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un intervento
delle autorità o dei giudici amministrativi nazionali, le
lacune presenti in tali documenti. In tali circostanze, i
principi di parità di trattamento e di proporzionalità
devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto
di consentire all’operatore economico di regolarizzare la
propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un
termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice»);
d)
Ad. plen., 27.07.2016, n. 19 (oggetto della
News US in data 01.08.2016, nonché in Foro it.,
2017, III, 309, con nota di GAMBINO, cui si rinvia per ogni
approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui
<<Per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore
del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50, qualora l’obbligo di
indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non
sia stato specificato dalla legge di gara e dalla
modulistica allegata ma sia assodato che sostanzialmente
l’offerta abbia tenuto conto dei costi minimi di sicurezza
aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere
disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a
regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel
doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio>>,
che, a sua volta ha chiarito i principi espressi dalla
medesima Adunanza plenaria nelle sentenze 02.11.2015, n. 9 e
20.03.2015, n. 3 (rispettivamente in Foro it., 2016, III, 65
e 114 con note di CONDORELLI e TRAVI cui si rinvia per ogni
ulteriore approfondimento), secondo cui rispettivamente:
I) <<Non sono legittimamente esercitabili i
poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa
indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le
procedure nelle quali la fase della presentazione delle
offerte si è conclusa prima della pubblicazione della
decisione dell’adunanza plenaria 20.03.2015, n. 3>>;
II) <<Nelle procedure di affidamento di
lavori, i partecipanti alla gara devono indicare
nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del
lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche
se non prevista nel bando di gara>>;
e)
Cons. St., sez. III, 09.01.2017, n. 30 secondo
cui «E’ illegittima l’esclusione dell’impresa che non
abbia indicato nella propria offerta economica gli oneri
della sicurezza aziendale, ove la stessa non sia stata
invitata dalla stazione appaltante a regolarizzare
l’offerta, nel doveroso esercizio dei poteri del soccorso
istruttorio al cospetto dalla loro mancata predeterminazione
negli atti di gara» (TAR
Basilicata,
ordinanza 25.07.2017 n. 525
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Alla Corte di giustizia dell’Unione europea le conseguenza
dell’omessa indicazione nell’offerta dei costi di sicurezza
aziendale.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Costi sicurezza aziendale – Omessa separata indicazione –
Conseguenza - Artt. 83, comma 9, e 95, comma 10, d.lgs. n.
50 del 2016 – Esclusione dalla gara – Senza esperimento
soccorso istruttorio – Rimessione alla Corte di giustizia
dell’Unione europea.
Va rimessa alla Corte di giustizia
dell’Unione europea la questione se i principi comunitari di
tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto,
unitamente ai principi di libera circolazione delle merci,
di libertà di stabilimento e di libera prestazione di
servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione
Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la
parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo
riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui
alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino all’applicazione di una
normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal
combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 83, comma 9,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo la quale l’omessa separata
indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte
economiche di una procedura di affidamento di appalti
pubblici, determina, in ogni caso, l’esclusione della ditta
offerente senza possibilità di soccorso istruttorio, anche
nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata non
sia stato specificato nell’allegato modello di compilazione
per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere
dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale,
l’offerta rispetti effettivamente i costi minimi di
sicurezza aziendale (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che la direttiva del Parlamento europeo
e del Consiglio del 26.02.2014 sugli appalti pubblici n.
2014/24/UE dispone, all’art. 18, par. 1, comma 1, che “le
amministrazioni aggiudicatrici trattano gli operatori
economici su un piano di parità e in modo non
discriminatorio e agiscono in maniera trasparente e
proporzionata”; all’art. 56, par. 3, che “se le
informazioni o la documentazione che gli operatori economici
devono presentare sono o sembrano essere incomplete o non
corrette, o se mancano documenti specifici, le
amministrazioni aggiudicatrici possono chiedere, salvo
disposizione contraria del diritto nazionale che attua la
presente direttiva, agli operatori economici interessati a
presentare, integrare, chiarire o completare le informazioni
o la documentazione in questione entro un termine adeguato,
a condizione che tale richiesta sia effettuata nella piena
osservanza dei principi di parità di trattamento e
trasparenza”.
Ha aggiunto il Tar che il nuovo Codice dei contratti
pubblici ha previsto espressamente l’obbligo di
dichiarazione separata in sede di offerta economica dei
costi aziendali per la sicurezza e ha vietato in tal caso il
ricorso al soccorso istruttorio.
Il Tar ha dubitato della conformità al diritto dell’Unione
di siffatta disciplina, qualora l’offerta che non contiene
l’indicazione dei costi aziendali per la sicurezza del
lavoro sia stata redatta dall’impresa partecipante alla gara
di appalto su modulo predisposto dalla stazione appaltante,
che non prevede tale indicazione.
Ha quindi rimesso la questione alla Corte di Giustizia
dell’Unione europea. Infatti, tenuto anche conto che non è
in discussione il fatto che l’offerta, dal punto di vista
sostanziale, rispetti i necessari costi di sicurezza,
l’esclusione appare difficilmente compatibile con la tutela
del legittimo affidamento, la certezza del diritto e la
proporzionalità, che sono principi generali del diritto
dell’Unione europea di applicazione trasversale, che, come
tali, devono trovare applicazione anche per le procedure
pubbliche di affidamento di appalti il cui valore non
raggiunga la soglia comunitaria.
L’applicazione rigorosa della legge italiana, nel non
ammettere la possibilità del c.d. soccorso istruttorio,
conduce dunque all’automatica esclusione delle imprese che
abbiano omesso l’indicazione separata, indipendentemente dal
fatto che il requisito, nella sostanza, fosse invece
posseduto: con la conseguenza di restringere indebitamente
la platea dei possibili concorrenti e, quindi, con
sostanziale violazione dei connessi principi di libera
concorrenza e di libera prestazione dei servizi nell’ambito
del territorio dell’Unione sanciti dal TFUE (TAR
Basilicata,
ordinanza 25.07.2017 n. 525
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
L'esercizio, in forma ambulante, di un’attività
di raccolta e trasporto di rifiuti altrui resta fuori dagli
obblighi connessi alla gestione dei rifiuti, di cui all’art.
256 D.L.vo 152/2006, a condizione che, ai sensi dell’art.
266, comma 5, D.L.vo 152/2006, si possegga l’abilitazione
allo svolgimento dell’attività di raccolta e trasporto di
rifiuti in forma ambulante e sempre che l’attività sia
limitata ai soli rifiuti oggetto del suo commercio.
---------------
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Questa Corte Suprema ha già più volte affermato che "la
condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152
del 2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del
prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra
quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210,
211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche
di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio
di una attività primaria diversa che richieda, per il suo
esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia
caratterizzata da assoluta occasionalità",
e dall'altro, sulla base di una lettura "sistematica" della
disposizione, che "la deroga prevista
dall'alt. 266, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006 per
l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da
terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra
la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del
titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale
in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114
e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto
del suo commercio"
(Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro, Rv. 260266; conf.
Sez. 3, n. 23908 del 19/04/2016, Butera, Rv. 267019; Sez. 3,
n. 34917 del 09/07/2015, Caccamo, Rv. 264822; Sez. 3, n. 269
del 10/12/2014, Seferovic, Rv. 261959) (Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 21.07.2017
n. 36025). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Poteri del Consiglio comunale in sede di ratifica
dell’accordo di programma.
---------------
Accordi di
programma – Ratifica – Accordo ex art. 34, d.lgs. n. 267 del
2000 – Potere del consiglio comunale – Individuazione.
Il Consiglio comunale, all'atto della
ratifica dell'accordo di programma ex art. 34, comma 5,
d.lgs. 18.08.2000, n. 267, non può entrare nel merito dei
contenuti dell’accordo già firmato, negandola per ragioni
sostanziali (1).
---------------
(1) La sentenza affronta la questione della natura e dei contenuti
della ratifica, da parte del Consiglio comunale,
dell'accordo di programma ex art. 34, comma 5, d.lgs.
18.08.2000, n. 267.
Tale disposizione prevede l'obbligo di ratifica dell'operato
del Sindaco "ove l'accordo comporti variazione degli
strumenti urbanistici".
Il Tar, dopo aver qualificato l'istituto in oggetto, si
sofferma sulla questione se il Consiglio comunale, all'atto
della ratifica, possa entrare nel merito dei contenuti
dell’accordo di programma già firmato, negandola per ragioni
sostanziali, come avvenuto nel caso di specie.
La conclusione negativa si basa sia sull'analisi della
funzione della ratifica ex lege di cui al comma 5
dell'art. 34 sia sulla valorizzazione dei contenuti
dell'accordo di programma, sottoscritto dal Sindaco, il cui
apporto sarebbe costantemente vanificato qualora il
consiglio comunale entrasse nel merito dei contenuti
dell'accordo, a maggior ragione qualora vengano censurati
aspetti diversi dalla variazione degli strumenti
urbanistici.
Proprio in ragione dell’eccezionalità di questa attribuzione
di potere, il Tar ha ritenuto che la ratifica non può essere
intesa come disponibilità di un potere di autotutela del
consiglio comunale che entri nel merito della scelta frutto
dell’azione concordata degli enti locali nella conferenza di
servizi e poi nel successivo accordo di programma.
Il Tribunale è poi passato a esaminare la domanda
risarcitoria. Pur essendo stato annullato il provvedimento
impugnato, la domanda di risarcimento ex art. 30 c.p.a. è
stata negata a causa della mancata prova del danno subito
dalla parte ricorrente, che grava su di questa in base ai
principi che governano la responsabilità aquiliana
L'ulteriore, subordinata, domanda di risarcimento del danno
da ritardo nella conclusione del procedimento (durato, in
effetti, tantissimi anni a causa di reiterate inerzie dei
soggetti pubblici coinvolti) è stata anch'essa negata: dopo
una analisi dell'istituto e della giurisprudenza in materia,
la Sezione ha concluso per il diniego sulla base
dell'orientamento più recente del Consiglio di Stato, che
non riconosce il risarcimento del danno da mero ritardo, e
pretende la necessità dell’accertamento della spettanza del
bene della vita richiesto, ovvero dell’adozione del
provvedimento favorevole (TAR
Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 20.07.2017 n. 8818
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2. Così decise le eccezioni preliminari, il Collegio
passa dunque al merito del ricorso.
Il primo motivo è infondato.
La delibera comunale 62/2007, nell’approvare il progetto
presentato dall’Ufficio di Roma s.r.l., aveva preteso la
realizzazione di una variante urbanistica e, quindi, la
stipula di un accordo di programma ai sensi dell’art. 34
d.lgs. 267/2000; ciò in quanto la delibera di Giunta
regionale n. 1620/83 imponeva lo strumento del piano
attuativo, per edificare nella zona di Grotta Portella.
Parte ricorrente, come detto, sostiene che la suindicata
prescrizione costituisca un vincolo cd. strumentale,
assimilabile ai vincoli ablatori, come tale decaduto per
decorso del termine quinquennale di cui all’art. 2 della l.
1187/1968.
2.1. Il Collegio ritiene che le ricorrenti errino a monte,
nel ritenere che quanto stabilito dalla delibera regionale
1620/83 circa la necessità di “un intervento urbanistico
preventivo, da approvarsi dal Comune” (vedi doc. 6 prod.
ricorrenti) configuri un vincolo avente le caratteristiche
di cui all’art. 2 della l. 1187/1968 (oggi trasfuso
nell'art. 9 del D.P.R. n. 327/2001) per come interpretato
dalla giurisprudenza.
È certamente vero che l’orientamento attualmente
maggioritario e dominante ritiene che il criterio della
decadenza quinquennale (secondo cui i vincoli preordinati
all'esproprio o quelli comportanti inedificabilità perdono
efficacia ove non seguiti nell'arco del quinquennio dalla
approvazione del piano attuativo) si estende anche ai
vincoli c.d. strumentali, cioè a quei vincoli che
subordinano l'edificabilità di un'area all'inserimento della
stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di
uno strumento esecutivo (in questo senso, vedi anche Tar Campania- Napoli, sez. II, 24.02.2016, n. 1029).
Va tuttavia messo in evidenza che la nozione di “vincolo
strumentale” è comunque riferibile a quelle prescrizioni
che producano una pressoché totale ablazione del diritto di
proprietà, essendo tanto intensi da annullare o ridurre
notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono,
ivi compresa l'ipotesi di imposizione temporanea di
inedificabilità fino all'entrata in vigore dei piani
particolareggiati, per la cui redazione non sia fissato
alcun termine finale certo.
In sostanza, per essere considerato “strumentale”
occorre che il vincolo impedisca in modo netto
l’edificabilità dell’area, svuotando il contenuto del
diritto di proprietà e incidendo sul godimento del bene
tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale ovvero diminuendone in modo
significativo il suo valore di scambio.
In questo senso, la previsione di una determinata tipologia
urbanistica non configura un vincolo preordinato
all'espropriazione né comportante l'inedificabilità
assoluta, trattandosi di una prescrizione diretta a regolare
concretamente l'attività edilizia, in quanto inerente alla
potestà conformativa propria dello strumento urbanistico
generale, la cui validità è a tempo indeterminato come
espressamente stabilito dall'art. 11 della legge 17.08.1942,
n. 1150 (TAR Campania, Napoli, sez. I, 05.11.2014, n. 5706).
2.1.1. Orbene, v’è fortemente da dubitare che la previsione
di cui alla delibera n. 1620/83 configuri un vincolo di tal
fatta, per la semplice ragione che essa costituisce una
semplice previsione a completamento del regime urbanistico
della zona in questione, come qualificata dal PRG, e senza
che possa ritenersi che essa abbia un effetto ablativo o
ostativo all’edificazione, tale da farla ritenere
assimilabile a un vincolo strumentale e, quindi, alla
disciplina di cui all’art. 2 citato.
D’altra parte, la ratio evidente della decadenza dei
vincoli, anche nell’accezione più estesa, è quella di porre
rimedio ai ritardi o all’inerzia dell’Amministrazione
nell’attuazione in concreto degli strumenti urbanistici
generali, al fine di evitare il sostanziale svuotamento del
diritto di proprietà.
Nel caso di specie, siamo di fronte a una fattispecie
sostanzialmente opposta: l’intervento urbanistico preventivo
(in sostanza, una richiesta di variante al PRG) proviene
direttamente dalla parte privata e al Comune spetta
semplicemente l’approvazione.
Vi è quindi da ritenere che la decisione del Comune di non
consentire l’edificazione diretta sia certamente corretta e
comunque è evidente che se le ricorrenti avessero inteso
censurare la scelta dell’Amministrazione, avrebbero dovuto
impugnare direttamente la delibera n. 62/2007, rendendo
inammissibile la proposizione di tale censura.
3. I motivi successivi, da interpretare alla stregua di un
unico motivo, sono fondati e devono essere accolti.
La vicenda in sé ha uno snodo fondamentale: l’approvazione
dell’Accordo di programma il 16.01.2012, all’esito della
conferenza di servizi iniziata nel 2010.
L’istituto in questione costituisce un'ipotesi di
urbanistica negoziata, particolarmente utile per la
ponderazione di interessi pubblici concorrenti, e può
comportare variazioni agli strumenti urbanistici vigenti
anche per la realizzazione di un'opera di un soggetto
privato, su aree di proprietà privata e per finalità
private; tuttavia, ai sensi dell'art. 15 della l. 07.08.1990
n. 241, i destinatari degli accordi di programma sono le
amministrazioni pubbliche, sicché i privati non possono
essere portatori di diritti soggettivi nascenti dall'accordo
ma, se incisi dallo stesso, sono portatori di un interesse
legittimo al corretto esercizio del potere amministrativo,
suscettibile di tutela con gli ordinari rimedi consentiti
dall'ordinamento (così, Cons. St., 25.11.2015, n. 361).
Più specificatamente, esso rappresenta una speciale
tipologia di accordo tra pubbliche amministrazioni
finalizzato alla definizione ed attuazione, con eventuale
incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi
o programmi che richiedono per la loro completa
realizzazione l'azione integrata e coordinata di comuni,
province e regioni, di amministrazioni statali o di altri
soggetti pubblici (Cons. St., sez. IV, 21.11.2005, n. 6467)
3.1. Ciò detto, nel caso di specie l’Accordo del 16.01.2015
presentava prescrizioni aggiuntive a carattere edificatorio,
non oggetto di contraddittorio in conferenza di servizi, ma
comunque approvate anche dal Comune di Frascati in qualità
di firmatario, nella persona del sindaco, dell’accordo
stesso.
La necessità della ratifica nasceva dunque semplicemente
dall’applicazione del comma 5 dell’art. 34 d.lgs. 267/2000,
in base al quale “ove l'accordo comporti variazione degli
strumenti urbanistici, l'adesione del sindaco allo stesso
deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta
giorni a pena di decadenza”.
La disposizione è chiara nel prevedere la competenza del
consiglio comunale a fare proprio un atto che, altrimenti,
fino al momento della ratifica, non spiega alcuna efficacia
(Cons. St., sez. IV, 22.02.2013, n. 1097).
D’altra parte è noto che si ha ratifica quando l’organo
competente fa proprio un atto emesso da un organo
incompetente, consentendogli di spiegare efficacia
retroattivamente.
Nel caso della ratifica prevista dall’art. 34, comma 5, del
d.lgs. 267/2000 si ha, nella sostanza, un meccanismo di
ratifica ex lege, quindi non frutto di un
procedimento amministrativo di secondo grado, in cui
l’incompetenza del Sindaco firmatario dell’accordo è
presupposta ab origine e necessita del placet
dell’organo consiliare per consentire all’atto di spiegare i
suoi effetti.
3.1.1. La questione che si pone, dunque, all’attenzione del
collegio è se in sede di ratifica ex art. 34, il consiglio
comunale possa entrare nel merito dei contenuti dell’accordo
di programma già firmato e negare la ratifica per ragioni
sostanziali, come avvenuto nel caso di specie.
La risposta è negativa per ragioni di ordine letterale e
sistematico.
In primo luogo, la disposizione del comma 5 parla
espressamente di “ratifica” e quindi non può lasciare
dubbi in ordine al fatto che si riferisca a quella forma di
atto amministrativo che mira a preservare gli effetti di un
atto adottato da organo incompetente, con l’unica
precisazione che trattasi di incompetenza sancita
direttamente dalla legge, tenuto conto che è la stessa legge
a preoccuparsi di fare in modo che lo strumento negoziato
(accordo) acquisti il crisma di provvedimento amministrativo
vero e proprio laddove esso impinga in ambiti di stretta
competenza dell’ente pubblico, quali le modifiche agli
strumenti urbanistici.
La disposizione costituisce quindi massima espressione
dell’interesse del legislatore alla salvaguardia
dell’interesse pubblico all’organico controllo delle
modifiche al territorio, che sarebbero a rischio laddove si
consentisse al sistema dato dal binomio “conferenza di
servizi” – “accordo di programma”, di apportare
modifiche al sistema di regolamentazione urbanistica senza
passare per il consiglio comunale.
Che si tratti di un provvedimento di mera assunzione di
competenza non vi sono dubbi, perché, diversamente opinando,
il legislatore avrebbe utilizzato un termine diverso e
presumibilmente avrebbe fatto riferimento non alla ratifica,
bensì alla “convalida”, che è il provvedimento con il
quale l’amministrazione elimina un vizio di legittimità
dall’atto che ne era affetto.
Al riguardo, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare
che l’accordo di programma è sottoscritto dal sindaco,
legittimamente ma a titolo provvisorio, secondo i principi
che governano l'istituto della ratifica, e non acquista
efficacia se non è approvato dal competente Consiglio
comunale nel termine di decadenza di trenta giorni (così,
Cons. St., sez. IV, 21.11.2005, n. 6467; id. Cons. St., sez.
IV, 09.10.2002, n. 5365).
In secondo luogo, la funzione di formale presa d’atto della
ratifica di cui al comma 5, risiede nell’essenza stessa del
sistema di attività amministrativa negoziata di cui all’art.
34 d.lgs. 267/2000, che è frutto del binomio conferenza di
servizi-accordo, secondo quanto stabilito dallo stesso art.
34.
Pertanto, quando il soggetto avente la competenza primaria o
prevalente sull’opera o sugli interventi o sui programmi di
intervento da realizzare promuove la conclusione di un
accordo di programma, “per assicurare il coordinamento
delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il
finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”, è
obbligatoria la convocazione di una conferenza tra i
rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate, “per
verificare la possibilità di concordare l'accordo di
programma”.
Il binomio conferenza di servizi (chiaramente istruttoria)–accordo di programma attribuisce un valore di programmazione
e decisione piena all’incontro della volontà delle parti
interessate, anche quando, in caso di variante dei piani
urbanistici, sia necessaria la ratifica da parte dell’organo
consiliare normalmente competente, che in giurisprudenza è
stata considerata alla stregua di “atto interno che si
inserisce nella sequenza procedimentale tesa al
perfezionamento dell'accordo di programma” (Cons. St.,
sez. IV, 27.05.2002, n. 2909).
Ne discende che non può esservi spazio per un intervento, da
parte del consiglio comunale, che entri nel merito
dell’accordo già negoziato.
Il consiglio, infatti, se decide –nel pieno delle sue
prerogative- di non avallare la decisione del Sindaco
aderente, semplicemente non ratifica entro trenta giorni,
facendo così decadere in automatico l’accordo.
Ma hanno pienamente ragione le società ricorrenti laddove
lamentano la violazione dell’art. 34, comma 5, d.lgs.
267/2000 in quanto il consiglio comunale avrebbe svolto un
controllo sull’intero procedimento amministrativo (sul nulla
osta dell’Asl, sulla certificazione dell’Acea, sulla
permanenza del soddisfacimento delle esigenze
imprenditoriali), subordinando una ipotetica ratifica futura
alla "riformulazione completa del progetto in ragione
delle prescrizioni intervenute, all’acquisizione dei pareri
non ancora acquisiti nonché alla verifica del permanere dei
presupposti imprenditoriali ed economico-finanziari alla
base della proposta originaria ed adeguando alla luce di
questi elementi il testo dell’Accordo di programma”.
Il collegio va oltre, e chiarisce che la natura del
meccanismo di ratifica avrebbe impedito al consiglio
comunale di Frascati anche di entrare nel merito delle
scelte di tipo urbanistico.
Operando nel modo suddetto, chiaramente contrario al
disposto di legge, il consiglio comunale ha sostanzialmente
operato una sorta di ritiro (non consentito) dell'atto,
avente le caratteristiche sia dell’annullamento d’ufficio
che della revoca, ma senza identificarsi pienamente in
nessuno dei due: una sorta di autotutela auto-imposta, nella
quale vengono rilevate carenze sostanziali dell’atto in
relazione, come già illustrato, alle prescrizioni
intervenute, all’acquisizione dei pareri non ancora
acquisiti nonché alla verifica del permanere dei presupposti
imprenditoriali ed economico-finanziari alla base della
proposta originaria, che, da un lato, fanno pensare a una
sorta di revoca (ma l’atto è formalmente non revocabile, in
quanto ancora inefficace, e la revoca, si sa, incide sugli
effetti dell’atto a seguito di rivalutazione dell’interesse
pubblico), dall’altro a un annullamento d’ufficio stante la
rimozione dell’atto (valido ma inefficace) ex tunc,
ma per ragioni che non appaiono affatto corrispondenti a
vizi di legittimità tali da invalidare la decisione, salvo
spingersi a pensare che il mancato recepimento delle nuove
prescrizioni o la mancata acquisizione dei pareri non
acquisiti costituisca vizio tale da rendere invalida la
decisione concertata.
L’anomalia di questa originale forma di autotutela risiede
nella circostanza che il Comune ha autonomamente rivalutato
l’interesse pubblico alla definizione dell’accordo,
ovviamente senza fornire alle parti alcuna comunicazione
preventiva sul punto, e senza dire alcunché sull’unica
ragione legittimante il suo intervento, ossia la conformità
dell’accordo agli strumenti urbanistici oggetto di
variazione, perché è quello l’unico caso in cui l’art. 34
impone l’intervento del Comune.
In tutti gli altri casi, il comma 4 dell’art. 34 TUEL
stabilisce che “l'accordo, consistente nel consenso
unanime del presidente della regione, del presidente della
provincia, dei sindaci e delle altre amministrazioni
interessate, è approvato con atto formale del presidente
della regione o del presidente della provincia o del sindaco
ed è pubblicato nel bollettino ufficiale della regione”.
La circostanza che il successivo comma 5 imponga la ratifica
del consiglio comunale “ove l'accordo comporti variazione
degli strumenti urbanistici” costituisce dunque
circostanza eccezionale, isolata, coerente con il sistema,
ma di fatto circoscritta al caso di specie e finalizzata a
evitare che le variazioni degli strumenti urbanistici (che
possono comportare anche sostituzioni delle concessioni
edilizie, oltre che varianti ai Piani, vedi sempre disposto
del comma 4 della disposizione in questione) avvengano senza
il consenso del Comune, che di fatto va a approvare, con la
ratifica, l’operato di un organo –il Sindaco– che in materia
urbanistica non ha alcuna competenza specifica tale da
legittimare la presenza del suo solo consenso per apportare
variazioni decisive nel tessuto urbanistico.
Proprio in ragione dell’eccezionalità di questa attribuzione
di potere, è evidente che la ratifica non può essere intesa
come disponibilità di un potere di autotutela nel merito
della scelta frutto dell’azione concordata degli enti locali
nella conferenza di servizi e poi nel successivo accordo di
programma.
Di talché, se è legittimo, su un piano formale che in sede
di accordo di programma siano recepite, anche all’insaputa
delle parti, eventuali decisioni assunte nella conferenza di
servizi o anche da taluno degli enti coinvolti,
separatamente (nel caso di specie, si tratta delle note
prescrizioni di adeguamento delle dimensioni dei fabbricati
a determinati standards), non è altrettanto legittimo che il
Comune si spinga oltre, fino a negare la ratifica per
ragioni che, di fatto, esulano dai suoi poteri e dalla sua
sfera di competenza, in quanto neppure aventi ad oggetto
valutazioni di carattere urbanistico.
L’alterazione della sequenza procedimentale e i contenuti
del provvedimento emesso il 15.02.2012 (e quindi nei
trenta giorni dalla sottoscrizione dell’Accordo il 16
gennaio dello stesso anno, che, quindi, era perfettamente
vigente e non era affatto decaduto) rendono palesemente
illegittima l’azione del Comune, sotto il profilo della
violazione della disciplina degli accordi di programma ex
art. 34 d.lgs. 267/2000 caratterizzati dalla paritaria
codeterminazione dell’atto e, in linea di massima, da
principi di leale collaborazione e di condivisione
dell’azione amministrativa tra i vari enti pubblici
coinvolti, e anche sotto il profilo, lungamente esposto,
della violazione della disciplina della ratifica di cui al
comma 5, e determinano l’annullamento della delibera
impugnata.
4. Il Collegio passa ora a esaminare l’accoglibilità delle
domande risarcitorie, premettendo che, per esplicita
richiesta della parte ricorrente, la domanda di risarcimento
del danno da ritardo è stata posposta a quella di cui
all’art. 30 c.p.a., proposta con i motivi aggiunti e che
quindi viene esaminata per prima.
4.1. La domanda risarcitoria va respinta perché le
ricorrenti non hanno fornito prova dei danni subiti a causa
dell’illegittimo comportamento dell’Amministrazione.
È costante e non controverso il riferimento
giurisprudenziale ai requisiti necessari per configurare la
responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni
provocati dall'azione amministrativa, ossia l'adozione di un
provvedimento illegittimo, la dimostrazione del dolo o della
colpa (da valersi quale elemento costitutivo del diritto al
risarcimento) dell'autorità che lo ha emanato, non essendo
sufficiente il solo annullamento dell'atto lesivo, e la
prova che dalla colpevole condotta amministrativa sia
derivato, nella sfera patrimoniale del presunto danneggiato,
un pregiudizio economico direttamente riferibile
all'assunzione od all'esecuzione della determinazione
illegittima
(ex plurimis, Cons. St., sez. VI
14.10.2016 n. 4266; id., sez. IV, 01.08.2016 n. 3464; id.,
sez. III, 09.02.2016 n. 559; id., sez. V, 18.01.2016, n.
125; id., sez. III, 11.03.2015, n. 1272; id., sez, VI,
08.07.2015, n. 3400; id., sez. V, 13.01.2014, n. 63).
È altresì affermato in giurisprudenza che occorre anche la
dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato
ex ante, che l'aspirazione al provvedimento sia
destinata a esito favorevole, dovendo la parte dimostrare,
anche con il ricorso a presunzioni, la spettanza definitiva
del bene collegata a tale interesse.
4.2. Nel caso di specie, non sembra che esistano grandi
margini di aleatorietà rispetto al fatto che il progetto,
una volta approvato, sarebbe stato formalmente cantierabile
e, in definitiva, realizzabile, posto che esso era stato
approvato, nei contenuti, con la sottoscrizione dell’accordo
di programma del 16.01.2012, e al massimo avrebbe potuto non
essere ratificato dal Comune in applicazione del comma 5
dell’art. 34.
Considerato che il provvedimento di mancata ratifica è stato
giudicato, come illustrato supra, illegittimo per le
ragioni indicate, al Collegio è consentita la valutazione
circa la spettanza alle ricorrenti del bene della vita,
sicché, in mancanza di elementi di segno opposto, non può
che confermarsi il contenuto dell’Accordo già firmato, sulla
cui validità non possono essere fatte osservazioni, posto
che esso non è stato oggetto di impugnazione e considerando
che le ragioni sostanziali della non ratifica sono, come
detto, palesemente illegittime.
4.3. La questione, quindi, attiene a un profilo probatorio
che involge esclusivamente la prova del danno e che è
strettamente collegata al tipo di iniziativa imprenditoriale
assunta nonché alle allegazioni e richieste della parte.
Nell’atto di motivi aggiunti, ove la domanda è stata
proposta, le ricorrenti dedicano alla allegazione della
richiesta, e alla relativa prospettazione probatoria, poche
righe, contenute solo nell’ultima pagina dell’atto
difensionale, nelle quali affermano che “deve aversi
riguardo alle proiezioni economico finanziarie contenute nel
piano di fattibilità dell’iniziativa imprenditoriale
proposta. La quantificazione del danno non può che derivarsi
dalla attualizzazione dei redditi annui futuri attesi dai
ricorrenti, pari a 111 mila euro annui per Proedit s.r.l. e
64 mila euro annui per Ufficio di Roma s.r.l., per una
durata illimitata e ad un tasso del 9,06% (pari al ROI
convenzionale, come determinato nella scheda tecnica), per
un importo totale di 1.932.000”.
A tale prospettazione segue, subito dopo, la richiesta di
condanna al risarcimento del Comune di Frascati, ex art. 30
c.p.a. “nella misura di euro 706.560,00 a favore di
Ufficio di Roma s.r.l. e euro 1.225.440,00 a favore della
Pr. s.r.l.”.
Il Collegio, oltre a rilevare una evidente e ingiustificata
contraddizione nelle somme richieste, rileva che le parti
non hanno fornito alcun elemento che consenta non solo di
calcolare il presunto danno, ma, soprattutto, di stabilirne
gli elementi essenziali e le voci oggetto di richiesta
risarcitoria.
Deve rilevarsi, sul punto, che la domanda non ha riguardo a
danni emergenti ma solamente a possibile lucro cessante,
consistendo nella richiesta di refusione dei possibili
redditi futuri.
Infatti, la domanda di refusione delle spese, pari a 50.000
euro, faceva parte della domanda di risarcimento del danno
da ritardo, posposta a quella ex art. 30 c.p.a., e non
riproposta in tale sede.
Quello che rende la richiesta inaccoglibile è la circostanza
che essa si basi su elementi assolutamente aleatori, facenti
capo al “Piano di fattibilità” (doc. 5 prod.
ricorrenti), che rappresenta l’illustrazione dell’iniziativa
imprenditoriale ma che di per sé è semplicemente un
documento previsionale e astratto, avente ad oggetto un
progetto del tutto irrealizzato e soggetto, come ogni
iniziativa imprenditoriale, a una serie di variabili non
valutabili in concreto.
La domanda risarcitoria, disattendendo quindi questo
aspetto, ritiene acquisiti mancati guadagni dell’attività,
una volta realizzata e a regime, che si basano
esclusivamente su proiezioni ipotetiche contenute nelle
strumento programmatorio, ma del tutto disancorate da
elementi oggettivi o da riscontri concreti circa la loro
realizzazione.
In sostanza la parte confonde l’astratta cantierabilità
dell’opera (riconosciuta anche da questo collegio) con la
sua concreta eseguibilità.
Non per nulla, lo stesso nome del Piano, denominato “di
fattibilità”, dimostra chiaramente che nessuna domanda
risarcitoria avrebbe potuto essere proposta dando per
esistente qualcosa che esistente non era, posto che non
esiste un nesso causale immediato tra l’approvazione del
progetto (illegittimamente negata dal Comune) e la sua certa
realizzazione, e questo per la ragione che non si trattava
della semplice realizzazione di un manufatto, ma di un
complesso e articolato progetto imprenditoriale che avrebbe
anche potuto non vedere la luce stante l’aleatorietà che
contraddistingue tale tipologia di attività.
4.4. Vanno a tal proposito
ribaditi i principi elaborati
dalla giurisprudenza in materia di quantificazione del danno
da mancata aggiudicazione, che sono utilizzabili anche nel
caso di specie trattandosi di principi generali in materia
di responsabilità risarcitoria, e quindi:
- ai sensi degli artt. 30 e 40 c.p.a., il danneggiato deve offrire
la prova dell’an e del quantum del danno che
assume di aver sofferto;
- spetta al soggetto danneggiato offrire la prova dell’utile che in
concreto avrebbe conseguito, qualora vi fosse stato corretto
esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, poiché
nell’azione di responsabilità per danni il principio
dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo
acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64,
commi 1 e 3, c.p.a.); quest'ultimo, infatti, in tanto si
giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare
l'asimmetria informativa tra amministrazione e privato la
quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il
correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la
medesima necessità non si riscontra in quella consequenziale
di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il
criterio della c.d. vicinanza della prova determina il
riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in
generale dall'art. 2697, primo comma, cod. civ.;
- la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere
raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione
di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che
l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza
possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà
assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della
«inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto
sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di
un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque
accidit (in virtù della regola della «inferenza
probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero
convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli
elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti
legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non
può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata
su dati meramente ipotetici.
4.4.1. Da tali pacifici principi deriva che la parte
ricorrente, avendo ritenuto di liquidare la richiesta
risarcitoria semplicemente con un richiamo alla parte del
piano di fattibilità nel quale si fanno solo previsioni,
senza alcun dato certo, è venuta meno al proprio onere
probatorio come sopra illustrato, non avendo fornito la
prova del danno effettivo subito, posto che, come detto,
l’approvazione del progetto non implicava automaticamente la
sua realizzazione e la parte non ha fornito elementi sul
punto.
Tutto questo ribadendo la circostanza oggettiva che
nell’atto di motivi aggiunti non vi è corrispondenza tra
danno prospettato nel corpo dell’atto e danno richiesto in
sede di conclusioni, senza che sia possibile in alcun modo
ricostruire il ragionamento e i conteggi effettuati dalla
parte.
4.4.2. In tale contesto, anche la liquidazione equitativa è
impossibile, in quanto è ormai principio consolidato (ma sul
punto si veda Cass. civ., n. 17752 del 2015) quello per cui
"l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il
danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt.
1226 e 2056 c.c. ed espressione del più generale potere di
cui all'art. 115 c.p.c., dà luogo, non già a un giudizio di
equità, bensì a un giudizio di diritto caratterizzato dalla
cd. equità giudiziale integrativa, che, pertanto, presuppone
che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che
risulti obiettivamente impossibile o particolarmente
difficile, per la parte interessata, provare il danno nel
suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo,
surrogare il mancato accertamento della prova della
responsabilità del debitore o la mancata individuazione
della prova del danno nella sua esistenza".
4.5. Vi è un altro aspetto da considerare, che il Collegio
ritiene particolarmente significativo ai fini del non
accoglimento della pretesa risarcitoria, e consiste nella
circostanza che le resistenti, in modo del tutto
inspiegabile, non abbiano proposto domanda cautelare per la
sospensione del provvedimento, attendendo per anni la
fissazione del merito, deciso con la presente decisione.
Orbene, è quanto mai singolare che la richiesta risarcitoria
vada a connotarsi di contenuti legati (esclusivamente) alla
redditività di un progetto che, una volta bocciato dal
Comune, avrebbe potuto, in caso di esito favorevole della
domanda cautelare di sospensione, essere portato a
compimento, posto che i suoi contenuti erano ricompresi
nell’Accordo di programma.
Lungi dal decadere, infatti, l’Accordo avrebbe ripreso vita
laddove la delibera 8/2012 fosse stata sospesa (o persino
annullata qualora fosse stata emessa sentenza in forma
semplificata), e la parte avrebbe potuto dare esecuzione
all’iniziativa imprenditoriale con i dovuti tempi.
È presumibile invece supporre che, stante anche la mancata
richiesta di risarcimento di eventuali spese e investimenti
sostenuti, a titolo di danno emergente, le due società non
avessero intenzione di proseguire nell’iniziativa, anche in
ragione del notevole tempo trascorso tra l’adesione
all’Avviso pubblico (2004) e la decisione sfavorevole
(2012).
Vale quindi la regola, di cui all’art. 30, comma 3, secondo
periodo, c.p.a., a mente del quale il giudice “esclude il
risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare
usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento
degli strumenti di tutela previsti”, regola espressione
del più generale principio consacrato dall’art. 1227, comma
secondo, codice civile.
5. Il Collegio passa dunque a esaminare la domanda di
risarcimento del danno da ritardo spiegata nei confronti di
Comune e Regione, subordinata dalla parte al mancato
accoglimento di quella risarcitoria ex art. 30 c.p.a.
Va sin d’ora chiarito che alla categoria del danno da
ritardo possono essere ricondotte sia le ipotesi di adozione
tardiva di un provvedimento (sfavorevole o favorevole), sia
la mera inerzia, consistente nella mancata adozione del
provvedimento.
Mentre nel caso del provvedimento tardivo ma favorevole, la
risarcibilità del danno da ritardo sostanzialmente coincide
con il risarcimento dell’interesse legittimo pretensivo,
negli altri casi (danno cagionato dal ritardo nella
emanazione di un provvedimento a contenuto sfavorevole per
il privato; esistenza di inerzia nel provvedere senza previo
accertamento della spettanza del bene finale della vita
richiesto) è stata sempre discussa la possibilità
risarcitoria.
Alla luce delle prospettazioni delle ricorrenti, che
censurano esclusivamente l’eccessiva lunghezza del
procedimento che ha condotto all’emissione della delibera
impugnata e non riconducono a tale condotta un danno che sia
diverso dal mero ritardo, il Collegio ritiene che la domanda
di parte miri al risarcimento della mera inerzia, anche
perché solo così detta domanda può essere considerata
diversa da quella di condanna ex art. 30 c.p.a., basata
sulla declaratoria di illegittimità del provvedimento.
5.1. In argomento, va ricordato che l’articolo 2-bis della
l. 241/1990, invocato dalle ricorrenti a sostegno della
domanda, e introdotto, nella sua versione originaria,
dall’art. 7 della l. 18.06.2009, n. 69, ha fornito per la
prima volta un fondamento normativo al c.d. danno da
ritardo, che invece era strenuamente negato dalla più
autorevole giurisprudenza amministrativa (si veda Adunanza
Plenaria n. 7 del 2005), la quale ha ancorato la
risarcibilità del danno solo all’accertamento della
spettanza del bene della vita e non alla mera inerzia.
Successivamente, il codice del processo amministrativo,
d.lgs. n.104 del 02.07.2010, ha ribadito all’art. 30, comma
4, in una disposizione finalizzata all’individuazione del
dies a quo per presentare il ricorso finalizzato al
risarcimento del danno da ritardo, la risarcibilità del
danno che il ricorrente provi aver subito in esito
all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione
del procedimento.
Il legislatore è nuovamente intervenuto sul punto con il
d.lgs. 21.06.2013 n. 69, conv. in legge 09.08.2013 n. 98,
con il quale ha introdotto un comma 1-bis nel corpus
dell’art. 2-bis della legge 241, statuendo il diritto per
l’istante di ottenere un indennizzo in conseguenza del mero
ritardo nella conclusione del procedimento: dunque, un
ristoro patrimoniale conseguente alla valutazione del mero
ritardo nell’adozione di un provvedimento, che qui funge da
strumento riparatorio a favore del privato, nonché
coercitivo e sanzionatorio nei confronti
dell’Amministrazione.
5.2. Va rilevato dunque che
dal 2010 in poi molte sentenze
hanno cercato di sovvertire l’impostazione dell’Adunanza
Plenaria, soprattutto laddove fossero coinvolti interessi a
carattere economico-imprenditoriale, affermando che il
ritardo imputabile alla P.A. nella conclusione di un
qualunque procedimento amministrativo, qualora incidente su
interessi pretensivi agganciati a programmi di investimento
di cittadini o imprese, è sempre un costo che va risarcito,
dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale
variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani
finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone
la relativa convenienza economica
(in termini Cons. Giust.
Ammin. Sicil., 04.11.2010 n. 1368; Cons. St., sez. V,
28.02.2011 n. 1271; id., sez. V, 21.03.2011, n. 1739, id.
24.03.2011 n. 1796; Cons. Giust. Ammin. Sicil., 24.10.2011
n. 684).
Si sostiene infatti che ogni incertezza sui tempi di
realizzazione di un investimento si traduce nell’aumento del
c.d. "rischio amministrativo" e, quindi, in maggiori
costi, attesa l’immanente dimensione diacronica di ogni
operazione di investimento e di finanziamento, e che i
principi di cui all’art. 2-bis erano già viventi
nell’ordinamento prima della novella del 2009; altresì, si è
affermato che il danno da ritardo sussisterebbe anche se il
procedimento autorizzatorio non si fosse ancora concluso e
finanche se l’esito fosse stato in ipotesi negativo.
Secondo Consiglio di Stato sez. III 31.01.2014, n. 468,
l'art. 2-bis, l. 07.08.1990 n. 241 tutela in sé il bene
della vita inerente alla certezza, quanto al fattore tempo,
dei rapporti giuridici che vedono come parte la Pubblica
amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a
provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed
iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva
della stessa, ovvero alla rimozione di limiti di rilievo
pubblico al loro espletamento (v. anche in termini Cons.
St., sez. IV, 04.09.2013, n. 4452 e sez. V, 21.06.2013, n.
3405).
Si è altresì affermato che l'art. 2-bis, l. n. 241 del 1990
protegge il bene «tempo» quale bene della vita
suscettibile di incidere sulla «progettualità» del
privato e sulla libera determinazione dell'assetto dei suoi
interessi, naturalmente calibrato sui tempi certi del
procedimento e potenzialmente pregiudicato dai ritardi dello
stesso (TAR Abruzzo, 19.12.2013, 1064).
