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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di AGOSTO 2017

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aggiornamento al 28.08.2017 (ore 23,59)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 28.08.2017 (ore 23,59)

ã

Il destino crudele così ha voluto ... ma sono convinto che si sarà un perché, mia adorata Sorella, adesso che hai raggiunto la Mamma dopo averla amorevolmente assistita per anni con me...
Solo che, al momento, non comprendo e non riesco a farmene una ragione.
Tuo T.

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI: L’obbligo per i Comuni di assicurare il diritto di accesso nei termini e nelle modalità di cui al novellato art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013 (accesso civico generalizzato) è divenuto esigibile solamente dal 23.12.2016.
L’originaria forma dell’accesso di civico, introdotta dal d.lgs. n. 33/2013 anteriormente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 97/2016, era caratterizzata dalla centralità degli obblighi di pubblicazione, riguardanti essenzialmente l'organizzazione amministrativa e specifici campi di attività, e consentiva di accedere solo ai dati, le informazioni e i documenti oggetto di specifici obblighi di pubblicazione (cd. accesso civico chiuso) e che la P.A. aveva omesso di pubblicare sul sito istituzionale.
L’accesso civico, rafforzato dal d.lgs. n. 97/2016, consente l’accesso anche ad atti e documenti per i quali non esiste l’obbligo di pubblicazione e che la P.A. deve quindi fornire al richiedente (cd. accesso civico aperto o generalizzato).
---------------
Le richieste di accesso civico per cui è causa -presentate in data 12.07.2016 e decise con i provvedimenti impugnati del 25.08.2016- sono state correttamente dichiarate inammissibili dalla P.A. in quanto soggette, ratione temporis, all’originario regime dell’accesso civico (quello del 2013) e aventi ad oggetto atti non soggetti a pubblicazione obbligatoria.
Al caso di specie non è applicabile il più favorevole regime sull’accesso civico generalizzato introdotto dal d.lgs. n. 97/2016, atteso che, con apposita disposizione transitoria, il legislatore ha stabilito che “i soggetti di cui all'articolo 2-bis del decreto legislativo n. 33 del 2013” si adeguano alle modifiche allo stesso decreto legislativo, introdotte dal presente decreto, e assicurano l'effettivo esercizio del diritto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo n. 33 del 2013, come modificato dall'articolo 6 del presente decreto, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto” (art. 42, primo comma, del d.lgs. 97/2016).
Con tale norma il legislatore ha voluto introdurre una sorta di “moratoria” nell’azione riformatrice, al fine di lasciare alla P.A. e a tutti gli interessati il tempo di comprendere e assimilare appieno le disposizioni già introdotte.
Ne deriva che, in virtù di tale moratoria, benché il d.lgs. 97/2016 nel suo impianto generale sia entrato in vigore il 23.06.2016 (ossia il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale), l’obbligo per i Comuni di assicurare il diritto di accesso nei termini e nelle modalità di cui al novellato art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013 (accesso civico generalizzato) è divenuto esigibile solamente dal 23.12.2016 e non poteva, pertanto, dirsi ancora cogente alla data di adozione del provvedimento impugnato.

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... per l'annullamento dei provvedimenti del Comune di Gaiarine prot. n. 6746 e prot n. 6745 entrambi del 25.08.2016 di rigetto delle istanze di accesso agli atti formulata della ricorrente ex art. 5 d.lgs. n. 33/2013 datate 11.07.2016 che assumevano n. prot. 5712 e n. prot. 5713, nonché annullamento di ogni altro atto connesso prodromico e conseguente;
- per l'accertamento del diritto d'accesso dell'istante agi atti e ordine di esibizione e condanna del Comune di Gaiarine alla loro ostensione.
...
Si controverte sulla legittimità dei provvedimenti in epigrafe indicati con cui il Comune resistente ha dichiarato inammissibili e comunque non accoglibili due istanze con cui la ricorrente aveva chiesto, ex art. 5 d.lgs n. 33/2013, di accedere a una serie di titoli edilizi rilasciati alcuni anni or sono e a taluni atti endoprocedimentali relativi a un progetto di realizzazione di un impianto di pirogassificazione (poi rimasto inattuato) che, al momento della presentazione dell’istanza ostensiva, erano ancora oggetto di valutazione e approfondimento istruttorio da parte della P.A..
Il ricorso non merita accoglimento.
L’originaria forma dell’accesso di civico, introdotta dal d.lgs. n. 33/2013 anteriormente alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 97/2016, era caratterizzata dalla centralità degli obblighi di pubblicazione, riguardanti essenzialmente l'organizzazione amministrativa e specifici campi di attività, e consentiva di accedere solo ai dati, le informazioni e i documenti oggetto di specifici obblighi di pubblicazione (cd. accesso civico chiuso) e che la P.A. aveva omesso di pubblicare sul sito istituzionale.
L’accesso civico, rafforzato dal d.lgs. n. 97/2016, consente l’accesso anche ad atti e documenti per i quali non esiste l’obbligo di pubblicazione e che la P.A. deve quindi fornire al richiedente (cd. accesso civico aperto o generalizzato).
Le richieste di accesso civico per cui è causa -presentate in data 12.07.2016 e decise con i provvedimenti impugnati del 25.08.2016- sono state correttamente dichiarate inammissibili dalla P.A. in quanto soggette, ratione temporis, all’originario regime dell’accesso civico (quello del 2013) e aventi ad oggetto atti non soggetti a pubblicazione obbligatoria.
Al caso di specie non è applicabile il più favorevole regime sull’accesso civico generalizzato introdotto dal d.lgs. n. 97/2016, atteso che, con apposita disposizione transitoria, il legislatore ha stabilito che “i soggetti di cui all'articolo 2-bis del decreto legislativo n. 33 del 2013” si adeguano alle modifiche allo stesso decreto legislativo, introdotte dal presente decreto, e assicurano l'effettivo esercizio del diritto di cui all'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo n. 33 del 2013, come modificato dall'articolo 6 del presente decreto, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto” (art. 42, primo comma, del d.lgs. 97/2016).
Con tale norma il legislatore ha voluto introdurre una sorta di “moratoria” nell’azione riformatrice, al fine di lasciare alla P.A. e a tutti gli interessati il tempo di comprendere e assimilare appieno le disposizioni già introdotte. Ne deriva che, in virtù di tale moratoria, benché il d.lgs. 97/2016 nel suo impianto generale sia entrato in vigore il 23.06.2016 (ossia il quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale), l’obbligo per i Comuni di assicurare il diritto di accesso nei termini e nelle modalità di cui al novellato art. 5, comma 2, del d.lgs. 33/2013 (accesso civico generalizzato) è divenuto esigibile solamente dal 23.12.2016 e non poteva, pertanto, dirsi ancora cogente alla data di adozione del provvedimento impugnato (25.08.2016) (TAR Veneto, Sez. III, sentenza 31.07.2017 n. 763 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

NOVITA' NEL SITO

● Inserito il nuovo bottone dossier SEMINTERRATI

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: Decreto legislativo n. 75 del 27.05.2017 recante disposizioni in materia di Polo unico per le visite fiscali. Istruzioni amministrative ed operative (INPS, messaggio 09.08.2017 n. 3265).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuova disciplina per la gestione delle terre e rocce da scavo (ANCE di Bergamo, circolare 08.08.2017 n. 143).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Prossima pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ed entrata in vigore del nuovo regolamento per la gestione delle terre e rocce da scavo (ANCE di Bergamo, circolare 04.08.2017 n. 142).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: richiesta di parere in materia di progressioni economiche orizzontali (Ministero dell‘Economia e delle Finanze, Dipartimento R.G.S., nota 24.03.2017 n. 49781 di prot.).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 28.08.2017 n. 200 "Proroga dell’ordinanza contingibile e urgente 06.08.2013, come modificata dall’ordinanza 03.08.2015, concernente la tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani" (Ministero della Salute, ordinanza 20.07.2017).

PATRIMONIO: G.U. 24.08.2017 n. 197 "Approvazione di norme tecniche di prevenzione incendi per le attività scolastiche, ai sensi dell’art. 15 del decreto legislativo 08.03.2006, n. 139" (Ministero dell'Interno, decreto 07.08.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 19.08.2017 n. 193 "Disposizioni per la salvaguardia degli agrumeti caratteristici" (Legge 25.07.2017 n. 127).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 16.08.2017 n. 190 "Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, tra il Governo, le Regioni e gli enti locali concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze (Repertorio atti n. 76/CU)" (Presidenza Consiglio dei Ministri, Conferenza Unificata, accordo 06.07.2017).
---------------
MODULISTICA IN MATERIA EDILIZIA
Nuovo modulo unificato e semplificato di Permesso di costruire.

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 14.08.2017 n. 189 "Legge annuale per il mercato e la concorrenza" (Legge 04.08.2017 n. 124).
---------------
Di particolare interesse si legga:
Art. 1, comma 172
172. All’articolo 6 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, il comma 5 è sostituito dal seguente: «5. Riguardo agli interventi di cui al presente articolo, l’interessato provvede, nei casi previsti dalle vigenti disposizioni, alla presentazione degli atti di aggiornamento catastale ai sensi dell’articolo 34-quinquies , comma 2, lettera b) , del decreto-legge 10.01.2006, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla legge 09.03.2006, n. 80».

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 33 del 14.08.2017, "Assestamento al bilancio 2017/2019 - I provvedimento di variazione con modifiche di leggi regionali" (L.R. 10.08.2017 n. 22).
---------------
Si leggano, di particolare interesse:
Art. 4 (Disposizioni finanziarie)
   4. Alla legge regionale 12.10.2015, n. 33 (Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche) sono apportate le seguenti modifiche:
a) dopo il comma 3 dell’articolo 2 sono aggiunti i seguenti:
«3-bis. La Regione, nei limiti delle disponibilità di bilancio, assegna contributi ai comuni, singoli o associati, con popolazione fino a 5.000 abitanti, per l’esercizio delle funzioni di cui al comma 1.
3-ter. La Giunta regionale, con la deliberazione di cui all’articolo 13, comma 1, stabilisce i criteri e le modalità per l’assegnazione dei contributi previsti al comma 3-bis, in funzione delle necessità organizzative e di supporto specialistico in materia sismica delle strutture tecniche comunali.»;
b) prima del comma 1 dell’articolo 14 è aggiunto il seguente:
«01. Alle spese di cui all’articolo 2, comma 3-bis, quantificate in € 160.000,00 per l’esercizio finanziario 2017 e in € 350.000,00 annui per gli esercizi finanziari 2018 e 2019, si fa fronte con le risorse allocate alla missione 11 «Soccorso Civile», programma 2 «Interventi a seguito di calamità naturali» - Titolo 1 «Spese correnti». Dalle successive annualità si provvede con le leggi di approvazione di bilancio dei singoli esercizi finanziari.».

Art. 11 (Modifiche a leggi regionali a seguito di impegni assunti con il Governo, in attuazione del principio di leale collaborazione)
   2. I commi 1-bis e 1-ter dell’articolo 5, il comma 4-bis dell’articolo 10 e il comma 1-bis dell’articolo 13 della legge regionale 12.10.2015, n. 33 (Disposizioni in materia di opere o di costruzioni e relativa vigilanza in zone sismiche), come inseriti dall’articolo 25, comma 1, lettere a), f) e g), della legge regionale 26.05.2017, n. 15 (Legge di semplificazione 2017), sono abrogati.
   4. Alla legge regionale 10.03.2017, n. 7 (Recupero dei vani e locali seminterrati esistenti) è apportata la seguente modifica:
a) nel primo periodo del comma 8 e al comma 9 dell’articolo 2 le parole «superficie lorda di pavimento (SLP)» sono sostituite dalle seguenti: «superficie lorda (SL)».
Art. 12 (Modifiche agli articoli 1, 2, 3 e 4 della l.r. 7/2017)
   1. Alla legge regionale 13.03.2017, n. 7 (Recupero dei vani e dei seminterrati esistenti) sono apportate le seguenti modifiche:
a) al comma 4 dell’articolo 1 è aggiunto il seguente periodo: «Qualora i locali presentino altezze interne irregolari, si considera l’altezza media, calcolata dividendo il volume della parte di vano seminterrato la cui altezza superi metri 1,50 per la superficie relativa.»;
b) al comma 4 dell’articolo 2 è aggiunto il seguente periodo: «Per gli interventi di recupero fino a 100 mq. di superficie lorda, anche nei casi di cambio di destinazione d’uso, sono esclusi il reperimento di aree per servizi e attrezzature pubblici e di interesse pubblico o generale e la monetizzazione.»;
c) il comma 3 dell’articolo 3 è sostituito dal seguente: «3. Qualora il recupero dei locali seminterrati comporti la creazione di autonome unità ad uso abitativo, i comuni trasmettono alle Agenzie di tutela della salute (ATS) territorialmente competenti copia della segnalazione certificata presentata ai sensi dell’articolo 24 del d.p.r. 380/2001, che deve essere corredata da attestazione sul rispetto dei limiti di esposizione al gas radon stabiliti dal regolamento edilizio comunale o, in difetto, dalle linee guida di cui al decreto del direttore generale sanità della Giunta regionale di Regione Lombardia 21.12.2011, n. 12678 (Linee guida per la prevenzione delle esposizioni al gas radon in ambienti indoor) e successive eventuali modifiche e integrazioni.»;
d) dopo il comma 3 dell’articolo 3 sono aggiunti i seguenti: «3 bis. Le pareti interrate dovranno essere protette mediante intercapedini aerate o con altre soluzioni tecniche della stessa efficacia.
3-ter. Dovrà essere garantita la presenza di idoneo vespaio aerato su tutta la superficie dei locali o altra soluzione tecnica della stessa efficacia.
3-quater. Per il recupero ad uso abitativo inteso come estensione di un’unità residenziale esistente e solo per locali accessori o di servizio è sempre ammesso il ricorso ad aeroilluminazione totalmente artificiale purché la parte recuperata non superi il 50 per cento della superficie utile complessiva dell’unità.
3-quinquies. Per il recupero ad uso abitativo inteso come creazione di unità autonome, il raggiungimento degli indici di aeroilluminazione con impianti tecnologici non potrà superare il 50 per cento rispetto a quanto previsto dai regolamenti locali.
3-sexies. Per il recupero ad uso abitativo, per il calcolo dei rapporti aeroilluminanti la distanza tra le luci del locale e il fabbricato prospiciente dovrà essere di almeno metri 2,5.»;
e) al comma 1 dell’articolo 4 sono apportate le seguenti modifiche:
   1) le parole «Entro il termine perentorio di centoventi giorni dall’entrata in vigore della presente legge» sono sostituite dalle seguenti: «Entro il 31.10.2017»;
   2) le parole «e comunque non oltre il termine di centoventi giorni dall’entrata in vigore della legge» sono sostituite dalle seguenti: «entro il 31.10.2017».

LAVORI PUBBLICI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 33 del 14.08.2017, "Ricognizione dei comuni dotati di piano di emergenza comunale di protezione civile alla data del 21.07.2017 - Aggiornamento del d.d.s. n. 3170 del 11.04.2014 (l. 225/1992 e l.r. 16/2004)" (decreto D.S. 04.08.2017 n. 9819).

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 32 del 10.08.2017, "Attuazione delle leggi regionali e valutazione degli effetti delle politiche regionali per la qualificazione della spesa pubblica e l’efficacia delle risposte ai cittadini" (L.R. 08.08.2017 n. 20).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 10.08.2017 "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.07.2017, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 07.08.2017 n. 128).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 32 del 10.08.2017, "Pubblicazione dell’elenco, istituito con d.d.u.o. 21.04.2017, n. 4578, dei membri di indicazione regionale per le commissioni d’esame dei corsi in acustica di cui al d.lgls. 17.02.2017, n. 42, allegato 2, parte b, punto 2. aggiornamento al 31.07.2017" (comunicato regionale 07.08.2017 n. 127).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 32 dell'08.08.2017, "Disciplina della programmazione dell’offerta abitativa pubblica e sociale e dell’accesso e della permanenza nei servizi abitativi pubblici" (regolamento regionale 04.08.2017 n. 4).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: G.U. 07.08.2017 n. 183 "Regolamento recante la disciplina semplificata della gestione delle terre e rocce da scavo, ai sensi dell’articolo 8 del decreto-legge 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164" (D.P.R. 13.06.2017 n. 120).

PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 04.08.20147 n. 181 "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 20.06.2016, n. 116, recante modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s) , della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare" (D.Lgs. 20.07.2017 n. 118).

APPALTI - ENTI LOCALI - VARI: G.U. 02.08.2017, suppl. ord. n. 43/L, "Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 06.06.2016, n. 106" (D.Lgs. 03.07.2017 n. 117).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, supplemento n. 31 dell'01.08.2017, "Regolamento regionale di attuazione della legge regionale 27.02.2017 n. 5 «Rete escursionistica della Lombardia»" (regolamento regionale 28.07.2017 n. 3).

PATRIMONIO - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 31 dell'01.08.2017, "Approvazione delle linee guida per l’esercizio delle funzioni relative alle autorizzazioni alla circolazione dei trasporti eccezionali – l.r. 04.04.2012, n. 6, art. 42" (deliberazione G.R. 24.07.2017 n. 6931).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: G.U. 10.07.2017 n. 159 "Adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 305/2011, che fissa condizioni armonizzate per la commercializzazione dei prodotti da costruzione e che abroga la direttiva 89/106/CEE" (D.Lgs. 16.06.2017 n. 106).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Regolamento terre e rocce da scavo, “assurdo l'obbligo di preavviso di 15 giorni”.
Confartigianato Costruzioni di La Spezia boccia la norma che impone alle imprese, prima di scavare una buca anche di un solo metro cubo, di avvertire 15 giorni prima il comune competente e l'Arpa (25.08.2017 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Riforma della VIA, definita la modulistica per presentare le liste di controllo.
Emanato il decreto direttoriale attuativo delle disposizioni di cui all’art. 25, comma 1, del D.Lgs. 104/2017 di riforma della VIA (24.08.2017 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: Prodotti da costruzione, le nuove norme entrate in vigore il 9 agosto.
Introdotte procedure semplificate per le piccole e medie imprese e sanzioni anche per i progettisti (22.08.2017 - link a www.casaeclima.com).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Terre e rocce da scavo, dal 22 agosto in vigore il nuovo regolamento.
Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il DPR n. 120/2017. Eliminate le autorizzazioni preventive attraverso la previsione di un modello di controllo ‘ex post’ (21.08.2017 - link a www.casaeclima.com).

ATTI AMMINISTRATIVI: Condanna per lite temeraria.
Basta cause facili o cause perse in partenza: si rischia di dover risarcire il danno. L’avvocato deve sempre informare il cliente se conviene iniziare un processo o meno.
Se si fa causa a una persona sapendo già di avere torto o che è persa in partenza o senza sapere minimamente cosa comporta un processo o, ancora, solo per intimidire l’avversario si rischia una condanna per lite temeraria (...continua) (11.08.2017 - link a www.laleggepertutti.it).

EDILIZIA PRIVATA: Lombardia: abitabilità seminterrati più semplice. Prorogato al 31 ottobre il termine per i Comuni per recepire la nuova norma.
La Lombardia ha approvato le modifiche alla legge regionale 7/2017 sull’abitabilità dei seminterrati in virtù di una maggiore chiarezza e semplicità burocratica. Di seguito riportiamo le novità introdotte. (...continua) (02.08.2017 - link a www.casaeclima.com).

QUESITI & PARERI

ENTI LOCALI: Servizio di mensa scolastica. Tariffe di compartecipazione dell'utenza.
Poiché il servizio di refezione scolastica è un servizio pubblico 'a domanda individuale', il Comune che facoltativamente decide di istituirlo è tenuto, per legge, a stabilire la quota di copertura tariffaria a carico dell'utenza.
La giurisprudenza afferma che la misura della contribuzione da richiedere ai fruitori del servizio è «il frutto di una scelta di ampia discrezionalità, riservata per legge all'amministrazione comunale, la quale deve esercitarla nel rispetto dei principi di equilibrio economico-finanziario di gestione del servizio e di pareggio di bilancio».

Il Comune riferisce di aver istituito da tempo il servizio di mensa scolastica che, ai sensi dell'art. 6 del decreto-legge 28.02.1983, n. 55, convertito, con modificazioni, dalla legge 26.04.1983, n. 131 e del decreto del Ministero dell'interno 31.12.1983
[1], costituisce servizio pubblico locale 'a domanda individuale', cosicché l'ente erogatore è tenuto a richiedere la contribuzione dell'utenza.
Per definire le modalità di compartecipazione dei fruitori al costo del servizio, il Comune applica il principio della 'capacità contributiva', prevedendo una tariffa variabile, modulata per fasce ISEE, considerato che il servizio rientra tra le prestazioni sociali agevolate, di cui alla Tabella 1 del decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 16.12.2014, n. 206
[2].
Poiché il Comune si è determinato ad esentare da ogni pagamento i fruitori del servizio aventi un ISEE familiare fino ad € 6.000,00
[3], mentre per la fascia ISEE uguale o superiore a € 30.000,00 la tariffa è unica, l'Ente chiede un parere in merito al proprio operato, anche alla luce dei principi enunciati dal TAR Piemonte - Sez. I, con sentenza 31.07.2014, n. 1365.
Occorre, anzitutto, ricordare che l'attività consultiva cui è preposto questo Ufficio è volta a fornire un semplice ausilio all'ente locale richiedente per le determinazioni che lo stesso è tenuto ad assumere nell'esercizio delle proprie funzioni. Rimane, pertanto, ferma la discrezionalità (e la correlativa responsabilità) dell'amministrazione in sede di esercizio delle proprie prerogative gestorie.
Ciò posto si ritiene di poter comunque osservare, a fini meramente collaborativi, che indicazioni volte a ritenere legittimo l'operato del Comune si rinvengono proprio nella sentenza citata dall'Ente.
Infatti il TAR, dopo aver rilevato che il servizio di refezione scolastica è un servizio pubblico, ma 'a domanda individuale', cosicché, se il Comune decide di istituirlo
[4], è tenuto per legge a stabilire la quota di copertura tariffaria a carico dell'utenza [5], precisa che, nell'esercizio di tale potere-dovere, «il Comune gode di amplissima discrezionalità, che non trova nella legge alcuna limitazione in ordine alla misura massima imputabile agli utenti».
Al riguardo, il TAR osserva che la stessa percentuale 'non inferiore al 36 per cento' prevista, per gli enti locali in stato di dissesto, dall'art. 243, comma 2, lett. a)
[6], del D.Lgs. 267/2000, esprime in ogni caso solo la misura minima che necessariamente deve essere posta a carico dell'utenza, non quella massima.
Il TAR rileva che, sussistendo un'adeguata capienza di bilancio, il comune potrebbe decidere di finanziare interamente il servizio con risorse proprie, garantendone la fruizione gratuita da parte dell'utenza
[7]. Allo stesso modo, però, sarebbe ugualmente ammissibile che l'ente locale disponesse di far gravare per intero il costo del servizio sull'utenza.
Oltre a tali opzioni estreme si pone quella, più consueta, in cui il costo del servizio è ripartito tra l'amministrazione e l'utenza secondo modalità variamente determinate e mutevoli nel tempo, influenzate dalle disponibilità di bilancio e dalle scelte di politica economico-sociale dell'ente locale.
Pertanto, secondo il TAR, la misura della contribuzione è, in definitiva, «il frutto di una scelta di ampia discrezionalità, riservata per legge all'amministrazione comunale, la quale deve esercitarla nel rispetto dei principi di equilibrio economico-finanziario di gestione del servizio e di pareggio di bilancio».
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[1] Punto 10).
[2] Punto A2.12.
[3] Fissando tale limite in analogia con il disposto dell'art. 3, comma 1, della legge regionale 10.07.2015, n. 15, nell'ambito della quale sono previste azioni regionali di sostegno anche per contrastare l'esclusione sociale determinata da assenza o carenza di reddito.
[4] Non si tratta, infatti, di un servizio pubblico essenziale, che in quanto tale va garantito necessariamente alla collettività amministrata, ma di un servizio facoltativo che l'ente locale può decidere discrezionalmente di attivare, nei limiti delle proprie disponibilità di bilancio.
[5] Ai sensi dell'art. 6, comma 1, del già citato D.L. 55/1983 («Le province, i comuni, i loro consorzi e le comunità montane sono tenuti a definire, non oltre la data della deliberazione del bilancio, la misura percentuale dei costi complessivi di tutti i servizi pubblici a domanda individuale [...] che viene finanziata da tariffe o contribuzioni ed entrate specificamente destinate.») e dell'art. 172, comma 1, lett. c), del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 («Al bilancio di previsione sono allegati [...] i seguenti documenti: [...] c) le deliberazioni con le quali sono determinati, per l'esercizio successivo, le tariffe [...] per i servizi locali, nonché, per i servizi a domanda individuale, i tassi di copertura in percentuale del costo di gestione dei servizi stessi; [...])».
[6] «Gli enti locali strutturalmente deficitari sono soggetti ai controlli centrali in materia di copertura del costo di alcuni servizi. Tali controlli verificano mediante un'apposita certificazione che:
a) il costo complessivo della gestione dei servizi a domanda individuale, riferito ai dati della competenza, sia stato coperto con i relativi proventi tariffari e contributi finalizzati in misura non inferiore al 36 per cento; [...]».
[7] Sul punto occorre doverosamente segnalare che la Corte dei conti (cfr., in particolare, Sez. Reg. Contr. Campania, pareri n. 7/2010 e n. 222/2017 e Sez. Reg. Contr. Sicilia, parere n. 115/2015) esprime un avviso che si pone in contrapposizione con la tesi che ritiene ammissibile l'indiscriminata elargizione gratuita dei servizi pubblici a domanda individuale, tenuto conto, oltre che della specifica disciplina in materia, di considerazioni riferibili alla necessità del rispetto di un principio di elementare prudenza e di razionalità nell'erogazione delle spese pubbliche, ai fini della salvaguardia degli equilibri di bilancio
(09.08.2017 -
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INCARICHI PROFESSIONALI: Affidamento di incarichi a liberi professionisti. Disciplina applicabile.
Per stabilire se l'affidamento di incarichi a liberi professionisti, connessi al funzionamento di una stazione biologica nell'ambito di una Riserva naturale regionale, debba avvenire secondo le procedure previste per gli appalti di servizi dal D.Lgs. 50/2016, oppure in base a quelle dettate per gli incarichi individuali dall'art. 7, c. 6, del D.Lgs. 165/2001, occorre avere riguardo ai caratteri propri dell'incarico che si intende affidare e, quindi, alla sua qualificazione giuridica.
La giurisprudenza individua, in termini generali, i caratteri distintivi delle due fattispecie osservando, peraltro, che il confine fra contratto d'opera intellettuale e contratto d'appalto di servizi sfuma in sede di applicazione della disciplina sui contratti pubblici, che impone predeterminate procedure ad evidenza pubblica, prodromiche alla stipulazione dei contratti da parte delle PP.AA. e adotta una nozione ampia di appalto di servizi che comprende, in alcuni casi, anche l'attività del professionista intellettuale.

Il Comune rappresenta di ricevere annualmente un contributo regionale, di importo costante, per il funzionamento di una stazione biologica nell'ambito di una Riserva naturale regionale e che, in ragione di un tanto, nel 2016 ha già affidato direttamente, ai sensi dell'art. 125, comma 11, del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163, l'incarico triennale per lo svolgimento di determinate attività a tre professionisti, esperti in materia ambientale.
Poiché, per il corrente anno, il Comune ha ricevuto un contributo di importo superiore, esso intende affidare un 'servizio aggiuntivo' ai tre soggetti già incaricati e chiede di conoscere se l'affidamento delle ulteriori attività di cui trattasi, nonché la scelta dei professionisti che dovranno essere individuati in futuro, debbano avvenire secondo le procedure previste, per gli appalti di servizi, dal decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, oppure in base a quelle dettate, per gli incarichi individuali, dall'art. 7, comma 6, del decreto legislativo 30.03.2001, n. 165.
Sentito il Servizio paesaggio e biodiversità della Direzione centrale infrastrutture e territorio si rappresenta quanto segue.
Va, anzitutto, chiarito che, per poter stabilire la qualificazione giuridica degli incarichi che si intendono affidare, occorre fare riferimento alle specifiche caratteristiche delle attività/prestazioni che i professionisti sono chiamati a svolgere: pertanto, tale valutazione spetta, in via esclusiva, all'amministrazione procedente.
Un tanto premesso si ritiene, comunque, di poter fornire, in via meramente collaborativa, alcune considerazioni di carattere generale, con l'auspicio di poter coadiuvare l'Ente nell'assunzione delle proprie determinazioni al riguardo.
È noto che per i contratti d'opera e di opera intellettuale (nel cui ambito sono riconducibili quelli che le disposizioni di finanza pubblica definiscono come 'ricerca', 'studio' e 'consulenza') si pone il problema di individuare la normativa applicabile, atteso che la disciplina statale che regola i contratti pubblici, nel recepire le direttive comunitarie in materia, assimila alcuni di essi agli appalti di servizi
[1].
Sulla tematica è intervenuta tanto la magistratura contabile
[2] (alla quale si farà prevalentemente riferimento, stante il maggior numero di interventi) quanto quella amministrativa [3], ai cui insegnamenti è opportuno rifarsi per ricavare i parametri che dovrebbero consentire al Comune di stabilire la natura giuridica degli incarichi che intende affidare e, conseguentemente, identificare la procedura da osservare.
Gli incarichi a professionisti esterni sono generalmente riconducibili, secondo il diritto civile, al contratto d'opera (v. art. 2222
[4]) e, più precisamente, d'opera intellettuale (v. art. 2229) [5].
Come si è già accennato, il codice dei contratti pubblici, delineando l'ambito oggettivo di applicazione, fornisce una definizione di contratto di appalto di servizi
[6] molto più ampia di quella del codice civile, attraendo anche negozi qualificabili come contratti d'opera o di opera intellettuale.
Secondo il codice civile, la distinzione tra contratti d'opera e di opera intellettuale e contratto d'appalto di servizi (v. art. 1655
[7]) emerge dal carattere personale o intellettuale delle prestazioni nei primi e dalla natura imprenditoriale del soggetto esecutore, nel secondo.
L'appalto di servizi, pur presentando elementi di affinità con il contratto d'opera (autonomia rispetto al committente), si differenzia da questo per il profilo dell'organizzazione, considerato che l'appaltatore esegue la prestazione con mezzi e personale propri, che fanno ritenere sussistente, assieme al requisito della gestione a proprio rischio, la qualità di imprenditore commerciale.
Il prestatore d'opera, invece, pur dovendo anch'egli svolgere, dietro corrispettivo, un servizio a favore del committente, senza vincolo di subordinazione e con assunzione del relativo rischio, si obbliga ad eseguirlo con lavoro prevalentemente proprio, senza una necessaria organizzazione.
Il confine fra contratto d'opera intellettuale e contratto d'appalto di servizi sfuma in sede di applicazione della disciplina sui contratti pubblici, che impone predeterminate procedure, ad evidenza pubblica, prodromiche alla stipulazione dei contratti da parte delle pubbliche amministrazioni.
Il codice dei contratti pubblici adotta certamente una nozione ampia di appalto di servizi che comprende, in alcuni casi, anche l'attività del professionista intellettuale, ma tale nozione è finalizzata ad estendere l'ambito oggettivo di applicazione della relativa disciplina in aderenza alle direttive comunitarie di settore, volte a favorire il confronto concorrenziale fra operatori economici, la libera circolazione di servizi ed il diritto di stabilimento. Pertanto, quella nozione non si ripercuote sulle definizioni di contratto di prestazione d'opera, prestazione d'opera intellettuale e di appalto di servizi delineate dal codice civile, atteso che il codice dei contratti pubblici mira a disciplinare le procedure di affidamento di un'ampia gamma di contratti che, pur definiti come 'appalto', comprendono una serie eterogenea di negozi civilistici (somministrazione, mandato, trasporto, assicurazione, ecc.).
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, si segnala che anche il Consiglio di Stato
[8], valorizzando le differenze fra i due contratti ai fini delle conseguenti ricadute in materia di soggezione al codice dei contratti pubblici, ritiene elemento qualificante dell'appalto di servizi, oltre alla complessità dell'oggetto, la circostanza che l'affidatario dell'incarico necessiti, per l'espletamento dello stesso, di apprestare una specifica organizzazione finalizzata a soddisfare i bisogni dell'ente.
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[1] Secondo D. Centrone («Il conferimento di incarichi di consulenza e collaborazione da parte degli enti locali e delle società partecipate, alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50 del 2016, e del testo unico sulle società pubbliche, d.lgs. n. 175 del 2016», relazione tenuta al Convegno sul tema 'Gli adempimenti in scadenza al 31.01.2017 per la prevenzione della corruzione e le linee-guida per le città metropolitane', organizzato da UPI-ANCI Piemonte e tenutosi a Torino il 20.01.2017) tale assimilazione concerne l'individuazione della procedura di affidamento, «restando impregiudicata la qualificazione della natura del contratto, da effettuare secondo le regole del diritto civile interno».
[2] V., tra i più recenti interventi della Corte dei conti: Sez. reg.le controllo per la Puglia, delib. n. 63/PAR/2014; Sez. reg.le controllo per la Liguria, delib. n. 79/2015/PAR; Sez. reg.le controllo per la Lombardia, delib. n. 51/2013/PAR, n. 178/2014/PAR e n. 162/2016/PAR.
[3] V., per tutte, la sent. del Consiglio di Stato - Sez. V, n. 2730/2012.
[4] «Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV.».
[5] «La legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi.
L'accertamento dei requisiti per l'iscrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni professionali, sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente.
Contro il rifiuto dell'iscrizione o la cancellazione dagli albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che importano la perdita o la sospensione del diritto all'esercizio della professione è ammesso ricorso in via giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi speciali.».
[6] V. l'art. 3, comma 1, lett. dd), ii) e ss), del D.Lgs. 50/2016.
[7] «L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.».
[8] Sez. V, sent. n. 2730/2012
 (02.08.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Regolare svolgimento delle sedute del Consiglio comunale.
La giurisprudenza amministrativa ha ritenuto legittima la norma regolamentare che preveda l'espulsione del consigliere intemperante, precisando, tuttavia che può addivenirsi a tale estremo rimedio solo se congruamente motivato e dopo che il presidente ha inutilmente richiamato il consigliere una o più volte, ed evidenziando soprattutto che non è possibile prefigurare anche il potere di allontanamento, con il ricorso alla forza pubblica, in quanto qui si incide direttamente sulla libertà individuale, tutelata dall'articolo 13 della Costituzione.
Il Comune chiede un parere afferente la disciplina del funzionamento delle sedute del consiglio comunale.
In particolare, lo stesso vorrebbe apportare al vigente regolamento sul funzionamento del consiglio comunale alcune modifiche atte a consentire l'ordinato svolgimento delle sedute del consiglio comunale. Queste consisterebbero nella possibilità per il presidente del consiglio comunale, eventualmente a seguito di apposita deliberazione da parte dell'organo consiliare, di disporre l'allontanamento del consigliere comunale che, previamente più volte richiamato all'ordine, non consenta con il proprio comportamento la prosecuzione dei lavori.
L'allontanamento si sostanzierebbe nel prevedere che l'amministratore interessato si sieda tra il pubblico e, pertanto, nel considerarlo assente per il resto della seduta consiliare in atto. A tale previsione se ne accosterebbe una ulteriore, afferente il comportamento del pubblico presente in aula che, qualora si sostanziasse in tumulti o comportamenti reiterati di disturbo, consentirebbe al presidente del consiglio comunale, anche eventualmente a seguito di apposita deliberazione da parte dell'organo consiliare, di disporre la prosecuzione dell'adunanza a porte chiuse.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
L'articolo 39, comma 1, del decreto legislativo 18.08.2000, n. 267 prevede che al presidente del consiglio siano attribuiti, tra gli altri, 'i poteri di convocazione e direzione dei lavori e delle attività del consiglio' da intendere, come rilevato dal Ministero dell'Interno, per quel che rileva in questa sede, nel senso di dover assicurare lo svolgimento ordinato delle sedute, sempre nel rispetto delle disposizioni regolamentari e comprendenti, dunque, anche 'la c.d. polizia dell'adunanza, cioè il potere discrezionale di mantenere l'ordine, l'osservanza della legge e la regolarità delle discussioni e deliberazioni'
[1].
A tal riguardo il vigente regolamento del consiglio comunale prevede che 'il Sindaco è il Presidente delle adunanze del Consiglio Comunale e ne dirige i lavori assicurandone il buon andamento nel rispetto della legge, dello Statuto comunale e delle norme del presente regolamento' (articolo 34, comma 1) e che 'il Presidente dell'assemblea consiliare rappresenta l'intero Consiglio Comunale, ne è l'oratore ufficiale, deve tutelarne la dignità e le funzioni, assicura il buon andamento dei lavori [...]. Il presidente è investito di potere discrezionale per mantenere l'ordine e per assicurare l'osservanza delle leggi e dei regolamenti, la regolarità delle discussioni e la legalità delle deliberazioni' (articolo 35, commi 1 e 2).
Con specifico riguardo al comportamento dei consiglieri comunali soccorre, poi, l'articolo 41 del vigente regolamento consiliare il quale, al comma 3, prevede che: 'Se un consigliere turba l'ordine, pronuncia parole sconvenienti o lede i principi affermati nei precedenti commi,
[2] il Presidente lo richiama, nominandolo'. Il successivo comma 4 dispone, poi, che: 'Dopo un secondo richiamo all'ordine nella stessa seduta, fatto ad uno stesso consigliere senza che questi tenga conto delle osservazioni rivoltegli, il Presidente deve interdirgli ulteriormente la parola, fino alla conclusione dell'affare in discussione. Se il consigliere contesta la decisione, il Consiglio, su sua richiesta, decide votando per alzata di mano, senza ulteriore discussione'.
Rispetto alle previsioni attuali la modifica regolamentare intenderebbe prevedere la possibilità da parte del presidente di disporre l'espulsione del consigliere comunale nel caso in cui i precedenti ammonimenti siano risultati infruttuosi. La giurisprudenza amministrativa ha, al riguardo, ritenuto legittima la norma regolamentare che preveda l'espulsione del consigliere intemperante, precisando, tuttavia che può addivenirsi a tale estremo rimedio solo se congruamente motivato e dopo che il presidente ha inutilmente richiamato il consigliere una o più volte, ed evidenziando soprattutto che non è possibile prefigurare anche il potere di allontanamento,
[3] con il ricorso alla forza pubblica, in quanto qui si incide direttamente sulla libertà individuale, tutelata dall'articolo 13 della Costituzione, il quale prescrive la previsione legislativa e l'atto motivato dell'autorità giudiziaria per assumere provvedimenti restrittivi e limitativi di detto diritto.
Il Ministero dell'Interno, al riguardo, ha precisato che l'espulsione 'produce l'effetto di escludere l'amministratore locale dalla partecipazione alla seduta del Consiglio. [...] Pertanto, il consigliere espulso che non si allontanasse spontaneamente dall'aula sarebbe considerato assente, ad ogni effetto (TAR Abruzzo, 26.06.2002, n. 526), ma non può essere coattivamente allontanato'
[4].
A supporto di un tanto il Ministero dell'Interno, in un proprio parere
[5] ha richiamato l'articolo 297 del TUEL del 1915 [6] affermando che lo stesso 'benché anteriore alla Costituzione, limitava il potere di espulsione alle sole persone presenti tra l'uditorio che fossero causa di disordine, escludendone invece i componenti del consiglio comunale.'.
Concludendo su tale punto, si ritiene rispondente alle considerazioni sopra riportate la previsione regolamentare che l'Ente intende inserire nel proprio regolamento, ribadendosi tuttavia che i poteri del sindaco quale presidente del consiglio di valutare e sanzionare i comportamenti dei consiglieri nel corso dell'attività consiliare deve sempre essere rispettosa della funzione di garante imparziale e neutrale della maggioranza e dell'opposizione consiliare sullo stesso gravante.
In particolare, si ritiene che, al fine di non porre in essere condotte sproporzionate ed incompatibili con il proprio ruolo di arbitro, il presidente del consiglio comunale deve eserciate il potere di 'allontanamento' dei consiglieri solamente nelle ipotesi in cui questi pongano in essere comportamenti 'gravi' tali da impedire il regolare e corretto svolgimento dell'attività istituzionale. Tale gravità deve presentare un carattere oggettivo, pena diversamente il rischio che la discrezionalità presidenziale assurga a mero arbitrio, inammissibile ed incompatibile con il ruolo del Presidente quale primo garante del manifestarsi della dialettica democratica nell'ambito dell'assemblea rappresentativa del Comune.
Da ultimo, su tale punto, si osserva che l'alternativa tra il far assumere la decisione 'sanzionatoria' nei confronti dell'amministratore al sindaco quale presidente del consiglio o, piuttosto, al consiglio comunale, rientra nella scelta decisionale discrezionale dell'Ente medesimo essendo entrambe le soluzioni percorribili. Infatti, la decisione può essere rimessa o al sindaco stesso, stante le funzioni di cui lo stesso è investito quale presidente del consiglio, o dallo stesso rimesse al consiglio comunale qualora si ritenga opportuno il coinvolgimento su una tale decisione dell'intero organo collegiale, il quale potrebbe essere tenuto alla votazione senza necessità di una previa discussione sul punto.
Passando a trattare della seconda questione posta, si rileva che il vigente regolamento sul funzionamento del consiglio già contiene una norma dai contenuti analoghi a quelli oggetto della modifica regolamentare proposta. In particolare, l'articolo 44 del regolamento consiliare rubricato 'Comportamento del pubblico', recita, al comma 5: 'Qualora il comportamento del pubblico ostacoli il proseguimento della seduta il Presidente può disporre lo sgombero dell'aula da parte di tutti i disturbatori. Quindi, ove gravi motivi di ordine pubblico lo impongano, con decisione motivata presa a maggioranza dal Consiglio ed annotata a verbale, può essere disposta la prosecuzione della seduta a porte chiuse'.
[7]
Sul tema la dottrina
[8] ha affermato che: «Appare evidente, quindi, che, quando i comportamenti del pubblico giungono a travalicare le ordinarie regole di convivenza, tali da turbare o, alternativamente, interrompere le sedute del consiglio comunale, ovvero ostacolare il normale funzionamento, manifestando disapprovazione con metodi espositivi minacciosi, ingiuriosi o grida [...] e sino a giungere all'occupazione dell'aula in segno di protesta, siamo di fronte a cd. 'tumulti' che possono impedire di fatto da una parte, la continuazione dei lavori, dall'altra, la serenità d'animo per poter liberamente esprimere un voto o un pensiero: l'esercizio della funzione
Prosegue l'Autore rilevando che: 'Per le ragioni sopra esposte, si può validamente sostenere la legittimità di una clausola del regolamento consiliare (fonte normativa di riferimento) finalizzato a impedire comportamenti ad extra continuativi, con l'intento di minare la funzionalità del consiglio comunale.'
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[1] Ministero dell'Interno, parere del 17.02.2006.
[2] L'articolo 41, comma 1, del regolamento del consiglio comunale così recita: 'I consiglieri comunali nella discussione degli affari hanno il più ampio diritto di esprimere apprezzamenti, critiche, rilievi e censure, ma esse devono riguardare atteggiamenti, opinioni o comportamenti politico - amministrativi'. Il successivo comma 2 dispone, poi, che: 'Tale diritto va esercitato escludendo qualsiasi riferimento alla vita privata ed alle qualità personali di chicchessia e va in ogni caso contenuto entro i limiti dell'educazione, della prudenza e del civile rispetto, senza l'uso di parole sconvenienti e senza degenerare. È rigorosamente vietato a tutti di fare imputazioni di mala intenzione, che possano offendere l'onorabilità di chicchessia'.
[3] Così Cassazione penale, sez. VI, sentenza del 22.10.1996, n. 10696 ove si afferma che: 'Deve ritenersi atto arbitrario la disposizione data dal sindaco alla forza pubblica, presente nell'aula comunale in cui è in corso l'adunanza del consiglio, di allontanare i consiglieri della opposizione al fine di riportare l'ordine all'interno dell'organo collegiale: invero, trattasi di comportamento illegittimo, non consentito da norma alcuna del testo unico della legge comunale e provinciale, che per altro verso, oggettivamente manifesta una volontà irrispettosa del diritto delle minoranze di partecipare alla adunanza sino a quando essa, nel suo complesso, non venga sospesa o sciolta'.
[4] Ministero dell'Interno, parere del 17.02.2006.
[5] Ministero dell'Interno, parere dell'11.04.2006.
[6] L'articolo 297 del R.D. 04.02.1915, n. 148, al terzo comma, prevede che: 'Può [cfr. chi presiede l'adunanza dei Consigli] nelle sedute pubbliche, dopo aver dato gli opportuni avvertimenti, ordinare che venga espulso dall'uditorio chiunque sia causa di disordine, ed anche ordinarne l'arresto'.
[7] Cfr. al riguardo articolo 38, comma 7, del TUEL il quale recita: 'Le sedute del consiglio e delle commissioni sono pubbliche salvi i casi previsti dal regolamento'. La dottrina ha, al riguardo, rilevato come 'postulata la sussistenza di siffatto principio, si deve necessariamente convenire che i casi di esclusione della pubblicità delle sedute consiliari siano una assoluta eccezione, e che gli stessi siano giustificabili essenzialmente solo da motivazioni di ordine pubblico, ovvero riferibili ai casi in cui il consiglio debba trattare di questioni concernenti singole persone e vi sia al contempo un'effettiva e grave esigenza di riservatezza. Sarà, infine, cura del regolamento individuare e fissare, in forma analitica e tassativa (trattandosi di deroga ad un diverso e contrario principio fissato dal legislatore), i casi di esclusione della pubblicità delle sedute conferendo al presidente della assemblea il potere di disporre la celebrazione segreta delle relative riunioni' (Si veda 'L'ordinamento degli enti locali', Commentario al Testo Unico, Ipsoa editore, II Edizione, pag. 354 e, nello stesso senso, E. Maggiora, 'Il funzionamento del consiglio comunale e provinciale', Giuffrè editore, 2000, pag. 148).
[8] M. Lucca, 'Diritti dei consiglieri comunali, condotte ostruzionistiche e tumulti in Consiglio comunale: trasparenza e bilanciamento di poteri per una soluzione concreta', in LexItalia.it, 13.06.2017, n. 6
(21.07.2017 -
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LAVORI PUBBLICI: Lavori finanziati con fondi europei. Incarico di RUP esterno.
L'affidamento libero-professionale dei compiti di supporto al RUP, di cui all'art. 5, comma 7, della L.R. 14/2002, deve avvenire secondo le procedure previste dal codice dei contratti pubblici (v. art. 31 del D.Lgs. 50/2016).
L'esternalizzazione della funzione di RUP, prevista dal comma 8 della predetta norma regionale, ma inammissibile in base al D.Lgs. 50/2016 richiede, invece, di verificare -e ciò spetta, in via esclusiva, all'amministrazione procedente- quale sia la disciplina applicabile, avuto riguardo ai caratteri propri dell'incarico che si intende affidare e, quindi, alla sua qualificazione giuridica (contratto d'opera intellettuale o appalto di servizi).
Posto che l'art. 5, comma 2, della L.R. 14/2002, si limita a prevedere che «Le amministrazioni aggiudicatrici nominano, secondo i propri ordinamenti, un responsabile unico del procedimento [...]», l'individuazione del RUP esterno spetta al soggetto posto al vertice della struttura amministrativa (che, negli Enti privi di dirigenti, è il titolare della P.O.) competente a realizzare il lavoro, fatte salve le diverse previsioni eventualmente contenute nella convenzione cui il Comune ha aderito.