Il ritardo nella conclusione del procedimento e il mancato
rispetto dei tempi certi del procedimento vengono pertanto a
rappresentare, giuridicamente, un danno “ingiusto” e,
sul piano economico, un costo “illegittimo" per
quanto attiene le prospettive, le aspettative e le scelte
dei privati, in quanto integranti motivo di forte
condizionamento della loro vita, tale da incidere
negativamente sulla convenienza economica delle scelte
preventivate, sia se il bene preteso dal privato risulterà
dovuto sia nel caso in cui lo stesso venga negato, posto che
l'incertezza sull'esito del procedimento, protratta oltre i
limiti previsti dalla legge per la sua conclusione,
impedisce o comunque rende più complessa la predisposizione
di programmi o scelte diverse ed alternative.
5.3. Tuttavia, altra parte della giurisprudenza, ormai
maggioritaria, continua ad affermare l’irrisarcibilità del
danno da ritardo mero e la necessità, per poter riconoscere
il risarcimento del danno da ritardo, dell’accertamento
della spettanza del bene della vita richiesto, ovvero
dell’adozione del provvedimento favorevole (Cons. St., sez. IV, 28.05.2013, 2899; id., 07.03.2013, n. 1406; TAR Campania
Salerno sez. II, 18.11.2013, n. 2277; TAR Lazio, sez. III,
19.07.2013, 7386; TAR Campania Napoli, sez. II, 12.07.2013,
n. 3641; TAR Liguria sez. I, 02.07.2013, 985).
Il bene della vita diventa, dunque, presupposto
indispensabile per configurare una condanna della
Amministrazione al risarcimento del relativo danno.
Altre pronunce, alcune delle quali molto recenti, hanno
ribadito che l’art. 2-bis della l. n. 241 del 1990 non ha
elevato a distinto bene della vita, suscettibile di
un’autonoma protezione mediante il risarcimento del danno,
l’interesse procedimentale al rispetto dei termini
dell’azione amministrativa, scisso dal riferimento alla
spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il
procedimento è finalizzato (ex plurimis, Cons. St.,
sez. IV, 12.11.2015, n. 5143; id., sez. III, 12.03.2015, n.
1287; id., sez. III, 23.04.2015, n. 2040; id., sez. V,
09.03.2015, n. 1182; id., sez. IV, 01.07.2014, n. 3295; id.,
sez. IV, 06.04.2016, n. 1371; id., sez. V, 11.07.2016, n.
3059; id., sez. V, 22.09.2016, n. 3920; id., sez. IV,
26.07.2016, n. 3376).
E questo nonostante l’introduzione, nel 2013, della
previsione di un ristoro di natura indennitaria in
conseguenza del mero ritardo, in quanto il meccanismo
dell’indennità avrebbe struttura e funzione ben diverse da
quello risarcitorio.
5.4. La questione è quindi collegata alla soluzione che si
preferisca dare a quella ad essa preliminare, relativa
all’individuazione della natura, aquiliana o contrattuale,
della suddetta responsabilità, questione più volte esaminata
in giurisprudenza, in ultimo dalla citata sentenza
3920/2016.
Infatti, solo dall’accoglimento della tesi della natura
contrattuale della responsabilità della p.a. potrebbe
conseguire il risarcimento del danno da mero ritardo
nell’adozione del provvedimento, in esito alla verifica
della violazione del termine di conclusione del procedimento
da parte dell’Amministrazione alla stregua di una sorta di
contatto procedimentale instauratosi con l’apertura del
procedimento e determinante un legittimo affidamento del
privato alla conclusione del procedimento nei termini di
legge, la cui lesione fonderebbe un pregiudizio risarcibile
autonomamente.
Tale tesi trae il suo principale fondamento dalle recenti
modifiche normative sopra illustrate, che risulterebbero
essere indici inequivoci della voluntas legis di
riconoscere normativamente il risarcimento in tali ipotesi,
e nell’avere il legislatore devoluto alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle
cause in questione (l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1,
c.p.a., stabilisce che è devoluta alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle
controversie in materia di risarcimento del danno derivante
dall’inosservanza del termine di conclusione del
procedimento).
Pertanto, in questa ipotesi, il ricorrente sarebbe onerato,
in sede processuale, solo di fornire la prova
dell’instaurazione del procedimento volto alla realizzazione
di un suo interesse legittimo pretensivo o dinamico, e di
allegare l’inadempimento della p.a., nella specie
sussistente nella mancata conclusione dello stesso nei
termini previsti dalla legge, secondo il modello di
responsabilità derivante dall’applicazione dell’art. 1218
c.c. (vedi, sulla questione dell’onere della prova, la
fondamentale sentenza Cass. Sez. Un. 30.10.2001, n. 13533).
5.4.1. Per contro, dall’accoglimento della tesi della natura
extracontrattuale della responsabilità dell’amministrazione
deriverebbe un riparto dell’onere della prova decisamente
diverso e conforme a quanto ricollegabile al meccanismo
dell’art. 2043 c.c., per cui la parte non dovrebbe fornire
la prova del mero ritardo, bensì la prova del danno
effettivamente subito a causa del ritardo, e quindi, da
ultimo, nella prova della spettanza del bene della vita
finale, costituito dal certo o altamente probabile esito
favorevole del procedimento amministrativo.
Al di là degli argomenti usati a sostegno di tale tesi, le
conseguenze applicative immediate consistono nella
ripartizione dell’onus probandi al fine di ritenere
dimostrata la sussistenza di un danno economicamente
valutabile, quindi risarcibile: infatti, non basterà la
prova della violazione del termine di conclusione del
procedimento, il quale costituirà solo un indice oggettivo
del danno, ma non potrà da solo fondare la pronuncia di
condanna della p.a. al risarcimento.
Occorrerà, piuttosto, fornire la prova della responsabilità
aquiliana della Pubblica Amministrazione, ai sensi dell’art.
2697 c.c., in tutti i suoi elementi costitutivi: sia quelli
di carattere oggettivo (ammontare del danno, ingiustizia
dello stesso, nesso causale) sia quelli soggettivi (dolo o
colpa della p.a.).
5.5.
Il Collegio ritiene di aderire a tale ultimo
orientamento, che non è risultato scalfito dalla riforma del
2013, che, sia pur introducendo una prima disposizione di
tutela per il bene “tempo” del privato nei confronti
dell’Amministrazione, opta tuttavia per una tutela di tipo
indennitario, inducendo a ritenere la non illiceità del
comportamento nella specie tenuto, con la conseguente
esclusione di forme di responsabilità aquiliana ancorate
all’elemento dell’ingiustizia del danno, allorché il
giudizio di spettanza relativo al provvedimento finale,
favorevole per il privato, abbia esito negativo.
Ne discende, pertanto, il rigetto della domanda risarcitoria
per danno da ritardo, che la parte ricorrente ha prospettato
esclusivamente quale danno da mancato rispetto del termine
del procedimento, sicché, pure nella oggettiva constatazione
che otto anni per ottenere un provvedimento (pure
sfavorevole) sono decisamente troppi, l’adesione al modello
di responsabilità aquiliana sopra richiamato non può che
comportare una decisione sfavorevole per le parti private. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Modalità di esercizio della potestà di autotutela.
Il Consiglio di Stato puntualizza, pure alla luce dei
recenti approdi normativi ex legge 07.08.2015 n. 124, che ha
rivisto l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, le
modalità di esercizio della discrezionale potestà di
autotutela, con esito di annullamento, circa gli obblighi di
motivazione a fronte sia dell’affidamento ingenerato nel
destinatario sul consolidamento dell’efficacia dell’atto
rimovendo, sia dell’incidenza del tempo trascorso tra
quest’ultimo e la sua rimozione nel determinare tal
affidamento, sia della qualità degli interessi coinvolti
nell’autotutela.
In particolare precisa che:
- ove si abbia un affidamento
dei destinatari sulla stabilità dell’assetto degli interessi
posto dall’atto rimovendo, l’atto d’autotutela deve
contenere, soprattutto se adottato a distanza di un lungo
tempo dal primo, una motivazione particolarmente convincente
circa l'apprezzamento degli interessi dei destinatari
dell'atto, in relazione alla pregnanza e alla preminenza
dell'interesse pubblico alla eliminazione d'ufficio del
titolo illegittimo;
- l'interesse pubblico specifico alla rimozione dell'atto
illegittimo va integrato da ragioni differenti dalla mera
esigenza di ripristino della legalità e va motivato con
maggior rigore a seconda non solo del tempo trascorso, ma
pure dell’effetto, istantaneo o prolungato, di ampliamento
della sfera giuridica soggettiva del destinatario;
- esiste un unico modello normativo (tranne talune eccezioni di
settore), latamente discrezionale e salvo (parimenti
discrezionale) convalida, del procedimento di secondo grado
con esito di annullamento per porre rimedio ai vizi di cui
all’art. 21-octies, comma 1, della legge n. 241/1990;
- tale discrezionalità non si confonde, anzi prescinde dal tipo di
potere esercitato col provvedimento viziato;
- l’esercizio della discrezionalità stessa va motivata in modo più
o meno stringente e non tautologico (c.d. “in re ipsa”),
poiché non pare sussistere un interesse pubblico in senso
assoluto sempre e comunque tanto forte, da elidere ogni
diversa soluzione e da coincidere, in pratica, nel mero
ripristino della legalità violata;
- tale motivazione sarà, quindi, più o meno doviziosa ed
articolata, ma sempre su un interesse pubblico concreto,
cioè a seconda sia del tipo di assetto di interessi
formatosi col provvedimento viziato, sia del tempo trascorso
tra esso e quello in cui la P.A. vuol intervenire per porvi
rimedio, sia dell’efficacia istantanea, o no,
dell’ampliamento della sfera giuridica del destinatario;
- l’affidamento di quest’ultimo alla serietà ed alla stabilità di
tal assetto deve essere a sua volta serio e incolpevole, di
talché l’obbligo di motivazione diminuisce sensibilmente a
fronte d’un illecito del destinatario prima dell’esercizio
del potere originario o se il vizio che ne colpisce la
manifestazione sia stato indotto, prima o nella fase
d’esecuzione del provvedimento viziato, dal destinatario e
viceversa, ove l’errore sia provocato dall’agire incauto
della P.A.;
- tal affidamento è presunto (oggi juris et de jure) dal
lungo tempo trascorso e viceversa, onde l’intervento più
rapido possibile della P.A. nell’autocorrezione dei propri
errori ne esprime la capacità di buon governo dei principi
costituzionali d’imparzialità e di efficacia e, se non ne
elide del tutto l’obbligo di motivazione, le consente di far
legittimamente emergere la preponderanza di un interesse
pubblico ancora attuale alla regolazione legittima e
corretta della fattispecie, quand’anche vi sia un diverso
interesse del destinatario
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it -
Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 20.07.2017 n. 3586 - link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
La Sezione (cfr. Cons. St., VI, 27.01.2017 n. 341; ma cfr.
pure id., 10.12.2015 n. 5625, con riguardo al DL 133/2014),
da ultimo e pur occupandosi d’un caso di specie, ha
puntualizzato, pure alla luce dei recenti approdi normativi
ex l. 07.08.2015 n. 124 (c.d. “legge Madia”) che ha
rivisto l’intero art. 21-nonies cit., le modalità di
esercizio della discrezionale potestà di autotutela, con
esito di annullamento, circa gli obblighi di motivazione a
fronte sia dell’affidamento ingenerato nel destinatario sul
consolidamento dell’efficacia dell’atto rimovendo, sia
dell’incidenza del tempo trascorso tra quest’ultimo e la sua
rimozione nel determinare tal affidamento, sia della qualità
degli interessi coinvolti nell’autotutela.
La Sezione ha ritenuto che, ove si abbia un affidamento dei
destinatari sulla stabilità dell’assetto degli interessi
posto dall’atto rimovendo, l’atto d’autotutela deve
contenere, soprattutto se adottato a distanza di un lungo
tempo dal primo, «… una motivazione particolarmente
convincente... circa l'apprezzamento degli interessi dei
destinatari dell'atto..., in relazione alla pregnanza e alla
preminenza dell'interesse pubblico alla eliminazione
d'ufficio del titolo… illegittimo…».
Pertanto, l'interesse pubblico specifico alla rimozione
dell'atto illegittimo va integrato da ragioni differenti
dalla mera esigenza di ripristino della legalità (cfr. ex
multis Cons. St., VI, 29.01.2016 n. 351) e va motivato
con maggior rigore a seconda non solo del tempo trascorso,
ma pure dell’effetto, istantaneo o prolungato, di
ampliamento della sfera giuridica soggettiva del
destinatario.
In tal caso, assume «… nel giudizio comparativo degli
interessi confliggenti, maggiore rilevanza quello dei
privati destinatari dell'atto ampliativo e minore pregnanza
quello pubblico all'elisione di effetti già prodotti in via
definitiva e non suscettibili di aggravamento (Cons. St.,
sez. IV, 29.02.2016 n. 816) …».
Afferma allora il Collegio che:
a) – esiste un unico modello normativo (tranne talune eccezioni di
settore), latamente discrezionale e salvo (parimenti
discrezionale) convalida, del procedimento di secondo grado
con esito di annullamento per porre rimedio ai vizi di cui
all’art. 21-octies, c. 1, della l. 241/1990;
b) – tale discrezionalità non si confonde, anzi prescinde dal tipo
di potere esercitato col provvedimento viziato;
c) – l’esercizio della discrezionalità stessa va motivata in modo
più o meno stringente e non tautologico (c.d. “in re ipsa”),
poiché non pare sussistere un interesse pubblico in senso
assoluto sempre e comunque tanto forte, da elidere ogni
diversa soluzione e da coincidere, in pratica, nel mero
ripristino della legalità violata;
d) – tale motivazione sarà, quindi, più o meno doviziosa ed
articolata, ma sempre su un interesse pubblico concreto,
cioè a seconda sia del tipo di assetto di interessi
formatosi col provvedimento viziato, sia del tempo trascorso
tra esso e quello in cui la P.A. vuol intervenire per porvi
rimedio, sia dell’efficacia istantanea, o no,
dell’ampliamento della sfera giuridica del destinatario;
e) – l’affidamento di quest’ultimo alla serietà ed alla stabilità
di tal assetto dev’esser a sua volta serio ed incolpevole
(cfr. Cons. St., VI, 05.05.2016 n. 1774), di talché
l’obbligo di motivazione diminuisce sensibilmente a fronte
d’un illecito del destinatario prima dell’esercizio del
potere originario o se il vizio che ne colpisce la
manifestazione sia stato indotto, prima o nella fase
d’esecuzione del provvedimento viziato, dal destinatario
(cfr. Cons. St., IV, 31.08.2016 n. 3735: id., 14.12.2016 n.
5262) e viceversa, ove l’errore sia provocato dall’agire
incauto della P.A.;
f) – tal affidamento è presunto (oggi juris et de jure) dal
lungo tempo trascorso e viceversa, onde l’intervento più
rapido possibile della P.A. nell’autocorrezione dei propri
errori ne esprime la capacità di buon governo dei principi
costituzionali d’imparzialità e di efficacia e, se non ne
elide del tutto l’obbligo di motivazione, le consente di far
legittimamente emergere la preponderanza di un interesse
pubblico ancora attuale alla regolazione legittima e
corretta della fattispecie, quand’anche vi sia un diverso
interesse del destinatario. |
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
9, c. 1, l. 122/1989 (c.d. legge Tognoli), recante le
“Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale
per le aree urbane maggiormente popolate, nonché
modificazioni di alcune norme del testo unico sulla
disciplina della circolazione stradale”, prevede che: “I
proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo
degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei
fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole
unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali
parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei
residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani
urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi
idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e
ai Ministeri dell’ambiente e per i beni culturali ed
ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90
giorni. I parcheggi stessi, ove i piani del traffico non
siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel
rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente”.
La giurisprudenza afferma che i parcheggi disciplinati dalla
normativa suddetta possono essere realizzati solamente
all’interno delle aree urbane, ribadendo che allorquando
trattasi, come nella specie, di intervento in zona agricola
non è applicabile la normativa della cosiddetta “legge
Tognoli”, che consente la realizzazione di autorimesse nel
sottosuolo anche in deroga gli strumenti urbanistici,
essendo questa consentita solo nelle zone residenziali, e
ciò a prescindere dall’ulteriore considerazione postulante
l’esclusione della deroga in presenza di vincoli ambientali.
Deve ritenersi, inoltre, che la disposizione di cui all’art.
9 L. 122/1989 vada considerata nell’ambito della disciplina
complessiva dettata dalla L. 122/1989, in cui essa si
inserisce.
Tale legge appare inequivocabilmente deputata a dettare
regole ed a disciplinare interventi relativi ai centri
urbani, ed in particolare ai centri urbani afflitti da gravi
problemi di traffico. La fonte legislativa, infatti, non si
occupa soltanto dei parcheggi pertinenziali agli edifici, ma
anche e soprattutto dei “programmi urbani dei parcheggi” e,
in generale, delle “realizzazioni volte a favorire il
decongestionamento dei centri urbani, mediante la creazione
di parcheggi finalizzati all’interscambio con i sistemi di
trasporto collettivo”.
Procedendo ad un’interpretazione logica e sistematica
dell’art. 9, quindi, deve ritenersi che la disposizione in
esame sia applicabile soltanto alle aree urbane e non a
quelle agricole ed extraurbane in genere.
In tal senso, peraltro, si è espressa la giurisprudenza di
questo Consiglio: “La possibilità di realizzare parcheggi da
destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche
in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti, consentita dall’art. 9 l. n. 122 del 1989,
costituisce disposizione di carattere eccezionale da
interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed
in considerazione delle finalità della legge nel cui
contesto risulta inserita. Pertanto tale articolo è
applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole
aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree
extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni
urbanistiche ed edilizie necessitando della normale
concessione edilizia”.
In conclusione, deve affermarsi che la facoltà di costruire
autorimesse pertinenziali anche in deroga agli strumenti
urbanistici è prevista dalla Legge Tognoli soltanto
relativamente alle aree urbane. Al di fuori di tali aree,
l’edificazione di parcheggi pertinenziali sarà comunque
possibile, ma non potrà attuarsi nelle forme e nei modi di
cui all’art. 9 L. 122/1989, rimanendo invece sottoposta alle
ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie.
---------------
... per la riforma della
sentenza 09.07.2015 n. 1590 del TAR
LOMBARDIA-MILANO: SEZ. II, resa tra le parti, concernente
diniego permesso di costruire.
...
L’appello è infondato.
Quanto al primo motivo, come correttamente
sottolineato dal Comune di Livigno, richiamando quanto
affermato dalla sentenza di primo grado, nella specie deve
escludersi l’operatività della deroga in ordine alle aree
agricole.
E, invero, nella specie risulta che la proprietà del sig.
Be.Ga. non soltanto si trova ubicata in area “E2 -
Agricola a prateria - parco con insiemi edilizi a tipologia
differenziata" (cui l’art. 20 delle NTA del P.D.R. del
P.G.T. riconnette una particolare rilevanza dal punto di
vista ambientale-paesistico), ma la stessa è espressamente
annoverata dal PGT tra le “Aree non urbane”, in
quanto poste all’esterno del perimetro dell’ambito urbano
consolidato di Livigno.
Secondo il Comune appellato la realizzazione di parcheggi “in
particolare nelle zone agricole” resta soggetta alle
ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie e non può
dunque giovarsi della normativa derogatoria richiamata dagli
appellanti e da ciò deriva l’infondatezza delle
argomentazioni di parte avversa, posto che l’intervento
edilizio derogatorio della normativa generale dovrebbe
essere realizzato in zone extra-urbane del Comune di Livigno
in relazione alle quali risulta, comunque ed in ogni caso,
inapplicabile la specifica normativa prevista dalla Legge
122/1989 e 66 della legge regionale 12/2005.
Il Comune di Livigno deduce che, sebbene la normativa
nazionale (art. 9 L. n. 122/1989) e quella regionale (art.
66 L.R. 12/2005) consentano la realizzazione di autorimesse
pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici ed
ai regolamenti edilizi vigenti, ciò non sarebbe possibile
quanto alle aree agricole.
L’argomentazione coglie nel segno.
L’art. 9, c. 1, l. 122/1989 (c.d. legge Tognoli), recante le
“Disposizioni in materia di parcheggi, programma
triennale per le aree urbane maggiormente popolate, nonché
modificazioni di alcune norme del testo unico sulla
disciplina della circolazione stradale”, prevede che: “I
proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo
degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei
fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole
unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti
urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali
parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei
residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali
esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani
urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie
sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi
idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla
legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i
poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e
ai Ministeri dell’ambiente e per i beni culturali ed
ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90
giorni. I parcheggi stessi, ove i piani del traffico non
siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel
rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente”.
La giurisprudenza afferma che i parcheggi disciplinati dalla
normativa suddetta possono essere realizzati solamente
all’interno delle aree urbane, ribadendo che allorquando
trattasi, come nella specie, di intervento in zona agricola
non è applicabile la normativa della cosiddetta “legge
Tognoli”, che consente la realizzazione di autorimesse
nel sottosuolo anche in deroga gli strumenti urbanistici,
essendo questa consentita solo nelle zone residenziali, e
ciò a prescindere dall’ulteriore considerazione postulante
l’esclusione della deroga in presenza di vincoli ambientali
(cfr. Cons. St., sez. V, 11.11.2004, n. 7324).
Deve ritenersi, inoltre, che la disposizione di cui all’art.
9 L. 122/1989 vada considerata nell’ambito della disciplina
complessiva dettata dalla L. 122/1989, in cui essa si
inserisce.
Tale legge appare inequivocabilmente deputata a dettare
regole ed a disciplinare interventi relativi ai centri
urbani, ed in particolare ai centri urbani afflitti da gravi
problemi di traffico. La fonte legislativa, infatti, non si
occupa soltanto dei parcheggi pertinenziali agli edifici, ma
anche e soprattutto dei “programmi urbani dei parcheggi”
e, in generale, delle “realizzazioni volte a favorire il
decongestionamento dei centri urbani, mediante la creazione
di parcheggi finalizzati all’interscambio con i sistemi di
trasporto collettivo”.
Procedendo ad un’interpretazione logica e sistematica
dell’art. 9, quindi, deve ritenersi che la disposizione in
esame sia applicabile soltanto alle aree urbane e non a
quelle agricole ed extraurbane in genere.
In tal senso, peraltro, si è espressa la giurisprudenza di
questo Consiglio: “La possibilità di realizzare parcheggi
da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari
anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti
edilizi vigenti, consentita dall’art. 9 l. n. 122 del 1989,
costituisce disposizione di carattere eccezionale da
interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed
in considerazione delle finalità della legge nel cui
contesto risulta inserita. Pertanto tale articolo è
applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole
aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree
extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni
urbanistiche ed edilizie necessitando della normale
concessione edilizia” (cfr. Cons. St., sez. V,
11.11.2004, n. 7325).
In conclusione, deve affermarsi che la facoltà di costruire
autorimesse pertinenziali anche in deroga agli strumenti
urbanistici è prevista dalla Legge Tognoli soltanto
relativamente alle aree urbane. Al di fuori di tali aree,
l’edificazione di parcheggi pertinenziali sarà comunque
possibile, ma non potrà attuarsi nelle forme e nei modi di
cui all’art. 9 L. 122/1989, rimanendo invece sottoposta alle
ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 19.07.2017 n. 3566 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
illegittimità dell’ordinanza impugnata giacché adottata da
un soggetto, ovvero l’Assessore comunale, che non avrebbe
potuto essere investito dell’incarico di Responsabile del
Servizio Tecnico comunale, in quanto non sarebbe stato
adottato il regolamento comunale previsto dall’art. 53,
comma 23, della legge n. 388 del 2000, oltre che in ragione
dell’assenza in capo al nominato dei requisiti professionali
necessari per accedere a quel posto.
L’art. 53, comma 23, della legge n. 388
del 2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, lett. a) e
b), della legge n. 448 del 2001, stabilisce che “gli enti
locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta
salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d),
del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n.
267, anche al fine di operare un contenimento della spesa,
possono adottare disposizioni regolamentari organizzative,
se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo
3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del
predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti
locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio”.
Alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale,
cui il Collegio intende aderire, la disposizione legislativa
non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento,
essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia
deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in
materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli
uffici e dei servizi.
---------------
Non può essere accolta nemmeno la parte della doglianza che
deduce l’illegittimità della nomina per mancata successiva
documentazione del contenimento della spesa, in sede di
approvazione del bilancio, considerato che un eventuale
inadempimento di tale obbligo, avente natura prettamente
contabile, potrà avere conseguenze su altri versanti
dell’attività amministrativa (responsabilità
amministrativo-contabile), ma certo non potrebbe ridondare
sulla legittimità delle disposizioni già assunte.
---------------
Infine non appaiono fondati nemmeno i rilievi attraverso i
quali è stato eccepito che tra i dipendenti comunali vi
sarebbe un soggetto idoneo ad assumere le funzioni di
Responsabile del Servizio (arch. Pa.) e che l’Assessore Ma.
non sarebbe in possesso del titolo di studio previsto dalla
normativa regolante l’attribuzione di incarichi dirigenziali
(artt. 109 del T.U.E.L. e 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001).
Quanto alla presenza di un dipendente idoneo a ricoprire la
posizione va richiamato l’art. 29, comma 4, lett. b), della
legge n. 448 del 2001 che ha soppresso l’inciso “che
riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di
figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti”
originariamente contenuto nell’art. 53, comma 23, della
legge n. 388 del 2000, con la conseguenza che risulta
irrilevante la presenza all’interno dell’Amministrazione di
figure professionali idonee, non essendo più richiesta la
sussistenza di tale presupposto.
Con riguardo al mancato possesso in capo all’Assessore
comunale del titolo di studio, va infine evidenziato che la
posizione di Responsabile del Servizio nel Comune di San
Siro non è attribuita ad una figura avente qualifica
dirigenziale, ma ad un dipendente con qualifica di
istruttore direttivo (D2 nella declaratoria delle categorie
dei dipendenti degli Enti locali), con conseguente
inapplicabilità delle disposizioni riguardanti la qualifica
dirigenziale.
Peraltro la natura derogatoria del citato art. 53, legata
anche alla peculiare posizione degli Enti locali di piccole
dimensioni, consente di attribuire gli incarichi anche a
prescindere dal titolo di studio dei soggetti nominati, come
dimostrato anche dalla irrilevanza dell’assenza di figure
idonee all’interno dell’Amministrazione, prevista invece
nella versione originaria della norma e poi soppressa
dall’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del
2001.
---------------
1. Il ricorso non è fondato.
2. Con le prime due censure di ricorso si assume
l’illegittimità dell’ordinanza impugnata giacché adottata da
un soggetto, ovvero l’Assessore comunale, che non avrebbe
potuto essere investito dell’incarico di Responsabile del
Servizio Tecnico comunale, in quanto non sarebbe stato
adottato il regolamento comunale previsto dall’art. 53,
comma 23, della legge n. 388 del 2000, oltre che in ragione
dell’assenza in capo al nominato dei requisiti professionali
necessari per accedere a quel posto.
2.1. Le doglianze sono infondate, secondo quanto di seguito
specificato.
In via preliminare va segnalato che si può prescindere
dall’esame dell’eccezione formulata dalla difesa comunale in
ordine all’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, della
legge n. 241 del 1990 ai casi di incompetenza relativa,
vista l’infondatezza nel merito delle censure.
2.2. L’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, come
modificato dall’art. 29, comma 4, lett. a) e b), della legge
n. 448 del 2001, stabilisce che “gli enti locali con
popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva
l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del
testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali,
approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche
al fine di operare un contenimento della spesa, possono
adottare disposizioni regolamentari organizzative, se
necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3,
commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e
successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto
testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali,
attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la
responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di
adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il
contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno,
con apposita deliberazione, in sede di approvazione del
bilancio”.
La citata disposizione prevede innanzitutto che, al fine di
attribuire la responsabilità di un Ufficio o un Servizio
comunale ad un componente della Giunta, debba essere
adottato un regolamento di organizzazione, quale presupposto
indispensabile per derogare alla normativa primaria. Le
parti ricorrenti eccepiscono, nel caso de quo, la mancanza
di tale regolamento, che non potrebbe essere sostituito da
una semplice deliberazione di Giunta attraverso la quale si
conferisca direttamente l’incarico (deliberazione n.
177/2010 del 23.12.2010: all. 6 del Comune).
La tesi della ricorrente non appare condivisibile alla luce
del consolidato orientamento giurisprudenziale, cui il
Collegio intende aderire, secondo il quale la disposizione
legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un
regolamento, essendo sufficiente che il relativo
provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale
organo competente in materia di adozione dei regolamenti
sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio
di Stato, IV, 23.02.2009, n. 1070; V, 06.03.2007, n. 1052;
TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2011, n. 1278; TAR Lazio,
Roma, II-ter, 22.03.2011, n. 2534).
2.3. Non può essere accolta nemmeno la parte della doglianza
che deduce l’illegittimità della nomina per mancata
successiva documentazione del contenimento della spesa, in
sede di approvazione del bilancio, considerato che un
eventuale inadempimento di tale obbligo, avente natura
prettamente contabile, potrà avere conseguenze su altri
versanti dell’attività amministrativa (responsabilità
amministrativo-contabile), ma certo non potrebbe ridondare
sulla legittimità delle disposizioni già assunte (cfr.
Consiglio di Stato, IV, 14.10.2011, n. 5536).
2.4. Infine non appaiono fondati nemmeno i rilievi
attraverso i quali è stato eccepito che tra i dipendenti
comunali vi sarebbe un soggetto idoneo ad assumere le
funzioni di Responsabile del Servizio (arch. Pa.) e che
l’Assessore Ma. non sarebbe in possesso del titolo di studio
previsto dalla normativa regolante l’attribuzione di
incarichi dirigenziali (artt. 109 del T.U.E.L. e 19 del
D.Lgs. n. 165 del 2001).
Quanto alla presenza di un dipendente idoneo a ricoprire la
posizione va richiamato l’art. 29, comma 4, lett. b), della
legge n. 448 del 2001 che ha soppresso l’inciso “che
riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di
figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti”
originariamente contenuto nell’art. 53, comma 23, della
legge n. 388 del 2000, con la conseguenza che risulta
irrilevante la presenza all’interno dell’Amministrazione di
figure professionali idonee, non essendo più richiesta la
sussistenza di tale presupposto.
Con riguardo al mancato possesso in capo all’Assessore
comunale del titolo di studio, va infine evidenziato che la
posizione di Responsabile del Servizio nel Comune di San
Siro non è attribuita ad una figura avente qualifica
dirigenziale, ma ad un dipendente con qualifica di
istruttore direttivo (D2 nella declaratoria delle categorie
dei dipendenti degli Enti locali), con conseguente
inapplicabilità delle disposizioni riguardanti la qualifica
dirigenziale.
Peraltro la natura derogatoria del citato art. 53, legata
anche alla peculiare posizione degli Enti locali di piccole
dimensioni, consente di attribuire gli incarichi anche a
prescindere dal titolo di studio dei soggetti nominati, come
dimostrato anche dalla irrilevanza dell’assenza di figure
idonee all’interno dell’Amministrazione, prevista invece
nella versione originaria della norma e poi soppressa
dall’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del
2001.
2.5. Pertanto, alla stregua delle suesposte considerazioni,
le prime due censure di ricorso devono essere respinte
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.07.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La struttura realizzata dai ricorrenti è
costituita da fili di acciaio teso e travi di ferro ancorati
stabilmente al suolo attraverso bulloni, che occupa uno
spazio di oltre 30 mq, è alta 2,34 m ed è destinata al
parcheggio delle autovetture. Oltre a soddisfare esigenze di
tipo non precario, la struttura non risulta facilmente
amovibile e impatta in modo significativo sull’ambiente
circostante.
Come si può ricavare dalla descrizione delle opere
realizzate –percepibile nella sua effettiva consistenza con
molta maggiore evidenza attraverso l’esame delle numerose
fotografie prodotte in giudizio dalle parti– si tratta di un
intervento che da un punto di vista dimensionale e
costruttivo rappresenta una nuova edificazione e quindi per
essere realizzato richiede il rilascio di un permesso di
costruire (diversamente avviene nel caso in cui ci si trovi
al cospetto di una struttura costruita con materiale leggero
e che sia facilmente amovibile); di conseguenza, in assenza
del prescritto titolo autorizzativo, le opere realizzate
sono da considerarsi abusive e quindi, legittimamente, il
Comune ne ha ordinato la demolizione.
In ogni caso anche laddove l’intervento edilizio fosse stato
ritenuto assoggettabile a d.i.a., lo stesso avrebbe dovuto
essere preceduto dal rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, in quanto l’area è stata sottoposta a vincolo
paesaggistico.
Difatti, a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più
idoneo e corretto per realizzare l’intervento in zona
vincolata (d.i.a. o permesso di costruire), ciò che rileva è
il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta
carenza di titolo abilitativo, la cui conseguenza non può
che essere la sanzione ripristinatoria, finalizzata a porre
rimedio alla visibile alterazione del paesaggio (art. 27,
comma 2, ultimo periodo, del D.P.R. n. 380 del 2001).
---------------
3. Con la terza e la quarta censura si assume
l’illegittimità dell’ordinanza impugnata, in quanto la
struttura realizzata dai ricorrenti sarebbe un semplice
arredo esterno che non avrebbe alcuna rilevanza da un punto
di vista edilizio, rientrando tra le attività di edilizia
libera, o al più tra gli interventi sottoposti a d.i.a. che
potrebbero, qualora realizzati abusivamente, dar luogo
soltanto all’irrogazione di una sanzione pecuniaria.
3.1. Le doglianze sono infondate.
La struttura realizzata dai ricorrenti è costituita da fili
di acciaio teso e travi di ferro ancorati stabilmente al
suolo attraverso bulloni, che occupa uno spazio di oltre 30
mq, è alta 2,34 m ed è destinata al parcheggio delle
autovetture. Oltre a soddisfare esigenze di tipo non
precario, la struttura non risulta facilmente amovibile e
impatta in modo significativo sull’ambiente circostante
(sulla non precarietà di un’opera, Consiglio di Stato, VI,
27.04.2016, n. 1619).
Come si può ricavare dalla descrizione delle opere
realizzate –percepibile nella sua effettiva consistenza con
molta maggiore evidenza attraverso l’esame delle numerose
fotografie prodotte in giudizio dalle parti– si tratta di un
intervento che da un punto di vista dimensionale e
costruttivo rappresenta una nuova edificazione e quindi per
essere realizzato richiede il rilascio di un permesso di
costruire (diversamente avviene nel caso in cui ci si trovi
al cospetto di una struttura costruita con materiale leggero
e che sia facilmente amovibile, Consiglio di Stato, VI,
25.01.2017, n. 306; IV, 29.09.2011, n. 5409); di
conseguenza, in assenza del prescritto titolo autorizzativo,
le opere realizzate sono da considerarsi abusive e quindi,
legittimamente, il Comune ne ha ordinato la demolizione.
3.2. In ogni caso anche laddove l’intervento edilizio fosse
stato ritenuto assoggettabile a d.i.a., lo stesso avrebbe
dovuto essere preceduto dal rilascio dell’autorizzazione
paesaggistica, in quanto l’area è stata sottoposta a vincolo
con Decreto ministeriale n. 438/1973 (all. 1 del Comune);
tale vincolo è richiamato espressamente sia nel
provvedimento impugnato che nell’atto del 30.03.2012 allo
stesso presupposto (all. 3 del Comune). Difatti, a
prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e
corretto per realizzare l’intervento in zona vincolata (d.i.a.
o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo
stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo
abilitativo (Consiglio di Stato, VI, 09.01.2013, n. 62), la
cui conseguenza non può che essere la sanzione
ripristinatoria, finalizzata a porre rimedio alla visibile
alterazione del paesaggio (art. 27, comma 2, ultimo periodo,
del D.P.R. n. 380 del 2001; cfr., in giurisprudenza, TAR
Campania, Napoli, VI, 14.03.2017, n. 1472).
3.3. Pertanto, anche le suesposte censure vanno respinte
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.07.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’omessa o imprecisa indicazione di un’area che
verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non
costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di
demolizione.
Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si
commina, appunto, la sanzione della demolizione del
manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce
presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che
costituisce distinta misura sanzionatoria. Persiste infatti
la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di
acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento
dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
Quindi, l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve
essere necessariamente contenuta nel provvedimento di
ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello
stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si
procede all’acquisizione del bene.
---------------
4. Con l’ultima doglianza si assume la mancata previa
individuazione dell’area che eventualmente verrebbe
acquisita nel caso di inottemperanza all’ordine di
demolizione.
4.1. La doglianza è infondata.
Come sostenuto da un consolidato orientamento
giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, “l’omessa o
imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di
diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di
illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il
contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto,
la sanzione della demolizione del manufatto abusivo,
l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo
ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura
sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra
ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto,
quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza
all’ingiunzione a demolire. Quindi, l’individuazione
dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente
contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a
pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere
riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del
bene” (Consiglio di Stato, VI, 05.01.2015, n. 13;
altresì, TAR Lombardia, Milano, I, 27.03.2017, n. 719).
4.2. Ciò determina il rigetto anche della predetta censura.
5. In conclusione, il ricorso deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.07.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: L’art.
192 del D.Lgs. 152/2006 è interpretato dalla giurisprudenza
amministrativa nel senso che il proprietario è responsabile
dell’abbandono soltanto in caso di dolo o colpa, con
esclusione di ogni ipotesi di responsabilità oggettiva, vale
a dire senza colpevolezza e quindi legata alla mera qualità
di proprietario.
Invero, è stato statuito (per altra fattispecie) che è
illegittimo un ordine, ex art. 192, comma 3, del D.Lgs. n.
152 del 2006, rivolto ai proprietari di procedere alla
rimozione e smaltimento dei rifiuti presenti sul suolo,
adottato in assenza di istruttoria in ordine alla
riconducibilità degli sversamenti a comportamenti anche solo
colposi dei medesimi proprietari.
---------------
1. Il ricorso è fondato, per le ragioni che seguono.
Con l’ordinanza impugnata, che richiama nelle premesse
l’art. 192 del D.Lgs. 152/2006 (c.d. Codice dell’ambiente),
il Comune di Morimondo ingiungeva alla Fondazione
ricorrente, quale proprietaria dell’area sita in Frazione
Fallavecchia, la rimozione dei rifiuti –amianto e altre
sostanze tossiche- presenti sull’area (cfr. per il
provvedimento impugnato, il doc. 1 della ricorrente).
Tuttavia, risulta provato per tabulas che il fondo di
cui è causa era condotto in locazione e poi occupato senza
titolo dal sig. Angelo Gorini, esercente il mestiere di
fabbro, fino all’anno 2012, allorché lo stesso sig. Go. era
sfrattato per intervenuta scadenza del contratto di
locazione (cfr. il doc. 2 della ricorrente, copia del
verbale di rilascio del fondo).
L’occupante si era comunque reso responsabile di attività
illecite di abbandono e di combustione di rifiuti, che
avevano visto l’intervento repressivo della competente
azienda sanitaria territoriale, vale a dire l’Azienda USSL
n. 35 (cfr. il doc. 3 della ricorrente con l’annesso verbale
di accertamento ed anche il successivo doc. 4, cioè la
lettera del sig. Go. che dichiarava di avere provveduto allo
smaltimento).
Lo stesso Comune di Morimondo aveva già notificato nel
luglio 2011 un’ordinanza sindacale di smaltimento e di
rimozione dei rifiuti sia alla Fondazione sia al sig. Go.
(cfr. il doc. 5 della ricorrente), a fronte della quale
l’esponente aveva invitato quest’ultimo ad ottemperare al
provvedimento comunale (cfr. il doc. 6 della ricorrente).
La responsabilità della presenza dei rifiuti sull’area in
questione deve quindi ricondursi al solo sig. Go. (cfr.
anche il doc. 7 della ricorrente), fermo restando che
dall’ordinanza impugnata non si desume lo svolgimento di
alcuna attività istruttoria per l’accertamento di tale
responsabilità, giacché la Fondazione è indicata
semplicemente quale proprietaria del fondo ed è
esclusivamente per tale titolo che l’amministrazione
comunale ha ingiunto la rimozione dei rifiuti.
Tuttavia, l’art. 192 del D.Lgs. 152/2006 è interpretato
dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che il
proprietario è responsabile dell’abbandono soltanto in caso
di dolo o colpa, con esclusione di ogni ipotesi di
responsabilità oggettiva, vale a dire senza colpevolezza e
quindi legata alla mera qualità di proprietario (cfr., fra
le più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del
04.05.2017, n. 2027, per la quale è illegittimo un ordine,
ex art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, rivolto ai
proprietari di procedere alla rimozione e smaltimento dei
rifiuti presenti sul suolo, adottato in assenza di
istruttoria in ordine alla riconducibilità degli sversamenti
a comportamenti anche solo colposi dei medesimi
proprietari).
Nel caso di specie, risulta provata la responsabilità in
capo al sig. Go. o quanto meno l’assenza di dolo ed anche di
colpa in capo alla Fondazione, che si è attivata nelle forme
di legge per ottenere la disponibilità del fondo dopo la
scadenza del contratto di locazione e che ha intimato all’ex
conduttore, divenuto occupante senza titolo, l’ottemperanza
ai provvedimenti emessi dal Comune.
Risultano quindi fondate le censure di violazione di legge
(art. 192 citato), di eccesso di potere per difetto di
istruttoria, travisamento dei fatti e carenza dei
presupposti, oltre che la violazione di legge per
inosservanza dell’art. 7 della legge 241/1990, giacché la
trasmissione dell’avviso di avvio del procedimento alla
Fondazione, avrebbe consentito a quest’ultima di
rappresentare al Comune i fatti della vicenda, volti ad
escludere la responsabilità dell’esponente (del resto, il
terzo comma dell’art. 192 sopra citato impone ai soggetti
preposti ai controlli di effettuare accertamenti “in
contraddittorio con i soggetti interessati”, senza contare
che il provvedimento gravato non espone neppure le eventuali
ragioni di urgenza che avrebbero consentito l’omissione
dell’avviso ex art. 7 citato).
Deve quindi essere integralmente annullata l’ordinanza
sindacale impugnata, ma non la relazione ispettiva Arpa,
costituente atto meramente endoprocedimentale ed
istruttorio, che è stata del resto impugnata in via di mero
subordine (“ove occorrer possa”)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. IV,
sentenza 18.07.2017 n. 1639 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Autotutela:
termini per l’esercizio del potere di annullamento di
ufficio.
Il termine dei 18 mesi per l’esercizio del potere di
annullamento di ufficio previsto dall’attuale versione
dell’art. 21-nonies, L. n. 241/1990 non può applicarsi in
via retroattiva.
Quanto alla pregnanza dell’onere
motivazionale, è stato più volte precisato che la rimozione
d’ufficio di un atto favorevole esige una articolata
esplicitazione delle ragioni, di interesse generale che
impongono l’eliminazione dell’atto invalido, attraverso la
chiara esemplificazione degli effetti concreti che si
assumono contrastanti con i valori tutelati dall’ordine
legale infranto, per come atteggiantesi nello specifico
contesto empirico e non per come astrattamente considerati
dalla disciplina normativa.
---------------
Ritiene il Collegio di dare continuità
all’impostazione ermeneutica– inaugurata dal Consiglio di
Stato, sez. V, sentenza 19.01.2017, n. 250− secondo
cui il termine dei diciotto mesi non può applicarsi in via
retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso
anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del
2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto
con il generale principio di irretroattività della legge
(art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera
eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di
autotutela amministrativa.
Si arriverebbe infatti
all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai
provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in
vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe,
per ciò solo, precluso.
Ne consegue che, rispetto ai
provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati
anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della
l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che
cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della
nuova disposizione.
È fatta salva, comunque, l’operatività
del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria
versione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990. Quanto
al rispetto del parametro della ragionevolezza del termine,
deve aggiungersi che −per quanto i diciotto mesi non
possano considerarsi (per i motivi anzidetti) ancora decorsi−
è anche vero che la novella non può non valere come prezioso
indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza
della regola di condotta in questione.
La
decifrazione della nozione indeterminata di termine
ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta
interpretazione da parte dell’amministrazione, deve essere,
quindi, compiuta con particolare rigore quando il potere di
autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità
giuridiche od economiche.
---------------
L’identificazione dell’interesse pubblico all’eliminazione
dell'atto viziato nelle medesime esigenze di tutela
implicate dalla norma violata con lo stesso, si risolve in
ogni caso nella (inammissibile) coincidenza del presupposto
vincolante consistente nell'invalidità del provvedimento
originario con l’ulteriore e diversa condizione (secondo
l'assetto regolativo di riferimento) della sussistenza di un
interesse pubblico alla sua rimozione d'ufficio.
Sennonché, tale esegesi dev’essere rifiutata nella misura in
cui si risolve nella pratica disapplicazione della parte del
precetto che esige la ricorrenza dell'ulteriore (rispetto
all'illegittimità dell'atto originario) condizione della
ricorrenza dell'interesse pubblico attuale alla eliminazione
del provvedimento viziato e, quindi, all'elisione dei suoi
effetti giuridici.
Perché la norma abbia un senso è necessario, in altri
termini, non solo che l'interesse pubblico alla rimozione
dell'atto viziato non possa coincidere con la mera esigenza
della restituzione all'azione amministrativa della legalità
violata, ma anche che non possa risolversi nella semplice e
astratta ripetizione delle stesse esigenze regolative
sottese all'ordine giuridico infranto: una motivazione
siffatta finirebbe logicamente proprio per esaurire
l'apprezzamento del presupposto discrezionale in un esame
nel mero riscontro della condizione vincolante
(l’illegittimità dell'atto da annullare d’ufficio), con un
palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del
legislatore.
---------------
1.‒ È fondato il motivo di impugnazione con il quale gli
appellanti rimarcano l’illegittimità dei contestati atti di
ritiro, in quanto adottati in violazione dei canoni
normativi relativi al termine entro cui può essere
validamente rimosso (d’ufficio) un provvedimento illegittimo
e alla sussistenza di un interesse pubblico (attuale e
specifico) che ne giustifichi l’eliminazione.
1.1.‒ Come è noto, recenti riforme hanno inciso sui
presupposti per l’esercizio del potere di autotutela
decisoria. L’art. 25, comma 1, lettera b-quater, del
decreto-legge n. 133 del 2014, convertito nella legge n.
164/2014, ha modificato l’art. 21-nonies, escludendo la
possibilità di procedere ad annullamento d’ufficio nei casi
di provvedimenti già non annullabili dal giudice
amministrativo nella ricorrenza dei requisiti di cui
all’art. 21-octies, comma 2.
La successiva legge n. 124 del
2015 −nel segno di una tendenziale riduzione dei poteri
discrezionali dell’amministrazione, al fine di garantire
maggiore certezza e stabilità ai rapporti giuridici dei
soggetti la cui azione risulta condizionata dalle decisioni
amministrative– ha introdotto due importanti modifiche:
a)
la fissazione del termine massimo di diciotto mesi per la
valida adozione dell’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori e attributivi di vantaggi economici;
b) la
previsione, con il comma aggiunto 2-bis, della possibilità
di annullare, anche dopo quel termine, i provvedimenti
ottenuti sulla base di dichiarazioni false, ma solo quando
la falsità è stata accertata in sede penale con sentenza
passata in giudicato.
Sul piano sistematico si assiste ad un
vistoso allontanamento dalla tradizionale ricostruzione
dell’istituto fondata sull’immanenza ed inesauribilità del
potere amministrativo e sull’idea che si tratti di una
prerogativa a tutela del solo interesse pubblico ancorato a
presupposti necessariamente elastici.
1.2.− Il rafforzamento della tutela dell’affidamento si è
manifestata anche nella direzione della ridefinizione dei
rapporti fra autotutela e SCIA, con la più rigida
perimetrazione dei poteri inibitori e conformativi
attribuiti all’amministrazione destinataria della
segnalazione.
In particolare, l’art. 19, comma 4, della l.
n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 6, comma 1,
lettera a), della l. 07.08.2015, n. 124, stabilisce ora
che, decorso il termine ordinario (di cui al comma 3, primo
periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, dello stesso articolo
19), l’amministrazione competente può adottare i medesimi
provvedimenti di inibizione e di conformazione in presenza
delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies. L’art. 2,
comma 4, del d.lgs. n. 222 del 2016, ha inoltre chiarito che
i diciotto mesi iniziano a decorrere dalla data di scadenza
del termine previsto per l’esercizio dei poteri ordinari di
verifica da parte dell’Amministrazione competente.
1.3.‒ Quanto alla pregnanza dell’onere motivazionale, questa
Sezione del Consiglio di Stato ha più volte precisato che la
rimozione d’ufficio di un atto favorevole esige una
articolata esplicitazione delle ragioni, di interesse
generale che impongono l’eliminazione dell’atto invalido,
attraverso la chiara esemplificazione degli effetti concreti
che si assumono contrastanti con i valori tutelati
dall’ordine legale infranto, per come atteggiantesi nello
specifico contesto empirico e non per come astrattamente
considerati dalla disciplina normativa (cfr. la sentenza 27.01.2017 n. 341, anche di seguito richiamata).
2.− Venendo ora al caso di specie, rileva il Collegio che
gli impugnati atti di autotutela del Comune di ARZANO sono
stati adottati nel vigore della legge n. 124 del 2015,
entrata in vigore il 28.08.2015, mentre gli atti rimossi
sono tutti antecedenti rispetto a tale data.
Si pone dunque un problema preliminare di diritto
transitorio.
Secondo un primo orientamento
giurisprudenziale, la norma introdotta dalla legge 07.08.2015, n. 124, è applicabile in ogni caso in cui il
provvedimento di autotutela sia intervenuto successivamente
alla novella legislativa, ancorché riguardi un titolo
abilitativo rilasciato sotto il regime precedente (ex plurimis: T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 17.03.2016, n. 351;
TAR Campania, Napoli, Sez. III, 22.09.2016, n. 4373;
TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.01.2017, n. 65; TAR
Lazio, Roma, Sez. I-bis, 21.02.2017, n. 2670; TAR
Sardegna, Sez. I, 07.02.2017, n. 92).
Secondo un indirizzo di
segno opposto –fatto proprio dai giudici di prime cure– ai
fini dell’applicazione della regola del tempus regit actum
(art. 11 delle preleggi), l’atto di autotutela dovrebbe
considerarsi non un provvedimento autonomo bensì un atto
rientrante nel procedimento aperto dall’atto di primo grado,
con conseguente insensibilità del procedimento
amministrativo alle norme giuridiche nel frattempo
sopravvenute.
Ritiene invece il Collegio di dare continuità
all’impostazione ermeneutica– inaugurata dal Consiglio di
Stato, sez. V, sentenza 19.01.2017, n. 250− secondo
cui il termine dei diciotto mesi non può applicarsi in via
retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso
anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del
2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto
con il generale principio di irretroattività della legge
(art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera
eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di
autotutela amministrativa.
Si arriverebbe infatti
all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai
provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in
vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe,
per ciò solo, precluso. Ne consegue che, rispetto ai
provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati
anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della
l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che
cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della
nuova disposizione.
È fatta salva, comunque, l’operatività
del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria
versione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990. Quanto
al rispetto del parametro della ragionevolezza del termine,
deve aggiungersi che −per quanto i diciotto mesi non
possano considerarsi (per i motivi anzidetti) ancora decorsi− è anche vero che la novella non può non valere come
prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio
dell’osservanza della regola di condotta in questione
(Consiglio di Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625).
La
decifrazione della nozione indeterminata di termine
ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta
interpretazione da parte dell’amministrazione, deve essere,
quindi, compiuta con particolare rigore quando il potere di
autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità
giuridiche od economiche.
2.1.− Nella fattispecie esaminata, il termine
complessivamente decorso rispetto alla data del
provvedimento annullato deve ritenersi irragionevole.
L’ordinanza n. 16 del 26.08.2015 concerne la denuncia di
inizio attività del 30.09.2009 e le note del 23.06.2010 e del
28.06.2010. Il provvedimento del 07.10.2015, riguarda la
DIA n. 9584 del 30.04.2012, relativa al mutamento di
destinazione d’uso del piano seminterrato dell’immobile sito
in via Atellana, angolo via Medi, nonché il certificato di
agibilità relativo n. 21 del 23.10.2012. L’atto n. 2378
del 03.11.2015 ha ritirato i titoli abilitativi in materia
commerciale del 2011.
In definitiva, l’esercizio del potere di autotutela è
intervento a distanza di un periodo compreso tra i sei e i
tre anni dalla presentazione dei titoli asseritamente
illegittimi. La tardività dell’intervento correttivo
imponeva, a fronte della consistenza dell’affidamento
ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della
loro efficacia, imponeva una motivazione particolarmente
convincente circa l’apprezzamento degli interessi dei
destinatari dell’atto, in relazione alla pregnanza e alla
preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione
d’ufficio del titolo edilizio illegittimo.
Per contro, gli
atti controversi non contengono convincenti argomentazioni
circa gli estremi e i contenuti dell’anzidetta doverosa
valutazione, evocandosi in modo tautologico gli interessi
sottesi alla disposizione normativa la cui violazione
avrebbe integrato l’illegittimità dell’atto oggetto del
procedimento di autotutela.
Questa Sezione −cfr. la
sentenza 27.01.2017 n. 341– ha recentemente
puntualizzato che: «l’identificazione dell’interesse
pubblico all’eliminazione dell'atto viziato nelle medesime
esigenze di tutela implicate dalla norma violata con lo
stesso, si risolve in ogni caso nella (inammissibile)
coincidenza del presupposto vincolante consistente
nell'invalidità del provvedimento originario con l’ulteriore
e diversa condizione (secondo l'assetto regolativo di
riferimento) della sussistenza di un interesse pubblico alla
sua rimozione d'ufficio. Sennonché, tale esegesi dev’essere
rifiutata nella misura in cui si risolve nella pratica
disapplicazione della parte del precetto che esige la
ricorrenza dell'ulteriore (rispetto all'illegittimità
dell'atto originario) condizione della ricorrenza
dell'interesse pubblico attuale alla eliminazione del
provvedimento viziato e, quindi, all'elisione dei suoi
effetti giuridici. Perché la norma abbia un senso è
necessario, in altri termini, non solo che l'interesse
pubblico alla rimozione dell'atto viziato non possa
coincidere con la mera esigenza della restituzione
all'azione amministrativa della legalità violata, ma anche
che non possa risolversi nella semplice e astratta
ripetizione delle stesse esigenze regolative sottese
all'ordine giuridico infranto: una motivazione siffatta
finirebbe logicamente proprio per esaurire l'apprezzamento
del presupposto discrezionale in un esame nel mero riscontro
della condizione vincolante (l’illegittimità dell'atto da
annullare d’ufficio), con un palese (e inammissibile)
tradimento della chiara volontà del legislatore».
È utile
rimarcare che gli anzidetti canoni di buona azione
amministrativa non possono ritenersi certo derogati in
ragione del fatto che con D.P.R. del 29.04.2015
(pubblicato sulla G.U. n. 115 del 20.05.2015) è stato
disposto lo scioglimento degli organi elettivi del Comune di Arzano ai sensi dell’art. 143 TUEL.
2.2.− Sotto altro profilo, erra il TAR quando afferma che
l’esercizio del potere inibitorio “ex post” sarebbe stato
giustificato dalla falsa rappresentazione e dichiarazione
dello stato dei luoghi (in ciò avallando l’atto
dell’amministrazione comunale in cui si legge che la DIA non
potrebbe produrre «effetto giuridico» perché «rappresentava
lo stato dei luoghi come commercio»).
In senso contrario,
deve osservarsi che le opere realizzate a seguito della DIA
30.09.2009 –segnatamente: realizzazione di tramezzature,
sostituzione della pavimentazione interna, dei rivestimenti,
degli infissi interni ed esterni, l’installazione di
impianti tecnologici, copertura con tenda retrattile ed
altri interventi, di cui gli atti impugnati non contestano
la difformità rispetto alla dichiarazione− erano
espressamente finalizzate all’uso commerciale dei locali.
Che l’intendimento dichiarato dagli istanti fosse la
destinazione ad attività commerciale è attestato, del resto,
dalla stessa nota del Comune di Arzano n. 16610 del 28.06.2010.
Su queste basi, la questione giuridica se le
opere dichiarate fossero compatibili o meno con la
disciplina urbanistica dell’area atteneva alla legittimità
del “titolo” (espressione qui evocata in senso lato,
trattandosi di un modulo procedimentale dichiarativo) che la
pubblica amministrazione avrebbe dovuto doverosamente
verificare per tempo. Di certo non veniva in considerazione
una falsa rappresentazione della realtà materiale (che,
peraltro, l’art. 19 della legge n. 241 del 1990 richiede sia
accertata con sentenza passata in giudicato).
3.− Possono assorbirsi tutti gli altri motivi, in quanto i
profili di illegittimità accertati garantiscono alle società
istanti il conseguimento della massima utilità sostanziale.
4.– L’appello è, dunque, fondato
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 13.07.2017 n. 3462 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato gonfia la parcella con
questioni di diritto fuori competenza. Sospeso tre mesi.
Conferma della sospensione.
La professione forense deve essere esercitata con
indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e
competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa
e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza.
---------------
In relazione al terzo e quarto motivo la
giurisprudenza di questa corte ha già affermato che i
Consigli locali dell'ordine degli avvocati esercitano
funzioni amministrative e non giurisdizionali, svolgendo i
relativi compiti nei confronti dei professionisti
appartenenti all'ordine forense a livello locale e, quindi,
all'interno del gruppo costituito dai professionisti stessi
e per la tutela degli interessi della classe professionale
rappresentata a quel livello.
Pertanto, la funzione disciplinare esercitata da tali
organi, così in sede di promozione come in sede di decisione
del procedimento, risulta manifestazione d'un potere
amministrativo, attribuito dalla legge per l'attuazione del
rapporto che si instaura con l'appartenenza a quel medesimo
ordine dal quale sono legittimamente stabiliti i criteri di
conformità o meno dei comportamenti tenuti dai propri
appartenenti rispetto ai fini che l'associazionismo
professionale intende perseguire per la più diretta ed
immediata protezione di tali fini e soltanto di essi (Cass.
Sezz. U, Sentenza n. 9097 del 03/05/2005).
Anche nel nuovo codice deontologico, fondato sulla
tendenziale tipizzazione degli illeciti deontologici degli
avvocati, tali principi trovano applicazione, in quanto
attraverso il sintagma "per quanto possibile",
previsto dall'articolo tre, comma tre, l. 247/2012 è
possibile contestare l'illecito anche sulla base della norma
di chiusura che prevede che "la professione forense deve
essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità,
dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del
rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi
della corretta e leale concorrenza".
Il nuovo codice deontologico ha previsto, degli articoli 9 e
12 i doveri fondamentali sanciti dalla I. n. 247/2012
legittimando la trasposizione delle vecchie regole nel nuovo
codice deontologico.
Anche con riferimento all'apparato sanzionatorio, ispirato
alla tendenziale tipizzazione delle sanzioni, è prevista nel
nuovo codice deontologico, entrato in vigore il 16.12.2014,
una disciplina analiticamente strutturata negli art. 20 e 21
che consente di rapportare la sanzione alle condizioni
soggettive dell'incolpato e alle circostanze in cui si sono
realizzati i fatti contestati.
Il CNF, con riferimento al quarto motivo, ha graduato
la pena, in applicazione del criterio previsto dal citato
articolo 21 cit., con valutazione non soggetta a sindacato
di legittimità non rivestendo certamente la valutazione del
CNF i caratteri di abnormità.
Le deliberazioni con le quali il Consiglio nazionale forense
procede alla determinazione dei principi di deontologia
professionale e delle ipotesi di violazione degli stessi
costituiscono regolamenti adottati da un'autorità non
statuale in forza di autonomo potere in materia che ripete
la sua disciplina da leggi speciali, in conformità dell'art.
3, secondo comma, delle disposizioni sulla legge in
generale, onde, trattandosi di legittima fonte secondaria di
produzione giuridica, va esclusa qualsiasi lesione del
principio di legalità, considerando altresì non tanto le
tipologie delle pene disciplinari quanto l'entità delle
stesse tra un minimo ed un massimo che ove graduabili, siano
prestabilite dalla normativa statuale (R.D.L. 27.11.1933, n.
1578) (Cass. Sez. U, Sentenza n. 9097 del 03/05/2005) (Corte
di Cassazione, Sezz. unite civili,
ordinanza 11.07.2017 n. 17115). |
EDILIZIA PRIVATA:
Edifici di pregio, legittimo il vincolo culturale anche in
caso di quasi totale rovina del manufatto.
Consiglio di Stato: l'amministrazione
può consentire la realizzazione dei lavori che consentono di
ridurre i rischi per la pubblica incolumità anche se non è
ripristinata l’assoluta identità dei beni preesistenti.
Secondo la VI Sez. del Consiglio di Stato –sentenza
10.07.2017 n. 3382- l’Amministrazione statale può
imporre il vincolo culturale “anche quando un manufatto
–risalente nel tempo e di pregio- risulti oggetto di
parziale o anche di quasi totale rovina (per fenomeni
naturali o per manum hominis) e si intenda comunque
tutelarne le vestigia, sia quando la ricostruzione per un
qualsiasi accadimento non abbia luogo, sia quando essa abbia
luogo”.
Infatti, argomenta Palazzo Spada, “poiché i beni aventi
un rilievo artistico, storico o archeologico nel corso del
tempo subiscono lenti degradi ovvero traumatiche rovine per
eventi naturali o altre cause, è del tutto ragionevole che
l’Amministrazione statale imponga il vincolo su ciò che
resta ovvero su ciò che è stato ripristinato o ricostruito”.
Il Consiglio di Stato aggiunge inoltre che, “in occasione
dei lavori di ricostruzione anche totale di beni artistici,
storici o archeologici, ben può l’Amministrazione –con le
cautele del caso– consentire la realizzazione di quei lavori
e di quelle modifiche che consentano di ridurre i rischi per
la pubblica incolumità, anche se non è ripristinata
l’assoluta identità dei beni preesistenti”.
La sentenza precisa infine che “un ‘cimitero monumentale’
va considerato tale non solo per le caratteristiche delle
strutture murarie o per le modalità di sistemazione dei
viali (che possono mutare nel corso del tempo), ma anche per
il suo significato identitario derivante anche dalla
presenza di antiche tombe, cappelle o iscrizioni funerarie”
(commento tratto da www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Permesso
edilizio, la sospensione del termine di durata non può
essere automatica.
La giurisprudenza nettamente prevalente
di questo Consiglio di Stato, dalla quale il Collegio non
ritiene di doversi discostare, sottolinea che, ai sensi
dell'art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 ("Il
termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad
un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione,
entro il quale l'opera deve essere completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di diritto per la parte non
eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga
richiesta una proroga [...]"), l'effetto decadenziale si
riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei
lavori entro il termine annuale fissato dalla legge.
In altri termini "la decadenza del permesso di costruire
costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo,
che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un
anno dal rilascio del titolo abilitativo".
Invero, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire
ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del
mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini
stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi
attuazione.
Decadenza che opera di diritto, pertanto non è richiesta
l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso.
---------------
La giurisprudenza amministrativa ha del pari superato
pregresse incertezza giurisprudenziali stabilendo che "il
termine di durata del permesso edilizio non può mai
intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario
sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una
formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore".
---------------
1. L’appello è parzialmente fondato e va accolto, nei sensi
di cui alla motivazione che segue, mentre va respinta la
domanda di risarcimento dei danni per difetto di prova e di
allegazione: la sentenza deve essere, pertanto, riformata ed
il ricorso di primo grado deve essere accolto, con
conseguente annullamento dell’impugnato provvedimento.
2. Discostandosi per comodità espositiva dalla tassonomia
propria delle questioni (secondo le coordinate ermeneutiche
dettate dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), che in ordine
logico renderebbe prioritario lo scrutinio della doglianza
(lettera A dell’appello) incentrata sulla asserita “violazione
del giudicato formatosi sulle statuizioni di cui alla
sentenza di questo Consiglio di Stato n. 1556/2015 ed
all’ordinanza n. 5601/2015” ritiene il Collegio di
esaminare immediatamente le censure di cui alle lettere B e
C dell’appello.
3. Di entrambe si rileva immediatamente la non
condivisibilità, e la intrinseca debolezza, in quanto
contraddittorie rispetto alle stesse attività poste in
essere dalla stessa odierna parte appellante, posto che:
a) la società appellante richiese una prima proroga dell'inizio dei
lavori al 22.04.2014 e poi una seconda proroga di ulteriori
sei mesi che, in quanto tale, procrastinava il termine di
inizio dei lavori fino al 22.10.2014: ciò quando ancora il
Tar non si era pronunciato sui ricorsi proposti avverso la
Deliberazione n. 2129 del 23.10.2012 di rilascio
dell’autorizzazione integrata ambientale, proposti dalla
Provincia di Venezia e dal Comune di San Donà del Piave;
b) il Tar accolse i ricorsi con la sentenza n. 773/2014 del
09.06.2014, annullando la detta autorizzazione, ed a detta
data la proroga era ancora efficace, in quanto, come prima
riferito, l’autorizzazione sarebbe scaduta il 22.10.2014;
c) l’intera impostazione delle prime due censure dell’appello è
incentrata sulla circostanza per cui, dal momento che il Tar
aveva annullato l’autorizzazione, questa non “esisteva
più” e non avrebbe avuto senso chiedere la proroga;
d) ma tale arguta affermazione si scontra con un dato di fatto: in
pendenza del giudizio di appello proposto dalla società
odierna appellante avverso la suindicata sentenza del Tar –e
quindi quando, secondo l’argomentare della stessa appellante
l’autorizzazione non esisteva più, e non avrebbe avuto senso
chiedere la proroga- la società predetta chiese una terza
proroga (con nota datata del 18/02/2015 motivata dal fatto
che l’udienza avanti al Consiglio di Stato era stata
rinviata al 03.03.2015);
e) ciò dimostra che essa stessa si rendeva conto che anche in
pendenza del giudizio di appello (sfociato nella sentenza di
questo Consiglio di Stato n. 1556/2015 che accolse infine il
gravame), essa avrebbe dovuto richiedere la proroga
dell’autorizzazione: soltanto che lo fece intempestivamente,
in quanto l’autorizzazione era già scaduta il 22.10.2014 ed
essa si risolse a chiedere la proroga soltanto nel febbraio
del 2015.
3.1. Tanto vale a privare di plausibilità la ricostruzione
della odierna parte appellante contenuta nelle suindicate
censure, e ciò proprio tenuto conto dei suoi stessi
comportamenti.
3.2. Ed anche a non volere attribuire rilevanza a tali
emergenze processuali, ed affrontando esclusivamente sotto
il profilo giuridico le argomentazioni della parte odierna
appellante, si osserva che:
a) l’effetto retroattivo del giudicato, anche nel processo
amministrativo, è jus receptum e non può essere messo
in discussione;
b) ma tale principio tendenziale è soggetto a limiti di vario
genere e, per quel che rileva in questa sede va contemperato
con le previsioni normative che regolamentano i
provvedimenti interessati dal giudicato;
c) nel caso del permesso di costruire, ad evidenti fini di certezza
della programmazione urbanistica (altrimenti condizionato
sine die da possibili “effetti retroattivi”
ascrivibili a sentenza che intervengono a distanza di tempo
considerevole dal rilascio del titolo), il Legislatore ha
dettato un principio che –senza smentire la portata
retroattiva del giudicato- all’evidente fine di verificare
il permanente interesse del soggetto latore del titolo a
realizzare l’intervento programmato ha condizionato
l’efficacia del titolo suddetto ad un evento: la
presentazione di una istanza di proroga del termine di
inizio e fine dei lavori;
d) come condivisibilmente colto dal Tar, infatti, la giurisprudenza
nettamente prevalente di questo Consiglio di Stato, dalla
quale il Collegio non ritiene di doversi discostare,
sottolinea che, ai sensi dell'art. 15, comma 2, del D.P.R.
n. 380 del 2001 ("Il termine per l'inizio dei lavori non
può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo;
quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
completata, non può superare tre anni dall'inizio dei
lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto
per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla
scadenza, venga richiesta una proroga [...]"), l'effetto
decadenziale si riconnette al mero dato fattuale del mancato
avvio dei lavori entro il termine annuale fissato dalla
legge; in altri termini "la decadenza del permesso di
costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del
tempo, che per l'inizio dei lavori non può essere superiore
ad un anno dal rilascio del titolo abilitativo" (Cons.
Stato, sez. IV, 11.04.2014, n. 1747; in tal senso, ex
multis, anche Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870:
"la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha
carattere strettamente vincolato all'accertamento del
mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini
stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre
anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed
ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del
permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi
attuazione". Decadenza che opera di diritto, pertanto
non è richiesta l'adozione di un provvedimento
amministrativo espresso -Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n.
1870; nonché, TAR Sardegna, sez. II, 04.05.2015, n. 741);
e) la giurisprudenza amministrativa ha del pari superato pregresse
incertezza giurisprudenziali stabilendo che "il termine
di durata del permesso edilizio non può mai intendersi
automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre
necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale
istanza di proroga, cui deve comunque seguire un
provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha
rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità
del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa
ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero
l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di
Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.)" (Cons. St., sez. III,
04.04.2013, n. 1870);
f) di ciò il Legislatore ha appunto preso atto inserendo nel corpo
dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001 un comma 2-bis,
ratione temporis vigente ed applicabile alla fattispecie
per cui è causa laddove si stabilisce che: “La proroga
dei termini per l'inizio e l'ultimazione dei lavori è
comunque accordata qualora i lavori non possano essere
iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o
dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate”;
g) pertanto, l'assunto della ricorrente sulla natura di factum
principis della controversia giudiziaria è destituita di
fondamento
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.07.2017 n. 3371 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Nella
disciplina statale non par dubbio che il proprietario possa
essere coinvolto nel procedimento successivo
all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di
demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo
all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area
di sedime), a prescindere da una sua diretta responsabilità
nell’illecito edilizio.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di
affermare che tale sistema non presenta profili di criticità
sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali
ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni
sovranazionali che trovano applicazione nel nostro
ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117
Cost.).
E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in
senso improprio, non aventi carattere “personale” ma reale,
essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza
rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di
assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di
ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del
prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del
territorio.
---------------
22. Nel caso di specie, la pregressa demolizione è restata
inottemperata e pertanto il Comune ha disposto
l’acquisizione gratuita, senza necessità di rinnovare
l’ordine di demolizione nei confronti dell’appellante,
essendo l’ordine stesso oggettivamente collegabile alle
opere realizzate in violazione del vincolo.
23. D’altra parte, l’appellante era a conoscenza dei
provvedimenti demolitori, quello adottato nel 1960 e quello
sostanzialmente confermativo del 1970, avendo peraltro
impugnato il rigetto dell’istanza di sanatoria per le stesse
opere. Cosicché, seppure non responsabile dell’abuso, in
qualità di proprietaria, non si era adoperata per eseguirli
(cfr. Cons. St., sez. III, 15.10.2009, n. 2371).
24. Nella disciplina statale, infatti, non par dubbio che il
proprietario possa essere coinvolto nel procedimento
successivo all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine
di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento
relativo all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e
dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta
responsabilità nell’illecito edilizio.
La giurisprudenza
amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che tale
sistema non presenta profili di criticità sul piano del
rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo
anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali
che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme
interposte, in base all’art. 117 Cost.).
E ciò per la
dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso
improprio, non aventi carattere “personale” ma reale,
essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza
rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di
assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di
ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del
prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del
territorio (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 15.04.2015 n. 1927).
25. La presentazione di un’istanza di sanatoria, comunque
respinta, non poteva poi essere d’ostacolo all’adozione del
provvedimento, essendo necessario ai fini dell’atto di
acquisizione solo l’esistenza del pregresso ordine di
demolizione inottemperato
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 10.07.2017 n. 3366 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
concetto di pertinenza previsto dal diritto civile va
distinto dal concetto più ristretto di pertinenza in senso
urbanistico, che non trova applicazione in relazione a
quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come
beni pertinenziali secondo la normativa privatistica,
assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra
costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime
del permesso di costruire.
In materia edilizia, sono qualificabili come pertinenze solo
le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscano la
loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con
l'edificio principale, così da non incidere sul carico
urbanistico
---------------
Il ricorso è infondato.
Ed invero, le opere realizzate in assenza di titolo
abilitativo non sono conformi allo strumento urbanistico
generale, perché insistono su area destinata a standard per
opere e spazi pubblici in quanto classificata, ai sensi del
PRG allora vigente, parte come zona F2 destinata a spazi per
attrezzature di interesse generale e parte come zona AP1,
destinata ad attrezzature pubbliche e di interesse pubblico
o generale di livello comunale.
Né le opere sono qualificabili come di interesse generale,
atteso che le stesse sono state realizzate a servizio
dell’Azienda della società ricorrente.
Riguardo, inoltre, alla qualificazione delle stesse come
opere pertinenziali dell’Azienda agricola, si rileva che le
medesime, di notevoli dimensioni, sono, in ogni caso,
utilizzabili autonomamente.
Sul punto, secondo l’orientamento della giurisprudenza
amministrativa: “Il concetto di pertinenza previsto dal
diritto civile va distinto dal concetto più ristretto di
pertinenza in senso urbanistico, che non trova applicazione
in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere
qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa
privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma
rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro
assoggettamento al regime del permesso di costruire. In
materia edilizia, sono qualificabili come pertinenze solo le
opere prive di autonoma destinazione e che esauriscano la
loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con
l'edificio principale, così da non incidere sul carico
urbanistico” (cfr., per tutte, TAR Campania, sez. IV,
08.09.2014, n. 4745).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 10.07.2017 n. 1572 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
L'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi
dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato
dall’art. 7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte
quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di
giustizia e di equità impongano l'adozione di un
provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in
relazione al dovere di correttezza e di buona
amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato
una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le
ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano)
dell'Amministrazione.
Nei giudizi di tale natura, il giudice amministrativo di
regola non può andare oltre la declaratoria di illegittimità
dell'inerzia e l'ordine di provvedere; gli resta precluso il
potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa
fatta valere dal richiedente, sostituendosi
all'Amministrazione stessa. Le disposizioni relative, ove
interpretate diversamente, attribuirebbero illegittimamente,
in modo indiscriminato, una giurisdizione di merito.
Tuttavia, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il giudice
potrà conoscere dell’accoglibilità dell'istanza:
a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza,
allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti
o vincolati in cui non c'è da compiere alcuna scelta
discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni e
fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi
all'Amministrazione;
b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia
manifestamente infondata, sicché risulti del tutto
diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere
laddove l'atto espresso non potrebbe che essere di rigetto.
---------------
12. E’ così possibile passare all’esame del merito della
controversia, nella quale viene in questione il silenzio
serbato dal Comune di Mormano a fronte dell’istanza del
privato.
13. Per costante giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato, l'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art.
2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art.
7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle
fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e
di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi,
tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di
correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica,
sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere
il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque
esse siano) dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. V,
22.01.2015, n. 273; sez. V, 03.06.2010, n. 3487).
14. Nei giudizi di tale natura, il giudice amministrativo di
regola non può andare oltre la declaratoria di illegittimità
dell'inerzia e l'ordine di provvedere; gli resta precluso il
potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa
fatta valere dal richiedente, sostituendosi
all'Amministrazione stessa. Le disposizioni relative, ove
interpretate diversamente, attribuirebbero illegittimamente,
in modo indiscriminato, una giurisdizione di merito (cfr.
Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 273; sez. IV,
24.05.2010, n. 3270).
15. Tuttavia, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il
giudice potrà conoscere dell’accoglibilità dell'istanza:
a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza,
allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti
o vincolati in cui non c'è da compiere alcuna scelta
discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni e
fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi
all'Amministrazione;
b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia
manifestamente infondata, sicché risulti del tutto
diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere
laddove l'atto espresso non potrebbe che essere di rigetto
(cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 273; sez. IV,
12.03.2010, n. 1468) (Consiglio di Stato, Sez. IV,
sentenza 30.06.2017 n. 3234 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI -
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza non ha mancato di evidenziare che ai sensi
dell'art, 97, comma 4, lett. d), D.lgs. 2000 n. 267, il
Segretario comunale, anche se chiamato a sovrintendere allo
svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinarne la
relativa attività, non può di norma espletare compiti
normalmente rimessi alla struttura burocratica in senso
proprio dell'ente locale, sostituendosi ai dirigenti, salve
eventuali ipotesi eccezionali di assenza, nei ruoli
dell'ente locale, di dirigenti o di altri funzionari in
grado di espletarne i compiti; in ogni caso, anche in
assenza di personale con qualifica dirigenziale,
l'attribuzione di compiti gestionali al segretario comunale
non è automatica, ma dipende da una specifica attribuzione
di funzioni amministrative, in base allo statuto o ai
regolamenti dell'ente o a specifiche determinazioni del
sindaco.
Ai sensi delle norme richiamate, nell'attuale assetto
ordinamentale, al Segretario comunale sono affidati compiti
di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente locale,
in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Di talché, nel nuovo
ordinamento degli enti locali, il Segretario comunale non
rientra più nel novero dei dirigenti dell'amministrazione
locale e tale costruzione è ulteriormente confermata
dall'art. 97 D.lgs. 267/2000, laddove al comma 4, lett. d),
ipotizza l'affidamento al Segretario comunale di competenze
dirigenziali limitate e “pur sempre legate ad esigenze
eccezionali e transeunti”.
Ne consegue che non essendo il Segretario comunale
titolare di poteri di sostituzione rectius avocazione nei
confronti dei dirigenti, l’ordinanza impugnata (nel caso di
specie) presta il
fianco ai dedotti vizi di incompetenza oltre che di difetto
di motivazione.
---------------
Tuttavia, deve però il Collegio verificare la
capacità invalidante del suddetto vizio, ai sensi del comma
secondo, primo allinea, dell’art. 21-octies della legge 241
del '90 e s.m., risultando l’attività di repressione degli
abusi edilizi pacificamente strettamente vincolata oltre che
doverosa ed
applicandosi dunque il principio c.d. sostanzialistico ivi
codificato di “strumentalità delle forme” ovvero di
conservazione dell’attività amministrativa, con il
corollario processuale della trasformazione del giudizio di
annullamento da verifica formale di legittimità degli atti
impugnati ad accertamento della fondatezza della pretesa
azionata ovvero a giudizio “sul rapporto”.
Giova evidenziare, per completezza, come la sostenuta natura
processuale dell’art. 21-octies dovrebbe essere
riconsiderata alla luce dell’entrata in vigore del decreto
legge “Sblocca Italia” 12.09.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164, nella parte in cui ha modificato l’art. 21-nonies
della legge 241/1990 sul potere di annullamento d’ufficio, ora
esercitabile solo in presenza di “provvedimento illegittimo
ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al
medesimo articolo 21-octies, comma 2,…… .”.
Da una prima lettura della novella legislativa, secondo il
significato letterale, pare ora considerarsi illegittimo
soltanto il provvedimento annullabile ai sensi dell’art.
21-octies, che diverrebbe dunque norma sostanziale. Ne
conseguirebbero allora diversi effetti giuridici, tra cui la
pacifica irrilevanza ai fini risarcitori, divenendo l’atto
affetto da vizi formali non più colpito da invalidità non
annullabile bensì affetto da mera irregolarità, così come
una possibile deresponsabilizzazione ai fini dello stesso
giudizio amministrativo contabile, non senza al riguardo
ipotizzabili questioni di incostituzionalità per contrasto,
tra l’altro, con gli artt. 24, 103 e 113 Cost.
In merito alla riconduzione del vizio di competenza
relativa ai vizi di natura “formale”, ai fini
dell’applicazione dell’art. 21-octies comma secondo L.
241/1990, è sorto un obiettivo contrasto giurisprudenziale.
Infatti, secondo una prima tesi, il vizio di incompetenza
relativa non può portare all'annullamento dell'atto, ove
l'amministrazione non potrebbe, in prosieguo, che riadottare
un provvedimento analogo a quello impugnato; troverebbe
quindi applicazione l'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del
1990 dal momento la norma avrebbe una propria “vis
espansiva” che lo renderebbe applicabile a qualsiasi vizio
puramente formale, dato che l'acclarata necessaria
reiterazione del provvedimento, da parte dell'organo in
ipotesi competente, dimostra che la censura, pur fondata,
non è sorretta da alcun concreto interesse.
Secondo altra opposta opzione esegetica, invece,
dalla lettura combinata del comma 1, e del comma 2,
dell'art. 21-octies, L. n. 241 del 1990, si desume che,
quando viene accertata l'incompetenza relativa dell'organo
adottante, il provvedimento deve essere necessariamente
annullato, non potendo trovare applicazione la disposizione
che ne preclude l'annullamento laddove sia palese che il suo
contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da
quello in concreto adottato; detta disposizione, infatti, si
riferisce ai soli casi in cui il provvedimento adottato sia
stato adottato in violazione di norme sul procedimento o
sulla forma; né è possibile includere le norme sulla
competenza tra quelle sul procedimento amministrativo o
sulla forma degli atti: infatti, nel comma 1, dell'art.
21-octies il legislatore ha inteso ribadire la classica
tripartizione dei vizi di legittimità dell'atto
amministrativo, in base alla quale la violazione delle norme
sulla competenza configura il vizio di incompetenza, mentre
la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma
rientra nell'ambito più generale della violazione di legge.
Non ignora il Collegio come l’assimilazione ai vizi formali
dell’incompetenza relativa possa in realtà porsi in
contrasto con il principio fondamentale di separazione tra
attività di indirizzo politico e attività di gestione
amministrativa sancita dal Codice sul Pubblico Impiego
(artt. 13 e seg.) e dallo stesso Testo Unico Enti Locali
(art. 107), principio cui va riconosciuta rilevanza
costituzionale quale espressione del principio di buon
andamento.
---------------
Tanto doverosamente premesso, ritiene il Collegio come nel
caso di specie la domanda di annullamento dell’ordinanza
impugnata sia del tutto strumentale, se non pretestuosa, dal
momento che parte ricorrente non contesta minimamente
l’abusività delle opere detenute, poiché anche la lamentata
mancata indicazione del titolo abilitativo necessario per le
opere in contestazione risulta altrettanto capziosa in
considerazione delle caratteristiche delle opere realizzate
e dei vincoli insistenti sull’area.
Infatti, per quanto i manufatti in esame siano di non
rilevanti dimensioni, costituiscono pur sempre interventi
implicanti una evidente trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, oltre che del paesaggio, soggetti al
preventivo permesso di costruire, ai sensi sia del t.u.
edilizia che della legislazione regionale, oltre che
dell’autorizzazione paesaggistica, essendo pertanto del
tutto inevitabile l’adozione da parte del Comune delle
doverose misure ripristinatorie.
In tal contesto, l’annullamento del provvedimento impugnato,
come detto manifestamente del tutto vincolato e senza
alternative quanto al contenuto dispositivo emanabile,
appare oltre che in contrasto con il principio di
“strumentalità delle forme” del tutto irragionevole, specie
nell’ambito di un giudizio sul rapporto sostanziale
sottostante, potendo e anzi dovendo l’Amministrazione
intimata riadottare all’indomani dell’ipotizzato
annullamento giudiziale un provvedimento di identico tenore.
---------------
1. - Con il ricorso in epigrafe il ricorrente ha impugnato
l’ordinanza n. 18 del 05.07.2007 con cui il Segretario
comunale di Pegaro (PG) gli ha ingiunto la demolizione,
quale soggetto detentore, di varie opere asseritamente
abusive, realizzate su area classificata dal P.R.G. come
boschiva e sottoposta a vincolo paesaggistico, precisamente
tre manufatti di modeste dimensioni (due di circa 9 mq. e
uno di 25 mq,) e una recinzione metallica, tutte destinate
all’allevamento di animali da cortile per il consumo
domestico.
...
2. - E’ materia del contendere la legittimità dell’ordinanza
n. 18 del 05.07.2007 con cui il Segretario comunale di Pegaro ha ingiunto anche al ricorrente, quale soggetto
detentore, la demolizione di varie opere asseritamente
abusive, realizzate su area vincolata, tra cui tre manufatti
di modeste dimensioni e una recinzione metallica, tutte
destinate all’allevamento di animali da cortile per il
consumo domestico.
3. - Va premesso in punto di fatto come l’odierno ricorrente
abbia spontaneamente demolito uno dei tre manufatti oggetto
della misura ripristinatoria gravata ovvero quello di
maggiori dimensioni adibito a ricovero degli animali,
circostanza confermata anche dalla difesa comunale.
In punto di diritto parte ricorrente non contesta il
carattere abusivo delle opere oggetto della misura
ripristinatoria -circostanza che potrebbe far dubitare come
eccepito dall’Amministrazione della stessa sussistenza
dell’interesse al ricorso- limitandosi a dedurre censure di
carattere formale/procedimentale e, segnatamente, il vizio
di incompetenza relativa ed il difetto di motivazione anche
in riferimento alla mancata indicazione del titolo edilizio
che sarebbe stato richiesto per realizzare le opere in
esame.
4. - Il ricorso è infondato e va respinto.
5. - Ritiene il Collegio di dover esaminare prioritariamente
le doglianze inerenti il vizio di incompetenza relativa, in
quanto di natura assorbente.