Il Comune ha chiesto chiarimenti in tema di esternalizzazione della funzione di responsabile unico del procedimento (RUP)
[1], ai sensi dell'art. 5, comma 8 [2], della legge regionale 31.05.2002, n. 14 («Disciplina organica dei lavori pubblici»), ponendo tre specifiche questioni:
   1) se, nell'ambito della realizzazione di lavori di particolare complessità, finanziati con fondi europei, il cui bando prevede espressamente l'applicazione della normativa europea, sia possibile designare quale RUP un soggetto esterno alla stazione appaltante, atteso che il decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 («Codice dei contratti pubblici»), non contempla una tale possibilità;
   2) se l'incarico di cui trattasi si configuri quale prestazione di servizi oppure quale prestazione d'opera, come tale soggetta alle limitazioni di cui all'art. 6, comma 7
[3], del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30.07.2010, n. 122;
   3) quale soggetto sia competente alla designazione del RUP esterno, qualora la convenzione per la gestione associata della Centrale unica di committenza, approvata dall'Ente, preveda espressamente che il RUP per i lavori sia il titolare della Posizione Organizzativa.
Questo Ufficio ha ritenuto di dover rimettere, per competenza, la risoluzione delle questioni poste al Servizio lavori pubblici, infrastrutture di trasporto e comunicazione della Direzione centrale infrastrutture e territorio
[4].
Il predetto Servizio -che il Comune ha già direttamente investito della questione n. 1), ricevendo una risposta affermativa- ritiene, invece, che spetti a questo Ufficio riscontrare i quesiti formulati ai nn. 2) e 3)
[5].
In relazione a tali quesiti si osserva quanto segue.
L'art. 5
[6] della L.R. 14/2002 oltre a prevedere, analogamente a quanto stabilito dalla disciplina statale allora vigente [7], la possibilità di affidare incarichi libero professionali per lo svolgimento di compiti di supporto al RUP [8], consente anche, al ricorrere di una determinata condizione [9], l'esternalizzazione della funzione [10], mai contemplata dal legislatore statale [11].
Poiché le disposizioni regionali
[12] non forniscono indicazione alcuna circa le modalità di individuazione dei soggetti destinati a svolgere i predetti compiti di supporto o ad assumere la funzione di RUP, si ritiene che, per la prima fattispecie, si debba fare riferimento all'art. 31 del D.Lgs. 50/2016 che, disciplinando gli incarichi [13] e i compiti [14] di supporto all'attività della predetta figura, ne prescrive l'affidamento secondo le procedure previste in tale contesto normativo.
Per quanto attiene, invece, all'esternalizzazione della funzione di RUP, inammissibile in base al codice dei contratti pubblici, occorre verificare -e ciò spetta, in via esclusiva, all'amministrazione procedente- quale sia la disciplina applicabile, avuto riguardo ai caratteri propri dell'incarico che si intende affidare e, quindi, alla sua qualificazione giuridica.
È noto, infatti, che per i contratti d'opera e di opera intellettuale (nel cui ambito sono riconducibili quelli che le disposizioni di finanza pubblica definiscono come 'ricerca', 'studio' e 'consulenza') si pone il problema di individuare la normativa applicabile, atteso che la disciplina statale che regola i contratti pubblici, nel recepire le direttive comunitarie in materia, assimila alcuni di essi agli appalti di servizi
[15].
Sulla tematica è intervenuta tanto la magistratura contabile
[16], quanto quella amministrativa [17], ai cui insegnamenti è opportuno rifarsi per ricavare i parametri che dovrebbero consentire al Comune di stabilire la natura giuridica dell'incarico che intende affidare e, conseguentemente, identificare la procedura da osservare [18].
Gli incarichi a professionisti esterni sono generalmente riconducibili, secondo il diritto civile, al contratto d'opera (v. art. 2222
[19]) e, più precisamente, d'opera intellettuale (v. art. 2229) [20].
Come si è già accennato, il codice dei contratti pubblici, delineando l'ambito oggettivo di applicazione, fornisce una definizione di contratto di appalto di servizi
[21] molto più ampia di quella del codice civile, attraendo anche negozi qualificabili come contratti d'opera o di opera intellettuale.
Secondo il codice civile, la distinzione tra contratti d'opera e di opera intellettuale e contratto d'appalto di servizi (v. art. 1655
[22]) emerge dal carattere personale o intellettuale delle prestazioni nei primi e dalla natura imprenditoriale del soggetto esecutore, nel secondo.
L'appalto di servizi, pur presentando elementi di affinità con il contratto d'opera (autonomia rispetto al committente), si differenzia da questo per il profilo dell'organizzazione, considerato che l'appaltatore esegue la prestazione con mezzi e personale propri, che fanno ritenere sussistente, assieme al requisito della gestione a proprio rischio, la qualità di imprenditore commerciale.
Il prestatore d'opera, invece, pur dovendo anch'egli svolgere, dietro corrispettivo, un servizio a favore del committente, senza vincolo di subordinazione e con assunzione del relativo rischio, si obbliga ad eseguirlo con lavoro prevalentemente proprio, senza una necessaria organizzazione.
Il confine fra contratto d'opera intellettuale e contratto d'appalto di servizi sfuma in sede di applicazione della disciplina sui contratti pubblici, che impone predeterminate procedure, ad evidenza pubblica, prodromiche alla stipulazione dei contratti da parte delle pubbliche amministrazioni.
Il codice dei contratti pubblici adotta certamente una nozione ampia di appalto di servizi che comprende, in alcuni casi, anche l'attività del professionista intellettuale, ma tale nozione è finalizzata ad estendere l'ambito oggettivo di applicazione della relativa disciplina in aderenza alle direttive comunitarie di settore, volte a favorire il confronto concorrenziale fra operatori economici, la libera circolazione di servizi ed il diritto di stabilimento. Pertanto, quella nozione non si ripercuote sulle definizioni di contratto di prestazione d'opera, prestazione d'opera intellettuale e di appalto di servizi delineate dal codice civile, atteso che il codice dei contratti pubblici mira a disciplinare le procedure di affidamento di un'ampia gamma di contratti che, pur definiti come 'appalto', comprendono una serie eterogenea di negozi civilistici (somministrazione, mandato, trasporto, assicurazione, ecc.).
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, si segnala che anche il Consiglio di Stato
[23], valorizzando le differenze fra i due contratti ai fini delle conseguenti ricadute in materia di soggezione al codice dei contratti pubblici, ritiene elemento qualificante dell'appalto di servizi, oltre alla complessità dell'oggetto, la circostanza che l'affidatario dell'incarico necessiti, per l'espletamento dello stesso, di apprestare una specifica organizzazione finalizzata a soddisfare i bisogni dell'ente.
Circa, infine, l'ultima questione prospettata, si ritiene che, posto che l'art. 5, comma 2, della L.R. 14/2002, si limita a prevedere che «Le amministrazioni aggiudicatrici nominano
[24], secondo i propri ordinamenti, un responsabile unico del procedimento [...]» [25], l'individuazione del RUP esterno spetti al soggetto posto al vertice della struttura amministrativa [26] competente a realizzare il lavoro, fatte salve le diverse previsioni eventualmente contenute nella convenzione cui il Comune ha aderito.
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[1] Con e-mail del 31.05.2017.
[2] «Qualora le professionalità interne siano insufficienti in rapporto ai lavori programmati, l'amministrazione può nominare responsabile unico del procedimento un professionista esterno ovvero un dipendente di altra amministrazione, con l'obbligo della stipula della polizza assicurativa di cui al comma 6.».
[3] «Al fine di valorizzare le professionalità interne alle amministrazioni, a decorrere dall'anno 2011 la spesa annua per studi ed incarichi di consulenza, inclusa quella relativa a studi ed incarichi di consulenza conferiti a pubblici dipendenti, sostenuta dalle pubbliche amministrazioni di cui al comma 3 dell'articolo 1 della legge 31.12.2009, n. 196, [...] non può essere superiore al 20 per cento di quella sostenuta nell'anno 2009. L'affidamento di incarichi in assenza dei presupposti di cui al presente comma costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale. [...]».
Circa l'applicabilità della disposizione v. l'art. 21-bis del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, come inserito dalla legge di conversione 21.06.2017, n. 96, ai sensi del quale:
«1. Per l'anno 2017, ai comuni e alle loro forme associative che hanno approvato il rendiconto 2016 entro il 30.04.2017 e che hanno rispettato nell'anno precedente il saldo tra entrate finali e spese finali di cui all'articolo 9 della legge 24.12.2012, n. 243, non si applicano le limitazioni e i vincoli di cui:
a) all'articolo 6, commi 7, 8, fatta eccezione delle spese per mostre, 9 e 13, del decreto-legge 31.05.2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30.07.2010, n. 122;
[...]
2. A decorrere dall'esercizio 2018 le disposizioni del comma 1 si applicano esclusivamente ai comuni e alle loro forme associative che hanno approvato il bilancio preventivo dell'esercizio di riferimento entro il 31 dicembre dell'anno precedente e che hanno rispettato nell'anno precedente il saldo tra entrate finali e spese finali di cui all'articolo 9 della legge 24.12.2012, n. 243.».
[4] Nota prot. 5346 del 01.06.2017.
[5] Nota prot. 77889 del 20.07.2017.
[6] Che, ad eccezione del comma 6, irrilevante ai fini dell'odierno esame, è rimasto invariato.
[7] L'art. 7, comma 5, della legge 11.02.1994, n. 109 («Legge quadro in materia di lavori pubblici»).
[8] Il comma 7 della norma regionale dispone, infatti, che «Le amministrazioni aggiudicatrici possono affidare compiti di supporto a professionisti singoli o associati nelle forme di cui alla legge 23.11.1939, n. 1815, e successive modificazioni, o alle società di cui all'articolo 9, comma 1, lettere e) ed f), aventi le necessarie competenze specifiche di carattere tecnico, economico-finanziario, amministrativo, organizzativo e legale e che abbiano stipulato a proprio carico adeguata polizza assicurativa a copertura dei rischi di natura professionale.».
[9] Che «le professionalità interne siano insufficienti in rapporto ai lavori programmati».
[10] Tanto a favore di un soggetto privato, quanto di un dipendente di altra amministrazione (v. nota n. 2).
[11] Il quale ha addirittura sancito, da ultimo, che «L'ufficio di responsabile unico del procedimento è obbligatorio e non può essere rifiutato.» (art. 31, comma 1, ultimo periodo, del D.Lgs. 50/2016).
[12] Comprese quelle contenute nel regolamento di attuazione della legge, approvato con decreto del Presidente della Regione 05.06.2003, n. 0165/Pres..
[13] V. i commi 7 e 8, riguardanti gli incarichi a supporto dell'attività del RUP, consentiti per appalti di particolare complessità, in relazione all'opera da realizzare, che richiedono valutazioni e competenze altamente specialistiche.
[14] V. il comma 11, concernente l'affidamento dei compiti di supporto al RUP, ammesso nell'ipotesi di carenze accertate nell'organico della stazione appaltante o di assenza di soggetto in possesso della specifica professionalità necessaria.
[15] Secondo D. Centrone («Il conferimento di incarichi di consulenza e collaborazione da parte degli enti locali e delle società partecipate, alla luce del nuovo Codice dei contratti pubblici, d.lgs. n. 50 del 2016, e del testo unico sulle società pubbliche, d.lgs. n. 175 del 2016», relazione tenuta al Convegno sul tema 'Gli adempimenti in scadenza al 31.01.2017 per la prevenzione della corruzione e le linee-guida per le città metropolitane', organizzato da UPI-ANCI Piemonte e tenutosi a Torino il 20.01.2017) tale assimilazione concerne l'individuazione della procedura di affidamento, «restando impregiudicata la qualificazione della natura del contratto, da effettuare secondo le regole del diritto civile interno».
[16] V., tra i più recenti interventi della Corte dei conti: Sez. reg.le controllo per la Puglia, delib. n. 63/PAR/2014; Sez. reg.le controllo per la Liguria, delib. n. 79/2015/PAR; Sez. reg.le controllo per la Lombardia, delib. n. 51/2013/PAR, n. 178/2014/PAR e n. 162/2016/PAR.
[17] V., per tutte, la sent. del Consiglio di Stato - Sez. V, n. 2730/2012.
[18] Si ritiene utile riferirsi, prevalentemente, alla più copiosa magistratura contabile, che si è espressa anche con riferimento ad incarichi di natura prettamente tecnica.
[19] «Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un'opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV.».
[20] «La legge determina le professioni intellettuali per l'esercizio delle quali è necessaria l'iscrizione in appositi albi o elenchi.
L'accertamento dei requisiti per l'iscrizione negli albi o negli elenchi, la tenuta dei medesimi e il potere disciplinare sugli iscritti sono demandati alle associazioni professionali, sotto la vigilanza dello Stato, salvo che la legge disponga diversamente.
Contro il rifiuto dell'iscrizione o la cancellazione dagli albi o elenchi, e contro i provvedimenti disciplinari che importano la perdita o la sospensione del diritto all'esercizio della professione è ammesso ricorso in via giurisdizionale nei modi e nei termini stabiliti dalle leggi speciali.».
[21] V. l'art. 3, comma 1, lett. dd), ii) e ss), del D.Lgs. 50/2016.
[22] «L'appalto è il contratto col quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un'opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro.».
[23] Sez. V, sent. n. 2730/2012.
[24] L'espressione conferma che la figura viene ordinariamente reperita nell'ambito del personale dipendente dell'amministrazione.
[25] L'art. 31, comma 1, del D.Lgs. 50/2016 dispone, invece, che «[...] il RUP è nominato con atto formale del soggetto responsabile dell'unità organizzativa, che deve essere di livello apicale [...]».
[26] Che, negli Enti privi di dirigenti, è il titolare della Posizione Organizzativa
(20.07.2017 -
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CONSIGLIERI COMUNALI: Amministratori divieto speciale di acquisto ex art. 1471 c.c..
L'art. 1471, n. 1, c.c., sancisce il divieto, tra gli altri, per gli amministratori comunali di acquistare beni del comune affidati alla loro cura.
La giurisprudenza di merito, il Ministero dell'Interno e l'Anci hanno interpretato la locuzione 'amministratori' in senso ampio, comprensiva del sindaco, degli assessori e dei consiglieri (e anche dei coniugi di questi).
La Corte di Cassazione, con la recente pronuncia n. 2447/2014, ha affermato che gli amministratori per cui vale il divieto speciale di acquisto ex art. 1471, n. 1, c.c., si identificano con 'i componenti degli organi esecutivi di tali enti ma, verosimilmente, non con quelli degli organi deliberanti'.
Peraltro, il rilievo della Suprema Corte è contenuto in una sentenza che dichiara improponibile la domanda introduttiva del giudizio di primo grado -volta ad ottenere la dichiarazione di nullità dell'atto di compravendita di un immobile comunale da parte di un consigliere comunale (con cointestazione anche al coniuge), per violazione dell'art. 1471 c.c.- senza pronunciarsi sulla questione della nullità o meno dell'atto di compravendita (e sulla ripercussione dell'eventuale nullità sulla sfera giuridica del coniuge).
Il che induce, in via prudenziale, a confermare le posizioni di giurisprudenza di merito e prassi espresse nel senso della suddetta accezione ampia della nozione di amministratori di cui all'art. 1471 c.c..

Il Comune riferisce di aver disposto, con delibera consiliare del 2017, la dismissione di immobili entrati a far parte del proprio patrimonio disponibile nel contesto delle procedure di ricostruzione di cui alla L.R. n. 63/1997.
In particolare, il Comune richiama l'art. 30, c. 1, di detta legge regionale, che consente al Comune di cedere in proprietà le nuove unità immobiliari acquisite, anche in deroga alle disposizioni vigenti sull'alienazione dei beni patrimoniali, e ai sensi del quale il consiglio comunale ha deliberato la dismissione degli immobili 'ad ogni altro soggetto, anche privo di contributo' (c. 1, lett. c), prevedendo per l'individuazione dei contraenti la possibilità di esercizio del diritto di prelazione per coloro che avessero in essere un contratto di locazione con il Comune riguardante detti immobili.
Tra i soggetti conduttori vi sono l'attuale Sindaco e il coniuge di un consigliere comunale, per cui il Comune chiede di inquadrare la situazione tenuto conto della particolarità della disciplina applicabile e del divieto speciale di acquisto cui all'art. 1471 c.c..
Ai sensi dell'art. 1471 cod. civ., contenuto nel libro IV 'Delle obbligazioni', non possono essere compratori nemmeno all'asta pubblica, né direttamente né per interposta persona gli amministratori dei beni dello Stato, dei comuni, delle province o degli altri enti pubblici, rispetto ai beni affidati alla loro cura (comma 1, n. 1). La violazione del divieto di acquisto in commento è sanzionata con la nullità (comma 2).
Per quanto concerne l'aspetto dell'applicazione dell'art. 1471 c.c. alle procedure di dismissione degli immobili secondo la disciplina della L.R. n. 633/1977, la Corte di Cassazione
[1] ha affermato l'inderogabilità, da parte del legislatore regionale, delle norme dettate dal codice civile per il diritto delle obbligazioni, in particolare, per quanto qui di interesse, delle norme imperative, cui appartiene il divieto di cui all'art. 1471, c. 1, n. 1, c.c., previsto a pena di nullità [2].
Ciò premesso, si esprimono alcune considerazioni sull'ambito soggettivo di applicazione dell'art. 1471, c. 1, n. 1, c.c..
La giurisprudenza di merito ha ritenuto che il divieto speciale di acquisto ex art. 1471, c. 1, n. 1, c.c., si estenda non solo agli organi esecutivi, ma anche ai componenti i corpi collegiali competenti a deliberare la vendita dei beni degli enti pubblici
[3].
Allo stesso modo, il Ministero dell'Interno ha affermato che il divieto sancito dall'art. 1471 n. 1 cod. civ., in quanto finalizzato a prevenire ogni irregolarità o conflitto di interessi, appare di ampia portata. E così, avuto riguardo alla locuzione amministratori dell'art. 1471 c.c., tra i destinatari del divieto ivi previsto devono comprendersi non solo il sindaco e gli assessori ma anche i consiglieri, anche in considerazione della valenza generale che riveste l'individuazione delle categorie degli amministratori effettuata dal comma 2 dell'art. 77 del D.Lgs. n. 267/2000
[4].
Del pari, l'Anci ha espresso più volte l'avviso per cui il divieto di acquisto ex art. 1471, c. 1, n. 1, c.c. operi nei confronti di tutti gli amministratori (sindaco, assessori e consiglieri), con conseguente nullità del contratto di compravendita effettuato in sua violazione
[5].
Sulla scia di detto orientamento, questo Servizio ha affermato l'applicazione del divieto ex art. 1471, c. 1, n. 1, c.c., agli organi di governo dell'ente locale
[6] -e dunque, Sindaco, assessori, consiglieri- e, per quanto qui di interesse, al coniuge del consigliere, qualora i coniugi siano in regime di comunione di beni [7].
Peraltro, di recente, la Corte di Cassazione, sez. II, 04.02.2014, n. 2447, ha espresso considerazioni in tema di divieto speciale di acquisto ex art. 1471, n. 1, c.c., che si riportano.
La Suprema Corte è intervenuta su una controversia originata dalla pretesa nullità dell'atto di compravendita di un immobile comunale, per il fatto di rivestire il soggetto acquirente del bene (con cointestazione dell'acquisto anche alla sua consorte) la carica di consigliere comunale e di aver partecipato in questa sua veste all'approvazione della delibera consiliare con cui era stato deciso di alienare il bene, in tal modo risultando violato il divieto previsto dall'art. 1471 c.c..
La sentenza d'appello -che aveva confermato la sentenza del Giudice di prime cure dichiarativa della nullità dell'atto di compravendita e contenente l'ordine all'acquirente di far rientrare il bene nella piena disponibilità del comune- è stata impugnata dinanzi alla Corte di Cassazione.
Ebbene, la Suprema Corte -seppur abbia cassato senza rinvio la sentenza della Corte del merito, perché ha ritenuto di accogliere i rilievi dell'acquirente/consigliere comunale (e del coniuge) relativi al difetto di legittimazione attiva della parte attrice del giudizio di primo grado, per carenza di un proprio concreto interesse ad agire, e non si sia pronunciata dunque sulla nullità o meno dell'atto di compravendita (e sulla ripercussione dell'eventuale nullità sulla sfera giuridica del coniuge), per violazione dell'art. 1471 c.c.- ha fatto delle affermazioni in ordine al divieto speciale di acquisto ex art. 1471 c.c..
In particolare, per la Suprema Corte, i soggetti individuati al n. 1) del comma 1, dell'art. 1471 c.c., cioè gli amministratori degli enti pubblici per cui vale il divieto speciale di comprare rispetto ai beni affidati alla loro cura, si identificano con 'i componenti degli organi esecutivi di tali enti ma, verosimilmente, non con quelli degli organi deliberanti'.
Quest'espressione della Corte di Cassazione porterebbe ad applicare il divieto speciale di acquisto ex art. 1471, c. 1, n. 1, c.c., a sindaco ed assessori, ma non ai consiglieri (e di conseguenza neanche ai coniugi dei consiglieri).
Peraltro, il fatto che il rilievo della Suprema Corte sia contenuto in una sentenza che non risolve la questione della nullità o meno dell'atto di acquisto del consigliere comunale
[8], il fatto che ad oggi le posizioni di giurisprudenza e prassi siano espresse nel senso dell'accezione in senso ampio della locuzione 'amministratori' di cui all'art. 1471 c.c. in commento, comprensiva del sindaco, degli assessori e dei consiglieri (e anche dei coniugi di questi), inducono a confermare la posizione già espressa in questo senso da questo Servizio. Ciò, ferma restando, ovviamente, l'autonomia dell'Ente nell'operare una diversa valutazione.
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[1] Cass. civ., sez. I, 26.10.2015, n. 21713. V. anche Cass. civ., sez. II, 04.02.2014, n. 2447, di cui si dirà nel prosieguo, che contiene un passaggio sull'applicazione del divieto speciale di acquisto per i soggetti di cui all'art. 1471, n. 1, c.c., qui di interesse, alle procedure riguardanti la dismissione degli immobili di proprietà pubblica.
[2] Ai sensi dell'art. 1418 c.c., il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente.
[3] Appello Milano, 28.04.1961, GI, 1961, I, 2, 538, richiamata in Commentario al codice civile. Artt. 1470-1547: Vendita, Paolo Cendon, Giuffrè Editore, p. 1471. La pronuncia è, altresì, richiamata in Dizionario giuridico del notariato: nella casistica pratica, Consiglio nazionale del notariato. Ufficio Studi, Giuffrè Editore, 2006, p. 397. Nel testo, a titolo esemplificativo, vengono indicati gli assessori comunali, provinciali e regionali, ma anche i consiglieri comunali, provinciali e regionali.
[4] Ministero dell'interno, Dipartimento per gli affari interni e territoriali, parere del 22 novembre 2004 avente ad oggetto: 'Doveri degli amministratori. Quesito in merito alla possibilità di acquistare'.
[5] Pareri ANCI 03.05.2005, 26.01.2013, 27.01.2016.
[6] Cfr. nota n. 8965 del 31.05.2007. Le note di questo Servizio sono consultabili all'indirizzo web: http://autonomielocali.regione.fvg.it/
[7] Cfr. nota n. 9370 del 31.05.2005, richiamata dall'Ente istante, ove si è affermato che il divieto non si estende ai parenti del consigliere ed al coniuge in regime di separazione dei beni, in quanto si tratta di soggetti terzi. Peraltro, nell'ipotesi in cui i coniugi siano in regime di comunione dei beni, il divieto non dovrebbe operare nei confronti del coniuge dell'amministratore soltanto qualora l'acquisto sia escluso dalla comunione. Conforme sull'estensione del divieto di acquisto per gli amministratori (Sindaco, assessore e consigliere) anche al coniuge: Anci, parere 26.01.2013, cit..
[8] Ed invero, in quella fattispecie, l'acquisto del consigliere è rimasto salvo in conseguenza della ritenuta improponibilità della domanda introduttiva del giudizio di primo grado
(20.07.2017 -
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URBANISTICA: Oggetto: Parere in merito al rapporto tra previsioni del piano di zona ex legge 167/1962 e del piano regolatore generale – Comune di Pomezia (Regione Lazio, nota 18.07.2017 n. 369426 di prot.).

PATRIMONIO: Acquisto terreni.
L'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, introdotto dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, e da ultimo modificato dall'art. 14-bis, c. 1, D.L. n. 50/2017, stabilisce, a decorrere dal 2014, limitazioni all'acquisto di beni immobili per gli enti territoriali, tenuti a comprovarne l'indispensabilità e l'indilazionabilità, nell'ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno.
La giurisprudenza contabile tende ad escludere dall'applicazione del comma 1-ter le procedure espropriative, caratterizzate dal fatto che è riconosciuto al proprietario non un prezzo di acquisto ma un indennizzo, e al cui interno trovano comunque adeguata considerazione le prerogative del comma 1-ter.
L'art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall'art. 11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall'art. 1, c. 138, L. n. 228/2012, non si applicano agli enti locali del Friuli Venezia Giulia per gli acquisti finanziati in tutto o in parte con legge regionale.

Il Comune riferisce di aver concluso nel 2015 la realizzazione di una pista forestale, per cui ha avuto un finanziamento in parte regionale e in parte comunale (mutuo) e avendo ottenuto preventivamente dai proprietari dei terreni interessati la disponibilità alla cessione dei medesimi, per il corrispettivo pattuito, mediante accordo bonario del 2008, ratificato dal Consiglio comunale nel 2014.
L'Ente chiede, dunque, al fine di regolarizzare la pratica, se può procedere all'acquisto dei terreni già previsto nell'accordo bonario del 2008, tenuto conto dei vigenti limiti previsti dall'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, e della giurisprudenza in proposito o, in caso contrario, se possa sanare l'intervento acquisendo l'area secondo le norme di interesse contenute nel Testo unico sulle espropriazioni
[1].
Sentito il Servizio finanza locale di questa Direzione centrale si esprime quanto segue.
L'art. 12, c. 1-ter, D.L. n. 98/2011, come novellato dall'art. 14-bis, D.L. n. 50/2017, prevede che a decorrere dall'01.01.2014, al fine di pervenire a risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti da patto di stabilità interno, gli enti territoriali (e gli enti del Servizio sanitario nazionale) effettuano operazioni di acquisto di immobili solo ove ne siano comprovate documentalmente l'indispensabilità e l'indilazionabilità attestate dal responsabile del procedimento. Le disposizioni di cui al primo periodo non si applicano agli enti locali che procedano alle operazioni di acquisto di immobili a valere su risorse stanziate con apposita delibera del Comitato interministeriale per la programmazione economica o cofinanziate dall'Unione europea ovvero dallo Stato o dalle regioni e finalizzate all'acquisto degli immobili stessi. La congruità del prezzo è attestata dall'Agenzia del demanio previo rimborso delle spese.
Sul piano dell'ordinamento regionale, l'art. 11, c. 11, L.R. n. 5/2013, come novellato dall'art. 11, c. 5, L.R. n. 6/2013, prevede che le disposizioni di cui all'art. 12, D.L. n. 98/2011, come modificato dall'articolo 1, comma 138, della legge 228/2012, non si applicano agli enti locali della Regione per gli acquisti di immobili finanziati in tutto o in parte con legge regionale.
Avuto riguardo a quest'ultima previsione regionale, l'Ente potrà innanzitutto verificare se nei decreti di assegnazione dei fondi regionali di finanziamento vi sia la specifica previsione delle somme a disposizione per l'acquisizione dei terreni interessati dalla pista forestale. In tal caso, infatti, le operazioni di acquisto saranno possibili ai sensi di detta norma regionale.
Se così non fosse, in relazione alle ipotesi prospettate dall'Ente di acquistare i terreni secondo l'accordo bonario con i rispettivi proprietari ratificato con atto consiliare nel 2014, oppure di sanare l'intervento acquisendo l'area secondo la disciplina di interesse contenuta nel Testo unico sulle espropriazione, si esprimono le seguenti considerazioni, con la precisazione che l'aspetto dell'acquisizione sanante ai sensi del D.P.R. n. 327/2001 verrà trattato in generale sotto il profilo della riconducibilità dell'espropriazione per pubblica utilità nell'ambito di applicazione del comma 1-ter vigente, avuto riguardo alla giurisprudenza formatasi sul punto. Ulteriori considerazioni puntuali sul punto potranno essere espresse, per quanto di competenza, dal Servizio lavori pubblici, infrastrutture di trasporto e comunicazione, che legge per conoscenza, qualora lo riterrà opportuno.
Le acquisizioni di immobili da parte delle pp.aa. a mezzo procedura espropriativa o in quanto programmate da delibere dei competenti organi comunali sono state poste dal legislatore come fattispecie derogatorie alla previgente norma di divieto di acquisto di immobili, di cui al comma 1-quater dell'art. 1 del D.L. n. 98/2011, valida per l'anno 2013.
Con l'art. 10-bis del D.L. 08.04.2013, n. 35, inserito dalla legge di conversione 06.06.2013, n. 64, il legislatore ha, infatti, dettato una norma di interpretazione autentica dell'art. 12, c. 1-quater, D.L. n. 98/2011, escludendo dal divieto di acquisto ivi previsto, tra l'altro, le 'procedure relative all'acquisto a titolo oneroso di immobili o terreni effettuate per pubblica utilità ai sensi del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 08.06.2001, n. 327, nonché [...] alle operazioni di acquisto programmate da delibere assunte prima del 31.12.2012 dai competenti organi degli enti locali e che individuano con esattezza i compendi immobiliari oggetto delle operazioni [...]'.
Visto che l'atto consiliare dell'Ente di ratifica dell'accordo bonario risulta avvenuto nel 2014 e dunque successivamente alla data del 31.12.2012 prevista dalla norma di interpretazione autentica, la possibilità di estendere le fattispecie di salvezza ivi previste anche alla disposizione dell'art. 12, comma 1-ter, D.L. n. 98/2011, è circoscritta alla sola ipotesi derogatoria della procedura espropriativa.
In proposito, si sono espresse alcune Sezioni regionali della Corte dei conti nel senso di escludere dette procedure espropriative dall'ambito di applicazione del comma 1-ter vigente.
La Corte dei conti Lombardia, sulla scia delle Sezioni regionali per il Veneto e per la Puglia, ha espresso l'avviso per cui la formulazione del comma 1-ter disciplina le sole ipotesi in cui sia contemplata la previsione di un prezzo di acquisto, e quindi i soli acquisti iure privatorum, ove le pp.aa. agiscono al pari dei soggetti privati, mentre non si applica alle procedure espropriative per pubblica utilità, ove è riconosciuto al proprietario non un prezzo di acquisto ma un indennizzo, che non può rappresentare un corrispettivo.
Questo, peraltro, non significa -afferma la Sezione lombarda- che all'interno del procedimento espropriativo non trovino adeguata considerazione le prerogative enunciate dal comma 1-ter, che prescrive la necessità di comprovare l'indispensabilità e la non dilazionabilità dell'operazione, nell'ottica di conseguire risparmi di spesa ulteriori rispetto a quelli previsti dal patto di stabilità interno. Ed infatti, attraverso la dichiarazione di pubblica utilità, l'autorità espropriante è tenuta a ponderare e confrontare gli interessi coinvolti e le prerogative di cui sono portatori i soggetti del procedimento, fra le quali devono essere ricompresi i vincoli di finanza pubblica. Ciò è testimoniato anche dal fatto che il d.p.r. n. 327/2001 è ispirato espressamente ai principi di economicità ed efficienza, oltre che di pubblicità e semplificazione (art. 2, comma 2)
[2].
Peraltro, per completezza espositiva, va segnalato anche l'orientamento della Corte dei conti Piemonte, la quale, successivamente alla norma di interpretazione autentica del comma 1-quater recata dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, osserva che per quanto riguarda la previsione del comma 1-ter non risultano essere state identificate eccezioni, alle condizioni ivi indicate, in sede d'interpretazione autentica
[3].
---------------
[1] D.P.R. 08.06.2001 n. 327, recante: 'Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità (Testo A)'.
[2] Corte dei conti Lombardia 05.03.2014, n. 97, che richiama Corte dei conti Veneto 12.06.2013, n. 148 e Corte dei conti Puglia, deliberazione 03.05.2013, n. 89. Per la Sezione pugliese, l'estensione delle limitazioni all'acquisto di beni immobili di cui al comma 1-ter anche alle procedure espropriative si tradurrebbe nel divieto di avviare o proseguire procedimenti di espropriazione per pubblica utilità in assenza di un'espressa disposizione legislativa ed in contrasto con l'art. 42, comma 3, della Costituzione recante, invece, il fondamento della potestà espropriativa della pubblica amministrazione. (Secondo il dettato dell'art. 42, c. 3, Cost., la proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale).
La tesi dell'esclusione delle procedure espropriative dalla soggezione alla disciplina del comma 1-ter è confermata da Corte dei conti Lombardia, 24.09.2015, n. 310.
[3] Corte dei conti, sez. reg. contr. Piemonte, 21.11.2013, n. 402. Ed invero, nel caso sottoposto al suo esame, la Corte dei conti ritiene escluso dall'applicazione del comma 1-ter il procedimento ablativo, per la circostanza specifica di essere questo già in corso e già nello stadio successivo all'approvazione del progetto definitivo e alla dichiarazione di pubblica utilità, in una fase cioè in cui risulta in re ipsa integrato il requisito di indispensabilità e indilazionabilità richiesto dal comma 1-ter citato. D'altro canto, la ratio della deroga, espressamente disposta per il 2013, dall'art. 10-bis, D.L. n. 35/2013, a favore delle procedure espropriative, risulterebbe vanificata se poi, per la prosecuzione delle stesse nell'esercizio 2014, fossero richieste le restrittive condizioni di cui al comma 1-ter
(17.07.2017 -
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PUBBLICO IMPIEGO: La certificazione dei periodi di servizio.
DOMANDA:
Un dipendente può richiedere al Comune suo datore di lavoro la certificazione dei periodi di servizio e delle retribuzioni utili ai fini pensionistici -Modello PA04- da produrre all’INPS gestione ex INPDAP unitamente alla richiesta di inserimento di periodi contributivi intermedi non risultanti nel proprio estratto contributivo?
RISPOSTA:
Si teme che non sia più possibile; non è comunque più automatica la redazione di questo documento, in quanto una circolare Inps lo esclude espressamente.
Per i lavoratori iscritti alle casse pensioni della gestione pubblica diverse dallo Stato sono infatti intervenuti profondi cambiamenti. Poi è evidente che le informazioni che prima venivano esposte nel Modello PA04 verranno comunque fornite all’Inps dal datore di lavoro pubblico che le detiene, ma non in questa fase e non con questo modello. Le procedure da seguire per andare in pensione per i lavoratori della Gestione ex INPDAP ora iscritti all’Inps, sono state oggetto di apposita circolare. L’ Inps, infatti, ha comunicato le modifiche con propria circolare 22.03.2016 n. 54 in cui ha chiarito anche che le domande di pensione provenienti da questi lavoratori devono essere presentate con congruo anticipo, per la precisione almeno 6 mesi prima rispetto alla data di uscita dal lavoro.
Il dipendente pubblico che ha intenzione di andare in pensione deve ora presentare due distinte domande:
   1) domanda di pensione all’INPS, avvalendosi direttamente del sito web, del contact center o procedendo attraverso un patronato, con almeno 6 mesi di anticipo rispetto alla data prevista per il suo collocamento a riposo;
   2) domanda di cessazione dal servizio al proprio ente pubblico datore di lavoro, quindi alla propria amministrazione, secondo le scadenze e le modalità previste dall’ordinamento dell’Ente; ovviamente quest’ultimo deve dare al lavoratore tutti i chiarimenti e gli strumenti allo stesso necessari per agevolarne l’iter di pensionamento: ricevuta la copia della domanda di pensione, l’amministrazione pubblica nella sua veste di datore di lavoro è tenuta a controllare nello specifico la regolarità delle denunce contributive, sia sulla base della documentazione in atti che attraverso la funzione INPS “visualizzazione denunce contributive”.
Nel caso in cui dovesse riscontrare che mancano o sono riportati in modo inesatto o parziale,periodi di servizio o retribuzioni, anche per effetto di denunce contributive inesatte, omesse o non correttamente caricate, è tenuta ad apportare le relative correzioni, seguendo le nuove indicazioni fornite dall’Istituto (con precedente circolare 29.01.2016. n. 12, Par. 2).
In particolare l’Inps evidenzia che gli Enti datori di lavoro degli iscritti alle Casse pensioni diverse dallo Stato, ai fini della liquidazione della pensione, non sono più tenuti ad inviare il modello PA04, che secondo le precisazioni dell’INPS stessa , poteva essere trasmesso, solo eccezionalmente e a soli fini correttivi, sino al 30.04.2016. Nel caso in cui i tempi risultassero stretti per correggere eventuali errori, non accade nulla di irreparabile, in quanto la prima liquidazione della pensione è comunque provvisoria, e il trattamento corrispondente sarà opportunamente rivalutato non appena saranno disponibili tutti i dati richiesti. Si fa rimando quindi alla circolare INPS 54/2016 e all’iter ivi descritto.
Nel caso di specie, si ritiene che l’ente se ha acquisito in atti le informazioni relative a periodi non inseriti, come ultimo datore di lavoro del dipendente possa farlo, secondo l’iter ammesso, non più attraverso la modulistica preesistente (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALI: Adempimenti per la prima convocazione del consiglio comunale.
Non esiste una nozione assoluta di consigliere anziano. In particolare, la legge regionale non disciplina la figura del consigliere anziano, laddove, invece, il legislatore statale ne fornisce una definizione all'articolo 40, comma 2, del TUEL, ai fini dell'individuazione del soggetto tenuto a presiedere il consiglio comunale nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, fino all'elezione del presidente del consiglio.
Atteso che l'art. 46, co 3, del TUEL stabilisce solamente che il sindaco deve presentare al consiglio il documento programmatico, non sussiste un obbligo d legge che impone una votazione da parte dell'organo assembleare.

Il Comune formula due quesiti afferenti, il primo, la definizione di consigliere anziano e, il secondo, la necessità o meno di approvazione da parte dell'organo consiliare delle linee programmatiche relative alle azioni e ai progetti da realizzare nel corso del mandato.
Sentito il Servizio Consiglio autonomie locali ed elettorale, si esprimono le seguenti considerazioni.
Con riferimento alla prima questione, l'Ente si pone il dubbio circa l'applicabilità della norma statutaria, che contiene una espressa definizione di consigliere anziano basata sui risultati elettorali, in considerazione della normativa intervenuta successivamente all'entrata in vigore dello statuto. Più in particolare, si rileva che lo statuto comunale è stato approvato con deliberazione consiliare del 12 luglio 1996, è entrato in vigore il 01.02.1997 e non risultano intervenute successive modifiche. Lo stesso, all'articolo 24, prevede che: 'Il consigliere anziano è quello che ha conseguito, nella elezione alla carica di consigliere comunale, la cifra individuale (ottenuta sommando ai voti di lista le preferenze personali) più alta.
Sono esclusi il Sindaco ed i candidati alla carica di Sindaco proclamati consiglieri
'.
Si tratta di una definizione che, nel determinare i criteri di individuazione del consigliere anziano si basa, come sopra già rilevato, sui risultati elettorali. In particolare, la definizione statutaria ha contenuto analogo a quella della norma di legge al tempo in vigore, ovverosia l'articolo 1, comma 2-ter, della legge 25.03.1993, n. 81.
[1]
Attesa la successiva entrata in vigore della legge regionale 05.12.2013, n. 19, la quale, all'articolo 69, comma 1, lett. d), individua un differente criterio di determinazione della cifra individuale di ciascun candidato alla carica di consigliere comunale,
[2] l'Ente si pone il dubbio circa la corretta individuazione del soggetto da qualificare quale 'consigliere anziano'.
Ciò premesso, ed al fine di fornire un quadro più organico della questione posta, si rileva, in primis, che non esiste una nozione assoluta di consigliere anziano. In particolare, la legge regionale non disciplina la figura del consigliere anziano, laddove, invece, il legislatore statale ne fornisce una definizione all'articolo 40, comma 2, del TUEL, ai fini dell'individuazione del soggetto tenuto a presiedere il consiglio comunale nei comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, fino all'elezione del presidente del consiglio (tale soggetto si identifica, per l'appunto, con il consigliere anziano). Tuttavia, il successivo comma 6 del medesimo articolo 40 del D.Lgs. 267/2000 stabilisce la natura cedevole di tale norma laddove afferma che 'le disposizioni di cui ai commi 2, 3, 4 , 5 si applicano salvo diversa previsione regolamentare nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto'.
[3]
Alla luce di quanto sopra affermato segue che lo statuto comunale ha, nella propria autonomia, accolto una nozione di consigliere anziano fondata sui risultati elettorali.
Si tratta, tuttavia, di stabilire se la definizione contenuta all'articolo 24, comma 7, dello statuto debba essere letta ed interpretata in maniera letterale, o se di essa debba essere fornita una interpretazione 'evolutiva' che tenga cioè conto della normativa successivamente intervenuta, e, in particolare, dell'entrata in vigore della legge regionale 19/2013.
Al riguardo si ricorda che l'interpretazione delle norme statutarie compete unicamente all'organo consiliare che ha elaborato le stesse.
È, pertanto, rimesso all'autonomia consiliare stabilire se la norma in commento debba essere interpretata in senso letterale con la conseguenza di individuare il consigliere anziano in colui che ha conseguito, nella elezione alla carica di consigliere comunale, la cifra individuale (ottenuta sommando ai voti di lista le preferenze personali) più alta o, invece, considerare la nozione di cifra individuale con riferimento alla definizione elaborata dal legislatore regionale (cfr. legge regionale 19/2013, articolo 69, comma 1, lett. d)) e, di conseguenza, ritenere che consigliere anziano sia colui che ha conseguito nella elezione alla carica di consigliere comunale la più alta cifra individuale, costituita dal totale dei voti validi di preferenza ottenuti in tutte le sezioni del comune.
Nel ribadire che la scelta di quale sia la soluzione interpretativa da adottare spetta unicamente al consiglio comunale, chi scrive ritiene preferibile la prima ipotesi proposta. Ciò in quanto a livello interpretativo, nell'applicare una disposizione 'normativa' si deve, in primis, privilegiare quella letterale secondo cui 'nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse'.
[4] A ciò si aggiunga che la seconda soluzione proposta sarebbe il frutto di una commistione di fonti di rango differente: non solo quella statutaria e quella legislativa ma, soprattutto, combinerebbe la fonte statale (definizione di consigliere anziano) con la fonte regionale (definizione di cifra individuale), ciascuna relativa ad un diverso contesto.
Si segnala, inoltre, che, qualora si seguisse tale ultima soluzione interpretativa, sarebbe opportuna l'adozione da parte dell'organo consiliare di una interpretazione autentica della disposizione statutaria in oggetto.
Con riferimento alla seconda questione posta si confermano le considerazioni già espresse nel parere rilasciato dai nostri Uffici,
[5] al quale si rinvia, ove si afferma che: 'Lo statuto dovrà indicare il termine entro il quale le linee programmatiche devono essere presentate al Consiglio, i termini di intervento, da parte dello stesso Consiglio, sul documento presentato, nonché le modalità di esame e dell'eventuale approvazione formale. Qualora lo statuto non sia ancora intervenuto, con specifiche norme, nella disciplina di tali aspetti, si ritiene che non sussista un obbligo di legge che impone la votazione da parte del Consiglio. Infatti, l'articolo 46, comma 3, del D.Lgs. 267/2000, stabilisce solamente l'obbligo di presentare all'organo assembleare il documento programmatico, anche in considerazione della natura dell'atto, caratterizzato da una forte valenza politica'.
Il medesimo parere conclude affermando che: 'Si ritiene, pertanto, che il Consiglio comunale, organo a cui detto programma di governo viene presentato, possa autonomamente stabilire, in via transitoria, se procedere alla votazione del documento, ovvero limitarsi ad una mera presa d'atto dello stesso, tenuto conto della specifica competenza attribuitagli dall'articolo 42, comma 3, del D.Lgs. 267/2000, in ordine alla partecipazione alla definizione delle linee programmatiche'.
[6]
---------------
[1] L'articolo 1, comma 2-ter della legge 81/1993 recitava: 'È consigliere anziano colui che ha ottenuto la maggior cifra individuale ai sensi dell'articolo 72, quarto comma, del testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 16.05.1960, n. 570, con esclusione del sindaco neoeletto e dei candidati alla carica di sindaco, proclamati consiglieri ai sensi dell'articolo 7, comma 7, della presente legge.'. Quanto all'individuazione della maggior cifra individuale l'articolo 72, quarto comma, del D.P.R. 570/1960 prevedeva che: 'La cifra individuale di ciascun candidato è costituita dalla cifra di lista aumentata dei voti di preferenza.'.
Per completezza espositiva merita segnalare che le modalità di individuazione del consigliere anziano sono attualmente contenute nel D.Lgs. 267/2000 e, in particolare, all'articolo 40, comma 2, TUEL e all'articolo 73 dallo stesso richiamato, aventi contenuto analogo alle precedenti previsioni statali ora abrogate.
[2] In particolare, l'articolo 69 della legge regionale 19/2013, al comma 1, prevede che: 'Nei comuni con popolazione superiore a 15.000 abitanti, entro il lunedì successivo alla votazione o al più tardi entro il martedì, l'Adunanza dei presidenti compie le seguenti operazioni: a) omissis; b) omissis, c) omissis; d) determina la cifra individuale di ciascun candidato alla carica di consigliere comunale, costituita dal totale dei voti validi di preferenza ottenuti da ciascun candidato in tutte le sezioni del comune; e) omissis.'. La normativa statale mantiene, invece, tuttora il criterio richiamato nella nota 1.
[3] In questo senso è interessante riportare un parere del Ministero dell'Interno (parere del 18.12.2002) ove si afferma che: 'si rileva che la nozione di 'consigliere anziano' è espressamente contemplata dall'art. 40 comma 2 del d.lgs. n. 267/2000 dove si afferma che è consigliere anziano colui che ha ottenuto la maggiore cifra individuale, ai sensi dell'art. 73 dello stesso T.U.E.L. n. 267/2000 con esclusione del sindaco neoeletto e dei candidati alla carica di sindaco, proclamati consiglieri ai sensi dell'art. 73 comma 1 del T.U.E.L. n. 267/2000.
Va tuttavia rilevato che tale norma non solo è espressamente circoscritta, quanto all'ambito di applicazione, ai Comuni con popolazione superiore ai 15.000 abitanti, ma riveste altresì la natura di norma cedevole, in quanto il comma 6 del medesimo art. 40 prevede espressamente che le relative disposizioni si applicano 'salvo diversa previsione regolamentare, nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto'. Ben potranno, pertanto, lo statuto ed il regolamento sul funzionamento del consiglio individuare altri criteri di scelta del consigliere anziano, diversi da quello fondato sui risultati elettorali, quali, ad esempio, la maggiore età o l'anzianità di consiliature.'.
[4] Così articolo 12 delle preleggi.
[5] Parere del 29.09.2005, prot. n. 15925.
[6] In dottrina si veda R. Nobile, 'Presentazione del programma generale di mandato e votazione in consiglio', 03.09.2009, in www.diritto.it e L. Bisio, 'Linee programmatiche, DUP, Peg e pareri al centro della nuova programmazione', 12.01.2016, in www.quotidianoentilocali.ilsole24ore.com
(06.07.2017 -
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EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Immobili di proprietà della Fondazione IRCCS Cà Granda - Ospedale maggiore policlinico di Milano - conferimento del diritto di usufrutto - quesito (MIBACT, Ufficio Legislativo, nota 01.12.2016 n. 34182 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. 8175 del 03.08.2016 con la quale codesta Direzione, nel trasmettere la richiesta di parere, di cui alla nota prot. 5399 del 15.07.2016, del Segretariato regionale per la Lombardia in merito al conferimento del diritto di usufrutto dei fabbricati di esecuzione ultrasettantennale di proprietà della Fondazione IRCCS Cà Granda - Ospedale Maggiore Policlinico di Milano a favore della Fondazione Sviluppo Cà Granda, concordando con l'avviso prospettato dal Segretariato regionale, ritiene che, sulla base di un'interpretazione non estensiva del codice di settore, considerato che il conferimento del diritto di usufrutto tra le due fondazioni lascerebbe immutata la proprietà degli immobili, il conferimento in argomento non sia soggetto al regime di autorizzazione previsto per le alienazioni.
Al riguardo, nel ritenere condivisibile l'orientamento di codesta Direzione, si rappresenta quanto segue.
L'art. 54, comma 2, lett. a), del codice di settore, prevede la temporanea inalienabilità dei beni immobili aventi più di settanta anni di cui all'art. 10, comma 1, ove appartenenti a persone giuridiche private senza fine di lucro e fino alla conclusione del procedimento di verifica dell'interesse culturale previsto dall'art. 12 del codice medesimo. Se tale procedimento si conclude con esito (...continua).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Comune di Sumirago. Istanza relativa alla installazione di una stazione radio base presentata da Vodafone Omnitel S.p.A (ora Vodafone Omnitel N.V.). Richiesta di rimessione alla delibera del Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 14-quater, comma 3, della legge n. 241/1990. Richiesta parere (MIBACT, nota 14.07.2015 n. 16813 di prot.).
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Si fa riferimento alla nota prot. n. 4429 del 06.02.2015, con la quale codesto Dipartimento ha chiesto un parere in merito all'individuazione delle norme sulla tutela paesaggistica da applicare (articolo 146 ovvero dell'articolo 167 del codice dei beni culturali e del paesaggio) ad una fattispecie in relazione alla quale è stata richiesta la rimessione al Consiglio dei Ministri ai sensi dell'art. 14-quater, comma 3, della legge n. 241/1990.
Il caso in esame riguarda la concessione edilizia e la relativa autorizzazione paesaggistica rilasciata, nell'anno 2003, a Vodafone Omnitel s.p.a. per l'installazione di una stazione radiobase, in aerea su cui insiste il vincolo paesaggistico ex lege, trattandosi di zona boschiva (art. 142) comma 1, lettera g).
Tali provvedimenti sono stati annullati, a seguito di ricorso straordinario al Capo dello Stato, con decreto del 18.05.2011, in considerazione del difetto di competenza del Comune di Sumirago a dare l'autorizzazione paesaggistica, trattandosi di funzione delegata alla Provincia, ai sensi dell'art. 6 della legge regionale n. 18 del 1997 (così parere del Consiglio di Stato n. 241 del 18.01.2011).
Essendo stata, nelle more del giudizio, costruita la stazione radio, il Comune di Sumirago ha indetto una conferenza di servizi per il riavvio del procedimento amministrativo finalizzato ad acquisire nuovamente la concessione edilizia e la connessa autorizzazione paesaggistica. La conferenza di servizi si è conclusa, assente la competente Soprintendenza, per il dissenso espresso, in ordine alle modalità di conduzione del procedimento, dalla Provincia di Varese, che ritiene debba chiedersi, nel caso di specie, l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria ex art. 167 del codice di settore, differentemente dall'amministrazione comunale procedente, che invoca, invece, l'applicazione dell'art. 146 del codice.
La questione è stata così rimessa all'esame del Consiglio dei Ministri trattandosi di dissenso espresso da un'autorità preposta alla tutela paesaggistica (Provincia).
Al riguardo, si osserva, preliminarmente, che la questione attiene alla stessa ammissibilità di una fase di riedizione del potere, in presenza di disposizioni (articoli 146, comma 4, 159, comma 5, 167, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004) che hanno stabilito il divieto di sanatoria di opere realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica. (...continua).

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ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale, progressioni con tempi blindati - Rischio sanzioni con la retroattività oltre l’anno.
Il cerchio si chiude: dopo la Funzione Pubblica e l’Aran, anche la Ragioneria generale dello Stato chiarisce che le progressioni economiche non possono avere una decorrenza retroattiva al 1° gennaio dell’anno in cui le relative graduatorie sono approvate.
Il parere della Ragioneria
In questa direzione va il parere della Ragioneria generale dello Stato di cui alla nota 24.03.2017 n. 49781 di prot., che peraltro richiama precedenti indicazioni formulate dalla stessa Ragioneria negli anni precedenti. Per cui si ha finalmente un quadro consolidato a livello di ministeri e dell’Aran, e di conseguenza eventuali scelte diverse che in qualche ente si dovessero fare in termini di decorrenza retroattiva oltre l’anno delle progressioni economiche espongono gli amministratori ed i dirigenti al rischio della maturazione di responsabilità amministrativa. Non possono infatti sussistere, a questo punto, dubbi sull’interpretazione delle disposizioni contrattuali e legislative.
Occorre ricordare che le amministrazioni devono evitare di commettere gli altri errori che si sono manifestati negli anni scorsi, oltre alla retroattività oltre l’anno. In primo luogo, si deve evidenziare che sulla base delle previsioni del Dlgs 150/2009 i beneficiari delle progressioni orizzontali devono essere una quota limitata di dipendenti, per cui diventa palesemente illegittimo non solo stanziare risorse che finanzino progressioni economiche per tutto il personale, ma anche per la maggioranza. E ancora si deve ricordare che gli oneri per le progressioni economiche devono provenire in modo permanente ed esclusivo dalla parte stabile del fondo per la contrattazione decentrata.
La formazione delle graduatorie
È utile evidenziare che l’indicazione per cui non si può andare con una decorrenza retroattiva rispetto al 1° gennaio dell’anno in cui le graduatorie vengono approvate, determina conseguenze sulle valutazioni che devono essere assunte come criterio per la formazione delle graduatorie per la individuazione dei beneficiari di questo istituto. Di conseguenza, se le progressioni economiche vengono finanziate dal fondo del 2017 e si vuole concludere il relativo iter con l’approvazione delle graduatorie entro l’anno, non si potrà assumere tra le valutazioni di cui tenere conto per la formazione della graduatoria quella dell’anno in corso.
In tal caso, infatti la valutazione non potrebbe essere formulata prima della fine dell’anno, il che impedirebbe la assegnazione con decorrenza retroattiva rispetto all’anno di approvazione delle stesse. Di conseguenza la valutazione o l’ultima valutazione di cui tenere conto, se l’ente ha scelto di utilizzare quelle dell’ultimo triennio o di un periodo comunque più lungo dell’anno, deve necessariamente essere quella del 2016.
È necessario sottolineare infine che (elemento presente anche nel conto annuale del personale del 2016, elaborazione che le Pubbliche amministrazioni –in particolare il responsabile di ragioneria e il revisore dei conti- devono trasmettere entro la fine del mese di maggio) viene dedicata una particolare attenzione al monitoraggio delle progressioni economiche effettuate lo scorso anno dai singoli enti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa dell'08.05.2017).

GIURISPRUDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Canne fumarie, la Cassazione sulla presunzione di pericolosità.
La presunzione assoluta di nocività e pericolosità prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza.
Il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall'art. 890 del Codice civile, nella cui regolamentazione rientrano anche le canne fumarie, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità.