5.1. - Come noto, se il provvedimento impugnato è affetto da
vizio di incompetenza, tale vizio ai sensi dell’art. 34,
comma 2, cod. proc. amm., ha carattere assorbente rispetto
alle residue censure, dato che in tutte le situazioni di
incompetenza e di carenza di proposta o di parere
obbligatorio si versa nella situazione in cui il potere
amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il
giudice, anche ai sensi succitato art. 34, comma 2, cod.
proc. amm., non può fare altro che rilevare il relativo
vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo
ritenersi vincolato dalla prospettazione del ricorrente e
dalla eventuale graduazione dei motivi da quest'ultimo
effettuata; in tale ipotesi, invero, debbono ritenersi
sussistere i presupposti per disporre l'assorbimento
(assorbimento per legge, per pregiudizialità necessaria e
per ragioni di economia) precisati dall'Adunanza Plenaria
del Consiglio di Stato con la sentenza 27.04.2015 n. 5
(cfr. TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 21.06.2016, n.
226; TAR Campania Napoli sez. VII, 29.08.2016, n.
4117).
5.2. - Ad avviso del ricorrente il provvedimento di
repressione di abuso edilizio, quale atto tipicamente
rientrante nelle attribuzioni dirigenziali, dovrebbe essere
emanato esclusivamente dal Dirigente comunale o dal
Responsabile apicale esercente le relative funzioni, potendo
il Segretario comunale sostituirlo soltanto in caso di
motivato riscontro delle ragioni di assenza o impedimento,
riscontro nel caso di specie del tutto assente.
Impugna il
ricorrente anche il presupposto art. 33, comma 5, del
presupposto Regolamento comunale sull’ordinamento degli
Uffici e Servizi, ove venisse interpretato nel senso di
consentire una sostanziale avocazione di poteri gestionali
da parte del Segretario comunale, organo decisamente
distinto rispetto alla dirigenza dell’ente locale.
5.3. - Come sostenuto dal ricorrente l’ordinanza impugnata
non indica effettivamente le ragioni dell’impedimento del
Responsabile dell’Area Tecnica alla sottoscrizione
dell’atto, contravvenendo alle stesse disposizioni del
presupposto Regolamento, espressamente richiamato nella
stessa ordinanza.
5.4. - La giurisprudenza non ha mancato di evidenziare che
ai sensi dell'art, 97, comma 4, lett. d), D.lgs. 2000 n. 267,
il Segretario comunale, anche se chiamato a sovrintendere
allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinarne
la relativa attività, non può di norma espletare compiti
normalmente rimessi alla struttura burocratica in senso
proprio dell'ente locale, sostituendosi ai dirigenti, salve
eventuali ipotesi eccezionali di assenza, nei ruoli
dell'ente locale, di dirigenti o di altri funzionari in
grado di espletarne i compiti; in ogni caso, anche in
assenza di personale con qualifica dirigenziale,
l'attribuzione di compiti gestionali al segretario comunale
non è automatica, ma dipende da una specifica attribuzione
di funzioni amministrative, in base allo statuto o ai
regolamenti dell'ente o a specifiche determinazioni del
sindaco (ex multis TAR Piemonte, sez. II, 04.11.2008, n. 2739; Consiglio di Stato sez. IV, 21.08.2006,
n. 4858; in termini Cass. civ. sez. lav., 12.06.2007, n.
13708).
Ai sensi delle norme richiamate, nell'attuale assetto
ordinamentale, al Segretario comunale sono affidati compiti
di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente locale,
in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle
leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Di talché, nel nuovo
ordinamento degli enti locali, il Segretario comunale non
rientra più nel novero dei dirigenti dell'amministrazione
locale e tale costruzione è ulteriormente confermata
dall'art. 97 D.lgs. 267/2000, laddove al comma 4, lett. d),
ipotizza l'affidamento al Segretario comunale di competenze
dirigenziali limitate e “pur sempre legate ad esigenze
eccezionali e transeunti” (TAR Calabria Catanzaro sez. II,
12.03.2002, n. 571).
5.5. - Ne consegue che non essendo il Segretario comunale
titolare di poteri di sostituzione rectius avocazione nei
confronti dei dirigenti, l’ordinanza impugnata presta il
fianco ai dedotti vizi di incompetenza oltre che di difetto
di motivazione.
5.6. - Tanto premesso, deve però il Collegio verificare la
capacità invalidante del suddetto vizio, ai sensi del comma
secondo primo allinea dell’art. 21-octies della legge 241
del '90 e s.m., risultando l’attività di repressione degli
abusi edilizi pacificamente strettamente vincolata oltre che
doverosa (ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 21.11.2016, n. 4855; TAR Campania Napoli, sez. VI, 20.02.2017, n. 995; TAR Umbria 29.01.2014, n. 66) ed
applicandosi dunque il principio c.d. sostanzialistico ivi
codificato di “strumentalità delle forme” ovvero di
conservazione dell’attività amministrativa, con il
corollario processuale della trasformazione del giudizio di
annullamento da verifica formale di legittimità degli atti
impugnati ad accertamento della fondatezza della pretesa
azionata ovvero a giudizio “sul rapporto” (ex multis Cons.
Stato, Ad. plen., 23.03.2011, n. 3).
5.7. - Giova evidenziare, per completezza, come la sostenuta
natura processuale dell’art. 21-octies (ex multis Consiglio
Stato, sez. VI, 04.09.2007, n. 4614) dovrebbe essere
riconsiderata alla luce dell’entrata in vigore del decreto
legge “Sblocca Italia” 12.09.2014, n. 133,
convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014,
n. 164, nella parte in cui ha modificato l’art. 21-nonies
della legge 241/1990 sul potere di annullamento d’ufficio, ora
esercitabile solo in presenza di “provvedimento illegittimo
ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al
medesimo articolo 21-octies, comma 2,…… .”.
Da una prima lettura della novella legislativa, secondo il
significato letterale, pare ora considerarsi illegittimo
soltanto il provvedimento annullabile ai sensi dell’art.
21-octies, che diverrebbe dunque norma sostanziale. Ne
conseguirebbero allora diversi effetti giuridici, tra cui la
pacifica irrilevanza ai fini risarcitori, divenendo l’atto
affetto da vizi formali non più colpito da invalidità non
annullabile bensì affetto da mera irregolarità, così come
una possibile deresponsabilizzazione ai fini dello stesso
giudizio amministrativo contabile, non senza al riguardo
ipotizzabili questioni di incostituzionalità per contrasto,
tra l’altro, con gli artt. 24, 103 e 113 Cost.
5.8. - In merito alla riconduzione del vizio di competenza
relativa ai vizi di natura “formale”, ai fini
dell’applicazione dell’art. 21-octies comma secondo L.
241/1990, è sorto un obiettivo contrasto giurisprudenziale.
Infatti, secondo una prima tesi, il vizio di incompetenza
relativa non può portare all'annullamento dell'atto, ove
l'amministrazione non potrebbe, in prosieguo, che riadottare
un provvedimento analogo a quello impugnato; troverebbe
quindi applicazione l'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del
1990 dal momento la norma avrebbe una propria “vis
espansiva” che lo renderebbe applicabile a qualsiasi vizio
puramente formale, dato che l'acclarata necessaria
reiterazione del provvedimento, da parte dell'organo in
ipotesi competente, dimostra che la censura, pur fondata,
non è sorretta da alcun concreto interesse (TAR Campania
Salerno sez. II, 21.05.2013, n. 1132; in termini anche
TAR Toscana, sez. III, 17.09.2013, n. 1263).
Secondo altra opposta opzione esegetica, invece, dalla
lettura combinata del comma 1, e del comma 2, dell'art.
21-octies, L. n. 241 del 1990, si desume che, quando viene
accertata l'incompetenza relativa dell'organo adottante, il
provvedimento deve essere necessariamente annullato, non
potendo trovare applicazione la disposizione che ne preclude
l'annullamento laddove sia palese che il suo contenuto
dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato; detta disposizione, infatti, si riferisce
ai soli casi in cui il provvedimento adottato sia stato
adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla
forma; né è possibile includere le norme sulla competenza
tra quelle sul procedimento amministrativo o sulla forma
degli atti: infatti, nel comma 1, dell'art. 21-octies il
legislatore ha inteso ribadire la classica tripartizione dei
vizi di legittimità dell'atto amministrativo, in base alla
quale la violazione delle norme sulla competenza configura
il vizio di incompetenza, mentre la violazione delle norme
sul procedimento o sulla forma rientra nell'ambito più
generale della violazione di legge (TAR Veneto sez. II, 09.02.2010, n. 340; TAR Lombardia Milano sez. IV,
06.04.2012, n. 1035).
5.9 - Non ignora il Collegio come l’assimilazione ai vizi
formali dell’incompetenza relativa possa in realtà porsi in
contrasto con il principio fondamentale di separazione tra
attività di indirizzo politico e attività di gestione
amministrativa sancita dal Codice sul Pubblico Impiego
(artt. 13 e seg.) e dallo stesso Testo Unico Enti Locali
(art. 107), principio cui va riconosciuta rilevanza
costituzionale quale espressione del principio di buon
andamento (ex multis Corte Cost. sent. 03.05.2013, n. 81).
5.10. - Tanto doverosamente premesso, ritiene il Collegio
come nel caso di specie la domanda di annullamento
dell’ordinanza impugnata sia del tutto strumentale, se non
pretestuosa, dal momento che parte ricorrente non contesta
minimamente l’abusività delle opere detenute, poiché anche
la lamentata mancata indicazione del titolo abilitativo
necessario per le opere in contestazione risulta altrettanto
capziosa in considerazione delle caratteristiche delle opere
realizzate e dei vincoli insistenti sull’area.
Infatti, per quanto i manufatti in esame siano di non
rilevanti dimensioni, costituiscono pur sempre interventi
implicanti una evidente trasformazione urbanistico-edilizia
del territorio, oltre che del paesaggio, soggetti al
preventivo permesso di costruire, ai sensi sia del t.u.
edilizia che della legislazione regionale, oltre che
dell’autorizzazione paesaggistica, essendo pertanto del
tutto inevitabile l’adozione da parte del Comune delle
doverose misure ripristinatorie.
5.11 - In tal contesto, l’annullamento del provvedimento
impugnato, come detto manifestamente del tutto vincolato e
senza alternative quanto al contenuto dispositivo emanabile,
appare oltre che in contrasto con il principio di
“strumentalità delle forme” del tutto irragionevole, specie
nell’ambito di un giudizio sul rapporto sostanziale
sottostante, potendo e anzi dovendo l’Amministrazione
intimata riadottare all’indomani dell’ipotizzato
annullamento giudiziale un provvedimento di identico tenore.
6. - Alla luce delle suesposte considerazioni il I motivo è
pertanto infondato, non essendo il dedotto vizio di
incompetenza dotato di capacità invalidante
(TAR Umbria,
sentenza 20.06.2017 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Presupposto per l'adozione dell'ordine
demolitorio è la constatata realizzazione dell'opera in
assenza di titolo (oppure in totale difformità da questo),
che rende l'adozione della misura un atto dovuto (e non
certo discrezionale), e perciò sufficientemente motivato con
il richiamo, appunto, all'accertata abusività del manufatto.
---------------
7. - Anche il II motivo è privo di pregio.
Presupposto per l'adozione dell'ordine demolitorio è la
constatata realizzazione dell'opera in assenza di titolo
(oppure in totale difformità da questo), che rende
l'adozione della misura un atto dovuto (e non certo
discrezionale), e perciò sufficientemente motivato con il
richiamo, appunto, all'accertata abusività del manufatto (ex multis da ultimo Cons. giust. amm. Sicilia, 27.02.2017, n. 65) abusività che come detto nel caso di specie è
pienamente sussistente.
8. - Per i suesposti motivi il ricorso è infondato e va
respinto
(TAR Umbria,
sentenza 20.06.2017 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza amministrativa ha individuato situazioni in presenza delle
quali il permesso di costruire può essere legittimamente
rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto
dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare
quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata
ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che
integralmente interessata da costruzioni, è anche
integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato
sussista una situazione di fatto corrispondente a quella
derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto
dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti
opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere
superflui gli strumenti attuativi.
In questo senso, e con queste precisazioni, il piano
attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di
fatto, in quanto occorre verificare le
concrete caratteristiche dell’area edificanda rispetto alla
necessità o ultroneità della predisposizione di uno
strumento urbanistico attuativo.
Al riguardo, il Collegio, condividendo la giurisprudenza già
fatta propria da questa Sezione, ritiene che, nel caso di
lotto intercluso o in altri analoghi casi nei quali la zona
risulti totalmente urbanizzata, attraverso la realizzazione
delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari
bisogni della collettività –quali strade, spazi di sosta,
fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e
dell’energia elettrica, scuole–, la pianificazione esecutiva
non sia più necessaria e non sia pertanto consentito
all’ente locale un rifiuto al rilascio del titolo
abilitativo basato sul solo argomento formale della mancata
emanazione della strumentazione urbanistica di dettaglio.
Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio
risulti già più o meno intensamente urbanizzato e cioè nei
casi caratterizzati da una sostanziale, anche se non
completa, urbanizzazione, è stata reputata convincente, in
quanto operante un equilibrato contemperamento dei diversi
interessi in gioco, la soluzione interpretativa per la quale
la mancanza dello strumento attuativo può essere invocata a
fondamento del diniego del titolo abilitativo edilizio
soltanto nel caso in cui l’amministrazione abbia
adeguatamente valutato lo stato di urbanizzazione già
presente nella zona ed abbia congruamente evidenziato le
concrete e ulteriori esigenze indotte dalla nuova
costruzione.
Difatti, l’ente locale, essendo in possesso delle
informazioni concernenti l’effettiva consistenza del
reticolo connettivo del suo territorio, comprendente le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria, i servizi
pubblici, nonché le edificazioni pubbliche e private già
esistenti, è sicuramente in grado di stabilire se e in quale
misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa
armonicamente inserirsi nell’assetto del territorio già
realizzato o in via di realizzazione.
In assenza di strumento attuativo, la valutazione circa la
congruità del grado di urbanizzazione è rimessa
all'esclusivo apprezzamento discrezionale del Comune, fatto salvo
un sindacato del giudice amministrativo ammesso entro i
ristretti limiti attinenti ai profili di macroscopica
illogicità, di eclatante irragionevolezza, di palese
travisamento dei fatti.
----------------
In via preliminare occorre rilevare che la giurisprudenza
amministrativa, condivisa dal Collegio (cfr., ex multis,
Cons. Stato, sez. VI, n. 3996 e n. 3997 del 27.09.2016, Cons. Stato, sez. IV, n. 5471 del 2008 e sez. V, n.
5251 del 2013), ha individuato situazioni in presenza delle
quali il permesso di costruire può essere legittimamente
rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto
dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare
quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata
ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che
integralmente interessata da costruzioni, è anche
integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria
e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato
sussista una situazione di fatto corrispondente a quella
derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto
dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti
opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli
standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere
superflui gli strumenti attuativi.
In questo senso, e con queste precisazioni, il piano
attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di
fatto (Cons. Stato, sez. VI, n. 3996 e n. 3997 del 27.09.2016 cit.), in quanto occorre verificare le
concrete caratteristiche dell’area edificanda rispetto alla
necessità o ultroneità della predisposizione di uno
strumento urbanistico attuativo (TAR Campania, Napoli, sez
VIII, 03.09.2010, n. 17298).
Al riguardo, il Collegio, condividendo la giurisprudenza già
fatta propria da questa Sezione, ritiene che, nel caso di
lotto intercluso o in altri analoghi casi nei quali la zona
risulti totalmente urbanizzata, attraverso la realizzazione
delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari
bisogni della collettività –quali strade, spazi di sosta,
fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e
dell’energia elettrica, scuole–, la pianificazione
esecutiva non sia più necessaria e non sia pertanto
consentito all’ente locale un rifiuto al rilascio del titolo
abilitativo basato sul solo argomento formale della mancata
emanazione della strumentazione urbanistica di dettaglio
(Cons. Stato, sez. IV, 04.12.2007, n. 6171).
Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio
risulti già più o meno intensamente urbanizzato e cioè nei
casi caratterizzati da una sostanziale, anche se non
completa, urbanizzazione, è stata reputata convincente, in
quanto operante un equilibrato contemperamento dei diversi
interessi in gioco, la soluzione interpretativa per la quale
la mancanza dello strumento attuativo può essere invocata a
fondamento del diniego del titolo abilitativo edilizio
soltanto nel caso in cui l’amministrazione abbia
adeguatamente valutato lo stato di urbanizzazione già
presente nella zona ed abbia congruamente evidenziato le
concrete e ulteriori esigenze indotte dalla nuova
costruzione (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV,
02.03.2000, n. 596; 18.05.2000, n. 1413).
Difatti, l’ente locale, essendo in possesso delle
informazioni concernenti l’effettiva consistenza del
reticolo connettivo del suo territorio, comprendente le
opere di urbanizzazione primaria e secondaria, i servizi
pubblici, nonché le edificazioni pubbliche e private già
esistenti, è sicuramente in grado di stabilire se e in quale
misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa
armonicamente inserirsi nell’assetto del territorio già
realizzato o in via di realizzazione (TAR Campania, Napoli,
sez VIII, 03.09.2010, n. 17298 cit).
In assenza di strumento attuativo, la valutazione circa la
congruità del grado di urbanizzazione è rimessa
all'esclusivo apprezzamento discrezionale del Comune (cfr.
Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2007, n. 4276), fatto salvo un
sindacato del giudice amministrativo ammesso entro i
ristretti limiti attinenti ai profili di macroscopica
illogicità, di eclatante irragionevolezza, di palese
travisamento dei fatti
(TAR Campania-Napoli, Sez, VIII,
sentenza 06.06.2017 n. 2965 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
L’atto amministrativo, oggetto di impugnazione,
non può essere integrato con motivazione postuma nel corso
del giudizio, con la conseguenza che va esaminato alla
stregua delle sole ragioni poste a suo sostegno ed in esse
esplicitate.
Ed invero deve ritenersi
inammissibile, da parte della Pubblica amministrazione, la
formulazione in giudizio di argomentazioni difensive a
giustificazione del provvedimento impugnato non evincibili
nemmeno implicitamente dalla sua motivazione, ciò
costituendo un'integrazione postuma effettuata in sede di
giudizio, come tale non consentita in quanto non inserita
nell'ambito di un procedimento amministrativo, dovendo la
motivazione precedere e non seguire il provvedimento
amministrativo, a tutela del buon andamento della P.A. e
dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario.
----------------
Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame
alla luce della sopra richiamata giurisprudenza, deve
ritenersi fondato il vizio di difetto di istruttoria e di
motivazione.
Ed invero, nella relazione tecnica descrittiva allegata alla
richiesta di permesso di costruire unitamente al rilievo
fotografico, depositati in giudizio, il tecnico incaricato
ha rappresentato che trattasi di area pressoché urbanizzata
ed ha puntualmente indicato le opere di urbanizzazione
primaria e secondaria presenti nell’area oggetto
dell’intervento per cui è causa, evidenziando altresì che il
progetto era stato redatto negli standard edificatori
previsti dal relativo comparto, in modo da rispettare le
previsioni del carico urbanistico stabilito dal PRG.
Vista
allora la particolarità del caso concreto, deve ritenersi
illegittimo l’impugnato diniego di permesso di costruire, in
quanto il Comune di Mondragone si è limitato a rappresentare
la necessità del P.U.E. previsto dal P.R.G. vigente, né sono
state evidenziate concrete, ulteriori esigenze di
urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Né può assumere rilievo la circostanza che il Comune
resistente, negli scritti difensivi, ha rappresentato,
peraltro genericamente, che nel caso di specie sarebbero del
tutto carenti e comunque insufficienti a sorreggere
l’ulteriore peso urbanistico le opere di urbanizzazione
secondarie nonché alcune primarie (come la condotta
fognaria), che richiederebbero un potenziamento per far
fronte alle nuove edificazioni da eseguirsi nell’ambito per
cui è causa; trattasi, infatti, di una inammissibile
motivazione postuma (cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione II,
n. 5876 del 19.12.2013, Sezione I n. 1588 del 04.04.2012).
Il Collegio non ha motivo di discostarsi
dall’orientamento giurisprudenziale, condiviso da questo
Tribunale, alla luce del quale l’atto amministrativo,
oggetto di impugnazione, non può essere integrato con
motivazione postuma nel corso del giudizio, con la
conseguenza che va esaminato alla stregua delle sole ragioni
poste a suo sostegno ed in esse esplicitate (cfr. TAR
Napoli, Sezione I, 02.09.2014, n. 4649, Sezione III,
n. 5379 del 22.11.2013).
Ed invero deve ritenersi
inammissibile, da parte della Pubblica amministrazione, la
formulazione in giudizio di argomentazioni difensive a
giustificazione del provvedimento impugnato non evincibili
nemmeno implicitamente dalla sua motivazione, ciò
costituendo un'integrazione postuma effettuata in sede di
giudizio, come tale non consentita in quanto non inserita
nell'ambito di un procedimento amministrativo (cfr., ex multis, Consiglio di Stato Sez. III,
09.01.2017, n. 24,
10.07.2015, n. 3488, Consiglio di Stato Sez. sez. VI, 18.07.2016, n. 3194), dovendo la motivazione precedere e
non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del
buon andamento della P.A. e dell'esigenza di delimitazione
del controllo giudiziario (TAR Napoli, Sez. II, 15.02.2017, n. 933).
Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso deve
essere accolto
(TAR Campania-Napoli, Sez, VIII,
sentenza 06.06.2017 n. 2965 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
TRIBUTI: La
Tarsu è dovuta anche dalle aree cimiteriali.
Una sentenza della Cassazione interviene su un tema a lungo
dibattuto: la Tarsu è dovuta anche dalle aree cimiteriali?
La risposta è affermativa, in quanto la Tassa sui rifiuti si
articola da sempre in una quota fissa, correlata alle
necessità pubbliche del servizio erogato e una variabile, in
proporzione alla quantità dei rifiuti prodotti. Sono dunque
la produzione e il conferimento dei rifiuti a motivare la
normativa e le relative agevolazioni.
I rifiuti cimiteriali vengono in toto assimilati a quelli
urbani, sia che si tratti di rifiuti vegetali o provenienti
da spazzamento sia che si considerino i rifiuti provenienti
da esumazioni ed estumulazioni. Neanche la destinazione
d’uso esenta i Concessionari dei cimiteri dal pagamento
dell’imposta: infatti le stesse norme regolamentari che
escludono gli edifici destinati al culto dal pagamento della
Tarsu lo fanno perché questi immobili sono ritenuti “incapaci
di produrre rifiuti, per loro natura e caratteristiche e per
il particolare uso cui sono adibiti” (commento tratto da
www.anci.lombardia.it).
---------------
La controversia riguarda l'impugnazione di un avviso di
accertamento ai fini TARSU relativamente ad un immobile
costituito da un'area cimiteriale in concessione rispetto
alla quale l'ente riteneva di non doversi applicare
l'imposta trattandosi (sotto il profilo oggettivo) di un
luogo destinato all'esercizio di funzioni di culto, gestito
(sotto il profilo soggettivo) da un ente ecclesiastico
civilmente riconosciuto.
...
12. Con il terzo motivo di ricorso, l'ente religioso
denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2,
comma 1 e 16, legge n. 222 del 1985, 7, legge n. 121 del
1985 e 62, comma 5, d.lgs. n. 507 del 1993, per aver il
giudice di merito erroneamente ritenuto che la TARSU fossa
esclusa dalle esenzioni spettati agli enti ecclesiastici a
norma degli Accordi tra Stato e Chiesa.
13. Il motivo non è fondato.
Questa Corte, in altra occasione che riguardava una
controversia nella quale era in discussione una pretesa
esenzione dalla TARSU fondata sulle regole enunciate
dall'art. 16 del Trattato lateranense, ha avuto modo di
rilevare che «la "tassa sui rifiuti"
-nonostante le alterne vicende che l'hanno vista passare da
tributo a tariffa e da tariffa a tributo nell'evoluzione
normativa che ne ha caratterizzato la disciplina dal d.P.R.
n. 507 del 1993, al d.lgs. n. 22 del 1997, al d.lgs. n. 152
del 2006 e, infine, al d.l. n. 201 del 2011, art. 15 (c.d.
decreto "Salva-Italia", convertito dalla legge n. 214 del
2011)- ha avuto sempre, e in particolare a
partire dalla disciplina dettata con il c.d. "decreto
Ronchi", una valenza specifica di corrispettivo di un
servizio legato alla qualità e quantità dei rifiuti prodotti
dal soggetto passivo, articolandosi in una "quota fissa",
commisurata alle necessità pubbliche di erogazione del
servizio, ed in una "quota variabile", commisurata ai
rifiuti prodotti. Sicché è la produzione e il conferimento
di rifiuti la ratio dell'imposizione e, al tempo stesso,
delle relative agevolazioni»
(Cass. n. 4027 del 2012).
14. Nel caso di specie non viene allegata alcuna condizione
oggettiva di esclusione dell'immobile in questione dal
conferimento dei rifiuti che produce, che sono costituiti
dai c.d. "rifiuti cimiteriali", classificati tra i
rifiuti urbani o a questi assimilati, a seconda che si
tratti (caso dei rifiuti vegetali o da spazzamento) o meno
di rifiuti provenienti da "esumazioni" ed "estumulazioni",
dal d.P.R. n. 254 del 2003 e dal d.lgs. n. 152 del 2006.
15. L'unico elemento di giustificazione che viene addotto è
costituito dalla supposta destinazione dell'immobile
all'esercizio del culto: ma un precedente specifico di
questa Corte che riguarda la stessa Arciconfraternita parte
ricorrente nel presente giudizio, ha escluso (e il Collegio
condivide) che sia possibile pensare ad una equivalenza tra
edifici destinati ed aperti al culto ed immobili adibiti nel
caso di specie a funzioni cimiteriali (v. Cass. n. 3711 del
2005): peraltro, come questa Corte ha già avuto modo di
osservare, le norme regolamentari
(e una di queste è il "Regolamento comunale di Roma n. 24
del 2003 sulla applicazione sperimentale della Tariffa per
la Gestione dei Rifiuti Urbani") che
escludono gli edifici di culto dal calcolo delle superfici
per la determinazione della TARSU, lo fanno sempre perché
ritenuti "incapaci di produrre rifiuti, per loro natura e
caratteristiche e per il particolare uso cui sono adibiti",
non in quanto la destinazione al culto, in assenza di
specifica previsione normativa, possa di per sé giustificare
l'esenzione dalla tassa
(v. Cass. n. 4027 del 2012)
(Corte di Cassazione, Sez. V civile,
sentenza 31.05.2017 n. 13740). |
APPALTI: Dall’art.
38, comma 1, lettera c), e comma 2, si ricava che nelle
procedure ad evidenza pubblica preordinate all'affidamento
di un appalto pubblico, l'omessa dichiarazione da parte del
concorrente di tutte le condanne penali eventualmente
riportate, anche se attinenti a reati diversi da quelli
contemplati nell'art. 38, comma 1, lett. c), ne comporta
senz'altro l'esclusione dalla gara, essendo impedito alla
stazione appaltante di valutarne la gravità.
Non c'è possibilità che l'omissione possa essere sanata
attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può essere
utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti
elementi essenziali) radicalmente mancanti -pena la
violazione della par condicio fra concorrenti- ma soltanto
per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già
comunque acquisiti agli atti di gara.
---------------
Quanto all'estinzione del reato (che consente di non
dichiarare l'emanazione del relativo provvedimento di
condanna), secondo la giurisprudenza di questo Consiglio,
essa sotto il profilo giuridico non è automatica per il mero
decorso del tempo, ma deve essere formalizzata in una
pronuncia espressa del giudice dell'esecuzione penale, che è
l'unico soggetto al quale l'ordinamento attribuisce il
compito di verificare la sussistenza dei presupposti e delle
condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza
che, fino a quando non intervenga tale provvedimento
giurisdizionale, non può legittimamente parlarsi di "reato
estinto" e il concorrente non è esonerato dalla
dichiarazione dell'intervenuta condanna.
Non può rilevare in contrario l’orientamento del giudice
penale, affermato ai fini dell’individuazione della
decorrenza anticipata degli effetti dell’estinzione a tutela
del condannato, ma che prescinde dalla considerazione del
contesto procedimentale nel quale, invece, l’estinzione
rileva ai fini in questione. La stazione appaltante si trova
a dover considerare, senza il dovere (e talvolta neanche la
possibilità) di poter sospendere la propria valutazione, la
rilevanza di una condanna, e non può che tener conto della
sua esistenza, fino a che non sia intervenuta una
valutazione dell’unico giudice competente, quello penale, in
ordine al venir meno dei suoi effetti ed all’adozione del
conseguente provvedimento dichiarativo.
E tanto è avvenuto anche nel caso in esame, con conseguente
irrilevanza della sopravvenuta dichiarazione di estinzione
da parte del Tribunale di Siena.
Il reato di frode processuale è tale da incidere sulla
moralità, trattandosi di reato, a dolo specifico, commesso
contro l’amministrazione della giustizia; la
depenalizzazione del reato presupposto non rileva, in
quanto, ai sensi dell’art. 170, primo comma, c.p., la causa
di estinzione del reato presupposto non si estende all’altro
reato.
Non si vede poi come si possa pretendere dalla stazione
appaltante una motivazione sulla rilevanza della condanna,
se l’esclusione è determinata dalla omessa dichiarazione.
---------------
11. L’appello è infondato.
11.1. Dall’art. 38, comma 1, lettera c), e comma 2, si
ricava che nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate
all'affidamento di un appalto pubblico, l'omessa
dichiarazione da parte del concorrente di tutte le condanne
penali eventualmente riportate, anche se attinenti a reati
diversi da quelli contemplati nell'art. 38, comma 1, lett.
c), ne comporta senz'altro l'esclusione dalla gara, essendo
impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità
(cfr., fra le tante, Cons. Stato, III, n. 4019/2016; IV, n.
834/2016; V, n. 4219/2016, n. 3402/2016 e n. 1641/2016).
11.2. Non c'è possibilità che l'omissione possa essere
sanata attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può
essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti
elementi essenziali) radicalmente mancanti -pena la
violazione della par condicio fra concorrenti- ma soltanto
per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già
comunque acquisiti agli atti di gara (cfr. Cons. Stato, A.P. n. 9/2014; V, n. 4219/2016 e n. 927/2015).
11.3. Secondo un orientamento, invocato dall’appellante,
costituisce eccezione l’ipotesi in cui la dichiarazione sia
resa dal concorrente sulla base di modelli predisposti dalla
stazione appaltante e questi sia indotto in errore dalla
formulazione ambigua o equivoca del bando (cfr. Cons. Stato,
III, n. 2006/2013, n. 507/2014, n. 925/2015 e n. 5240/2015).
11.4. Tuttavia, nel caso in esame una simile ambiguità deve
escludersi, posto che il disciplinare, all’art. 10, punto 3,
prevedeva, come contenuto della dichiarazione dell’assenza
delle cause di esclusione di cui all’art. 38, “dichiara che
nei propri confronti non è stata pronunciata sentenza di
condanna passata in giudicato, o emesso decreto di condanna
divenuto irrevocabile, o sentenza di applicazione della pena
su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di
procedura penale; (oppure, se presenti) indica tutte le
sentenze di condanna passate in giudicato, i decreti penali
di condanna divenuti irrevocabili, le sentenze di
applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo
444 del codice di procedura penale emessi nei propri
confronti …” ad esclusione di quelle per reati depenalizzati
o per le quali è intervenuta la riabilitazione o
l’estinzione, senza limitazioni ulteriori.
11.5. A ben vedere, anche il TAR, nell’affermare che il
modulo di dichiarazione “avrebbe potuto essere formulato in
termini più perspicui”, non giunge alla conclusione che la
lex specialis fosse equivoca e tale da suscitare un
legittimo affidamento nei concorrenti sulla non necessità di
dichiarare le eventuali condanne di minor gravità, ma
costituisce un mero antecedente logico del ragionamento
volto ad accertare la doverosità della dichiarazione di
tutte le condanne riportate.
11.6. Quanto all'estinzione del reato (che consente di non
dichiarare l'emanazione del relativo provvedimento di
condanna), secondo la giurisprudenza di questo Consiglio,
essa sotto il profilo giuridico non è automatica per il mero
decorso del tempo, ma deve essere formalizzata in una
pronuncia espressa del giudice dell'esecuzione penale, che è
l'unico soggetto al quale l'ordinamento attribuisce il
compito di verificare la sussistenza dei presupposti e delle
condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza
che, fino a quando non intervenga tale provvedimento
giurisdizionale, non può legittimamente parlarsi di "reato
estinto" (cfr., tra le altre, Cons. Stato, III, n.
4118/2016; V, n. 3105/2015, n. 3092/2014 e n. 4528/2014;
contra, per quanto risulta, soltanto la sentenza invocata
dall’appellante) e il concorrente non è esonerato dalla
dichiarazione dell'intervenuta condanna.
11.7. Non può rilevare in contrario l’orientamento del
giudice penale, affermato ai fini dell’individuazione della
decorrenza anticipata degli effetti dell’estinzione a tutela
del condannato, ma che prescinde dalla considerazione del
contesto procedimentale nel quale, invece, l’estinzione
rileva ai fini in questione. La stazione appaltante si trova
a dover considerare, senza il dovere (e talvolta neanche la
possibilità) di poter sospendere la propria valutazione, la
rilevanza di una condanna, e non può che tener conto della
sua esistenza, fino a che non sia intervenuta una
valutazione dell’unico giudice competente, quello penale, in
ordine al venir meno dei suoi effetti ed all’adozione del
conseguente provvedimento dichiarativo.
E tanto è avvenuto anche nel caso in esame, con conseguente
irrilevanza della sopravvenuta dichiarazione di estinzione
da parte del Tribunale di Siena.
11.8. Il reato di frode processuale è tale da incidere sulla
moralità, trattandosi di reato, a dolo specifico, commesso
contro l’amministrazione della giustizia; la
depenalizzazione del reato presupposto non rileva, in
quanto, ai sensi dell’art. 170, primo comma, c.p., la causa
di estinzione del reato presupposto non si estende all’altro
reato.
11.9. Non si vede poi come si possa pretendere dalla
stazione appaltante una motivazione sulla rilevanza della
condanna, se l’esclusione è determinata dalla omessa
dichiarazione
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 29.05.2017 n. 2548 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Alla Corte costituzionale la mancata previsione, nell’art.
19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990, di un termine per la
sollecitazione, da parte del terzo, delle verifiche sulla
Scia.
---------------
Scia – Verifica – Richieste dal terzo – Art. 19, comma
6-ter, l. n. 241 del 1990 – Mancata previsione di un termine
– Violazione artt. 3, 11, 97, 117, comma 1 Cost.
E' rilevante e non manifestamente
infondata -per contrasto con gli artt. 3, 11, 97, 117,
comma 1 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo
addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, paragrafo 3, del
Trattato UE, e 117, comma 2, lett. m), Cost.- la questione
di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l.
07.08.1990, n. 241, nella parte in cui non prevede un
termine per la sollecitazione, da parte del terzo, delle
verifiche sulla Scia (1).
---------------
(1)
Il Tar ha sollevato la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n.
241 nella parte in cui, disponendo che la tutela del terzo a
fronte della Scia da altri presentata sia realizzabile
esclusivamente attraverso lo strumento del silenzio-rifiuto
di cui all’art. 31 c.p.a. rispetto alla mancata risposta
dell’Amministrazione alla sollecitazione delle verifiche
amministrative avanzata dal terzo medesimo, omette tuttavia
di fissare il termine entro il quale il terzo può avanzare
l’istanza di sollecitazione. In assenza della fissazione ad
opera della norma del termine suddetto, e ritenendo il
Collegio che siano prive di convincente base normativa le
soluzioni che mirano ad individuare in via interpretativa il
termine medesimo, la norma censurata finisce per ammettere
una sollecitazione del potere di verifica della Scia da
parte del terzo sine die.
In tal modo essa si espone però a consistenti dubbi di
legittimità costituzionale per violazione dell’affidamento
del segnalante, che a distanza anche di anni può veder messa
in discussione la legittimità della intrapresa attività, per
violazione del buon andamento della p.a., che è costretta a
riaprite a distanza di tempo il procedimento di verifica
suddetto, nonché per violazione del principio di
ragionevolezza e tutela dei livelli essenziali delle
prestazioni, di cui all’art. 117, comma 2, lett. m) Cost..
Ed invero, ha chiarito il Tar, “la mancata previsione di
tali termini è idonea a vanificare del tutto la prestazione
somministrata dallo Stato al cittadino sotto forma di
semplificazione delle procedure abilitative per lo
svolgimento di attività (come quella edilizia) non
liberalizzate. Se in teoria infatti la semplificazione
dovrebbe consentire di raggiungere il medesimo risultato
(assentimento dell’iniziativa privata) con un iter
amministrativo più snello di quello ordinario, l’attuale
disciplina della Scia risulta contraddittoria con tali
finalità: da un lato invero, essa non assicura sempre una
riduzione dell’attività burocratica (poiché il procedimento
di verifica dei presupposti della segnalazione può essere
avviato più volte a fronte di plurime istanze di soggetti
controinteressati); e, d’altro lato, tale disciplina non
conduce mai ad una regolamentazione definitiva degli
interessi contrapposti nella vicenda amministrativa,
residuando sempre un potere-dovere dell’Amministrazione di
rimettere in discussione la legittimità originaria
dell’intervento segnalato, ogniqualvolta essa riceva una
domanda di intervento da parte di un terzo.
Peraltro, si evidenzia che l’esclusione dal novero dei
livelli essenziali del termine per l’esercizio del potere
sollecitatorio di cui all’art. 19 comma 6-ter rischia di
pregiudicare l’esigenza di uniformità normativa che
caratterizza l’istituto della SCIA nel suo complesso.
Invero, tale opzione legislativa, data la peculiare natura
della riserva posta dall’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
(la quale consente l’intervento regionale sugli aspetti di
dettaglio del regime dei livelli essenziali: cfr. Corte
cost. n. 297 del 2012 cit.), apre la strada a discipline
territoriali eterogenee del suddetto termine, con
conseguente disomogeneità degli standards di tutela a
livello nazionale” (TAR Toscana, Sez. III,
ordinanza 11.05.2017 n. 667 - commento tratto da
e link a www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
...per l'accertamento:
- (in tesi): della inefficacia della SCIA presentata dal
sig. Em.Ca. al Comune di Campi Bisenzio in data 06.12.2012;
- (in ipotesi): della illegittimità dell’intervento edilizio
di cui alla suddetta SCIA quanto alla prevista apertura di
finestra;
- (in ulteriore ipotesi): dell’obbligo del Comune di Campi
Bisenzio di pronunciarsi espressamente sull’istanza di
verifica presentata dalla ricorrente in data 14.09.2016,
nonché sulle precedenti istanze indicate in atti.
...
1 - Con ricorso notificato in data 23.10.2016 e depositato
il successivo 02.11.2016, la sig.ra Pa.Mu. è
insorta avverso il silenzio serbato dal Comune di Campi
Bisenzio sull’istanza di inibitoria da essa presentata in
data 14.09.2016 avverso la SCIA del 06.12.2012, con
cui il sig. Em.Ca. ha comunicato al suddetto ente
l’intenzione di procedere a lavori di manutenzione
straordinaria (tra cui l’apertura di una finestra)
sull’immobile in cui è compresa (anche) l’abitazione della
ricorrente.
1.1 - Più in particolare la SCIA edilizia per cui è causa ha
ad oggetto la realizzazione di alcune “opere interne ed
esterne di manutenzione straordinaria” in un fabbricato terratetto, facente parte di un più ampio complesso
immobiliare, poi divenuto condominio, sito in Campi
Bisenzio, alla Via ..., n. 79.
In particolare, gli
interventi progettati dal segnalante consistono:
nell’apertura di una finestra a servizio di camera da letto
posta al piano primo dell’edificio; nella demolizione di un
tramezzo interno del sottoscala; nella diversa conformazione
dei gradini di accesso all’abitazione; ed, infine, nella
copertura dell’ingresso con una tettoia di modeste
dimensioni.
Di queste opere, è stata portata a compimento
soltanto la finestra, posto che, a seguito dell’istanza
rivolta dall’assemblea del condominio di Via degli Allori al
Comune di Campi Bisenzio, e diretta a conseguire la
sospensione dei predetti lavori per asserito contrasto dei
medesimi con l’art. 3 del regolamento condominiale, l’Ente,
con ordinanza n. 4 del 14.01.2013, ne ha disposto
l’immediata sospensione.
1.2 - In data 12.11.2015 la sig.ra Mu. ha
inviato all’amministrazione una richiesta di “parere sulla
legittimità degli atti e delle procedure promosse con la
SCIA” della quale si discute, cui -in assenza di risposta
da parte del Comune- è seguito un primo sollecito del 16.12.2015, poi reiterato il 12.04.2016.
Tutte e tre
le richieste sono rimaste inevase, cosicché la Sig.ra Pa.Mu., con nota del 23.06.2016, ha dapprima
invitato l’amministrazione ad accertare l’inefficacia della
SCIA presentata dal Sig. Em.Ca. e ad adottare
tutti i conseguenti provvedimenti sanzionatori diretti alla
rimessa in pristino dell’edificio e poi, con ulteriore
istanza del 14.09.2016, proposta ai sensi dell’art.
19, comma 6-ter, della L. 241/1990, ha nuovamente
sollecitato l’Ente a svolgere le verifiche ad esso
spettanti.
Il silenzio serbato dall’amministrazione anche su
tale ultima istanza ha condotto alla proposizione da parte
della Sig.ra Patrizia Mu. del ricorso in esame,
proposto ai sensi dell’art. 31 c.p.a.
1.3 - Nello specifico la sig.ra Mu. rileva che la
suddetta SCIA è stata presentata dal sig. Ca. senza
previa acquisizione del nullaosta previsto dall’art. 3.2.
del regolamento edilizio comunale per gli interventi su
immobili di interesse “documentale” ai sensi del d.lgs.
490/1999 –quale sarebbe l’edificio de quo– con conseguente
inefficacia della segnalazione ai sensi dell’art. 84 l. r.
1/2005.
Essa censura, inoltre, il contrasto con l’art.
3.2.2. del suddetto regolamento, poiché quest’ultimo
stabilisce che su immobili del tipo in questione siano
eseguibili soltanto interventi ripristinatori di aperture
preesistenti, mentre il sig. Ca. ha realizzato ex novo
una finestra. In via preventiva rispetto a possibili
eccezioni, la ricorrente ha evidenziato che il gravame dalla
stessa proposto risulterebbe tempestivo, poiché l’art. 19
comma 6-ter l. n. 241/1990, non prevedendo alcun termine per
la proposizione dell’istanza di inibitoria di una SCIA da
parte del terzo controinteressato, consentirebbe a
quest’ultimo di sollecitare l’intervento repressivo
dell’Amministrazione nonché –ove questa non provveda– di
proporre l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. senza alcun
limite di tempo (ad eccezione dell’ordinario termine di
prescrizione decennale). A fronte delle suesposte
argomentazioni, la sig.ra Mu. ha concluso affinché
l’adito Tribunale Amministrativo:
a) in tesi, accerti e dichiari «che la SCIA presentata dal
sig. Em.Ca. al Comune di Campi Bisenzio in data 06.12.2012 è inefficace» e per l’effetto accerti e
dichiari «l’obbligo del Comune di Campi Bisenzio di adottare
i provvedimenti necessari a sanzionare le opere eseguite in
assenza di titolo abilitativo»;
b) in ipotesi, accerti e dichiari «che l’intervento di cui
alla SCIA presentata dal sig. Em.Ca.…è illegittimo
quanto alla apertura della finestra» e, per l’effetto,
accerti e dichiari «l’obbligo del Comune di Campi Bisenzio
di adottare i provvedimenti necessari a sanzionare detto
abuso mediante chiusura della finestra suddetta»;
c) in ulteriore ipotesi, dichiari «l’obbligo del Comune di
Campi Bisenzio di pronunciarsi espressamente sull’istanza di
verifica presentata dalla ricorrente in data 14.09.2016, nonché sulle precedenti istanze presentate in atti».
1.4 - Si sono costituti in giudizio, per resistere al
ricorso, il Comune di Campi Bisenzio e il controinteressato,
che hanno eccepito la tardività del gravame, per tardiva
sollecitazione dei poteri inibitori da parte del terzo, la
inammissibilità delle azioni di accertamento e, per quanto
concerne l’Amministrazione resistente, anche la
inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione di
parte ricorrente.
1.5 - Con ordinanza n. 141 del 2017 la Sezione ha
evidenziato che con il presente ricorso parte ricorrente ha
invero proposto una pluralità di azioni, volte sia
all’accertamento della inefficacia della SCIA presentata dal
controinteressato, sia all’accertamento della illegittimità
dell’intervento edilizio segnalato, sia, infine,
all’accertamento della sussistenza dell’obbligo
dell’Amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di
verifica presentata dalla ricorrente in relazione alla SCIA
medesima, concludendo che solo l’ultima azione fosse
trattabile con il rito camerale di cui all’art. 31 c.p.a. e
che fosse quindi necessario, ai sensi dell’art. 32 c.p.a.,
disporre la congiunta trattazione delle più domande proposte
con rito ordinario, a tal uopo fissando l’udienza pubblica a
ciò deputata.
1.6 - In esito alla svolta udienza pubblica, con sentenza
non definitiva n. 618 del 2017 il Collegio:
a) ha esaminato
e respinto l’eccezione di inammissibilità dell’intero
gravame per difetto di legittimazione attiva, evidenziando
come nella specie sussistano i presupposti della c.d. vicinitas, quale peculiare fattore di legittimazione
all’azione giurisdizionale amministrativa, in forza del
quale chi si trova in un rapporto di contiguità spaziale con
un particolare luogo può contestare i provvedimenti che in
concreto autorizzino la realizzazione di opere o impianti
atti ad incidere sulla sua configurazione;
b) ha esaminato e
dichiarato inammissibili le due prime azioni di accertamento
dispiegate dalla ricorrente nell’atto introduttivo del
giudizio, stante il chiaro disposto dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 a mente del quale “gli interessati possono
sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire
esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3
del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”, con
l’effetto che l’unica azione esperibile dal terzo è l’azione
sul silenzio di cui all’art. 31 c.p.a.;
c) ha avviato lo
scrutinio dell’azione di cui all’art. 31 c.p.a., proposta in
via di ulteriore ipotesi dalla sig.ra Mu., esaminando
l’eccezione di tardività della sollecitazione da parte del
terzo del potere inibitorio della p.a.; nella suddetta
sentenza non definitiva la Sezione è giunta alla conclusione
che l’art. 19 l. n. 241/1990 non indichi un termine entro il
quale il terzo è chiamato, a pena di decadenza, a
sollecitare le verifiche amministrative relative alla SCIA
presentata e che un simile termine non sia ricavabile dal
sistema, giacché i termini di cui all’art. 29 e 31 c.p.a.,
evocati dalle parti resistenti, hanno natura affatto diversa
e non sono quindi richiamabili in via analogica per coprire
il segnalato vuoto normativo; la Sezione ha quindi
evidenziato che tutto ciò porterebbe al risultato di
ritenere infondata l’eccezione di tardività formulata dai
resistenti, per mancanza di un termine legale sul quale
parametrare la tempestività o meno della sollecitazione del
potere di verifica effettuata dalla ricorrente; tuttavia la
Sezione medesima ha infine posto in evidenza come l’evocato
art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, nella misura in cui non
prevede un termine entro il quale il terzo è legittimato ad
esercitare il potere sollecitatorio delle verifiche
amministrative previsto dalla stessa disposizione, risulti
in contrasto con le disposizioni costituzionali di cui agli
artt. 11, 117, comma 1°, 3, 97, 117, comma 2°, lett. m)
Cost., anticipando che con separata ordinanza avrebbe
provveduto a rimettere la evidenziata questione di
legittimità costituzionale alla Corte costituzionale.
2 – E’ necessario richiamare, preliminarmente, l’insieme
delle norme attualmente regolanti l’istituto della SCIA e
quindi ripercorrere i passaggi fondamentali dell’evoluzione
giurisprudenziale riguardante la tutela del terzo
controinteressato rispetto all’attività oggetto di
segnalazione.
3 - Com’è noto, l’art. 19 della l. n. 241/1990 consente al
privato di avviare, mediante semplice SCIA, l’esercizio di
un’attività che dipende «esclusivamente dall’accertamento di
requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti
amministrativi a contenuto generale» e per la quale «non sia
previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici
strumenti di programmazione settoriale» (comma 1).
Ai sensi di tale norma, l’attività oggetto di SCIA «può
essere iniziata…dalla data della presentazione della
segnalazione all’amministrazione competente» (comma 2),
salvo il potere di quest’ultima di verificare
successivamente l’effettiva sussistenza dei presupposti per
lo svolgimento dell’attività medesima.
A tal proposito, l’art. 19, comma 3 (come modificato dalla
l. n. 124/2015) prevede che, in caso di accertata carenza
dei suddetti presupposti, l’Amministrazione possa adottare
«motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione
dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti
dannosi» nonché –ove possibili– provvedimenti diretti alla
conformazione dell’attività ai requisiti di legge, purché
proceda in tal senso entro sessanta giorni dal ricevimento
della segnalazione certificata del privato (comma 3) ovvero
trenta giorni «nei casi di SCIA in materia edilizia» (comma
6-bis, introdotto dall’art. 5, co. 2, lett. b, del D.L. n.
70/2011).
Viceversa, una volta decorsi i suddetti termini,
«l'amministrazione competente adotta comunque i
provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 (ma in tal caso)
alle condizioni previste dall'articolo 21-nonies», che –com’è noto– disciplina il potere di annullamento in
autotutela dei provvedimenti illegittimi (cfr. art. 19,
comma 4).
4 - Le sopra citate norme fissano i tratti significativi del
potere di verifica ufficioso spettante all’amministrazione a
seguito della presentazione di una SCIA. Da esse si evince,
in particolare, che tale potere assume natura diversa a
seconda che venga esercitato prima o dopo il decorso dei
suddetti termini di sessanta o trenta giorni.
Invero, nel primo caso, l’amministrazione è tenuta
semplicemente ad accertare la sussistenza o meno dei
presupposti di legge per lo svolgimento dell’attività
segnalata e, pertanto, i poteri repressivi ad essa spettanti
sulla SCIA assumono carattere doveroso e vincolato.
Viceversa, una volta scaduti i suddetti termini, il potere
dell’amministrazione di inibire gli effetti della SCIA resta
soggetto agli stessi presupposti previsti dalla legge per
l’annullamento d’ufficio, tra cui –com’è noto– rientra
l’obbligo di previa valutazione delle «ragioni di interesse
pubblico» giustificative del provvedimento repressivo. Ne
deriva che, in quest’ultimo caso, il potere
dell’amministrazione di interdire la prosecuzione
dell’attività segnalata ha natura discrezionale e non
doverosa.
5 - In tale quadro, si inserisce il tema della tutela del
terzo pregiudicato dall’intervento oggetto di SCIA, il quale
ha costituito oggetto di un serrato dibattito
giurisprudenziale negli anni che hanno preceduto
l’emanazione del d.l. n. 138/2011.
5.1 - Invero, ancor prima dell’introduzione (ad opera di
tale decreto legge) del comma 6-ter dell’art. 19 –il quale
ha espressamente disciplinato il potere di reazione del
terzo a fronte di una SCIA ritenuta illegittima– la
giurisprudenza era suddivisa in più orientamenti.
Il primo, assumendo che il mancato esercizio del potere di
verifica dell’Amministrazione desse luogo ad un
provvedimento tacito di assenso all’attività segnalata,
riteneva che il terzo leso da tale attività potesse
esercitare l’ordinaria azione di annullamento avverso il
suddetto titolo tacito (Cons. Stato, Sez. IV, 25.11.2008, n.
5811; id., 29.07.2008, n. 3742; id., 12.09.2007, n. 4828:
Cons. Stato, Sez. VI, 05.04.2007, n. 1550).
Un secondo orientamento stabiliva che il terzo pregiudicato
da una SCIA dovesse proporre un’azione di accertamento
negativo dei presupposti dell’attività segnalata. Azione che
–in caso di accoglimento– avrebbe obbligato
l’Amministrazione a conformarsi ai contenuti della pronuncia
giudiziale nel successivo esercizio dei poteri repressivi
(Cons. St., sez. VI, 09.03.2009, n. 717; Con. Stato, Sez. VI, 15.04.2010, n. 2139; Cons. St., sez. IV, 12.11.2015, n. 5161).
Infine, un’ulteriore filone giurisprudenziale reputava che
lo strumento appropriato per assicurare protezione giuridica
al terzo fosse l’azione (originariamente disciplinata
dall’art. 21-bis della l. n. 1034/1971, ossia quella)
avverso il silenzio serbato dall’amministrazione nel
procedimento di verifica ufficiosa dei presupposti della
SCIA. Azione che, qualora accolta dal giudice dopo la
scadenza dei termini di cui all’art. 19 comma 3, avrebbe
comportato –secondo certe pronunce– la condanna
dell’Amministrazione ad esercitare il potere inibitorio
avente carattere doveroso e vincolato (Cons. Stato, Sez. V,
22.02.2007, n. 948); viceversa –secondo altri arresti–
l’ordine all’amministrazione stessa di attivare l’autotutela
decisoria (avente invece contenuto discrezionale: Cons.
Stato, Sez. IV, 04.09.2002, n. 4453).
5.2 – I suesposti contrasti giurisprudenziali sono stati in
parte (e solo temporaneamente) sanati dalla sentenza
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 29.07.2011,
n. 15, la quale ha stabilito:
a) che la scadenza dei termini di cui all’art. 19, commi 3 e
6-bis, senza che l’amministrazione abbia esercitato i poteri
inibitori di cui alle medesime norme, dà luogo alla
formazione di una determinazione tacita di conclusione
negativa dell’accertamento in ordine ad eventuali vizi della
segnalazione nonché di diniego di esercizio delle suddette
potestà repressive; con conseguente onere per il terzo controinteressato di proporre avverso tale provvedimento
l’azione di annullamento entro l’ordinario termine
decadenziale, termine che, secondo la Plenaria, decorre
dalla data di acquisita conoscenza, da parte del terzo
medesimo, dell’iniziativa per lui pregiudizievole;
b) che il controinteressato che abbia impugnato il silenzio
negativo, benché siano scaduti i termini per l’adozione dei
suddetti provvedimenti inibitori, ha comunque diritto «ad
ottenere una pronuncia che impedisca lo svolgimento di
un’attività illegittima mediante un precetto giudiziario
puntuale e vincolante che non subisca l’intermediazione
aleatoria dell’esercizio di un potere discrezionale»; perciò
egli può sempre proporre, congiuntamente all’azione di
annullamento del diniego tacito, la c.d. azione di
adempimento, tesa ad ottenere una pronuncia che imponga
all’amministrazione l’adozione del negato provvedimento
inibitorio ove non vi siano spazi per la regolarizzazione
della denuncia ai sensi del comma 3 dell’art. 19 della legge
n. 241/1990;
c) infine che, nelle more della formazione del titolo
tacito, il terzo che abbia avuto conoscenza dell’iniziativa
segnalata può proporre un’azione di accertamento autonoma in
ordine alla legittimità o meno della SCIA (azione
suscettibile di conversione automatica in mezzo impugnatorio
in caso di emanazione dell’atto conclusivo del procedimento
di verifica) nonché, congiuntamente a tale azione, chiedere
la tutela interinale di cui agli artt. 55 e 61 c.p.a..
5.3 - Gli assunti fatti propri dall’autorevole arresto
giurisprudenziale richiamato sono stati (pressoché
immediatamente) superati con l’introduzione (ad opera
dell’art. 6, comma 1, lett. c, del D.L. n. 138/2011) del
comma 6-ter dell’art. 19, l. n. 241/1990, il quale
disciplina espressamente gli strumenti di tutela del terzo a
fronte della segnalazione di un’attività privata per esso
lesiva.
Tale norma ha anzitutto previsto che «la segnalazione
certificata di inizio attività, la denuncia e la
dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili».
In secondo luogo, il citato comma 6-ter ha precisato che, al
fine di contestare la sussistenza dei presupposti
dell’attività segnalata da altro soggetto, il terzo ha
facoltà:
a) di «sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’amministrazione»;
b) di «esperire –in caso di inerzia di quest’ultima–
esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3
del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104».
In altri termini, il nuovo testo dell’art. 19, comma 6-ter
obbliga il privato che intenda contrastare l’attività
oggetto di SCIA a sollecitare in via amministrativa
l’intervento repressivo dell’Ente pubblico e, in caso di
mancata risposta di quest’ultimo, a ricorrere in sede
giurisdizionale avverso il silenzio dallo stesso serbato.
La citata previsione esclude quindi radicalmente
l’ammissibilità –nell’attuale quadro normativo– degli
strumenti di tutela a suo tempo riconosciuti dalla sentenza
n. 15/2011 dell’Adunanza Plenaria al soggetto pregiudicato
dall’altrui segnalazione.
Tanto si evince, in primo luogo, dall’affermazione per cui
«la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia
e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono
provvedimenti taciti direttamente impugnabili». Ciò che,
evidentemente, nel nuovo contesto disciplinare, manifesta
l’intento del legislatore di escludere che l’inerzia
dell’Amministrazione nell’attività di verifica abbia il
valore di silenzio significativo e, conseguentemente, di
espungere l’azione di annullamento dal quadro delle tutele
spettanti al terzo avverso l’altrui segnalazione
certificata.
In secondo luogo, la suddetta norma precisa che la tutela
del controinteressato può essere realizzata «esclusivamente»
mediante l’azione avverso il silenzio, ciò che evidentemente
rende inammissibili le azioni di accertamento autonome che
la sentenza n. 15/2011 consentiva al terzo di esperire nella
fase compresa fra la presentazione dell’altrui SCIA e la
scadenza dei termini per l’inibitoria ufficiosa.
Ne deriva che l’unico strumento di reazione processuale
spettante al terzo in virtù della nuova disposizione è
l’azione avverso il silenzio.
6 - L’esposta scelta legislativa impone di stabilire se il
potere sollecitato con l’azione avverso il silenzio
(proposta dopo il decorso dei termini di cui all’art. 19,
commi 3 e 6-bis) sia quello inibitorio ovvero quello di
autotutela. Rileva il Collegio come il citato comma 6-ter
pare aver (implicitamente) superato le incertezze a suo
tempo messe in luce dalla giurisprudenza sotto tale profilo,
poiché la formulazione della norma rende evidente che il
potere stimolato dal controinteressato mediante il ricorso
ex art. 31 c.p.a. è quello inibitorio (avente natura
doverosa e vincolata) e non quello di autotutela,
caratterizzato invece da alto tasso di discrezionalità. In
tal senso depongono molteplici elementi logici e testuali.
6.1 - Il primo di essi è certamente costituito dalla
previsione secondo cui il terzo, prima di promuovere
l’eventuale ricorso avverso il silenzio, è tenuto a
«sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti
all’amministrazione». Da tale prescrizione si desume infatti
che il controinteressato ha onere di attivare un
procedimento di verifica dei presupposti della SCIA separato
ed autonomo rispetto a quello ufficioso disciplinato dal
comma 3 dell’art. 19 (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII,
23.10.2015, n. 4998). Dal che deriva, all’evidenza, che il
regime dettato dal comma 4 –secondo cui il potere
repressivo ufficioso dell’amministrazione degrada in
autotutela dopo il decorso dei termini di cui al comma 3–
non è applicabile alla procedura di controllo avviata su
istanza del terzo. Al contrario, nell’ambito di tale
procedura, l’amministrazione esercita (solo) le proprie
potestà inibitorie.
6.2 - Nel senso che il terzo solleciti il potere inibitorio
dell’Ente pubblico depone anche il richiamo operato dal
comma 6-ter all’art. 31 commi 1 e 2 del d.lgs. n. 104/2010
(d’ora innanzi “c.p.a.”).
Invero, com’è noto, tali norme individuano il presupposto
essenziale dell’azione avverso il silenzio
nell’inadempimento dell’Ente pubblico all’obbligo di
concludere il procedimento amministrativo mediante una
determinazione espressa. Obbligo che, com’è noto, non è
configurabile rispetto al potere di autotutela, il quale è
incoercibile dall’esterno mediante il ricorso contro
l’inerzia amministrativa (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez.
IV, 07.07.2014, n. 3426; id., sez. V, 22.01.2014 n. 322; id.,
Sez. IV, 22.01.2013, n. 355; con particolare riferimento
all’autotutela sulla SCIA: cfr. Cons. Stato, Sez. IV,
12.11.2015, n. 5161; TAR Campania, Sez. VII, n. 4998/2015).
Ne consegue che il rinvio alle suddette prescrizioni si
spiega solo accedendo alla tesi secondo cui terzo –con
l’istanza ex art. 19 comma 6-ter– attiva il potere
inibitorio dell’Amministrazione.
6.3 - Infine, un’ulteriore (ed ancora più significativa)
conferma di tale tesi, è costituita dal richiamo compiuto
dal comma 6-ter al comma 3 del citato art. 31 c.p.a.,
secondo cui il giudice adito con l’azione avverso il
silenzio può «pronunciare sulla fondatezza della pretesa
dedotta in giudizio» nei casi in cui l’Amministrazione ha
esaurito le valutazioni discrezionali e gli adempimenti
istruttori di sua competenza ovvero quando il potere da essa
esercitato ha natura vincolata.
Ora, il riferimento espresso a tale disposizione implica che
il terzo esercente la suddetta azione possa richiedere al
giudice l’accertamento in ordine alla spettanza o meno del
bene della vita oggetto del procedimento (rappresentato,
nella specie, dal provvedimento repressivo dell’intervento
denunciato) e che, in caso di accertamento positivo, tale
giudice possa condannare l’Amministrazione all’emanazione
del provvedimento medesimo (cfr. TAR Liguria, Sez. I,
09.04.2013, n. 611). Ciò implica necessariamente che il
legislatore –laddove ha richiamato il comma 3 dell’art. 31 c.p.a.– ha implicitamente riconosciuto che gli strumenti di
reazione del privato, di cui al comma 6-ter dell’art. 19,
sono volti a stimolare la (sola) potestà inibitoria
dell’Ente pubblico e non anche il suo intervento in
autotutela.
6.4 - In favore di questa soluzione si è peraltro espressa
autorevole giurisprudenza, secondo cui «il comma 6-ter
dell'art. 19, riservando al terzo la possibilità di
sollecitare l'amministrazione ad effettuare le verifiche di
sua competenza e contemplando altresì la possibilità che
avverso il silenzio mantenuto su tale istanza il terzo possa
tutelarsi mediante l'azione ex art. 31 c.p.a., ha
evidentemente presupposto che in esito alla presentazione
della S.c.i.a. e della D.i.a. non si formi alcun
provvedimento espresso o tacito e che pertanto le istanze
sollecitatorie del terzo non hanno la finalità di eccitare
dei poteri di autotutela amministrativa di secondo grado»
(TAR Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114; TAR Lombardia,
Milano, Sez. II, 30.11.2016, n. 2274; id., 15.04.2016, n.
735; id., 21.1.2014, n. 2799; TAR Campania, Napoli, Sez. III,
05.03.2015, n. 1410; TAR Veneto, Sez. II, 12.10.2015, n. 1038
e n. 1039).
6.5. Del resto, l’opposta tesi giurisprudenziale –secondo
cui, decorsi i termini di cui all’art. 19 comma 3, il terzo
attiva il (mero) potere di autotutela (Cons. Stato, Sez. VI,
n. 4610/2016; id., 22.09.2014, n. 4780; Cons. Stato, Sez. IV,
19.03.2015, n. 1493; TAR Calabria, Sez. I, n. 1533/2016)–
oltre ad essere incompatibile con il disposto dell’art. 19,
comma 6-ter, per le suesposte ragioni, contrasta con
l’interpretazione conforme a Costituzione della norma
stessa.
A quest’ultimo proposito, giova ricordare che, secondo il
condivisibile principio affermato dalla Plenaria n. 15/2011
(in questa parte non scalfita dall’introduzione del comma 6-ter dell’art. 19), i caratteri dell’interesse pretensivo del
terzo impongono «in un’ottica costituzionalmente orientata,
di accedere ad una lettura del sistema delle tutele che
consenta al terzo stesso di esperire un’azione idonea ad
ottenere il risultato della cessazione dell’attività lesiva
non consentita dalla legge mediante il doveroso intervento
dell’amministrazione titolare del potere di inibizione». In
altri termini, secondo la Plenaria, il controinteressato
rispetto all’altrui SCIA ha diritto «ad ottenere una
pronuncia che impedisca lo svolgimento di un’attività
illegittima mediante un precetto giudiziario puntuale e
vincolante che non subisca l’intermediazione aleatoria
dell’esercizio di un potere discrezionale».
Ebbene, è evidente che la tesi che riconduce l’intervento
dell’amministrazione su istanza del terzo al mero potere di
autotutela è incompatibile col suddetto principio, poiché
subordina integralmente la tutela del terzo stesso ad una
valutazione discrezionale dell’Amministrazione in ordine
alla sussistenza o meno di un interesse pubblico alla
rimozione degli effetti della SCIA contestata.
7 – Il meccanismo di tutela del terzo congegnato dall’art.
19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 richiede, per la sua concreta
operatività, l’individuazione di tre distinti termini: il
primo è il termine entro il quale il terzo deve sollecitare
le verifiche spettanti all’amministrazione, presentando la
relativa istanza; il secondo è il termine concesso
all’amministrazione per pronunciarsi su tale istanza, ovvero
quel lasso temporale decorso il quale, come dice la norma,
essa deve considerarsi inerte; l’ultimo è il termine entro
il quale il terzo deve esperire l’azione avverso il silenzio
mantenuto dall’amministrazione sulla sua richiesta di
provvedere.
Osserva il Collegio come il secondo e terzo
termine siano agevolmente rinvenibili; il termine concesso
all’amministrazione per pronunciarsi sull’istanza
sollecitatoria del privato, ancorché non fissato
espressamente dalla norma in considerazione, è tuttavia
agevolmente rinvenibile dal sistema con richiamo alla
disciplina generale codificata dall’art. 2 l. n. 241/1990,
secondo cui, in mancanza di una diversa previsione normativa
espressa, i procedimenti amministrativi ad istanza di parte
devono tutti concludersi entro trenta giorni dal ricevimento
della domanda da parte dell’amministrazione competente; il
termine per la proposizione dell’azione sul silenzio è
invece fissato espressamente dall’art. 31 c.p.a., il cui
secondo comma precisa che quest’ultima può proporsi fintanto
che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno
dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
Non risulta invece fissato dall’art. 19, comma 6-ter, l. n.
241/1990, né ricavabile dal sistema, il termine entro il quale
il terzo deve presentare la propria istanza di
sollecitazione delle verifiche amministrative, con apertura
della possibilità interpretativa in base alla quale il terzo
resterebbe sempre libero di presentare l’istanza
sollecitatoria dei poteri amministrativi inibitori nonché di
agire ex art. 31 c.p.a avverso il silenzio eventualmente
serbato dall’Amministrazione, che è esattamente la lettura
offerta dalla ricorrente (che richiama solo il termine
prescrizionale decennale).
8 –
Ritiene il Collegio che, prima di analizzare l’opzione
ermeneutica da ultimo evocata –che, come si vedrà, espone
la norma a censure di incostituzionalità–
sia necessario
procedere ad un’attenta verifica interpretativa circa la
possibilità di rinvenire la delimitazione temporale del
potere sollecitatorio del terzo da altre previsioni
regolanti la materia in questione.
8.1 - Una prima soluzione interpretativa è quella di
ritenere che il termine concesso al controinteressato per
presentare l’istanza sollecitatoria sia lo stesso che la
norma assegna all’amministrazione per l’esercizio del potere
inibitorio ufficioso, cioè sessanta ovvero trenta giorni
dalla presentazione della SCIA, secondo quanto disposto dai
commi 3 e 6-bis dell’art. 19 della L. 241/1990; in tale
lettura una volta che l’amministrazione è decaduta dalle
potestà inibitorie ufficiose ex art. 19, commi 3 e 6-bis,
sarebbe anche definitivamente preclusa la possibilità per il
terzo di ottenere un intervento repressivo, con conseguente
onere per lo stesso di presentare l’istanza sollecitatoria
prima della scadenza dei suddetti termini, onde conservare
l’aspettativa alla soddisfazione del suo interesse pretensivo.
Si tratta tuttavia di opzione ermeneutica non convincente,
in quanto manifestamente illogica.
I termini in considerazione sono strutturati con riferimento
all’esercizio del potere di verifica ufficiosa, il che
giustifica che il loro dies a quo sia fatto coincidere con
il <ricevimento della segnalazione> da parte
dell’amministrazione; ma essi finirebbero per risultare di
pratica inoperatività ove applicati all’esercizio del potere
sollecitatorio del terzo, atteso che nessuna norma assicura
al medesimo la tempestiva comunicazione della presentazione
della SCIA né tanto meno dell’inizio dell’attività
segnalata; il terzo finirebbe quindi per rimanere privo di
qualsiasi forma di tutela ove apprendesse della lesività
dell’intervento dopo il decorso del termine concesso
all’amministrazione per provvedere; d’altra parte, anche
laddove il terzo fosse tempestivo, ma la sua istanza
intervenisse in prossimità della scadenza di tale termine,
ben difficilmente egli otterrebbe l’intervento di tutela cui
aspira, restringendosi l’arco temporale entro il quale
l’amministrazione dovrebbe accertare l’illegittimità
dell’attività oggetto di SCIA nonché inibirne la
prosecuzione.
8.2 - Una seconda prospettiva interpretativa sostiene che la
facoltà del controinteressato di proporre l’istanza
inibitoria ex art. 19, comma 6-ter, sarebbe soggetta al
termine decadenziale di sessanta giorni, valido anche per la
proposizione dell’ordinario ricorso annullatorio, termine
che, in caso di SCIA, decorrerebbe dalla data in cui
l’istante ha avuto notizia della segnalazione per esso
lesiva. La tesi è sostenuta da Cons. Stato, Sez. IV, n.
5161/2015 cit. e ripresa dalle sentenze del TAR Lombardia
(Milano) Sez. II, 30.11.2016, n. 2274, 15.04.2016, n. 735 e
05.12.2016, n. 2301, le quali precisano inoltre che il terzo,
una volta decorso il suddetto termine decadenziale, non
rimane del tutto privo di strumenti di reazione, ma
conserva, nei confronti dell’Amministrazione, il potere di
diffida all’adozione di atti di autotutela.
Il Collegio ritiene non condivisibile la proposta
interpretazione.
Si tratta di statuizioni giurisdizionali sicuramente
apprezzabili nel loro tentativo di eliminare le incertezze
applicative della norma in commento, ma che risultano prive
di base normativa, alla luce delle norme
sull’interpretazione, e danno conseguentemente luogo ad una
inammissibile integrazione pretoria del precetto normativo.
Il problema in esame riguarda infatti l’individuazione del
termine assegnato al terzo per sollecitare l’intervento di
verifica da parte dell’amministrazione sulla SCIA presentata
da altro soggetto; si tratta quindi di termine inerente
l’esercizio di una facoltà di attivazione del privato,
funzionale a mettere in moto l’esecuzione di verifiche
amministrative ad istanza di parte, sulla legittimità della
SCIA presentata da altri; l’operazione ermeneutica che
ritiene qui applicabile l’ordinario termine di sessanta
giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale
avverso provvedimenti amministrativi, non tiene conto della
diversità ontologica della disciplina invocata (termine per
le proposizione di atto “processuale”) rispetto all’ambito
di attività in esame (ricerca di termine per attivazione del
privato in sede “amministrativa”); non sussiste quindi nella
specie il presupposto di “casi simili o materie analoghe”
solo ricorrendo il quale è possibile l’utilizzo
dell’analogia ai sensi dell’art. 12 delle Disposizioni sulla
legge in generale.
8.3 - Una terza tesi richiama il termine annuale di cui
all’art. 31, comma 2, c.p.a., ritenendo che il terzo debba
sollecitare l’amministrazione nell’anno dal deposito della
SCIA presso i competenti uffici.
Anche questa tesi non convince, posto che il termine
richiamato è concesso al terzo, non per stimolare
l’intervento dell’amministrazione, ma per la proposizione
dell’azione avverso il silenzio eventualmente formatosi
sulla sua istanza; la richiesta di provvedere avanzata dal
terzo apre, infatti, una nuova fase procedimentale,
all’esito della quale l’amministrazione ha l’obbligo di
pronunciarsi con un provvedimento espresso, sia esso di
accoglimento (caso della SCIA illegittima) oppure di rigetto
(caso della SCIA legittima); nell’ipotesi in cui poi essa
rimanga inerte, lasciando inutilmente decorrere il termine
di trenta giorni assegnatole, secondo la regola generale di
cui all’art. 2 l. n. 241/1990, per la conclusione dei
procedimenti amministrativi ad istanza di parte, il terzo
potrà proporre l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. entro un
anno dalla formazione del silenzio.
Ne consegue che anche
l’operazione ermeneutica qui evocata, nella misura in cui
trasporta il termine annuale dall’art. 31 c.p.a. alla
disciplina dell’esercizio della sollecitazione
amministrativa del terzo, compie una interpretazione non
consentita e che, ancora una volta, confonde un termine
processuale (quello dell’art. 31 c.p.a.) con un termine
amministrativo (quello per la sollecitazione delle verifiche
da parte della p.a.).
8.4 - Una diversa lettura del sistema è fornita da una
pronuncia (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4610/2016 cit.) che
supera invero il problema del termine per la proposizione
dell’istanza sollecitatoria, affermando che il soggetto leso
dall’iniziativa segnalata è comunque tenuto a proporre il
ricorso di cui all’art. 31 c.p.a. entro il termine
complessivo di un anno dalla data di acquisita «piena
conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio
nella sua sfera giuridica».
La tesi non convince.
Essa utilizza il termine annuale dell’art. 31 c.p.a. non
come termine per la presentazione della diffida del terzo,
ma come termine per la proposizione dell’azione ex art. 31
c.p.a., da proporsi anche prescindendo dalla presentazione
della diffida di cui all’art. 19 comma 6-ter l. n. 241/1990,
termine che decorrerebbe dalla piena conoscenza della SCIA.
Da un primo punto di vista tale ricostruzione risulta
contraddire la natura propria del ricorso ex art. 31 c.p.a,
il quale presuppone l’avvenuta presentazione di un’istanza
di avvio (ovvero l’attivazione ufficiosa) di un procedimento
amministrativo e la formazione del c.d.
silenzio-inadempimento dell’amministrazione procedente.
D’altra parte essa contrasta con il chiaro disposto del
comma 2 del medesimo art. 31, secondo cui l’azione avverso
il silenzio «può essere proposta fintanto che perdura
l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla
scadenza del termine di conclusione del procedimento».
Pertanto, anche la suddetta impostazione non appare al
Collegio idonea a superare le criticità riscontrate.
8.5 - Né varrebbe a sanare la criticità in esame il richiamo
del termine di 18 mesi previsto per l’annullamento d’ufficio
dall’art. 21-nonies (come modificato dalla l. 124/2015) ed
oggi applicabile anche all’intervento in autotutela sulla
SCIA in base al combinato disposto della suddetta norma con
l’art. 19, comma 4, l. n. 241/1990.
Invero, tale soluzione risulterebbe in contrasto con il
disposto dell’art. 19, comma 6-ter, in primo luogo, poiché
quest’ultimo consente al terzo di stimolare l’esercizio del
potere inibitorio puro (e non dell’autotutela) dell’Ente
pubblico. In secondo luogo, perché tale termine, riferendosi
all’autotutela ufficiosa, risulta difficilmente conciliabile
con le caratteristiche di un procedimento ad istanza di
parte, come quello attivato dal terzo ai sensi dell’art. 19,
comma 6-ter.
Tanto appare, peraltro, confermato da quanto prevede oggi
l’art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 222/2016, secondo cui, nei
casi di autotutela sulla SCIA, il suddetto periodo di 18
mesi «decorre dalla data di scadenza del termine previsto
dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica
da parte dell’amministrazione competente». Ciò che chiarisce
la riferibilità del suddetto limite temporale alle (sole)
potestà repressive esercitate dall’Amministrazione in via
ufficiosa.
Da tutto ciò consegue, che l’applicazione della suddetta
disposizione al procedimento di cui all’art. 19, comma 6-ter,
esorbiterebbe totalmente dai limiti che l’art. 12 delle
Disposizioni sulla legge in generale impone
all’interpretazione analogica del giudice e, in definitiva,
si tradurrebbe in una inammissibile modificazione pretoria
dell’ambito applicativo del precetto legislativo.
9 – Le considerazioni che precedono evidenziano chiaramente
che l’attuale regime della SCIA non prevede un termine per
la presentazione da parte del terzo dell’istanza
sollecitatoria delle verifiche amministrative di cui
all’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 e che tale termine
non è desumibile dal sistema normativo, con la conseguenza
che la diffida del terzo dovrebbe ritenersi tempestiva anche
se proposta a notevole distanza di tempo dall’avvenuto
deposito della segnalazione presso l’Ente competente.
Ritiene tuttavia il Collegio che una simile lettura si
porrebbe in evidente contrasto con l’esigenza di tutelare
l’affidamento del segnalante circa la legittimità
dell’iniziativa intrapresa, con il principio di buon
andamento della pubblica amministrazione nonché con il
generale principio di certezza dei rapporti tra cittadino e
Pubblica Amministrazione. Ne consegue che, ad avviso del
Collegio, l’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, nella misura
in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte
del terzo dei poteri di verifica amministrativa della SCIA
presentata da altri, si espone a dubbi di legittimità
costituzionale che risultano rilevanti nella presente
fattispecie e non manifestamente infondati.
10 –
La prospettata questione di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 6-ter, cit. risulta connotata dal
requisito della rilevanza, ai fini della proposizione della
questione incidentale di costituzionalità.
La rilevanza discende dalla diretta applicabilità al caso
concreto della norma la cui costituzionalità è messa in
discussione (cfr. Corte Cost., ordd. nn. 264/2015; 111/2009)
e deve valutarsi alla stregua del criterio della
pregiudizialità, in virtù del quale la rilevanza va
affermata ogniqualvolta la causa non possa essere definita
indipendentemente dalla risoluzione della questione (cfr.
Corte Cost., sentt. nn. 270/2010; 151/2009; 303/2007;
50/2007; 84/2006).
Non è dubitabile che nella fattispecie in esame debba farsi
applicazione della disciplina di cui all’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 e che la questione controversa non possa
essere definita senza fare applicazione della suddetta norma
e affrontando da parte del giudice il tema del termine entro
il quale il terzo può porre in essere l’intervento
sollecitatorio delle verifiche spettanti
all’amministrazione.
In primo luogo, infatti, come risulta
dalla narrativa in fatto, la ricorrente sig.ra Pa.Mu. ha posto in essere una serie di atti di
sollecitazione del potere di verifica da parte
dell’amministrazione della legittimità della SCIA presentata
dal sig. Em.Ca. in data 06.12.2012; essa in
particolare ha sollecitato il Comune di Campi Bisenzio ad
effettuare le suddette verifiche con note del 12.11.2015,
16.12.2015, 12.04.2016, 23.06.2016 e 14.09.2016, quest’ultima
istanza proposta anche espressamente ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 l. n. 241/1990. In
secondo luogo, come
chiarito nella narrativa in fatto, nel giudizio di merito
questo Tribunale Amministrativo, sciolte altre questioni
pregiudiziali, ha dovuto affrontare l’eccezione di tardiva
sollecitazione dei poteri di verifica da parte del terzo,
sollevata dalla parti resistenti, ed ha ritenuto che tale
questione non fosse risolvibile senza la proposizione della
presente questione di costituzionalità. Allo stato della
legislazione la suddetta eccezione dovrebbe essere respinta.
Come già ampiamente illustrato, il comma 6-ter non prevede
un termine entro il quale il terzo debba sollecitare
l’intervento dell’amministrazione, né tale termine, come
sopra evidenziato, può ricavarsi dal sistema, con la
conseguenza che, stando così le cose, appare del tutto
irrilevante la circostanza che, rispetto alla data di
presentazione della SCIA edilizia da parte del Sig. Em.Ca., avvenuta il
06.12.2012, la Sig.ra Pa.Mu. abbia atteso ben due anni ed undici mesi per
rivolgersi al Comune di Campi Bisenzio (la prima richiesta
di intervento è del 12.11.2015) ed addirittura tre
anni e nove mesi (se si considera l’istanza del 14.09.2016) prima di stimolare l’Ente ad esercitare i poteri
inibitori ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 l. n.
241/1990.
D’altra parte l’azione giudiziaria ai sensi
dell’art. 31 c.p.a. risulta proposta nell’anno dalla
formazione del silenzio sulla richiesta di provvedere
rivolta dalla medesima all’amministrazione; dagli atti di
causa si rileva infatti che la Sig.ra Pa.Mu. ha
notificato il proprio ricorso in data 23.10.2016 e,
quindi, anche considerando la prima delle istanze dalla
stessa formulate, ovvero quella del 12.11.2015, entro
il prescritto termine di un anno; posto, infatti, che su
tale istanza il silenzio si è formato il 12.12.2015 (e
cioè, secondo quanto disposto dall’art. 2 della L. 241/1990,
decorsi trenta giorni dalla presentazione dell’istanza senza
che l’amministrazione si sia pronunciata su di essa) e che
il menzionato termine di un anno è cominciato a decorrere
proprio da tale data, la ricorrente avrebbe avuto a
disposizione sino al 12.12.2016 per proporre l’azione
avverso il silenzio mantenuto dal Comune di Campi Bisenzio.
Ne consegue, come già rilevato, che in applicazione della
disciplina vigente, questo Tribunale Amministrativo dovrebbe
dichiarare la infondatezza dell’avanzata eccezione di
tardività. Ma, ad avviso del Collegio, la mancata fissazione
di un termine entro il quale il terzo debba sollecitare le
verifiche spettanti all’amministrazione si pone in
contrasto, come meglio si vedrà di seguito, con una serie di
parametri costituzionali.
La pronuncia della Corte
costituzionale che dovesse accogliere la questione di
legittimità costituzionale, come di seguito proposta,
avrebbe sicuri effetti sulla decisione della presente
questione, sia nell’ipotesi di pronuncia additiva, con la
quale cioè la Corte dovesse fornire al giudice remittente il
parametro temporale sulla cui base verificare la tardività o
meno della sollecitazione dei poteri inibitori da parte del
terzo, sia nell’ipotesi di declaratoria pura della
illegittimità dell’art. 19, comma 6-ter, cit. per mancata
previsione del termine di sollecitazione da parte del terzo
dei poteri di verifica dell’amministrazione, la quale ultima
renderebbe inoperativo, sino all’intervento additivo del
legislatore, il sistema del silenzio-inadempimento,
imponendo all’interprete, al fine di decidere la
controversia, di applicare il diritto vivente così come
ricostruito dalla giurisprudenza anteriormente
all’introduzione del comma 6-ter da parte del legislatore
medesimo.
11 –
Ritiene il Collegio che la mancanza di indicazione di
un termine entro il quale il terzo possa sollecitare le
verifiche amministrative sulla SCIA presentata da altri
renda l’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990
costituzionalmente illegittimo.
In punto di non manifesta
infondatezza, il Collegio evidenzia come la citata
disposizione normativa contrasta con svariati principi di
rilievo costituzionale, tra cui, in primo luogo, quello di
tutela dell’affidamento del segnalante (quale desumibile
dagli articoli 3, 11 e 117, co. 1 Cost., in relazione
all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed
all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE), in secondo luogo,
quello del buon andamento dell’azione amministrativa (art.
97 Cost.) ed infine quello di ragionevolezza (art. 3 Cost.)
e di tutela dei livelli essenziali di cui all’art. 117, comma
2, lett. m) Cost..
11.1 – In primo luogo il Collegio ritiene non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, laddove non prevede
un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle
verifiche amministrative, per violazione della necessaria
tutela dell’affidamento del segnalante, come desumibile
dagli artt. 3, 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione
all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed
all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE.
L’esigenza di tutelare l’affidamento circa la stabilità dei
rapporti tra privato e pubblica amministrazione costituisce
principio cardine dell’attività amministrativa in tutti i
settori dell’intervento pubblico.
A questo proposito, già con la sentenza del 12.07.1957, Algera, C-7/56 e C- 3-7/57, la Corte di Giustizia Europea ha
riconosciuto che l’affidamento del privato circa la
stabilità del provvedimento amministrativo a lui favorevole
dev’essere tutelato anche laddove l’Amministrazione disponga
di un potere amministrativo repressivo del provvedimento
stesso (quale quello di revoca e/o annullamento d’ufficio).
In particolare, tale principio impone che i suddetti poteri
vengano esercitati dall’Ente pubblico «almeno entro un
limite di tempo ragionevole» dal rilascio dell’atto ampliativo della sfera giuridica del privato. Tale principio
è stato poi ripetutamente confermato dalla giurisprudenza
comunitaria (ex multis CGCE, 03.03.1982, Alpha Steel Ltd. c.
Commissione, C-14/81; id., 26.02.1987, Consorzio Cooperative
d’Abruzzo c. Commissione, C-15/85).
Com’è noto, peraltro, il suddetto assunto ha trovato
riconoscimento espresso nell’ordinamento nazionale, il
quale, con varie disposizioni, ha sancito un limite
temporale alla possibilità per l’Amministrazione di tornare
su decisioni precedentemente adottate ed incidenti sulla
sfera giuridica di soggetti privati. Così ad esempio l’art.
1, comma 136, della l. 311/2004 (non più vigente), stabiliva
che l’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi
incidenti su rapporti negoziali non potesse «essere adottato
oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del
provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia
perdurante».