Lo ha precisato la II Sez. civile della Corte di Cassazione nella sentenza 24.08.2017 n. 20357.
La suprema Corte ha evidenziato che la suddetta presunzione assoluta di nocività e pericolosità “prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata solo ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino”.
Sempre nella sentenza n. 20357/2017, la Cassazione ha ricordato che “rappresenta ormai principio consolidato in seno a questa Corte, dal quale non v'è ragione di discostarsi, quello secondo cui, in tema di distanze legali nelle costruzioni, qualora sopravvenga una disciplina normativa meno restrittiva, l'edificio in contrasto con la regolamentazione in vigore al momento della sua ultimazione, ma conforme alla nuova, non può più essere ritenuto illegittimo, cosicché il confinante non può pretendere l'abbattimento o, comunque, la riduzione alle dimensioni previste dalle norme vigenti al momento della sua costruzione. Tale effetto non deriva dalla retroattività delle nuove norme, di regola esclusa dall'art. 11 delle preleggi, ma dal fatto che, pur rimanendo sussistente l'illecito di chi abbia costruito in violazione di norme giuridiche allora vigenti e la sua responsabilità per i danni subiti dal confinante fino all'entrata in vigore della normativa meno restrittiva, viene meno però l'illegittimità della situazione di fatto determinatasi con la costruzione, essendo questa conforme alla normativa successiva e, quindi, del tutto identica a quella delle costruzioni realizzate dopo la sua entrata in vigore”.
Da tali considerazioni consegue “la inammissibilità dell'ordine di demolizione di costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al momento della loro realizzazione, tali non siano più alla stregua delle norme vigenti al momento della decisione, salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto al risarcimento dei danni prodottisi medio tempore, ossia di quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione nel periodo compreso tra la sua costruzione e l'avvento della nuova disciplina” (commento tratto da www.casaeclima.com).
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MASSIMA
4.1. Rappresenta ormai principio consolidato in seno a questa Corte, dal quale non v'è ragione di discostarsi, quello secondo cui, in tema di distanze legali nelle costruzioni, qualora sopravvenga una disciplina normativa meno restrittiva, l'edificio in contrasto con la regolamentazione in vigore al momento della sua ultimazione, ma conforme alla nuova, non può più essere ritenuto illegittimo, cosicché il confinante non può pretendere l'abbattimento o, comunque, la riduzione alle dimensioni previste dalle norme vigenti al momento della sua costruzione.
Tale effetto non deriva dalla retroattività delle nuove norme, di regola esclusa dall'art. 11 delle preleggi, ma dal fatto che, pur rimanendo sussistente l'illecito di chi abbia costruito in violazione di norme giuridiche allora vigenti e la sua responsabilità per i danni subiti dal confinante fino all'entrata in vigore della normativa meno restrittiva, viene meno però l'illegittimità della situazione di fatto determinatasi con la costruzione, essendo questa conforme alla normativa successiva e, quindi, del tutto identica a quella delle costruzioni realizzate dopo la sua entrata in vigore
(Sez. 2, Sentenza n. 1368 del 22/02/1996; Sez. 2, Sentenza n. 5173 del 06/04/2001; Sez. 2, Sentenza n. 8512 del 28/05/2003; Sez. 2, Sentenza n. 22086 del 22/10/2007; Cass. civ., sez. II, 02/11/2010, n. 22288).
Ne consegue la inammissibilità dell'ordine di demolizione di costruzioni che, illegittime secondo le norme vigenti al momento della loro realizzazione, tali non siano più alla stregua delle norme vigenti al momento della decisione, salvo, ove ne ricorrano le condizioni, il diritto al risarcimento dei danni prodottisi medio tempore, ossia di quelli conseguenti alla illegittimità della costruzione nel periodo compreso tra la sua costruzione e l'avvento della nuova disciplina (Sez. 2, Sentenza n. 14446 del 15/06/2010).
Analoghe considerazioni valgono per il caso in cui, in presenza di una successione nel tempo di norme edilizie, la nuova disciplina sia meno restrittiva (Sez. 2, Sentenza n. 4980 del 02/03/2007).
Orbene, non è revocabile in dubbio, nella fattispecie in esame, che, a voler accedere all'impostazione seguita dalla corte di merito, la normativa regolamentare sopravvenuta (vale a dire, l'art. 11r della normativa collegata al PUC) sarebbe più favorevole rispetto a quella precedente (rappresentata dall'art. 20-bis delle NTA del P.F.), in quanto la prima prevedrebbe una distanza minima delle costruzioni dai confini di metri tre, in luogo della distanza minima di metri sei in precedenza prescritta (cfr. pag. 9 del controricorso).
Da ciò consegue che il terzo motivo del ricorso, nella sua prima parte, è fondato, nella prospettazione con la quale censura la sentenza d'appello per aver ritenuto applicabile la normativa vigente al momento della costruzione dell'opera (cfr. pag. 8 della sentenza).
In quest'ottica, restano assorbite le ulteriori censure, sollevate con il medesimo terzo motivo, concernenti l'applicabilità in concreto dell'art. 20-bis, nonostante si riferisca solo agli interventi edilizi incidenti sull'"indice di fabbricabilità fondiario" e, comunque, tenuto conto che trattasi di impianti termici (caldaia) e, quindi, di volumi tecnici indispensabili (cfr. pagg. 32-36 ricorso).
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6. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione, la falsa e/o l'errata applicazione degli artt. 873 e 890 c.c., con riferimento all'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., per aver la corte territoriale ritenuto la canna fumaria alla stregua di una costruzione ed applicabile, ai fini delle distanze, l'art. 873 c.c., laddove avrebbe dovuto trovare applicazione l'art. 890 c.c., con la conseguenza che, avendo il ctu rilevato la "buona qualità dell'aria", non si sarebbe dovuto ordinare la sua demolizione.
6.1. Il motivo si rivela inammissibile, in quanto, non essendovi cenno della questione nella sentenza impugnata, la ricorrente avrebbe dovuto indicare con precisione in quale fase e con quale atto processuale l'avesse sollevata.
In proposito, occorre, peraltro, ricordare che
il rispetto della distanza prevista per fabbriche e depositi nocivi e pericolosi dall'art. 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche le canne fumarie, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata solo ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo od al danno del fondo vicino (Sez. 2, Sentenza n. 3199 del 06/03/2002; conf. Sez. 2, Sentenza n. 22389 del 22/10/2009). In quest'ottica, non sarebbe comunque sufficiente invocare l'applicabilità alla fattispecie concreta dell'art. 890 c.c..
D'altra parte, la ricorrente, in violazione del principio di autosufficienza, omette di trascrivere l'ordinanza emessa dalla corte d'appello in data 19.06.2007, con la quale la stessa avrebbe anticipato (senza, peraltro, vincoli sulla successiva decisione finale) la necessità di applicazione dell'art. 890 c.c. per la canna fumaria.
In ogni caso, sempre in violazione del principio di autosufficienza, non vengono riportati i passaggi salienti della c.t.u. svolta in primo grado, dalla quale si sarebbe dovuto evincere che l'attuale distanza preserva il fondo dei resistenti da ogni danno alla salubrità ed alla sicurezza.

EDILIZIA PRIVATA: I regolamenti edilizi sono espressione di una potestà normativa attribuita all'amministrazione, secondaria rispetto alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico esistente, con la conseguenza che l'interpretazione di tali norme va condotta non già secondo i criteri di ermeneutica contrattuale (pur con gli adattamenti imposti dalla natura di tali atti), ma secondo quelli dettati dall'art. 12 delle preleggi e, nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale degli stessi non sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete deve ricorrere al criterio sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis.
Qualora, poi, ciò nonostante, residuino incertezze in ordine al significato obiettivo a riconoscersi alla norma regolamentare, non trova applicazione la regola ermeneutica dettata per i contratti dall'art. 1367 c.c., a tenore della quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno
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4.2. Avuto riguardo alla questione della interpretazione dell'art. 11r, va premesso che, a differenza degli atti e provvedimenti amministrativi generali -che sono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono rivolti alla cura concreta d'interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili-, i regolamenti sono espressione di una potestà normativa attribuita all'amministrazione, secondaria rispetto alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico esistente, con precetti aventi i caratteri della generalità e dell'astrattezza (Sez. 3, Sentenza n. 5062 del 05/03/2007).
Da ciò consegue che l'interpretazione di tali norme va condotta non già secondo i criteri di ermeneutica contrattuale (pur con gli adattamenti imposti dalla natura di tali atti), ma secondo quelli dettati dall'art. 12 delle preleggi.
Orbene,
in base all'art. 12 delle preleggi, nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale di una norma di legge o (come nella specie) regolamentare non sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis.
In particolare, qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua, l'elemento letterale e l'intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquistano un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sì che il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all'equivocità del testo da interpretare
(Cassazione civile, sez. I, 06/04/2001, n. 5128).
Dovendo in siffatta evenienza l'intenzione del legislatore fungere da criterio comprimario di ermeneutica, atto ad ovviare all'equivocità della formulazione del testo da interpretare, non è revocabile in dubbio che il Comune di Bonassola, nel momento in cui ha regolamentato la distanza minima che una nuova costruzione deve osservare rispetto al confine con la proprietà limitrofa, abbia inteso, nel richiamare, sia pure genericamente, il codice civile, fissare tale limite.
Tuttavia, la circostanza che nella sezione VI del libro III del codice civile siano disciplinate varie distanze [oltre, all'art. 873 c.c, gli artt. 889 (Distanze per pozzi, cisterne, fossi e tubi), 890 (Distanze per fabbriche e depositi nocivi o pericolosi), 891 (Distanze per canali e fossi), 892 (Distanze per alberi) e 896-bis (Distanze minime per gli apiari) c.c.; senza tralasciare gli artt. 875 e 877 c.c., che consentirebbero, l'erezione di una costruzione, rispettivamente, in appoggio e in aderenza ad altra preesistente] preclude di ritenere in termini di assoluta ed oggettiva certezza che il generico riferimento al codice civile debba intendersi operato all'art. 873 c.c..
Da ciò deriva che, non trovando applicazione, neppure in via estensiva, le regole ermeneutiche dettate dagli artt. 1362 ss., non può ricorrersi, nella permanere dell'incertezza, all'art. 1367 c.c., a mente del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.
Per quanto la nota negativa dell'08.11.2007 a firma del "responsabile del piano" del Comune di Bonassola geom. Ge. non sia vincolante per il giudice e, comunque, non corretta (in quanto, a tutto concedere, il predetto responsabile avrebbe dovuto attestare l'esistenza attuale nelle NTA al PUC di una disposizione disciplinante le distanze minime delle costruzioni dal confine, pur evidenziando, semmai, la difficoltà ad individuare la norma del codice civile di riferimento ai fini della determinazione di tali distanze), deve, allora pervenirsi alla conclusione che tra le norme tecniche di attuazione del PUC vigenti all'epoca della proposizione della domanda giudiziale e della decisione della controversia non ve ne fosse una disciplinate specificamente la distanza delle costruzioni dal confine.
Alla stregua delle considerazioni che precedono, la interpretazione dell'art. 11r offerta dalla corte territoriale (nel senso di riferire il richiamo operato genericamente al "codice civile" alla distanza minima di tre metri prevista dall'art. 873 c.c.) si rivela non corretta, con la conseguenza che il primo motivo di ricorso merita accoglimento.
In base al primo comma dell'art. 384 c.p.c., va enunciato il seguente principio di diritto: «
I regolamenti edilizi sono espressione di una potestà normativa attribuita all'amministrazione, secondaria rispetto alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all'ordinamento giuridico esistente, con la conseguenza che l'interpretazione di tali norme va condotta non già secondo i criteri di ermeneutica contrattuale (pur con gli adattamenti imposti dalla natura di tali atti), ma secondo quelli dettati dall'art. 12 delle preleggi e, nell'ipotesi in cui l'interpretazione letterale degli stessi non sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro ed univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l'interprete deve ricorrere al criterio sussidiario costituito dalla ricerca, mercé l'esame complessivo del testo, della mens legis.
Qualora, poi, ciò nonostante, residuino incertezze in ordine al significato obiettivo a riconoscersi alla norma regolamentare, non trova applicazione la regola ermeneutica dettata per i contratti dall'art. 1367 c.c., a tenore della quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno
».
Per completezza va evidenziato che il richiamo operato dalla ricorrente al P.R.G. adottato dal Comune di Bonassola in data 21.06.1996 (cfr. pag. 24 del ricorso), al fine di porre in rilievo che non era nello stesso prevista, tra i parametri urbanistici per la zona in discussione, la distanza dai confini, è del tutto irrilevante, in quanto la detta normativa non era quella vigente né all'epoca di costruzione dell'opera (avvenuta nel 1995) né all'attualità (dovendosi far riferimento, come detto, alle NTA del PUC attualmente in vigore).
4.3. Resta assorbita nell'accoglimento della precedente la censura concernente l'asserita violazione e/o falsa ed erronea applicazione dell'art. 11r per aver la corte genovese confermato la sentenza di primo grado nella parte in cui ha ordinato alla Ne. la demolizione di tutte le modifiche dimensionali apportate al locale caldaia nel 1995, anziché, al limite, solo quelle eccedenti il limite minimo di tre metri (cfr. pagg. 25-26 del ricorso).
4.4. E' chiaro che, nel momento in cui si è accertato che le norme tecniche di attuazione del PUC attualmente vigente nel Comune di Bonassola non contengono una espressa previsione sulla distanza minima delle costruzioni dal confine, la tesi difensiva della ricorrente, a mente della quale ella avrebbe potuto, in applicazione del principio di "prevenzione temporale", costruire sul confine "in aderenza", risulta fondata sul piano giuridico.
Invero,
solo qualora i regolamenti edilizi stabiliscano espressamente la necessità di rispettare determinate distanze dal confine, non può ritenersi consentita (salvo concreta, diversa previsione della norma regolamentare) la costruzione in aderenza o in appoggio, poiché l'imposizione di un distacco assoluto dal confine mira a tutelare interessi generali, quali l'assetto urbanistico di una certa zona, e non soltanto ad evitare la formazione di intercapedini nocive all'igiene, alla salute ed alla sicurezza (Sez. 2, Sentenza n. 14261 del 07/07/2005).
Anche di recente le Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 10318 del 19/05/2016) hanno ribadito che
il principio della prevenzione si applica anche nell'ipotesi in cui il regolamento edilizio locale preveda una distanza tra fabbricati maggiore di quella ex art. 873 c.c. e, tuttavia, non imponga una distanza minima delle costruzioni dal confine, atteso che la portata integrativa della disposizione regolamentare si estende all'intero impianto codicistico, inclusivo del meccanismo della prevenzione, sicché il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874, 875 e 877 c.c..
Orbene, non è contestato e, comunque, risulta ex actis (cfr. pagg. 4 della sentenza impugnata e 27-28 del ricorso) che la Negri negli anni 1994-1995 abbia ampliato il locale già posizionato sul confine al fine di collocarvi la caldaia del riscaldamento, posizionando l'ampliamento in aderenza al muro posto sul confine.
In applicazione del principio di prevenzione temporale e della regola enunciata dall'art. 877 c.c., la condotta della odierna ricorrente non è suscettibile di censura
(Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 24.08.2017 n. 20357).

APPALTI: Decorrenza del termine per impugnare le ammissioni ed esclusioni dalla gara e compatibilità comunitaria della relativa disciplina processuale.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super accelerato – Impugnazione di ammissioni e esclusioni – Dies a quo – Individuazione.
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito super accelerato – Proposizione di due ricorsi, uno avverso ammissione e l’altro avverso aggiudicazione – Aggravio processuale – Rinvio alla Corte di giustizia ue – Esclusione.
La presenza di un rappresentante la società concorrente ad una gara pubblica alla seduta durante la quale sono disposte le ammissioni e le esclusioni non fa decorrere il termine di trenta giorni per la relativa impugnazione, che decorre, invece, ai sensi dell’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., dalla pubblicazione del provvedimento che determina esclusioni/ammissioni sul profilo della stazione appaltante (1).
Il sistema del rito c.d. super accelerato previsto dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., nella parte in cui obbliga alla proposizione di due ricorsi, uno avverso l'ammissione e l’altro avverso l'aggiudicazione, non si pone in contrasto con il principio di miglioramento dell’efficacia delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di cui alla direttiva 89/665/CE (2).

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   (1) Ha chiarito il Tar che stante la specialità della previsione contenuta nel comma 2-bis dell’art. 120 c.p.a., essa inevitabilmente è destinata a prevalere su ogni altra previsione o applicazione di tipo giurisprudenziale.
In altre parole, anche a voler ammetter che il termine di reazione processuale decorra, in caso di aggiudicazione, dalla piena conoscenza della determinazione lesiva della PA, ossia dal momento in cui si conclude la seduta di gara in cui sono eventualmente presenti i legali rappresentanti della società che si ritiene lesa, in caso di ammissione/esclusione vale comunque il diverso momento della pubblicazione sul sito della stazione appaltante del relativo provvedimento che tale decisione formalizza. E ciò in quanto il dies a quo per le suddette impugnazioni di esclusione/ammissione è assistito da un regime di specialità rispetto ad ogni altra tipologia di impugnazione in materia di gare pubbliche.
   (2) Ha chiarito il Tar che non viola i principi comunitari di effettività della tutela e di efficacia dei mezzi di ricorso giurisdizionale l’assenza di una fase cautelare, all’interno di tale particolare rito. Come chiarito dal Consiglio di Stato, in sede di parere (comm. spec., 01.04.2016, n. 855) sullo schema di decreto delegato poi sfociato nel Codice dei contratti pubblici, “con riguardo al rito «super speciale» previsto per le ammissioni e le esclusioni … la tutela cautelare diventa, di fatto e nella ordinarietà dei casi, superflua, attesi i tempi strettissimi in cui si perviene alla decisione di merito, di cui può anche essere anticipata la pubblicazione del dispositivo. Sicché la funzione anticipatoria che è propria e tipica della tutela cautelare non troverà ordinariamente possibilità di pratica esplicazione”.
A ciò si aggiunga che lo stesso Codice del processo amministrativo, nel momento in cui ha provveduto a disciplinare determinati istituti di carattere processuale caratterizzati dall’estrema semplicità e celerità del sotteso procedimento giurisdizionale (cfr. ottemperanza, accesso agli atti, silenzio inadempimento), non ha parimenti previsto una fase cautelare quale quella invocata dalla difesa di parte ricorrente. E ciò pur sempre nella dirimente considerazione per cui determinati riti speciali risultano ipso iure idonei ad assorbire e comunque a rendere del tutto superflua l’adozione di determinate decisioni di natura provvisoria ed interinale.
Il Tar ha poi escluso che l’onere di proporre due distinti ricorsi, il primo avverso le ammissioni ed il secondo avverso l’aggiudicazione, possa costituire un evidente aggravio di natura processuale ed economica. Aderendo a precedenti in termini (Tar Napoli, sez. VIII, 19.01.2017, n. 434; Tar Bari, sez. I, 07.12.2016, n. 1367), ha affermato che sarebbe ben possibile ricorrere all’istituto dei motivi aggiunti, da proporre avverso il successivo provvedimento di aggiudicazione.
E ciò in quanto:
1) il comma 7 dell’art. 120 c.p.a. deve essere interpretato nel senso di riconoscere alla parte ricorrente la facoltà (e non l’obbligo) di proporre autonoma impugnativa avverso il provvedimento di aggiudicazione della gara, ove questo sia sopraggiunto all’introduzione del non ancora definito giudizio ex art. 120, comma 6-bis, c.p.a.;
2) una eventuale preclusione di questo genere (obbligo e non facoltà di proporre giudizi separati) sarebbe contraria a fondamentali principi di “economia processuale”;
3) in questa stessa direzione depone tra l’altro il principio generale della cumulabilità delle azioni connesse soggette a riti diversi di cui all'art. 32, comma 1, c.p.a. (TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater, sentenza 22.08.2017 n. 9379 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380/2001, che costituisce la reazione dell'ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità o in assenza del titolo edilizio e, poi, non adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il termine fissato, è misura di carattere sanzionatorio che opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine assegnato quale effetto previsto dalla legge (cfr. comma 3), con la conseguenza che l’accertamento dell'inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, essendo normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa che si limita a formalizzare l’effetto verificatosi alla scadenza di quel termine, ha esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà ed assume rilevanza soltanto come titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. comma 4), come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza.
In particolare, in base all’espressa e specifica previsione dell’art. 31, comma 3, l’effetto acquisitivo è automatico per le opere abusive e la loro area di sedime, nonché per quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.
Ai fini del rigetto dell’istanza di restituzione, pertanto, era irrilevante che l’ordinanza di acquisizione non contenesse alcun riferimento espresso anche all'area di sedime del fabbricato, poiché quest’ultima era, comunque, divenuta di proprietà del Comune per effetto legale del mancato adempimento alla ingiunzione di demolizione né, trattandosi di un acquisto automatico ope legis.
Inoltre, poiché l’acquisizione gratuita dell’atto costituisce una sanzione autonoma e non, invece, una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire al demolizione, né una sanzione accessoria di questa, non può fondatamente tacciarsi il Comune di essere incorso in sviamento di potere per il fatto che, demolita la costruzione abusiva (ad opera del giudice penale), l’area non sia stata riqualificata, riutilizzata ovvero retrocessa al suo primitivo proprietario.
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Il ricorso è affidato a due motivi di doglianza.
Con il primo motivo il ricorrente sostiene che, poiché con l’ordinanza dirigenziale n. 22 del 03.03.2012 il Comune ha proceduto all'acquisizione a titolo gratuito al proprio patrimonio disponibile del solo manufatto abusivo senza alcun riferimento all'area di sedime sulla quale insisteva l'abuso, una volta che è stato abbattuto l'edificio l'acquisita titolarità del diritto di proprietà dell'amministrazione resistente sull’area di sedime mancherebbe di presupposto, soprattutto sotto il profilo dell'emissione di un apposito provvedimento che avrebbe dovuto legittimare l'immissione nel possesso e sancire espressamente l'acquisto originario del diritto di proprietà.
Con il secondo motivo di impugnazione, sull’assunto che nella fattispecie acquisitiva in questione la perdita del diritto di proprietà assumerebbe i connotati di una sanzione accessoria e tenderebbe a soddisfare anche un eventuale interesse dell’amministrazione ad utilizzare per un fine pubblicistico l'opera abusiva ovvero l'area di sedime sulla quale esisteva, il ricorrente argomenta che, non essendo stato manifestato dall'amministrazione nessun interesse per il suolo, che sarebbe in stato di abbandono e non destinatario di alcun intervento di urbanizzazione o di riqualificazione, si verterebbe di un caso di sviamento di potere, in quanto il Comune, anziché utilizzare il frutto di un comportamento illecito per un fine pubblico a vantaggio della collettività, avrebbe posto in essere un’attività meramente repressiva e sanzionatoria.
Le censure, che si prestano ad essere esaminate congiuntamente, sono infondate.
L'acquisizione di cui all'art. 31 del D.P.R. 380/2001, che costituisce la reazione dell'ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un’opera in totale difformità o in assenza del titolo edilizio e, poi, non adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa entro il termine fissato, è misura di carattere sanzionatorio che opera di diritto ed automaticamente allo scadere del termine assegnato quale effetto previsto dalla legge (cfr. comma 3), con la conseguenza che l’accertamento dell'inottemperanza all’ingiunzione di demolizione, essendo normativamente configurato alla stregua di un atto ad efficacia meramente dichiarativa che si limita a formalizzare l’effetto verificatosi alla scadenza di quel termine, ha esclusiva funzione certificativa dell'avvenuto trasferimento del diritto di proprietà ed assume rilevanza soltanto come titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari (cfr. comma 4), come pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza (ex multis, C.d.S., sez. VI, 04.03.2015, n. 1064; sez. IV, 18.11.2014, n. 5666; sez. VI, 08.02.2013, n. 718).
In particolare, in base all’espressa e specifica previsione dell’art. 31, comma 3, l’effetto acquisitivo è automatico per le opere abusive e la loro area di sedime, nonché per quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive.
Ai fini del rigetto dell’istanza di restituzione, pertanto, era irrilevante che l’ordinanza di acquisizione non contenesse alcun riferimento espresso anche all'area di sedime del fabbricato, poiché quest’ultima era, comunque, divenuta di proprietà del Comune per effetto legale del mancato adempimento alla ingiunzione di demolizione né, trattandosi di un acquisto automatico ope legis.
Inoltre, poiché l’acquisizione gratuita dell’atto costituisce una sanzione autonoma e non, invece, una misura strumentale per consentire al Comune di eseguire al demolizione, né una sanzione accessoria di questa (cfr. C. Cost., sent. n. 345 del 1991), non può fondatamente tacciarsi il Comune di essere incorso in sviamento di potere per il fatto che, demolita la costruzione abusiva (ad opera del giudice penale), l’area non sia stata riqualificata, riutilizzata ovvero retrocessa al suo primitivo proprietario.
In ordine, infine, agli ulteriori profili di doglianza introdotti con la memoria del 16.05.2017, se ne deve rilevare l’inammissibilità in quanto introdotti con atto non notificato.
In conclusione, per le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato perché infondato (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 21.08.2017 n. 4096 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIUna volta rilevata l’assenza in atti della mancata sottoscrizione della dichiarazione sostitutiva relativa all’assenza di condanne ostative ex articolo 38, comma 1, lettera c), la stazione appaltante non può escludere dalla gara il partecipante ma piuttosto deve –nel doveroso esercizio del ‘soccorso istruttorio’– mettere il medesimo in condizione di rendere la dichiarazione carente e, comunque, disporre l’esclusione soltanto se emerga la presenza in concreto di condanne ostative.
Infatti, si sensi dell’articolo 38, comma 2-bis, del Codice dei contratti pubblici del 2006 (si tratta della disposizione sul c.d. ‘soccorso istruttorio' a pagamento ratione temporis rilevante ai fini del presente giudizio), “la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2” avrebbe comunque imposto all’amministrazione di ammettere il concorrente al beneficio del soccorso istruttorio.
L’omessa presentazione in gara della dichiarazione sostitutiva in ordine all’assenza dei reati ostativi di cui all’articolo 38, comma 2, lettera c), lungi dal rappresentare una ‘falsa dichiarazione’ (di per sé idonea a giustificare l’esclusione del concorrente dalla gara), si configurava appunto come “mancanza di una dichiarazione sostitutiva”, in quanto tale certamente ammissibile al soccorso istruttorio.

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4. Ma anche a prescindere dalla decettività delle indicazioni desumibili dal richiamato allegato al Bando di gara, il Collegio osserva che la mancata sottoscrizione da parte dei due soci della Eu. s.r.l. delle dichiarazioni sostitutive relative all’assenza di condanne ostative ex articolo 38, comma 1, lettera c), non avrebbe comunque potuto condurre ex se all’esclusione del Consorzio appellante dalla gara.
Infatti, una volta rilevata l’assenza in atti di tali dichiarazioni, la stazione appaltante non avrebbe potuto escludere dalla gara il Consorzio appellante, ma avrebbe piuttosto dovuto –nel doveroso esercizio del ‘soccorso istruttorio’– mettere il Consorzio in condizione di rendere la dichiarazione carente e, comunque, disporre l’esclusione soltanto se fosse emersa la presenza in concreto di condanne ostative.
Infatti, si sensi dell’articolo 38, comma 2-bis, del Codice dei contratti pubblici del 2006 (si tratta della disposizione sul c.d. ‘soccorso istruttorio' a pagamento ratione temporis rilevante ai fini del presente giudizio), “la mancanza, l'incompletezza e ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e delle dichiarazioni sostitutive di cui al comma 2” avrebbe comunque imposto all’amministrazione di ammettere il concorrente al beneficio del soccorso istruttorio.
L’omessa presentazione in gara della dichiarazione sostitutiva in ordine all’assenza dei reati ostativi di cui all’articolo 38, comma 2, lettera c), lungi dal rappresentare una ‘falsa dichiarazione’ (di per sé idonea a giustificare l’esclusione del concorrente dalla gara), si configurava appunto come “mancanza di una dichiarazione sostitutiva”, in quanto tale certamente ammissibile al soccorso istruttorio.
Al contrario (e diversamente da quanto affermato dal primo giudice) la richiamata omissione non era riconducibile alla nozione di “incertezza assoluta sul contenuto o sulla provenienza dell'offerta, [di] difetto di sottoscrizione o di altri elementi essenziali” di cui al successivo articolo 46, comma 1-bis (ipotesi in cui la lacuna imputabile al concorrente non ammette il ricorso al ‘soccorso istruttorio’ e comporta ex se l’esclusione dalla gara).
Del resto, l’Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, nell’interpretare la portata innovativa dell’articolo 39 del decreto-legge n. 90 del 2014 (che ha introdotto il richiamato comma 2-bis nell’ambito del decreto legislativo n. 163 del 2006) ha chiarito che esso testimonia “[la] chiara volontà del legislatore di evitare (nella fase del controllo delle dichiarazioni e, quindi, dell’ammissione alla gara delle offerte presentate) esclusioni dalla procedura per mere carenze documentali (ivi compresa anche la mancanza assoluta delle dichiarazioni), di imporre un’istruttoria veloce, ma preordinata ad acquisire la completezza delle dichiarazioni (prima della valutazione dell’ammissibilità della domanda), e di autorizzare la sanzione espulsiva quale conseguenza della sola inosservanza, da parte dell’impresa concorrente, all’obbligo di integrazione documentale (entro il termine perentorio accordato, a tal fine, dalla stazione appaltante)”.
In definitiva (e contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice), l’amministrazione non avrebbe potuto escludere dalla gara il Consorzio in ragione della richiamata carenza dichiarativa imputabile a una sua consorziata, ma avrebbe dovuto riconoscere le garanzie procedimentali e sostanziali del c.d. ‘soccorso istruttorio a pagamento’.
4.1. La sentenza va dunque in parte qua riformata e va disposto l’annullamento del provvedimento di esclusione impugnato in primo grado (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.08.2017 n. 4048 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Anche in vigenza dell’articolo 676 del codice penale Vassalli [la] giurisprudenza più attenta [ha rilevato] che l’effetto estintivo operi ex lege per effetto del decorso inattivo del tempo e non abbisogni di alcun provvedimento, non rilevando in contrario l’attribuzione al giudice dell’esecuzione della competenza a decidere in merito all’estinzione del reato dopo la condanna.
Invero, con la sentenza n. 2 del 2014 le Sezioni Unite della Cassazione, seppure con riferimento al tema dell’indulto, hanno ritenuto maggiormente coerente con i criteri ermeneutici che sottendono il codice processuale il principio secondo cui, quando un determinato effetto giuridico si verifichi per decorso inattivo del tempo, esso si verifica ope legis al momento in cui siano per legge maturate le condizioni cui è condizionato l’effetto.
Corollario di tale approccio ermeneutico è che il provvedimento dichiarativo dell’estinzione, successivo e ricognitivo di un effetto già verificatosi, resta estraneo ai fini dell’estinzione del reato e si pone in funzione meramente formale e ricognitiva di un effetto già verificato, nel mentre l’automatismo degli effetti dell’estinzione del reato si pone in coerenza con i principi comunitari di ragionevole durata dei processi, sollecita definizione e di minor sacrificio esigibile, evincibili dagli articoli 5 e 6 CEDU.

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5. Con il quarto motivo di appello il CTA lamenta che erroneamente il primo giudice abbia respinto il motivo di ricorso che censurava il provvedimento di esclusione, atteso che i reati commessi dai due soci della consorziata Eu. erano da considerarsi estinti ope legis prima ancora della presentazione della domanda di partecipazione.
L’appellante osserva che l’assenza del provvedimento che dichiara l’estinzione del reato non rileverebbe in senso preclusivo atteso che l’effetto estintivo opererebbe ex lege per effetto del decorso del tempo.
5.1. Il motivo è meritevole di accoglimento, potendosi fare applicazione dei principi enunciati da Cons. Stato, V, 13.11.2015, n. 5192.
Il precedente ha infatti chiarito che “anche in vigenza dell’articolo 676 del codice penale Vassalli [la] giurisprudenza più attenta [ha rilevato] che l’effetto estintivo operi ex lege per effetto del decorso inattivo del tempo e non abbisogni di alcun provvedimento, non rilevando in contrario l’attribuzione al giudice dell’esecuzione della competenza a decidere in merito all’estinzione del reato dopo la condanna” (vengono richiamate al riguardo: Cass. pen., V, 14.05.2015, n. 20068; Cass., SS.UU., 30.10.2014, n. 2).
Il precedente prosegue osservando che “con la sentenza n. 2 del 2014 le Sezioni Unite della Cassazione, seppure con riferimento al tema dell’indulto, hanno ritenuto maggiormente coerente con i criteri ermeneutici che sottendono il codice processuale il principio secondo cui, quando un determinato effetto giuridico si verifichi per decorso inattivo del tempo, esso si verifica ope legis al momento in cui siano per legge maturate le condizioni cui è condizionato l’effetto.
Corollario di tale approccio ermeneutico è che il provvedimento dichiarativo dell’estinzione, successivo e ricognitivo di un effetto già verificatosi, resta estraneo ai fini dell’estinzione del reato e si pone in funzione meramente formale e ricognitiva di un effetto già verificato, nel mentre l’automatismo degli effetti dell’estinzione del reato si pone in coerenza con i principi comunitari di ragionevole durata dei processi, sollecita definizione e di minor sacrificio esigibile, evincibili dagli articoli 5 e 6 CEDU
”.
Ma anche a tacere del rilievo (pur dirimente) di quanto osservato, resta che, in sede di rivalutazione della posizione dell’appellante nel doveroso esercizio del soccorso istruttorio, la stazione appaltante dovrebbe comunque valutare la risalenza nel tempo dei reati di cui è stata omessa la dichiarazione, la loro complessiva tenuità e la non riconducibilità al novero dei “reati gravi in danno dello Stato o della Comunità che incidono sulla moralità professionale” (infatti, in un caso di trattava di una condanna per guida in stato di ebbrezza e in un altro caso della conseguenza di un insoluto contributivo pari ad appena 123 euro).
5.2. Anche per tale ragione l’appello è meritevole di accoglimento (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 21.08.2017 n. 4048 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVII rigorosi presupposti per il legittimo esercizio del potere di adottare –nella specie, da parte del Sindaco, sulla base degli artt. 50 e 54 del T.U.E.L.– ordinanze di necessità volta a volta finalizzate alla salvaguardia di rilevanti interessi pubblici legati all’igiene ed alla sicurezza della collettività, sono rappresentati:
   a) dalla straordinarietà (intesa come difetto di tipici e nominati atti preordinati, anche in contesti necessitati, alla gestione degli interessi coinvolti);
   b) dell’urgenza (intesa come impossibilità di differire, senza pericolo di compromissione di quegli interessi, l’azione amministrativa, con il ricorso alle ordinarie tempistiche);
   c) dell’imprevedibilità delle situazioni di pericolo;
   d) della contingibilità (che connota l’urgente necessità quale accidentale, provvisoria ed improvvisa.
Il difetto dell’uno o dell’altro di tali requisiti appare idoneo a compromettere (anche in relazione alla normale distribuzione delle attribuzioni competenziali) il superiore principio di legalità dell’azione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990), prefigurando l’uso sviato di poteri per definizione extra ordinem e, come tali, assoggettati ad un rigoroso e stretto scrutinio di necessità.

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... per l'annullamento:
a) dell'ordinanza n. 11 del 02.08.2016, notificata, in pari data, a mani proprie del ricorrente, nella qualità di erede e di rappresentante degli altri coeredi del de cuius geom. Gu.Le., con la quale il Sindaco del Comune di Castelnuovo Cilento (SA), ritenuto necessario urgente ed indifferibile l'adempimento dell'art. 7 dell'accordo prot. n. 3803 del 07.09.2010, approvato con deliberazione di Consiglio Comunale n. 20 del 05.10.2010, accessivo alla Convenzione di lottizzazione stipulata il 12.05.2005 dal geom. Gu.Le., dalla società "Tr.Re.Es. S.p.a." e altri, ha ingiunto, ai sensi dell'art. 50, comma 5, D.Lgs. 18.08.2000, n. 267 (T.U.E.L.), ai lottizzanti "Gu.Le. (eredi aventi causa) e Tr.Re.Es. S.p.a. (curatore fallimentare dott. comm. Ra.Si.)", così come individuati nel citato accordo del 07.09.2010, all'art. 7, di provvedere, nella qualità di coobbligati in solido e a tutti i titolari di diritti reali o personali o di godimento sull'area, a proprie spese e cura, nel termine di gg. 8 (otto), al completamento della pavimentazione/asfaltatura di via Fiei;
...
1.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
1.2.- Vale, in premessa ed in termini generali, rammentare come i rigorosi presupposti per il legittimo esercizio del potere di adottare –nella specie, da parte del Sindaco, sulla base degli artt. 50 e 54 del T.U.E.L.– ordinanze di necessità volta a volta finalizzate alla salvaguardia di rilevanti interessi pubblici legati all’igiene ed alla sicurezza della collettività, sono rappresentati:
   a) dalla straordinarietà (intesa come difetto di tipici e nominati atti preordinati, anche in contesti necessitati, alla gestione degli interessi coinvolti);
   b) dell’urgenza (intesa come impossibilità di differire, senza pericolo di compromissione di quegli interessi, l’azione amministrativa, con il ricorso alle ordinarie tempistiche);
   c) dell’imprevedibilità delle situazioni di pericolo;
   d) della contingibilità (che connota l’urgente necessità quale accidentale, provvisoria ed improvvisa.
Il difetto dell’uno o dell’altro di tali requisiti appare idoneo a compromettere (anche in relazione alla normale distribuzione delle attribuzioni competenziali) il superiore principio di legalità dell’azione amministrativa (art. 1 l. n. 241/1990), prefigurando l’uso sviato di poteri per definizione extra ordinem e, come tali, assoggettati ad un rigoroso e stretto scrutinio di necessità.
1.3.- Orbene, nel caso di specie –sia pure evocando generiche e non meglio qualificate ragioni di salvaguardia della igiene e della sicurezza pubblica, in tesi compromesse dalla mancato completamento del manto stradale in zona effettivamente urbanizzata ed interessata da traffico importante– l’Amministrazione appare essersi risolta, di fatto, ad ingiungere alla parte ricorrente l’urgente ed immediata ottemperanza alle obbligazioni a suo tempo assunte, quanto al rifacimento ed alla ripavimentazione del manto stradale, in sede di stipula della convenzione di lottizzazione e con la scrittura convenuta inter partes in data 07.08.2010.
Appare evidente, cioè, che l’adempimento degli obblighi convenzionali avrebbe potuto (e dovuto) essere conseguito (trattandosi, per giunta, di situazione non eccezionale né imprevedibile, in quanto –alla luce della documentazione versata in atti– da tempo nota alle parti, che ne avevano, tra l’altro, fatto oggetto di reiterate iniziative compositive) mediante gli strumenti ordinari di azione amministrativa e non già con l’attivazione dei poteri extra ordinem.
1.4.- Per tal via, il ricorso deve essere accolto (discendendone la consequenziale illegittimità anche degli atti pedissequamente preordinati alla esecuzione in danno, i cui profili patrimoniali dovranno essere apprezzati in sede di complessivo apprezzamento della vicenda relativa alla lottizzazione convenzionata) (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 21.08.2017 n. 1304 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAnche in relazione ai procedimenti ad evidenza pubblica per l’affidamento di lavori, servizi e forniture, l’amministrazione conserva il potere di annullare il bando, le singole operazioni di gara e lo stesso provvedimento di aggiudicazione, ancorché definitivo, in presenza di gravi vizi dell’intera procedura, dovendo tener conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse.
Più volte è stato ribadito che, anche se nei contratti della pubblica amministrazione l’aggiudicazione, quale atto conclusivo del procedimento di scelta del contraente, segna normalmente il momento dell’incontro delle volontà dell’amministrazione e del privato in ordine alla conclusione del contratto (volontà che per quanto riguarda la posizione dell’amministrazione si è manifestata con la individuazione dell’offerta ritenuta migliore), non è tuttavia precluso all’amministrazione di procedere con successivo atto (e con un richiamo ad un preciso e concreto interesse pubblico) all’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione.
Tale potere di autotutela trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, cui deve essere improntata l’attività della pubblica amministrazione, ai sensi dell’articolo 97 Cost., in attuazione dei quali l’amministrazione deve adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire; fermo l’obbligo nell’esercizio di tale potere, anche in considerazione del legittimo affidamento eventualmente ingeneratosi nel privato, di rendere effettive le garanzie procedimentali, di fornire un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni che giustificano la differente determinazione e di una ponderata valutazione degli interessi, pubblici e privati, in gioco.
Pertanto, il provvedimento di aggiudicazione definitiva non costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che all’annullamento degli atti amministrativi che ne costituiscono il presupposto.
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Quanto alla verifica in concreto del potere esercitato dall’amministrazione con i provvedimenti emessi in autotutela ed impugnati, deve osservarsi che, sempre secondo il già ricordato consolidato indirizzo giurisprudenziale, in linea generale, la legittimità di un provvedimento di autotutela è subordinata, oltre che alla comunicazione di avvio del procedimento, anche ad una adeguata motivazione circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi, la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla sua eliminazione (che non può ridursi all’esigenza del mero ripristino della legalità violata), la comparazione tra quest’ultimo e la contrapposta posizione consolidata dell’aggiudicatario e la ragionevole durata del tempo intercorso tra l’atto illegittimo e la sua rimozione.

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11. In generale, è opportuno premettere che, secondo un consolidato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi, anche in relazione ai procedimenti ad evidenza pubblica per l’affidamento di lavori, servizi e forniture, l’amministrazione conserva il potere di annullare il bando, le singole operazioni di gara e lo stesso provvedimento di aggiudicazione, ancorché definitivo, in presenza di gravi vizi dell’intera procedura, dovendo tener conto delle preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse (tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, n. 8554 del 2010, sez. V, n. 7273 del 2010; sez. IV, n. 5374 del 2006).
Più volte è stato ribadito che, anche se nei contratti della pubblica amministrazione l’aggiudicazione, quale atto conclusivo del procedimento di scelta del contraente, segna normalmente il momento dell’incontro delle volontà dell’amministrazione e del privato in ordine alla conclusione del contratto (volontà che per quanto riguarda la posizione dell’amministrazione si è manifestata con la individuazione dell’offerta ritenuta migliore), non è tuttavia precluso all’amministrazione di procedere con successivo atto (e con un richiamo ad un preciso e concreto interesse pubblico) all’annullamento d’ufficio dell’aggiudicazione. Tale potere di autotutela trova fondamento nei principi di legalità, imparzialità e buon andamento, cui deve essere improntata l’attività della pubblica amministrazione, ai sensi dell’articolo 97 Cost., in attuazione dei quali l’amministrazione deve adottare atti il più possibile rispondenti ai fini da conseguire; fermo l’obbligo nell’esercizio di tale potere, anche in considerazione del legittimo affidamento eventualmente ingeneratosi nel privato, di rendere effettive le garanzie procedimentali, di fornire un’adeguata motivazione in ordine alle ragioni che giustificano la differente determinazione e di una ponderata valutazione degli interessi, pubblici e privati, in gioco (Cons. Stato, sez. V, n. 11 del 2011; sez. VI, n. 4864 del 2010; sez. IV, n. 6456 del 2006).
Pertanto, il provvedimento di aggiudicazione definitiva non costituisce di per sé ostacolo giuridicamente insormontabile al suo stesso annullamento, anche in autotutela, oltre che all’annullamento degli atti amministrativi che ne costituiscono il presupposto (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.08.2017 n. 4027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVIQuanto alla verifica in concreto del potere esercitato dall’amministrazione con i provvedimenti emessi in autotutela ed impugnati, deve osservarsi che, sempre secondo il già ricordato consolidato indirizzo giurisprudenziale, in linea generale, la legittimità di un provvedimento di autotutela è subordinata, oltre che alla comunicazione di avvio del procedimento, anche ad una adeguata motivazione circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi, la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla sua eliminazione (che non può ridursi all’esigenza del mero ripristino della legalità violata), la comparazione tra quest’ultimo e la contrapposta posizione consolidata dell’aggiudicatario e la ragionevole durata del tempo intercorso tra l’atto illegittimo e la sua rimozione.
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11.1. Quanto alla verifica in concreto del potere esercitato dall’amministrazione con i provvedimenti emessi in autotutela ed impugnati, deve osservarsi che, sempre secondo il già ricordato consolidato indirizzo giurisprudenziale, in linea generale, la legittimità di un provvedimento di autotutela è subordinata, oltre che alla comunicazione di avvio del procedimento, anche ad una adeguata motivazione circa la natura e la gravità delle anomalie verificatesi, la sussistenza di un interesse pubblico attuale alla sua eliminazione (che non può ridursi all’esigenza del mero ripristino della legalità violata, Cons. Stato, n. 7125 del 2010), la comparazione tra quest’ultimo e la contrapposta posizione consolidata dell’aggiudicatario e la ragionevole durata del tempo intercorso tra l’atto illegittimo e la sua rimozione (tra le tante, Cons. Stato, sez. V, n. 7273 del 2010; sez. VI, n. 2178 del 2010; su tutti questi profili, sez. V, n. 5032 del 2011) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 17.08.2017 n. 4027 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATASe è innegabile che qualunque struttura sia utile a sostenere quella sovrastante, risulta parimenti evidente che il citato art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 subordina il mantenimento dell’opera abusiva, ferma l’applicazione della sanzione pecuniaria, alla condizione che la rimozione dell’intervento pregiudichi la stabilità della porzione di fabbricato legittimamente costruita.
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Il citato art. 34 va interpretato, in modo coerente con la valenza derogatoria della disposizione rispetto alla regola generale della demolizione degli interventi e delle opere realizzati ”in difformità”, nel senso che la sanzione pecuniaria si applica soltanto se sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Affinché possa trovare applicazione la sanzione pecuniaria deve risultare cioè in modo inequivoco che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso: la sanzione pecuniaria prevista dal secondo comma dell’art. 34 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 per gli interventi in parziale difformità dal titolo edilizio deroga alla regola generale della demolizione negli illeciti edilizi prevista dal primo comma: è perciò applicabile solo quando sia «oggettivamente impossibile» procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, per le sue conseguenze materiali, sulla stabilità dell’intero edificio.
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Al riguardo è corretto, come osserva il Comune appellato, per avvalorare la difendibilità della scelta di non disporre una verificazione o una CTU, che in questa situazione la CTU o la verificazione sarebbero state un aggravamento istruttorio inutile, posto che le perizie prodotte dai ricorrenti non avevano in effetti accertato che la rimozione della chiusura al primo piano avrebbe pregiudicato la parte del fabbricato realizzata legittimamente, ma solo che tale chiusura esercitava un effetto benefico (un contributo migliorativo al comportamento dinamico della porzione di edificio legittima), senza però che della permanenza di tale chiusura si attestasse la necessità in termini strutturali.
Ora, se è innegabile che qualunque struttura sia utile a sostenere quella sovrastante, risulta parimenti evidente che il citato art. 34, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001 subordina il mantenimento dell’opera abusiva, ferma l’applicazione della sanzione pecuniaria, alla condizione che la rimozione dell’intervento pregiudichi la stabilità della porzione di fabbricato legittimamente costruita.
In definitiva, la valutazione compiuta in via amministrativa in ordine alla insussistenza dei presupposti per ammettere la proprietà al pagamento della sanzione pecuniaria in luogo della eliminazione della volumetria abusiva risulta essere stata formulata in maniera motivata e non irragionevole, e l’apprezzamento del primo giudice in ordine alla non ammissione della CTU o della verificazione risulta non irragionevolmente esercitato.
Del resto, il citato art. 34 va interpretato, in modo coerente con la valenza derogatoria della disposizione rispetto alla regola generale della demolizione degli interventi e delle opere realizzati ”in difformità”, nel senso che la sanzione pecuniaria si applica soltanto se sia oggettivamente impossibile procedere alla demolizione.
Affinché possa trovare applicazione la sanzione pecuniaria deve risultare cioè in modo inequivoco che la demolizione, per le sue conseguenze materiali, inciderebbe sulla stabilità dell'edificio nel suo complesso: la sanzione pecuniaria prevista dal secondo comma dell’art. 34 del d.P.R. 06.06.2001 n. 380 per gli interventi in parziale difformità dal titolo edilizio deroga alla regola generale della demolizione negli illeciti edilizi prevista dal primo comma: è perciò applicabile solo quando sia «oggettivamente impossibile» procedere alla demolizione delle parti difformi senza incidere, per le sue conseguenze materiali, sulla stabilità dell’intero edificio (ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 30.03.2017, n. 1484; Sez. VI, 09.04.2013 n. 1912) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16.08.2017 n. 4013 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