Analogamente, l’art. 21-nonies l. n. 241/1990 ha sancito che
l’annullamento ufficioso di un (qualsivoglia) atto
amministrativo debba intervenire «entro un termine
ragionevole». Peraltro, a seguito delle modifiche introdotte
a tale norma dalla l. 124/2015, si è precisato che il
suddetto termine ragionevole non può comunque eccedere i
«diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti
di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
Ebbene, il citato principio di affidamento trova
applicazione anche in materia di SCIA.
Al riguardo, si ricorda che l’art. 19, comma 4, l. n. 241/1990
prevede che «decorso il termine per l’adozione dei
provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di
cui al comma 6-bis (cioè degli atti propriamente inibitori),
l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti
previsti dal medesimo comma 3 alle condizioni previste
dall'articolo 21-nonies»: e cioè (tra l’altro) nel rispetto
del suddetto termine ragionevole.
Ebbene, come recentemente chiarito dalla Corte
costituzionale (pronunciatasi in un caso di SCIA edilizia),
le suddette previsioni «debbono considerarsi il necessario
completamento della disciplina dei titoli abilitativi,
poiché la individuazione della loro consistenza e della loro
efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza
rispetto alle verifiche effettuate dall’Amministrazione
successivamente alla maturazione degli stessi». Più nello
specifico, la Corte ha chiarito che il rinvio all’autotutela
(e conseguentemente al termine ragionevole di cui all’art.
21-nonies) contenuto in suddette norme «si colloca allo
snodo delicatissimo del rapporto fra il potere
amministrativo ed il suo riesercizio, da una parte, e la
tutela dell’affidamento del privato, dall’altra» (Corte
Cost. n. 49/2016).
In altri termini –secondo la Corte– le suddette previsioni
hanno espressamente tutelato l’affidamento del segnalante in
ordine alla legittimità dell’intervento denunciato,
prevedendo che il mancato esercizio dei poteri inibitori
puri entro i termini perentori di cui all’art. 19, commi 3 e
6-bis, fondi una legittima aspettativa del privato circa la
legittimità dell’iniziativa intrapresa. Aspettativa che può
essere nuovamente posta in discussione dall’Ente pubblico
solo mediante ricorso alle forme (aggravate) dell’autotutela
decisoria e che si consolida definitivamente con il decorso
dell’ulteriore termine di 18 mesi per l’esercizio di tale
autotutela.
È ben vero che il sistema introdotto dal citato art. 19,
comma 4, non può operare laddove la verifica dei presupposti
della SCIA sia stata sollecitata dal terzo ai sensi del
comma 6-ter del medesimo articolo (infatti, come sopra
chiarito, l’attuale testo dell’art. 19 consente al
controinteressato di attivare un autonomo procedimento di
controllo sulla legittimità della segnalazione, il quale
deve concludersi, in caso di accertata insussistenza dei
presupposti di legge, con un provvedimento di repressione
dell’attività abusiva).
Tuttavia, è evidente che le esigenze di salvaguardia
dell’affidamento del segnalante si ripropongono (con analoga
cogenza) anche nei rapporti tra quest’ultimo ed il terzo
proponente l’istanza di cui all’art. 19, comma 6-ter. Sarebbe
infatti irragionevolmente discriminatoria l’interpretazione
che riconoscesse tutela all’affidamento dell’autore della
segnalazione solo nei confronti dell’iniziativa repressiva
ufficiosa dell’amministrazione e non anche rispetto alle
verifiche che quest’ultima effettua su richiesta del
controinteressato.
Pur a fronte di ciò, tuttavia, la norma in esame non prevede
un termine per la proposizione dell’istanza diretta a
stimolare tali verifiche e conseguentemente espone il
segnalante al rischio permanente dell’inibizione
dell’attività iniziata. Così facendo, l’attuale meccanismo
legislativo, da un lato esaspera la tutela del terzo,
d’altro lato pretermette quella del segnalante e, in
definitiva, vanifica l’intento (chiaramente palesato dal
testo complessivo dell’art. 19) di favorire il
consolidamento dell’aspettativa del segnalante stesso per
effetto del mero decorso del tempo.
Da quanto sopra, ad avviso del Collegio, emerge la
violazione dei principi nazionali e comunitari in materia di
affidamento, nonché la violazione dell’art. 3 Cost., essendo
irragionevole che la tutela dell’affidamento venga
espressamente contemplata (con la temporizzazione
dell’intervento) a fronte dell’esercizio dell’autotutela
amministrativa e non a fronte dell’esercizio dei poteri di
verifica attivati dal terzo.
La SCIA è infatti idonea ad ingenerare nel segnalante –a
fronte del mancato esercizio dei poteri amministrativi
repressivi– un certo affidamento in ordine alla legittimità
dell’intervento avviato. Affidamento che dev’essere
garantito –sia nei confronti dell’amministrazione che in
quelli del controinteressato– mediante la fissazione di
precisi termini entro (e non oltre) i quali i controlli
amministrativi sulla regolarità della SCIA non possono più
essere attivati né in via ufficiosa, né su istanza di parte.
Alla luce di quanto sopra, dunque, risulta evidente
l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, il
quale –in aperto contrasto con i suddetti principi–
attribuisce al terzo un potere di sollecito a tempo
indeterminato nei confronti dell’Ente pubblico e,
conseguentemente, restituisce a quest’ultimo una potestà di
intervento sine die sull’iniziativa denunciata.
A ciò si aggiunga che, con specifico riguardo alla materia
edilizia, la suesposta soluzione normativa dà luogo ad
un’irragionevole disparità di trattamento dei privati il cui
intervento sia assoggettato, rispettivamente, al regime
della SCIA ovvero a quello del permesso a costruire, ponendo
ulteriore questione di violazione dell’art. 3 Cost..
Invero, com’è noto, in quest’ultimo caso lo strumento di
tutela azionabile dal controinteressato è l’azione di
annullamento del titolo abilitativo eventualmente rilasciato
al richiedente. In tale ipotesi, dunque, l’affidamento di
quest’ultimo è garantito dalla previsione del termine
decadenziale generale di sessanta giorni per l’esperimento
della suddetta azione, decorso il quale il permesso diventa
inoppugnabile e l’aspettativa del richiedente stesso si
consolida definitivamente (almeno nei confronti dei
controinteressati).
Viceversa, in caso di SCIA, l’art. 19, comma 6-ter, codifica
il principio opposto: di fronte ai terzi lesi
dall’iniziativa segnalata, l’interesse del segnalante alla
prosecuzione di quest’ultima non si consolida mai e, al
contrario, recede sempre a fronte della pretesa dei terzi
stessi alla rimozione dell’attività per essi lesiva.
Orbene, pur non potendosi predicare la necessaria
parificazione delle tutele del segnalante e del soggetto
richiedente il permesso di costruire, data la notevole
differenza dei citati meccanismi abilitativi, è pur vero che
tale diversità non giustifica la totale pretermissione (ma
casomai il diverso bilanciamento) dell’affidamento maturato
in capo all’autore della SCIA. Pena il crearsi di
un’irragionevole disparità di trattamento tra posizioni
soggettive aventi contenuto (se non analogo, quantomeno)
affine.
Da quanto sopra deriva, ad avviso di questo Tribunale, la
violazione dei principi costituzionali sopra richiamati.
11.2 – La prospettata questione di illegittimità
costituzionale risulta del pari non manifestamente infondata
per contrasto della norma in questione con i principi di
ragionevolezza e buon andamento di cui agli artt. 3 e 97
Cost..
A questo proposito, merita anzitutto osservare che il
meccanismo introdotto dall’art. 19, comma 6-ter, impone
all’amministrazione, su semplice istanza del terzo, di
avviare un procedimento di verifica a contenuto (in tutto e
per tutto) analogo a quello già svolto in via ufficiosa ai
sensi dell’art. 19 comma 3.
Peraltro, come sopra chiarito, la citata norma non prevede
un termine per la presentazione della suddetta istanza, con
la conseguenza che l’Ente pubblico è tenuto a verificare
nuovamente i presupposti dell’attività segnalata anche
qualora sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla
relativa comunicazione.
Ora, è chiaro che il suesposto modello si pone in contrasto
con i principi di cui alle citate norme costituzionali,
nella misura in cui impone all’amministrazione, quale che
sia il momento in cui sopravviene l’istanza del
controinteressato, di rivedere la posizione assunta in
precedenza (in sede di verifica ufficiosa) circa la
legittimità dell’iniziativa segnalata.
Sul punto, si rileva anzitutto che la fissazione di precisi
limiti temporali entro cui devono essere adottati i
provvedimenti definitivi in ordine alle procedure (ivi
comprese quelle di verifica) di competenza
dell’amministrazione costituisce «applicazione generale…,
sia pure non esaustiva, del principio costituzionale di buon
andamento dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione)
negli obiettivi di tempestività, pubblicità, partecipazione
dell'azione amministrativa, quali valori essenziali in un
ordinamento democratico» (Corte cost. n. 262/1997). Invero,
è evidente che il rispetto dei termini perentori entro cui
devono essere conclusi gli accertamenti e le valutazioni
rimessi agli apparati pubblici incentiva l’efficienza degli
apparati stessi nonché la ponderazione delle scelte
adottate, stante l’impossibilità del loro ripensamento.
Viceversa, la possibilità incondizionata di rivalutare –anche a notevole distanza di tempo– l’assetto di interessi
raggiunto con le precedenti determinazioni produce un
effetto deflattivo sull’efficienza, aumenta il rischio di
adozione di decisioni contraddittorie da parte dello stesso
Ente e, in definitiva, pregiudica il buon andamento
dell’azione pubblica.
Peraltro, si evidenzia che, riguardo al controllo ufficioso
sulla legittimità o meno della SCIA, il legislatore ha
fissato precisi termini alle facoltà di intervento
dell’amministrazione (tanto in via inibitoria quanto in via
di autotutela). Dacché si desume che lo stesso regime del
controllo ufficioso prevede un limite temporale oltre il
quale l’interesse pubblico all’eliminazione delle attività
abusive viene meno, prevalendo su di esso l’esigenza di
certezza dei rapporti tra privati e Pubblica
Amministrazione.
E’ dunque evidente che la riapertura del procedimento di
verifica dei presupposti della SCIA a fronte di un’istanza
presentata dal terzo oltre i suddetti limiti temporali non
può dirsi funzionale alla tutela di alcun interesse
pubblico, il quale invece recede a fronte delle suddette
esigenze di certezza.
Al contrario, il riavvio del suddetto procedimento si
traduce in un inutile dispendio di attività per l’Ente
pubblico, il quale, dopo un periodo di tempo (anche
notevole) dalla presentazione della SCIA, sarebbe tenuto ad
intraprendere una complessa attività istruttoria volta ad
accertare l’originaria legittimità o meno dell’attività
segnalata.
Peraltro tale ulteriore aggravio non trova assolutamente
giustificazione nel rango dell’interesse tutelato dall’art.
19, comma 6-ter.
Infatti tale norma salvaguarda (solo) un’aspettativa
individuale: quella del terzo leso dall’iniziativa segnalata
a che la stessa iniziativa venga interrotta. Nondimeno,
l’Ente pubblico, quando procede su istanza del
controinteressato è sempre tenuto a provvedere in via
inibitoria (anche a discapito del buon andamento
amministrativo e dell’affidamento del segnalante).
Viceversa, quando procede alle verifiche ufficiose –le
quali assicurano il ben più pregnante interesse collettivo
al controllo sul legittimo avviamento delle attività
regolamentate– l’Ente stesso è tenuto a rispettare gli
stringenti limiti temporali imposti dall’art. 19 commi 3, 4
e 6-bis. Ciò che evidentemente configura un meccanismo di
tutela sproporzionatamente asimmetrico in capo al segnalante
a seconda che l’attivazione delle verifiche amministrative
avvenga in via ufficiosa o ad istanza del terzo.
Né in senso contrario può sostenersi che l’esclusione di una
simile potestà di intervento sine die pregiudicherebbe le
esigenze di contrasto agli illeciti commessi dai privati nei
vari settori di attività in cui trova applicazione
l’istituto della SCIA. Invero, per tutelare tali esigenze
l’Amministrazione dispone di autonomi poteri repressivi
sottratti al regime generale dell’art. 19 della l. n.
241/1990 (così ad esempio, nella materia che ci occupa,
l’Amministrazione stessa dispone di poteri c.d. di
“vigilanza edilizia” -cfr. artt. 27, 30-34, 37 del D.P.R.
n. 380/2001– che sfuggono anche al «termine ragionevole» di
cui all’art. 21-nonies: ex multis TAR Lazio, Roma, Sez.
I-quater, 22.4.2016, n. 4713). Ma tali poteri non comportano
un riesame della legittimità originaria dell’intervento già
assentito con il precedente titolo abilitativo. Bensì
attengono al riscontro di eventuali successive violazioni
del titolo stesso ovvero alla repressione di iniziative
intraprese senza previa consultazione dell’autorità
competente.
Con la conseguenza che neanche la generale esigenza di
repressione degli abusi nei settori di attività non
liberalizzate (quale è in buona parte l’attività edilizia)
giustifica il modello di tutela del terzo introdotto
dall’art. 19, comma 6-ter.
Orbene, le suesposte considerazioni mostrano già come tale
modello costituisca un ostacolo al buon andamento
dell’azione amministrativa, traducendosi potenzialmente in
un notevole aggravio di attività per l’Amministrazione
coinvolta, con effetti pregiudizievoli per i valori di
celerità, stabilità ed efficienza sopra richiamati.
Vi è tuttavia un altro dato che rende evidente il contrasto
tra la citata norma ed il suddetto principio costituzionale,
ossia il rischio di un vero e proprio stallo delle
Amministrazioni preposte al controllo delle attività oggetto
di SCIA, a causa delle incertezze interpretative derivanti
dall’attuale formulazione dell’art. 19, comma 6-ter.
A questo proposito, giova premettere che –come
ripetutamente chiarito dal Giudice delle leggi– il
principio del buon andamento sancito dall’art. 97 Cost.
rappresenta, non solo un parametro di legittimità
dell’azione amministrativa, ma anche un canone per il
corretto esercizio della potestà normativa, in virtù del
quale il legislatore deve assicurare quanto più possibile la
chiarezza ed univocità interpretativa delle norme che
l’amministrazione è tenuta ad applicare nell’esercizio del
potere pubblico. Configurandosi, in caso contrario, un vizio
capace di inficiare la stessa legittimità costituzionale
della legge approvata.
Ed invero, la Corte costituzionale ha più volte sancito che
«non è conforme a tale disposizione (art. 97 Cost.)
l’adozione, per regolare l’azione amministrativa, di una
disciplina normativa “foriera di incertezza”, posto che essa
può tradursi in cattivo esercizio delle funzioni affidate
alla cura della pubblica amministrazione» (Corte Cost.,
16.04.2013, n. 70; Corte Cost., 22.12.2010, n. 364; in
termini –anche se con riguardo alla violazione dell’art. 3
Cost.– Corte Cost., 20.07.2012, n. 200).
Ebbene, è evidente che la norma in questione pone l’Ente
pubblico –chiamato a provvedere sull’istanza sollecitatoria
del terzo– in stato di totale incertezza in ordine
all’esistenza (o meno) di un obbligo a provvedere
sull’istanza medesima.
Invero, a seconda dell’interpretazione data dall’Ente alla
disposizione in esame, il sollecito del privato può
ritenersi, di volta in volta, tardivo ovvero tempestivo. Con
la conseguenza che, nel primo caso, l’Amministrazione è
legittimata a dichiarare l’irricevibilità dell’istanza senza
previo svolgimento di alcuna istruttoria (cfr. art. 2 comma
1, l. 241/1990). Viceversa, nel secondo caso, essa è tenuta
a svolgere la verifica sui presupposti della SCIA ed a
concluderla tramite l’emanazione di un atto espresso, pena
la proposizione dell’azione di cui all’art. 31 c.p.a. da
parte del terzo pretermesso.
Del resto, la molteplicità delle tesi proposte dalla
giurisprudenza in ordine all’individuazione del termine per
la presentazione dell’istanza del controinteressato, da un
lato, acuisce le difficoltà interpretative poste dall’art.
19 comma 6-ter a carico dell’amministrazione e, d’altro
lato, conferma la sostanziale incertezza del disposto di
tale articolo. Dacché emerge, plasticamente, il contrasto di
quest’ultimo con i suesposti principi costituzionali.
11.3 - Fermo quanto sopra, il Collegio ritiene che la non
manifesta infondatezza della questione in oggetto emerga
altresì dal contrasto tra la norma censurata ed il canone di
ragionevolezza delle scelte legislative sancito nell’art. 3
Cost, in relazione all’art. 117, co. 2, lett. m, Cost..
Sul punto, si osserva anzitutto che svariate disposizioni di
legge riconducono la normativa nazionale in materia di SCIA
ai «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su
tutto il territorio nazionale» e che, com’è noto, sono
rimessi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai
sensi dell’art. 117, co. 2, lett. m), Cost. (cfr. art. 29,
comma 2-quater l. 241/1990; art. 49, comma 4-ter, d.l.
78/2010, conv. con l. 122/2010).
Peraltro, nel condividere il suddetto assunto legislativo,
la Corte Costituzionale ha chiarito che tutto il meccanismo
della segnalazione certificata di inizio attività
costituisce «prestazione specifica» dello Stato nei
confronti del cittadino anche laddove viene tutelato «il
diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte
della pubblica amministrazione competente, dei presupposti
di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima»
(Corte Cost., 27.06.2012, n. 164).
Tale assunto si riferisce evidentemente ai controlli
amministrativi sulla legittimità o meno della SCIA che,
secondo il Giudice delle leggi, devono essere assistiti
dalla previsione legislativa di puntuali limiti temporali,
diretti ad assicurare il «sollecito esame» dell’iniziativa
denunciata e, in quanto tali, rientranti nei “livelli
essenziali” di tutela della posizione del segnalante ex art.
117, comma 2, lett. m) Cost..
La suddetta affermazione –benché espressa dalla Corte con
precipuo riferimento ai controlli ufficiosi di cui all’art.
19, commi 3, 4 e 6-bis– non può non valere anche riguardo
alle verifiche amministrative svolte su istanza del terzo.
Invero, rispetto a queste ultime, la posizione del
segnalante presenta le stesse esigenze di sollecita
definizione del procedimento inibitorio che le citate norme
tutelano quando il procedimento stesso è avviato d’ufficio
dall’Ente pubblico.
Sennonché, mentre rispetto a tali controlli ufficiosi il
segnalante può contare sulla previsione di specifici termini
decadenziali entro cui i controlli stessi devono
necessariamente concludersi (e che, come detto,
costituiscono “livelli essenziali” ex art. 117, co. 2, lett.
m, Cost.), l’art. 19, comma 6-ter, non prevede alcun limite
temporale alla possibilità che il terzo solleciti il potere
inibitorio dell’amministrazione. Con la conseguenza che il
termine per il compimento di tale sollecito resta escluso
dal novero dei livelli essenziali di cui all’art. 117 comma
2, lett. m), Cost.
Tale soluzione normativa è palesemente irragionevole, poiché
omette di disciplinare un elemento indispensabile alla
tenuta complessiva del meccanismo semplificatorio introdotto
dal legislatore e da quest’ultimo ascritto ai livelli
essenziali delle prestazioni garantite su scala nazionale.
A questo proposito, è appena il caso di accennare che –secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza
costituzionale– l’art. 117, comma 2, lett. m) Cost. pone, in
materia di livelli essenziali, una riserva di legge
(relativa, ma) rinforzata «in quanto vincola il legislatore
ad apprestare una garanzia uniforme sul territorio
nazionale» (Corte Cost., 19.12.2012, n. 297). In
particolare, nell’attuazione di tale riserva, il legislatore
è tenuto a determinare gli «standard strutturali e
qualitativi delle prestazioni da garantire (come detto, in
modo uniforme) agli aventi diritto» (Corte Cost. 10.6.2010,
n. 207; id., 05.04.2013, n. 62; id., 15.01.2010, n. 10), dacché
deriva che la riserva stessa, oltre a ripartire le
competenze normative in materia di livelli essenziali,
impone al legislatore di prevedere standards minimi uniformi
delle prestazioni riconducibili ai livelli stessi.
È evidente che nei suddetti standards minimi non possono non
rientrare anche i termini per la conclusione dei controlli
amministrativi sui presupposti della SCIA tanto nei casi in
cui l’iniziativa repressiva è avviata d’ufficio dall’Ente
pubblico (come del resto già affermato dalla citata sentenza
n. 164/2012) quanto nelle ipotesi in cui il procedimento
inibitorio è avviato su istanza del terzo.
Invero, la mancata previsione di tali termini è idonea a
vanificare del tutto la prestazione somministrata dallo
Stato al cittadino sotto forma di semplificazione delle
procedure abilitative per lo svolgimento di attività (come
quella edilizia) non liberalizzate. Se in teoria infatti la
semplificazione dovrebbe consentire di raggiungere il
medesimo risultato (assentimento dell’iniziativa privata)
con un iter amministrativo più snello di quello ordinario,
l’attuale disciplina della SCIA risulta contraddittoria con
tali finalità: da un lato invero, essa non assicura sempre
una riduzione dell’attività burocratica (poiché il
procedimento di verifica dei presupposti della segnalazione
può essere avviato più volte a fronte di plurime istanze di
soggetti controinteressati); e, d’altro lato, tale
disciplina non conduce mai ad una regolamentazione
definitiva degli interessi contrapposti nella vicenda
amministrativa, residuando sempre un potere-dovere
dell’Amministrazione di rimettere in discussione la
legittimità originaria dell’intervento segnalato,
ogniqualvolta essa riceva una domanda di intervento da parte
di un terzo.
Peraltro, si evidenzia che l’esclusione dal novero dei
livelli essenziali del termine per l’esercizio del potere
sollecitatorio di cui all’art. 19, comma 6-ter, rischia di
pregiudicare l’esigenza di uniformità normativa che
caratterizza l’istituto della SCIA nel suo complesso.
Invero, tale opzione legislativa, data la peculiare natura
della riserva posta dall’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
(la quale consente l’intervento regionale sugli aspetti di
dettaglio del regime dei livelli essenziali: cfr. Corte
Cost. n. 297/2012 cit.), apre la strada a discipline
territoriali eterogenee del suddetto termine, con
conseguente disomogeneità degli standards di tutela a
livello nazionale.
Da tali considerazioni emerge, ad avviso del Collegio,
l’assoluta illogicità e sproporzione del meccanismo di
tutela sine die apprestato dall’art. 19, comma 6-ter,
alla posizione del soggetto leso dall’altrui SCIA nonché, in
definitiva, un’illegittima compressione dei livelli
essenziali delle prestazioni riconosciute al segnalante
dalla norma nazionale.
Alla luce di quanto sopra, dunque, il precetto normativo
censurato risulta palesemente incostituzionale.
12 – Alla luce delle considerazioni che precedono
il Collegio ritiene rilevante e non manifestamente
infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, nella parte in
cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte
del terzo delle verifiche sulla SCIA, per contrasto con gli
artt. 3, 11, 97, 117, co. 1 Cost., in relazione all'art. 1
del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6,
paragrafo 3, del Trattato UE, e 117 comma 2 lett. m) Cost..
Dispone quindi la trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale per la decisione della suddetta questione,
sospendendo nelle more il presente giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA: Se
sia consentito all’amministrazione comunale irrogare la
sanzione pecuniaria di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R.
n. 380/2001 ad un soggetto che non sia il responsabile
dell’abuso edilizio, e che non rientri neppure tra i
soggetti di cui al precedente art. 29.
Il secondo comma dell’art. 34 dpr
380/2001 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione
pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non
specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione
debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci
dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere
sanzionati il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore ed il direttore
dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli
effetti delle norme contenute nel presente capo”.
L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica,
poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle
sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per
l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere
abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere
responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia,
va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia
non è soltanto il costruttore, ma anche il
committente, mentre il proprietario non autore
dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi
responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento
doloso o colposo nella realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori.
---------------
11. Il ricorso è fondato e va accolto, negli stretti limiti
e per le ragioni qui di seguito precisate.
Va osservato, preliminarmente, che la quasi totalità delle
argomentazioni difensive sviluppate dalla ricorrente nella
prolissa illustrazione dei motivi di ricorso ha lasciato del
tutto ai margini la questione centrale oggetto del presente
giudizio, l’unica che avrebbe meritato una più attenta
disamina: e cioè se sia consentito all’amministrazione
comunale irrogare la sanzione pecuniaria di cui all’art. 34,
comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 ad un soggetto che non sia il
responsabile dell’abuso edilizio, e che non rientri neppure
tra i soggetti di cui al precedente art. 29.
Questione centrale, quest’ultima, che la parte ricorrente ha
indubbiamente intercettato –più casualmente che
consapevolmente, peraltro, visto il contesto in cui è
avvenuto– soltanto in alcune considerazioni esposte a
sostegno della domanda cautelare (pagg. 66-67), allorché
essa ha rilevato di non essere lei l’autrice dell’abuso
edilizio, di aver acquistato solo di recente la proprietà
del fabbricato, edificato alla fine degli anni ’70, e di
aver ignorato l’esistenza dell’abuso fino all’avvio del
procedimento amministrativo sfociato nell’irrogazione della
sanzione impugnata.
Il collegio, benché le predette considerazioni non siano
state svolte all’interno di un motivo di ricorso formalmente
rubricato, ma solo nella illustrazione della domanda
cautelare, ritiene di doverle comunque valorizzare in
un’ottica di giustizia sostanziale e di doverle valutare
alla luce del presupposto implicito da cui muovono le
censure formulate dalla ricorrente con i primi due motivi di
ricorso, vale a dire l’inapplicabilità al caso di specie
dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
12. La Sezione si è già occupata di una fattispecie analoga
a quella oggetto del presente giudizio nella sentenza n.
1204/2013 del 15.11.2013.
12.1. Ha osservato la Sezione che “Il secondo comma
dell’art. 34 prevede, come è noto, l’applicazione della
sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione
e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la
sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci
dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere
sanzionati il titolare del permesso di costruire, il
committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che
sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme
contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo
comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono
“tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e
solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso
di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo
che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato
che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia,
va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso
edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia
non è soltanto il costruttore, ma anche il committente,
mentre il proprietario non autore dell’abuso e non
committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto
ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella
realizzazione dei lavori (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna,
sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR Lazio, Sez. I-quater,
10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità
dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei
ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione
dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle
figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo
titolari della concessione edilizia per la costruzione
dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori
dei lavori”.
12.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria,
sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti
già citati).
12.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per
discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in
esame.
Nel caso di specie, infatti, è pacifico che la
ricorrente non è il soggetto responsabile dell’abuso
accertato dall’amministrazione comunale, né rientra tra i
soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare
del permesso di costruire, committente, costruttore,
direttore dei lavori). Essa ha acquistato la proprietà
dell’immobile solo in anni recenti, mentre l’abuso edilizio,
viste le sue caratteristiche (piano seminterrato previsto in
progetto realizzato interamente fuori terra) è stato posto
in essere necessariamente all’epoca della costruzione del
manufatto, avvenuta alla fine degli anni ’70: sicché i
destinatari della sanzione pecuniaria di cui all’art. 34,
comma 2, andavano (e andranno) cercati altrove
dall’amministrazione comunale, alla luce dei principi sopra
esposti.
12.4. Né può assumere rilievo, in senso contrario, la
circostanza che sia stata la stessa ricorrente a formulare
istanza al Comune di rilascio del “permesso di costruire in
sanatoria ai sensi dell’art. 34 comma 2 D.P.R. n. 380/2001”,
sia perché sembra piuttosto verosimile quanto riferito in
ricorso in ordine al fatto che furono gli stessi uffici
comunali a suggerire al tecnico di fiducia della ricorrente
di impostare in questo modo la propria domanda vista
l’indisponibilità dell’amministrazione a praticare la strada
della sanatoria giurisprudenziale; e sia soprattutto perché
compete in ogni caso all’amministrazione, in ossequio al
principio di legalità, qualificare correttamente la
fattispecie di abuso edilizio e le corrette modalità di
repressione dello stesso, a prescindere dalla prospettazione
della parte interessata, che l’amministrazione ha l’obbligo
di correggere laddove errata.
13. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va accolto
con il conseguente annullamento dell’atto impugnato e
l’assorbimento di ogni diversa doglianza
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.04.2017 n. 500 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: L’accoglimento
del ricorso implicherebbe, a rigore, la condanna
dell’amministrazione resistente alla rifusione delle spese
di lite, in applicazione del principio generale di
soccombenza.
Tuttavia, il collegio non può ignorare la patente violazione
da parte della difesa di parte ricorrente dell’obbligo di
sinteticità degli atti processuali di cui all’art. 2, comma
2, del cod. proc. amm., solo in minima parte mitigata dal
carattere più succinto (e ben più efficace) delle difese
orali svolte in udienza pubblica.
Della violazione dell’obbligo di sinteticità degli atti
processuali il collegio deve tener conto ai fini della
regolazione delle spese di lite, secondo quanto previsto
dall’art. 26, comma 1, cod. proc. amm.: il che, valutato
congiuntamente alla qualità delle difese svolte in giudizio
dall’amministrazione comunale, induce, in definitiva, a
ritenere sussistenti i presupposti per l’integrale
compensazione tra le parti delle spese di lite.
---------------
14.
L’accoglimento del ricorso implicherebbe, a rigore, la
condanna dell’amministrazione resistente alla rifusione
delle spese di lite, in applicazione del principio generale
di soccombenza. Tuttavia, il collegio non può ignorare la
patente violazione da parte della difesa di parte ricorrente
dell’obbligo di sinteticità degli atti processuali di cui
all’art. 2, comma 2, del cod. proc. amm., solo in minima
parte mitigata dal carattere più succinto (e ben più
efficace) delle difese orali svolte in udienza pubblica.
Della violazione dell’obbligo di sinteticità degli atti
processuali il collegio deve tener conto ai fini della
regolazione delle spese di lite, secondo quanto previsto
dall’art. 26, comma 1, cod. proc. amm.: il che, valutato
congiuntamente alla qualità delle difese svolte in giudizio
dall’amministrazione comunale, induce, in definitiva, a
ritenere sussistenti i presupposti per l’integrale
compensazione tra le parti delle spese di lite
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 13.04.2017 n. 500 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
chiusura di un balcone con una verandatura in alluminio (per 4x2
metri) è un intervento che
costituisce una vera e propria ristrutturazione, che
necessita del titolo abilitativo del permesso di
costruire. In tal senso, sul piano qualificatorio, precipuo
rilievo assume la creazione di un nuovo volume, incidente
anche sotto il profilo della alterazione dei prospetti e
della sagoma dell’edificio.
---------------
La realizzazione di una veranda rappresenta un intervento di
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio con
incremento delle superfici e dei volumi, come tale,
subordinato a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10,
co., D.P.R. n. 380 del 2001, non essendosi, al riguardo, in
giurisprudenza mai dubitato che: <<Gli interventi edilizi
che determinano una variazione planovolumentrica e
architettonica dell'immobile nel quale vengono realizzati,
quali le verande edificate sulla balconata di un
appartamento, sono soggetti al preventivo rilascio del
permesso di costruire. Ciò in quanto, in materia edilizia,
una veranda è da considerarsi, in senso tecnico - giuridico,
un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta
normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di
opera destinata a non sopperire ad esigenze temporanee e
contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel
tempo, ampliando così il godimento dell'immobile>>.
In particolare la
chiusura di una veranda, a prescindere dalla natura dei
materiali all’uopo utilizzati, costituisce comunque un
aumento volumetrico, anche ove realizzata con pannelli in
alluminio, atteso che, in materia urbanistico-edilizia, il
presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è
costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e
due superfici verticali contigue, così da ottenere una
superficie chiusa su un minimo di tre lati.
---------------
... per l'annullamento della disposizione dirigenziale del
Comune di Napoli n. 308 del 17.03.2005 con la quale si è
ordinata la demolizione delle opere abusive (veranda in
alluminio preverniciato di m 4x2) realizzate al quinto
piano (scala B, interno 43) dell’immobile sito in Napoli,
via ..., n. 78;
...
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Occorre premettere che a seguito di accertamenti
effettuati da parte dei vigili urbani si è constatato che la
ricorrente ha proceduto alla chiusura di un balcone con una
verandatura in alluminio (per 4x2 metri).
3. Giova a questo punto evidenziare che l’intervento
costituisce una vera e propria ristrutturazione, che
necessitava del titolo abilitativo del permesso di
costruire. In tal senso, sul piano qualificatorio, precipuo
rilievo assume la creazione di un nuovo volume, incidente
anche sotto il profilo della alterazione dei prospetti e
della sagoma dell’edificio.
La realizzazione di una veranda rappresenta un intervento di
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio con
incremento delle superfici e dei volumi, come tale,
subordinato a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10,
co., D.P.R. n. 380 del 2001, non essendosi, al riguardo, in
giurisprudenza mai dubitato che: <<Gli interventi edilizi
che determinano una variazione planovolumentrica e
architettonica dell'immobile nel quale vengono realizzati,
quali le verande edificate sulla balconata di un
appartamento, sono soggetti al preventivo rilascio del
permesso di costruire. Ciò in quanto, in materia edilizia,
una veranda è da considerarsi, in senso tecnico - giuridico,
un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta
normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di
opera destinata a non sopperire ad esigenze temporanee e
contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel
tempo, ampliando così il godimento dell'immobile>> (TAR
Napoli sez. IV, 15/01/2015, n. 259).
In particolare la
chiusura di una veranda, a prescindere dalla natura dei
materiali all’uopo utilizzati, costituisce comunque un
aumento volumetrico, anche ove realizzata con pannelli in
alluminio, atteso che, in materia urbanistico-edilizia, il
presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è
costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e
due superfici verticali contigue, così da ottenere una
superficie chiusa su un minimo di tre lati (Cfr. TAR
Napoli sez. IV, 15/01/2015, n. 259)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 10.04.2017 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In materia di misure demolitorie il principio
generale è che non sia necessaria alcuna specifica
motivazione sull’esistenza di un interesse pubblico in
quanto è pacificamente riconosciuto che l'abusività di
un'opera edilizia, costituisce già di per sé presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire
manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita
di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse
pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale
alla demolizione.
---------------
Stante questo principio generale, è stata in giurisprudenza
dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un
notevole lasso di tempo tra la commissione dell’abuso, il
suo accertamento e l’adozione della misura sanzionatoria, in
quanto alcune pronunce hanno ritenuto di poter fare una
eccezione al suindicato principio generale richiedendo, a
tutela dell’affidamento del privato, una specifica
motivazione sulla sussistenza ragioni di interesse pubblico
che giustifichino la misura demolitoria, tanto che il
provvedimento che non specifichi tali ragioni risulta
affetto dal vizio di difetto di motivazione.
Il Collegio ritiene di aderire alla prevalente tesi
che non richiede alcuna specifica motivazione sull’interesse
pubblico indipendentemente dal passaggio del tempo
dall’abuso o dal suo accertamento e il provvedimento
sanzionatorio.
La giurisprudenza si è, infatti, più volte espressa, anche
in tempi recenti, nel senso che il provvedimento di
demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i
provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto
vincolato che non richiede una specifica valutazione delle
ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla
demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di
alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una
situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai
legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto
che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente
i dovuti atti repressivi.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In queste ipotesi il fattore tempo non agisce in sinergia
con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle
statuizioni amministrative pregresse.
Al riguardo, il Collegio rileva come di affidamento
meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato,
il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota
la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da
un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere
come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello
di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa
della stessa.
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente
integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei
luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo
dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un
illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Si rileva infine che, da un lato, consentire la possibilità
di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero
decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con
precisione, significherebbe introdurre nel sistema un
pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la
repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe
rimessa all’apprezzamento del singolo funzionario,
oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente
sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni.
Dall’altro, a fronte dalla serie di condoni edilizi concessi
negli ultimi decenni, ammettere la sostanziale estinzione di
un abuso per il mero decorso del tempo significherebbe
costruire una sorta di sanatoria di fatto che opererebbe
anche quando l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi
del corrispondente istituto previsto dalla citata normativa
premiale, e quindi senza nemmeno la necessità di versare le
oblazioni da essa previste.
Per altro verso, poi, si deve comunque escludere che
si possa parlare di affidamento tutelabile nel momento in
cui di detta normativa l’interessato non abbia ritenuto di
avvalersi.
---------------
5. Su tali premesse anche le altre censure prospettate non
meritano positivo apprezzamento.
5.1. In particolare si censura l’omissione di qualsiasi
valutazione e motivazione in ordine alla sussistenza di un
interesse pubblico attuale alla demolizione.
Ciò anche e soprattutto in relazione al significativo lasso
di tempo trascorso dalla realizzazione del presunto abuso
sino al suo accertamento (a seguito della presentazione e
poi del rigetto dell’istanza di condono edilizio), e
successivamente sino all’adozione dell’ordine di
demolizione, anche in considerazione del legittimo
affidamento che tale situazione avrebbe ingenerato nella
società ricorrente.
Le censure sono infondate, in relazione al generale tema
dell’influenza del passaggio del tempo sul contenuto
dell’obbligo di motivazione delle sanzioni demolitorie.
5.1.1. In materia di misure demolitorie il principio
generale è che non sia necessaria alcuna specifica
motivazione sull’esistenza di un interesse pubblico in
quanto è pacificamente riconosciuto che l'abusività di
un'opera edilizia, costituisce già di per sé presupposto per
l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire
manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis Cons. Stato,
VI, 28.06.2004, n. 4743; Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV,
04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e come tale non
necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di
interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli
interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI,
28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702).
Stante questo principio generale, è stata in giurisprudenza
dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un
notevole lasso di tempo tra la commissione dell’abuso, il
suo accertamento e l’adozione della misura sanzionatoria, in
quanto alcune pronunce hanno ritenuto di poter fare una
eccezione al suindicato principio generale richiedendo, a
tutela dell’affidamento del privato, una specifica
motivazione sulla sussistenza ragioni di interesse pubblico
che giustifichino la misura demolitoria, tanto che il
provvedimento che non specifichi tali ragioni risulta
affetto dal vizio di difetto di motivazione.
5.1.2. Il Collegio ritiene di aderire alla prevalente tesi
che non richiede alcuna specifica motivazione sull’interesse
pubblico indipendentemente dal passaggio del tempo
dall’abuso o dal suo accertamento e il provvedimento
sanzionatorio.
La giurisprudenza si è, infatti, più volte espressa, anche
in tempi recenti (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n.
5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), nel
senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione
abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in
materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una
specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico,
né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi
privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna
motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico
concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure
ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il
tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 16.04.2012,
n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702,
Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813; Cons. Stato
Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011,
dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II,
08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania Napoli Sez. VIII,
09.06.2011, n. 3029; Cons. Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628)
e non potendo l'interessato dolersi del fatto che
l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i
dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n.
3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto
che pone in essere un comportamento contrastante con le
prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione
dei controlli o comunque nella persistente inerzia
dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In queste ipotesi il fattore tempo non agisce in sinergia
con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa
favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle
statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI,
21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV,
04.05.2012, n. 2592).
Al riguardo, il Collegio rileva come di affidamento
meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato,
il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota
la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da
un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere
come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello
di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa
della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2009, n.
5509).
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente
integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel
tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei
luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo
dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un
illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione
antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR
Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860).
Si rileva infine che, da un lato, consentire la possibilità
di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero
decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con
precisione, significherebbe introdurre nel sistema un
pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la
repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe
rimessa all’apprezzamento del singolo funzionario,
oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente
sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di
strumentalizzazioni (TAR Campania Napoli, Sez. IV, 22.05.2013, n. 2679).
Dall’altro, a fronte dalla serie di condoni edilizi concessi
negli ultimi decenni, ammettere la sostanziale estinzione di
un abuso per il mero decorso del tempo significherebbe
costruire una sorta di sanatoria di fatto che opererebbe
anche quando l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi
del corrispondente istituto previsto dalla citata normativa
premiale, e quindi senza nemmeno la necessità di versare le
oblazioni da essa previste.
Per altro verso, poi, si deve comunque escludere che si
possa parlare di affidamento tutelabile nel momento in cui
di detta normativa l’interessato non abbia ritenuto di
avvalersi (TAR Campania Napoli Sez. IV, 19.03.2013,
n. 1535; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 19.03.2013,
n. 1536).
Per quanto indicato la censura è già per un profilo generale
da rigettare, senza contare che l’asserita vetustà
dell’opera non è stata affatto dimostrata
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 10.04.2017 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'onere per il privato di dimostrare che l'opera
è stata completata entro una data utile, comporta che anche
la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è
sufficiente a tal fine, essendo necessari ulteriori
riscontri documentali, eventualmente anche indiziari, purché
altamente probanti.
---------------
4. Secondo la tesi attorea la verandatura sarebbe stata
presente fin dagli anni cinquanta (ed allega all’uopo
autocertificazioni sul punto) e quindi l’intervento
sanzionato sarebbe costituito semplicemente dalla
sostituzione della precedente finitura.
Questa impostazione non appare persuasiva per due ordini,
concorrenti, di ragioni.
In primo luogo la pre-esistenza di un’opera, ove non
sorretta da adeguato titolo edilizio -abusiva, non vale a
legittimare le successive opere di sostituzione o
manutenzione, poiché l’opus mantiene inalterato il carattere
abusivo.
A nulla rileva, a tali fini, l’allegazione di
autodichiarazioni attestanti il periodo di completamento
dell’opera originaria.
Si è, invero, affermato in giurisprudenza che l'onere per il
privato di dimostrare che l'opera è stata completata entro
una data utile, comporta che anche la dichiarazione
sostitutiva di atto notorio non è sufficiente a tal fine,
essendo necessari ulteriori riscontri documentali,
eventualmente anche indiziari, purché altamente probanti
(Consiglio di Stato sez. VI 27.07.2015 n. 3666; Cons.
Stato, sez. VI, 06.05.2008, n. 2010; TAR Napoli, Sez. VI, 14/09/2016, n. 4279).
In secondo luogo, quand’anche fosse provata la pre-esistenza
della struttura, per le costruzioni da realizzare nel
territorio del Comune di Napoli, infatti, l’obbligo per gli
interessati di richiedere la licenza edilizia è stato
introdotto dall’art. 1 del Regolamento Edilizio del Comune
di Napoli del 1935, con la conseguenza che, ai fini della
legittimità, sotto il profilo urbanistico-edilizio di
un’opera, non è sufficiente dimostrarne la realizzazione in
data antecedente al 1967, ma è necessario provare che la
stessa sia stata eseguita in epoca anteriore al 1935 (cfr.
Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 13.05.2008, n. 4255;
C.d.S., Sez. IV, 21.10.2008, n. 5141, in motivazione)
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 10.04.2017 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
I procedimenti iniziati ad
istanza di parte non abbisognano di comunicazione di avvio
del procedimento, così che non si vìola l’art. 7 L.
241/1990.
---------------
5.2. Infine, va respinto il motivo che si appella a pretese
carenze procedimentali. Esse, in realtà, non sussistono, in
quanto i procedimenti iniziati ad istanza di parte non
abbisognano di comunicazione di avvio del procedimento, così
che non è stato violato l’art. 7 L. 241/1990
(TAR Campania-Napoli, Sez. IV,
sentenza 10.04.2017 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
Per il rigetto della richiesta di accesso agli
atti non basta addurre l'opposizione del controinteressato.
Con
sentenza 06.04.2017 n. 460, la I Sez. del TAR
Piemonte ha ribadito che, per legge, il rigetto della
richiesta di accesso agli atti deve essere congruamente
motivato e, da questo punto di vista, deve ritenersi affetta
da radicale carenza di motivazione la giustificazione
opposta dall'Amministrazione che poggi sulla posizione di
mera contrarietà all’esibizione dei documenti manifestata,
in termini del tutto generici e apodittici, dal terzo
controinteressato.
L’approfondimento
Già in altre occasioni, del resto, la giurisprudenza ha
costantemente ritenuto illegittimo il diniego all'accesso
agli atti motivato con esclusivo riferimento alle ragioni
contrarie espresse dal soggetto controinteressato, senza
ulteriori ragionamenti e controdeduzioni in termini di
interesse pubblico, pur meritevoli di considerazione nel
bilanciamento dei contrapposti interessi (si veda Tar Lazio,
sez. III, 21.12.2015, n. 14356).
La Pubblica amministrazione non può, infatti, legittimamente
assumere quale unico fondamento del diniego di accesso agli
atti la mancanza del consenso da parte dei soggetti
controinteressati, atteso che la normativa in materia, lungi
dal rendere i controinteressati arbitri assoluti delle
richieste che li riguardino, rimette sempre
all'Amministrazione destinataria della richiesta di accesso
il potere di valutare la fondatezza dell’istanza, anche se
in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai
controinteressati (Tar Lecce, sez. II, 29.04.2015, n. 1419;
Tar Reggio Calabria, sez. I, 16.03.2015, n. 281).
Il caso
Nella specie, un'Amministrazione rigettava la richiesta di
accesso agli atti adducendo la posizione di mera contrarietà
all’esibizione degli documenti manifestata, in termini del
tutto generici e apodittici, dal terzo controinteressato.
Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione del Tar Piemonte persuade.
L'ultima parola, in tema di accesso agli atti, spetta
infatti sempre all'Amministrazione.
No, dunque, al diniego all'accesso agli atti motivato con
esclusivo riferimento alle ragioni contrarie espresse dal
soggetto controinteressato, senza ulteriori ragionamenti e
controdeduzioni in termini di interesse pubblico, pur
meritevoli di considerazione nel bilanciamento dei
contrapposti interessi.
In tal modo, infatti, si finirebbe per rendere i
controinteressati arbitri assoluti delle richieste che li
riguardino, mentre è solo l'Amministrazione destinataria
della richiesta di accesso che -nell'equidistanza che deve
mantenere rispetto agli interessi delle parti- ha la
capacità e il potere di valutare la fondatezza dell’istanza,
anche se in contrasto con l'opposizione eventualmente
manifestata dai controinteressati (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Per giurisprudenza del tutto pacifica, non
richiede alcun titolo edilizio una recinzione, anche se
posta al confine di proprietà per escluderne gli estranei,
realizzata con rete metallica e semplici paletti di sostegno
di legno o di metallo.
Nel caso di specie, la recinzione nell’ordinanza impugnata è
stata descritta in modo errato. Essa risulta in realtà
costituita appunto da un manufatto leggero in rete e paletti
di sostegno, nemmeno inteso a proteggersi dagli estranei
perché destinato, a dire della parte, a sostenere piante
rampicanti.
Il titolo edilizio per esso non era quindi necessario, e
quindi la demolizione non poteva esserne ordinata.
---------------
5. Il secondo motivo, relativo alla recinzione interna al
lotto, è invece fondato per errato apprezzamento del fatto,
da parte sia dell’amministrazione, sia della sentenza
impugnata.
Per giurisprudenza del tutto pacifica –si vedano
C.d.S. sez. V 09.04.2013 n. 1922 e 28.10.1998 n. 1537-
non richiede alcun titolo edilizio una recinzione, anche se
posta al confine di proprietà per escluderne gli estranei,
realizzata con rete metallica e semplici paletti di sostegno
di legno o di metallo.
6. Nel caso di specie, come risulta dalla relazione tecnica
di parte già prodotta in primo grado e riprodotta in questa
sede (doc. 14 ricorrente appellante, pp. 5-6) e come non è
stato specificamente contestato dalla controparte, la
recinzione nell’ordinanza impugnata è stata descritta in
modo errato.
Essa risulta in realtà costituita appunto da un
manufatto leggero in rete e paletti di sostegno, nemmeno
inteso a proteggersi dagli estranei perché destinato, a dire
della parte, a sostenere piante rampicanti. Il titolo
edilizio per esso non era quindi necessario, e quindi la
demolizione non poteva esserne ordinata (Consiglio di Stato,
Sez. VI,
sentenza 30.03.2017 n. 1476 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Costituisce
orientamento consolidato quello per cui l’ordinanza
sindacale che rechi il divieto assoluto di introdurre cani,
anche se custoditi, nelle aree destinate a verde pubblico
-pur se in ragione delle meritevoli ragioni di tutela dei
cittadini in considerazione della circostanza che i cani
vengono spesso lasciati senza guinzaglio e non ne vengono
raccolte le deiezioni- risulta essere eccessivamente
limitativa della libertà di circolazione delle persone ed è
comunque posta in violazione dei principi di adeguatezza e
proporzionalità, atteso che lo scopo perseguito dall'Ente
locale di mantenere il decoro e l'igiene pubblica, nonché la
sicurezza dei cittadini, può essere soddisfatto attraverso
l’attivazione dei mezzi di controllo e di sanzione rispetto
all’obbligo per gli accompagnatori o i custodi di cani di
rimuovere le eventuali deiezioni con appositi strumenti e di
condurli in aree pubbliche con idonee modalità di custodia
(guinzaglio e museruola) trattandosi di obblighi imposti
dalla disciplina generale statale, cosicché il Sindaco può
fronteggiare comportamenti incivili da parte dei conduttori
di cani, al fine di prevenire le negative conseguenze di
tali condotte, con l'esercizio degli ordinari poteri di
prevenzione, vigilanza, controllo e sanzionatori di cui
dispone l'Amministrazione.
Ed invero, le esigenze poste a fondamento della gravata
ordinanza sindacale risultano già compiutamente
salvaguardate dalla disciplina vigente in materia, che
impone di condurre i cani al guinzaglio e di rimuovere le
eventuali deiezioni, dovendo quindi l’Amministrazione
Comunale adoperarsi –in luogo dell’indiscriminato divieto di
accesso dei cani alle aree verdi pubbliche– al fine di
rendere cogenti tali misure mediante una efficace azione di
controllo e di repressione, in tal modo rendendo possibile
il raggiungimento del pubblico interesse attraverso
strumenti idonei e nel rispetto del principio di
proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini perseguiti.
La gravata ordinanza, pertanto, in relazione ai dichiarati
scopi perseguiti, appare essere posta in violazione dei
principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’azione
amministrativa, atteso che lo scopo di mantenere il decoro e
l’igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, è già
adeguatamente soddisfatto attraverso l’imposizione, di cui
alla disciplina statale, agli accompagnatori o custodi di
cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi
strumenti e di condurli al guinzaglio.
Agli esposti rilievi giova aggiungere che, sotto distinto e
concorrente profilo, il provvedimento impugnato appare
adottato in assenza dei requisiti di necessità ed urgenza
idonei a legittimare l’adozione di misure extra ordinem,
difettando una situazione di effettiva eccezionalità ed
imprevedibilità tale da far temere emergenze igienico
sanitarie o pericoli per la pubblica incolumità: e ciò noto
essendo che il potere di emanare ordinanze di cui all’art.
50, comma 5, d.lgs. 267 del 2000, riservato al Sindaco,
permette bensì l'imposizione di obblighi di fare o di non
fare a carico dei destinatari, postulando, tuttavia, da un
lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con
congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione
eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far
fronte con i mezzi previsti in via ordinaria
dall'ordinamento, non potendo l’eccezionale potere di
ordinanza essere utilizzato per soddisfare esigenze che
siano prevedibili ed ordinarie.
---------------
...
per l'annullamento
dell'ordinanza n. 133/15 avente ad oggetto divieto di
abbandono di deiezione canine in aree pubbliche ed obbligo
di custodia;
...
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito,
l’associazione ricorrente, come in atti rappresentata e
difesa, impugnava l’ordinanza, meglio distinta in epigrafe,
con il quale il Sindaco di Avellino aveva disposto, tra
l’altro, il “divieto assoluto di condurre cani nei giardini
pubblici” (art. 1) e il “divieto di depositare gli
escrementi canini nei cestini portarifiuti” (art. 3).
A sostegno del gravame deduceva:
a) eccesso di potere per
difetto di adeguata istruttoria (stante l’assenza di
necessarie verifiche in ordine alla effettiva pericolosità,
dal punto di vista sanitario, delle deiezioni canine oggetto
di prospettica inibizione);
b) eccesso di potere per
violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità
(stante il carattere assoluto ed indiscriminato del divieto,
per giusta non accompagnato da misure intese alla
prospettica ed adeguata allocazione di percorsi alternativi
e appositi contenitori destinati alla recezione degli
escrementi);
c) violazione degli artt. 50 e 54 T.U.E.L.
(avuto riguardo alla assenza dei presupposti di necessità ed
urgenza idonei a legittimare l’attivazione dello
straordinario potere di ordinanza).
2.- Nella resistenza dell’Amministrazione comunale,
esaminata e favorevolmente delibata l’istanza intesa, in
prospettiva cautelare, alla interinale sospensione degli
effetti del provvedimento impugnato, alla pubblica udienza
del 06.07.2016, sulle reiterate conclusioni dei difensori
delle parti costituite, la causa veniva riservata per la
decisione.
3.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
Non appare revocabile, in dubbio, in premessa, la
legittimazione ad agire della Associazione ricorrente, alla
luce dello scopo statutariamente perseguito, di adoperarsi
per la garanzia e l’incremento del benessere e degli
interessi degli animali
Ciò posto, costituisce orientamento consolidato, dal quale
non si ravvisano ragioni per discostarsi (cfr., da ultimo,
TAR Lazio, sez. II-bis, 17.05.2016, n. 5836; e cfr.
altresì, tra le tante, TAR Potenza, 17.10.2013, n.
611; TAR Reggio Calabria, 28.05.2014, n. 225; TAR
Milano, 22.10.2013 n. 2431; TAR Sardegna, 27.02.2016 n, 128; TAR Venezia, 12.04.2012, n.
502, oltre a TAR Campania, Salerno, sez. II, 28.07.2015,
n. 1752), quello per cui l’ordinanza sindacale che rechi il
divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi,
nelle aree destinate a verde pubblico -pur se in ragione
delle meritevoli ragioni di tutela dei cittadini in
considerazione della circostanza che i cani vengono spesso
lasciati senza guinzaglio e non ne vengono raccolte le
deiezioni- risulta essere eccessivamente limitativa della
libertà di circolazione delle persone ed è comunque posta in
violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità,
atteso che lo scopo perseguito dall'Ente locale di mantenere
il decoro e l'igiene pubblica, nonché la sicurezza dei
cittadini, può essere soddisfatto attraverso l’attivazione
dei mezzi di controllo e di sanzione rispetto all’obbligo
per gli accompagnatori o i custodi di cani di rimuovere le
eventuali deiezioni con appositi strumenti e di condurli in
aree pubbliche con idonee modalità di custodia (guinzaglio e
museruola) trattandosi di obblighi imposti dalla disciplina
generale statale, cosicché il Sindaco può fronteggiare
comportamenti incivili da parte dei conduttori di cani, al
fine di prevenire le negative conseguenze di tali condotte,
con l'esercizio degli ordinari poteri di prevenzione,
vigilanza, controllo e sanzionatori di cui dispone
l'Amministrazione.
Ed invero, le esigenze poste a fondamento della gravata
ordinanza risultano già compiutamente salvaguardate dalla
disciplina vigente in materia, che impone di condurre i cani
al guinzaglio e di rimuovere le eventuali deiezioni, dovendo
quindi l’Amministrazione Comunale adoperarsi –in luogo
dell’indiscriminato divieto di accesso dei cani alle aree
verdi pubbliche– al fine di rendere cogenti tali misure
mediante una efficace azione di controllo e di repressione,
in tal modo rendendo possibile il raggiungimento del
pubblico interesse attraverso strumenti idonei e nel
rispetto del principio di proporzionalità dei mezzi rispetto
ai fini perseguiti.
La gravata ordinanza, pertanto, in relazione ai dichiarati
scopi perseguiti, appare essere posta in violazione dei
principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’azione
amministrativa, atteso che lo scopo di mantenere il decoro e
l’igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, è già
adeguatamente soddisfatto attraverso l’imposizione, di cui
alla disciplina statale, agli accompagnatori o custodi di
cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi
strumenti e di condurli al guinzaglio.
Agli esposti rilievi giova aggiungere che, sotto distinto e
concorrente profilo, il provvedimento impugnato appare
adottato in assenza dei requisiti di necessità ed urgenza
idonei a legittimare l’adozione di misure extra ordinem,
difettando una situazione di effettiva eccezionalità ed
imprevedibilità tale da far temere emergenze igienico
sanitarie o pericoli per la pubblica incolumità: e ciò noto
essendo che il potere di emanare ordinanze di cui all’art.
50, comma 5, d.lgs. 267 del 2000, riservato al Sindaco,
permette bensì l'imposizione di obblighi di fare o di non
fare a carico dei destinatari, postulando, tuttavia, da un
lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con
congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione
eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far
fronte con i mezzi previsti in via ordinaria
dall'ordinamento, non potendo l’eccezionale potere di
ordinanza essere utilizzato per soddisfare esigenze che
siano prevedibili ed ordinarie (cfr., proprio in tema di
divieto assoluto di introdurre cani in aree verdi del
territorio comunale, TAR Sardegna, sez. I, 30.11.2012,
n. 1080).
4.- Le esposte considerazioni militano nel senso della
complessiva fondatezza del ricorso, che deve, dunque, essere
accolto, con consequenziale annullamento dei provvedimenti
impugnati
(TAR Campania-Salerno, Sez. II,
sentenza 30.03.2017 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: Chi
lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a
dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata
l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio
interesse.
Come sottolineato da TAR Lombardia Milano,
l’interesse
a impugnare lo strumento pianificatorio non può esaurirsi
nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei
suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le
“determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere
siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente
riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni
raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che
l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali
conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo
decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà.
---------------
La L.r. Lombardia 12/2005, all’art. 4, comma 3-ter
(“L’autorità competente per la Valutazione Ambientale
Strategica VAS, individuata prioritariamente all’interno
dell’ente di cui al comma 3-bis, deve possedere i seguenti
requisiti: a) separazione rispetto all’autorità procedente;
b) adeguato grado di autonomia; c) competenza in materia di
tutela, protezione e valorizzazione ambientale e di sviluppo
sostenibile”), prevede che l’autorità competente per la VAS
debba essere scelta prioritariamente all’interno dell’ente
competente all’adozione del Piano oggetto della stessa VAS.
Condizione perché tale scelta non violi i canoni comunitari
è unicamente che tra le due autorità, anche se appartenenti
alla stessa amministrazione, sussista un adeguato grado di
autonomia.
---------------
Questa Sezione ha sostenuto che <<Relativamente al problema della separazione
formale tra autorità competente e autorità procedente per la VAS (v. art. 5 e 12 del Dlgs. 152/2006), si rinvia
all’interpretazione giurisprudenziale che considera normale
la collocazione delle stesse all’interno del medesimo ente. Le funzioni delle due autorità non sono
in rapporto di contrapposizione o di controllo. La
distinzione ha invece la finalità di assicurare che,
attraverso la collaborazione e lo scambio di informazioni,
entrino nella valutazione ambientale tutti gli apporti
tecnici necessari. … Questa impostazione è ora codificata
nell’art. 4, comma 3-ter, della LR 12/2005, che prevede in via
prioritaria la concentrazione delle due autorità nello
stesso ente>>.
Non vi sono profili di contrasto con la
normativa nazionale e con le direttive comunitarie: la
separazione che garantisce l’autonomia dell’autorità
competente è quella funzionale, la quale a sua volta deriva
dal possesso di una particolare qualificazione
tecnico-professionale, che sia esercitabile secondo le
regole tecniche della pianificazione, senza interferenze di
altra natura (sentenza Sezione 17/06/2015 n. 853, che
richiama il proprio precedente 15/10/2014 n. 1059 e precisa
che “Pertanto, le valutazioni dell’autorità competente
possono essere censurate se non corrispondono alle suddette
regole tecniche, o se si contraddicono, o quando siano
incomplete, ma non per il solo fatto che vengano formulate
da soggetti incardinati presso gli uffici dell’ente definito
autorità procedente …)”.
---------------
1.1 Va richiamato il principio secondo cui chi
lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a
dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata
l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio
interesse. Come sottolineato da TAR Lombardia Milano,
sez. II – 15/11/2016 n. 2140 (che ha richiamato tra l’altro
Consiglio di Stato, sez. IV – 12/01/2011 n. 133), l’interesse
a impugnare lo strumento pianificatorio non può esaurirsi
nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei
suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le
“determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere
siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente
riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni
raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che
l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali
conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo
decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà.
...
Nel merito, la censura è comunque infondata.
1.3 In primo luogo, occorre sottolineare come la L.r.
12/2005, all’art. 4, comma 3-ter (“L’autorità competente per
la Valutazione Ambientale Strategica VAS, individuata
prioritariamente all’interno dell’ente di cui al comma
3-bis, deve possedere i seguenti requisiti: a) separazione
rispetto all’autorità procedente; b) adeguato grado di
autonomia; c) competenza in materia di tutela, protezione e
valorizzazione ambientale e di sviluppo sostenibile”),
preveda che l’autorità competente per la VAS debba essere
scelta prioritariamente all’interno dell’ente competente
all’adozione del Piano oggetto della stessa VAS.
Condizione
perché tale scelta non violi i canoni comunitari è
unicamente che tra le due autorità, anche se appartenenti
alla stessa amministrazione, sussista un adeguato grado di
autonomia (Consiglio di Stato, sez. IV – 01/09/2015 n. 4081, e
la giurisprudenza comunitaria richiamata).
1.4 Questa Sezione (cfr. sentenza 09/02/2016 n. 226) ha
sostenuto che <<Relativamente al problema della separazione
formale tra autorità competente e autorità procedente per la VAS (v. art. 5 e 12 del Dlgs. 152/2006), si rinvia
all’interpretazione giurisprudenziale che considera normale
la collocazione delle stesse all’interno del medesimo ente
(v. CS Sez. IV 12.01.2011 n. 133; TAR Brescia Sez. II 02.05.2013 n. 400). Le funzioni delle due autorità non sono
in rapporto di contrapposizione o di controllo. La
distinzione ha invece la finalità di assicurare che,
attraverso la collaborazione e lo scambio di informazioni,
entrino nella valutazione ambientale tutti gli apporti
tecnici necessari. … Questa impostazione è ora codificata
nell’art. 4, comma 3-ter, della LR 12/2005, che prevede in via
prioritaria la concentrazione delle due autorità nello
stesso ente>>.
Non vi sono profili di contrasto con la
normativa nazionale e con le direttive comunitarie: la
separazione che garantisce l’autonomia dell’autorità
competente è quella funzionale, la quale a sua volta deriva
dal possesso di una particolare qualificazione
tecnico-professionale, che sia esercitabile secondo le
regole tecniche della pianificazione, senza interferenze di
altra natura (sentenza Sezione 17/06/2015 n. 853, che
richiama il proprio precedente 15/10/2014 n. 1059 e precisa
che “Pertanto, le valutazioni dell’autorità competente
possono essere censurate se non corrispondono alle suddette
regole tecniche, o se si contraddicono, o quando siano
incomplete, ma non per il solo fatto che vengano formulate
da soggetti incardinati presso gli uffici dell’ente definito
autorità procedente …)”.
1.5 Peraltro, “l’adeguato grado di autonomia” tra autorità
ex articolo 4, comma 3-ter, della L.r. 12/2005 (richiamato
dal Consiglio di Stato, sez. I – 23/11/2016 n. 2455),
risulta esser stato assicurato per il fatto che l’Arch. So. era stata chiamata,
ex ante e in generale, a
sostituire la dirigente precedente Arch. Vi., nel ruolo
di autorità competente sovracomunale nel procedimento di VAS
del Parco Locale di Interesse Sovracomunale (PLIS), per cui
si è ritenuta logica la scelta di individuarla quale
autorità competente anche per le varianti dei singoli Comuni
aderenti al PLIS medesimo.
Detta modalità, illustrata dalla
difesa dell’amministrazione, non collide certamente con
l’invocato principio di separazione e, in aggiunta, soddisfa
condivisibili criteri di continuità di operato e di visione
d’insieme. Al contempo l’individuazione della figura si
collega al suo ruolo di autorità competente per il PLIS,
assunto anteriormente all’avvio della procedura di variante,
per cui anche la censura di tardività della nomina appare
depotenziata (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.02.2017 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
• nella
formazione dello strumento urbanistico e nelle scelte che
presiedono all’approvazione di varianti generali,
l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà
discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano
attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento
deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima
area: l’autorità pianificatoria può anche apportare
modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del
proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che
una generica aspettativa al mantenimento della destinazione
urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius,
analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che
aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile
(TAR Toscana, sez. I – 16/01/2017 n. 38 e la propria
giurisprudenza menzionata; la sentenza evocata ha aggiunto
che “La mera adozione della variante non poteva perciò
produrre alcun effetto di affidamento dovendo tale atto
essere sottoposto all’esame del Consiglio comunale dopo la
presentazione delle osservazioni”);
• le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte
alla pianificazione territoriale attengono al merito
dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno
che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
E' vero
tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione
edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono
raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e
rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al
corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel
contemperamento delle varie esigenze della popolazione che
su tale ambito insiste ed opera …”;
• costituisce approdo consolidato e indiscusso quello
secondo cui le osservazioni dei privati ai progetti di
strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo e
non danno luogo ad affidamento, con la conseguenza che il
loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste alla base della formazione del Piano.
---------------
3.1 E’ utile
anzitutto richiamare, sinteticamente, alcuni consolidati
principi giurisprudenziali della materia oggetto del
contendere:
• nella formazione dello strumento urbanistico e nelle
scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali,
l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà
discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano
attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento
deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima
area: l’autorità pianificatoria può anche apportare
modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del
proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che
una generica aspettativa al mantenimento della destinazione
urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius,
analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che
aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile
(TAR Toscana, sez. I – 16/01/2017 n. 38 e la propria
giurisprudenza menzionata; la sentenza evocata ha aggiunto
che “La mera adozione della variante non poteva perciò
produrre alcun effetto di affidamento dovendo tale atto
essere sottoposto all’esame del Consiglio comunale dopo la
presentazione delle osservazioni”);
• le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte
alla pianificazione territoriale attengono al merito
dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno
che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza
manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle
esigenze che si intendono nel concreto soddisfare; è vero
tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione
edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono
raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e
rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al
corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel
contemperamento delle varie esigenze della popolazione che
su tale ambito insiste ed opera …” (TAR Lombardia Milano,
sez. II – 16/01/2017 n. 102 e giurisprudenza richiamata);
• costituisce approdo consolidato e indiscusso
quello secondo cui le osservazioni dei privati ai progetti
di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo
e non danno luogo ad affidamento, con la conseguenza che il
loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo
sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in
contrasto con gli interessi e le considerazioni generali
poste alla base della formazione del Piano (Consiglio di
Stato, sez. I – 05/10/2016 n. 2050) (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.02.2017 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
La sopravvenuta previsione regionale
lombarda (art. 5
L.r. 31/2014) si rivela ostativa (sia pure nell’attuale fase
transitoria) alle scelte pianificatorie che comportino nuovo
consumo di suolo, e nella recente pronuncia di questa
Sezione 17/01/2017 n. 47, si è statuito che “In questo
quadro, è evidente che la potestà pianificatoria dei comuni
subisce, nel periodo transitorio, una duplice conformazione.
Da un lato, non è possibile programmare nuovo consumo di
suolo, dall’altro non è possibile cancellare i piani
attuativi previsti dal PGT per la sola ragione che
comportano consumo di aree agricole o di aree libere”.
---------------
4. Anche
l’ultimo motivo dedotto non è meritevole di positivo
apprezzamento.
La sopravvenuta previsione regionale (art. 5
L.r. 31/2014) si rivela ostativa (sia pure nell’attuale fase
transitoria) alle scelte pianificatorie che comportino nuovo
consumo di suolo, e nella recente pronuncia di questa
Sezione 17/01/2017 n. 47, si è statuito che “In questo
quadro, è evidente che la potestà pianificatoria dei comuni
subisce, nel periodo transitorio, una duplice conformazione.
Da un lato, non è possibile programmare nuovo consumo di
suolo, dall’altro non è possibile cancellare i piani
attuativi previsti dal PGT per la sola ragione che
comportano consumo di aree agricole o di aree libere”.
Inoltre, il comunicato regionale 25/03/2015 n. 80, recante
indirizzi applicativi della L.r. 31/2014, puntualizza che
nella fase transitoria sono da considerare precluse varianti
che abbiano per oggetto aree esterne al vigente tessuto
urbano consolidato che comportino nuovo consumo di suolo,
purché individuate nel Piano delle Regole come aree
destinate all’agricoltura (fattispecie di cui si controverte
in questa sede).
Detta linea interpretativa appare del tutto condivisibile, e
comunque si tratta di un profilo ostativo concorrente e
aggiuntivo rispetto alle motivazioni che hanno sorretto lo
stralcio, della cui ragionevolezza e attendibilità si è dato
ampiamente conto (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 20.02.2017 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Casa priva di certificato di abitabilità: è vendita dell'aliud
pro alio (letteralmente “di una cosa per un'altra”).
In materia di vendita di immobile
destinato ad abitazione, integra ipotesi di consegna di
aliud pro alio il difetto assoluto della licenza di
abitabilità ovvero l'insussistenza delle condizioni
necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di
insanabili violazioni della legge urbanistica.
Il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha
l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di
abitabilità, senza il quale l'immobile stesso è
incommerciabile; la violazione di tale obbligo può
legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia
quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di
inadempimento, e non è sanata dalla mera circostanza che il
venditore, al momento della stipula, abbia già presentato
una domanda di condono per sanare l'irregolarità
amministrativa dell'immobile.
Tra l'altro, è irrilevante la concreta utilizzazione
dell'immobile ad uso abitativo da parte dei precedenti
proprietari.
---------------
Va debitamente premesso che, in materia di vendita di
immobile destinato ad abitazione, questa Corte spiega che
integra ipotesi di consegna di aliud pro alio il
difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero
l'insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerla in
dipendenza della presenza di insanabili violazioni della
legge urbanistica (cfr. Cass. 27.07.2006, n. 17140).
E soggiunge che il venditore di un immobile destinato ad
abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il
certificato di abitabilità, senza il quale l'immobile stesso
è incommerciabile; e che la violazione di tale obbligo può
legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia
quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di
inadempimento, e non è sanata dalla mera circostanza che il
venditore, al momento della stipula, abbia già presentato
una domanda di condono per sanare l'irregolarità
amministrativa dell'immobile (cfr. Cass. 23.01.2009, n.
1701; cfr. Cass. 20.04.2006, n. 9253, ove si precisa inoltre
che è irrilevante la concreta utilizzazione dell'immobile ad
uso abitativo da parte dei precedenti proprietari) (Corte di
Cassazione, Sez. II civile,
sentenza
30.01.2017 n. 2294). |
EDILIZIA PRIVATA: In
ordine al denunciato deficit motivazionale in punto di
interesse pubblico alla demolizione, atteso che l’opus in
questione risulta insistere su area demaniale, segnatamente
al “Demanio dello Stato Ramo Idrico”, il valorizzato profilo
di interesse deve ritenersi sussistente in re ipsa a
prescindere dal decorso di un più o meno significativo lasso
temporale dalla realizzazione del manufatto, stante il
carattere permanente della condotta perpetrata ai danni del
pubblico demanio.
---------------
In presenza di interventi edilizi abusivamente realizzati su
area demaniale l'art. 35, t.u. 06.06.2001 n. 380 non lascia
all'ente locale alcuno spazio per valutazioni discrezionali
ma, una volta accertato che il manufatto è stato realizzato
in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire,
gli impone di provvedere alla rimozione dello stesso,
ponendo le relative spese a carico del responsabile
dell'abuso, e ciò a prescindere dall’epoca dell’abuso.
Secondo l’insegnamento del Massimo Consesso di GA, infatti,
“L'amministrazione, ai sensi dell'art. 35 d.P.R. 06.06.2001,
n. 380 (T.U. Edilizia) è tenuta (recte è vincolata) ad
adottare la misura ripristinatoria anche a notevole distanza
di tempo dalla commissione dell'abuso edilizio, non
incontrando la relativa potestà alcun termine di
prescrizione”. L’eventuale partecipazione del condominio
ricorrente al procedimento che ha condotto all’adozione
dell’impugnata ordinanza, non avrebbe quindi potuto recare
alcun contributo fattivo e potenzialmente idoneo a suggerire
decisioni di segno diverso da quello assunto.
---------------
I. Il ricorso è infondato.
...
II.2. Nemmeno convince il secondo mezzo, col quale si
denuncia deficit motivazionale in punto di interesse
pubblico alla demolizione, atteso che l’opus in
questione risulta insistere su area demaniale, segnatamente
al “Demanio dello Stato Ramo Idrico”, di guisa che il
valorizzato profilo di interesse deve ritenersi sussistente
in re ipsa a prescindere dal decorso di un più o meno
significativo lasso temporale dalla realizzazione del
manufatto, stante il carattere permanente della condotta
perpetrata ai danni del pubblico demanio.
Il motivo in esame va quindi respinto.
II.3. Infondato è, infine, il terzo mezzo, col quale
si lamenta l’omessa comunicazione di avviso di avvio
procedimentale, in quanto, come si afferma in sede pretoria,
in presenza di interventi edilizi abusivamente realizzati su
area demaniale l'art. 35, t.u. 06.06.2001 n. 380 non lascia
all'ente locale alcuno spazio per valutazioni discrezionali
ma, una volta accertato che il manufatto è stato realizzato
in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire,
gli impone di provvedere alla rimozione dello stesso,
ponendo le relative spese a carico del responsabile
dell'abuso (TAR Potenza Basilicata, sez. I, 06.04.2012, n.
168), e ciò a prescindere dall’epoca dell’abuso.
Secondo l’insegnamento del Massimo Consesso di GA (Cons.
Stato, Sez. V, 21.04.2016, n. 1581), infatti, “L'amministrazione,
ai sensi dell'art. 35 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U.
Edilizia) è tenuta (recte è vincolata) ad adottare la misura
ripristinatoria anche a notevole distanza di tempo dalla
commissione dell'abuso edilizio, non incontrando la relativa
potestà alcun termine di prescrizione”. L’eventuale
partecipazione del condominio ricorrente al procedimento che
ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza, non
avrebbe quindi potuto recare alcun contributo fattivo e
potenzialmente idoneo a suggerire decisioni di segno diverso
da quello assunto.
La difesa dell’Ente ha comunque documentato la
comunicazione, in favore del Sig. Lo Bo., nella qualità
anzidetta, della diffida prot n. 5856 del 26/01/2015,
espressamente valevole anche come avviso di avvio
procedimentale. Al riguardo, parte ricorrente evidenzia di
aver presentato istanza di sdemanializzazione, non ancora
esitata come documentato in atti, ma tale circostanza non è
in grado di incidere, ma anzi conferma, l’attuale
persistenza della condotta abusiva, con conseguente
sussistenza del presupposto applicativo dell’art. 35 d.P.R.
n. 380/2001, ai sensi del quale l’atto demolitorio è stato
emesso.
III. Tanto premesso, il ricorso è del tutto infondato e
pertanto va respinto
(TAR Campania-Salerno, Sez. I,
sentenza 02.01.2017 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La mera attività di indagine geotecnica
non può
costituire "inizio dei lavori" (al
pari, peraltro, degli
sbancamenti di terreno poi accertati), occorrendo a tal fine
la compiuta
organizzazione del cantiere e la presenza di altri indizi
idonei a confermare
l'effettivo intendimento del titolare del permesso di
costruire di realizzare l'opera
assentita.
---------------
Invero, ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del
2001, "Il termine
per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno
dal rilascio del titolo;
quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di
diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente
alla scadenza, venga
richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con
provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del
titolare del permesso,
oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà
tecnico-esecutive emerse
successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si
tratti di opere pubbliche il
cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari".
Orbene, dalla lettera della norma -per come costantemente
interpretata da
questa Corte- deriva che il decorso del termine di
ultimazione dei lavori
comporta, se non prorogato, la decadenza di diritto del
permesso di costruire per
la parte ancora non eseguita, con conseguente
configurabilità del reato previsto
dall'art. 44, lett. b), del citato decreto, in caso di loro
prosecuzione oltre detto
termine.
---------------
4. Ciò premesso, il ricorso risulta infondato.
Ritiene la Corte che la questione centrale della presente
vicenda afferisca
all'avvenuto inizio delle opere, assentite dalla concessione
edilizia n. 107 del
12/04/2012, entro il termine annuale fissato nel
provvedimento medesimo, ed
agli effetti -automatici o meno- della decadenza dal
provvedimento stesso, in
caso di esito negativo della prima verifica; orbene, con
riguardo ad entrambi i
profili la motivazione redatta dal Tribunale risulta
tutt'altro che assente o meramente apparente, emergendo
piuttosto come congrua, fondata su oggettivi
riscontri investigativi e privi di qualsivoglia illogicità.
Come tale, non censurabile.
In particolare, e richiamata la pacifica scansione
cronologica degli eventi,
l'ordinanza ha evidenziato che:
1) la comunicazione di
inizio lavori era stata
inviata dalla "Pe.To. s.r.l." al Comune di Siracusa
l'11/04/2013 (ultimo
giorno utile, a fronte di una concessione rilasciata il
12/04/2012);
2) il 02/12/2014
-ad avvenuta voltura del titolo da parte della "Re.
s.r.l.", della quale il
ricorrente è legale rappresentante- la Polizia municipale
aveva accertato che
non vi era alcuna attività lavorativa in corso, verificando
soltanto «un terreno
totalmente ricoperto da vegetazione autoctona, l'inesistenza
in situ di opere di
natura edilizia, scavi, sbancamenti, né tantomeno la
presenza delle normali
infrastrutture mobili che caratterizzano l'insediamento di
un cantiere edile»;
3) il
successivo 04/02/2015, un ulteriore sopralluogo aveva
riscontrato le medesime
circostanze;
4) soltanto in data 03/03/2015, erano risultati
apposti i cartelli di
cantiere, con esecuzione di lavori di sbancamento e
terrazzamento del costone.
5. In forza di tali considerazioni -che questo Collegio non
è autorizzato a
contestare, attenendo a profili fattuali, peraltro
consacrati in atti pubblici- il
Tribunale del riesame ha quindi concluso che le opere da
ultimo accertate erano
state poste in essere ben oltre il termine di un anno dal
rilascio della concessione
edilizia e, pertanto, non più assentite, integravano il fumus del reato di cui
all'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001
(atteso il carattere vincolato
dell'area).
Quel che, peraltro, priva di rilievo il primo
motivo di gravame, con il
quale si assume il difetto di motivazione con riguardo ai
documenti prodotti dalla
difesa in sede camerale; osserva la Corte, infatti, che la
rilevanza degli stessi è
stata implicitamente disattesa dalle affermazioni che
precedono, poiché giammai
idonei -quantomeno nella presente fase cautelare- a
superare gli esiti di
accertamenti compiuti da pubblici ufficiali, che avevano
riferito nei termini
suddetti.
E fermo restando, peraltro, che -per costante
indirizzo di legittimità,
qui da ribadire- la mera attività di indagine geotecnica
(di cui alla
documentazione allegata), quand'anche avvenuta, non potrebbe
comunque
costituire "inizio dei lavori" nell'ottica in esame (al
pari, peraltro, degli
sbancamenti di terreno poi accertati), occorrendo a tal fine
la compiuta
organizzazione del cantiere e la presenza di altri indizi
idonei a confermare
l'effettivo intendimento del titolare del permesso di
costruire di realizzare l'opera
assentita (per tutte, Sez. 3, n. 7114 del 27/01/2010, Viola, Rv. 246220: in
motivazione, la Corte ha precisato che detti indizi
consistono nell'impianto del
cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti,
nell'elevazione di muri e
nell'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle
fondazioni del costruendo
edificio).
6. Con riguardo, poi, al profilo della decadenza dal titolo
abilitativo,
strettamente connesso al precedente, rileva il Collegio che
la motivazione
dell'ordinanza risulta ancora congrua e tutt'altro che
assente o meramente
apparente.
Ed invero, ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del
2001, "Il termine
per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno
dal rilascio del titolo;
quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere
completata, non può
superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali
termini il permesso decade di
diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente
alla scadenza, venga
richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con
provvedimento
motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del
titolare del permesso,
oppure in considerazione della mole dell'opera da
realizzare, delle sue particolari
caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà
tecnico-esecutive emerse
successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si
tratti di opere pubbliche il
cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari".
Orbene, dalla lettera della norma -per come costantemente
interpretata da
questa Corte- deriva che il decorso del termine di
ultimazione dei lavori
comporta, se non prorogato, la decadenza di diritto del
permesso di costruire per
la parte ancora non eseguita, con conseguente
configurabilità del reato previsto
dall'art. 44, lett. b), del citato decreto, in caso di loro
prosecuzione oltre detto
termine (Sez. 3, n. 17971 dell'08/04/2010, Garofalo, Rv.
247161: in motivazione,
peraltro, la Corte ha precisato che, diversamente, un
provvedimento espresso e
motivato dell'Autorità amministrativa è richiesto per la
proroga del termine.
Negli
stessi termini, tra le altre, Sez. 3, n. 12316 del
21/02/2007, Minciarelli, Rv.
236336). E senza che, al riguardo, possa rilevare il diverso
indirizzo che il
Consiglio di Stato ha espresso con la decisione n. 4823 del
22/10/2015,
richiamata nel gravame, peraltro non pacifico neppure in
seno al medesimo
Consesso; ed invero, nella motivazione della stessa (resa,
all'evidenza, in
un'ottica diversa da quella in esame), si afferma -pur
aderendo all'indirizzo
citato- che il provvedimento di decadenza è «meramente
dichiarativo e con
efficacia ex tunc, qualunque sia l'epoca in cui è stato
adottato e quindi anche se
intervenuto molto tempo dopo che i termini in questione
erano inutilmente
decorsi, e ancorché i suoi effetti retroagiscano al momento
dell'evento estintivo».
7. In forza di quanto precede, dunque, il provvedimento
impugnato risulta
sostenuto da adeguata motivazione con riferimento al
contestato art. 44, comma
1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, sì da non poter esser
censurato nei termini
invocati; emerge sufficiente, infatti, il fumus di opere
eseguite in difetto di titolo
edilizio, poiché già decaduto. E senza che, pertanto, assuma
alcun rilievo la
doglianza -invero astrattamente fondata- con la quale si
contesta l'asserita illegittimità della concessione in esame
in forza del rapporto (individuato dal
Tribunale) tra le opere in oggetto, la loro destinazione ad
esser fruite dalla
collettività e la balneabilità del mare antistante;
trattasi, infatti, di un nesso che
pare sfuggire ai canoni della logica, ma che, proprio per
ciò, non integra una
violazione di legge contestabile in sede di legittimità.
8. Di seguito, con particolare riguardo alla condotta ex
art. 181, d.Lgs. n. 42
del 2004 (in ordine alla quale -alla luce della recente
sentenza della Corte
costituzionale n. 56 del 23/03/2016- dovrà peraltro esser
verificata la
configurabilità del primo o del secondo comma della norma,
con ogni
conseguente effetto), osserva il Collegio che l'ordinanza ne
ha riconosciuto il fumus ancora in ragione di una risultanza obiettiva, quale
il vincolo paesaggistico
gravante sull'area in oggetto; ciò, giusta decreto del
competente assessorato a
data 30/09/1998 (che aveva dichiarato il notevole interesse
pubblico della zona) e
Piano paesistico del 01.02.2012, che aveva inserito il
medesimo territorio sotto un
livello 3 di tutela.
In ragione del quale -giusta
valutazione operata dal Tribunale,
non sindacabile in questa sede poiché attinente a mero fatto- gli interventi
quale quello riscontrato non possono esser compiuti, in
quanto esclusi ai sensi
del punto 13g dello stesso Piano. E senza che, da parte di
questa Corte, possa
accogliersi il motivo proposto al riguardo dal Serra, che
imporrebbe un esame di
merito della tipologia dell'opera de qua ed il suo
inserimento -o meno- tra le
previsioni del punto 13g citato.
9. Del pari, con riguardo alla medesima contestazione,
osserva poi il Collegio
che l'ordinanza -ancora con solido percorso motivazionale-
ha confutato la tesi
per la quale l'autorizzazione paesaggistica, poiché
rilasciata prima
dell'approvazione del Piano, sarebbe risultata comunque
valida per i successivi
cinque anni, giusta art. 48 di quest'ultimo; ed invero, come
si legge
nell'ordinanza, al maturare del quinquennio dal 04/06/2009
nessun lavoro aveva
ancora avuto inizio sull'area in esame, come da plurimi
accertamenti compiuti, sì
che i successivi sbancamenti non erano risultati "coperti"
da alcun
provvedimento al riguardo.
Né, peraltro, può esser invocato
l'art. 146, comma 4,
d.lgs. n. 42 del 2004, a mente del quale "Il termine di
efficacia
dell'autorizzazione decorre dal giorno in cui acquista
efficacia il titolo edilizio
eventualmente necessario per la realizzazione
dell'intervento, a meno che il
ritardo in ordine al rilascio e alla conseguente efficacia
di quest'ultimo non sia
dipeso da circostanze imputabili all'interessato"; ed
invero, questa disposizione
"lega" cronologicamente i due provvedimenti sul presupposto
dall'effettiva
vigenza di quello urbanistico, da escludere nel caso di
specie -alla data di
esecuzione dello sbancamento- in ragione della maturata
decadenza, come ben
riconosciuta dal Tribunale del riesame
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.08.2016 n. 35243). |
EDILIZIA PRIVATA: La
diffida a demolire è atto presupposto dell'ordinanza di
demolizione, idoneo a ledere direttamente e immediatamente
il destinatario della sanzione ed, in quanto tale, è
immediatamente impugnabile con la conseguente
inammissibilità del ricorso proposto avverso l'ordine di
demolizione tutte le volte in cui le censure volte a
sostenere la regolarità del manufatto non siano state
tempestivamente dedotte con riferimento alla diffida.