VARI: Alla Corte costituzionale lo scioglimento del Corpo Forestale dello Stato e l’assorbimento del suo personale nell’Arma dei Carabinieri e nelle altre Forze di Polizia ad ordinamento militare.
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Militari, Forze armate e di polizia – Corpo forestale dello Stato – Soppressione e assorbimento del personale nell’Arma dei Carabinieri e nelle altre Forze di Polizia ad ordinamento militare – Art. 8, lett. a, l. n. 124 del 2015 e 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19, d.lgs. n. 177 del 2016 – Violazione artt. 2, 3, commi 1 e 2, 4, 9, 32, 76, 77, comma 1, e 81 Cost. – Rilevanza e non manifesta infondatezza.
E’ rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, lett. a), l. 07.08.2015, n. 124, per contrasto con gli artt. 3, commi 1 e 2, 9, 32, 76, 77, comma 1, e 81 Cost. e degli artt. 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18 e 19, d.lgs. 19.08.2016, n. 177, nella parte in cui hanno disposto lo scioglimento del Corpo Forestale dello Stato e l’assorbimento del suo personale nell’Arma dei Carabinieri e nelle altre Forze di Polizia ad ordinamento militare, per contrasto con gli artt. 2, 3, commi 1 e 2, 4, 76 e 77, comma 1, Cost. (1).
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   (1) Ha preliminarmente ricordato il Tar che ai sensi dell’art. 8, lett. a), l. 07.08.2015, n. 124 (c.d. Riforma Madia) il Governo era delegato a provvedere alla riorganizzazione del Corpo forestale dello Stato ed eventuale assorbimento del medesimo in altra Forza di polizia salvaguardando le professionalità esistenti, le specialità e l'unitarietà delle funzioni da attribuire, assicurando la necessaria corrispondenza tra le funzioni trasferite e il transito del relativo personale. Il Governo ha attuato tale delega disponendo l’assorbimento del Corpo Forestale nell’Arma dei Carabinieri, facendo confluire in quest’ultima quasi tutte le sue funzioni e il personale a esse preposto.
La riforma si pone, ad avviso del Tar, in violazione di numerosi principi costituzionali.
Quanto alla disciplina dell’assorbimento, il Tar ha chiarito che ai sensi dell’art. 12, d.lgs. 19.08.2016, n. 177, il personale assegnato all’Arma dei Carabinieri (o ad altra forza di polizia o al Ministero delle politiche agricole), se rinuncia, di fatto, a tale assegnazione si espone a procedure di mobilità e al collocamento in disponibilità, quindi ad un sicuro peggioramento delle condizioni giuridiche ed economiche del rapporto di lavoro e a una possibile estinzione dello stesso, previa collocazione in disponibilità per 24 mesi. È quindi evidente la ragione per cui ben pochi hanno alla fine deciso di non “accettare” il transito nella Forza di Polizia per essi designata, e nel caso dei Carabinieri e della Guardia di Finanza anche la modifica della condizione, da civile a militare.
La “scelta” della gran parte del personale di non tentare l’insidiosa e incerta strada della mobilità non appare pertanto frutto di volontà libera da coazione, quanto piuttosto dal desiderio di non mettere a rischio la propria professionalità (ricollocarsi in altra Amministrazione di diversa natura e con diverse mansioni rispetto al comparto sicurezza), oltre in generale le proprie condizioni lavorative ed economiche, e quindi indirettamente anche familiari.
Sotto tale profilo appare quindi violato l’art. 2 Cost., perché non è stato rispettato il principio di autodeterminazione del personale del Corpo Forestale nel consentire le limitazioni, all’esercizio di alcuni diritti costituzionali, derivanti dall’assunzione non pienamente volontaria dello status di militare, e l’art. 4 Cost., perché il rapporto di impiego e di servizio appare radicalmente mutato con l’assunzione dello status di militare, pur in mancanza di una scelta pienamente libera e volontaria da parte del medesimo personale del Corpo Forestale.
Ha aggiunto il Tar che la mancata previsione della facoltà di scelta, nel senso di poter mantenere il precedente stato (militare o civile che sia) senza dover rinunciare all’esercizio delle precedenti funzioni di polizia, quindi la mancata previsione della possibilità di poter comunque scegliere di transitare in altra Forza di Polizia con il medesimo ordinamento, connota sotto ulteriore profilo l’illegittimità costituzionale del decreto delegato per violazione degli artt. 76 e 77 Cost., laddove il Governo, nell’interpretare i principi e criteri direttivi, non ha optato per un’attuazione conforme anche a tale tradizione normativa (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 340 del 2007), ma ha scelto la militarizzazione obbligatoria e non solo facoltativa del personale del Corpo Forestale (ove destinato alla Guardia di Finanza o all’Arma dei Carabinieri), salva la rinuncia di quest’ultimo all’esercizio delle funzioni di polizia giudiziaria, e peraltro per contingenti assai limitati per la mobilità verso altre Amministrazioni civili.
Ha ancora rilevato il Tribunale che la scelta del Governo non si presenta neanche razionale, con conseguente violazione dell’art. 3, commi 1 e 2, Cost., atteso che la militarizzazione, a fronte del notevole sacrificio imposto al personale, non appare proporzionale allo scopo (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 223 del 2012) del mantenimento dell’efficienza che al Corpo è sempre stata riconosciuta. Sicché appare evidente come tale “militarizzazione” si ponga quantomeno in controtendenza rispetto alla legislazione preesistente sia in senso generale con riguardo alle altre Forze del comparto sicurezza sia in particolare con riguardo allo stesso Corpo Forestale dello Stato, il cui ordinamento civile, sul piano dell’efficienza, era stata confermata dal legislatore poco più di un decennio fa, con la l. 06.02.2004, n. 36.
E, come noto, secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 340 del 2007), il legislatore delegato non può mai, non solo derogare ai principi ispiratori della delega, ma neanche porsi in contrasto con la tradizione precedente, dettando arbitrariamente principi innovativi, atteso che, per quanta ampiezza possa a questo riconoscersi, il libero apprezzamento del legislatore delegato non può mai assurgere a principio o a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega.
La riforma appare incostituzionale, per violazione degli artt. 76 e 77, comma 1, Cost., anche nella parte in cui si è scelto di assorbire il Corpo Forestale in una Forza di polizia a ordinamento militare e non civile, cosi violando in via diretta il contenuto della delega, che tra l’altro imponeva la salvaguardia delle peculiarità ordinamentali e la facoltà di scelta per il personale ai fini del transito in altre Forze di polizia, ove ne derivasse un mutamento della condizione da civile a militare.
Ancora, appare altresì violato l’art. 3, commi 1 e 2, Cost., laddove si è ritenuto semplicisticamente che l’assorbimento, di un Corpo così specializzato, in altra Forza di polizia ad ordinamento militare, con smembramento di alcune sue funzioni in altre Forze di polizia e nei Vigili del Fuoco, non possa creare alcuna diminuzione nella incontestata efficienza assicurata e garantita dal Corpo medesimo a tutela dei menzionati beni di rilevanza costituzionale; e laddove si è inoltre ritenuto del tutto irragionevolmente che tale smembramento dell’organizzazione e delle competenze potesse condurre ad una razionalizzazione dei costi e ad una semplificazione organizzativa, mantenendo gli stessi standard qualitativi acquisiti in anni di storia (TAR Abruzzo-Pescara, ordinanza 16.08.2017 n. 235 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza costante, il ricorso all'autotutela può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui alla appena citata norma ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Sicché, il Collegio ritiene che l'annullamento d'ufficio di una autorizzazione paesaggistica, indipendentemente dal tipo di intervento che deve essere realizzato sul territorio, richieda necessariamente un'espressa motivazione in ordine all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante, preminente su quello privato alla conservazione del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di autotutela della pubblica amministrazione, entro un termine ragionevole, non essendo sufficiente l'intento di operare un mero astratto ripristino della legalità violata.
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5. – Dalla documentazione acquisita in giudizio emerge che la Sovrintendenza con nota 11770 del 16.04.2014 aveva espresso parere favorevole alla installazione dei due cartelloni “non essendosi rilevati elementi avversi la conformità e la compatibilità dei lavori di cui si tratta (…)” (così, testualmente, nell’atto sopra richiamato e depositato in giudizio).
Con la successiva nota qui impugnata del 04.01.2016, adottata in seguito alla riapertura del procedimento, provocato dalla nota che il Comune di Fiumicino, in data 07.09.2015, aveva trasmesso alla Soprintendenza chiedendo un ulteriore approfondimento istruttorio ed al preavviso di diniego di cui alla nota del 03.11.2015, la Soprintendenza ribaltava totalmente il precedente avviso favorevole specificando testualmente che:
   - il luogo oggetto dell’intervento di installazione di cartellonistica pubblicitaria su strada di cui alla richiesta di autorizzazione si colloca “in una zona sottoposta a tutela paesaggistica, in un punto di grande visibilità”;
   - “la proposta è risultata non compatibile, in quanto propone la messa in opera di due strutture per insegna pubblicitaria di ampia dimensione, collocate su suolo pubblico in un'area che, pur vulnerata dalla presenza diffusa di un'edificazione disomogenea e di scarsa qualità, presenta ancora visuali sufficientemente libere da interferenze visive”;
   - l'installazione in esame, ove realizzata, a causa delle sue dimensioni e della tipologia di forme e materiali scelti, causerebbe un disturbo percepibile dei valori paesaggistici tutelati, che si aggiungerebbe al disordine esistente, in contrasto con le finalità di miglioramento della qualità paesaggistica indicate dalla normativa di tutela vigente.
La Sovrintendenza poi, nel corpo del medesimo atto rilevava (sempre testualmente) come “nelle osservazioni prodotte, la richiedente cita l'autorizzazione ottenuta da questo Ufficio per altre due installazioni simili. Tale argomentazione, non può essere assunta come parametro ai fini della autorizzazione di "compatibilità paesaggistica" di competenza di questo Ufficio ai sensi dell'art. 146, co. 8, del D.lgsl. 42/2004. Come già asserito nel preavviso di diniego espresso da questa Soprintendenza con la nota citata a margine, l'art. 153 del Codice riguarda esclusivamente le installazioni pubblicitarie, che per loro natura sono considerate dalla normativa paesaggistica, pertanto, in via di principio generale come elementi di forte disturbo dei valori paesaggistici ("il paesaggio è l'ambiente nel suo aspetto visivo", vv. sentenza C. Cost. n. 367/2007). Pertanto, per quanto attiene gli aspetti strettamente paesaggistici (vv. sentenza Cons. Stato n. 3652/2015), si ritiene che il permanere, e/o il proliferare di simili installazioni in zone che, essendo sottoposte a tutela paesaggistica ai sensi dell'art. 9 della Costituzione, necessitano di particolare attenzione, a causa dell'aspetto intrusivo di tali manufatti è da considerarsi non solo non accettabile ma censurabile”.
Concludeva la Sovrintendenza la motivazione della decisione sfavorevole segnalando al Comune di Fiumicino che, “si rimanda l'autorizzazione eventuale di strutture pubblicitarie, ove possibile, ad una fase successiva alla rivisitazione della normativa comunale di riferimento attualmente in vigore, normativa che è comunque sempre subordinata a quella paesaggistica”.
6. – Pare evidente, dalla semplice lettura della motivazione dell’atto qui impugnato con il ricorso introduttivo, che il revirement della Soprintendenza non è accompagnato da alcun espressa divulgazione delle ragioni tecnico-giuridiche che hanno imposto la rivalutazione della compatibilità paesaggistica dell’installazione della cartellonistica stradale né –e ciò è ancora meno comprensibile– delle ragioni che hanno indotto gli uffici in un primo tempo a rilasciare con nettezza e senza oscillazioni il nulla osta alla installazione per poi, ad una distanza temporale inferiore a due anni, mutare totalmente avviso con riferimento all’identico contesto paesaggistico ambientale rispetto al quale la installazione non avrebbe avuto, secondo il primo parere, nessun impatto pregiudizievole per i valori da proteggere nell’area interessata.
Peraltro tale contraddizione non risolta da una adeguata motivazione era stata già sottolineata dalla odierna ricorrente all’epoca dell’invio delle controdeduzioni al preavviso di diniego del 03.11.2015, ma la Soprintendenza non ha ritenuto, neppure nella parte del provvedimento di diniego nel quale mostra di esprimere una risposta alle controdeduzioni, di fornire riferimenti più puntuali in merito, limitandosi, per vero in modo piuttosto semplicistico, ad affermare come il riferimento segnalato nelle controdeduzioni all’autorizzazione ottenuta dalla società per altre due installazioni simili costituisce “argomentazione (che n.d.r.) non può essere assunta come parametro ai fini della autorizzazione di "compatibilità paesaggistica" di competenza di questo Ufficio”.
7. – Sotto altro versante va poi rilevato che il provvedimento della Soprintendenza costituisce un diniego di autorizzazione paesaggistica frutto dell’esercizio del potere attribuito al ridetto ente dall’art. 146 del d.lgs. 22.01.2004, n. 42.
Il legislatore ha concepito l’intero procedimento ed il provvedimento conclusivo dello stesso come un autonomo procedimento amministrativo indipendente rispetto “al permesso di costruire o agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio” (così, testualmente, al comma 4).
Orbene risulta agli atti che la Soprintendenza aveva già esercitato tale potere, concludendo il relativo procedimento con l’autorizzazione di cui alla nota n. 11770 del 16.04.2014, esprimendo parere favorevole alla installazione dei due cartelloni. Ne deriva che il nuovo provvedimento adottato il 04.01.2016 costituisce una duplicazione dell’esercizio dello stesso potere (già esercitato) senza che mai, neppure nel provvedimento qui impugnato, la Soprintendenza abbia posto nel nulla il precedente atto secondo le coordinate della disciplina legislativa degli atti di ritiro, vale a dire nel rispetto degli artt. 21-quinquies e 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241.
Posto che non appare francamente revocabile in dubbio che il provvedimento del 04.01.2016 contenga un implicito annullamento del precedente avviso favorevole del 18.04.2014, posto che lo supera nei fatti e sotto il profilo giuridico ponendolo nel nulla, nell’adottarlo la Soprintendenza avrebbe dovuto rispettare le prescrizioni dettate per l’adozione degli atti di ritiro dall’art. 21-nonies l. 241/1990.
Infatti, per giurisprudenza costante, il ricorso all'autotutela può avvenire solamente ricorrendo le condizioni di cui alla appena citata norma ovvero sussistendo le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati.
Il Collegio, condividendo l'orientamento giurisprudenziale anche di questa Sezione, ritiene che l'annullamento d'ufficio di una autorizzazione paesaggistica, indipendentemente dal tipo di intervento che deve essere realizzato sul territorio, richieda necessariamente un'espressa motivazione in ordine all'interesse pubblico concreto ed attuale al ripristino dello status quo ante, preminente su quello privato alla conservazione del provvedimento, che giustifichi il ricorso al potere di autotutela della pubblica amministrazione, entro un termine ragionevole, non essendo sufficiente l'intento di operare un mero astratto ripristino della legalità violata (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. VI, 27.04.2015 n. 2123 e 20.09.2012 n. 4997 nonché TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 13.08.2015 n. 1896 e TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 03.02.2015 n. 654).
8. – Ad avviso del Collegio, quindi, sono fondate le censure con le quali la Un. contesta la contraddittorietà del comportamento mantenuto dalla Soprintendenza rispetto al precedente parere espresso in senso favorevole alla installazione, del quale non ha tenuto in adeguato conto nella motivazione dell’atto di diniego qui impugnato con il ricorso introduttivo nonché i profili di doglianza che attengono ad una non corretta applicazione della disciplina regolatrice gli atti di ritiro. Il rilievo delle doglianze accolte, nel palinsesto di legittimità dell’atto impugnato, provoca la irrilevanza dello scrutinio degli ulteriori motivi di gravame dedotti.
La fondatezza dei suindicati motivi di censura provoca, inevitabilmente, l’accoglimento anche del ricorso recante motivi aggiunti con il quale veniva impugnato, anche per illegittimità derivata, il provvedimento comunale conseguente che, traendo forza giuridica dal parere sfavorevole della Soprintendenza alla installazione dei due cartelloni, negava il rilascio della relativa autorizzazione comunale (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.08.2017 n. 9297 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Come è noto, per giurisprudenza costante, va distinto l’interesse di fatto del vicino, del proprietario dell’immobile nel quale sarebbero stati realizzati abusi edilizi, acché tali opere abusive siano eliminate, rispetto all’interesse dello stesso ad essere presente nel giudizio proposto nei confronti dell’ordinanza di demolizione in qualità di parte necessaria del processo nella veste di controinteressato, tanto da doversi ritenere inammissibile il gravame proposto senza che sia stato notificato al vicino (o, comunque, a colui che ha denunciato la costruzione di opere abusive al competente Comune).
Si afferma in proposito, infatti, che:
   - la qualità di controinteressato, cui il ricorso giurisdizionale dev'essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria sfera giuridica.
Siffatto riconoscimento opera non in relazione ad esigenze processuali, ma dev'essere condotto sulla scorta o del c.d. elemento sostanziale (individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente), oppure del c.d. elemento formale (indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione); in conformità a ciò, il proprietario finitimo di un fabbricato, in ordine al quale sia stata ordinata la demolizione di una scala interna, non riveste una posizione giuridica di contro interesse nel giudizio instaurato per l'annullamento dell'ordinanza;
   - pertanto, nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso.
Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica;
   - se ne può dunque concludere che nell'impugnazione di un diniego di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione non sono normalmente configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica.
Pertanto, in ragione di quanto sopra, se è vero che la qualità di controinteressato in senso formale e quindi di contraddittore necessario nel processo amministrativo impugnatorio va riconosciuta al soggetto che dal provvedimento impugnato riceva una concreta e diretta utilità giuridica e abbia pertanto un qualificato interesse a mantenere nel proprio patrimonio tale utilità, il vicino o il denunciante l’abuso edilizio, pur essendo stato coinvolto in processi aventi ad oggetto l’impugnazione di un pregresso permesso di costruire ovvero di una ordinanza di demolizione e pur avendo un indiscutibile interesse a opporsi a trasformazioni urbanistiche sul suolo che non siano legittime, non è destinatario in forza dell'ordinanza di demolizione impugnata di alcuna diretta utilità giuridica.
In altri termini il vantaggio che il vicino o il denunciante riceve dalla eventuale reiezione del ricorso avverso l’ordinanza di ingiunzione a demolire le opere abusive è indiretto e mediato e, se ciò lo legittima senz'altro a intervenire nel processo, non gli conferisce la qualità di controinteressato in senso formale, cioè di (unico) contraddittore, da cui discenderebbe, non essendo stato chiamato in giudizio, la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

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9. – Va anzitutto scrutinata l’eccezione preliminare sollevata dalla parte intervenuta ad opponendum che sostiene la inammissibilità del ricorso perché alla stessa non notificaoa nella qualità di controinteressato.
L’eccezione non ha pregio.
Come è noto, per giurisprudenza costante, va distinto l’interesse di fatto del vicino, del proprietario dell’immobile nel quale sarebbero stati realizzati abusi edilizi, acché tali opere abusive siano eliminate, rispetto all’interesse dello stesso ad essere presente nel giudizio proposto nei confronti dell’ordinanza di demolizione in qualità di parte necessaria del processo nella veste di controinteressato, tanto da doversi ritenere inammissibile il gravame proposto senza che sia stato notificato al vicino (o, comunque, a colui che ha denunciato la costruzione di opere abusive al competente Comune).
Si afferma in proposito, infatti, che:
   - la qualità di controinteressato, cui il ricorso giurisdizionale dev'essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere efficace il provvedimento impugnato -e men che mai a chi ne subisca conseguenze indirette o riflesse-, ma soltanto al soggetto che da quest'ultimo riceve un vantaggio diretto ed immediato, ossia il vantaggioso accrescimento della propria sfera giuridica. Siffatto riconoscimento opera non in relazione ad esigenze processuali, ma dev'essere condotto sulla scorta o del c.d. elemento sostanziale (individuazione della titolarità di un interesse analogo e contrario alla posizione legittimante del ricorrente), oppure del c.d. elemento formale (indicazione nominativa nel provvedimento di colui che ne abbia un interesse qualificato alla conservazione); in conformità a ciò, il proprietario finitimo di un fabbricato, in ordine al quale sia stata ordinata la demolizione di una scala interna, non riveste una posizione giuridica di contro interesse nel giudizio instaurato per l'annullamento dell'ordinanza (così Cons. Stato, Sez. V, 03.07.1995 n. 991);
   - pertanto, nell'impugnazione di un'ordinanza di demolizione non sono configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso. Infatti, la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette riflesse, ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (così, Cons. Stato, Sez. IV, 06.06.2011 n. 3380);
   - se ne può dunque concludere che nell'impugnazione di un diniego di permesso di costruire o di un'ordinanza di demolizione non sono normalmente configurabili controinteressati nei confronti dei quali sia necessario instaurare un contraddittorio, e ciò anche nel caso in cui sia palese la posizione di vantaggio che scaturirebbe per il terzo dall'esecuzione della misura repressiva ed anche quando il terzo avesse provveduto a segnalare all'amministrazione l'illecito edilizio da altri commesso atteso che la qualità di controinteressato, cui il ricorso deve essere notificato, va riconosciuta non già a chi abbia un interesse, anche legittimo, a mantenere in vita il provvedimento impugnato (e tanto meno a chi ne subisca conseguenze soltanto indirette o riflesse), ma solo a chi dal provvedimento stesso riceva un vantaggio diretto e immediato, ossia un positivo ampliamento della propria sfera giuridica (così, Cons. Stato, Sez. III, 12.12.2014 n. 6138).
Pertanto, in ragione di quanto sopra, se è vero che la qualità di controinteressato in senso formale e quindi di contraddittore necessario nel processo amministrativo impugnatorio va riconosciuta al soggetto che dal provvedimento impugnato riceva una concreta e diretta utilità giuridica e abbia pertanto un qualificato interesse a mantenere nel proprio patrimonio tale utilità, il vicino o il denunciante l’abuso edilizio, pur essendo stato coinvolto in processi aventi ad oggetto l’impugnazione di un pregresso permesso di costruire ovvero di una ordinanza di demolizione e pur avendo un indiscutibile interesse a opporsi a trasformazioni urbanistiche sul suolo che non siano legittime, non è destinatario in forza dell'ordinanza di demolizione impugnata di alcuna diretta utilità giuridica. In altri termini il vantaggio che il vicino o il denunciante riceve dalla eventuale reiezione del ricorso avverso l’ordinanza di ingiunzione a demolire le opere abusive è indiretto e mediato e, se ciò lo legittima senz'altro a intervenire nel processo, non gli conferisce la qualità di controinteressato in senso formale, cioè di (unico) contraddittore, da cui discenderebbe, non essendo stato chiamato in giudizio, la declaratoria di inammissibilità del ricorso (cfr., in tal senso, TAR Lazio, Latina, Sez. I, 11.01.2017 n. 12, TAR Marche, Sez. I, 11.12.2015 n. 871, TAR Calabria, Catanzaro, Sez. II, 09.12.2015 n. 1850, TAR Campania Napoli, Sez. VI, 03.03.2015 n. 1356 e TAR Liguria, Sez. I, 12.02.2015 n. 176).
Nel caso di specie, quindi, correttamente la Pe. ’90 non ha notificato il ricorso introduttivo (che è dunque ammissibile) al Signor Ca.Fe. e, altrettanto correttamente, quest’ultimo è intervenuto in giudizio
ad opponendum per poter illustrare nel corso del processo le proprie ragioni e valutazioni in ordine alla ammissibilità e fondatezza degli atti di gravame (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.08.2017 n. 9294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Secondo il diffusissimo orientamento giurisprudenziale, il ricorso proposto contro l’atto di accertamento dell’inottemperanza ad un ordine di demolizione è inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale atto di accertamento della competente autorità amministrativa.
Tale atto endoprocedimentale è inidoneo a produrre alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale viene incisa solo a seguito e per l'effetto dell'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, costituito dall'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione.

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13. – Passando ora ad esaminare i due ulteriori gravami proposti con ricorsi recanti entrambi motivi aggiunti, va segnalato come con il primo dei due mezzi di impugnazione la Pe. '90 ha chiesto l’annullamento dell’atto di accertamento di inottemperanza all’ordine di demolizione n. 95/2015, adottato dal Comune di Fiano Romano in data 11.04.2016 prot. n. 11401.
Con tale atto gli uffici comunali, dopo aver nuovamente ripercorso nella parte in premessa l’intera vicenda che, a partire dal rilascio del permesso di costruire n. 36 del 19.06.2008, aveva condotto, attraverso le già note peripezie giudiziarie, all’emanazione dell’ordinanza di demolizione n. 95 dell’01.10.2015, si limitavano:
   1) a ricordare come “in data 05/04/2016 al prot. 10808 è stata prodotta, dal Responsabile del Procedimento Geom. Br. Di Gi., puntuale relazione (allegata al presente atto) relativa al sopralluogo condotto in data 01/04/2016, dal quale si evince con certezza che il fabbricato oggetto di ordinanza 95/2015, distinto in catasto, con l'area di sua stretta pertinenza, al foglio 22, particella 1069, non è stato demolito, e che si è accertato inoltre che l'immobile è occupato da diverse famiglie”;
   2) a dare atto di avere accertato “ai sensi dell'art. 15 della L.R. 15/2008, l'inottemperanza all'Ordinanza n. 95 del 01/10/2015, attraverso la quale veniva disposta la demolizione con ripristino dello stato dei luoghi del fabbricato residenziale insistente sul terreno attualmente distinto in catasto al foglio 22, particella 1069, corrispondente alla superficie coperta del fabbricato stesso ed all'area di sua stretta pertinenza con complessiva consistenza pari a mq 800, constando il fabbricato di 13 appartamenti, ciascuno di consistenza tra 2,5 e 3 vani catastali, disposti su 5 livelli fuori terra”;
   3) ad avvisare che “tenuto conto dell'avvenuta ultimazione delle opere e della presenza di vincolo paesaggistico, il presente atto di accertamento dell'inottemperanza, previa notifica, costituisce, ai sensi dell'art. 15, comma 3, della L.R. 15/2008, titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari; l'acquisizione, secondo quanto disposto dall'art. 15, comma 6, della L.R. 15/2008, avviene "... a favore dell'ente cui compete la -vigilanza sull'osservanza del vincolo ..." "... che procede alla demolizione delle opere abusive e al ripristino dello stato dei luoghi a spese dei responsabili dell'abuso”;
   4) e nel contempo ad “applicare alla Pe. '90 spa, valutata l'entità delle opere, una sanzione pecuniaria pari a euro 18.000,00 (diciottomila/00) ai sensi dell'art. 15, c. 3, L.R. 15/2008, il quale prevede che "... l'accertamento dell'inottemperanza comporta, altresì, l'applicazione di una sanzione pecuniaria da un minimo di 2 mila euro ad un massimo di 20 mila euro, in relazione all'entità delle opere".
14. – Dei quattro punti sopra riprodotti, attraverso i quali si è ritenuto di scomporre per comodità l’atto impugnato con il primo ricorso recante motivi aggiunti dalla Pe. '90, i primi tre attengono ad un ordinario accertamento di inottemperanza all’ordine di ingiunzione a demolire n. 95 dell’01.10.2015 rispetto al quale va dichiarata la inammissibilità del gravame.
Sul punto è sufficiente richiamare il diffusissimo orientamento giurisprudenziale a mente del quale il ricorso proposto contro l’atto di accertamento dell’inottemperanza ad un ordine di demolizione è inammissibile, in quanto avente ad oggetto un atto endoprocedimentale ad efficacia meramente dichiarativa delle operazioni effettuate dalla polizia municipale alla quale non è attribuita la competenza all'adozione di atti di amministrazione attiva, allo scopo occorrendo un formale atto di accertamento della competente autorità amministrativa.
Tale atto endoprocedimentale è inidoneo a produrre alcun effetto lesivo nella sfera giuridica del privato, la quale viene incisa solo a seguito e per l'effetto dell'emanazione del provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo, costituito dall'ordinanza di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, unico atto contro cui è possibile proporre impugnazione (cfr., tra le ultime, TAR Campania, Napoli, Sez. III, 06.02.2017 n. 749, TAR Lazio, Sez. I, 04.05.2016 n. 5123 e TAR Emilia Romagna-Bologna, Sez. II, 13.05.2015 n. 458).
Ne deriva che in parte qua il primo ricorso recante motivi aggiunti è inammissibile per originaria carenza di interesse, in quanto prodotto avverso un verbale di accertamento di ottemperanza che, in quanto atto endoprocedimentale, non è suscettibile di autonoma impugnazione (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 11.08.2017 n. 9294 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAi sensi dell’art. 22, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241, gli atti amministrativi soggetti all’accesso sono anche quelli interni concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale, allo scopo di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa.
Di conseguenza, la nozione di documento amministrativo ricomprende tutti gli atti trasmessi o, comunque, presi in considerazione nell’ambito di un procedimento amministrativo, ancorché di natura privatistica, purché correlati ad un’attività amministrativa.
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Com’è noto, l’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel prevedere, immediatamente dopo l’individuazione a opera del comma 6 delle fattispecie di documenti sottratti all’accesso, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, ha sancito la tendenziale prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche sulle antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale delle parti contro-interessate>>.

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1.- Rilevato che:
   - Eni S.p.A. è proprietaria di una raffineria nel Comune di Taranto.
   - in data 23.11.2017 essa richiedeva ad ARPA Puglia - Dipartimento Provinciale di Taranto, nell’ambito di un procedimento di verifica avente a oggetto gli scarichi della raffineria medesima e avendo ricevuto una diffida da parte del Ministero dell’Ambiente -di cui Eni chiedeva poi la revoca e che, in ogni caso, impugnava davanti a questo TAR con ricorso n. 1636/2016-, una serie di documenti tecnici elaborati dall’Agenzia regionale durante l’analisi dei campioni (e in specie: - Cromatogramma del bianco filtrato per il parametro Fluoruri monitorato presso gli scarichi Eni “UB” e “WR” al fine di verificare il protocollo di analisi utilizzato (rif. RdP ARPA Puglia n. 1889-2016 e 1890-2016); - Documentazione tecnico-analitica relativa ai controlli di taratura al termine delle analisi (in accordo al paragrafo 7.2.1 del metodo APAT-IRSA 4020) effettuate per la determinazione del parametro Fluoruri agli scarichi UB e WR (rif. RdP ARPA Puglia n. 1889-2016 e 1890-2016); - Documentazione tecnico-analitica, in accordo a quanto previsto al paragrafo 5.3 del metodo “APAT-IRSA 4020”, relativa al fattore di capacità, di efficienza, di risoluzione e di asimmetria ottenuti per le analisi del parametro Fluoruri effettuato presso gli Scarichi UB e WR (rif. RdP ARPA Puglia n. 1889- 2016 e 1890-2016.); - Documentazione tecnico-analitica relativa all’applicazione o meno dei criteri previsti al paragrafo 7.1.2 del metodo “APAT-IRSA 4020” sulla riproducibilità dei tempi di ritenzione dei singoli analiti. Questo in relazione alla presenza di eventuali interferenti, causa probabile degli scostamenti tra i tempi di ritenzione dei picchi attribuiti ai fluoruri nelle analisi dei campioni n. 1889-bis e 1890-bis e quello riscontrato nell’ultimo controllo, ovvero nel Cromatogramma del campione standard “59 std an 3”, analizzato immediatamente prima dei campioni incogniti; - Documentazione tecnico-analitica di riscontro sull’utilizzo di una eventuale fase stazionaria con maggiore capacità di ritenzione, oppure sull’utilizzo di un eluente con una minore forza ionica, nella determinazione del parametro fluoruri negli scarichi UB e WR (rif. RdP ARPA Puglia n. 1889-2016 e 1890-2016); - Documentazione tecnico-analitica sulla tipologia di cartuccia utilizzata per la filtrazione dei Cloruri nei campioni analizzati, sulla eventuale validazione della “modifica” al metodo utilizzato dall’ente di Controllo, sulle motivazioni dei perché la modalità di preparazione dei campioni non sia stata applicata anche alle soluzioni di riferimento).
2.- Considerato che l’ARPA respingeva l’istanza -con la determinazione impugnata- evidenziando che: “la documentazione richiesta non è amministrativa né contiene dati ambientali”.
3.- Osservato che l’interesse all’accesso in parola dev’essere invece ricondotto alla situazione di allegata contestazione da parte della ricorrente, in sede amministrativa e giurisdizionale, delle analisi e delle conseguenti valutazioni compiute dalle pp.aa. procedenti -mediante atti dei quali non si vede perché negare la natura amministrativa e l’attinenza a profili ambientali: ai sensi dell’art. 22, comma 1, l. 07.08.1990, n. 241, gli atti amministrativi soggetti all’accesso sono anche quelli interni concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale, allo scopo di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa; di conseguenza, la nozione di documento amministrativo ricomprende tutti gli atti trasmessi o, comunque, presi in considerazione nell’ambito di un procedimento amministrativo, ancorché di natura privatistica, purché correlati ad un’attività amministrativa; da ultimo TAR Marche, I, 15.12.2016, n. 714 -rispetto ai campioni di acqua prelevati presso due scarichi della raffineria di Taranto- situazione di contestazione relativamente alla quale non compete a questo Giudice, in fase di accesso, esprimere alcun giudizio, dovendosi soltanto ‘registrare’, ai fini dell’accoglimento del ricorso, l’obiettiva esistenza della medesima; l’essere l’istanza ricollegabile a iniziative di tutela, anche giudiziaria, della propria sfera giuridica, è difatti circostanza in relazione alla quale il legislatore, all’art. 24 comma 7 della legge n. 241/1990, come novellato con legge n. 15 dell’11.02.2005, ha disposto una indubbia prevalenza sugli altri interessi coinvolti: <<Com’è noto, d’altronde, l’art. 24, comma 7, l. n. 241/1990, nel prevedere, immediatamente dopo l’individuazione a opera del comma 6 delle fattispecie di documenti sottratti all’accesso, che “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”, ha sancito la tendenziale prevalenza del c.d. ‘accesso difensivo’ anche sulle antagoniste ragioni di riservatezza o di segretezza tecnica o commerciale delle parti contro-interessate>> (Tar Puglia Lecce, II, 19.12.2016, n. 1919).
4.- Ritenuto che:
   - deve dunque dichiararsi l’illegittimità del rifiuto opposto dall’Amministrazione intimata all’istanza di accesso e, conseguentemente, ordinarsi alla stessa di esibire i documenti oggetto dell’istanza medesima, con facoltà per la ricorrente di estrarre copia di quelli di ritenuta utilità (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 10.08.2017 n. 1400 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Rapporto tra ricorso principale e ricorso incidentale se in gara ci sono più di due concorrenti.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Ricorso principale e ricorso incidentale – Rapporto – Con più di due concorrenti in gara – Individuazione.
Nel caso di accoglimento del ricorso incidentale proposto per la mancata esclusione dalla gara, alla quale hanno partecipato otto concorrenti, del ricorrente principale persiste l’interesse di quest’ultimo all’accoglimento della sua domanda di annullamento dei provvedimenti di ammissione del ricorrente incidentale e di aggiudicazione dell’appalto in favore di quest’ultimo (1).
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   (1) Il Tar richiama, a supporto delle conclusioni cui è pervenuto, la sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, 26.08.2016, n. 3708, nella quale è stata chiarita l’effettiva portata conformativa del principio di diritto affermato nella nota pronuncia della Corte di Giustizia UE 05.04.2016, C-689/13 (sentenza c.d. Puligienica), secondo il quale il diritto dell’Unione «osta a che un ricorso principale proposto da un offerente, il quale abbia interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una presunta violazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o delle norme che traspongono tale diritto, e diretto a ottenere l’esclusione di un altro offerente, sia dichiarato irricevibile in applicazione di norme processuali nazionali che prevedono l’esame prioritario del ricorso incidentale presentato dall’altro offerente».
Ha chiarito il giudice di appello che un’interpretazione del richiamato principio di diritto che ammettesse sempre l’obbligo dell’esame del ricorso principale, a prescindere da qualsivoglia scrutinio in concreto della sussistenza di un interesse (anche strumentale) alla sua decisione, deve essere rifiutata “perché si rivelerebbe del tutto incoerente sia con il richiamo, ivi operato, all’art. 1 della direttiva n. 89/665 CEE, quale norma che resterebbe violata da una regola che preludesse l’esame del ricorso principale, sia con il rispetto del principio generale, di ordine processuale, codificato dall’art. 100 c.p.c. (e da intendersi richiamato nel processo amministrativo dall’art. 39, comma 1, c.p.a.)”.
Ha aggiunto che il “principio, del tutto compatibile con la formulazione della regola contenuta nella sentenza c.d. Puligienica, per cui l’esame del ricorso principale (a fronte della proposizione di un ricorso incidentale “escludente”) è doveroso, a prescindere dal numero delle imprese che hanno partecipato alla gara, quando l’accoglimento dello stesso produce, come effetto conformativo, un vantaggio, anche mediato e strumentale, per il ricorrente principale, tale dovendosi intendere anche quello al successivo riesame, in via di autotutela, delle offerte affette dal medesimo vizio riscontrato con la sentenza di accoglimento, mentre resta compatibile con il diritto europeo sull’effettività della tutela in subiecta materia una regola nazionale che impedisce l’esame del ricorso principale nelle ipotesi in cui dal suo accoglimento il ricorrente principale non ricavi, con assoluta certezza, alcuna utilità (neanche in via mediata e strumentale)”.
Alla luce di tali principi di diritto il Tar ha ritenuto –preso atto che il seggio di gara non aveva provveduto ad escludere dalla gara le due concorrenti che hanno presentato offerte tecniche affette da carenze progettuali così gravi da configurare ipotesi di aliud pro alio- che non si possa escludere “con assoluta certezza” che il seggio di gara abbia assunto anche nei confronti degli altri concorrenti inseriti nella graduatoria finale decisioni parimenti illegittime.
Ha quindi concluso che persiste l’interesse della ricorrente principale all’esame della sua domanda, quantomeno nei limiti dell’interesse strumentale connesso al successivo riesame da parte della stazione appaltante, in via di autotutela, delle altre offerte al fine di verificare se le stesse siano affette da vizi analoghi a quelli già riscontrati con l’esame dei fatti di causa (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 08.08.2017 n. 252 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Opere realizzate in violazione della disciplina antisismica e sulle opere in cemento armato - Efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria - Esclusione - Artt. 44, lett. b), 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95 d.P.R. n. 380/2001 - Giurisprudenza.
L'efficacia estintiva del permesso di costruire in sanatoria, deve escludersi per le opere realizzate in violazione della disciplina antisismica e sulle opere in cemento armato. Sul punto la giurisprudenza (Cass. Sez. 3, n. 11271 del 17/02/2010; Braccolino; Sez. 3, n. 19256 del 13/04/2005, Cupelli; Sez. 3, n. 1658 del 01/12/1997 (dep. 1998), Agnesse) (Corte Cost. sent. 149 del 30/04/1999). Tali esclusioni riguardano anche la disciplina delle opere in cemento armato (Cass. Sez. 3, n. 11511 del 15/02/2002, Menna A.; Sez. 3, n. 50 del 07/11/1997 (dep. 1998), Casà G. ed altre prec. conf.).
Intervento abusivo - Violazioni edilizie e paesaggistiche - Valutazione della particolare tenuità.
Ai fini della valutazione della particolare tenuità del fatto in tema di violazioni edilizie e paesaggistiche la consistenza dell'intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione, perché, per ciò che riguarda gli aspetti urbanistici, in particolare, assumono rilievo anche altri elementi, quali, ad esempio, la destinazione dell'immobile, l'incidenza sul carico urbanistico.
Inoltre, altro indice sintomatico della non particolare tenuità del fatto è rappresentato dalla contestuale violazione di più disposizioni quale conseguenza dell'intervento abusivo, come nel caso in cui siano contestualmente violate, mediante la realizzazione dell'opera, anche altre disposizioni finalizzate alla tutela di interessi diversi (norme in materia di costruzioni in zone sismiche, di opere in cemento armato, di tutela del paesaggio e dell'ambiente, a quelle relative alla fruizione delle aree demaniali) (Sez. 3, n. 47039 del 08/10/2015, P.M. in proc. Derossi; Conf. Sez. 3, n. 19111 del 10/03/2016, Mancuso) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2017 n. 38953 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Natura di sottoprodotto di una sostanza - Accertamento tramite prova testimoniale - Esclusione - Natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti - Onere della prova - Profilo prettamente tecnico - Protezione della salute e dell'ambiente - Artt. 184-bis e 256, c. 3 d.lgs. n. 152/2006 - Giurisprudenza.
La natura di sottoprodotto di una sostanza non è accertabile tramite prova testimoniale. Il legislatore ha voluto specificare in modo dettagliato quali siano le condizioni perché un determinato residuo possa qualificarsi come sottoprodotto e che la sussistenza delle condizioni indicate debba essere contestuale, sicché, anche in mancanza di una sola di esse, il residuo rimarrà soggetto alle disposizioni sui rifiuti.
Inoltre, trattandosi, in tali casi di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l'applicazione (Sez. 3, n. 17453 del 17/4/2012, Busè; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano).
E' del tutto evidente che tale prova non può certo essere fornita mediante mera testimonianza, atteso che l'art. 184-bis d.lgs. 152/2006 richiede condizioni specifiche che devono essere adeguatamente documentate anche e sopratutto sotto il profilo prettamente tecnico, involgendo, come è noto, le caratteristiche del ciclo di produzione, il successivo reimpiego, eventuali successivi trattamenti, la presenza di caratteristiche atte a soddisfare, per l'utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell'ambiente e l'assenza di impatti complessivi negativi sull'ambiente o la salute umana (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2017 n. 38950 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: ACQUA - INQUINAMENTO IDRICO - Scarichi e autorizzazioni - Assimilazione di determinate acque reflue alle acque reflue domestiche - Azienda vinicola - Artt. 101, c. 7, 137, c. 1, d.lgs. n. 152/2006.
Ai fini della disciplina degli scarichi e delle autorizzazioni, l'assimilazione di determinate acque reflue alle acque reflue domestiche deve ritenersi subordinata alla prova della esistenza delle condizioni individuate dalle leggi che la prevedono, restando applicabili, in difetto, le regole ordinarie. Fattispecie: un'azienda vinicola, effettuava lo scarico non autorizzato in pubblica fognatura di acque reflue industriali derivanti da attività di cantina.
I
NQUINAMENTO IDRICO - Nozione di scarico - Immissione discontinua o occasionale - Irrilevanza - Nesso funzionale e diretto - Disciplina applicabile - Giurisprudenza.
Lo "scarico" viene definito dall'art. 74, comma 1, lett. ff), d.lgs. 152/2006 come "qualsiasi immissione effettuata esclusivamente tramite un sistema stabile di collettamento che collega senza soluzione di continuità il ciclo di produzione del refluo con il corpo ricettore in acque superficiali, sul suolo, nel sottosuolo e in rete fognaria, indipendentemente dalla loro natura inquinante, anche sottoposte a preventivo trattamento di depurazione". L'immissione occasionale, originariamente prevista dal previgente d.lgs. 152/1999, non è più contemplata dalla normativa attuale, pur mantenendo rilevanza con riferimento alla disciplina sul divieto di abbandono di rifiuti.
Da ciò consegue che la disciplina delle acque trova applicazione in tutti quei casi nei quali si è in presenza di uno scarico di acque reflue (liquide o semiliquide) in uno dei corpi recettori individuati dalla legge (acque superficiali, suolo, sottosuolo, rete fognaria) effettuato tramite condotta (ovvero tramite tubazioni, o altro sistema stabile) anche se soltanto periodico, discontinuo o occasionale.
In ogni altro caso, nel quale venga a mancare il nesso funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo recettore, si applicherà la disciplina in tema di rifiuti, ove configurabile. La giurisprudenza ha anche evidenziato la irrilevanza, in ordine alla nozione di scarico, di considerazioni attinenti alla accidentalità dello scarico stesso o alla sua episodicità, pur dandosi atto che, nel caso di uno sversamento, non ragionevolmente prevedibile, provocato da negligenza del soggetto agente, non possa pretendersi la presentazione da parte di quest'ultimo di una regolare richiesta di autorizzazione (Sez. 3, n. 5239 del 15/12/2016 (dep. 2017), Buja; V. anche Sez. 3, n. 47038 del 07/10/2015, Branca) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 07.08.2017 n. 38946 - link a www.ambientediritto.it).

PUBBLICO IMPIEGOIl conferimento di posizioni organizzative al personale non dirigente delle Pubbliche Amministrazioni esula dall’ambito degli atti amministrativi autoritativi e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato.
Siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l’attribuzione della posizione organizzativa, atteso che anche in tal caso con l’instaurazione del giudizio ordinario la tutela del pubblico dipendente è pienamente assicurata mediante la eventuale disapplicazione dell’atto ai sensi dell’art. 63, comma 1, del Dlgs. n. 165/2001.

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Ebbene, il Collegio condivide un consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui il conferimento di posizioni organizzative al personale non dirigente delle Pubbliche Amministrazioni esula dall’ambito degli atti amministrativi autoritativi e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato.
Siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria, non ostandovi che vengano in considerazione atti amministrativi presupposti intesi alla fissazione dei criteri per l’attribuzione della posizione organizzativa, atteso che anche in tal caso con l’instaurazione del giudizio ordinario la tutela del pubblico dipendente è pienamente assicurata mediante la eventuale disapplicazione dell’atto ai sensi dell’art. 63, comma 1, del Dlgs. n. 165/2001 (cfr Tar Puglia, sentenza n. 290/2016; TAR Lazio, Sez. II-ter, sentenza n. 4049 del 21.03.2017).
In conclusione, la controversia in esame esula dalla giurisdizione del giudice amministrativo e rientra nella sfera di cognizione del giudice ordinario dinanzi al quale parte ricorrente potrà riassumere il gravame ai sensi dell’art. 11 del c.p.a. (TAR Lazio-Roma, Sez. II-ter, sentenza 04.08.2017 n. 9225 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Rapporti tra Sindaco e Imprenditore: quando si verifica l’abuso d’ufficio?
La sentenza 03.08.2017 n. 38695 della Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, riguarda il sindaco di un Comune calabrese e il legale rappresentante di una società edile, entrambi accusati dei reati di turbata libertà degli incanti e di abuso d’ufficio.
Ai fini della configurabilità del concorso del privato nel delitto di abuso d’ufficio, l’esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell’uno e il provvedimento adottato dall’altro, essendo invece necessario che il contesto fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita dall’accordo con il pubblico ufficiale.
Quanto alla turbata libertà degli incanti, la Suprema corte ricorda che il reato di cui all’articolo 353 del codice penale può realizzarsi in qualsiasi momento, sia prima che dopo la gara, e con le più svariate modalità dirette ad allontanare gli offerenti, «assumendo rilievo la sola lesione della libera concorrenza che la norma penale intende tutelare a garanzia degli interesse della Pubblica amministrazione».
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MASSIMA
9. Alla stessa sorte non si sottrae la censura di violazione di legge in relazione all'affermazione della responsabilità penale per il reato di abuso in atti di ufficio di cui al capo B).
Il motivo, che si limita a riportare massime della giurisprudenza di legittimità, secondo cui per il concorso nel reato del privato occorre la dimostrazione dell'attività di istigazione o agevolazione nell'esecuzione del reato da parte del pubblico ufficiale, appare connotato da apsecificità ed è, comunque, manifestamente infondato, avendo, i giudici del merito, fatto corretta applicazione della legge penale con motivazione congrua e corretta sul piano del diritto.
E' sufficiente, qui, ricordare che l'istanza di svolgimento di lavori di pubblico utilità in luogo del pagamento del prezzo, costituiva l'incipit indispensabile e conditio sine qua non per la successiva condotta del pubblico ufficiale di affidamento diretto dei lavori di pubblica utilità al richiedente (affidamento in violazione della legge ex art. 2, 11 e 53 del d.lvo 12.04.2006, n. 163 che prescrivono l'affidamento con gara pubblica in luogo dell'affidamento diretto), condotta del pubblico ufficiale che ha, così, procurato un indubbio doppio vantaggio patrimoniale ben descritto a pag. 14.
Ma non solo, la Corte d'appello, lungi dall'aver ritenuto la responsabilità concorsuale del privato nel reato commesso dal pubblico ufficiale sulla base del mero comportamento, ancorché illegittimo, di costui, ha evidenziato, a chiare lettere, una pluralità di elementi fattuali di contorno, tra cui la pregressa conoscenza tra privato e pubblico ufficiale, per avere il ricorrente eseguito lavori in un alloggio del pubblico ufficiale, e la mancata precisa indicazione dei tempi di versamento del prezzo nel bando di gara e di diverse modalità di pagamento del prezzo, idonei a configurare il previo concerto.
La Corte d'appello ha, dunque, fatto buon governo dei principi affermato dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui,
ai fini della configurabilità del concorso del privato nel delitto di abuso d'ufficio, l'esistenza di una collusione tra il privato ed il pubblico ufficiale non può essere dedotta dalla mera coincidenza tra la richiesta dell'uno e il provvedimento adottato dall'altro, essendo invece necessario che il contesto fattuale, i rapporti personali tra i predetti soggetti, ovvero altri dati di contorno, dimostrino che la domanda del privato sia stata preceduta, accompagnata o seguita dall'accordo con il pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 33760 del 23/06/2015, Lo Monaco e altri, Rv. 264460) (Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, sentenza 03.08.2017 n. 38695).

APPALTI: E' noto che in materia di turbata libertà degli incanti, la turbativa può realizzarsi non solo nel momento preciso in cui la gara si svolge, ma anche nel complesso procedimento che porta alla gara, del quale sono protagonisti gli stessi concorrenti, o fuori della gara medesima, assumendo rilievo la sola lesione della libera concorrenza che la norma penale intende tutelare a garanzia degli interessi della pubblica amministrazione.
Quanto alle condotte, tassativamente indicate dall'art. 353 cod. pen., il reato è integrato da comportamenti collusivi, fraudolenti o, come nel caso in esame, da condotte di violenza e/o minaccia diretta a turbare la gara o allontanare gli offerenti, poiché anche in tale caso si realizza l'evento naturalistico del reato di turbata libertà degli incanti, che può essere costituito oltre che dall'impedimento della gara anche da un suo turbamento, situazione che può verificarsi quando la condotta fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla regolare procedura della gara medesima essendo irrilevante che si produca un'effettiva alterazione dei risultati di essa.
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MASSIMA
4. Entrambi i ricorsi sono, pur per ragioni diverse, inammissibili.
5. Il ricorso di Ru.Ma. appare, quanto al primo motivo attinente al merito dell'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 353 cod.pen., inammissibile perché diretto, come chiaramente desumibile dal riepilogo del contenuto del motivo (vedi supra n. 2.1.1. del ritenuto in fatto), a richiedere una lettura dei fatti alternativa a quella già effettuata dai giudici di appello in punto accertamento del momento nel quale il Russo ha proferito la minacce ai Ro. al fine di allontanarli dalla gara, ed anche ripetitivo della stessa censura già devoluta nei motivi di appello e da quei giudici disattesa con motivazione congrua, adeguata e priva di illogicità.
6. A prescindere da tale assorbente considerazione, la sentenza impugnata ponendosi in continuità con quella del Tribunale, ha disatteso la censura difensiva, in punto individuazione del momento temporale della condotta del Ru., evidenziando che la discussione tra il Sindaco Ru. e i fratelli Ro., nel corso della quale era stata proferita la minaccia di effettuare controlli ai cantieri di costoro al fine di farli desistere dalla partecipazione alla gara e la minaccia di chiedere, nel caso di esito a loro favorevole della gara, l'immediato pagamento del prezzo, era avvenuta dopo che Ro.Nu. si era recato in Comune per acquisire informazioni in merito al bando di gara, sicché era destituito di fondamento l'assunto difensivo secondo cui non sarebbe configurabile la condotta materiale del reato perché la minaccia proferita ai fratelli Ro. non sarebbe stata rivolta nei confronti di "offerenti" perché costoro, non avendo presentato alcuna offerta, non avevano partecipato alla gara.
Ora i ricorrenti ripropongono la medesima censura che muove dall'interpretazione della norma di cui all'art. 353 cod. pen. non conforme alla giurisprudenza di legittimità.
E' noto che in materia di turbata libertà degli incanti, la turbativa può realizzarsi non solo nel momento preciso in cui la gara si svolge, ma anche nel complesso procedimento che porta alla gara, del quale sono protagonisti gli stessi concorrenti, o fuori della gara medesima, assumendo rilievo la sola lesione della libera concorrenza che la norma penale intende tutelare a garanzia degli interessi della pubblica amministrazione (cfr. ex multis Sez. 6, n. 18161 del 05/04/2012, P.G. in proc. Bevilacqua Rv. 252638).
Quanto alle condotte, tassativamente indicate dall'art. 353 cod. pen., il reato è integrato da comportamenti collusivi, fraudolenti o, come nel caso in esame, da condotte di violenza e/o minaccia diretta a turbare la gara o allontanare gli offerenti, poiché anche in tale caso si realizza l'evento naturalistico del reato di turbata libertà degli incanti, che può essere costituito oltre che dall'impedimento della gara anche da un suo turbamento, situazione che può verificarsi quando la condotta fraudolenta o collusiva abbia anche soltanto influito sulla regolare procedura della gara medesima essendo irrilevante che si produca un'effettiva alterazione dei risultati di essa (Sez. 6, n. 41365 del 27/09/2013, Murgolo, Rv. 256276).
Tale situazione è certamente sussistente nel caso in scrutinio in presenza di condotte minacciose poste in essere al fine di allontanare i partecipanti, posto che l'allontanamento di persone interessate alla gara realizza l'evento del reato e la lesione della libera concorrenza che la norma penale intende tutelare a garanzia degli interessi della pubblica amministrazione.
Ne consegue la manifesta infondatezza della prospettazione difensiva secondo cui la qualifica di "offerenti" sarebbe ravvisabile solo in capo a chi, nel corso della gara, ha già formalizzato un'offerta e sia poi stato oggetto delle condotte previste dall'art. 353 cod. pen. (Corte di Cassazione, Sez. feriale penale, sentenza 03.08.2017 n. 38695).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti - Mezzo utilizzato per l'abbandono e il trasporto di rifiuti speciali - Terzo estraneo al reato - Sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria - Effetti anche con riguardo a chi il reato non abbia commesso - Attività di gestione di rifiuti non autorizzata - Artt. 256, 260-ter, c. 5, d.lgs. n. 152/2006 - Artt. 240, comma 3, cod. pen., e 321, comma 2, cod. proc. pen.
L'art. 260-ter, comma 5, del d.lgs. n. 152 del 2006 prevede che a seguito della confisca del veicolo o di qualunque altro mezzo utilizzato per il trasporto del rifiuto consegue obbligatoriamente anche all'accertamento delle violazioni di cui al comma 1 dell'art. 256 d.lgs. n. 152/2006.
A fronte dunque di una tale misura obbligatoria e dei suoi effetti anche con riguardo a chi il reato non abbia commesso, incombe sul terzo estraneo al reato che, qualificandosi come proprietario o titolare di altro diritto reale sul mezzo sottoposto a sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria, ne invochi la restituzione in suo favore, l'onere di provare la propria buona fede, ovvero che l'uso illecito della "res" gli era ignoto e non collegabile ad un suo comportamento colpevole o negligente (Cass., Sez. 3, n. 12473 del 02/12/2015, dep. 24/03/2016, Liguori; Sez. 3, n. 18515 del 16/01/2015, dep. 05/05/2015, Ruggeri) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.08.2017 n. 38688 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Art. 181, c. 1-bis, d.lgs. n. 42/2004 e sentenza della Corte cost. n. 56/2016 - Art. 349 cod. pen. - DIRITTO PROCESSUALE PENALE - Dichiarazione di incostituzionalità di norme - Trattamento sanzionatorio - Rilevabilità d'ufficio - Rimodulazione del trattamento sanzionatorio - Inammissibilità del ricorso - Impugnazione tardiva - Preclusioni.
Il reato di cui all'art. 181, comma 1-bis, del d.lgs. n. 42 del 2004, dichiarato costituzionalmente illegittimo per effetto della sopravvenuta sentenza della Corte cost. n. 56 del 11/01/2016, nella parte in cui lo stesso prevede: "«: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell'articolo 142 ed», oggi è configurabile quale contravvenzione ex art. 181, comma 1, d.lgs. cit., e non più quale delitto.
Inoltre, l'illegalità della pena conseguente a dichiarazione di incostituzionalità di norme riguardanti, come nella specie, il trattamento sanzionatorio, è rilevabile d'ufficio anche in caso di inammissibilità del ricorso, tranne che nel caso di impugnazione, come nella specie, correttamente ritenuta tardiva; infatti in questo caso si è in presenza di un gravame sin dall'origine inidoneo a instaurare un valido rapporto processuale, in quanto il decorso del termine derivante dalla mancata proposizione dello stesso ha già trasformato il giudicato sostanziale in giudicato formale, sicché il giudice dell'impugnazione si limita a verificare il decorso del termine e a prenderne atto.
Questa speciale causa di inammissibilità è quindi preclusiva di un'eventuale rimodulazione del trattamento sanzionatorio, anche dinanzi alla declaratoria di incostituzionalità della pena (Cass. Sez. U., n. 33040 del 26/02/2015, dep. 28/07/2015, Jazouli) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.08.2017 n. 38687 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: RIFIUTI - AGRICOLTURA - Materiali vegetali - Attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli - Attività di gestione dei rifiuti - Esclusione - CODICE DELL'AMBIENTE - Rifiuti urbani vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini parchi e aree cimiteriali - Combustione di residui vegetali abbandonati o depositati in modo incontrollato - Disciplina applicabile - Combustione illecita di materiale agricolo o forestale naturale - Art. 182, 184, 185, 255, 256 e 256-bis d.lgs. n. 152/2006 - Artt. 674 e 734 cod. pen..
Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate con le modalità ed alle condizioni indicate dall'art. 182, comma 6-bis non rientrano tra le attività di gestione dei rifiuti, non costituendo smaltimento, e non integrano alcun illecito.
Al di fuori di tali modalità e condizioni non opera alcuna deroga e divengono applicabili le sanzioni previste dall'art. 256 d.lgs. 152/2006 per l'illecita gestione di rifiuti. Se, invece, la combustione di residui vegetali riguarda rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato si applicano, ai sensi dell'art. 256-bis, comma 6, d.lgs. 152/2006, le sanzioni amministrative di cui all'art. 255 per i rifiuti urbani vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini parchi e aree cimiteriali di cui all'art. 184, comma 2, lett. e), d.lgs. 152/2006, mentre, sempre in forza dell'art. 256-bis, comma 6, resta esclusa dall'applicazione di tale disposizione la combustione illecita di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato, rispetto alla quale restano applicabili le sanzioni di cui all'art. 256.
INQUINAMENTO ATMOSFERICO - ARIA - Getto pericoloso di cose - Emissioni in atmosfera - Potenzialità offensiva dei fumi - Configurabilità dell'articolo 674 cod. pen. - Superamento della normale tollerabilità - motivazione sintetica adeguata.
In tema di getto pericoloso di cose, l'ipotesi contravvenzionale considerata dall'articolo 674 cod. pen. configura un reato di pericolo finalizzato a prevenire esiti dannosi o pericolosi per le persone conseguenti al getto o versamento di cose atte ad offendere, imbrattare o comunque molestare, ovvero all'emissione di gas, vapori o fumi idonei a cagionare i medesimi effetti.
Mentre, la seconda parte dell'articolo 674 cod. pen. prevede la rilevanza penale delle emissioni di gas vapori o fumi "nei casi non consentiti dalla legge" ed è evidente che, nel caso di specie, (rimozione della vegetazione spontanea a mezzo escavatore e successivo incenerimento della stessa in una buca all'uopo predisposta, operazioni, finalizzate alla preparazione dell'area per la successiva realizzazione di un vivaio; sicché la combustione del materiale vegetale aveva come scopo evidente il definitivo smaltimento), costituendo la combustione una illecita attività di smaltimento, l'emissione di fumo non poteva certo ritenersi consentita.
Inoltre, l'emissioni di fumo, propagatesi a distanza e per diverse ore (tanto che un teste riferiva che il giorno successivo all'intervento dei vigili del fuoco dalla fossa utilizzata per la combustione continuava ad uscire fumo che interessava l'area circostante) superavano la normale tollerabilità ed erano idonee ad arrecare molestia alle persone, dando dunque conto, con motivazione sintetica ma certamente adeguata, della potenzialità offensiva dei fumi già evidenziata nell'imputazione, laddove si precisava che erano stati i residenti dell'abitato circostante a sollecitare l'intervento dei vigili del fuoco.
AGRICOLTURA E ZOOTECNIA - Evoluzione giurisprudenziale su incenerimento di sfalci e potature - Processi e metodi costituenti normali pratiche agronomiche - Raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli - Incenerimento di residui vegetali effettuato nel luogo di produzione - Giurisprudenza.
L'eliminazione mediante incenerimento di sfalci e potature non integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'art. 256, comma primo, lett. a), trattandosi di residui vegetali che non sono classificabili come rifiuti e che sono utilizzati in agricoltura mediante processi e metodi costituenti normali pratiche agronomiche disciplinate dagli artt. 182, comma 6-bis, e 185, comma 1, lett. f), in quanto non danneggiano l'ambiente, né mettono in pericolo la salute umana (Cass. Sez. 3, n. 76 del 07/10/2014 (dep. 2015), P.M. in proc. Urcioli) (Conf. Sez. 3, n. 34098 del 27/2/2014, PM in processo lannaccone; Sez. 3 n. 34097 del 27/02/2014 Cava; Sez. 3 n. 39203 del 09/07/2014, Urcioli; Sez. 3 n. 41715 del 09/07/2014, Guarino; Sez. 3 n. 44886 del 02/10/2014, Fortunato; Sez. 3 n. 47663 del 08/10/2014, De Santis; Sez. 3 n. 50635 del 05/11/2014, Argento).
Altra pronuncia (Sez. 3, n. 21936 del 05/04/2016, Ascolese) ha successivamente ritenuto che l'attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione non sono sanzionate penalmente ai sensi degli artt. 256 e 256-bis d.lgs. 152/2006.
Infine, in tema di gestione dei rifiuti, l'incenerimento di residui vegetali effettuato nel luogo di produzione al di fuori delle condizioni previste dall'art. 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo, integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 03.04.2006 n. 152 e non invece la disciplina sanzionatoria di cui all'art. 256-bis (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016 Lazzarini) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.08.2017 n. 38658 - link a www.ambientediritto.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Concorrendo tutte le seguenti condizioni:
   1) la tipologia dell'attività (raggruppamento e abbruciamento);
   2) la quantità di materiale (piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro);
   3) la tipologia dei materiali (materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f);
   4) il luogo in cui l'attività descritta deve svolgersi (luogo di produzione),
le attività di raggruppamento e abbruciamento non rientrano nell'ampia nozione di gestione e si ritiene costituiscano "normali pratiche agricole", consentite, però, "per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti", ponendosi, così, un'ulteriore condizione per l'operatività della deroga.
In altre parole, un'attività che, in base alle regole generali, rientrerebbe, per come svolta, tra quelle di smaltimento, a determinate condizioni viene sottratta alla disciplina comune per espressa deroga contenuta nell'art. 182, comma 6-bis, d.lgs. 152/2006.

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L'art. 182 comma 6-bis esclude che costituisca smaltimento, fase residuale della gestione dei rifiuti, la combustione, con le modalità ed alle condizioni descritte, di materiali che, per origine non sono rifiuti, poiché vengono richiamati i "materiali vegetali" di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), che sono, appunto, esclusi dalla disciplina di settore.
Tale esclusione, tuttavia, non riguarda tutti i materiali vegetali, senza distinzione di sorta, ma soltanto, come si è visto, quelli che rispettino le ulteriori condizioni che la richiamata disposizione prevede e che riguardano, come già detto, provenienza, natura e, sopratutto, destinazione successiva (normali pratiche agricole e zootecniche o utilizzazione in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia), con la conseguenza che tutto ciò che non presenta tali requisiti è da considerarsi rifiuto, soggetto, quindi, alla disciplina ordinaria ed alle relative sanzioni, quali quelle previste per la gestione in assenza di titolo abilitativo.
In particolare,
ricorrendone ovviamente i presupposti, andranno applicate le sanzioni di cui all'art. 256 d.lgs. 152/2006 e, nel caso i fatti siano commessi in territorio soggetto alla disciplina emergenziale, quelle previste dal quasi speculare articolo 6 legge 210/2008.
Diverso è il caso della combustione illecita di cui all'art. 256-bis, trattandosi, nel caso previsto dal comma 1, di condotta che si configura con l'appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, quindi non sottoposti ad alcuna attività di gestione e rispetto alla quale si applicano le sanzioni amministrative di cui all'art. 255 nel caso di combustione illecita di rifiuti di cui all'art. 184, comma 2, lettera e), mentre, essendo esclusa, come si è visto, l'applicabilità della disposizione nelle ipotesi di abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato (fermo restando quanto stabilito dall'art. 182, comma 6-bis per i materiali, diversi dai rifiuti, ivi considerati), verificandosi tale evenienza devono ritenersi applicabili, qualora detti materiali siano qualificabili come rifiuti e ricorrendone le condizioni, le disposizioni generali in materia di illecita gestione di cui all'art. 256.
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Le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate con le modalità ed alle condizioni indicate dall'art. 182, comma 6-bis non rientrano tra le attività di gestione dei rifiuti, non costituendo smaltimento, e non integrano alcun illecito.

Al di fuori di tali modalità e condizioni non opera alcuna deroga e divengono applicabili le sanzioni previste dall'art. 256 d.lgs. 152106 per l'illecita gestione. Se, invece, la combustione di residui vegetali riguarda rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato si applicano, ai sensi dell'art. 256-bis, comma, 6 d.lgs. 152106, le sanzioni amministrative di cui all'art. 255 per i rifiuti urbani vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali di cui all'art. 184, comma 2, lett. e), d.lgs. 152106, mentre, sempre in forza dell'art. 256-bis, comma, 6, resta esclusa dall'applicazione di tale disposizione la combustione illecita di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato, rispetto alla quale restano applicabili le sanzioni di cui all'art. 256.
E' appena il caso di ricordare, inoltre, che, come più volte affermato da questa Corte,
l'eventuale applicazione di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti fa sì che l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere assolto da colui che ne richiede l'applicazione.
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RITENUTO IN FATTO
1. La Corte di appello di Palermo, con sentenza del 02/12/2016 ha parzialmente riformato la decisione emessa, in data 11/06/2015, dal Tribunale di quella città, assolvendo l'imputato Sa.PI. dalla contravvenzione di cui all'art. 734 cod. pen. e rideterminando la pena per i residui reati di cui agli artt. 6, lett. d), n. 1 legge 210/2008 e 674 cod. pen., contestatigli perché, quale amministratore della "Pi.Vi. s.r.l.", affittuaria di un fondo rustico, smaltiva direttamente, tramite combustione e senza titolo abilitativo, vegetali derivanti da sfalci, potature e ripuliture dentro uno scavo, di circa 15 metri quadrati e profondo circa 2 metri, realizzato nel fondo medesimo ed, inoltre, perché, attraverso la combustione, provocava emissioni di fumo atte a molestare i residenti dell'abitato circostante, i quali sollecitavano l'intervento dei vigili del fuoco, che provvedevano allo spegnimento delle fiamme (in Palermo, il 22/09/2012).
Avverso tale pronuncia il predetto propone ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
2. Con un primo motivo di ricorso denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione, osservando che, in ragione di quanto disposto dagli artt. 185, comma 1, lett. O e dal d. I. 91/2014, convertito, con modificazioni, nella legge 116/2014, gli scarti vegetali devono ritenersi esclusi dal novero dei rifiuti.
Lamenta che la Corte territoriale, pur considerando la normativa di riferimento, avrebbe erroneamente ritenuto la sussistenza del reato, affermando che l'attività oggetto di contestazione sarebbe avvenuta al di fuori delle condizioni previste dall'art. 182, comma 6-bis, d.lgs. 152/2006, poiché non sarebbe stato rispettato il limite delle quantità non superiori ai tre metri steri per ettaro, violazione rispetto alla quale sarebbe eventualmente applicabile la sola sanzione amministrativa.
Aggiunge che tale superamento, inoltre, non sarebbe stato compiutamente accertato, ma soltanto supposto dai giudici del merito.
3. Con un secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge ed il vizio di motivazione, rilevando che la motivazione in ordine alla sussistenza della contravvenzione di cui all'art. 674 cod. pen. sarebbe meramente apparente e fondata su mere congetture.
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
La questione trattata e le disposizioni normative, succedutesi nel tempo, richiamate in ricorso ed in sentenza, rendono necessaria un sintetica descrizione dello svolgimento dei fatti, come accertato nel giudizio di merito e la successiva ricostruzione del sistema di norme applicabili nella fattispecie.
2. Risulta dalla sentenza impugnata che l'attività oggetto di contestazione era stata posta in essere nell'ambito di operazioni finalizzate ad adibire a vivaio un fondo rustico, di circa 2.000 mq, rimasto per anni abbandonato, con presenza di vegetazione cresciuta in modo incontrollato, tanto da rendere necessario l'uso di un escavatore per l'estirpazione e l'accumulo di detto materiale, che veniva poi raccolto in cumuli e bruciato in una buca appositamente scavata, come indicato nell'imputazione.
I fatti, come appena descritti, si sono svolti in territorio in cui vige la disciplina emergenziale.
3. Il decreto-legge 06.11.2008, n. 172, convertito con la legge 30.12.2008, n. 210, reca «Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale».
Tale disciplina speciale, applicabile nei territori in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, dichiarato ai sensi della legge 24.02.1992, n. 225, ha introdotto, con l'articolo 6, uno specifico sistema sanzionatorio che prende in considerazione diverse fattispecie già contemplate dal d.lgs. n. 152/2006, inasprendo le pene previste e trasformando le ipotesi contravvenzionali in delitti, modificandone, in alcuni casi, anche i contenuti. Con specifico riferimento all'articolo 6, lettera d), contestato al ricorrente, va ricordato che le sanzioni previste in ragione della diversa tipologia di rifiuto (pericoloso o non pericoloso), sono applicabili a "chiunque effettua un'attività di raccolta, trasporto, recupero, smaltimento, commercio ed intermediazione di rifiuti in mancanza dell'autorizzazione, iscrizione o comunicazione prescritte dalla normativa vigente", prevedendosi così una fattispecie di illecita gestione la cui parte precettiva coincide, sostanzialmente, con quella dell'articolo 256, comma primo, d.lgs. 152/2006, tranne che per un richiamo generico alla «normativa vigente», con riferimento ai titoli abilitativi richiesti e l'assenza della clausola di riserva riferita ai casi sanzionati ai sensi dell'articolo 29-quattuordecies, comma 1 del d.lgs. 152/2006 Ciò che viene dunque punita è l'illecita gestione di rifiuti.
4. Tra le attività di gestione rientra, come si rileva dal testo della norma richiamata (ed anche dall'art. 256 d.lgs. 152/2006), lo smaltimento, attività nella quale è astrattamente riconducibile quella contestata all'odierno ricorrente, poiché l'Allegato B alla Parte Quarta del d.lgs. 152/2006 indica, alla lettera D10, l'incenerimento a terra tra le attività di smaltimento.
Le disposizioni generali in materia di smaltimento sono contenute nell'art. 182 d.lgs. 152/2006, il quale stabilisce, nel comma 6-bis, introdotto dal d.l. 91/2014, convertito, con modificazioni, nella legge 116/2014, che "le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata. I comuni e le altre amministrazioni competenti in materia ambientale hanno la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all'aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)".
5. Come si evince dalla mera lettura della disposizione appena richiamata, la stessa pone, nella prima parte, che qui interessa,
una serie di condizioni che riguardano, nell'ordine:
   1) la tipologia dell'attività (raggruppamento e abbruciamento);
   2) la quantità di materiale (piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro);
   3) la tipologia dei materiali (materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f);
   4) il luogo in cui l'attività descritta deve svolgersi (luogo di produzione).
Concorrendo tutte queste condizioni, le attività descritte non rientrano nell'ampia nozione di gestione e si ritiene costituiscano "normali pratiche agricole", consentite, però, "per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti", ponendosi, così, un'ulteriore condizione per l'operatività della deroga.
In altre parole, un'attività che, in base alle regole generali, rientrerebbe, per come svolta, tra quelle di smaltimento, a determinate condizioni viene sottratta alla disciplina comune per espressa deroga contenuta nell'art. 182, comma 6-bis, d.lgs. 152/2006.

6. Va poi osservato che merita particolare attenzione, tra le richiamate condizioni, quella riguardante la tipologia dei materiali, in quanto la deroga è limitata a quelli contemplati dall'art. 185, comma 1, lettera f), del d.lgs. 152/2006.
Tale ultima disposizione, come è noto, esclude dal campo di applicazione della disciplina dei rifiuti determinati materiali, ponendo, peraltro, in alcuni casi, ulteriori condizioni.
Per ciò che qui rileva, il comma 1, lettera f), dell'art. 185, nell'attuale formulazione, introdotta dall'art. 41, comma 1, della legge 28.07.2016, n. 154, che ne ha ulteriormente ampliato l'originario ambito di operatività, stabilisce che non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui rifiuti "le materie fecali, se non contemplate dal comma 2, lettera b), del presente articolo, la paglia, gli sfalci e le potature provenienti dalle attività di cui all'articolo 184, comma 2, lettera e), e comma 3, lettera a), nonché ogni altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso destinati alle normali pratiche agricole e zootecniche o utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente ne' mettono in pericolo la salute umana".
Con specifico riferimento a paglia, sfalci e potature la disposizione in esame ora precisa che devono provenire dalle attività di cui all'articolo 184, comma 2, lettera e) (rifiuti urbani costituiti da rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali) e comma 3, lettera a) (rifiuti speciali da attività agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli effetti dell'art. 2135 cod. civ.), aggiungendo poi all'elenco "ogni altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso".
Viene tuttavia posta la condizione —riguardante tutte le tipologie di materiali precedentemente elencati, ivi compresi paglia, sfalci e potature, come evidenzia l'uso del plurale— che detti materiali siano destinati alle normali pratiche agricole e zootecniche o utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana.
7. Va altresì tenuto conto anche di quanto dispone, attualmente, l'art. 256-bis d.lgs. 152/2006, introdotto dal d.l. 136/2013, convertito con modificazioni dalla L. 06.02.2014, n. 6, il quale sanziona la combustione illecita di rifiuti e dispone, all'ultimo comma, modificato anch'esso dal già menzionato d.l. 91/2014, convertito, con modificazioni, nella legge 116/2014, che "si applicano le sanzioni di cui all'articolo 255 se le condotte di cui al comma 1 hanno a oggetto i rifiuti di cui all'articolo 184, comma 2, lettera e). Fermo restando quanto previsto dall'articolo 182, comma 6-bis, le disposizioni del presente articolo non si applicano all'abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato."
La disposizione, introducendo il delitto di combustione illecita, prevede, dunque, che nei confronti di chiunque appicchi il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, qualora si tratti di rifiuti urbani costituiti da rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali -quelli, cioè, contemplati dall'art. 184, comma 2, lettera e)- siano applicate le sanzioni amministrative previste per l'abbandono di rifiuti dall'art. 255.
Inoltre, richiamando l'esclusione dalla disciplina generale sullo smaltimento delle attività contemplate dall'art. 182, comma 6-bis, di cui si è detto in precedenza, l'art. 256-bis stabilisce che le disposizioni in esso contenute non si applicano quando la combustione riguarda "materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato".
8. Riassumendo il contenuto delle disposizioni fini qui esaminate,
può sinteticamente rilevarsi che l'art. 182 comma 6-bis esclude che costituisca smaltimento, fase residuale della gestione dei rifiuti, la combustione, con le modalità ed alle condizioni descritte, di materiali che, per origine non sono rifiuti, poiché vengono richiamati i "materiali vegetali" di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), che sono, appunto, esclusi dalla disciplina di settore.
9.
Tale esclusione, tuttavia, non riguarda tutti i materiali vegetali, senza distinzione di sorta, ma soltanto, come si è visto, quelli che rispettino le ulteriori condizioni che la richiamata disposizione prevede e che riguardano, come già detto, provenienza, natura e, sopratutto, destinazione successiva (normali pratiche agricole e zootecniche o utilizzazione in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia), con la conseguenza che tutto ciò che non presenta tali requisiti è da considerarsi rifiuto, soggetto, quindi, alla disciplina ordinaria ed alle relative sanzioni, quali quelle previste per la gestione in assenza di titolo abilitativo.
In particolare,
ricorrendone ovviamente i presupposti, andranno applicate le sanzioni di cui all'art. 256 d.lgs. 152/2006 e, nel caso i fatti siano commessi in territorio soggetto alla disciplina emergenziale, quelle previste dal quasi speculare articolo 6 legge 210/2008.
10.
Diverso è il caso della combustione illecita di cui all'art. 256-bis, trattandosi, nel caso previsto dal comma 1, di condotta che si configura con l'appiccare il fuoco a rifiuti abbandonati, ovvero depositati in maniera incontrollata, quindi non sottoposti ad alcuna attività di gestione e rispetto alla quale si applicano le sanzioni amministrative di cui all'art. 255 nel caso di combustione illecita di rifiuti di cui all'art. 184, comma 2, lettera e), mentre, essendo esclusa, come si è visto, l'applicabilità della disposizione nelle ipotesi di abbruciamento di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato (fermo restando quanto stabilito dall'art. 182, comma 6-bis per i materiali, diversi dai rifiuti, ivi considerati), verificandosi tale evenienza devono ritenersi applicabili, qualora detti materiali siano qualificabili come rifiuti e ricorrendone le condizioni, le disposizioni generali in materia di illecita gestione di cui all'art. 256.
11. Vanno ora richiamate le decisioni di questa Corte che hanno preso in considerazione il delitto in questione.
Alcune (Sez. 3, n. 34098 del 27/02/2014, PM in processo lannaccone, non massimata; Sez. 3 n. 34097 del 27/02/2014 Cava, non massimata; Sez. 3 n. 39203 del 09/07/2014, Urcioli, non massimata; Sez. 3 n. 41715 del 09/07/2014, Guarino, non massimata; Sez. 3 n. 44886 del 02/10/2014, Fortunato, non massimata; Sez. 3 n. 47663 del 08/10/2014, De Santis, non massimata; Sez. 3 n. 50635 del 05/11/2014, Argento, non massimata) sono giunte a conclusioni non uniformi, peraltro assunte in relazione all'assetto normativo al momento vigente.
Di ciò ha tenuto conto una successiva pronuncia (Sez. 3, n. 76 del 07/10/2014 (dep. 2015), P.M. in proc. Urcioli, Rv. 26179001) nella quale si è affermato che
l'eliminazione mediante incenerimento di sfalci e potature non integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'art. 256, comma primo, lett. a), trattandosi di residui vegetali che non sono classificabili come rifiuti e che sono utilizzati in agricoltura mediante processi e metodi costituenti normali pratiche agronomiche disciplinate dagli artt. 182, comma 6-bis, e 185 comma 1, lett. f), in quanto non danneggiano l'ambiente, né mettono in pericolo la salute umana.
Altra pronuncia (Sez. 3, n. 21936 del 05/04/2016, Ascolese, Rv. 26747001) ha successivamente ritenuto che
l'attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli in quantità giornaliere non superiori a 3 m steri per ettaro dei materiali  vegetali di cui all'art. 185, comma 1, lett. f), effettuate nel luogo di produzione non sono sanzionate penalmente ai sensi degli artt. 256 e 256-bis d.lgs. 152/2006.
Si è inoltre discostata dalle conclusioni cui è pervenuta la sentenza 76/2015 altra decisione (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016 Lazzarini, Rv. 26583801) nella quale si è affermato, dando peraltro atto, come era già stato fatto in precedenza, della difficoltà interpretativa, originata da interventi normativi, in materia, cronologicamente stratificati e sistematicamente non omogenei, che
in tema di gestione dei rifiuti, l'incenerimento di residui vegetali effettuato nel luogo di produzione al di fuori delle condizioni previste dall'art. 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo, integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), d.lgs. 03.04.2006 n. 152 e non invece la disciplina sanzionatoria di cui all'art. 256-bis.
12.
Condividendosi, pertanto, le conclusioni cui è pervenuta tale ultima pronuncia, può affermarsi, alla luce delle considerazioni dianzi svolte, il principio secondo il quale le attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli dei materiali vegetali di cui all'articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate con le modalità ed alle condizioni indicate dall'art. 182, comma 6-bis non rientrano tra le attività di gestione dei rifiuti, non costituendo smaltimento, e non integrano alcun illecito.
Al di fuori di tali modalità e condizioni non opera alcuna deroga e divengono applicabili le sanzioni previste dall'art. 256 d.lgs. 152/2006 per l'illecita gestione. Se, invece, la combustione di residui vegetali riguarda rifiuti abbandonati o depositati in modo incontrollato si applicano, ai sensi dell'art. 256-bis, comma 6, d.lgs. 152/2006, le sanzioni amministrative di cui all'art. 255 per i rifiuti urbani vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali di cui all'art. 184, comma 2, lett. e), d.lgs. 152/2006, mentre, sempre in forza dell'art. 256-bis, comma, 6, resta esclusa dall'applicazione di tale disposizione la combustione illecita di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato, rispetto alla quale restano applicabili le sanzioni di cui all'art. 256.
13. E' appena il caso di ricordare, inoltre, che, come più volte affermato da questa Corte,
l'eventuale applicazione di norme aventi natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti fa sì che l'onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge debba essere assolto da colui che ne richiede l'applicazione (Sez. 3, n. 5504 del 12/01/2016, Lazzarini, Rv. 26583901, cit. in relazione proprio ai residui vegetali, ma v. anche, con riferimento ad altri settori, Sez. 3, n. 6107 del 17/01/2014, Minghini Rv. 258860 in tema di impianti mobili adibiti alla sola attività di riduzione volumetrica e separazione delle frazioni estranee; Sez. 3, n. 17453 del 17/04/2012, Busè, Rv. 252385; Sez. 3, n. 16727 del 13/04/2011, Spinello, non massimata; Sez. 3, n. 41836 del 30/09/2008, Castellano, Rv. 241 504 in tema di sottoprodotti; Sez. 3, n. 1 5680 del 03/03/2010, Abbatino, non massimata; Sez. 3, n. 21587 del 17/03/2004, Marucci, non massimata; Sez. 3, n. 30647 del 15/06/2004, Dell'Angelo, non massimata, in tema di deposito temporaneo e, con riferimento alle terre e rocce da scavo, Sez. 3, n. 16078 del 10/03/2015, Fortunato, Rv. 26333601; Sez. 3, n. 35138 del 18/06/2009, Bastone Rv. 244784; Sez. 3, n. 37280 del 12/06/2008, Picchioni, Rv. 241087; Sez. 3, n. 9794 del 29/11/2006 (dep. 2007), Montigiani, non massimata sul punto. In tema di interramento in sito della posidonia e delle meduse spiaggiate rinvenute in battigia, art. 39, undicesimo comma, d.lgs. 152/2006, v. Sez. 3, n. 3943 del 17/12/2014 dep. (2015), Aloisio, Rv. 262159).
14. Ciò detto, deve rilevarsi, con riferimento al caso in esame, che le attività poste in essere dal ricorrente rientrano senza dubbio nell'attività di illecita gestione di rifiuti.
Invero, come pacificamente emerge dalla mera descrizione dei fatti così come accertati nel giudizio di merito, l'attività svolta non rientrava nella deroga di cui all'art. 182, comma 6-bis d.lgs. 152/2006 non soltanto per difetto del dato quantitativo, rilevato dalla Corte territoriale, ma anche per non aver riguardato materiali di cui all'art. 185, comma 1, lettera f), d.lgs. 152/2006, per non essere stata dimostrata la destinazione alle normali pratiche agricole e zootecniche o l'utilizzazione in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia come richiesto dalla norma.
Ha infatti precisato la Corte di appello che la rimozione della vegetazione spontanea a mezzo escavatore ed il successivo incenerimento della stessa in una buca all'uopo predisposta erano finalizzate alla predisposizione dell'area per la successiva realizzazione di un vivaio, sicché la combustione del materiale vegetale aveva come scopo evidente il definitivo smaltimento.
Le conclusioni cui sono pervenuti i giudici del gravame risultano, conseguentemente giuridicamente corrette ed assistite da idonea motivazione.
15. Altrettanto deve dirsi con riferimento all'ulteriore contestazione, riguardante il reato di cui all'art. 674 cod. pen., di cui tratta il secondo motivo di ricorso. Va rilevato, a tale proposito, che detto motivo è generico, limitandosi ad affermare apoditticamente che la mera apparenza della motivazione e la mancanza di un accertamento sulla idoneità offensiva delle emissioni provocate.
Ciò posto, deve osservarsi, in ogni caso, che l'ipotesi contravvenzionale considerata dall'articolo 674 cod. pen. configura, come è noto, un reato di pericolo finalizzato a prevenire esiti dannosi o pericolosi per le persone conseguenti al getto o versamento di cose atte ad offendere, imbrattare o comunque molestare, ovvero all'emissione di gas, vapori o fumi idonei a cagionare i medesimi effetti.
Con specifico riferimento alle emissioni in atmosfera, è tale ultima ipotesi che viene ovviamente presa in considerazione (anche se non può escludersi, quale conseguenza di tali attività, la emissione di polveri che, data la loro diversa consistenza, rientrano nel concetto di "cose" contemplato nella prima parte dell'articolo).
La seconda parte dell'articolo 674 cod. pen. prevede la rilevanza penale delle emissioni di gas vapori o fumi "nei casi non consentiti dalla legge" ed è evidente che, nel caso di specie, costituendo la combustione una illecita attività di smaltimento, l'emissione di fumo non poteva certo ritenersi consentita.
La Corte territoriale ha inoltre evidenziato come le emissioni di fumo, propagatesi a distanza e per diverse ore (tanto che un teste riferiva che il giorno successivo all'intervento dei vigili del fuoco dalla fossa utilizzata per la combustione continuava ad uscire fumo che interessava l'area circostante) superavano la normale tollerabilità ed erano idonee ad arrecare molestia alle persone, dando dunque conto, con motivazione sintetica ma certamente adeguata, della potenzialità offensiva dei fumi già evidenziata nell'imputazione, laddove si precisava che erano stati i residenti dell'abitato circostante a sollecitare l'intervento dei vigili del fuoco (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 02.08.2017 n. 38658).

APPALTI: Esclusione non automatica in caso di gravi precedenti inadempimenti contrattuali non contestati in giudizio.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per pregressa risoluzione anticipata del contratto per significative carenze nell’esecuzione – Risoluzione non cointestata in giudizio – Art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 – Non determina l’esclusione automatica.
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 -nella parte in cui dispone che tra i gravi illeciti commessi dal concorrente e che ne determinano l’esclusione rientrano “le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio”- non introduce una forma di esclusione automatica, essendo comunque necessaria una compiuta e concreta valutazione della stazione appaltante circa la gravità e rilevanza dell’inadempimento contrattuale pregresso rispetto alla persistenza del rapporto di fiducia (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che il comma 5 dell’art. 80, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 contiene anche un indice di riconoscimento delle “significative carenze” ancorato agli effetti giuridici che le stesse hanno prodotto, vale a dire la risoluzione anticipata del contratto, divenuta definitiva perché non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio: il legislatore ha così inteso perseguire finalità di semplificazione probatoria, in quanto la mancata produzione di tali effetti tipicizzati rende ben più complesso fornire la prova incontestabile che il pregresso inadempimento è stato significativo. E’ la stazione appaltante a essere gravata dell’onere di dimostrare l’inaffidabilità del concorrente e non quest’ultimo a dover dimostrare la propria affidabilità.
In esecuzione del comma 13 del citato art. 80, d.lgs. n. 50 del 2016 l’Anac ha adottato le Linee guida 20.12.2016, n. 6, con le quali è stato precisato quali mezzi di prova debbano considerarsi adeguati, ovvero quali carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto siano significative ai fini del precedente comma 5, lett. c).
Dopo aver indicato a titolo esemplificativo una serie di comportamenti che, ove abbiano comportato la risoluzione del precedente contratto di appalto, costituiscono gravi illeciti professionali, l’Autorità ha chiarito che i comportamenti gravi e significativi accertati a carico dei concorrenti devono essere valutati dalla stazione appaltante “ai fini dell’eventuale esclusione” e ha dettato i criteri cui le stazioni appaltanti debbono attenersi nell’effettuare detta valutazione.
La gravità del comportamento deve essere valutata con riferimento all’idoneità dell’azione a incidere sull’interesse della stazione appaltante a contrattare con l’operatore economico interessato, alla stregua di un giudizio discrezionale che deve tenere conto delle circostanze di fatto, della tipologia di violazione, delle conseguenze sanzionatorie, del tempo trascorso e delle eventuali recidive, il tutto in relazione all’oggetto e alle caratteristiche dell’appalto. Il provvedimento di esclusione deve essere adeguatamente motivato con riferimento agli elementi indicati.
Non è dunque sufficiente, per disporre l’esclusione, che la stazione appaltante richiami l’esistenza di una risoluzione anticipata non contestata, dovendo invece tale esclusione essere limitata ai soli casi in cui sia dimostrato in concreto, con riferimento alle specifiche esigenze della singola procedura di gara, il nesso causale tra il pregresso illecito professionale e l’esclusione fondata sul giudizio discrezionale di inaffidabilità del concorrente.
In altri termini, non ogni inadempimento pregresso, per quanto grave e tale da aver condotto alla risoluzione di un precedente contratto d’appalto, giustifica l’esclusione dalla partecipazione a gare successive, in assenza di una esplicita valutazione prognostica della stazione appaltante circa la capacità del concorrente di eseguire in maniera corretta le prestazioni oggetto del nuovo affidamento (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 01.08.2017 n. 1011 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3.1. Il motivo è fondato.
3.1.1. Si è visto che
l’art. 80, co. 5, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016 identifica il grave illecito professionale, ostativo alla partecipazione alle procedure di affidamento di contratti pubblici, con le significative carenze commesse nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione. Come autorevolmente osservato, la norma contiene anche un indice di riconoscimento delle “significative carenze” ancorato agli effetti giuridici che le stesse hanno prodotto, vale a dire la risoluzione anticipata del contratto, divenuta definitiva perché non contestata in giudizio, ovvero confermata all'esito di un giudizio: il legislatore ha così inteso perseguire finalità di semplificazione probatoria, in quanto la mancata produzione di tali effetti tipicizzati (cui si aggiungono la condanna al risarcimento del danno o l’applicazione di altre sanzioni) rende ben più complesso fornire la prova incontestabile che il pregresso inadempimento è stato significativo, secondo una scelta che appare in linea con gli orientamenti della giurisprudenza eurounitaria (cfr. Cons. Stato, Commissione speciale, parere 03.11.2016, n. 2286, reso sulle linee-guida ANAC recanti l’indicazione dei mezzi di prova adeguati e delle carenze nell’esecuzione di un precedente contratto d’appalto, in attuazione del comma 13 dello stesso art. 80 cit. Sulle linee guida, v. anche infra).
Ricordato che è la stazione appaltante a essere gravata dell’onere di dimostrare l’inaffidabilità del concorrente e non quest’ultimo a dover dimostrare la propria affidabilità, la condizione minima perché possa configurarsi il presupposto per l’esclusione dalla gara è, dunque, che la risoluzione contrattuale contestata al concorrente abbia assunto carattere di definitività a seguito di verifica giurisdizionale in ordine alla effettiva sussistenza dei comportamenti contestati al concorrente medesimo.
Un tale accertamento manca nella fattispecie in esame, né può sostenersi che l’odierna ricorrente abbia fatto acquiescenza alle contestazioni mosse nei suoi riguardi dalla stazione appaltante S.A.C.. Con nota del 26.03.2016 la società consortile Fo., costituita dalle imprese del raggruppamento aggiudicatario dell’appalto cui si riferisce la dichiarazione resa dalla ricorrente ai sensi dell’art. 80, co. 5, lett. c), d.lgs. n. 50/2016, ha contestato di essere responsabile del ritardo nell’esecuzione delle opere; quindi, con diffida notificata il 19.09.2016, l’impresa mandataria del raggruppamento in questione ha contestato a S.A.C. la responsabilità dei ritardi nell’esecuzione delle opere oggetto di appalto e la strumentalità del recesso dal contratto esercitato dalla stessa S.A.C., e il contenzioso è ulteriormente proseguito in sede stragiudiziale con la nota della società Fontanarossa del 26.01.2017, contenente un invito alla composizione bonaria della vertenza.
La non definitività della risoluzione contrattuale autodichiarata dalla ricorrente, non avendo formato oggetto di alcun accertamento giudiziale e non potendo considerarsi altrimenti consolidata, impedisce di valutare come “significative” le supposte carenze commesse dall’appaltatore nell’esecuzione dell’appalto a suo tempo affidato da S.A.C.. Ne risulta pregiudicato, di conseguenza, l’intero ordito motivazionale del provvedimento impugnato, che si incentra in modo pressoché esclusivo proprio sulla mancata impugnativa dell’atto di risoluzione in danno adottato dalla stazione appaltante S.p.a. nei confronti della società Fontanarossa, costituita (anche) da R. S.r.l..
3.1.2. Alle considerazioni esposte, deve aggiungersi che
il rilievo di “significative carenze” nell’esecuzione di un precedente appalto, pur se riscontrato dalla definitiva risoluzione del sottostante rapporto contrattuale, non è di per sé sufficiente a dimostrare l’inaffidabilità dell’operatore economico.
L’art. 80 del d.lgs. n. 50/2016, al comma 13, demanda all’ANAC di precisare –mediante l’adozione di specifiche linee guida volte a garantire omogeneità di prassi da parte delle stazioni appaltanti– quali mezzi di prova debbano considerarsi adeguati, ovvero quali carenze nell'esecuzione di un precedente contratto di appalto siano significative ai fini del precedente comma 5, lett. c).
Con le linee guida n. 6, pubblicate il 20.12.2016 ed entrate in vigore il 03.01.2017,
l’ANAC ha indicato a titolo esemplificativo una serie di comportamenti che, ove abbiano comportato la risoluzione del precedente contratto di appalto, costituiscono gravi illeciti professionali (l’inadempimento di una o più obbligazioni contrattuali; le carenze del prodotto o servizio fornito, tali da renderlo inutilizzabile per lo scopo previsto; l’adozione di comportamenti scorretti; il ritardo nell’adempimento; l’errore professionale nell’esecuzione della prestazione; l’aver indotto in errore l’amministrazione circa la fortuità dell’evento che dà luogo al ripristino dell’opera danneggiata per caso fortuito interamente a spese dell’amministrazione stessa; qualunque omissione o errore di progettazione imputabile all’esecutore che abbia determinato una modifica o variante; qualunque omissione o errore di progettazione imputabile al progettista, che abbia determinato, nel successivo appalto di lavori, una modifica o variante).
L’Autorità ha altresì chiarito che
i comportamenti gravi e significativi accertati a carico dei concorrenti debbono essere valutati dalla stazione appaltante “ai fini dell’eventuale esclusione”, e ha dettato i criteri cui le stazioni appaltanti debbono attenersi nell’effettuare detta valutazione.
In particolare, il paragrafo VI delle linee guida stabilisce che
la rilevanza delle situazioni accertate ai fini dell’esclusione deve essere valutata nel rispetto del principio di proporzionalità, assicurando: che le determinazioni adottate dalla stazione appaltante perseguano l’obiettivo di assicurare che l’appalto sia affidato a soggetti che offrano garanzia di integrità e affidabilità; che l’esclusione sia disposta soltanto quando il comportamento illecito incida in concreto sull’integrità o sull’affidabilità dell’operatore economico in considerazione della specifica attività che lo stesso è chiamato a svolgere in esecuzione del contratto da affidare; che l’esclusione non sia tale da gravare in maniera eccessiva sull'interessato e sia disposta all’esito di una valutazione che operi un apprezzamento complessivo del candidato in relazione alla specifica prestazione affidata.
La gravità del comportamento deve essere valutata con riferimento all’idoneità dell’azione a incidere sull’interesse della stazione appaltante a contrattare con l’operatore economico interessato, alla stregua di un giudizio discrezionale che deve tenere conto delle circostanze di fatto, della tipologia di violazione, delle conseguenze sanzionatorie, del tempo trascorso e delle eventuali recidive, il tutto in relazione all’oggetto e alle caratteristiche dell’appalto. Il provvedimento di esclusione deve essere adeguatamente motivato con riferimento agli elementi indicati.

Pur affermando di aver tenuto conto delle linee guida n. 6 nel deliberare l’esclusione di R. dalla procedura (si veda la nota del 06.02.2017), la resistente CS. ha frontalmente disatteso le indicazioni dell’ANAC, limitandosi a desumere la sussistenza del grave illecito professionale dal mancato promovimento di iniziative giurisdizionali (o in sede arbitrale) a seguito della anticipata risoluzione dell’appalto conferito dalla S.A.C..
L’illegittimità degli atti impugnati, beninteso, risiede nel contrasto con la superiore norma di legge, prima ancora che con le linee guida, non vincolanti. Nella parte in cui escludono l’esistenza di automatismi espulsivi, le linee guida –per definizione prive di autonomo contenuto normativo– muovono infatti da una lettura del tutto condivisibile dell’art. 80, co. 5, lett. c), del d.lgs. n. 50/2016, improntata ai canoni di ragionevolezza e proporzionalità cui il legislatore è tenuto a conformarsi, in modo da limitare l’esclusione dalle gare ai soli casi in cui sia dimostrato in concreto, con riferimento alle specifiche esigenze della singola procedura di gara, il nesso causale tra il pregresso illecito professionale e l’esclusione fondata sul giudizio discrezionale di inaffidabilità del concorrente.
In altri termini,
non ogni inadempimento pregresso, per quanto grave e tale da aver condotto alla risoluzione di un precedente contratto d’appalto, giustifica l’esclusione dalla partecipazione a gare successive, in assenza di una esplicita valutazione prognostica della stazione appaltante circa la capacità del concorrente di eseguire in maniera corretta le prestazioni oggetto del nuovo affidamento (questo potrebbe presentare contenuti del tutto differenti da quello non correttamente adempiuto, così come i comportamenti a suo tempo addebitati al concorrente potrebbero apparire irrilevanti ai fini della stipula di un nuovo contratto, o costituire un’eccezione isolata nell’ambito di un curriculum altrimenti immacolato dell’operatore economico).
Ne discende, in ultima analisi, la correttezza di una interpretazione dell’art. 80, co. 5, lett. c), che si pone in linea con gli orientamenti giurisprudenziali formatisi sull’art. 38, co. 1, lett. f), dell’abrogato d.lgs. n. 163/2006 (per tutte, cfr. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 05.07.2017, n. 3288; id., 20.02.2017, n. 742).
La diversa formulazione letterale delle due norme (l’art. 38, co. 1, lett. f), rinviava alla “motivata valutazione della stazione appaltante”) è superabile senza difficoltà, ritenendo che
la “dimostrazione con mezzi adeguati” oggi richiesta riguardi non solo gli illeciti professionali commessi in passato, ma anche e soprattutto l’idoneità degli illeciti stessi a mettere in dubbio l’integrità o affidabilità del concorrente: conclusione imposta dalla necessità di leggere in senso costituzionalmente orientato la nuova disciplina.
Sul piano procedimentale, correlativamente, le linee guida n. 6 non fanno altro che esprimere una ovvia esigenza di rispetto delle regole generali che governano l’esercizio della discrezionalità amministrativa, a partire dall’obbligo di motivazione sancito dall’art. 3 della legge n. 241/1990.
Di contro, lo si è detto, gli atti impugnati non espongono alcuna valutazione concreta in ordine alla pretesa inaffidabilità della società ricorrente, riferita alle prestazioni oggetto dell’affidamento. Né la valutazione mancante può dirsi supplita dal generico riferimento della nota CS. in data 07.03.2017 alla “specifica attività” da svolgere “in esecuzione del contratto da affidare”.
4. In forza di tutto quanto precede, il ricorso deve essere accolto. L’esclusione disposta a carico della società ricorrente va pertanto dichiarata illegittima e annullata, nei già chiariti limiti dell’utilità residua dell’annullamento.

EDILIZIA PRIVATAIl Collegio ritiene di aderire all’orientamento, tuttora maggioritario, della giurisprudenza amministrativa, secondo cui la risalenza nel tempo dell’opera, di per sé, non incide sul potere di repressione dell’abuso da parte della P.A., sicché in sede di emissione dell’ordinanza di demolizione non si richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto.
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Ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell’ordine di demolizione, l’art 31 del d.P.R. n. 380/2001, nell’individuare i soggetti colpiti dalle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell’abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche responsabilità.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma è correlato all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e all’individuazione di un soggetto il quale abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico, non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Il nuovo acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e relativi al bene ceduto, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima della traslazione della proprietà.
Rimane salva, naturalmente, la facoltà di rivalsa del privato sul dante causa. Opinare diversamente consentirebbe di eludere in modo agevole la normativa edilizia, a danno del territorio e della collettività locale. 
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3.3. Infine, sulla necessità, o meno, di un obbligo motivazionale “rinforzato”, segnatamente in ordine all’esistenza e alla indicazione di un interesse pubblico attuale e concreto alla applicazione della sanzione demolitoria, anche in relazione a una comparazione di detto interesse con gli altri interessi coinvolti, questo Collegio di appello ritiene condivisibili le argomentazioni e le conclusioni alle quali è giunto il Tar.
La Sezione ben conosce l’orientamento giurisprudenziale secondo cui, fermo il carattere dovuto dell’ingiunzione a demolire, in presenza della constatata realizzazione di un’opera senza titolo abilitativo (o in totale difformità da esso) e, in linea di principio, la sufficienza della motivazione limitata all’affermazione dell'accertata abusività dell'opera, la repressione dell'abuso edilizio, disposta a distanza di tempo ragguardevole, richiede una puntuale motivazione sull'interesse pubblico al ripristino dei luoghi.
In tali casi, infatti, per il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell'abuso ed il protrarsi dell'inerzia dell'amministrazione preposta alla vigilanza, si ritiene che si sia ingenerata una posizione di affidamento nel privato, in relazione alla quale l'esercizio del potere repressivo è subordinato ad un onere di congrua motivazione che, avuto riguardo anche all'entità e alla tipologia dell'abuso, indichi il pubblico interesse, evidentemente diverso da quello ripristino della legalità, idoneo a giustificare il sacrificio del contrapposto interesse privato.
Tuttavia, con riferimento al caso di specie questo Collegio, come fondatamente osservato dal Tar, ritiene che l’orientamento suindicato non possa trovare applicazione.
Prima di tutto, e in termini generali, il Collegio ritiene di aderire all’orientamento, tuttora maggioritario, della giurisprudenza amministrativa, secondo cui la risalenza nel tempo dell’opera, di per sé, non incide sul potere di repressione dell’abuso da parte della P.A., sicché in sede di emissione dell’ordinanza di demolizione non si richiede alcuna specifica valutazione delle ragioni d'interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati e neppure una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente, che il tempo non può legittimare in via di fatto (così, ex multis, Cons. di Stato, sez. VI, nn. 13 del 2015, 5792 del 2014 e 6702 del 2012).
Nella fattispecie, l’ordinanza di demolizione irrogata alla società Ze. risulta sufficientemente motivata attraverso l’individuazione della struttura e delle sue caratteristiche, e mediante l’indicazione del carattere abusivo dell’intervento compiuto per l’assenza del necessario permesso di costruire, risultando così in re ipsa l’interesse pubblico ai corretti uso e gestione del territorio.
Per quanto riguarda il reiterato rilievo difensivo di parte appellante incentrato sull’assai lungo lasso di tempo trascorso tra la realizzazione del manufatto (tra l’altro, nemmeno da parte della ricorrente ma direttamente dal costruttore e comunque dal precedente proprietario e dante causa; e in disparte la soluzione da dare alla questione, non necessaria per decidere, sulla data effettiva della esecuzione dei lavori oggetto dell’ordinanza di demolizione), e l’emissione dell’ordinanza impugnata, tale elemento non assume rilievo nel senso prospettato dalla società appellante e ciò perché non risulta comprovato che il Comune fosse sin da epoca risalente a conoscenza dell’abuso commesso –si sostiene- negli anni 1963-1965, durante la costruzione del fabbricato.
Neppure risulta comprovata la conoscenza dell’abuso, da parte del Comune, con riferimento alla data della presentazione della istanza di sanatoria.
E’ esatto infatti quanto afferma la difesa civica e, cioè, che il Comune ha attivato il procedimento di repressione dell’abuso edilizio –illecito permanente- non appena la società ha rinunciato alla istanza di sanatoria, il che è avvenuto nel giugno del 2014, come risulta in atti.
Tra l’istanza di archiviazione della sanatoria e l’adozione della misura repressiva impugnata in primo grado, datata 27.04.2015, è dunque trascorso meno di un anno (senza considerare che l’avviso di avvio del procedimento di repressione dell’abuso edilizio è stato consegnato alla società Ze. il 16.02.2015), periodo di tempo, come appare evidente, tale da non far sorgere in capo al privato un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva o, perlomeno, tale da subordinare la legittimità dell’ingiunzione di demolizione a una motivazione rinforzata sull’interesse pubblico prevalente alla demolizione della struttura.
Sul punto vanno aggiunte altre due considerazioni.
La prima attiene al fatto che il fabbricato ricade in zona sottoposta a vincolo paesaggistico (v. d.m. 14.12.1959, recante dichiarazione di notevole interesse pubblico del complesso insulare di Chioggia; cfr., ora, l’art. 157, lett. c), del t.u. n. 42 del 2004; v. anche l’art. 167 del t.u. cit., oltre a essere posta all’interno della conterminazione lagunare – l. n. 366 del 1963), e in tale ipotesi la prevalenza dell'interesse pubblico sull'interesse privato è comunque da considerarsi in re ipsa, in considerazione del rilievo costituzionale del paesaggio, ex art. 9, comma 2, Cost. (sulla tutela del paesaggio inserita dall’art. 9 Cost. tra i propri principi fondamentali, così da assurgere a valore primario o assoluto, si può fare rinvio a Corte cost., n. 367/07), sicché sono da considerarsi recessivi gli interessi privati in conflitto con il preminente interesse alla tutela del bene paesaggio (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 4610 del 2012).
La seconda annotazione riguarda la legittimazione passiva della società Ze. rispetto all’ordine di demolizione, e si collega con il profilo di censura d’appello basato sulla affermata, omessa considerazione dell’affidamento della società ricorrente in ordine alla “legittimità” dell’immobile acquistato.
Il Collegio –in disparte le considerazioni difensive comunali che inducono a dubitare della fondatezza della tesi della buona fede di parte appellante in quanto nuova proprietaria; e precisato che la circolare comunale del 29.01.2008 si riferiva agli interventi edilizi realizzati prima del 1967 al di fuori del centro abitato, mentre l’edificio in esame rientra nel centro abitato, fatto coincidere con il perimetro individuato dal d.m. del 14.12.1959-, ritiene che la legittimazione passiva non sia esclusa per il fatto che la realizzazione dell’abuso sia avvenuta, come si sostiene, prima dell’acquisto della proprietà da parte della ricorrente.
Ai fini della legittimazione passiva del soggetto destinatario dell’ordine di demolizione, infatti, l’art 31 del d.P.R. n. 380/2001, nell’individuare i soggetti colpiti dalle misure repressive nel proprietario e nel responsabile dell’abuso, considera evidentemente quale soggetto passivo della demolizione il soggetto che ha il potere di rimuovere concretamente l’abuso, potere che compete indubbiamente al proprietario, anche se non responsabile in via diretta.
Detto altrimenti, ai sensi dell’art. 31, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001, affinché il proprietario di una costruzione abusiva possa essere destinatario dell'ordinanza di demolizione non occorre stabilire se egli sia responsabile dell'abuso, poiché la stessa disposizione nazionale si limita a prevedere la legittimazione passiva del proprietario non responsabile all'esecuzione dell'ordine di demolizione, senza richiedere l’effettivo accertamento di una qualche responsabilità.
Il presupposto per l’adozione di un’ordinanza di ripristino non coincide con l'accertamento di responsabilità storiche nella commissione dell'illecito, ma è correlato all’esistenza di una situazione dei luoghi contrastante con quella codificata nella normativa urbanistico –edilizia, e all’individuazione di un soggetto il quale abbia la titolarità a eseguire l’ordine ripristinatorio: il proprietario, in virtù del suo diritto dominicale; sicché in modo legittimo la misura ripristinatoria è posta a carico, non solo dell'autore dell'illecito, ma anche del proprietario del bene e dei suoi aventi causa.
Il nuovo acquirente dell’immobile abusivo o del sedime su cui è stato realizzato succede in tutti i rapporti giuridici attivi e passivi facenti capo al precedente proprietario e relativi al bene ceduto, ivi compresa l’abusiva trasformazione, subendo gli effetti sia del diniego di sanatoria, sia dell’ingiunzione di demolizione successivamente impartita, pur essendo l’abuso commesso prima della traslazione della proprietà (cfr. Consiglio di Stato, VI, n. 3210 del 2017; V, n. 40 del 2007).
Rimane salva, naturalmente, come il Comune appellato non manca di rilevare, la facoltà di rivalsa del privato sul dante causa.
Opinare diversamente consentirebbe di eludere in modo agevole la normativa edilizia, a danno del territorio e della collettività locale.
In conclusione, non sussistono né il difetto di motivazione e neppure la carenza di istruttoria rilevati nell’atto di appello che, dunque, va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 28.07.2017 n. 3789 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIPer consolidata giurisprudenza, la pubblica amministrazione non ha l’obbligo giuridico di pronunciarsi su un’istanza diretta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela, che costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, di cui essa è titolare per la tutela dell'interesse pubblico e che, in quanto tale, è incoercibile dall'esterno.
In particolare, la giurisprudenza è costante nell'affermare che “non è ravvisabile alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità di atti amministrativi mediante l'istituto del silenzio-rifiuto, costituendo l'esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio; per cui sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è da ritenersi inammissibile”.
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Invero, secondo i principi espressi dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (dalla sentenza n. 11 del 2016), pronunciatasi proprio sulla questione dell’applicabilità della normativa sopravvenuta alle ipotesi di riesercizio del potere amministrativo dopo la formazione di un giudicato favorevole al ricorrente, occorre innanzitutto interpretare il contenuto dispositivo della pronuncia passata in giudicato da ottemperare, al fine di verificare se in esso sia stata sancita espressamente la spettanza del bene della vita (ipotesi nella quale le nuove norme non possono incidere pregiudicando la pretesa sostanziale dell’interessato già riconosciuta come spettante dal Giudice Amministrativo), ovvero se a seguito del giudicato il potere dell’Amministrazione di esprimersi sulla fondatezza sostanziale della pretesa sia rimasto inalterato, essendosi il Giudice Amministrativo limitato ad affermare l’obbligo per l’Ente di esercitare nuovamente il potere, senza invece vagliare la fondatezza della domanda sostanziale (e quindi il diritto al bene della vita) articolata dal privato (caso quest’ultimo, invece, nel quale la normativa sopravvenuta va applicata, anche laddove da ciò derivi il necessario respingimento della domanda articolata dal ricorrente, sulla base della nuova legge applicabile).
Nel caso in esame la sentenza n. 724/2016 ha semplicemente dichiarato l’obbligo del Comune di provvedere sull’istanza con qualsiasi provvedimento, senza pronunciarsi sulla spettanza del bene della vita, sicché bene ha fatto il Comune ad applicare la normativa portata dal citato art. 8 della LR. 17/2015, in vigore al momento dell’istruttoria e dell’adozione del provvedimento citato, rispettando quindi perfettamente il principio del tempus regit (regolatore dell’adozione dei provvedimenti amministrativi).
Non può neppure sostenersi la illegittimità della seconda nota del 28.2.2017 con la quale il Comune di Nardò ha rilevato di non poter annullare in autotutela in bando già pubblicato.
Come chiarito, giusta provvedimento 19.05.2016, lo stesso aveva già prestato ottemperanza alla sentenza n. 724/201 e, comunque, per consolidata giurisprudenza, dalla quale non si ravvisano ragioni per discostarsi, la pubblica amministrazione non ha l’obbligo giuridico di pronunciarsi su un’istanza diretta a sollecitare l’esercizio del potere di autotutela, che costituisce una manifestazione tipica della discrezionalità amministrativa, di cui essa è titolare per la tutela dell'interesse pubblico e che, in quanto tale, è incoercibile dall'esterno (ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 04.05.2015, n. 2237; id., Sez. IV, 26.08.2013, n. 4309).
In particolare, la giurisprudenza è costante nell'affermare che “non è ravvisabile alcun obbligo per l'Amministrazione di pronunciarsi su un'istanza volta ad ottenere un provvedimento in via di autotutela, non essendo coercibile ab extra l'attivazione del procedimento di riesame della legittimità di atti amministrativi mediante l'istituto del silenzio-rifiuto, costituendo l'esercizio del potere di autotutela facoltà ampiamente discrezionale dell'Amministrazione, che non ha alcun dovere giuridico di esercitarla, con la conseguenza che essa non ha alcun obbligo di provvedere su istanze che ne sollecitino l'esercizio; per cui sulle stesse non si forma il silenzio e la relativa azione, volta a dichiararne l'illegittimità, è da ritenersi inammissibile” (TAR Lazio, Sez. I-ter, 18.07.2016, n. 9563) (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 28.07.2017 n. 1329 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia dell’Unione europea le conseguenza dell’omessa indicazione nell’offerta dei costi di sicurezza aziendale.
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Appalti pubblici – Oneri di sicurezza aziendale – Omessa indicazione in assenza di espressa prescrizione nella lex specialis – Esclusione dalla gara – Compatibilità con il diritto europeo – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia U.E.
Deve essere rimessa alla Corte di giustizia dell’UE la seguente questione pregiudiziale ex art. 267 del TFUE:
   a) Se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 83, comma 9, del D. Lg.vo n. 50/2016, secondo la quale l’omessa separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di appalti pubblici, determina, in ogni caso, l’esclusione della ditta offerente senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata non sia stato specificato nell’allegato modello di compilazione per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta rispetti effettivamente i costi minimi di sicurezza aziendale (1).