---------------
SULLA PARZIALE INAMISSIBILITA’ E COMUNQUE IMPROCEDIBILITA’
DEL RICORSO INTRODUTTIVO
19. Il ricorso introduttivo risulta all’evidenza in parte
inammissibile, laddove, come evidenziato dalla difesa del
Comune, rivolto avverso un atto endoprocedimentale -ovvero
contro l’atto di comunicazione di avvio del procedimento di
rigetto delle istanze di condono prodotte da parte
ricorrente- privo pertanto di autonoma capacità lesiva.
19.1. Per contro tale ricorso risulta improcedibile laddove
rivolto contro la diffida non rinnovabile a demolire, ai
sensi dell’art. 35 D.P.R. 380/2001, trattandosi di atto che
seppure impugnabile in quanto dotato di autonoma capacità
lesiva [cfr. ex multis, TAR Piemonte, sez. I, 07.07.2009, n. 2005, e TAR Valle d'Aosta, 12.03.2008, n. 23,
TAR Abruzzo Pescara Sez. I, Sent., 14.01.2010, n. 23
secondo cui la diffida a demolire è atto presupposto
dell'ordinanza di demolizione, idoneo a ledere direttamente
e immediatamente il destinatario della sanzione ed, in
quanto tale, è immediatamente impugnabile con la conseguente
inammissibilità del ricorso proposto avverso l'ordine di
demolizione tutte le volte in cui le censure volte a
sostenere la regolarità del manufatto non siano state
tempestivamente dedotte con riferimento alla diffida (Cons.
St. sez. VI, 30.10.2007, n. 5689)] risulta superato dalla
successiva ordinanza di demolizione n. 441 del 2011 e
successivamente dall’ordinanza di demolizione n. 3288/2012,
avente natura, alla stregua di quanto di seguito indicato,
di provvedimento di conferma in senso proprio, dotato
pertanto di autonoma capacità lesiva
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Qualora l'Amministrazione, sulla scorta di una
rinnovata istruttoria e sulla base di una aggiornata
motivazione, dimostri di voler confermare la volizione
espressa in un precedente atto, il successivo provvedimento
si qualifica come atto del tutto nuovo, sia pure con effetto
confermativo, e non meramente confermativo.
Di conseguenza deve essere dichiarato improcedibile, per
sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto
avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia
stato sostituito dal provvedimento di conferma, innovativo e
dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica
del suo destinatario e, come tale, idoneo a rendere priva di
ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il
precedente provvedimento.
---------------
SULLA PARZIALE IMPROCEDIBILITA’ E SULL’INFONDATEZZA DEL
PRIMO RICORSO PER MOTIVI AGGIUNTI
20. Il primo ricorso per motivi aggiunti è rivolto contro un
atto a duplice valenza, in quanto avente ad oggetto sia il
diniego delle istanze di sanatoria ex l. 47/1985 ed ex lege
724/1994, prodotte da parte ricorrente, sia il consequenziale
ordine di demolizione delle opere in contestazione.
Si osserva al riguardo che l’ordine demolitorio de quo
risulta successivamente superato da quello contenuto
nell’ordinanza n. 32885/2012, oggetto di impugnazione con il
quinto ricorso per motivi aggiunti.
20.1 Ciò in quanto, come evidenziato sia dalla difesa del
Comune resistente che della controinteressata Be.Fl., tale ordinanza è stata adotta all’esito di apposita
istruttoria e di previo parere dell’Ufficio Legale in
relazione all’istanza di parte ricorrente tesa
all’applicazione della sanzione pecuniaria di cui all’art.
38 D.P.R. 380/2001 e pertanto assume la natura di atto di
conferma del precedente ordine demolitorio –a valenza provvedimentale– e non di atto meramente confermativo.
20.2. Per contro l’ordinanza n. 32885/2012 non contiene
alcun riesame in ordine alle istanze di condono prodotte da
parte ricorrente (oggetto di decisione con la precedente
ordinanza n. 441 del 2011, sul punto meramente richiamata
nell’ordinanza n. 32885/2012).
20.3. Alla stregua di tali rilievi, il primo ricorso per
motivi aggiunti va esaminato solo in relazione a quelle
censure volte a contestare il diniego di condono, ovvero
quella parte dell’ordinanza n. 441/2011 che non risulta
superata dalla successiva ordinanza n. 32885/2012 (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. III, 09/07/2014, n. 3491)
secondo cui “Qualora l'Amministrazione, sulla scorta di una
rinnovata istruttoria e sulla base di una aggiornata
motivazione, dimostri di voler confermare la volizione
espressa in un precedente atto, il successivo provvedimento
si qualifica come atto del tutto nuovo, sia pure con effetto
confermativo, e non meramente confermativo; di conseguenza
deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta
carenza di interesse, il ricorso diretto avverso il
provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato
sostituito dal provvedimento di conferma, innovativo e
dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica
del suo destinatario e, come tale, idoneo a rendere priva di
ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il
precedente provvedimento”
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Vanno
considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con
un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla
rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie,
posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco)
non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è
destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel
tempo.
La "precarietà" dell'opera, che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico
e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità,
la quale non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti,
ma permanenti nel tempo.
Non possono essere considerati manufatti destinati a
soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a
un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante.
E’ illegittima la deliberazione del Consiglio comunale con
la quale gli uffici sono stati autorizzati ad assentire un
ampliamento di un chiosco-bar già esistente (per
un’estensione di circa 12 mq.), presente in una pineta,
trasformandolo in una grande struttura di circa 120 mq.,
atteso che tale intervento, per le sue caratteristiche
tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del
regime temporale della relativa utilizzazione è
riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del
comma 1 dell'articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001 (a tenore del
quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le
installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere che siano usati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, "e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee").
In tal caso, quindi,
l’intervento in questione deve essere qualificato come
‘nuova costruzione’, ai sensi del d.P.R. 380 del 2001, a
nulla rilevando che il chiosco-bar venga smontato nel corso
dell'anno per alcuni mesi.
---------------
SULL’INAMISSIBILITA’ DEL SECONDO E TERZO RICORSO PER MOTIVI
AGGIUNTI E COMUNQUE SULLA LORO IMPROCEDIBILITA’
22. Inammissibili sono poi il secondo e il terzo ricorso per
motivi aggiunti, non tanto per il rilievo indicato dalla
difesa del Comune, secondo cui essi avrebbero ad oggetto
atti non immediatamente lesivi in quanto di carattere
endoprocedimentale (ovvero la nota prot. n. 5683 del
28/02/2012 del Comandante della Capitaneria di Porto di
Castellamare di Stabia con la quale si attesta come le opere
di cui è causa facenti parte delle stabilimento balneare
marittimo sono classificabili fra quelle di facile rimozione
di cui alle Circolari del Ministero Infrastrutture e
Trasporti n. 120 del 24/05/2011 e n. 22 del 25/02/2009, e la
nota prot. 13659/03 04 02 alle. 2 del 22.05.2012
adottata dal Comandante della Capitaneria di Porto di
Castellamare di Stabia avene ad oggetto “richiesta
attestazione inerente l’insistenza di opere sul pubblico
demanio marittimo”) ma per la ragione che parte ricorrente
ha utilizzato tali atti per produrre –tardivamente– nuove
censure avverso gli atti già gravati e segnatamente avverso
l’ordinanza n. 441 del 2011, deducendo, con il secondo
ricorso per motivi aggiunti la non necessità di concessione
edilizia per le opere de quibus, venendo in rilievo
strutture facilmente amovibili, non necessitanti di
concessione edilizia -ora permesso di costruire– e con il
terzo ricorso per motivi aggiunti l’incompetenza del Comune
ad emettere l’ordine demolitorio, in considerazione della
competenza in materia della Capitaneria di Porto, ai sensi
dell’art. 54 cod. nav.
22.1 Pertanto si deve ritenere che parte ricorrente abbia
voluto formulare non i motivi aggiunti di nuovo conio,
introdotti nel sistema processualamministrativo della l.
205/2000, relativi alla successiva emanazione di atti
connessi con quello già oggetto di impugnativa e parimenti
lesivi, ma i motivi aggiunti di risalente struttura
processuale, individuati dalla giurisprudenza in relazione
alla formulazione di nuove censure avverso gli atti già
impugnati con il ricorso introduttivo, in considerazione del
successivo deposito di documenti non conosciuti, da cui
fosse possibile desumere l’esistenza di altri vizi del
provvedimento impugnato (quando ad es. l’incompleta
conoscenza del compendio provvedimentale lesivo per
l’interessato non permettesse, entro la scadenza del termine
per ricorrere, di aprire per intero il ventaglio delle
censure impugnatorie e solo una successiva evenienza
conoscitiva -ad es. comunicazione del testo della
motivazione di un provvedimento già conosciuto solo nel
dispositivo o comunque solo parzialmente, acquisizione di un
atto-presupposto di quello impugnato, ecc.- con la concessa
possibilità di riaprire con un secondo termine di ricorso la
possibilità-onere della formulazione di altri motivi di
ricorso prima non dedotti perché prima non deducibili; cfr
ora art. 43 cp.a. secondo cui “I ricorrenti, principale e
incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove
ragioni a sostegno delle domande già proposte”).
22.2. Risulta peraltro all’evidenza come non ricorrano
nell’ipotesi di specie i presupposti per la proposizione di
motivi aggiunti di tal genere, avendo il ricorrente
utilizzato, ai fini della proposizione di censure tardive,
atti posteriori, relativi ad una successiva attività
amministrativa, che giammai potevano esimerlo dalla
proposizione nei termini decadenziali delle relative
censure, salva migliore articolazione a mezzo di motivi
aggiunti.
22.2.1. In particolare, la tardività della censura articolata
nel terzo ricorso per motivi aggiunti in ordine
all’incompetenza del Comune per risiedere la struttura per
cui è lite su demanio marittimo, si evince altresì dal fatto
che trattavasi di circostanza già nota a parte ricorrente,
come desumibile peraltro dal fatto che il Comune ha fatto
applicazione del disposto dell’art. 35 D.P.R. 380/2001 e non
dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, nonché da quanto statuito nella
sentenza di questa Sezione n. 10358/2004 e nella sentenza
del Consiglio di Stato n. 813/2011.
22.3. In ogni caso, al di là di tali assorbenti rilievi, in
ordine all’inammissibilità, detti ricorsi per motivi
aggiunti, in quanto rivolti ulteriormente a censurare
l’ordinanza n. 441/2011, nella parte in cui dispone la
demolizione della struttura de qua, oggetto di impugnativa
con il primo ricorso per motivi aggiunti, non possono non
risentire dell’improcedibilità in parte qua di tale ricorso,
per essere stato superato, quanto all’ordine demolitorio,
dall’emanazione della successiva ordinanza nr. 32885/2012,
oggetto di impugnazione con il quinto ricorso per motivi
aggiunti, secondo quanto innanzi precisato.
22.4. Solo per esigenze di mera completezza si evidenzia
peraltro come entrambe le censure articolate in tali ricorsi
per motivi aggiunti siano infondate, rinviando per quanto
concerne la censura di incompetenza del Comune, al paragrafo
relativo alla disamina del sesto ricorso per motivi
aggiunti, e per quanto concerne la precarietà della
struttura, a quanto ritenuto dal Consiglio di Stato con la
sentenza n. 813/2011 in ordine al carattere stabile e non
precario della medesima e in ordine pertanto alla sua totale
abusività, stante l’illegittimità dell’ordinanza sindacale
n. 201/1997.
22.4.1. Peraltro l’assunto di parte ricorrente contrasta con
il costante orientamento giurisprudenziale circa la
necessità del rilascio del permesso di costruire in
relazione a manufatti destinati a soddisfare esigenze
durevoli nel tempo (Cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez.
VI - sentenza 03.06.2014 n. 2842 secondo cui “Vanno
considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con
un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla
rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie,
posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco)
non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è
destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel
tempo.
La "precarietà" dell'opera, che esonera dall'obbligo del
possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico
e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità,
la quale non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti,
ma permanenti nel tempo.
Non possono essere considerati manufatti destinati a
soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a
un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché
l'alterazione del territorio non può essere considerata
temporanea, precaria o irrilevante.
E’ illegittima la deliberazione del Consiglio comunale con
la quale gli uffici sono stati autorizzati ad assentire un
ampliamento di un chiosco-bar già esistente (per
un’estensione di circa 12 mq.), presente in una pineta,
trasformandolo in una grande struttura di circa 120 mq.,
atteso che tale intervento, per le sue caratteristiche
tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del
regime temporale della relativa utilizzazione è
riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del
comma 1 dell'articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001 (a tenore del
quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le
installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere che siano usati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, "e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee").
In tal caso, quindi,
l’intervento in questione deve essere qualificato come
‘nuova costruzione’, ai sensi del d.P.R. 380 del 2001, a
nulla rilevando che il chiosco-bar venga smontato nel corso
dell'anno per alcuni mesi”)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Non è possibile applicare il disposto sanante
dell’art. 38 del D.P.R assimilabile -secondo lo
stesso dettato normativo- al provvedimento di concessione
edilizia in sanatoria di cui all’art. 36 del D.P.R. 380/2001,
alle opere costruite su suolo demaniale, rispetto al quale
l’art. 35 del D.P.R. 380/2001 non contempla alcuna ipotesi
alternativa alla demolizione.
Afferma la norma summenzionata: “1. In caso di annullamento
del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in
base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle
procedure amministrative o la restituzione in pristino, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle
opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato
dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi
stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La
valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal
dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene
definitiva decorsi i termini di impugnativa.
2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria
irrogata produce i medesimi effetti del permesso di
costruire in sanatoria di cui all'articolo 36.
2-bis. Le
disposizioni del presente articolo si applicano anche agli
interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, in caso
di accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la
formazione del titolo".
Come già evidenziato dalla Sezione nel precedente richiamato
nel gravato provvedimento “l’art. 14 l. n. 47/1985, al pari
dell'analogo disposto dell'art. 35 d.lgs. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia), con riferimento a tutte le opere realizzate sine titulo su aree e terreni di proprietà pubblica (Stati o
Enti Pubblici in genere) prevede come unico provvedimento
sanzionatorio -salvo che per quelli realizzati dai soggetti
di cui rispettivamente all'art. 5 della legge n. 47/1985 e
dell'art. 28 D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia)- l'adozione
dell'ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato
dei luoghi. L'ordinanza di demolizione e di ripristino se,
da un lato, si configura come unico e doveroso provvedimento
sanzionatorio, dall'altro, costituisce circostanza idonea ad
escludere in radice non solo ogni possibilità di sanatoria,
ma anche la stessa sussistenza dell'obbligo di provvedere su
tale istanza, in quanto manifestamente inammissibile e
infondata”.
Pertanto in relazione all’edificazione contra legem su suolo
di proprietà pubblica la sanzione demolitoria (vale
sottolinearlo) è l’unica applicabile, stante il regime
pubblicistico del suolo.
---------------
L’art. 38 del D.P.R. 380/2001, al pari degli esaminati
disposti dell’art. 31, comma 1, lett. b), e 35, comma, 2 l.
47/1985, è volto a tutelare, come evidenziato nell’atto
gravato, l’affidamento del soggetto che abbia edificato in
virtù di titolo edilizio solo successivamente annullato.
Detto disposto normativo pertanto non può trovare
applicazione nell’ipotesi di specie, in quanto, secondo
quanto innanzi accennato, le opere di cui è causa sono state
realizzate ab initio “sine titulo”, rilasciato solo
successivamente ed implicitamente a sanatoria con
l’ordinanza n. 201 del 1997 –successivamente annullata in
sede giurisdizionale- per cui difettano nell’ipotesi di
specie i presupposti per la tutela dell’affidamento
dell’istante.
Invero, “L'affidamento del privato a poter conservare
l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio
successivamente annullato non é tutelato in via generale ma
é rimesso alla discrezionalità del legislatore, al quale
compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale
commutabilità della sanzione demolitoria in quella
pecuniaria (art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un
regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto
con l'art. 39, l. n. 724 del 1994; ne consegue che, in
difetto di una espressa previsione legislativa, la posizione
di colui che abbia realizzato l'opera edilizia sulla base di
un titolo annullato non si differenzia dagli altri soggetti
che hanno invece realizzato l'opera abusiva senza titolo”).
Né alcun rilievo ha la circostanza dedotta da parte
ricorrente secondo cui nell’ipotesi di specie non sarebbe
ravvisabile il reato di abusiva occupazione demaniale
–avente natura permanente- essendo state le opere realizzate
in forza di concessione demaniale, in quanto, come più volte
evidenziato dalla Sezione, ciò che è stata sanzionata con
l’ordinanza gravata non è l’assenza di titolo concessorio,
ma l’assenza di titolo edilizio.
Alla stregua di tali rilievi, stante la doverosità della
demolizione in relazione all’edificazione sine titulo su
suolo di proprietà pubblica, del tutto irrilevanti si
profilano le deduzioni di parte ricorrente circa la
difficoltà e dannosità della demolizione in danno, in quanto
l’impossibilità del ripristino richiesto dall’art. 38 D.P.R.
è elemento da solo non sufficiente per l’operatività della
norma, come detto non applicabile qualora l’opera sia stata
edificata ab initio sine titulo (non essendovi alcuna
affidamento da tutelare) e su suolo di proprietà pubblica.
---------------
SULL’INFONDATEZZA DEL QUINTO RICORSO PER MOTIVI AGGIUNTI
24. Del tutto destituite di fondamento sono le censure
articolate nel quinto ricorso per motivi aggiunti, avente ad
oggetto l’atto di diniego dell’istanza ex art. 38 D.P.R.
380/2001 e il conseguente ordine demolitorio, relative al
difetto di istruttoria e di motivazione in ordine
all’applicazione del disposto di cui all’art. 38 D.P.R.
380/2001.
24.1. Parte ricorrente deduce al riguardo che nell’ipotesi di
specie ricorrevano tutti i presupposti per l’applicazione
della sanzione pecuniaria in luogo della demolitoria, avuto
riguardo alla circostanza che egli disponeva di titolo
edilizio, poi oggetto di annullamento, nonché alla
circostanza che la demolizione in danno delle opere di cui è
causa si presenterebbe pericolosa in relazione ai rischi di
erosione del litorale, nonché in relazione ai danni
arrecabili ai reperti archeologici siti nel sottosuolo, ed
al contesto ambientale di rilievo comunitario.
Assume in ogni caso l’illegittimità del provvedimento
demolitorio, in quanto relativo all’intera struttura,
nonostante la pedana in legno fosse stata realizzata in data
antecedente il 01/09/1997, con il parere favorevole della
Soprintendenza.
24.2. Le censure non sono meritevoli di accoglimento in
primo luogo in quanto non è possibile applicare il disposto
sanante dell’art. 38 del D.P.R assimilabile -secondo lo
stesso dettato normativo- al provvedimento di concessione
edilizia in sanatoria di cui all’art. 36 del D.P.R. 380/2001,
alle opere costruite su suolo demaniale, rispetto al quale
l’art. 35 del D.P.R. 380/2001 non contempla alcuna ipotesi
alternativa alla demolizione, come evidenziato
nell’ordinanza gravata con rinvio alla motivazione della
nota del Servizio Affari legale prot. n. 30751 del 2012.
Afferma la norma summenzionata: “1. In caso di annullamento
del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in
base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle
procedure amministrative o la restituzione in pristino, il
dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale
applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle
opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato
dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi
stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La
valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal
dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene
definitiva decorsi i termini di impugnativa.
2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria
irrogata produce i medesimi effetti del permesso di
costruire in sanatoria di cui all'articolo 36.
2-bis. Le
disposizioni del presente articolo si applicano anche agli
interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, in caso
di accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la
formazione del titolo".
Come già evidenziato dalla Sezione nel precedente richiamato
nel gravato provvedimento “l’art. 14 l. n. 47/1985, al pari
dell'analogo disposto dell'art. 35 d.lgs. n. 380 del 2001
(T.U. Edilizia), con riferimento a tutte le opere realizzate sine titulo su aree e terreni di proprietà pubblica (Stati o
Enti Pubblici in genere) prevede come unico provvedimento
sanzionatorio -salvo che per quelli realizzati dai soggetti
di cui rispettivamente all'art. 5 della legge n. 47/1985 e
dell'art. 28 D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia)- l'adozione
dell'ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato
dei luoghi. L'ordinanza di demolizione e di ripristino se,
da un lato, si configura come unico e doveroso provvedimento
sanzionatorio, dall'altro, costituisce circostanza idonea ad
escludere in radice non solo ogni possibilità di sanatoria,
ma anche la stessa sussistenza dell'obbligo di provvedere su
tale istanza, in quanto manifestamente inammissibile e
infondata” TAR Campania Napoli Sez. VII, 22.03.2012, n.
1445; TAR Puglia Bari, sez. III, 18.10.2010, n.
3675).
Pertanto in relazione all’edificazione contra legem su suolo
di proprietà pubblica la sanzione demolitoria (vale
sottolinearlo) è l’unica applicabile, stante il regime
pubblicistico del suolo (TAR Sicilia, Palermo, sez. II.
Sent. 2418/2011, precedente del pari richiamato nella
gravata ordinanza).
24.3. In secondo luogo in quanto l’art. 38 del D.P.R.
380/2001, al pari degli esaminati disposti dell’art. 31, comma
1, lett. b), e 35, comma, 2 l. 47/1985, è volto a tutelare, come
evidenziato nell’atto gravato, l’affidamento del soggetto
che abbia edificato in virtù di titolo edilizio solo
successivamente annullato.
Detto disposto normativo pertanto non può trovare
applicazione nell’ipotesi di specie, in quanto, secondo
quanto innanzi accennato, le opere di cui è causa sono state
realizzate ab initio “sine titulo”, rilasciato solo
successivamente ed implicitamente a sanatoria con
l’ordinanza n. 201 del 1997 –successivamente annullata in
sede giurisdizionale- per cui difettano nell’ipotesi di
specie i presupposti per la tutela dell’affidamento
dell’istante (cfr. al riguardo ex multis Consiglio di Stato
Sez. IV, sent. n. 4770 del 10.08.2011, secondo cui
“L'affidamento del privato a poter conservare l'opera
realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente
annullato non é tutelato in via generale ma é rimesso alla
discrezionalità del legislatore, al quale compete emanare
norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità
della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (art. 38
d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede
di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724
del 1994; ne consegue che, in difetto di una espressa
previsione legislativa, la posizione di colui che abbia
realizzato l'opera edilizia sulla base di un titolo
annullato non si differenzia dagli altri soggetti che hanno
invece realizzato l'opera abusiva senza titolo”).
24.4. Né alcun rilievo ha la circostanza dedotta da parte
ricorrente secondo cui -come evidenziato dal G.I.P. di
Torre Annunziata- nell’ipotesi di specie non sarebbe
ravvisabile il reato di abusiva occupazione demaniale –avente natura permanente- essendo state le opere realizzate
in forza di concessione demaniale, in quanto, come più volte
evidenziato dalla Sezione, ciò che è stata sanzionata con
l’ordinanza gravata non è l’assenza di titolo concessorio,
ma l’assenza di titolo edilizio (cfr. al riguardo sul
contenzioso in oggetto, relativamente alla parallela
procedura di ottemperanza all’esecuzione in danno di cui
alla sentenza n. 3610/2012, la sentenza di questa Sezione n.
2224/2014, secondo la quale “infatti, come correttamente
chiarito in detta nota è pacifico che tutte le pronunce
citate in premessa e alle quali il commissario ad acta deve
dare esecuzione riguardano unicamente ed esclusivamente
l’esercizio delle funzioni repressive dal punto di vista
edilizio e non involgono, né avrebbero potuto o dovuto
involgere, anche la concessione demaniale rilasciata al sig.
Ai., atteso che si tratta di titolo del tutto estraneo al
contenzioso edilizio e che non ha alcuna incidenza sullo
stesso, a maggior ragione nella fase esecutiva”).
24.5. Alla stregua di tali rilievi, stante la doverosità
della demolizione in relazione all’edificazione sine titulo
su suolo di proprietà pubblica, del tutto irrilevanti si
profilano le deduzioni di parte ricorrente circa la
difficoltà e dannosità della demolizione in danno, in quanto
l’impossibilità del ripristino richiesto dall’art. 38 D.P.R.
è elemento da solo non sufficiente per l’operatività della
norma, come detto non applicabile qualora l’opera sia stata
edificata ab initio sine titulo (non essendovi alcuna
affidamento da tutelare) e su suolo di proprietà pubblica.
Peraltro deve osservarsi che le deduzioni di parte
ricorrente sono del tutto generiche e non supportate da
alcun valido principio di prova
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Al fine di valutare la portata di un intervento
edilizio complesso, costituito da una pluralità di opere
deve effettuarsi una valutazione globale e non atomistica
delle stesse.
Invero, “Nel verificare un intervento
edilizio consistente in una pluralità di opere deve
necessariamente effettuarsi una valutazione globale delle
stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprendere l'effettiva portata
dell'operazione; di conseguenza, in presenza di un abuso di
notevoli dimensioni, composto da diverse opere l'una
funzionale all'altra, si è in realtà in presenza di un'unica
attività di trasformazione urbanistica, per la quale è
necessario il permesso di costruire, senza possibilità di
scomporre una parte per sostenerne l'assoggettabilità a d.i.a.”.
---------------
SULL’INFONDATEZZA DEL QUINTO RICORSO PER MOTIVI AGGIUNTI
...
24.6. Del pari infondata è la deduzione di parte ricorrente,
secondo la quale l’ordinanza de qua sarebbe illegittima
nella parte in cui dispone la demolizione dell’intera
struttura nonostante la pedana in legno fosse antecedente al
settembre del 1967 e fosse stata autorizzata dalla
Soprintendenza.
Ciò per un duplice rilievo.
24.6.1. In primo luogo in quanto detto parere aveva ad
oggetto una struttura del tutto precaria, mentre come
evidenziato dal Consiglio di Stato con la sentenza n.
813/2011, parte ricorrente ha poi realizzato una struttura
stabile da ritenersi totalmente abusiva, per cui alcun
rilievo potevano avere le pregresse autorizzazione
paesaggistiche.
24.6.2. In secondo luogo in quanto, secondo il costante
orientamento giurisprudenziale, condiviso dalla Sezione, al
fine di valutare la portata di un intervento edilizio
complesso, costituito da una pluralità di opere deve
effettuarsi una valutazione globale e non atomistica delle
stesse (ex multis da ultimo TAR Torino (Piemonte) sez. II,
09/05/2014, n. 825 secondo cui “Nel verificare un intervento
edilizio consistente in una pluralità di opere deve
necessariamente effettuarsi una valutazione globale delle
stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli
interventi non consente di comprendere l'effettiva portata
dell'operazione; di conseguenza, in presenza di un abuso di
notevoli dimensioni, composto da diverse opere l'una
funzionale all'altra, si è in realtà in presenza di un'unica
attività di trasformazione urbanistica, per la quale è
necessario il permesso di costruire, senza possibilità di
scomporre una parte per sostenerne l'assoggettabilità a d.i.a.”; in senso analogo TAR Campania, Napoli, sez. VI, n.
7053 del 2009, nn. 1155, 1993 e 26787 del 2010 e nn. 1041 e
5837 del 2013; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 584 del
2010; TAR Piemonte, sez. II, n. 143 del 2012; TAR Valle
d'Aosta, n. 75 del 2010)
(TAR Campania-Napoli, Sez. VII,
sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La valutazione dell’incidenza
urbanistico-edilizia dell’intervento abusivamente realizzato
deve essere condotta avuto riguardo alla globalità delle
opere, che non possono essere considerate in modo
atomistico.
----------------
Analogamente infondato appare, quindi, il secondo motivo di
ricorso, poiché l’abuso edilizio deve essere valutato nel
suo complesso e non in modo atomistico, sicché non sarebbe
possibile, come auspicato dalla ricorrente, che
l’amministrazione scorpori la parte dell’abuso ricadente in
zona edificabile da quella ricadente in area agricola, onde
sanarne almeno una parte.
Più in generale, va ribadito che la valutazione
dell’incidenza urbanistico-edilizia dell’intervento
abusivamente realizzato deve essere condotta avuto riguardo
alla globalità delle opere, che non possono essere
considerate in modo atomistico (cfr. in tal senso, Consiglio
di Stato, VI, 06.06.2012 n. 3330; TAR Lombardia, Milano, II, 24/07/2012 n. 2058).
In tal senso, la pur succinta motivazione –riportata nella
parte in fatto– addotta dall’amministrazione a supporto del
diniego di sanatoria, è comunque idonea a rappresentare le
ragioni del diniego stesso, atteso che, da un lato, si è in
presenza di un’attività vincolata dell’amministrazione,
scandita dal chiaro disposto dell’art. 36 d.P.R. n.
380/2001; e, dall’altro, l’abuso deve essere, per le ragioni
anzidette, valutato in termini unitari.
Ne discende che, insistendo una parte dell’abuso edilizio
per cui è causa in zona agricola inedificabile, è evidente
la mancanza, nel caso concreto, del presupposto della cd.
doppia conformità, a cui l’articolo da ultimo citato àncora
il rilascio del permesso in sanatoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 18.09.2013 n. 2178 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La trasformazione di una copertura in terrazzo praticabile
costituisce variazione essenziale ai sensi dell’art. 8 della
l. 47/1985, come sostituito in Sicilia dall’art. 4 della L.R.
37/1985, se determina aumento della superficie utile in misura
superiore al 10% di quella originaria. In sé, la modifica
della mera copertura a lastrico in terrazza aumenta la
superficie “utile” dell’immobile, perché trasforma la natura
prevalentemente di protezione del fabbricato che è propria
del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente
alla fruizione umana, per affaccio e sosta.
La dottrina, infatti, suole distinguere il lastrico dalla
terrazza, perché il lastrico è una forma di copertura
dell’edificio, sostituente il tetto, non destinato in sé,
come invece la terrazza, ad una particolare forma di
fruizione umana o di godimento a favore di chi ne è
proprietario. Per questo, mentre per la terrazza è
concepibile una copertura, il lastrico è sempre scoperto;
quest’ultimo, tipologicamente, si distingue dalla terrazza
perché mancano le opere di ornamento e fruizione tipiche
della utilizzazione umana, come parapetti, pavimentazione,
porte di accesso, muretti divisori e solai sottostanti,
impermeabilizzazione, gronde, giardini pensili, arredi e
così via.
In altri termini, la copertura del fabbricato, di per sé, è
area fabbricabile (alle condizioni e nei limiti previsti
dallo strumento urbanistico) e dunque anche la costruzione
di una terrazza rientra nella nozione di opera edilizia che
è subordinata a permesso di costruire tutte le volte che
implichi una permanente trasformazione del suolo inedificato
(Cass. Civ. III, 27.01.2004, che ha ritenuto soggetta a
permesso di costruire la realizzazione di un parcheggio in
area precedentemente agricola mediante la semplice
apposizione di ghiaia), pure in assenza di opere in muratura,
purché finalizzate ad una trasformazione dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarla ad
un impiego diverso da quello originario in relazione alla
natura e qualificazione giuridica.
---------------
III) Quanto al merito delle domande introdotte con il
ricorso e con i motivi aggiunti, si deve osservare che
decisivo, ai fini della soluzione della questione posta alla
decisione del Collegio, è l’accertamento della natura della
copertura del fabbricato dei ricorrenti.
La verificazione ha concluso, sul punto, che la copertura
del fabbricato è stata trasformata in terrazzo dopo la
originaria licenza edilizia del 1973; nella relazione
tecnica che accompagna il progetto di manutenzione
straordinaria del 2001, non si fa esplicito riferimento alla
trasformazione del lastrico in terrazzo, posto che si
considera quest’ultimo come già esistente.
Vanno pertanto distinte due diverse problematiche: la
trasformazione o realizzazione del terrazzo e la copertura
di parte di esso con una struttura permanente, sia pure
realizzata in materiali di facile rimozione, almeno in
parte.
La trasformazione di una copertura in terrazzo praticabile
costituisce variazione essenziale ai sensi dell’art. 8 della
l. 47/1985, come sostituito in Sicilia dall’art. 4 della L.R.
37/1985, se determina aumento della superficie utile in misura
superiore al 10% di quella originaria. In sé, la modifica
della mera copertura a lastrico in terrazza aumenta la
superficie “utile” dell’immobile, perché trasforma la natura
prevalentemente di protezione del fabbricato che è propria
del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente
alla fruizione umana, per affaccio e sosta.
La dottrina, infatti, suole distinguere il lastrico dalla
terrazza, perché il lastrico è una forma di copertura
dell’edificio, sostituente il tetto, non destinato in sé,
come invece la terrazza, ad una particolare forma di
fruizione umana o di godimento a favore di chi ne è
proprietario. Per questo, mentre per la terrazza è
concepibile una copertura, il lastrico è sempre scoperto;
quest’ultimo, tipologicamente, si distingue dalla terrazza
perché mancano le opere di ornamento e fruizione tipiche
della utilizzazione umana, come parapetti, pavimentazione,
porte di accesso, muretti divisori e solai sottostanti,
impermeabilizzazione, gronde, giardini pensili, arredi e
così via.
In altri termini, la copertura del fabbricato, di per sé, è
area fabbricabile (alle condizioni e nei limiti previsti
dallo strumento urbanistico) e dunque anche la costruzione
di una terrazza rientra nella nozione di opera edilizia che
è subordinata a permesso di costruire tutte le volte che
implichi una permanente trasformazione del suolo inedificato
(Cass. Civ. III, 27.01.2004, che ha ritenuto soggetta a
permesso di costruire la realizzazione di un parcheggio in
area precedentemente agricola mediante la semplice
apposizione di ghiaia; cfr. anche Consiglio di Stato, V, 10.07.2003, nr. 4107), pure in assenza di opere in muratura
(Consiglio di Stato, V, 21.10.2003, nr. 6519), purché
finalizzate ad una trasformazione dello stato materiale e
della conformazione del suolo per adattarla ad un impiego
diverso da quello originario in relazione alla natura e
qualificazione giuridica (Consiglio di Stato, V 31.01.2001, nr. 343).
Ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 8
citato, inoltre, l’aumento della superficie utile, nella
fattispecie in esame, supera pacificamente il 10% di quella
originaria, come si evince dall’esame degli elaborati
tecnici allegati al progetto ed acquisiti agli atti del
giudizio.
La differenza urbanistica tra semplice copertura-lastrico
solare e terrazzo (che implica la modifica della condizione
naturale e della qualificazione giuridica dell’area) si
evince, in Sicilia, anche dalla esistenza di uno specifico
regime per le terrazze, dato dalle disposizioni di cui
all’art. 20 della L.R. 4/2003 che autorizza la realizzazione
di verande e chiusure di terrazze di collegamento o terrazze
di copertura di superficie compresa entro i 50 mq, con una
procedura semplificata e che, essendo norma speciale
rispetto all’ordinario regime edilizio, va intesa
restrittivamente, applicandosi dunque solamente alle
terrazze e non alle semplici coperture.
Pertanto, la trasformazione di una copertura di edificio da
lastrico solare a terrazza, in Sicilia, richiede la
concessione edilizia, in quanto variazione essenziale, ai
sensi dell’art. 8 della l. 47/1985 ed in quanto muta la
funzione urbanistica della copertura medesima, da elemento
prevalentemente di copertura ad elemento strutturale
finalizzato parimenti alla fruizione umana, rendendola, come
tale, atta all’applicazione della normativa in tema di
procedimento semplificato per l’autorizzazione alla
copertura delle terrazze, ex art. 20 L.R. 4/2003.
Ciò premesso, i lavori, nella relazione tecnica sottoscritta
il 30.05.2001, sono così descritti: “sul terrazzo sarà
realizzato un piccolo lanternino con struttura precaria in
profilati di alluminio e vetri per la protezione del nuovo
sbarco scala, un parapetto in parte in muratura ed in parte
in ferro, infine sarà rifatta la pavimentazione con marmette
di graniglia compresa l’idonea impermeabilizzazione con
guaina asfaltica di tutta la superficie del terrazzo”.
La suddetta tipologia di opere sarà, dunque, da ascriversi
nel novero dei lavori soggetti a concessione edilizia e non
a semplice autorizzazione, laddove risulti che non
preesisteva una terrazza, ossia una superficie
ordinariamente calpestabile ed atta alla sosta ed al
passaggio, secondo l’uso edilizio comune.
Nella medesima relazione si legge, nella parte iniziale ove
è descritto lo stato dei luoghi, che una scala in ferro
conduce “al terrazzo soprastante praticabile”.
La verificazione ha permesso di riscontrare che la
realizzazione del terrazzo non era prevista nella originaria
licenza edilizia: in effetti, la relazione tecnica del 05.07.1972 non fa alcun riferimento alla natura della
copertura del fabbricato, sebbene il verificatore abbia
accertato che i calcoli statici furono realizzati tenendo
presente la calpestabilità della copertura. Tale circostanza
non è di per sé indicativa della previsione di una
utilizzazione della copertura a terrazza, posto che
quest’ultima va tecnicamente realizzata con apposite
lavorazioni (specie in ordine al trattamento dei pavimenti e
della impermeabilizzazione) tanto che, nella relazione
tecnica del progetto del 2001 si prevede la “realizzazione”
di parapetti e non la loro “sostituzione”; in punto di
fatto, nell’accertamento del 06.11.2002, il tecnico comunale
Ing. Fo. rileva che, a quella data, è stato “realizzato” un
parapetto.
In altri termini, sia la mancanza di una previsione iniziale
di utilizzazione della copertura a terrazza; sia la natura
dei lavori oggetto dell’autorizzazione del 2001, e la natura
dei luoghi e della distribuzione degli spazi, non consentono
altro che ritenere che, sul punto, il ricorso della sig.ra
Ce. è fondato, perché l’autorizzazione del 2001 ha, in
pratica, assentito la realizzazione da parte della
controinteressata della copertura a terrazza, che avrebbe
dovuto essere, invece, oggetto di concessione edilizia.
D’altronde, la controinteressata nessuna prova ha offerto
della eventuale preesistenza della terrazza (ad esempio,
perché realizzata dai precedenti proprietari o comunque in
tempi anteriori), non essendo sufficiente a tale scopo la
mera indicazione contenuta nella relazione tecnica del
progetto del 2001, che il terrazzo soprastante era
“praticabile”, non accompagnata da alcun serio riscontro,
progettuale prima di tutto, della sussistenza del requisito
della “praticabilità” della copertura o della esistenza di
un terrazzo.
Di per sé, infatti, la praticabilità della copertura,
assicurata da un collegamento mediante scala in ferro
esterna, non implica la sua fruibilità come terrazzo,
dovendo essere accessibile anche una copertura a lastrico ai
fini della sua manutenzione.
Un ulteriore indicatore in tal senso è dato, sempre con
riferimento al progetto del 2001, dalla revisione degli
spazi interni: è indicativa in tal senso soprattutto la
differente ed armonica previsione di una unica scala a
chiocciola che unifica i piani tra loro, e consente anche il
semplice ed agevole collegamento con il terrazzo, in luogo
della evidentemente meno agevole scala in ferro all’aperto
che risulta rappresentata nei grafici di progetto (sempre
del 2001) come collegante il terrazzino del primo piano con
la copertura.
Questa scelta architettonica e la relativa nuova
disposizione degli spazi e dei supporti a servizio è
logicamente funzionale ad un mutato contesto di
utilizzazione della copertura, che adesso è ordinariamente
aperta alla fruibilità tipica di un terrazzo (che viene
assistita anche da un ampliamento del locale di sbarco della
scala), laddove la precedente scala in ferro esterna,
invece, realizzando un collegamento evidentemente disagevole
tra il terrazzo a livello del primo piano e la copertura del
secondo piano implicava una destinazione di quest’ultima
all’ uso umano episodica o comunque non frequente, ossia
occasionale.
Quanto alla realizzazione del lanternino che accoglie lo
sbarco della scala a chiocciola, si deve ritenere quanto
segue.
Mentre nel progetto del 2001 si prevedeva una semplice
“copertura” dello sbarco, in materiale precario, nella sua
realizzazione concreta il Comune ha accertato che tale
copertura si è estesa, ampliandosi sia per superficie che
per tipologia di lavorazione (in parte in muratura) fino a
coprire l’intera porzione di terrazzo nella quale sbarca la
scala a chiocciola.
Secondo la controinteressata, tale manufatto, per tipologia
e destinazione d’uso, è da considerarsi quale volume
tecnico, in quanto ospitante lo sbarco della scala.
Dal risultato dell’esame dei luoghi condotto dal
verificatore, il Collegio deve invece ritenere che non
sussistono elementi strutturali che giustificano tale
qualificazione, essendo l’area coperta ben maggiore delle
esigenze di sbarco della scala ed essendo preordinata la
struttura alla sua immediata chiusura (come è stato rilevato
durante il sopralluogo della verificazione).
Pertanto, la realizzazione di tale opera, congiuntamente
alla trasformazione della copertura in terrazzo pavimentato
ed alla risistemazione dei collegamenti interni mediante la
nuova scala a chiocciola che conduce fino al terrazzo
medesimo, al momento della sua realizzazione ha implicato la
costruzione di un nuovo manufatto in senso urbanistico ed
edilizio (il terrazzo) ed un aumento dei volumi (copertura
di parte della terrazza) e dunque avrebbe dovuto essere
soggetta a concessione.
Va da sé che la tettoia e lo sbarco scala, anche se
realizzate in materiale non precario, sarebbero oggi
astrattamente ammissibili per effetto della norma regionale
di cui all’art. 20 della LR 4/2003 (applicabile anche ai
manufatti già realizzati alla sua entrata in vigore: TAR
Catania, I, 14.03.2007, nr. 474). Tuttavia, tale
compatibilità, che presuppone comunque una apposita
valutazione dell’Amministrazione, è pur sempre condizionata
alla preventiva regolarizzazione della terrazza, la cui
realizzazione, come detto, avrebbe richiesto il rilascio
della concessione edilizia (posto che, lo si ripete, l’art.
20 citato trova applicazione solo alle terrazze e non alle
semplici coperture).
Spetterà all’Amministrazione, se in ciò richiesta
dall’interessata, valutare dunque la possibilità di una
sanatoria a regime della terrazza e, nel caso in cui tale
istanza possa essere assentita, secondo le procedure di
legge, la conseguente sanabilità del manufatto a copertura
della terrazza medesima, nel rispetto dei criteri e delle
condizioni di cui all’art. 20 della L.R. 4/2003
(TAR Sicilia-Catania, Sez. I,
sentenza 10.11.2008 n. 2068 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
inizio
home-page |
|