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(1) I. - Il rinvio pregiudiziale è stato occasionato da una controversia in materia di affidamento di servizi sanitari sottosoglia, indetto nella vigenza del nuovo codice dei contratti pubblici, in cui la commissione di gara, rilevando l’omessa specifica indicazione nell’offerta economica degli oneri di sicurezza, ha consentito la “regolarizzazione” dell’offerta medesima mediante “soccorso istruttorio”.
Il provvedimento di ammissione è stato poi impugnato da una delle imprese concorrenti lamentando la violazione del d.lgs. n. 50 del 2016 nella parte in cui prevede l’obbligo di indicazione separata, all’atto della predisposizione delle offerte per partecipare ad una procedura ad evidenza pubblica di affidamento di appalto di servizi, dei costi interni di sicurezza aziendale (ai sensi dell’artt. 95, comma 10, a mente del quale “nell’offerta economica l’operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l’adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”), con divieto di successiva sanatoria (a mente dell’art. 83, comma 9, che esclude la sanabilità delle carenze essenziali della domanda di partecipazione “afferenti all’offerta tecnica e all’offerta economica”), anche qualora siffatta indicazione separata non sia prevista nel modulo predisposto dall’amministrazione per la presentazione delle offerte, secondo l’orientamento giurisprudenziale nazionale allo stato prevalente (v. Tar per la Calabria, Reggio Calabria, 25.02.2017, n. 166; Cons. Stato, sez. V, ord. 15.12.2016, n. 5582; Tar per il Molise, 09.12.2016, n. 513; Tar per la Campania, Salerno, 06.07.2016, n. 1604 citate in motivazione cui adde Tar per la Campania , Napoli, sez. III, 03.05.2017, n. 2358; contra (e con ampia ricostruzione della problematica) si veda di recente Tar per il Lazio, sez. I-bis, 17.05.2017, n. 7042).
La natura inderogabile di siffatto obbligo legale, da assolvere sin dalla fase di predisposizione dell’offerta economica e senza possibilità di successiva integrazione, viene giustificata dalla giurisprudenza amministrativa nazionale al fine di garantire la massima trasparenza dell'offerta economica nelle sue varie componenti, evitando che la stessa possa essere modificata ex post nelle sue componenti di costo, in sede di verifica dell'anomalia, con possibile alterazione dei costi della sicurezza al fine di rendere sostenibili e quindi giustificabili le voci di costo riferite alla fornitura del servizio o del bene.
Il Tar, richiamati gli orientamenti del giudice nazionale e comunitario formatisi nella vigenza del d.lgs. 163/2006, dubita della compatibilità comunitaria delle sopravvenute disposizioni del d.lgs. 50/2016, che, con portata innovativa rispetto al passato, prevedono oggi espressamente l’obbligo di dichiarazione separata, in sede di predisposizione dell’offerta economica, dei costi aziendali per la sicurezza, vietando in tal caso (stando almeno all’orientamento prevalente anche se non univoco cfr. sul punto Tar per il Lazio n. 7042 del 2017 cit.) il ricorso al soccorso istruttorio.
L’ordinanza di rimessione ritiene, in particolare, che l’inderogabilità di siffatto obbligo legale si ponga in contrasto con il diritto comunitario e, segnatamente, con i principi di tutela dell’affidamento, del favor partecipationis e della proporzionalità, valevoli anche per gli appalti sotto soglia, nei casi in cui l’indicazione separata degli oneri di sicurezza non sia espressamente prevista nel modulo predisposto dall’amministrazione per la presentazione delle offerte.
Ciò in quanto:
   a) L’impresa ha fatto affidamento, per l’appunto, sulle indicazioni fornite dalla stessa stazione appaltante ai fini della partecipazione ad una gara attenendosi alla modulistica a tal fine predisposta sicché è dubbio che possa configurarsi una colpa “sanzionabile” con l’esclusione nel comportamento di chi abbia omesso l’indicazione degli oneri di sicurezza interni sebbene prescritta dalla legge. Tale conseguenza viene ritenuta in contrasto anche con i principi di proporzionalità e di certezza del diritto;
   b) in assenza di espressa e motivata contestazione circa la congruità dell’offerta rispetto ai costi di sicurezza aziendale, la sanzione dell’esclusione verrebbe a configurarsi quale conseguenza di una violazione meramente formale in violazione dei principi comunitari del favor partecipationis e della parità di trattamento sostanziale tra le imprese concorrenti, con l’effetto anche di restringere indebitamente la platea dei possibili concorrenti e, quindi, con sostanziale violazione dei connessi principi di libera concorrenza e di libera prestazione dei servizi nell’ambito del territorio dell’Unione europea.
II. – In relazione alla precedente normativa (europea e nazionale) si sono pronunciate:
   c) Corte giust. UE sez. VI, 10.11.2016, C-162/16, Spinosa (in Appalti & Contratti, 2016, fasc. 12, 22 (m); nonché oggetto della News US in data 25.11.2016 secondo cui «il principio della parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza, come attuati dalla direttiva 2004/18/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 31.03.2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell’inosservanza, da parte di detto offerente, dell’obbligo di indicare separatamente nell’offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l’esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un’interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l’intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti. I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice») che, a sua volta, richiama Corte giust. UE, 02.06.2016, C-27/15, Pippo Pizzo (oggetto della News US in data 05.07.2016 nonché in Foro it., 2017, IV, 206 con nota di CONDORELLI), secondo cui «Il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano all’esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente, bensì da un’interpretazione di tale diritto e di tali documenti nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un intervento delle autorità o dei giudici amministrativi nazionali, le lacune presenti in tali documenti. In tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di consentire all’operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine fissato dall’amministrazione aggiudicatrice»);
   d) Ad. plen., 27.07.2016, n. 19 (oggetto della News US in data 01.08.2016, nonché in Foro it., 2017, III, 309, con nota di GAMBINO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), secondo cui <<Per le gare bandite anteriormente all’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici di cui al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50, qualora l’obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara e dalla modulistica allegata ma sia assodato che sostanzialmente l’offerta abbia tenuto conto dei costi minimi di sicurezza aziendale, l’esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l’offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio>>, che, a sua volta ha chiarito i principi espressi dalla medesima Adunanza plenaria nelle sentenze 02.11.2015, n. 9 e 20.03.2015, n. 3 (rispettivamente in Foro it., 2016, III, 65 e 114 con note di CONDORELLI e TRAVI cui si rinvia per ogni ulteriore approfondimento), secondo cui rispettivamente:
      I) <<Non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio, nel caso di omessa indicazione degli oneri di sicurezza aziendali, anche per le procedure nelle quali la fase della presentazione delle offerte si è conclusa prima della pubblicazione della decisione dell’adunanza plenaria 20.03.2015, n. 3>>;
      II) <<Nelle procedure di affidamento di lavori, i partecipanti alla gara devono indicare nell’offerta economica i costi interni per la sicurezza del lavoro, pena l’esclusione dell’offerta dalla procedura anche se non prevista nel bando di gara>>;
   e) Cons. St., sez. III, 09.01.2017, n. 30 secondo cui «E’ illegittima l’esclusione dell’impresa che non abbia indicato nella propria offerta economica gli oneri della sicurezza aziendale, ove la stessa non sia stata invitata dalla stazione appaltante a regolarizzare l’offerta, nel doveroso esercizio dei poteri del soccorso istruttorio al cospetto dalla loro mancata predeterminazione negli atti di gara» (TAR Basilicata, ordinanza 25.07.2017 n. 525 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Alla Corte di giustizia dell’Unione europea le conseguenza dell’omessa indicazione nell’offerta dei costi di sicurezza aziendale.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Costi sicurezza aziendale – Omessa separata indicazione – Conseguenza - Artt. 83, comma 9, e 95, comma 10, d.lgs. n. 50 del 2016 – Esclusione dalla gara – Senza esperimento soccorso istruttorio – Rimessione alla Corte di giustizia dell’Unione europea.
Va rimessa alla Corte di giustizia dell’Unione europea la questione se i principi comunitari di tutela del legittimo affidamento e di certezza del diritto, unitamente ai principi di libera circolazione delle merci, di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, di cui al Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), nonché i principi che ne derivano, come la parità di trattamento, la non discriminazione, il mutuo riconoscimento, la proporzionalità e la trasparenza, di cui alla direttiva n. 2014/24/UE, ostino all’applicazione di una normativa nazionale, quale quella italiana derivante dal combinato disposto degli artt. 95, comma 10, e 83, comma 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo la quale l’omessa separata indicazione dei costi di sicurezza aziendale, nelle offerte economiche di una procedura di affidamento di appalti pubblici, determina, in ogni caso, l’esclusione della ditta offerente senza possibilità di soccorso istruttorio, anche nell’ipotesi in cui l’obbligo di indicazione separata non sia stato specificato nell’allegato modello di compilazione per la presentazione delle offerte, ed anche a prescindere dalla circostanza che, dal punto di vista sostanziale, l’offerta rispetti effettivamente i costi minimi di sicurezza aziendale (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 26.02.2014 sugli appalti pubblici n. 2014/24/UE dispone, all’art. 18, par. 1, comma 1, che “le amministrazioni aggiudicatrici trattano gli operatori economici su un piano di parità e in modo non discriminatorio e agiscono in maniera trasparente e proporzionata”; all’art. 56, par. 3, che “se le informazioni o la documentazione che gli operatori economici devono presentare sono o sembrano essere incomplete o non corrette, o se mancano documenti specifici, le amministrazioni aggiudicatrici possono chiedere, salvo disposizione contraria del diritto nazionale che attua la presente direttiva, agli operatori economici interessati a presentare, integrare, chiarire o completare le informazioni o la documentazione in questione entro un termine adeguato, a condizione che tale richiesta sia effettuata nella piena osservanza dei principi di parità di trattamento e trasparenza”.
Ha aggiunto il Tar che il nuovo Codice dei contratti pubblici ha previsto espressamente l’obbligo di dichiarazione separata in sede di offerta economica dei costi aziendali per la sicurezza e ha vietato in tal caso il ricorso al soccorso istruttorio.
Il Tar ha dubitato della conformità al diritto dell’Unione di siffatta disciplina, qualora l’offerta che non contiene l’indicazione dei costi aziendali per la sicurezza del lavoro sia stata redatta dall’impresa partecipante alla gara di appalto su modulo predisposto dalla stazione appaltante, che non prevede tale indicazione.
Ha quindi rimesso la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione europea. Infatti, tenuto anche conto che non è in discussione il fatto che l’offerta, dal punto di vista sostanziale, rispetti i necessari costi di sicurezza, l’esclusione appare difficilmente compatibile con la tutela del legittimo affidamento, la certezza del diritto e la proporzionalità, che sono principi generali del diritto dell’Unione europea di applicazione trasversale, che, come tali, devono trovare applicazione anche per le procedure pubbliche di affidamento di appalti il cui valore non raggiunga la soglia comunitaria.
L’applicazione rigorosa della legge italiana, nel non ammettere la possibilità del c.d. soccorso istruttorio, conduce dunque all’automatica esclusione delle imprese che abbiano omesso l’indicazione separata, indipendentemente dal fatto che il requisito, nella sostanza, fosse invece posseduto: con la conseguenza di restringere indebitamente la platea dei possibili concorrenti e, quindi, con sostanziale violazione dei connessi principi di libera concorrenza e di libera prestazione dei servizi nell’ambito del territorio dell’Unione sanciti dal TFUE (TAR Basilicata, ordinanza 25.07.2017 n. 525 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIA: L'esercizio, in forma ambulante, di un’attività di raccolta e trasporto di rifiuti altrui resta fuori dagli obblighi connessi alla gestione dei rifiuti, di cui all’art. 256 D.L.vo 152/2006, a condizione che, ai sensi dell’art. 266, comma 5, D.L.vo 152/2006, si possegga l’abilitazione allo svolgimento dell’attività di raccolta e trasporto di rifiuti in forma ambulante e sempre che l’attività sia limitata ai soli rifiuti oggetto del suo commercio.
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1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Questa Corte Suprema ha già più volte affermato che "
la condotta sanzionata dall'art. 256, comma 1, d.lgs. n. 152 del 2006 è riferibile a chiunque svolga, in assenza del prescritto titolo abilitativo, una attività rientrante tra quelle assentibili ai sensi degli articoli 208, 209, 210, 211, 212, 214, 215 e 216 del medesimo decreto, svolta anche di fatto o in modo secondario o consequenziale all'esercizio di una attività primaria diversa che richieda, per il suo esercizio, uno dei titoli abilitativi indicati e che non sia caratterizzata da assoluta occasionalità", e dall'altro, sulla base di una lettura "sistematica" della disposizione, che "la deroga prevista dall'alt. 266, comma 5, d.lgs. n. 152 del 2006 per l'attività di raccolta e trasporto dei rifiuti prodotti da terzi, effettuata in forma ambulante opera qualora ricorra la duplice condizione che il soggetto sia in possesso del titolo abilitativo per l'esercizio di attività commerciale in forma ambulante ai sensi del d.lgs. 31.03.1998, n. 114 e, dall'altro, che si tratti di rifiuti che formano oggetto del suo commercio" (Sez. 3, n. 29992 del 24/06/2014, Lazzaro, Rv. 260266; conf. Sez. 3, n. 23908 del 19/04/2016, Butera, Rv. 267019; Sez. 3, n. 34917 del 09/07/2015, Caccamo, Rv. 264822; Sez. 3, n. 269 del 10/12/2014, Seferovic, Rv. 261959) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 21.07.2017 n. 36025).

ATTI AMMINISTRATIVI: Poteri del Consiglio comunale in sede di ratifica dell’accordo di programma.
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Accordi di programma – Ratifica – Accordo ex art. 34, d.lgs. n. 267 del 2000 – Potere del consiglio comunale – Individuazione.
Il Consiglio comunale, all'atto della ratifica dell'accordo di programma ex art. 34, comma 5, d.lgs. 18.08.2000, n. 267, non può entrare nel merito dei contenuti dell’accordo già firmato, negandola per ragioni sostanziali (1).

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   (1) La sentenza affronta la questione della natura e dei contenuti della ratifica, da parte del Consiglio comunale, dell'accordo di programma ex art. 34, comma 5, d.lgs. 18.08.2000, n. 267.
Tale disposizione prevede l'obbligo di ratifica dell'operato del Sindaco "ove l'accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici".
Il Tar, dopo aver qualificato l'istituto in oggetto, si sofferma sulla questione se il Consiglio comunale, all'atto della ratifica, possa entrare nel merito dei contenuti dell’accordo di programma già firmato, negandola per ragioni sostanziali, come avvenuto nel caso di specie.
La conclusione negativa si basa sia sull'analisi della funzione della ratifica ex lege di cui al comma 5 dell'art. 34 sia sulla valorizzazione dei contenuti dell'accordo di programma, sottoscritto dal Sindaco, il cui apporto sarebbe costantemente vanificato qualora il consiglio comunale entrasse nel merito dei contenuti dell'accordo, a maggior ragione qualora vengano censurati aspetti diversi dalla variazione degli strumenti urbanistici.
Proprio in ragione dell’eccezionalità di questa attribuzione di potere, il Tar ha ritenuto che la ratifica non può essere intesa come disponibilità di un potere di autotutela del consiglio comunale che entri nel merito della scelta frutto dell’azione concordata degli enti locali nella conferenza di servizi e poi nel successivo accordo di programma.
Il Tribunale è poi passato a esaminare la domanda risarcitoria. Pur essendo stato annullato il provvedimento impugnato, la domanda di risarcimento ex art. 30 c.p.a. è stata negata a causa della mancata prova del danno subito dalla parte ricorrente, che grava su di questa in base ai principi che governano la responsabilità aquiliana
L'ulteriore, subordinata, domanda di risarcimento del danno da ritardo nella conclusione del procedimento (durato, in effetti, tantissimi anni a causa di reiterate inerzie dei soggetti pubblici coinvolti) è stata anch'essa negata: dopo una analisi dell'istituto e della giurisprudenza in materia, la Sezione ha concluso per il diniego sulla base dell'orientamento più recente del Consiglio di Stato, che non riconosce il risarcimento del danno da mero ritardo, e pretende la necessità dell’accertamento della spettanza del bene della vita richiesto, ovvero dell’adozione del provvedimento favorevole (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 20.07.2017 n. 8818 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2. Così decise le eccezioni preliminari, il Collegio passa dunque al merito del ricorso.
Il primo motivo è infondato.
La delibera comunale 62/2007, nell’approvare il progetto presentato dall’Ufficio di Roma s.r.l., aveva preteso la realizzazione di una variante urbanistica e, quindi, la stipula di un accordo di programma ai sensi dell’art. 34 d.lgs. 267/2000; ciò in quanto la delibera di Giunta regionale n. 1620/83 imponeva lo strumento del piano attuativo, per edificare nella zona di Grotta Portella.
Parte ricorrente, come detto, sostiene che la suindicata prescrizione costituisca un vincolo cd. strumentale, assimilabile ai vincoli ablatori, come tale decaduto per decorso del termine quinquennale di cui all’art. 2 della l. 1187/1968.
2.1. Il Collegio ritiene che le ricorrenti errino a monte, nel ritenere che quanto stabilito dalla delibera regionale 1620/83 circa la necessità di “un intervento urbanistico preventivo, da approvarsi dal Comune” (vedi doc. 6 prod. ricorrenti) configuri un vincolo avente le caratteristiche di cui all’art. 2 della l. 1187/1968 (oggi trasfuso nell'art. 9 del D.P.R. n. 327/2001) per come interpretato dalla giurisprudenza.
È certamente vero che l’orientamento attualmente maggioritario e dominante ritiene che il criterio della decadenza quinquennale (secondo cui i vincoli preordinati all'esproprio o quelli comportanti inedificabilità perdono efficacia ove non seguiti nell'arco del quinquennio dalla approvazione del piano attuativo) si estende anche ai vincoli c.d. strumentali, cioè a quei vincoli che subordinano l'edificabilità di un'area all'inserimento della stessa in un programma pluriennale oppure alla formazione di uno strumento esecutivo (in questo senso, vedi anche Tar Campania- Napoli, sez. II, 24.02.2016, n. 1029).
Va tuttavia messo in evidenza che la nozione di “vincolo strumentale” è comunque riferibile a quelle prescrizioni che producano una pressoché totale ablazione del diritto di proprietà, essendo tanto intensi da annullare o ridurre notevolmente il valore degli immobili cui si riferiscono, ivi compresa l'ipotesi di imposizione temporanea di inedificabilità fino all'entrata in vigore dei piani particolareggiati, per la cui redazione non sia fissato alcun termine finale certo.
In sostanza,
per essere considerato “strumentale” occorre che il vincolo impedisca in modo netto l’edificabilità dell’area, svuotando il contenuto del diritto di proprietà e incidendo sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
In questo senso, la previsione di una determinata tipologia urbanistica non configura un vincolo preordinato all'espropriazione né comportante l'inedificabilità assoluta, trattandosi di una prescrizione diretta a regolare concretamente l'attività edilizia, in quanto inerente alla potestà conformativa propria dello strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato come espressamente stabilito dall'art. 11 della legge 17.08.1942, n. 1150
(TAR Campania, Napoli, sez. I, 05.11.2014, n. 5706).
2.1.1. Orbene, v’è fortemente da dubitare che la previsione di cui alla delibera n. 1620/83 configuri un vincolo di tal fatta, per la semplice ragione che essa costituisce una semplice previsione a completamento del regime urbanistico della zona in questione, come qualificata dal PRG, e senza che possa ritenersi che essa abbia un effetto ablativo o ostativo all’edificazione, tale da farla ritenere assimilabile a un vincolo strumentale e, quindi, alla disciplina di cui all’art. 2 citato.
D’altra parte, la ratio evidente della decadenza dei vincoli, anche nell’accezione più estesa, è quella di porre rimedio ai ritardi o all’inerzia dell’Amministrazione nell’attuazione in concreto degli strumenti urbanistici generali, al fine di evitare il sostanziale svuotamento del diritto di proprietà.
Nel caso di specie, siamo di fronte a una fattispecie sostanzialmente opposta: l’intervento urbanistico preventivo (in sostanza, una richiesta di variante al PRG) proviene direttamente dalla parte privata e al Comune spetta semplicemente l’approvazione.
Vi è quindi da ritenere che la decisione del Comune di non consentire l’edificazione diretta sia certamente corretta e comunque è evidente che se le ricorrenti avessero inteso censurare la scelta dell’Amministrazione, avrebbero dovuto impugnare direttamente la delibera n. 62/2007, rendendo inammissibile la proposizione di tale censura.
3. I motivi successivi, da interpretare alla stregua di un unico motivo, sono fondati e devono essere accolti.
La vicenda in sé ha uno snodo fondamentale: l’approvazione dell’
Accordo di programma il 16.01.2012, all’esito della conferenza di servizi iniziata nel 2010.
L’istituto in questione costituisce un'ipotesi di urbanistica negoziata, particolarmente utile per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti, e può comportare variazioni agli strumenti urbanistici vigenti anche per la realizzazione di un'opera di un soggetto privato, su aree di proprietà privata e per finalità private; tuttavia, ai sensi dell'art. 15 della l. 07.08.1990 n. 241, i destinatari degli accordi di programma sono le amministrazioni pubbliche, sicché i privati non possono essere portatori di diritti soggettivi nascenti dall'accordo ma, se incisi dallo stesso, sono portatori di un interesse legittimo al corretto esercizio del potere amministrativo, suscettibile di tutela con gli ordinari rimedi consentiti dall'ordinamento (così, Cons. St., 25.11.2015, n. 361).
Più specificatamente,
esso rappresenta una speciale tipologia di accordo tra pubbliche amministrazioni finalizzato alla definizione ed attuazione, con eventuale incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che richiedono per la loro completa realizzazione l'azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali o di altri soggetti pubblici (Cons. St., sez. IV, 21.11.2005, n. 6467)
3.1. Ciò detto, nel caso di specie l’Accordo del 16.01.2015 presentava prescrizioni aggiuntive a carattere edificatorio, non oggetto di contraddittorio in conferenza di servizi, ma comunque approvate anche dal Comune di Frascati in qualità di firmatario, nella persona del sindaco, dell’accordo stesso.
La necessità della ratifica nasceva dunque semplicemente dall’applicazione del comma 5 dell’art. 34 d.lgs. 267/2000, in base al quale “ove l'accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l'adesione del sindaco allo stesso deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”.
La disposizione è chiara nel prevedere la competenza del consiglio comunale a fare proprio un atto che, altrimenti, fino al momento della ratifica, non spiega alcuna efficacia (Cons. St., sez. IV, 22.02.2013, n. 1097).
D’altra parte
è noto che si ha ratifica quando l’organo competente fa proprio un atto emesso da un organo incompetente, consentendogli di spiegare efficacia retroattivamente.
Nel caso della ratifica prevista dall’art. 34, comma 5, del d.lgs. 267/2000 si ha, nella sostanza, un meccanismo di ratifica ex lege, quindi non frutto di un procedimento amministrativo di secondo grado, in cui l’incompetenza del Sindaco firmatario dell’accordo è presupposta ab origine e necessita del placet dell’organo consiliare per consentire all’atto di spiegare i suoi effetti.
3.1.1. La questione che si pone, dunque, all’attenzione del collegio è se in sede di ratifica ex art. 34, il consiglio comunale possa entrare nel merito dei contenuti dell’accordo di programma già firmato e negare la ratifica per ragioni sostanziali, come avvenuto nel caso di specie.
La risposta è negativa per ragioni di ordine letterale e sistematico.
In primo luogo, la disposizione del comma 5 parla espressamente di “ratifica” e quindi non può lasciare dubbi in ordine al fatto che si riferisca a quella forma di atto amministrativo che mira a preservare gli effetti di un atto adottato da organo incompetente, con l’unica precisazione che trattasi di incompetenza sancita direttamente dalla legge, tenuto conto che è la stessa legge a preoccuparsi di fare in modo che lo strumento negoziato (accordo) acquisti il crisma di provvedimento amministrativo vero e proprio laddove esso impinga in ambiti di stretta competenza dell’ente pubblico, quali le modifiche agli strumenti urbanistici.
La disposizione costituisce quindi massima espressione dell’interesse del legislatore alla salvaguardia dell’interesse pubblico all’organico controllo delle modifiche al territorio, che sarebbero a rischio laddove si consentisse al sistema dato dal binomio “conferenza di servizi” – “accordo di programma”, di apportare modifiche al sistema di regolamentazione urbanistica senza passare per il consiglio comunale.
Che si tratti di un provvedimento di mera assunzione di competenza non vi sono dubbi, perché, diversamente opinando, il legislatore avrebbe utilizzato un termine diverso e presumibilmente avrebbe fatto riferimento non alla ratifica, bensì alla “convalida”, che è il provvedimento con il quale l’amministrazione elimina un vizio di legittimità dall’atto che ne era affetto.
Al riguardo, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che
l’accordo di programma è sottoscritto dal sindaco, legittimamente ma a titolo provvisorio, secondo i principi che governano l'istituto della ratifica, e non acquista efficacia se non è approvato dal competente Consiglio comunale nel termine di decadenza di trenta giorni (così, Cons. St., sez. IV, 21.11.2005, n. 6467; id. Cons. St., sez. IV, 09.10.2002, n. 5365).
In secondo luogo,
la funzione di formale presa d’atto della ratifica di cui al comma 5, risiede nell’essenza stessa del sistema di attività amministrativa negoziata di cui all’art. 34 d.lgs. 267/2000, che è frutto del binomio conferenza di servizi-accordo, secondo quanto stabilito dallo stesso art. 34.
Pertanto, quando il soggetto avente la competenza primaria o prevalente sull’opera o sugli interventi o sui programmi di intervento da realizzare promuove la conclusione di un accordo di programma, “per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”, è obbligatoria la convocazione di una conferenza tra i rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate, “per verificare la possibilità di concordare l'accordo di programma”.
Il binomio conferenza di servizi (chiaramente istruttoria)–accordo di programma attribuisce un valore di programmazione e decisione piena all’incontro della volontà delle parti interessate, anche quando, in caso di variante dei piani urbanistici, sia necessaria la ratifica da parte dell’organo consiliare normalmente competente, che in giurisprudenza è stata considerata alla stregua di “atto interno che si inserisce nella sequenza procedimentale tesa al perfezionamento dell'accordo di programma (Cons. St., sez. IV, 27.05.2002, n. 2909).
Ne discende che non può esservi spazio per un intervento, da parte del consiglio comunale, che entri nel merito dell’accordo già negoziato.
Il consiglio, infatti, se decide –nel pieno delle sue prerogative- di non avallare la decisione del Sindaco aderente, semplicemente non ratifica entro trenta giorni, facendo così decadere in automatico l’accordo.
Ma hanno pienamente ragione le società ricorrenti laddove lamentano la violazione dell’art. 34, comma 5, d.lgs. 267/2000 in quanto il consiglio comunale avrebbe svolto un controllo sull’intero procedimento amministrativo (sul nulla osta dell’Asl, sulla certificazione dell’Acea, sulla permanenza del soddisfacimento delle esigenze imprenditoriali), subordinando una ipotetica ratifica futura alla "riformulazione completa del progetto in ragione delle prescrizioni intervenute, all’acquisizione dei pareri non ancora acquisiti nonché alla verifica del permanere dei presupposti imprenditoriali ed economico-finanziari alla base della proposta originaria ed adeguando alla luce di questi elementi il testo dell’Accordo di programma”.
Il collegio va oltre, e chiarisce che la natura del meccanismo di ratifica avrebbe impedito al consiglio comunale di Frascati anche di entrare nel merito delle scelte di tipo urbanistico.
Operando nel modo suddetto, chiaramente contrario al disposto di legge, il consiglio comunale ha sostanzialmente operato una sorta di ritiro (non consentito) dell'atto, avente le caratteristiche sia dell’annullamento d’ufficio che della revoca, ma senza identificarsi pienamente in nessuno dei due: una sorta di autotutela auto-imposta, nella quale vengono rilevate carenze sostanziali dell’atto in relazione, come già illustrato, alle prescrizioni intervenute, all’acquisizione dei pareri non ancora acquisiti nonché alla verifica del permanere dei presupposti imprenditoriali ed economico-finanziari alla base della proposta originaria, che, da un lato, fanno pensare a una sorta di revoca (ma l’atto è formalmente non revocabile, in quanto ancora inefficace, e la revoca, si sa, incide sugli effetti dell’atto a seguito di rivalutazione dell’interesse pubblico), dall’altro a un annullamento d’ufficio stante la rimozione dell’atto (valido ma inefficace) ex tunc, ma per ragioni che non appaiono affatto corrispondenti a vizi di legittimità tali da invalidare la decisione, salvo spingersi a pensare che il mancato recepimento delle nuove prescrizioni o la mancata acquisizione dei pareri non acquisiti costituisca vizio tale da rendere invalida la decisione concertata.
L’anomalia di questa originale forma di autotutela risiede nella circostanza che il Comune ha autonomamente rivalutato l’interesse pubblico alla definizione dell’accordo, ovviamente senza fornire alle parti alcuna comunicazione preventiva sul punto, e senza dire alcunché sull’unica ragione legittimante il suo intervento, ossia la conformità dell’accordo agli strumenti urbanistici oggetto di variazione, perché è quello l’unico caso in cui l’art. 34 impone l’intervento del Comune.
In tutti gli altri casi, il comma 4 dell’art. 34 TUEL stabilisce che “l'accordo, consistente nel consenso unanime del presidente della regione, del presidente della provincia, dei sindaci e delle altre amministrazioni interessate, è approvato con atto formale del presidente della regione o del presidente della provincia o del sindaco ed è pubblicato nel bollettino ufficiale della regione”.
La circostanza che il successivo comma 5 imponga la ratifica del consiglio comunale “ove l'accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici” costituisce dunque circostanza eccezionale, isolata, coerente con il sistema, ma di fatto circoscritta al caso di specie e finalizzata a evitare che le variazioni degli strumenti urbanistici (che possono comportare anche sostituzioni delle concessioni edilizie, oltre che varianti ai Piani, vedi sempre disposto del comma 4 della disposizione in questione) avvengano senza il consenso del Comune, che di fatto va a approvare, con la ratifica, l’operato di un organo –il Sindaco– che in materia urbanistica non ha alcuna competenza specifica tale da legittimare la presenza del suo solo consenso per apportare variazioni decisive nel tessuto urbanistico.
Proprio in ragione dell’eccezionalità di questa attribuzione di potere, è evidente che la ratifica non può essere intesa come disponibilità di un potere di autotutela nel merito della scelta frutto dell’azione concordata degli enti locali nella conferenza di servizi e poi nel successivo accordo di programma.
Di talché, se è legittimo, su un piano formale che in sede di accordo di programma siano recepite, anche all’insaputa delle parti, eventuali decisioni assunte nella conferenza di servizi o anche da taluno degli enti coinvolti, separatamente (nel caso di specie, si tratta delle note prescrizioni di adeguamento delle dimensioni dei fabbricati a determinati standards), non è altrettanto legittimo che il Comune si spinga oltre, fino a negare la ratifica per ragioni che, di fatto, esulano dai suoi poteri e dalla sua sfera di competenza, in quanto neppure aventi ad oggetto valutazioni di carattere urbanistico.
L’alterazione della sequenza procedimentale e i contenuti del provvedimento emesso il 15.02.2012 (e quindi nei trenta giorni dalla sottoscrizione dell’Accordo il 16 gennaio dello stesso anno, che, quindi, era perfettamente vigente e non era affatto decaduto) rendono palesemente illegittima l’azione del Comune, sotto il profilo della violazione della disciplina degli accordi di programma ex art. 34 d.lgs. 267/2000 caratterizzati dalla paritaria codeterminazione dell’atto e, in linea di massima, da principi di leale collaborazione e di condivisione dell’azione amministrativa tra i vari enti pubblici coinvolti, e anche sotto il profilo, lungamente esposto, della violazione della disciplina della ratifica di cui al comma 5, e determinano l’annullamento della delibera impugnata.
4. Il Collegio passa ora a esaminare l’accoglibilità delle domande risarcitorie, premettendo che, per esplicita richiesta della parte ricorrente, la domanda di risarcimento del danno da ritardo è stata posposta a quella di cui all’art. 30 c.p.a., proposta con i motivi aggiunti e che quindi viene esaminata per prima.
4.1. La domanda risarcitoria va respinta perché le ricorrenti non hanno fornito prova dei danni subiti a causa dell’illegittimo comportamento dell’Amministrazione.
È costante e non controverso il riferimento giurisprudenziale ai requisiti necessari per configurare la responsabilità della Pubblica amministrazione per i danni provocati dall'azione amministrativa, ossia l'adozione di un provvedimento illegittimo, la dimostrazione del dolo o della colpa (da valersi quale elemento costitutivo del diritto al risarcimento) dell'autorità che lo ha emanato, non essendo sufficiente il solo annullamento dell'atto lesivo, e la prova che dalla colpevole condotta amministrativa sia derivato, nella sfera patrimoniale del presunto danneggiato, un pregiudizio economico direttamente riferibile all'assunzione od all'esecuzione della determinazione illegittima (ex plurimis, Cons. St., sez. VI 14.10.2016 n. 4266; id., sez. IV, 01.08.2016 n. 3464; id., sez. III, 09.02.2016 n. 559; id., sez. V, 18.01.2016, n. 125; id., sez. III, 11.03.2015, n. 1272; id., sez, VI, 08.07.2015, n. 3400; id., sez. V, 13.01.2014, n. 63).
È altresì affermato in giurisprudenza che occorre anche la dimostrazione, secondo un giudizio di prognosi formulato ex ante, che l'aspirazione al provvedimento sia destinata a esito favorevole, dovendo la parte dimostrare, anche con il ricorso a presunzioni, la spettanza definitiva del bene collegata a tale interesse.
4.2. Nel caso di specie, non sembra che esistano grandi margini di aleatorietà rispetto al fatto che il progetto, una volta approvato, sarebbe stato formalmente cantierabile e, in definitiva, realizzabile, posto che esso era stato approvato, nei contenuti, con la sottoscrizione dell’accordo di programma del 16.01.2012, e al massimo avrebbe potuto non essere ratificato dal Comune in applicazione del comma 5 dell’art. 34.
Considerato che il provvedimento di mancata ratifica è stato giudicato, come illustrato supra, illegittimo per le ragioni indicate, al Collegio è consentita la valutazione circa la spettanza alle ricorrenti del bene della vita, sicché, in mancanza di elementi di segno opposto, non può che confermarsi il contenuto dell’Accordo già firmato, sulla cui validità non possono essere fatte osservazioni, posto che esso non è stato oggetto di impugnazione e considerando che le ragioni sostanziali della non ratifica sono, come detto, palesemente illegittime.
4.3. La questione, quindi, attiene a un profilo probatorio che involge esclusivamente la prova del danno e che è strettamente collegata al tipo di iniziativa imprenditoriale assunta nonché alle allegazioni e richieste della parte.
Nell’atto di motivi aggiunti, ove la domanda è stata proposta, le ricorrenti dedicano alla allegazione della richiesta, e alla relativa prospettazione probatoria, poche righe, contenute solo nell’ultima pagina dell’atto difensionale, nelle quali affermano che “deve aversi riguardo alle proiezioni economico finanziarie contenute nel piano di fattibilità dell’iniziativa imprenditoriale proposta. La quantificazione del danno non può che derivarsi dalla attualizzazione dei redditi annui futuri attesi dai ricorrenti, pari a 111 mila euro annui per Proedit s.r.l. e 64 mila euro annui per Ufficio di Roma s.r.l., per una durata illimitata e ad un tasso del 9,06% (pari al ROI convenzionale, come determinato nella scheda tecnica), per un importo totale di 1.932.000”.
A tale prospettazione segue, subito dopo, la richiesta di condanna al risarcimento del Comune di Frascati, ex art. 30 c.p.a. “nella misura di euro 706.560,00 a favore di Ufficio di Roma s.r.l. e euro 1.225.440,00 a favore della Pr. s.r.l.”.
Il Collegio, oltre a rilevare una evidente e ingiustificata contraddizione nelle somme richieste, rileva che le parti non hanno fornito alcun elemento che consenta non solo di calcolare il presunto danno, ma, soprattutto, di stabilirne gli elementi essenziali e le voci oggetto di richiesta risarcitoria.
Deve rilevarsi, sul punto, che la domanda non ha riguardo a danni emergenti ma solamente a possibile lucro cessante, consistendo nella richiesta di refusione dei possibili redditi futuri.
Infatti, la domanda di refusione delle spese, pari a 50.000 euro, faceva parte della domanda di risarcimento del danno da ritardo, posposta a quella ex art. 30 c.p.a., e non riproposta in tale sede.
Quello che rende la richiesta inaccoglibile è la circostanza che essa si basi su elementi assolutamente aleatori, facenti capo al “Piano di fattibilità” (doc. 5 prod. ricorrenti), che rappresenta l’illustrazione dell’iniziativa imprenditoriale ma che di per sé è semplicemente un documento previsionale e astratto, avente ad oggetto un progetto del tutto irrealizzato e soggetto, come ogni iniziativa imprenditoriale, a una serie di variabili non valutabili in concreto.
La domanda risarcitoria, disattendendo quindi questo aspetto, ritiene acquisiti mancati guadagni dell’attività, una volta realizzata e a regime, che si basano esclusivamente su proiezioni ipotetiche contenute nelle strumento programmatorio, ma del tutto disancorate da elementi oggettivi o da riscontri concreti circa la loro realizzazione.
In sostanza la parte confonde l’astratta cantierabilità dell’opera (riconosciuta anche da questo collegio) con la sua concreta eseguibilità.
Non per nulla, lo stesso nome del Piano, denominato “di fattibilità”, dimostra chiaramente che nessuna domanda risarcitoria avrebbe potuto essere proposta dando per esistente qualcosa che esistente non era, posto che non esiste un nesso causale immediato tra l’approvazione del progetto (illegittimamente negata dal Comune) e la sua certa realizzazione, e questo per la ragione che non si trattava della semplice realizzazione di un manufatto, ma di un complesso e articolato progetto imprenditoriale che avrebbe anche potuto non vedere la luce stante l’aleatorietà che contraddistingue tale tipologia di attività.
4.4. Vanno a tal proposito
ribaditi i principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di quantificazione del danno da mancata aggiudicazione, che sono utilizzabili anche nel caso di specie trattandosi di principi generali in materia di responsabilità risarcitoria, e quindi:
   - ai sensi degli artt. 30 e 40 c.p.a., il danneggiato deve offrire la prova dell’an e del quantum del danno che assume di aver sofferto;
   - spetta al soggetto danneggiato offrire la prova dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora vi fosse stato corretto esercizio del potere da parte dell’Amministrazione, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.); quest'ultimo, infatti, in tanto si giustifica in quanto sussista la necessità di equilibrare l'asimmetria informativa tra amministrazione e privato la quale contraddistingue l'esercizio del pubblico potere ed il correlato rimedio dell'azione di impugnazione, mentre la medesima necessità non si riscontra in quella consequenziale di risarcimento dei danni, in relazione alla quale il criterio della c.d. vicinanza della prova determina il riespandersi del predetto principio dispositivo sancito in generale dall'art. 2697, primo comma, cod. civ.;
   - la prova in ordine alla quantificazione del danno può essere raggiunta anche mediante presunzioni; per la configurazione di una presunzione giuridicamente rilevante non occorre che l’esistenza del fatto ignoto rappresenti l’unica conseguenza possibile di quello noto, secondo un legame di necessarietà assoluta ed esclusiva (sulla base della regola della «inferenza necessaria»), ma è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù della regola della «inferenza probabilistica»), sicché il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purché dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre non può attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici.

4.4.1. Da tali pacifici principi deriva che la parte ricorrente, avendo ritenuto di liquidare la richiesta risarcitoria semplicemente con un richiamo alla parte del piano di fattibilità nel quale si fanno solo previsioni, senza alcun dato certo, è venuta meno al proprio onere probatorio come sopra illustrato, non avendo fornito la prova del danno effettivo subito, posto che, come detto, l’approvazione del progetto non implicava automaticamente la sua realizzazione e la parte non ha fornito elementi sul punto.
Tutto questo ribadendo la circostanza oggettiva che nell’atto di motivi aggiunti non vi è corrispondenza tra danno prospettato nel corpo dell’atto e danno richiesto in sede di conclusioni, senza che sia possibile in alcun modo ricostruire il ragionamento e i conteggi effettuati dalla parte.
4.4.2. In tale contesto, anche la liquidazione equitativa è impossibile, in quanto è ormai principio consolidato (ma sul punto si veda Cass. civ., n. 17752 del 2015) quello per cui "
l'esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c. ed espressione del più generale potere di cui all'art. 115 c.p.c., dà luogo, non già a un giudizio di equità, bensì a un giudizio di diritto caratterizzato dalla cd. equità giudiziale integrativa, che, pertanto, presuppone che sia provata l'esistenza di danni risarcibili e che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile, per la parte interessata, provare il danno nel suo preciso ammontare; non è possibile, invece, in tal modo, surrogare il mancato accertamento della prova della responsabilità del debitore o la mancata individuazione della prova del danno nella sua esistenza".
4.5. Vi è un altro aspetto da considerare, che il Collegio ritiene particolarmente significativo ai fini del non accoglimento della pretesa risarcitoria, e consiste nella circostanza che le resistenti, in modo del tutto inspiegabile, non abbiano proposto domanda cautelare per la sospensione del provvedimento, attendendo per anni la fissazione del merito, deciso con la presente decisione.
Orbene, è quanto mai singolare che la richiesta risarcitoria vada a connotarsi di contenuti legati (esclusivamente) alla redditività di un progetto che, una volta bocciato dal Comune, avrebbe potuto, in caso di esito favorevole della domanda cautelare di sospensione, essere portato a compimento, posto che i suoi contenuti erano ricompresi nell’Accordo di programma.
Lungi dal decadere, infatti, l’Accordo avrebbe ripreso vita laddove la delibera 8/2012 fosse stata sospesa (o persino annullata qualora fosse stata emessa sentenza in forma semplificata), e la parte avrebbe potuto dare esecuzione all’iniziativa imprenditoriale con i dovuti tempi.
È presumibile invece supporre che, stante anche la mancata richiesta di risarcimento di eventuali spese e investimenti sostenuti, a titolo di danno emergente, le due società non avessero intenzione di proseguire nell’iniziativa, anche in ragione del notevole tempo trascorso tra l’adesione all’Avviso pubblico (2004) e la decisione sfavorevole (2012).
Vale quindi la regola, di cui all’art. 30, comma 3, secondo periodo, c.p.a., a mente del quale il giudice “esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”, regola espressione del più generale principio consacrato dall’art. 1227, comma secondo, codice civile.
5. Il Collegio passa dunque a esaminare la domanda di risarcimento del danno da ritardo spiegata nei confronti di Comune e Regione, subordinata dalla parte al mancato accoglimento di quella risarcitoria ex art. 30 c.p.a.
Va sin d’ora chiarito che alla categoria del danno da ritardo possono essere ricondotte sia le ipotesi di adozione tardiva di un provvedimento (sfavorevole o favorevole), sia la mera inerzia, consistente nella mancata adozione del provvedimento.
Mentre nel caso del provvedimento tardivo ma favorevole, la risarcibilità del danno da ritardo sostanzialmente coincide con il risarcimento dell’interesse legittimo pretensivo, negli altri casi (danno cagionato dal ritardo nella emanazione di un provvedimento a contenuto sfavorevole per il privato; esistenza di inerzia nel provvedere senza previo accertamento della spettanza del bene finale della vita richiesto) è stata sempre discussa la possibilità risarcitoria.
Alla luce delle prospettazioni delle ricorrenti, che censurano esclusivamente l’eccessiva lunghezza del procedimento che ha condotto all’emissione della delibera impugnata e non riconducono a tale condotta un danno che sia diverso dal mero ritardo, il Collegio ritiene che la domanda di parte miri al risarcimento della mera inerzia, anche perché solo così detta domanda può essere considerata diversa da quella di condanna ex art. 30 c.p.a., basata sulla declaratoria di illegittimità del provvedimento.
5.1. In argomento, va ricordato che l’articolo 2-bis della l. 241/1990, invocato dalle ricorrenti a sostegno della domanda, e introdotto, nella sua versione originaria, dall’art. 7 della l. 18.06.2009, n. 69, ha fornito per la prima volta un fondamento normativo al c.d. danno da ritardo, che invece era strenuamente negato dalla più autorevole giurisprudenza amministrativa (si veda Adunanza Plenaria n. 7 del 2005), la quale ha ancorato la risarcibilità del danno solo all’accertamento della spettanza del bene della vita e non alla mera inerzia.
Successivamente, il codice del processo amministrativo, d.lgs. n.104 del 02.07.2010, ha ribadito all’art. 30, comma 4, in una disposizione finalizzata all’individuazione del dies a quo per presentare il ricorso finalizzato al risarcimento del danno da ritardo, la risarcibilità del danno che il ricorrente provi aver subito in esito all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Il legislatore è nuovamente intervenuto sul punto con il d.lgs. 21.06.2013 n. 69, conv. in legge 09.08.2013 n. 98, con il quale ha introdotto un comma 1-bis nel corpus dell’art. 2-bis della legge 241, statuendo il diritto per l’istante di ottenere un indennizzo in conseguenza del mero ritardo nella conclusione del procedimento: dunque, un ristoro patrimoniale conseguente alla valutazione del mero ritardo nell’adozione di un provvedimento, che qui funge da strumento riparatorio a favore del privato, nonché coercitivo e sanzionatorio nei confronti dell’Amministrazione.
5.2. Va rilevato dunque che
dal 2010 in poi molte sentenze hanno cercato di sovvertire l’impostazione dell’Adunanza Plenaria, soprattutto laddove fossero coinvolti interessi a carattere economico-imprenditoriale, affermando che il ritardo imputabile alla P.A. nella conclusione di un qualunque procedimento amministrativo, qualora incidente su interessi pretensivi agganciati a programmi di investimento di cittadini o imprese, è sempre un costo che va risarcito, dal momento che il fattore tempo costituisce una essenziale variabile nella predisposizione e nell’attuazione di piani finanziari relativi a qualsiasi intervento, condizionandone la relativa convenienza economica (in termini Cons. Giust. Ammin. Sicil., 04.11.2010 n. 1368; Cons. St., sez. V, 28.02.2011 n. 1271; id., sez. V, 21.03.2011, n. 1739, id. 24.03.2011 n. 1796; Cons. Giust. Ammin. Sicil., 24.10.2011 n. 684).
Si sostiene infatti che ogni incertezza sui tempi di realizzazione di un investimento si traduce nell’aumento del c.d. "rischio amministrativo" e, quindi, in maggiori costi, attesa l’immanente dimensione diacronica di ogni operazione di investimento e di finanziamento, e che i principi di cui all’art. 2-bis erano già viventi nell’ordinamento prima della novella del 2009; altresì, si è affermato che il danno da ritardo sussisterebbe anche se il procedimento autorizzatorio non si fosse ancora concluso e finanche se l’esito fosse stato in ipotesi negativo.
Secondo Consiglio di Stato sez. III 31.01.2014, n. 468,
l'art. 2-bis, l. 07.08.1990 n. 241 tutela in sé il bene della vita inerente alla certezza, quanto al fattore tempo, dei rapporti giuridici che vedono come parte la Pubblica amministrazione, stante la ricaduta che il ritardo a provvedere può avere sullo svolgimento di attività ed iniziative economiche condizionate alla valutazione positiva della stessa, ovvero alla rimozione di limiti di rilievo pubblico al loro espletamento (v. anche in termini Cons. St., sez. IV, 04.09.2013, n. 4452 e sez. V, 21.06.2013, n. 3405).
Si è altresì affermato che
l'art. 2-bis, l. n. 241 del 1990 protegge il bene «tempo» quale bene della vita suscettibile di incidere sulla «progettualità» del privato e sulla libera determinazione dell'assetto dei suoi interessi, naturalmente calibrato sui tempi certi del procedimento e potenzialmente pregiudicato dai ritardi dello stesso (TAR Abruzzo, 19.12.2013, 1064).
Il ritardo nella conclusione del procedimento e il mancato rispetto dei tempi certi del procedimento vengono pertanto a rappresentare, giuridicamente, un danno “ingiusto” e, sul piano economico, un costo “illegittimo" per quanto attiene le prospettive, le aspettative e le scelte dei privati, in quanto integranti motivo di forte condizionamento della loro vita, tale da incidere negativamente sulla convenienza economica delle scelte preventivate, sia se il bene preteso dal privato risulterà dovuto sia nel caso in cui lo stesso venga negato, posto che l'incertezza sull'esito del procedimento, protratta oltre i limiti previsti dalla legge per la sua conclusione, impedisce o comunque rende più complessa la predisposizione di programmi o scelte diverse ed alternative.
5.3.
Tuttavia, altra parte della giurisprudenza, ormai maggioritaria, continua ad affermare l’irrisarcibilità del danno da ritardo mero e la necessità, per poter riconoscere il risarcimento del danno da ritardo, dell’accertamento della spettanza del bene della vita richiesto, ovvero dell’adozione del provvedimento favorevole (Cons. St., sez. IV, 28.05.2013, 2899; id., 07.03.2013, n. 1406; TAR Campania Salerno sez. II, 18.11.2013, n. 2277; TAR Lazio, sez. III, 19.07.2013, 7386; TAR Campania Napoli, sez. II, 12.07.2013, n. 3641; TAR Liguria sez. I, 02.07.2013, 985).
Il bene della vita diventa, dunque, presupposto indispensabile per configurare una condanna della Amministrazione al risarcimento del relativo danno.
Altre pronunce, alcune delle quali molto recenti, hanno ribadito che l’art. 2-bis della l. n. 241 del 1990 non ha elevato a distinto bene della vita, suscettibile di un’autonoma protezione mediante il risarcimento del danno, l’interesse procedimentale al rispetto dei termini dell’azione amministrativa, scisso dal riferimento alla spettanza del bene sostanziale al cui conseguimento il procedimento è finalizzato (ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 12.11.2015, n. 5143; id., sez. III, 12.03.2015, n. 1287; id., sez. III, 23.04.2015, n. 2040; id., sez. V, 09.03.2015, n. 1182; id., sez. IV, 01.07.2014, n. 3295; id., sez. IV, 06.04.2016, n. 1371; id., sez. V, 11.07.2016, n. 3059; id., sez. V, 22.09.2016, n. 3920; id., sez. IV, 26.07.2016, n. 3376).
E questo nonostante l’introduzione, nel 2013, della previsione di un ristoro di natura indennitaria in conseguenza del mero ritardo, in quanto il meccanismo dell’indennità avrebbe struttura e funzione ben diverse da quello risarcitorio.
5.4. La questione è quindi collegata alla soluzione che si preferisca dare a quella ad essa preliminare, relativa all’individuazione della natura, aquiliana o contrattuale, della suddetta responsabilità, questione più volte esaminata in giurisprudenza, in ultimo dalla citata sentenza 3920/2016.
Infatti, solo dall’accoglimento della tesi della natura contrattuale della responsabilità della p.a. potrebbe conseguire il risarcimento del danno da mero ritardo nell’adozione del provvedimento, in esito alla verifica della violazione del termine di conclusione del procedimento da parte dell’Amministrazione alla stregua di una sorta di contatto procedimentale instauratosi con l’apertura del procedimento e determinante un legittimo affidamento del privato alla conclusione del procedimento nei termini di legge, la cui lesione fonderebbe un pregiudizio risarcibile autonomamente.
Tale tesi trae il suo principale fondamento dalle recenti modifiche normative sopra illustrate, che risulterebbero essere indici inequivoci della voluntas legis di riconoscere normativamente il risarcimento in tali ipotesi, e nell’avere il legislatore devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle cause in questione (l’art. 133, comma 1, lett. a), n. 1, c.p.a., stabilisce che è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la cognizione delle controversie in materia di risarcimento del danno derivante dall’inosservanza del termine di conclusione del procedimento).
Pertanto, in questa ipotesi, il ricorrente sarebbe onerato, in sede processuale, solo di fornire la prova dell’instaurazione del procedimento volto alla realizzazione di un suo interesse legittimo pretensivo o dinamico, e di allegare l’inadempimento della p.a., nella specie sussistente nella mancata conclusione dello stesso nei termini previsti dalla legge, secondo il modello di responsabilità derivante dall’applicazione dell’art. 1218 c.c. (vedi, sulla questione dell’onere della prova, la fondamentale sentenza Cass. Sez. Un. 30.10.2001, n. 13533).
5.4.1. Per contro, dall’accoglimento della tesi della natura extracontrattuale della responsabilità dell’amministrazione deriverebbe un riparto dell’onere della prova decisamente diverso e conforme a quanto ricollegabile al meccanismo dell’art. 2043 c.c., per cui la parte non dovrebbe fornire la prova del mero ritardo, bensì la prova del danno effettivamente subito a causa del ritardo, e quindi, da ultimo, nella prova della spettanza del bene della vita finale, costituito dal certo o altamente probabile esito favorevole del procedimento amministrativo.
Al di là degli argomenti usati a sostegno di tale tesi, le conseguenze applicative immediate consistono nella ripartizione dell’onus probandi al fine di ritenere dimostrata la sussistenza di un danno economicamente valutabile, quindi risarcibile: infatti, non basterà la prova della violazione del termine di conclusione del procedimento, il quale costituirà solo un indice oggettivo del danno, ma non potrà da solo fondare la pronuncia di condanna della p.a. al risarcimento.
Occorrerà, piuttosto, fornire la prova della responsabilità aquiliana della Pubblica Amministrazione, ai sensi dell’art. 2697 c.c., in tutti i suoi elementi costitutivi: sia quelli di carattere oggettivo (ammontare del danno, ingiustizia dello stesso, nesso causale) sia quelli soggettivi (dolo o colpa della p.a.).
5.5.
Il Collegio ritiene di aderire a tale ultimo orientamento, che non è risultato scalfito dalla riforma del 2013, che, sia pur introducendo una prima disposizione di tutela per il bene “tempo” del privato nei confronti dell’Amministrazione, opta tuttavia per una tutela di tipo indennitario, inducendo a ritenere la non illiceità del comportamento nella specie tenuto, con la conseguente esclusione di forme di responsabilità aquiliana ancorate all’elemento dell’ingiustizia del danno, allorché il giudizio di spettanza relativo al provvedimento finale, favorevole per il privato, abbia esito negativo.
Ne discende, pertanto, il rigetto della domanda risarcitoria per danno da ritardo, che la parte ricorrente ha prospettato esclusivamente quale danno da mancato rispetto del termine del procedimento, sicché, pure nella oggettiva constatazione che otto anni per ottenere un provvedimento (pure sfavorevole) sono decisamente troppi, l’adesione al modello di responsabilità aquiliana sopra richiamato non può che comportare una decisione sfavorevole per le parti private.

ATTI AMMINISTRATIVI: Modalità di esercizio della potestà di autotutela.
Il Consiglio di Stato puntualizza, pure alla luce dei recenti approdi normativi ex legge 07.08.2015 n. 124, che ha rivisto l’art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990, le modalità di esercizio della discrezionale potestà di autotutela, con esito di annullamento, circa gli obblighi di motivazione a fronte sia dell’affidamento ingenerato nel destinatario sul consolidamento dell’efficacia dell’atto rimovendo, sia dell’incidenza del tempo trascorso tra quest’ultimo e la sua rimozione nel determinare tal affidamento, sia della qualità degli interessi coinvolti nell’autotutela.
In particolare precisa che:
   - ove si abbia un affidamento dei destinatari sulla stabilità dell’assetto degli interessi posto dall’atto rimovendo, l’atto d’autotutela deve contenere, soprattutto se adottato a distanza di un lungo tempo dal primo, una motivazione particolarmente convincente circa l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto, in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell'interesse pubblico alla eliminazione d'ufficio del titolo illegittimo;
   - l'interesse pubblico specifico alla rimozione dell'atto illegittimo va integrato da ragioni differenti dalla mera esigenza di ripristino della legalità e va motivato con maggior rigore a seconda non solo del tempo trascorso, ma pure dell’effetto, istantaneo o prolungato, di ampliamento della sfera giuridica soggettiva del destinatario;
   - esiste un unico modello normativo (tranne talune eccezioni di settore), latamente discrezionale e salvo (parimenti discrezionale) convalida, del procedimento di secondo grado con esito di annullamento per porre rimedio ai vizi di cui all’art. 21-octies, comma 1, della legge n. 241/1990;
   - tale discrezionalità non si confonde, anzi prescinde dal tipo di potere esercitato col provvedimento viziato;
   - l’esercizio della discrezionalità stessa va motivata in modo più o meno stringente e non tautologico (c.d. “in re ipsa”), poiché non pare sussistere un interesse pubblico in senso assoluto sempre e comunque tanto forte, da elidere ogni diversa soluzione e da coincidere, in pratica, nel mero ripristino della legalità violata;
   - tale motivazione sarà, quindi, più o meno doviziosa ed articolata, ma sempre su un interesse pubblico concreto, cioè a seconda sia del tipo di assetto di interessi formatosi col provvedimento viziato, sia del tempo trascorso tra esso e quello in cui la P.A. vuol intervenire per porvi rimedio, sia dell’efficacia istantanea, o no, dell’ampliamento della sfera giuridica del destinatario;
   - l’affidamento di quest’ultimo alla serietà ed alla stabilità di tal assetto deve essere a sua volta serio e incolpevole, di talché l’obbligo di motivazione diminuisce sensibilmente a fronte d’un illecito del destinatario prima dell’esercizio del potere originario o se il vizio che ne colpisce la manifestazione sia stato indotto, prima o nella fase d’esecuzione del provvedimento viziato, dal destinatario e viceversa, ove l’errore sia provocato dall’agire incauto della P.A.;
   - tal affidamento è presunto (oggi juris et de jure) dal lungo tempo trascorso e viceversa, onde l’intervento più rapido possibile della P.A. nell’autocorrezione dei propri errori ne esprime la capacità di buon governo dei principi costituzionali d’imparzialità e di efficacia e, se non ne elide del tutto l’obbligo di motivazione, le consente di far legittimamente emergere la preponderanza di un interesse pubblico ancora attuale alla regolazione legittima e corretta della fattispecie, quand’anche vi sia un diverso interesse del destinatario
(commento tratto da https://camerainsubria.blogspot.it - Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 20.07.2017 n. 3586 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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La Sezione (cfr. Cons. St., VI, 27.01.2017 n. 341; ma cfr. pure id., 10.12.2015 n. 5625, con riguardo al DL 133/2014), da ultimo e pur occupandosi d’un caso di specie, ha puntualizzato, pure alla luce dei recenti approdi normativi ex l. 07.08.2015 n. 124 (c.d. “legge Madia”) che ha rivisto l’intero art. 21-nonies cit., le modalità di esercizio della discrezionale potestà di autotutela, con esito di annullamento, circa gli obblighi di motivazione a fronte sia dell’affidamento ingenerato nel destinatario sul consolidamento dell’efficacia dell’atto rimovendo, sia dell’incidenza del tempo trascorso tra quest’ultimo e la sua rimozione nel determinare tal affidamento, sia della qualità degli interessi coinvolti nell’autotutela.
La Sezione ha ritenuto che, ove si abbia un affidamento dei destinatari sulla stabilità dell’assetto degli interessi posto dall’atto rimovendo, l’atto d’autotutela deve contenere, soprattutto se adottato a distanza di un lungo tempo dal primo, «… una motivazione particolarmente convincente... circa l'apprezzamento degli interessi dei destinatari dell'atto..., in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell'interesse pubblico alla eliminazione d'ufficio del titolo… illegittimo…».
Pertanto, l'interesse pubblico specifico alla rimozione dell'atto illegittimo va integrato da ragioni differenti dalla mera esigenza di ripristino della legalità (cfr. ex multis Cons. St., VI, 29.01.2016 n. 351) e va motivato con maggior rigore a seconda non solo del tempo trascorso, ma pure dell’effetto, istantaneo o prolungato, di ampliamento della sfera giuridica soggettiva del destinatario.
In tal caso, assume «… nel giudizio comparativo degli interessi confliggenti, maggiore rilevanza quello dei privati destinatari dell'atto ampliativo e minore pregnanza quello pubblico all'elisione di effetti già prodotti in via definitiva e non suscettibili di aggravamento (Cons. St., sez. IV, 29.02.2016 n. 816) …».
Afferma allora il Collegio che:
   a) – esiste un unico modello normativo (tranne talune eccezioni di settore), latamente discrezionale e salvo (parimenti discrezionale) convalida, del procedimento di secondo grado con esito di annullamento per porre rimedio ai vizi di cui all’art. 21-octies, c. 1, della l. 241/1990;
   b) – tale discrezionalità non si confonde, anzi prescinde dal tipo di potere esercitato col provvedimento viziato;
   c) – l’esercizio della discrezionalità stessa va motivata in modo più o meno stringente e non tautologico (c.d. “in re ipsa”), poiché non pare sussistere un interesse pubblico in senso assoluto sempre e comunque tanto forte, da elidere ogni diversa soluzione e da coincidere, in pratica, nel mero ripristino della legalità violata;
   d) – tale motivazione sarà, quindi, più o meno doviziosa ed articolata, ma sempre su un interesse pubblico concreto, cioè a seconda sia del tipo di assetto di interessi formatosi col provvedimento viziato, sia del tempo trascorso tra esso e quello in cui la P.A. vuol intervenire per porvi rimedio, sia dell’efficacia istantanea, o no, dell’ampliamento della sfera giuridica del destinatario;
   e) – l’affidamento di quest’ultimo alla serietà ed alla stabilità di tal assetto dev’esser a sua volta serio ed incolpevole (cfr. Cons. St., VI, 05.05.2016 n. 1774), di talché l’obbligo di motivazione diminuisce sensibilmente a fronte d’un illecito del destinatario prima dell’esercizio del potere originario o se il vizio che ne colpisce la manifestazione sia stato indotto, prima o nella fase d’esecuzione del provvedimento viziato, dal destinatario (cfr. Cons. St., IV, 31.08.2016 n. 3735: id., 14.12.2016 n. 5262) e viceversa, ove l’errore sia provocato dall’agire incauto della P.A.;
   f) – tal affidamento è presunto (oggi juris et de jure) dal lungo tempo trascorso e viceversa, onde l’intervento più rapido possibile della P.A. nell’autocorrezione dei propri errori ne esprime la capacità di buon governo dei principi costituzionali d’imparzialità e di efficacia e, se non ne elide del tutto l’obbligo di motivazione, le consente di far legittimamente emergere la preponderanza di un interesse pubblico ancora attuale alla regolazione legittima e corretta della fattispecie, quand’anche vi sia un diverso interesse del destinatario.

EDILIZIA PRIVATAL’art. 9, c. 1, l. 122/1989 (c.d. legge Tognoli), recante le “Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate, nonché modificazioni di alcune norme del testo unico sulla disciplina della circolazione stradale”, prevede che: “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell’ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi, ove i piani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente”.
La giurisprudenza afferma che i parcheggi disciplinati dalla normativa suddetta possono essere realizzati solamente all’interno delle aree urbane, ribadendo che allorquando trattasi, come nella specie, di intervento in zona agricola non è applicabile la normativa della cosiddetta “legge Tognoli”, che consente la realizzazione di autorimesse nel sottosuolo anche in deroga gli strumenti urbanistici, essendo questa consentita solo nelle zone residenziali, e ciò a prescindere dall’ulteriore considerazione postulante l’esclusione della deroga in presenza di vincoli ambientali.
Deve ritenersi, inoltre, che la disposizione di cui all’art. 9 L. 122/1989 vada considerata nell’ambito della disciplina complessiva dettata dalla L. 122/1989, in cui essa si inserisce.
Tale legge appare inequivocabilmente deputata a dettare regole ed a disciplinare interventi relativi ai centri urbani, ed in particolare ai centri urbani afflitti da gravi problemi di traffico. La fonte legislativa, infatti, non si occupa soltanto dei parcheggi pertinenziali agli edifici, ma anche e soprattutto dei “programmi urbani dei parcheggi” e, in generale, delle “realizzazioni volte a favorire il decongestionamento dei centri urbani, mediante la creazione di parcheggi finalizzati all’interscambio con i sistemi di trasporto collettivo”.
Procedendo ad un’interpretazione logica e sistematica dell’art. 9, quindi, deve ritenersi che la disposizione in esame sia applicabile soltanto alle aree urbane e non a quelle agricole ed extraurbane in genere.
In tal senso, peraltro, si è espressa la giurisprudenza di questo Consiglio: “La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall’art. 9 l. n. 122 del 1989, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita. Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia”.
In conclusione, deve affermarsi che la facoltà di costruire autorimesse pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici è prevista dalla Legge Tognoli soltanto relativamente alle aree urbane. Al di fuori di tali aree, l’edificazione di parcheggi pertinenziali sarà comunque possibile, ma non potrà attuarsi nelle forme e nei modi di cui all’art. 9 L. 122/1989, rimanendo invece sottoposta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie.
---------------

... per la riforma della sentenza 09.07.2015 n. 1590 del TAR LOMBARDIA-MILANO: SEZ. II, resa tra le parti, concernente diniego permesso di costruire.
...
L’appello è infondato.
Quanto al primo motivo, come correttamente sottolineato dal Comune di Livigno, richiamando quanto affermato dalla sentenza di primo grado, nella specie deve escludersi l’operatività della deroga in ordine alle aree agricole.
E, invero, nella specie risulta che la proprietà del sig. Be.Ga. non soltanto si trova ubicata in area “E2 - Agricola a prateria - parco con insiemi edilizi a tipologia differenziata" (cui l’art. 20 delle NTA del P.D.R. del P.G.T. riconnette una particolare rilevanza dal punto di vista ambientale-paesistico), ma la stessa è espressamente annoverata dal PGT tra le “Aree non urbane”, in quanto poste all’esterno del perimetro dell’ambito urbano consolidato di Livigno.
Secondo il Comune appellato la realizzazione di parcheggi “in particolare nelle zone agricole” resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie e non può dunque giovarsi della normativa derogatoria richiamata dagli appellanti e da ciò deriva l’infondatezza delle argomentazioni di parte avversa, posto che l’intervento edilizio derogatorio della normativa generale dovrebbe essere realizzato in zone extra-urbane del Comune di Livigno in relazione alle quali risulta, comunque ed in ogni caso, inapplicabile la specifica normativa prevista dalla Legge 122/1989 e 66 della legge regionale 12/2005.
Il Comune di Livigno deduce che, sebbene la normativa nazionale (art. 9 L. n. 122/1989) e quella regionale (art. 66 L.R. 12/2005) consentano la realizzazione di autorimesse pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, ciò non sarebbe possibile quanto alle aree agricole.
L’argomentazione coglie nel segno.
L’art. 9, c. 1, l. 122/1989 (c.d. legge Tognoli), recante le “Disposizioni in materia di parcheggi, programma triennale per le aree urbane maggiormente popolate, nonché modificazioni di alcune norme del testo unico sulla disciplina della circolazione stradale”, prevede che: “I proprietari di immobili possono realizzare nel sottosuolo degli stessi ovvero nei locali siti al piano terreno dei fabbricati parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti. Tali parcheggi possono essere realizzati, ad uso esclusivo dei residenti, anche nel sottosuolo di aree pertinenziali esterne al fabbricato, purché non in contrasto con i piani urbani del traffico, tenuto conto dell’uso della superficie sovrastante e compatibilmente con la tutela dei corpi idrici. Restano in ogni caso fermi i vincoli previsti dalla legislazione in materia paesaggistica ed ambientale ed i poteri attribuiti dalla medesima legislazione alle regioni e ai Ministeri dell’ambiente e per i beni culturali ed ambientali da esercitare motivatamente nel termine di 90 giorni. I parcheggi stessi, ove i piani del traffico non siano stati redatti, potranno comunque essere realizzati nel rispetto delle indicazioni di cui al periodo precedente”.
La giurisprudenza afferma che i parcheggi disciplinati dalla normativa suddetta possono essere realizzati solamente all’interno delle aree urbane, ribadendo che allorquando trattasi, come nella specie, di intervento in zona agricola non è applicabile la normativa della cosiddetta “legge Tognoli”, che consente la realizzazione di autorimesse nel sottosuolo anche in deroga gli strumenti urbanistici, essendo questa consentita solo nelle zone residenziali, e ciò a prescindere dall’ulteriore considerazione postulante l’esclusione della deroga in presenza di vincoli ambientali (cfr. Cons. St., sez. V, 11.11.2004, n. 7324).
Deve ritenersi, inoltre, che la disposizione di cui all’art. 9 L. 122/1989 vada considerata nell’ambito della disciplina complessiva dettata dalla L. 122/1989, in cui essa si inserisce.
Tale legge appare inequivocabilmente deputata a dettare regole ed a disciplinare interventi relativi ai centri urbani, ed in particolare ai centri urbani afflitti da gravi problemi di traffico. La fonte legislativa, infatti, non si occupa soltanto dei parcheggi pertinenziali agli edifici, ma anche e soprattutto dei “programmi urbani dei parcheggi” e, in generale, delle “realizzazioni volte a favorire il decongestionamento dei centri urbani, mediante la creazione di parcheggi finalizzati all’interscambio con i sistemi di trasporto collettivo”.
Procedendo ad un’interpretazione logica e sistematica dell’art. 9, quindi, deve ritenersi che la disposizione in esame sia applicabile soltanto alle aree urbane e non a quelle agricole ed extraurbane in genere.
In tal senso, peraltro, si è espressa la giurisprudenza di questo Consiglio: “La possibilità di realizzare parcheggi da destinare a pertinenze delle singole unità immobiliari anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti, consentita dall’art. 9 l. n. 122 del 1989, costituisce disposizione di carattere eccezionale da interpretarsi nel suo significato strettamente letterale ed in considerazione delle finalità della legge nel cui contesto risulta inserita. Pertanto tale articolo è applicabile alla costruzione di spazi parcheggio nelle sole aree urbane, mentre la realizzazione di parcheggi in aree extraurbane resta soggetta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie necessitando della normale concessione edilizia” (cfr. Cons. St., sez. V, 11.11.2004, n. 7325).
In conclusione, deve affermarsi che la facoltà di costruire autorimesse pertinenziali anche in deroga agli strumenti urbanistici è prevista dalla Legge Tognoli soltanto relativamente alle aree urbane. Al di fuori di tali aree, l’edificazione di parcheggi pertinenziali sarà comunque possibile, ma non potrà attuarsi nelle forme e nei modi di cui all’art. 9 L. 122/1989, rimanendo invece sottoposta alle ordinarie prescrizioni urbanistiche ed edilizie (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 19.07.2017 n. 3566 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATASulla illegittimità dell’ordinanza impugnata giacché adottata da un soggetto, ovvero l’Assessore comunale, che non avrebbe potuto essere investito dell’incarico di Responsabile del Servizio Tecnico comunale, in quanto non sarebbe stato adottato il regolamento comunale previsto dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, oltre che in ragione dell’assenza in capo al nominato dei requisiti professionali necessari per accedere a quel posto.
L’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, lett. a) e b), della legge n. 448 del 2001, stabilisce che “gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
Alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale, cui il Collegio intende aderire, la disposizione legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi.
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Non può essere accolta nemmeno la parte della doglianza che deduce l’illegittimità della nomina per mancata successiva documentazione del contenimento della spesa, in sede di approvazione del bilancio, considerato che un eventuale inadempimento di tale obbligo, avente natura prettamente contabile, potrà avere conseguenze su altri versanti dell’attività amministrativa (responsabilità amministrativo-contabile), ma certo non potrebbe ridondare sulla legittimità delle disposizioni già assunte.
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Infine non appaiono fondati nemmeno i rilievi attraverso i quali è stato eccepito che tra i dipendenti comunali vi sarebbe un soggetto idoneo ad assumere le funzioni di Responsabile del Servizio (arch. Pa.) e che l’Assessore Ma. non sarebbe in possesso del titolo di studio previsto dalla normativa regolante l’attribuzione di incarichi dirigenziali (artt. 109 del T.U.E.L. e 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001).
Quanto alla presenza di un dipendente idoneo a ricoprire la posizione va richiamato l’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del 2001 che ha soppresso l’inciso “che riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti” originariamente contenuto nell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, con la conseguenza che risulta irrilevante la presenza all’interno dell’Amministrazione di figure professionali idonee, non essendo più richiesta la sussistenza di tale presupposto.
Con riguardo al mancato possesso in capo all’Assessore comunale del titolo di studio, va infine evidenziato che la posizione di Responsabile del Servizio nel Comune di San Siro non è attribuita ad una figura avente qualifica dirigenziale, ma ad un dipendente con qualifica di istruttore direttivo (D2 nella declaratoria delle categorie dei dipendenti degli Enti locali), con conseguente inapplicabilità delle disposizioni riguardanti la qualifica dirigenziale.
Peraltro la natura derogatoria del citato art. 53, legata anche alla peculiare posizione degli Enti locali di piccole dimensioni, consente di attribuire gli incarichi anche a prescindere dal titolo di studio dei soggetti nominati, come dimostrato anche dalla irrilevanza dell’assenza di figure idonee all’interno dell’Amministrazione, prevista invece nella versione originaria della norma e poi soppressa dall’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del 2001.

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1. Il ricorso non è fondato.
2. Con le prime due censure di ricorso si assume l’illegittimità dell’ordinanza impugnata giacché adottata da un soggetto, ovvero l’Assessore comunale, che non avrebbe potuto essere investito dell’incarico di Responsabile del Servizio Tecnico comunale, in quanto non sarebbe stato adottato il regolamento comunale previsto dall’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, oltre che in ragione dell’assenza in capo al nominato dei requisiti professionali necessari per accedere a quel posto.
2.1. Le doglianze sono infondate, secondo quanto di seguito specificato.
In via preliminare va segnalato che si può prescindere dall’esame dell’eccezione formulata dalla difesa comunale in ordine all’applicabilità dell’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241 del 1990 ai casi di incompetenza relativa, vista l’infondatezza nel merito delle censure.
2.2. L’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, come modificato dall’art. 29, comma 4, lett. a) e b), della legge n. 448 del 2001, stabilisce che “gli enti locali con popolazione inferiore a cinquemila abitanti fatta salva l’ipotesi di cui all’articolo 97, comma 4, lettera d), del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, approvato con decreto legislativo 18.08.2000, n. 267, anche al fine di operare un contenimento della spesa, possono adottare disposizioni regolamentari organizzative, se necessario anche in deroga a quanto disposto all’articolo 3, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e all’articolo 107 del predetto testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, attribuendo ai componenti dell’organo esecutivo la responsabilità degli uffici e dei servizi ed il potere di adottare atti anche di natura tecnica gestionale. Il contenimento della spesa deve essere documentato ogni anno, con apposita deliberazione, in sede di approvazione del bilancio”.
La citata disposizione prevede innanzitutto che, al fine di attribuire la responsabilità di un Ufficio o un Servizio comunale ad un componente della Giunta, debba essere adottato un regolamento di organizzazione, quale presupposto indispensabile per derogare alla normativa primaria. Le parti ricorrenti eccepiscono, nel caso de quo, la mancanza di tale regolamento, che non potrebbe essere sostituito da una semplice deliberazione di Giunta attraverso la quale si conferisca direttamente l’incarico (deliberazione n. 177/2010 del 23.12.2010: all. 6 del Comune).
La tesi della ricorrente non appare condivisibile alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale, cui il Collegio intende aderire, secondo il quale la disposizione legislativa non necessariamente indica l’approvazione di un regolamento, essendo sufficiente che il relativo provvedimento sia deliberato dalla Giunta comunale, quale organo competente in materia di adozione dei regolamenti sull’ordinamento degli uffici e dei servizi (cfr. Consiglio di Stato, IV, 23.02.2009, n. 1070; V, 06.03.2007, n. 1052; TAR Lombardia, Milano, II, 18.05.2011, n. 1278; TAR Lazio, Roma, II-ter, 22.03.2011, n. 2534).
2.3. Non può essere accolta nemmeno la parte della doglianza che deduce l’illegittimità della nomina per mancata successiva documentazione del contenimento della spesa, in sede di approvazione del bilancio, considerato che un eventuale inadempimento di tale obbligo, avente natura prettamente contabile, potrà avere conseguenze su altri versanti dell’attività amministrativa (responsabilità amministrativo-contabile), ma certo non potrebbe ridondare sulla legittimità delle disposizioni già assunte (cfr. Consiglio di Stato, IV, 14.10.2011, n. 5536).
2.4. Infine non appaiono fondati nemmeno i rilievi attraverso i quali è stato eccepito che tra i dipendenti comunali vi sarebbe un soggetto idoneo ad assumere le funzioni di Responsabile del Servizio (arch. Pa.) e che l’Assessore Ma. non sarebbe in possesso del titolo di studio previsto dalla normativa regolante l’attribuzione di incarichi dirigenziali (artt. 109 del T.U.E.L. e 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001).
Quanto alla presenza di un dipendente idoneo a ricoprire la posizione va richiamato l’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del 2001 che ha soppresso l’inciso “che riscontrino e dimostrino la mancanza non rimediabile di figure professionali idonee nell’ambito dei dipendenti” originariamente contenuto nell’art. 53, comma 23, della legge n. 388 del 2000, con la conseguenza che risulta irrilevante la presenza all’interno dell’Amministrazione di figure professionali idonee, non essendo più richiesta la sussistenza di tale presupposto.
Con riguardo al mancato possesso in capo all’Assessore comunale del titolo di studio, va infine evidenziato che la posizione di Responsabile del Servizio nel Comune di San Siro non è attribuita ad una figura avente qualifica dirigenziale, ma ad un dipendente con qualifica di istruttore direttivo (D2 nella declaratoria delle categorie dei dipendenti degli Enti locali), con conseguente inapplicabilità delle disposizioni riguardanti la qualifica dirigenziale.
Peraltro la natura derogatoria del citato art. 53, legata anche alla peculiare posizione degli Enti locali di piccole dimensioni, consente di attribuire gli incarichi anche a prescindere dal titolo di studio dei soggetti nominati, come dimostrato anche dalla irrilevanza dell’assenza di figure idonee all’interno dell’Amministrazione, prevista invece nella versione originaria della norma e poi soppressa dall’art. 29, comma 4, lett. b), della legge n. 448 del 2001.
2.5. Pertanto, alla stregua delle suesposte considerazioni, le prime due censure di ricorso devono essere respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.07.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La struttura realizzata dai ricorrenti è costituita da fili di acciaio teso e travi di ferro ancorati stabilmente al suolo attraverso bulloni, che occupa uno spazio di oltre 30 mq, è alta 2,34 m ed è destinata al parcheggio delle autovetture. Oltre a soddisfare esigenze di tipo non precario, la struttura non risulta facilmente amovibile e impatta in modo significativo sull’ambiente circostante.
Come si può ricavare dalla descrizione delle opere realizzate –percepibile nella sua effettiva consistenza con molta maggiore evidenza attraverso l’esame delle numerose fotografie prodotte in giudizio dalle parti– si tratta di un intervento che da un punto di vista dimensionale e costruttivo rappresenta una nuova edificazione e quindi per essere realizzato richiede il rilascio di un permesso di costruire (diversamente avviene nel caso in cui ci si trovi al cospetto di una struttura costruita con materiale leggero e che sia facilmente amovibile); di conseguenza, in assenza del prescritto titolo autorizzativo, le opere realizzate sono da considerarsi abusive e quindi, legittimamente, il Comune ne ha ordinato la demolizione.
In ogni caso anche laddove l’intervento edilizio fosse stato ritenuto assoggettabile a d.i.a., lo stesso avrebbe dovuto essere preceduto dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto l’area è stata sottoposta a vincolo paesaggistico.
Difatti, a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento in zona vincolata (d.i.a. o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo, la cui conseguenza non può che essere la sanzione ripristinatoria, finalizzata a porre rimedio alla visibile alterazione del paesaggio (art. 27, comma 2, ultimo periodo, del D.P.R. n. 380 del 2001).

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3. Con la terza e la quarta censura si assume l’illegittimità dell’ordinanza impugnata, in quanto la struttura realizzata dai ricorrenti sarebbe un semplice arredo esterno che non avrebbe alcuna rilevanza da un punto di vista edilizio, rientrando tra le attività di edilizia libera, o al più tra gli interventi sottoposti a d.i.a. che potrebbero, qualora realizzati abusivamente, dar luogo soltanto all’irrogazione di una sanzione pecuniaria.
3.1. Le doglianze sono infondate.
La struttura realizzata dai ricorrenti è costituita da fili di acciaio teso e travi di ferro ancorati stabilmente al suolo attraverso bulloni, che occupa uno spazio di oltre 30 mq, è alta 2,34 m ed è destinata al parcheggio delle autovetture. Oltre a soddisfare esigenze di tipo non precario, la struttura non risulta facilmente amovibile e impatta in modo significativo sull’ambiente circostante (sulla non precarietà di un’opera, Consiglio di Stato, VI, 27.04.2016, n. 1619).
Come si può ricavare dalla descrizione delle opere realizzate –percepibile nella sua effettiva consistenza con molta maggiore evidenza attraverso l’esame delle numerose fotografie prodotte in giudizio dalle parti– si tratta di un intervento che da un punto di vista dimensionale e costruttivo rappresenta una nuova edificazione e quindi per essere realizzato richiede il rilascio di un permesso di costruire (diversamente avviene nel caso in cui ci si trovi al cospetto di una struttura costruita con materiale leggero e che sia facilmente amovibile, Consiglio di Stato, VI, 25.01.2017, n. 306; IV, 29.09.2011, n. 5409); di conseguenza, in assenza del prescritto titolo autorizzativo, le opere realizzate sono da considerarsi abusive e quindi, legittimamente, il Comune ne ha ordinato la demolizione.
3.2. In ogni caso anche laddove l’intervento edilizio fosse stato ritenuto assoggettabile a d.i.a., lo stesso avrebbe dovuto essere preceduto dal rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, in quanto l’area è stata sottoposta a vincolo con Decreto ministeriale n. 438/1973 (all. 1 del Comune); tale vincolo è richiamato espressamente sia nel provvedimento impugnato che nell’atto del 30.03.2012 allo stesso presupposto (all. 3 del Comune). Difatti, a prescindere dal titolo edilizio ritenuto più idoneo e corretto per realizzare l’intervento in zona vincolata (d.i.a. o permesso di costruire), ciò che rileva è il fatto che lo stesso è stato posto in essere in assoluta carenza di titolo abilitativo (Consiglio di Stato, VI, 09.01.2013, n. 62), la cui conseguenza non può che essere la sanzione ripristinatoria, finalizzata a porre rimedio alla visibile alterazione del paesaggio (art. 27, comma 2, ultimo periodo, del D.P.R. n. 380 del 2001; cfr., in giurisprudenza, TAR Campania, Napoli, VI, 14.03.2017, n. 1472).
3.3. Pertanto, anche le suesposte censure vanno respinte (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.07.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione.
Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire.
Quindi, l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene.

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4. Con l’ultima doglianza si assume la mancata previa individuazione dell’area che eventualmente verrebbe acquisita nel caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
4.1. La doglianza è infondata.
Come sostenuto da un consolidato orientamento giurisprudenziale, condiviso dal Collegio, “l’omessa o imprecisa indicazione di un’area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell’ordinanza di demolizione. Mentre con il contenuto dispositivo di quest’ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l’indicazione dell’area costituisce presupposto accertativo ai fini dell’acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria. Persiste infatti la netta distinzione tra ordinanza di demolizione e atto di acquisizione, preceduto, quest’ultimo, dall’accertamento dell’inottemperanza all’ingiunzione a demolire. Quindi, l’individuazione dell’area da acquisirsi non deve essere necessariamente contenuta nel provvedimento di ingiunzione di demolizione, a pena di illegittimità dello stesso, ben potendo essere riportata nel momento in cui si procede all’acquisizione del bene” (Consiglio di Stato, VI, 05.01.2015, n. 13; altresì, TAR Lombardia, Milano, I, 27.03.2017, n. 719).
4.2. Ciò determina il rigetto anche della predetta censura.
5. In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.07.2017 n. 1644 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIAL’art. 192 del D.Lgs. 152/2006 è interpretato dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che il proprietario è responsabile dell’abbandono soltanto in caso di dolo o colpa, con esclusione di ogni ipotesi di responsabilità oggettiva, vale a dire senza colpevolezza e quindi legata alla mera qualità di proprietario.
Invero, è stato statuito (per altra fattispecie) che è illegittimo un ordine, ex art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, rivolto ai proprietari di procedere alla rimozione e smaltimento dei rifiuti presenti sul suolo, adottato in assenza di istruttoria in ordine alla riconducibilità degli sversamenti a comportamenti anche solo colposi dei medesimi proprietari.

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1. Il ricorso è fondato, per le ragioni che seguono.
Con l’ordinanza impugnata, che richiama nelle premesse l’art. 192 del D.Lgs. 152/2006 (c.d. Codice dell’ambiente), il Comune di Morimondo ingiungeva alla Fondazione ricorrente, quale proprietaria dell’area sita in Frazione Fallavecchia, la rimozione dei rifiuti –amianto e altre sostanze tossiche- presenti sull’area (cfr. per il provvedimento impugnato, il doc. 1 della ricorrente).
Tuttavia, risulta provato per tabulas che il fondo di cui è causa era condotto in locazione e poi occupato senza titolo dal sig. Angelo Gorini, esercente il mestiere di fabbro, fino all’anno 2012, allorché lo stesso sig. Go. era sfrattato per intervenuta scadenza del contratto di locazione (cfr. il doc. 2 della ricorrente, copia del verbale di rilascio del fondo).
L’occupante si era comunque reso responsabile di attività illecite di abbandono e di combustione di rifiuti, che avevano visto l’intervento repressivo della competente azienda sanitaria territoriale, vale a dire l’Azienda USSL n. 35 (cfr. il doc. 3 della ricorrente con l’annesso verbale di accertamento ed anche il successivo doc. 4, cioè la lettera del sig. Go. che dichiarava di avere provveduto allo smaltimento).
Lo stesso Comune di Morimondo aveva già notificato nel luglio 2011 un’ordinanza sindacale di smaltimento e di rimozione dei rifiuti sia alla Fondazione sia al sig. Go. (cfr. il doc. 5 della ricorrente), a fronte della quale l’esponente aveva invitato quest’ultimo ad ottemperare al provvedimento comunale (cfr. il doc. 6 della ricorrente).
La responsabilità della presenza dei rifiuti sull’area in questione deve quindi ricondursi al solo sig. Go. (cfr. anche il doc. 7 della ricorrente), fermo restando che dall’ordinanza impugnata non si desume lo svolgimento di alcuna attività istruttoria per l’accertamento di tale responsabilità, giacché la Fondazione è indicata semplicemente quale proprietaria del fondo ed è esclusivamente per tale titolo che l’amministrazione comunale ha ingiunto la rimozione dei rifiuti.
Tuttavia, l’art. 192 del D.Lgs. 152/2006 è interpretato dalla giurisprudenza amministrativa nel senso che il proprietario è responsabile dell’abbandono soltanto in caso di dolo o colpa, con esclusione di ogni ipotesi di responsabilità oggettiva, vale a dire senza colpevolezza e quindi legata alla mera qualità di proprietario (cfr., fra le più recenti, Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza del 04.05.2017, n. 2027, per la quale è illegittimo un ordine, ex art. 192, comma 3, del D.Lgs. n. 152 del 2006, rivolto ai proprietari di procedere alla rimozione e smaltimento dei rifiuti presenti sul suolo, adottato in assenza di istruttoria in ordine alla riconducibilità degli sversamenti a comportamenti anche solo colposi dei medesimi proprietari).
Nel caso di specie, risulta provata la responsabilità in capo al sig. Go. o quanto meno l’assenza di dolo ed anche di colpa in capo alla Fondazione, che si è attivata nelle forme di legge per ottenere la disponibilità del fondo dopo la scadenza del contratto di locazione e che ha intimato all’ex conduttore, divenuto occupante senza titolo, l’ottemperanza ai provvedimenti emessi dal Comune.
Risultano quindi fondate le censure di violazione di legge (art. 192 citato), di eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento dei fatti e carenza dei presupposti, oltre che la violazione di legge per inosservanza dell’art. 7 della legge 241/1990, giacché la trasmissione dell’avviso di avvio del procedimento alla Fondazione, avrebbe consentito a quest’ultima di rappresentare al Comune i fatti della vicenda, volti ad escludere la responsabilità dell’esponente (del resto, il terzo comma dell’art. 192 sopra citato impone ai soggetti preposti ai controlli di effettuare accertamenti “in contraddittorio con i soggetti interessati”, senza contare che il provvedimento gravato non espone neppure le eventuali ragioni di urgenza che avrebbero consentito l’omissione dell’avviso ex art. 7 citato).
Deve quindi essere integralmente annullata l’ordinanza sindacale impugnata, ma non la relazione ispettiva Arpa, costituente atto meramente endoprocedimentale ed istruttorio, che è stata del resto impugnata in via di mero subordine (“ove occorrer possa”) (TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, sentenza 18.07.2017 n. 1639 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Autotutela: termini per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio. Il termine dei 18 mesi per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio previsto dall’attuale versione dell’art. 21-nonies, L. n. 241/1990 non può applicarsi in via retroattiva.
Quanto alla pregnanza dell’onere motivazionale, è stato più volte precisato che la rimozione d’ufficio di un atto favorevole esige una articolata esplicitazione delle ragioni, di interesse generale che impongono l’eliminazione dell’atto invalido, attraverso la chiara esemplificazione degli effetti concreti che si assumono contrastanti con i valori tutelati dall’ordine legale infranto, per come atteggiantesi nello specifico contesto empirico e non per come astrattamente considerati dalla disciplina normativa.
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Ritiene il Collegio di dare continuità all’impostazione ermeneutica– inaugurata dal Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 19.01.2017, n. 250− secondo cui il termine dei diciotto mesi non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa.
Si arriverebbe infatti all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso.
Ne consegue che, rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione.
È fatta salva, comunque, l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990. Quanto al rispetto del parametro della ragionevolezza del termine, deve aggiungersi che −per quanto i diciotto mesi non possano considerarsi (per i motivi anzidetti) ancora decorsi− è anche vero che la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione.
La decifrazione della nozione indeterminata di termine ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta interpretazione da parte dell’amministrazione, deve essere, quindi, compiuta con particolare rigore quando il potere di autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità giuridiche od economiche.

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L’identificazione dell’interesse pubblico all’eliminazione dell'atto viziato nelle medesime esigenze di tutela implicate dalla norma violata con lo stesso, si risolve in ogni caso nella (inammissibile) coincidenza del presupposto vincolante consistente nell'invalidità del provvedimento originario con l’ulteriore e diversa condizione (secondo l'assetto regolativo di riferimento) della sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione d'ufficio.
Sennonché, tale esegesi dev’essere rifiutata nella misura in cui si risolve nella pratica disapplicazione della parte del precetto che esige la ricorrenza dell'ulteriore (rispetto all'illegittimità dell'atto originario) condizione della ricorrenza dell'interesse pubblico attuale alla eliminazione del provvedimento viziato e, quindi, all'elisione dei suoi effetti giuridici.
Perché la norma abbia un senso è necessario, in altri termini, non solo che l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto viziato non possa coincidere con la mera esigenza della restituzione all'azione amministrativa della legalità violata, ma anche che non possa risolversi nella semplice e astratta ripetizione delle stesse esigenze regolative sottese all'ordine giuridico infranto: una motivazione siffatta finirebbe logicamente proprio per esaurire l'apprezzamento del presupposto discrezionale in un esame nel mero riscontro della condizione vincolante (l’illegittimità dell'atto da annullare d’ufficio), con un palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del legislatore.
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1.‒ È fondato il motivo di impugnazione con il quale gli appellanti rimarcano l’illegittimità dei contestati atti di ritiro, in quanto adottati in violazione dei canoni normativi relativi al termine entro cui può essere validamente rimosso (d’ufficio) un provvedimento illegittimo e alla sussistenza di un interesse pubblico (attuale e specifico) che ne giustifichi l’eliminazione.
1.1.‒ Come è noto, recenti riforme hanno inciso sui presupposti per l’esercizio del potere di autotutela decisoria. L’art. 25, comma 1, lettera b-quater, del decreto-legge n. 133 del 2014, convertito nella legge n. 164/2014, ha modificato l’art. 21-nonies, escludendo la possibilità di procedere ad annullamento d’ufficio nei casi di provvedimenti già non annullabili dal giudice amministrativo nella ricorrenza dei requisiti di cui all’art. 21-octies, comma 2.
La successiva legge n. 124 del 2015 −nel segno di una tendenziale riduzione dei poteri discrezionali dell’amministrazione, al fine di garantire maggiore certezza e stabilità ai rapporti giuridici dei soggetti la cui azione risulta condizionata dalle decisioni amministrative– ha introdotto due importanti modifiche:
   a) la fissazione del termine massimo di diciotto mesi per la valida adozione dell’annullamento d’ufficio di atti autorizzatori e attributivi di vantaggi economici;
   b) la previsione, con il comma aggiunto 2-bis, della possibilità di annullare, anche dopo quel termine, i provvedimenti ottenuti sulla base di dichiarazioni false, ma solo quando la falsità è stata accertata in sede penale con sentenza passata in giudicato.
Sul piano sistematico si assiste ad un vistoso allontanamento dalla tradizionale ricostruzione dell’istituto fondata sull’immanenza ed inesauribilità del potere amministrativo e sull’idea che si tratti di una prerogativa a tutela del solo interesse pubblico ancorato a presupposti necessariamente elastici.
1.2.− Il rafforzamento della tutela dell’affidamento si è manifestata anche nella direzione della ridefinizione dei rapporti fra autotutela e SCIA, con la più rigida perimetrazione dei poteri inibitori e conformativi attribuiti all’amministrazione destinataria della segnalazione.
In particolare, l’art. 19, comma 4, della l. n. 241 del 1990, come modificato dall’art. 6, comma 1, lettera a), della l. 07.08.2015, n. 124, stabilisce ora che, decorso il termine ordinario (di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis, dello stesso articolo 19), l’amministrazione competente può adottare i medesimi provvedimenti di inibizione e di conformazione in presenza delle condizioni previste dall’articolo 21-nonies. L’art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 222 del 2016, ha inoltre chiarito che i diciotto mesi iniziano a decorrere dalla data di scadenza del termine previsto per l’esercizio dei poteri ordinari di verifica da parte dell’Amministrazione competente.
1.3.‒ Quanto alla pregnanza dell’onere motivazionale, questa Sezione del Consiglio di Stato ha più volte precisato che la rimozione d’ufficio di un atto favorevole esige una articolata esplicitazione delle ragioni, di interesse generale che impongono l’eliminazione dell’atto invalido, attraverso la chiara esemplificazione degli effetti concreti che si assumono contrastanti con i valori tutelati dall’ordine legale infranto, per come atteggiantesi nello specifico contesto empirico e non per come astrattamente considerati dalla disciplina normativa (cfr. la sentenza 27.01.2017 n. 341, anche di seguito richiamata).
2.− Venendo ora al caso di specie, rileva il Collegio che gli impugnati atti di autotutela del Comune di ARZANO sono stati adottati nel vigore della legge n. 124 del 2015, entrata in vigore il 28.08.2015, mentre gli atti rimossi sono tutti antecedenti rispetto a tale data.
Si pone dunque un problema preliminare di diritto transitorio.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale, la norma introdotta dalla legge 07.08.2015, n. 124, è applicabile in ogni caso in cui il provvedimento di autotutela sia intervenuto successivamente alla novella legislativa, ancorché riguardi un titolo abilitativo rilasciato sotto il regime precedente (ex plurimis: T.A.R. Puglia, Bari, Sez. III, 17.03.2016, n. 351; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 22.09.2016, n. 4373; TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 04.01.2017, n. 65; TAR Lazio, Roma, Sez. I-bis, 21.02.2017, n. 2670; TAR Sardegna, Sez. I, 07.02.2017, n. 92).
Secondo un indirizzo di segno opposto –fatto proprio dai giudici di prime cure– ai fini dell’applicazione della regola del tempus regit actum (art. 11 delle preleggi), l’atto di autotutela dovrebbe considerarsi non un provvedimento autonomo bensì un atto rientrante nel procedimento aperto dall’atto di primo grado, con conseguente insensibilità del procedimento amministrativo alle norme giuridiche nel frattempo sopravvenute.
Ritiene invece il Collegio di dare continuità all’impostazione ermeneutica– inaugurata dal Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 19.01.2017, n. 250− secondo cui il termine dei diciotto mesi non può applicarsi in via retroattiva, nel senso di computare anche il tempo decorso anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 124 del 2015, atteso che tale esegesi, oltre a porsi in contrasto con il generale principio di irretroattività della legge (art. 11 preleggi), finirebbe per limitare in maniera eccessiva ed irragionevole l’esercizio del potere di autotutela amministrativa.
Si arriverebbe infatti all’irragionevole conseguenza per cui, con riguardo ai provvedimenti adottati diciotto mesi prima dell’entrata in vigore della nuova norma, l’annullamento d’ufficio sarebbe, per ciò solo, precluso. Ne consegue che, rispetto ai provvedimenti illegittimi (di primo grado) adottati anteriormente all’attuale versione dell’art. 21-nonies della l. n. 241 del 1990, il termine dei diciotto mesi non può che cominciare a decorrere dalla data di entrata in vigore della nuova disposizione.
È fatta salva, comunque, l’operatività del “termine ragionevole” già previsto dall’originaria versione dell’art. 21-nonies legge n. 241 del 1990. Quanto al rispetto del parametro della ragionevolezza del termine, deve aggiungersi che −per quanto i diciotto mesi non possano considerarsi (per i motivi anzidetti) ancora decorsi− è anche vero che la novella non può non valere come prezioso indice ermeneutico ai fini dello scrutinio dell’osservanza della regola di condotta in questione (Consiglio di Stato, sez. VI, 10.12.2015, n. 5625).
La decifrazione della nozione indeterminata di termine ragionevole, ai fini dello scrutinio della sua corretta interpretazione da parte dell’amministrazione, deve essere, quindi, compiuta con particolare rigore quando il potere di autotutela viene esercitato su atti attribuitivi di utilità giuridiche od economiche.
2.1.− Nella fattispecie esaminata, il termine complessivamente decorso rispetto alla data del provvedimento annullato deve ritenersi irragionevole. L’ordinanza n. 16 del 26.08.2015 concerne la denuncia di inizio attività del 30.09.2009 e le note del 23.06.2010 e del 28.06.2010. Il provvedimento del 07.10.2015, riguarda la DIA n. 9584 del 30.04.2012, relativa al mutamento di destinazione d’uso del piano seminterrato dell’immobile sito in via Atellana, angolo via Medi, nonché il certificato di agibilità relativo n. 21 del 23.10.2012. L’atto n. 2378 del 03.11.2015 ha ritirato i titoli abilitativi in materia commerciale del 2011.
In definitiva, l’esercizio del potere di autotutela è intervento a distanza di un periodo compreso tra i sei e i tre anni dalla presentazione dei titoli asseritamente illegittimi. La tardività dell’intervento correttivo imponeva, a fronte della consistenza dell’affidamento ingenerato nei destinatari circa il consolidamento della loro efficacia, imponeva una motivazione particolarmente convincente circa l’apprezzamento degli interessi dei destinatari dell’atto, in relazione alla pregnanza e alla preminenza dell’interesse pubblico alla eliminazione d’ufficio del titolo edilizio illegittimo.
Per contro, gli atti controversi non contengono convincenti argomentazioni circa gli estremi e i contenuti dell’anzidetta doverosa valutazione, evocandosi in modo tautologico gli interessi sottesi alla disposizione normativa la cui violazione avrebbe integrato l’illegittimità dell’atto oggetto del procedimento di autotutela.
Questa Sezione −cfr. la sentenza 27.01.2017 n. 341– ha recentemente puntualizzato che: «l’identificazione dell’interesse pubblico all’eliminazione dell'atto viziato nelle medesime esigenze di tutela implicate dalla norma violata con lo stesso, si risolve in ogni caso nella (inammissibile) coincidenza del presupposto vincolante consistente nell'invalidità del provvedimento originario con l’ulteriore e diversa condizione (secondo l'assetto regolativo di riferimento) della sussistenza di un interesse pubblico alla sua rimozione d'ufficio. Sennonché, tale esegesi dev’essere rifiutata nella misura in cui si risolve nella pratica disapplicazione della parte del precetto che esige la ricorrenza dell'ulteriore (rispetto all'illegittimità dell'atto originario) condizione della ricorrenza dell'interesse pubblico attuale alla eliminazione del provvedimento viziato e, quindi, all'elisione dei suoi effetti giuridici. Perché la norma abbia un senso è necessario, in altri termini, non solo che l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto viziato non possa coincidere con la mera esigenza della restituzione all'azione amministrativa della legalità violata, ma anche che non possa risolversi nella semplice e astratta ripetizione delle stesse esigenze regolative sottese all'ordine giuridico infranto: una motivazione siffatta finirebbe logicamente proprio per esaurire l'apprezzamento del presupposto discrezionale in un esame nel mero riscontro della condizione vincolante (l’illegittimità dell'atto da annullare d’ufficio), con un palese (e inammissibile) tradimento della chiara volontà del legislatore».
È utile rimarcare che gli anzidetti canoni di buona azione amministrativa non possono ritenersi certo derogati in ragione del fatto che con D.P.R. del 29.04.2015 (pubblicato sulla G.U. n. 115 del 20.05.2015) è stato disposto lo scioglimento degli organi elettivi del Comune di Arzano ai sensi dell’art. 143 TUEL.
2.2.− Sotto altro profilo, erra il TAR quando afferma che l’esercizio del potere inibitorio “ex post” sarebbe stato giustificato dalla falsa rappresentazione e dichiarazione dello stato dei luoghi (in ciò avallando l’atto dell’amministrazione comunale in cui si legge che la DIA non potrebbe produrre «effetto giuridico» perché «rappresentava lo stato dei luoghi come commercio»).
In senso contrario, deve osservarsi che le opere realizzate a seguito della DIA 30.09.2009 –segnatamente: realizzazione di tramezzature, sostituzione della pavimentazione interna, dei rivestimenti, degli infissi interni ed esterni, l’installazione di impianti tecnologici, copertura con tenda retrattile ed altri interventi, di cui gli atti impugnati non contestano la difformità rispetto alla dichiarazione− erano espressamente finalizzate all’uso commerciale dei locali. Che l’intendimento dichiarato dagli istanti fosse la destinazione ad attività commerciale è attestato, del resto, dalla stessa nota del Comune di Arzano n. 16610 del 28.06.2010.
Su queste basi, la questione giuridica se le opere dichiarate fossero compatibili o meno con la disciplina urbanistica dell’area atteneva alla legittimità del “titolo” (espressione qui evocata in senso lato, trattandosi di un modulo procedimentale dichiarativo) che la pubblica amministrazione avrebbe dovuto doverosamente verificare per tempo. Di certo non veniva in considerazione una falsa rappresentazione della realtà materiale (che, peraltro, l’art. 19 della legge n. 241 del 1990 richiede sia accertata con sentenza passata in giudicato).
3.− Possono assorbirsi tutti gli altri motivi, in quanto i profili di illegittimità accertati garantiscono alle società istanti il conseguimento della massima utilità sostanziale.
4.– L’appello è, dunque, fondato (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 13.07.2017 n. 3462 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato gonfia la parcella con questioni di diritto fuori competenza. Sospeso tre mesi. Conferma della sospensione.
La professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza.

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In relazione al terzo e quarto motivo la giurisprudenza di questa corte ha già affermato che i Consigli locali dell'ordine degli avvocati esercitano funzioni amministrative e non giurisdizionali, svolgendo i relativi compiti nei confronti dei professionisti appartenenti all'ordine forense a livello locale e, quindi, all'interno del gruppo costituito dai professionisti stessi e per la tutela degli interessi della classe professionale rappresentata a quel livello.
Pertanto, la funzione disciplinare esercitata da tali organi, così in sede di promozione come in sede di decisione del procedimento, risulta manifestazione d'un potere amministrativo, attribuito dalla legge per l'attuazione del rapporto che si instaura con l'appartenenza a quel medesimo ordine dal quale sono legittimamente stabiliti i criteri di conformità o meno dei comportamenti tenuti dai propri appartenenti rispetto ai fini che l'associazionismo professionale intende perseguire per la più diretta ed immediata protezione di tali fini e soltanto di essi (Cass. Sezz. U, Sentenza n. 9097 del 03/05/2005).
Anche nel nuovo codice deontologico, fondato sulla tendenziale tipizzazione degli illeciti deontologici degli avvocati, tali principi trovano applicazione, in quanto attraverso il sintagma "per quanto possibile", previsto dall'articolo tre, comma tre, l. 247/2012 è possibile contestare l'illecito anche sulla base della norma di chiusura che prevede che "la professione forense deve essere esercitata con indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza, tenendo conto del rilievo sociale e della difesa e rispettando i principi della corretta e leale concorrenza".
Il nuovo codice deontologico ha previsto, degli articoli 9 e 12 i doveri fondamentali sanciti dalla I. n. 247/2012 legittimando la trasposizione delle vecchie regole nel nuovo codice deontologico.
Anche con riferimento all'apparato sanzionatorio, ispirato alla tendenziale tipizzazione delle sanzioni, è prevista nel nuovo codice deontologico, entrato in vigore il 16.12.2014, una disciplina analiticamente strutturata negli art. 20 e 21 che consente di rapportare la sanzione alle condizioni soggettive dell'incolpato e alle circostanze in cui si sono realizzati i fatti contestati.
Il CNF, con riferimento al quarto motivo, ha graduato la pena, in applicazione del criterio previsto dal citato articolo 21 cit., con valutazione non soggetta a sindacato di legittimità non rivestendo certamente la valutazione del CNF i caratteri di abnormità.
Le deliberazioni con le quali il Consiglio nazionale forense procede alla determinazione dei principi di deontologia professionale e delle ipotesi di violazione degli stessi costituiscono regolamenti adottati da un'autorità non statuale in forza di autonomo potere in materia che ripete la sua disciplina da leggi speciali, in conformità dell'art. 3, secondo comma, delle disposizioni sulla legge in generale, onde, trattandosi di legittima fonte secondaria di produzione giuridica, va esclusa qualsiasi lesione del principio di legalità, considerando altresì non tanto le tipologie delle pene disciplinari quanto l'entità delle stesse tra un minimo ed un massimo che ove graduabili, siano prestabilite dalla normativa statuale (R.D.L. 27.11.1933, n. 1578) (Cass. Sez. U, Sentenza n. 9097 del 03/05/2005)  (
Corte di Cassazione, Sezz. unite civili, ordinanza 11.07.2017 n. 17115).

EDILIZIA PRIVATA: Edifici di pregio, legittimo il vincolo culturale anche in caso di quasi totale rovina del manufatto.
Consiglio di Stato: l'amministrazione può consentire la realizzazione dei lavori che consentono di ridurre i rischi per la pubblica incolumità anche se non è ripristinata l’assoluta identità dei beni preesistenti.
Secondo la VI Sez. del Consiglio di Stato –sentenza 10.07.2017 n. 3382- l’Amministrazione statale può imporre il vincolo culturale “anche quando un manufatto –risalente nel tempo e di pregio- risulti oggetto di parziale o anche di quasi totale rovina (per fenomeni naturali o per manum hominis) e si intenda comunque tutelarne le vestigia, sia quando la ricostruzione per un qualsiasi accadimento non abbia luogo, sia quando essa abbia luogo”.
Infatti, argomenta Palazzo Spada, “poiché i beni aventi un rilievo artistico, storico o archeologico nel corso del tempo subiscono lenti degradi ovvero traumatiche rovine per eventi naturali o altre cause, è del tutto ragionevole che l’Amministrazione statale imponga il vincolo su ciò che resta ovvero su ciò che è stato ripristinato o ricostruito”.
Il Consiglio di Stato aggiunge inoltre che, “in occasione dei lavori di ricostruzione anche totale di beni artistici, storici o archeologici, ben può l’Amministrazione –con le cautele del caso– consentire la realizzazione di quei lavori e di quelle modifiche che consentano di ridurre i rischi per la pubblica incolumità, anche se non è ripristinata l’assoluta identità dei beni preesistenti”.
La sentenza precisa infine che “un ‘cimitero monumentale’ va considerato tale non solo per le caratteristiche delle strutture murarie o per le modalità di sistemazione dei viali (che possono mutare nel corso del tempo), ma anche per il suo significato identitario derivante anche dalla presenza di antiche tombe, cappelle o iscrizioni funerarie” (commento tratto da www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso edilizio, la sospensione del termine di durata non può essere automatica.
La giurisprudenza nettamente prevalente di questo Consiglio di Stato, dalla quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, sottolinea che, ai sensi dell'art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 ("Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga [...]"), l'effetto decadenziale si riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei lavori entro il termine annuale fissato dalla legge.
In altri termini "la decadenza del permesso di costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo, che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo abilitativo".
Invero, la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione.
Decadenza che opera di diritto, pertanto non è richiesta l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso.
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La giurisprudenza amministrativa ha del pari superato pregresse incertezza giurisprudenziali stabilendo che "il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore".
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1. L’appello è parzialmente fondato e va accolto, nei sensi di cui alla motivazione che segue, mentre va respinta la domanda di risarcimento dei danni per difetto di prova e di allegazione: la sentenza deve essere, pertanto, riformata ed il ricorso di primo grado deve essere accolto, con conseguente annullamento dell’impugnato provvedimento.
2. Discostandosi per comodità espositiva dalla tassonomia propria delle questioni (secondo le coordinate ermeneutiche dettate dall’Adunanza plenaria n. 5 del 2015), che in ordine logico renderebbe prioritario lo scrutinio della doglianza (lettera A dell’appello) incentrata sulla asserita “violazione del giudicato formatosi sulle statuizioni di cui alla sentenza di questo Consiglio di Stato n. 1556/2015 ed all’ordinanza n. 5601/2015” ritiene il Collegio di esaminare immediatamente le censure di cui alle lettere B e C dell’appello.
3. Di entrambe si rileva immediatamente la non condivisibilità, e la intrinseca debolezza, in quanto contraddittorie rispetto alle stesse attività poste in essere dalla stessa odierna parte appellante, posto che:
   a) la società appellante richiese una prima proroga dell'inizio dei lavori al 22.04.2014 e poi una seconda proroga di ulteriori sei mesi che, in quanto tale, procrastinava il termine di inizio dei lavori fino al 22.10.2014: ciò quando ancora il Tar non si era pronunciato sui ricorsi proposti avverso la Deliberazione n. 2129 del 23.10.2012 di rilascio dell’autorizzazione integrata ambientale, proposti dalla Provincia di Venezia e dal Comune di San Donà del Piave;
   b) il Tar accolse i ricorsi con la sentenza n. 773/2014 del 09.06.2014, annullando la detta autorizzazione, ed a detta data la proroga era ancora efficace, in quanto, come prima riferito, l’autorizzazione sarebbe scaduta il 22.10.2014;
   c) l’intera impostazione delle prime due censure dell’appello è incentrata sulla circostanza per cui, dal momento che il Tar aveva annullato l’autorizzazione, questa non “esisteva più” e non avrebbe avuto senso chiedere la proroga;
   d) ma tale arguta affermazione si scontra con un dato di fatto: in pendenza del giudizio di appello proposto dalla società odierna appellante avverso la suindicata sentenza del Tar –e quindi quando, secondo l’argomentare della stessa appellante l’autorizzazione non esisteva più, e non avrebbe avuto senso chiedere la proroga- la società predetta chiese una terza proroga (con nota datata del 18/02/2015 motivata dal fatto che l’udienza avanti al Consiglio di Stato era stata rinviata al 03.03.2015);
   e) ciò dimostra che essa stessa si rendeva conto che anche in pendenza del giudizio di appello (sfociato nella sentenza di questo Consiglio di Stato n. 1556/2015 che accolse infine il gravame), essa avrebbe dovuto richiedere la proroga dell’autorizzazione: soltanto che lo fece intempestivamente, in quanto l’autorizzazione era già scaduta il 22.10.2014 ed essa si risolse a chiedere la proroga soltanto nel febbraio del 2015.
3.1. Tanto vale a privare di plausibilità la ricostruzione della odierna parte appellante contenuta nelle suindicate censure, e ciò proprio tenuto conto dei suoi stessi comportamenti.
3.2. Ed anche a non volere attribuire rilevanza a tali emergenze processuali, ed affrontando esclusivamente sotto il profilo giuridico le argomentazioni della parte odierna appellante, si osserva che:
   a) l’effetto retroattivo del giudicato, anche nel processo amministrativo, è jus receptum e non può essere messo in discussione;
   b) ma tale principio tendenziale è soggetto a limiti di vario genere e, per quel che rileva in questa sede va contemperato con le previsioni normative che regolamentano i provvedimenti interessati dal giudicato;
   c) nel caso del permesso di costruire, ad evidenti fini di certezza della programmazione urbanistica (altrimenti condizionato sine die da possibili “effetti retroattivi” ascrivibili a sentenza che intervengono a distanza di tempo considerevole dal rilascio del titolo), il Legislatore ha dettato un principio che –senza smentire la portata retroattiva del giudicato- all’evidente fine di verificare il permanente interesse del soggetto latore del titolo a realizzare l’intervento programmato ha condizionato l’efficacia del titolo suddetto ad un evento: la presentazione di una istanza di proroga del termine di inizio e fine dei lavori;
   d) come condivisibilmente colto dal Tar, infatti, la giurisprudenza nettamente prevalente di questo Consiglio di Stato, dalla quale il Collegio non ritiene di doversi discostare, sottolinea che, ai sensi dell'art. 15, comma 2, del D.P.R. n. 380 del 2001 ("Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga [...]"), l'effetto decadenziale si riconnette al mero dato fattuale del mancato avvio dei lavori entro il termine annuale fissato dalla legge; in altri termini "la decadenza del permesso di costruire costituisce effetto automatico del trascorrere del tempo, che per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo abilitativo" (Cons. Stato, sez. IV, 11.04.2014, n. 1747; in tal senso, ex multis, anche Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870: "la pronunzia di decadenza del permesso a costruire ha carattere strettamente vincolato all'accertamento del mancato inizio e completamento dei lavori entro i termini stabiliti dalla norma stessa (rispettivamente un anno e tre anni dal rilascio del titolo abilitativo, salvo proroga) ed ha natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso a costruire per l'inerzia del titolare a darvi attuazione". Decadenza che opera di diritto, pertanto non è richiesta l'adozione di un provvedimento amministrativo espresso -Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870; nonché, TAR Sardegna, sez. II, 04.05.2015, n. 741);
   e) la giurisprudenza amministrativa ha del pari superato pregresse incertezza giurisprudenziali stabilendo che "il termine di durata del permesso edilizio non può mai intendersi automaticamente sospeso, essendo al contrario sempre necessaria, a tal fine, la presentazione di una formale istanza di proroga, cui deve comunque seguire un provvedimento da parte della stessa Amministrazione, che ha rilasciato il titolo ablativo, che accerti l'impossibilità del rispetto del termine, e solamente nei casi in cui possa ritenersi sopravvenuto un factum principis ovvero l'insorgenza di una causa di forza maggiore (Consiglio di Stato sez. IV, n. 974/2012, cit.)" (Cons. St., sez. III, 04.04.2013, n. 1870);
   f) di ciò il Legislatore ha appunto preso atto inserendo nel corpo dell’art. 15 del d.P.R. n. 380/2001 un comma 2-bis, ratione temporis vigente ed applicabile alla fattispecie per cui è causa laddove si stabilisce che: “La proroga dei termini per l'inizio e l'ultimazione dei lavori è comunque accordata qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate”;
   g) pertanto, l'assunto della ricorrente sulla natura di factum principis della controversia giudiziaria è destituita di fondamento (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.07.2017 n. 3371 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATANella disciplina statale non par dubbio che il proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost.).
E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere “personale” ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio.

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22. Nel caso di specie, la pregressa demolizione è restata inottemperata e pertanto il Comune ha disposto l’acquisizione gratuita, senza necessità di rinnovare l’ordine di demolizione nei confronti dell’appellante, essendo l’ordine stesso oggettivamente collegabile alle opere realizzate in violazione del vincolo.
23. D’altra parte, l’appellante era a conoscenza dei provvedimenti demolitori, quello adottato nel 1960 e quello sostanzialmente confermativo del 1970, avendo peraltro impugnato il rigetto dell’istanza di sanatoria per le stesse opere. Cosicché, seppure non responsabile dell’abuso, in qualità di proprietaria, non si era adoperata per eseguirli (cfr. Cons. St., sez. III, 15.10.2009, n. 2371).
24. Nella disciplina statale, infatti, non par dubbio che il proprietario possa essere coinvolto nel procedimento successivo all’accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione (in particolare, nel sub-procedimento relativo all’acquisizione al patrimonio comunale del bene e dell’area di sedime), a prescindere da una sua diretta responsabilità nell’illecito edilizio.
La giurisprudenza amministrativa ha avuto peraltro agio di affermare che tale sistema non presenta profili di criticità sul piano del rispetto dei principi costituzionali (in tali ricomprendendo anche quelli desumibili dalle disposizioni sovranazionali che trovano applicazione nel nostro ordinamento, quali norme interposte, in base all’art. 117 Cost.).
E ciò per la dirimente ragione che si tratta di sanzioni in senso improprio, non aventi carattere “personale” ma reale, essendo adottate in funzione di accrescere la deterrenza rispetto all’inerzia conseguente all’ordine demolitorio e di assicurare ad un tempo la effettività del provvedimento di ripristino dello stato dei luoghi e la soddisfazione del prevalente interesse pubblico all’ordinato assetto del territorio (cfr., Cons. Stato, sez. VI, 15.04.2015 n. 1927).
25. La presentazione di un’istanza di sanatoria, comunque respinta, non poteva poi essere d’ostacolo all’adozione del provvedimento, essendo necessario ai fini dell’atto di acquisizione solo l’esistenza del pregresso ordine di demolizione inottemperato (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 10.07.2017 n. 3366 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl concetto di pertinenza previsto dal diritto civile va distinto dal concetto più ristretto di pertinenza in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire.
In materia edilizia, sono qualificabili come pertinenze solo le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico

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Il ricorso è infondato.
Ed invero, le opere realizzate in assenza di titolo abilitativo non sono conformi allo strumento urbanistico generale, perché insistono su area destinata a standard per opere e spazi pubblici in quanto classificata, ai sensi del PRG allora vigente, parte come zona F2 destinata a spazi per attrezzature di interesse generale e parte come zona AP1, destinata ad attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale di livello comunale.
Né le opere sono qualificabili come di interesse generale, atteso che le stesse sono state realizzate a servizio dell’Azienda della società ricorrente.
Riguardo, inoltre, alla qualificazione delle stesse come opere pertinenziali dell’Azienda agricola, si rileva che le medesime, di notevoli dimensioni, sono, in ogni caso, utilizzabili autonomamente.
Sul punto, secondo l’orientamento della giurisprudenza amministrativa: “Il concetto di pertinenza previsto dal diritto civile va distinto dal concetto più ristretto di pertinenza in senso urbanistico, che non trova applicazione in relazione a quelle costruzioni che, pur potendo essere qualificate come beni pertinenziali secondo la normativa privatistica, assumono tuttavia una funzione autonoma rispetto ad altra costruzione, con conseguente loro assoggettamento al regime del permesso di costruire. In materia edilizia, sono qualificabili come pertinenze solo le opere prive di autonoma destinazione e che esauriscano la loro destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico” (cfr., per tutte, TAR Campania, sez. IV, 08.09.2014, n. 4745).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 10.07.2017 n. 1572 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione.
Nei giudizi di tale natura, il giudice amministrativo di regola non può andare oltre la declaratoria di illegittimità dell'inerzia e l'ordine di provvedere; gli resta precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all'Amministrazione stessa. Le disposizioni relative, ove interpretate diversamente, attribuirebbero illegittimamente, in modo indiscriminato, una giurisdizione di merito.
Tuttavia, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere dell’accoglibilità dell'istanza:
   a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c'è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all'Amministrazione;
   b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere laddove l'atto espresso non potrebbe che essere di rigetto.
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12. E’ così possibile passare all’esame del merito della controversia, nella quale viene in questione il silenzio serbato dal Comune di Mormano a fronte dell’istanza del privato.
13. Per costante giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, l'obbligo giuridico di provvedere -ai sensi dell'art. 2 della legge 07.08.1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della legge 18.06.2009, n. 69- sussiste in tutte quelle fattispecie particolari nelle quali ragioni di giustizia e di equità impongano l'adozione di un provvedimento e quindi, tutte quelle volte in cui, in relazione al dovere di correttezza e di buona amministrazione della parte pubblica, sorga per il privato una legittima aspettativa a conoscere il contenuto e le ragioni delle determinazioni (qualunque esse siano) dell'Amministrazione (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 273; sez. V, 03.06.2010, n. 3487).
14. Nei giudizi di tale natura, il giudice amministrativo di regola non può andare oltre la declaratoria di illegittimità dell'inerzia e l'ordine di provvedere; gli resta precluso il potere di accertare direttamente la fondatezza della pretesa fatta valere dal richiedente, sostituendosi all'Amministrazione stessa. Le disposizioni relative, ove interpretate diversamente, attribuirebbero illegittimamente, in modo indiscriminato, una giurisdizione di merito (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 273; sez. IV, 24.05.2010, n. 3270).
15. Tuttavia, nell'ambito del giudizio sul silenzio, il giudice potrà conoscere dell’accoglibilità dell'istanza:
   a) nelle ipotesi di manifesta fondatezza, allorché siano richiesti provvedimenti amministrativi dovuti o vincolati in cui non c'è da compiere alcuna scelta discrezionale che potrebbe sfociare in diverse soluzioni e fermo restando il limite della impossibilità di sostituirsi all'Amministrazione;
   b) nell'ipotesi in cui l'istanza sia manifestamente infondata, sicché risulti del tutto diseconomico obbligare l’Amministrazione a provvedere laddove l'atto espresso non potrebbe che essere di rigetto (cfr. Cons. Stato, sez. V, 22.01.2015, n. 273; sez. IV, 12.03.2010, n. 1468) (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 30.06.2017 n. 3234 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI - EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza non ha mancato di evidenziare che ai sensi dell'art, 97, comma 4, lett. d), D.lgs. 2000 n. 267, il Segretario comunale, anche se chiamato a sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinarne la relativa attività, non può di norma espletare compiti normalmente rimessi alla struttura burocratica in senso proprio dell'ente locale, sostituendosi ai dirigenti, salve eventuali ipotesi eccezionali di assenza, nei ruoli dell'ente locale, di dirigenti o di altri funzionari in grado di espletarne i compiti; in ogni caso, anche in assenza di personale con qualifica dirigenziale, l'attribuzione di compiti gestionali al segretario comunale non è automatica, ma dipende da una specifica attribuzione di funzioni amministrative, in base allo statuto o ai regolamenti dell'ente o a specifiche determinazioni del sindaco.
Ai sensi delle norme richiamate, nell'attuale assetto ordinamentale, al Segretario comunale sono affidati compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente locale, in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Di talché, nel nuovo ordinamento degli enti locali, il Segretario comunale non rientra più nel novero dei dirigenti dell'amministrazione locale e tale costruzione è ulteriormente confermata dall'art. 97 D.lgs. 267/2000, laddove al comma 4, lett. d), ipotizza l'affidamento al Segretario comunale di competenze dirigenziali limitate e “pur sempre legate ad esigenze eccezionali e transeunti”.
Ne consegue che non essendo il Segretario comunale titolare di poteri di sostituzione rectius avocazione nei confronti dei dirigenti, l’ordinanza impugnata (nel caso di specie) presta il fianco ai dedotti vizi di incompetenza oltre che di difetto di motivazione.
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Tuttavia, deve però il Collegio verificare la capacità invalidante del suddetto vizio, ai sensi del comma secondo, primo allinea, dell’art. 21-octies della legge 241 del '90 e s.m., risultando l’attività di repressione degli abusi edilizi pacificamente strettamente vincolata oltre che doverosa ed applicandosi dunque il principio c.d. sostanzialistico ivi codificato di “strumentalità delle forme” ovvero di conservazione dell’attività amministrativa, con il corollario processuale della trasformazione del giudizio di annullamento da verifica formale di legittimità degli atti impugnati ad accertamento della fondatezza della pretesa azionata ovvero a giudizio “sul rapporto”.
Giova evidenziare, per completezza, come la sostenuta natura processuale dell’art. 21-octies dovrebbe essere riconsiderata alla luce dell’entrata in vigore del decreto legge “Sblocca Italia” 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, nella parte in cui ha modificato l’art. 21-nonies della legge 241/1990 sul potere di annullamento d’ufficio, ora esercitabile solo in presenza di “provvedimento illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2,…… .”.
Da una prima lettura della novella legislativa, secondo il significato letterale, pare ora considerarsi illegittimo soltanto il provvedimento annullabile ai sensi dell’art. 21-octies, che diverrebbe dunque norma sostanziale. Ne conseguirebbero allora diversi effetti giuridici, tra cui la pacifica irrilevanza ai fini risarcitori, divenendo l’atto affetto da vizi formali non più colpito da invalidità non annullabile bensì affetto da mera irregolarità, così come una possibile deresponsabilizzazione ai fini dello stesso giudizio amministrativo contabile, non senza al riguardo ipotizzabili questioni di incostituzionalità per contrasto, tra l’altro, con gli artt. 24, 103 e 113 Cost.
In merito alla riconduzione del vizio di competenza relativa ai vizi di natura “formale”, ai fini dell’applicazione dell’art. 21-octies comma secondo L. 241/1990, è sorto un obiettivo contrasto giurisprudenziale.
Infatti, secondo una prima tesi, il vizio di incompetenza relativa non può portare all'annullamento dell'atto, ove l'amministrazione non potrebbe, in prosieguo, che riadottare un provvedimento analogo a quello impugnato; troverebbe quindi applicazione l'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 1990 dal momento la norma avrebbe una propria “vis espansiva” che lo renderebbe applicabile a qualsiasi vizio puramente formale, dato che l'acclarata necessaria reiterazione del provvedimento, da parte dell'organo in ipotesi competente, dimostra che la censura, pur fondata, non è sorretta da alcun concreto interesse.
Secondo altra opposta opzione esegetica, invece, dalla lettura combinata del comma 1, e del comma 2, dell'art. 21-octies, L. n. 241 del 1990, si desume che, quando viene accertata l'incompetenza relativa dell'organo adottante, il provvedimento deve essere necessariamente annullato, non potendo trovare applicazione la disposizione che ne preclude l'annullamento laddove sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; detta disposizione, infatti, si riferisce ai soli casi in cui il provvedimento adottato sia stato adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma; né è possibile includere le norme sulla competenza tra quelle sul procedimento amministrativo o sulla forma degli atti: infatti, nel comma 1, dell'art. 21-octies il legislatore ha inteso ribadire la classica tripartizione dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo, in base alla quale la violazione delle norme sulla competenza configura il vizio di incompetenza, mentre la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma rientra nell'ambito più generale della violazione di legge.
Non ignora il Collegio come l’assimilazione ai vizi formali dell’incompetenza relativa possa in realtà porsi in contrasto con il principio fondamentale di separazione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione amministrativa sancita dal Codice sul Pubblico Impiego (artt. 13 e seg.) e dallo stesso Testo Unico Enti Locali (art. 107), principio cui va riconosciuta rilevanza costituzionale quale espressione del principio di buon andamento.
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Tanto doverosamente premesso, ritiene il Collegio come nel caso di specie la domanda di annullamento dell’ordinanza impugnata sia del tutto strumentale, se non pretestuosa, dal momento che parte ricorrente non contesta minimamente l’abusività delle opere detenute, poiché anche la lamentata mancata indicazione del titolo abilitativo necessario per le opere in contestazione risulta altrettanto capziosa in considerazione delle caratteristiche delle opere realizzate e dei vincoli insistenti sull’area.
Infatti, per quanto i manufatti in esame siano di non rilevanti dimensioni, costituiscono pur sempre interventi implicanti una evidente trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, oltre che del paesaggio, soggetti al preventivo permesso di costruire, ai sensi sia del t.u. edilizia che della legislazione regionale, oltre che dell’autorizzazione paesaggistica, essendo pertanto del tutto inevitabile l’adozione da parte del Comune delle doverose misure ripristinatorie.
In tal contesto, l’annullamento del provvedimento impugnato, come detto manifestamente del tutto vincolato e senza alternative quanto al contenuto dispositivo emanabile, appare oltre che in contrasto con il principio di “strumentalità delle forme” del tutto irragionevole, specie nell’ambito di un giudizio sul rapporto sostanziale sottostante, potendo e anzi dovendo l’Amministrazione intimata riadottare all’indomani dell’ipotizzato annullamento giudiziale un provvedimento di identico tenore.
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1. - Con il ricorso in epigrafe il ricorrente ha impugnato l’ordinanza n. 18 del 05.07.2007 con cui il Segretario comunale di Pegaro (PG) gli ha ingiunto la demolizione, quale soggetto detentore, di varie opere asseritamente abusive, realizzate su area classificata dal P.R.G. come boschiva e sottoposta a vincolo paesaggistico, precisamente tre manufatti di modeste dimensioni (due di circa 9 mq. e uno di 25 mq,) e una recinzione metallica, tutte destinate all’allevamento di animali da cortile per il consumo domestico.
...
2. - E’ materia del contendere la legittimità dell’ordinanza n. 18 del 05.07.2007 con cui il Segretario comunale di Pegaro ha ingiunto anche al ricorrente, quale soggetto detentore, la demolizione di varie opere asseritamente abusive, realizzate su area vincolata, tra cui tre manufatti di modeste dimensioni e una recinzione metallica, tutte destinate all’allevamento di animali da cortile per il consumo domestico.
3. - Va premesso in punto di fatto come l’odierno ricorrente abbia spontaneamente demolito uno dei tre manufatti oggetto della misura ripristinatoria gravata ovvero quello di maggiori dimensioni adibito a ricovero degli animali, circostanza confermata anche dalla difesa comunale.
In punto di diritto parte ricorrente non contesta il carattere abusivo delle opere oggetto della misura ripristinatoria -circostanza che potrebbe far dubitare come eccepito dall’Amministrazione della stessa sussistenza dell’interesse al ricorso- limitandosi a dedurre censure di carattere formale/procedimentale e, segnatamente, il vizio di incompetenza relativa ed il difetto di motivazione anche in riferimento alla mancata indicazione del titolo edilizio che sarebbe stato richiesto per realizzare le opere in esame.
4. - Il ricorso è infondato e va respinto.
5. - Ritiene il Collegio di dover esaminare prioritariamente le doglianze inerenti il vizio di incompetenza relativa, in quanto di natura assorbente.
5.1. - Come noto, se il provvedimento impugnato è affetto da vizio di incompetenza, tale vizio ai sensi dell’art. 34, comma 2, cod. proc. amm., ha carattere assorbente rispetto alle residue censure, dato che in tutte le situazioni di incompetenza e di carenza di proposta o di parere obbligatorio si versa nella situazione in cui il potere amministrativo non è stato ancora esercitato, sicché il giudice, anche ai sensi succitato art. 34, comma 2, cod. proc. amm., non può fare altro che rilevare il relativo vizio e assorbire tutte le altre censure, non potendo ritenersi vincolato dalla prospettazione del ricorrente e dalla eventuale graduazione dei motivi da quest'ultimo effettuata; in tale ipotesi, invero, debbono ritenersi sussistere i presupposti per disporre l'assorbimento (assorbimento per legge, per pregiudizialità necessaria e per ragioni di economia) precisati dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 27.04.2015 n. 5 (cfr. TAR Abruzzo Pescara, sez. I, 21.06.2016, n. 226; TAR Campania Napoli sez. VII, 29.08.2016, n. 4117).
5.2. - Ad avviso del ricorrente il provvedimento di repressione di abuso edilizio, quale atto tipicamente rientrante nelle attribuzioni dirigenziali, dovrebbe essere emanato esclusivamente dal Dirigente comunale o dal Responsabile apicale esercente le relative funzioni, potendo il Segretario comunale sostituirlo soltanto in caso di motivato riscontro delle ragioni di assenza o impedimento, riscontro nel caso di specie del tutto assente.
Impugna il ricorrente anche il presupposto art. 33, comma 5, del presupposto Regolamento comunale sull’ordinamento degli Uffici e Servizi, ove venisse interpretato nel senso di consentire una sostanziale avocazione di poteri gestionali da parte del Segretario comunale, organo decisamente distinto rispetto alla dirigenza dell’ente locale.
5.3. - Come sostenuto dal ricorrente l’ordinanza impugnata non indica effettivamente le ragioni dell’impedimento del Responsabile dell’Area Tecnica alla sottoscrizione dell’atto, contravvenendo alle stesse disposizioni del presupposto Regolamento, espressamente richiamato nella stessa ordinanza.
5.4. - La giurisprudenza non ha mancato di evidenziare che ai sensi dell'art, 97, comma 4, lett. d), D.lgs. 2000 n. 267, il Segretario comunale, anche se chiamato a sovrintendere allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti e coordinarne la relativa attività, non può di norma espletare compiti normalmente rimessi alla struttura burocratica in senso proprio dell'ente locale, sostituendosi ai dirigenti, salve eventuali ipotesi eccezionali di assenza, nei ruoli dell'ente locale, di dirigenti o di altri funzionari in grado di espletarne i compiti; in ogni caso, anche in assenza di personale con qualifica dirigenziale, l'attribuzione di compiti gestionali al segretario comunale non è automatica, ma dipende da una specifica attribuzione di funzioni amministrative, in base allo statuto o ai regolamenti dell'ente o a specifiche determinazioni del sindaco (ex multis TAR Piemonte, sez. II, 04.11.2008, n. 2739; Consiglio di Stato sez. IV, 21.08.2006, n. 4858; in termini Cass. civ. sez. lav., 12.06.2007, n. 13708).
Ai sensi delle norme richiamate, nell'attuale assetto ordinamentale, al Segretario comunale sono affidati compiti di collaborazione e funzioni di assistenza giuridico-amministrativa nei confronti degli organi dell'ente locale, in ordine alla conformità dell'azione amministrativa alle leggi, allo statuto ed ai regolamenti. Di talché, nel nuovo ordinamento degli enti locali, il Segretario comunale non rientra più nel novero dei dirigenti dell'amministrazione locale e tale costruzione è ulteriormente confermata dall'art. 97 D.lgs. 267/2000, laddove al comma 4, lett. d), ipotizza l'affidamento al Segretario comunale di competenze dirigenziali limitate e “pur sempre legate ad esigenze eccezionali e transeunti” (TAR Calabria Catanzaro sez. II, 12.03.2002, n. 571).
5.5. - Ne consegue che non essendo il Segretario comunale titolare di poteri di sostituzione rectius avocazione nei confronti dei dirigenti, l’ordinanza impugnata presta il fianco ai dedotti vizi di incompetenza oltre che di difetto di motivazione.
5.6. - Tanto premesso, deve però il Collegio verificare la capacità invalidante del suddetto vizio, ai sensi del comma secondo primo allinea dell’art. 21-octies della legge 241 del '90 e s.m., risultando l’attività di repressione degli abusi edilizi pacificamente strettamente vincolata oltre che doverosa (ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 21.11.2016, n. 4855; TAR Campania Napoli, sez. VI, 20.02.2017, n. 995; TAR Umbria 29.01.2014, n. 66) ed applicandosi dunque il principio c.d. sostanzialistico ivi codificato di “strumentalità delle forme” ovvero di conservazione dell’attività amministrativa, con il corollario processuale della trasformazione del giudizio di annullamento da verifica formale di legittimità degli atti impugnati ad accertamento della fondatezza della pretesa azionata ovvero a giudizio “sul rapporto” (ex multis Cons. Stato, Ad. plen., 23.03.2011, n. 3).
5.7. - Giova evidenziare, per completezza, come la sostenuta natura processuale dell’art. 21-octies (ex multis Consiglio Stato, sez. VI, 04.09.2007, n. 4614) dovrebbe essere riconsiderata alla luce dell’entrata in vigore del decreto legge “Sblocca Italia” 12.09.2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, nella parte in cui ha modificato l’art. 21-nonies della legge 241/1990 sul potere di annullamento d’ufficio, ora esercitabile solo in presenza di “provvedimento illegittimo ai sensi dell’articolo 21-octies, esclusi i casi di cui al medesimo articolo 21-octies, comma 2,…… .”.
Da una prima lettura della novella legislativa, secondo il significato letterale, pare ora considerarsi illegittimo soltanto il provvedimento annullabile ai sensi dell’art. 21-octies, che diverrebbe dunque norma sostanziale. Ne conseguirebbero allora diversi effetti giuridici, tra cui la pacifica irrilevanza ai fini risarcitori, divenendo l’atto affetto da vizi formali non più colpito da invalidità non annullabile bensì affetto da mera irregolarità, così come una possibile deresponsabilizzazione ai fini dello stesso giudizio amministrativo contabile, non senza al riguardo ipotizzabili questioni di incostituzionalità per contrasto, tra l’altro, con gli artt. 24, 103 e 113 Cost.
5.8. - In merito alla riconduzione del vizio di competenza relativa ai vizi di natura “formale”, ai fini dell’applicazione dell’art. 21-octies comma secondo L. 241/1990, è sorto un obiettivo contrasto giurisprudenziale.
Infatti, secondo una prima tesi, il vizio di incompetenza relativa non può portare all'annullamento dell'atto, ove l'amministrazione non potrebbe, in prosieguo, che riadottare un provvedimento analogo a quello impugnato; troverebbe quindi applicazione l'art. 21-octies comma 2, l. n. 241 del 1990 dal momento la norma avrebbe una propria “vis espansiva” che lo renderebbe applicabile a qualsiasi vizio puramente formale, dato che l'acclarata necessaria reiterazione del provvedimento, da parte dell'organo in ipotesi competente, dimostra che la censura, pur fondata, non è sorretta da alcun concreto interesse (TAR Campania Salerno sez. II, 21.05.2013, n. 1132; in termini anche TAR Toscana, sez. III, 17.09.2013, n. 1263).
Secondo altra opposta opzione esegetica, invece, dalla lettura combinata del comma 1, e del comma 2, dell'art. 21-octies, L. n. 241 del 1990, si desume che, quando viene accertata l'incompetenza relativa dell'organo adottante, il provvedimento deve essere necessariamente annullato, non potendo trovare applicazione la disposizione che ne preclude l'annullamento laddove sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato; detta disposizione, infatti, si riferisce ai soli casi in cui il provvedimento adottato sia stato adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma; né è possibile includere le norme sulla competenza tra quelle sul procedimento amministrativo o sulla forma degli atti: infatti, nel comma 1, dell'art. 21-octies il legislatore ha inteso ribadire la classica tripartizione dei vizi di legittimità dell'atto amministrativo, in base alla quale la violazione delle norme sulla competenza configura il vizio di incompetenza, mentre la violazione delle norme sul procedimento o sulla forma rientra nell'ambito più generale della violazione di legge (TAR Veneto sez. II, 09.02.2010, n. 340; TAR Lombardia Milano sez. IV, 06.04.2012, n. 1035).
5.9 - Non ignora il Collegio come l’assimilazione ai vizi formali dell’incompetenza relativa possa in realtà porsi in contrasto con il principio fondamentale di separazione tra attività di indirizzo politico e attività di gestione amministrativa sancita dal Codice sul Pubblico Impiego (artt. 13 e seg.) e dallo stesso Testo Unico Enti Locali (art. 107), principio cui va riconosciuta rilevanza costituzionale quale espressione del principio di buon andamento (ex multis Corte Cost. sent. 03.05.2013, n. 81).
5.10. - Tanto doverosamente premesso, ritiene il Collegio come nel caso di specie la domanda di annullamento dell’ordinanza impugnata sia del tutto strumentale, se non pretestuosa, dal momento che parte ricorrente non contesta minimamente l’abusività delle opere detenute, poiché anche la lamentata mancata indicazione del titolo abilitativo necessario per le opere in contestazione risulta altrettanto capziosa in considerazione delle caratteristiche delle opere realizzate e dei vincoli insistenti sull’area.
Infatti, per quanto i manufatti in esame siano di non rilevanti dimensioni, costituiscono pur sempre interventi implicanti una evidente trasformazione urbanistico-edilizia del territorio, oltre che del paesaggio, soggetti al preventivo permesso di costruire, ai sensi sia del t.u. edilizia che della legislazione regionale, oltre che dell’autorizzazione paesaggistica, essendo pertanto del tutto inevitabile l’adozione da parte del Comune delle doverose misure ripristinatorie.
5.11 - In tal contesto, l’annullamento del provvedimento impugnato, come detto manifestamente del tutto vincolato e senza alternative quanto al contenuto dispositivo emanabile, appare oltre che in contrasto con il principio di “strumentalità delle forme” del tutto irragionevole, specie nell’ambito di un giudizio sul rapporto sostanziale sottostante, potendo e anzi dovendo l’Amministrazione intimata riadottare all’indomani dell’ipotizzato annullamento giudiziale un provvedimento di identico tenore.
6. - Alla luce delle suesposte considerazioni il I motivo è pertanto infondato, non essendo il dedotto vizio di incompetenza dotato di capacità invalidante (TAR Umbria, sentenza 20.06.2017 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Presupposto per l'adozione dell'ordine demolitorio è la constatata realizzazione dell'opera in assenza di titolo (oppure in totale difformità da questo), che rende l'adozione della misura un atto dovuto (e non certo discrezionale), e perciò sufficientemente motivato con il richiamo, appunto, all'accertata abusività del manufatto.
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7. - Anche il II motivo è privo di pregio.
Presupposto per l'adozione dell'ordine demolitorio è la constatata realizzazione dell'opera in assenza di titolo (oppure in totale difformità da questo), che rende l'adozione della misura un atto dovuto (e non certo discrezionale), e perciò sufficientemente motivato con il richiamo, appunto, all'accertata abusività del manufatto (ex multis da ultimo Cons. giust. amm. Sicilia, 27.02.2017, n. 65) abusività che come detto nel caso di specie è pienamente sussistente.
8. - Per i suesposti motivi il ricorso è infondato e va respinto (TAR Umbria, sentenza 20.06.2017 n. 466 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza amministrativa ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi.
In questo senso, e con queste precisazioni, il piano attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di fatto, in quanto occorre verificare le concrete caratteristiche dell’area edificanda rispetto alla necessità o ultroneità della predisposizione di uno strumento urbanistico attuativo.
Al riguardo, il Collegio, condividendo la giurisprudenza già fatta propria da questa Sezione, ritiene che, nel caso di lotto intercluso o in altri analoghi casi nei quali la zona risulti totalmente urbanizzata, attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività –quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e dell’energia elettrica, scuole–, la pianificazione esecutiva non sia più necessaria e non sia pertanto consentito all’ente locale un rifiuto al rilascio del titolo abilitativo basato sul solo argomento formale della mancata emanazione della strumentazione urbanistica di dettaglio.
Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già più o meno intensamente urbanizzato e cioè nei casi caratterizzati da una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione, è stata reputata convincente, in quanto operante un equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco, la soluzione interpretativa per la quale la mancanza dello strumento attuativo può essere invocata a fondamento del diniego del titolo abilitativo edilizio soltanto nel caso in cui l’amministrazione abbia adeguatamente valutato lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed abbia congruamente evidenziato le concrete e ulteriori esigenze indotte dalla nuova costruzione.
Difatti, l’ente locale, essendo in possesso delle informazioni concernenti l’effettiva consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, comprendente le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, i servizi pubblici, nonché le edificazioni pubbliche e private già esistenti, è sicuramente in grado di stabilire se e in quale misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell’assetto del territorio già realizzato o in via di realizzazione.
In assenza di strumento attuativo, la valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione è rimessa all'esclusivo apprezzamento discrezionale del Comune, fatto salvo un sindacato del giudice amministrativo ammesso entro i ristretti limiti attinenti ai profili di macroscopica illogicità, di eclatante irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti.
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In via preliminare occorre rilevare che la giurisprudenza amministrativa, condivisa dal Collegio (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, n. 3996 e n. 3997 del 27.09.2016, Cons. Stato, sez. IV, n. 5471 del 2008 e sez. V, n. 5251 del 2013), ha individuato situazioni in presenza delle quali il permesso di costruire può essere legittimamente rilasciato anche in assenza del piano attuativo richiesto dallo strumento urbanistico sovraordinato, in particolare quando l’area del richiedente sia l’unica a non essere stata ancora edificata pur trovandosi in una zona che, oltre che integralmente interessata da costruzioni, è anche integralmente dotata delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria; qualora, cioè, nel comprensorio interessato sussista una situazione di fatto corrispondente a quella derivante dall’attuazione del piano esecutivo richiesto dallo strumento urbanistico generale, ovvero siano presenti opere di urbanizzazione primaria e secondaria pari agli standards urbanistici minimi prescritti, sì da rendere superflui gli strumenti attuativi.
In questo senso, e con queste precisazioni, il piano attuativo ammette equipollenti, per dir così, in via di fatto (Cons. Stato, sez. VI, n. 3996 e n. 3997 del 27.09.2016 cit.), in quanto occorre verificare le concrete caratteristiche dell’area edificanda rispetto alla necessità o ultroneità della predisposizione di uno strumento urbanistico attuativo (TAR Campania, Napoli, sez VIII, 03.09.2010, n. 17298).
Al riguardo, il Collegio, condividendo la giurisprudenza già fatta propria da questa Sezione, ritiene che, nel caso di lotto intercluso o in altri analoghi casi nei quali la zona risulti totalmente urbanizzata, attraverso la realizzazione delle opere e dei servizi atti a soddisfare i necessari bisogni della collettività –quali strade, spazi di sosta, fognature, reti di distribuzione del gas, dell’acqua e dell’energia elettrica, scuole–, la pianificazione esecutiva non sia più necessaria e non sia pertanto consentito all’ente locale un rifiuto al rilascio del titolo abilitativo basato sul solo argomento formale della mancata emanazione della strumentazione urbanistica di dettaglio (Cons. Stato, sez. IV, 04.12.2007, n. 6171).
Nelle situazioni intermedie, nelle quali il territorio risulti già più o meno intensamente urbanizzato e cioè nei casi caratterizzati da una sostanziale, anche se non completa, urbanizzazione, è stata reputata convincente, in quanto operante un equilibrato contemperamento dei diversi interessi in gioco, la soluzione interpretativa per la quale la mancanza dello strumento attuativo può essere invocata a fondamento del diniego del titolo abilitativo edilizio soltanto nel caso in cui l’amministrazione abbia adeguatamente valutato lo stato di urbanizzazione già presente nella zona ed abbia congruamente evidenziato le concrete e ulteriori esigenze indotte dalla nuova costruzione (cfr., ex multis, TAR Campania, Napoli, sez. IV, 02.03.2000, n. 596; 18.05.2000, n. 1413).
Difatti, l’ente locale, essendo in possesso delle informazioni concernenti l’effettiva consistenza del reticolo connettivo del suo territorio, comprendente le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, i servizi pubblici, nonché le edificazioni pubbliche e private già esistenti, è sicuramente in grado di stabilire se e in quale misura un ulteriore eventuale carico edilizio possa armonicamente inserirsi nell’assetto del territorio già realizzato o in via di realizzazione (TAR Campania, Napoli, sez VIII, 03.09.2010, n. 17298 cit).
In assenza di strumento attuativo, la valutazione circa la congruità del grado di urbanizzazione è rimessa all'esclusivo apprezzamento discrezionale del Comune (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 01.08.2007, n. 4276), fatto salvo un sindacato del giudice amministrativo ammesso entro i ristretti limiti attinenti ai profili di macroscopica illogicità, di eclatante irragionevolezza, di palese travisamento dei fatti (TAR Campania-Napoli, Sez, VIII, sentenza 06.06.2017 n. 2965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: L’atto amministrativo, oggetto di impugnazione, non può essere integrato con motivazione postuma nel corso del giudizio, con la conseguenza che va esaminato alla stregua delle sole ragioni poste a suo sostegno ed in esse esplicitate.
Ed invero deve ritenersi inammissibile, da parte della Pubblica amministrazione, la formulazione in giudizio di argomentazioni difensive a giustificazione del provvedimento impugnato non evincibili nemmeno implicitamente dalla sua motivazione, ciò costituendo un'integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, come tale non consentita in quanto non inserita nell'ambito di un procedimento amministrativo, dovendo la motivazione precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento della P.A. e dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario.
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Passando ad analizzare la fattispecie oggetto di gravame alla luce della sopra richiamata giurisprudenza, deve ritenersi fondato il vizio di difetto di istruttoria e di motivazione.
Ed invero, nella relazione tecnica descrittiva allegata alla richiesta di permesso di costruire unitamente al rilievo fotografico, depositati in giudizio, il tecnico incaricato ha rappresentato che trattasi di area pressoché urbanizzata ed ha puntualmente indicato le opere di urbanizzazione primaria e secondaria presenti nell’area oggetto dell’intervento per cui è causa, evidenziando altresì che il progetto era stato redatto negli standard edificatori previsti dal relativo comparto, in modo da rispettare le previsioni del carico urbanistico stabilito dal PRG.
Vista allora la particolarità del caso concreto, deve ritenersi illegittimo l’impugnato diniego di permesso di costruire, in quanto il Comune di Mondragone si è limitato a rappresentare la necessità del P.U.E. previsto dal P.R.G. vigente, né sono state evidenziate concrete, ulteriori esigenze di urbanizzazione indotte dalla nuova costruzione.
Né può assumere rilievo la circostanza che il Comune resistente, negli scritti difensivi, ha rappresentato, peraltro genericamente, che nel caso di specie sarebbero del tutto carenti e comunque insufficienti a sorreggere l’ulteriore peso urbanistico le opere di urbanizzazione secondarie nonché alcune primarie (come la condotta fognaria), che richiederebbero un potenziamento per far fronte alle nuove edificazioni da eseguirsi nell’ambito per cui è causa; trattasi, infatti, di una inammissibile motivazione postuma (cfr. ex multis TAR Napoli, Sezione II, n. 5876 del 19.12.2013, Sezione I n. 1588 del 04.04.2012).
Il Collegio non ha motivo di discostarsi dall’orientamento giurisprudenziale, condiviso da questo Tribunale, alla luce del quale l’atto amministrativo, oggetto di impugnazione, non può essere integrato con motivazione postuma nel corso del giudizio, con la conseguenza che va esaminato alla stregua delle sole ragioni poste a suo sostegno ed in esse esplicitate (cfr. TAR Napoli, Sezione I, 02.09.2014, n. 4649, Sezione III, n. 5379 del 22.11.2013).
Ed invero deve ritenersi inammissibile, da parte della Pubblica amministrazione, la formulazione in giudizio di argomentazioni difensive a giustificazione del provvedimento impugnato non evincibili nemmeno implicitamente dalla sua motivazione, ciò costituendo un'integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, come tale non consentita in quanto non inserita nell'ambito di un procedimento amministrativo (cfr., ex multis, Consiglio di Stato Sez. III, 09.01.2017, n. 24, 10.07.2015, n. 3488, Consiglio di Stato Sez. sez. VI, 18.07.2016, n. 3194), dovendo la motivazione precedere e non seguire il provvedimento amministrativo, a tutela del buon andamento della P.A. e dell'esigenza di delimitazione del controllo giudiziario (TAR Napoli, Sez. II, 15.02.2017, n. 933).
Conclusivamente, per i suesposti motivi, il ricorso deve essere accolto (TAR Campania-Napoli, Sez, VIII, sentenza 06.06.2017 n. 2965 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

TRIBUTILa Tarsu è dovuta anche dalle aree cimiteriali.
Una sentenza della Cassazione interviene su un tema a lungo dibattuto: la Tarsu è dovuta anche dalle aree cimiteriali? La risposta è affermativa, in quanto la Tassa sui rifiuti si articola da sempre in una quota fissa, correlata alle necessità pubbliche del servizio erogato e una variabile, in proporzione alla quantità dei rifiuti prodotti. Sono dunque la produzione e il conferimento dei rifiuti a motivare la normativa e le relative agevolazioni.
I rifiuti cimiteriali vengono in toto assimilati a quelli urbani, sia che si tratti di rifiuti vegetali o provenienti da spazzamento sia che si considerino i rifiuti provenienti da esumazioni ed estumulazioni. Neanche la destinazione d’uso esenta i Concessionari dei cimiteri dal pagamento dell’imposta: infatti le stesse norme regolamentari che escludono gli edifici destinati al culto dal pagamento della Tarsu lo fanno perché questi immobili sono ritenuti “incapaci di produrre rifiuti, per loro natura e caratteristiche e per il particolare uso cui sono adibiti” (commento tratto da www.anci.lombardia.it).
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La controversia riguarda l'impugnazione di un avviso di accertamento ai fini TARSU relativamente ad un immobile costituito da un'area cimiteriale in concessione rispetto alla quale l'ente riteneva di non doversi applicare l'imposta trattandosi (sotto il profilo oggettivo) di un luogo destinato all'esercizio di funzioni di culto, gestito (sotto il profilo soggettivo) da un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.
...
12. Con il terzo motivo di ricorso, l'ente religioso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, comma 1 e 16, legge n. 222 del 1985, 7, legge n. 121 del 1985 e 62, comma 5, d.lgs. n. 507 del 1993, per aver il giudice di merito erroneamente ritenuto che la TARSU fossa esclusa dalle esenzioni spettati agli enti ecclesiastici a norma degli Accordi tra Stato e Chiesa.
13. Il motivo non è fondato.
Questa Corte, in altra occasione che riguardava una controversia nella quale era in discussione una pretesa esenzione dalla TARSU fondata sulle regole enunciate dall'art. 16 del Trattato lateranense, ha avuto modo di rilevare che «
la "tassa sui rifiuti" -nonostante le alterne vicende che l'hanno vista passare da tributo a tariffa e da tariffa a tributo nell'evoluzione normativa che ne ha caratterizzato la disciplina dal d.P.R. n. 507 del 1993, al d.lgs. n. 22 del 1997, al d.lgs. n. 152 del 2006 e, infine, al d.l. n. 201 del 2011, art. 15 (c.d. decreto "Salva-Italia", convertito dalla legge n. 214 del 2011)- ha avuto sempre, e in particolare a partire dalla disciplina dettata con il c.d. "decreto Ronchi", una valenza specifica di corrispettivo di un servizio legato alla qualità e quantità dei rifiuti prodotti dal soggetto passivo, articolandosi in una "quota fissa", commisurata alle necessità pubbliche di erogazione del servizio, ed in una "quota variabile", commisurata ai rifiuti prodotti. Sicché è la produzione e il conferimento di rifiuti la ratio dell'imposizione e, al tempo stesso, delle relative agevolazioni» (Cass. n. 4027 del 2012).
14. Nel caso di specie non viene allegata alcuna condizione oggettiva di esclusione dell'immobile in questione dal conferimento dei rifiuti che produce, che sono costituiti dai c.d. "rifiuti cimiteriali", classificati tra i rifiuti urbani o a questi assimilati, a seconda che si tratti (caso dei rifiuti vegetali o da spazzamento) o meno di rifiuti provenienti da "esumazioni" ed "estumulazioni", dal d.P.R. n. 254 del 2003 e dal d.lgs. n. 152 del 2006.
15. L'unico elemento di giustificazione che viene addotto è costituito dalla supposta destinazione dell'immobile all'esercizio del culto: ma un precedente specifico di questa Corte che riguarda la stessa Arciconfraternita parte ricorrente nel presente giudizio, ha escluso (e il Collegio condivide) che sia possibile pensare ad una equivalenza tra edifici destinati ed aperti al culto ed immobili adibiti nel caso di specie a funzioni cimiteriali (v. Cass. n. 3711 del 2005): peraltro, come questa Corte ha già avuto modo di osservare,
le norme regolamentari (e una di queste è il "Regolamento comunale di Roma n. 24 del 2003 sulla applicazione sperimentale della Tariffa per la Gestione dei Rifiuti Urbani") che escludono gli edifici di culto dal calcolo delle superfici per la determinazione della TARSU, lo fanno sempre perché ritenuti "incapaci di produrre rifiuti, per loro natura e caratteristiche e per il particolare uso cui sono adibiti", non in quanto la destinazione al culto, in assenza di specifica previsione normativa, possa di per sé giustificare l'esenzione dalla tassa (v. Cass. n. 4027 del 2012) (Corte di Cassazione, Sez. V civile, sentenza 31.05.2017 n. 13740).

APPALTIDall’art. 38, comma 1, lettera c), e comma 2, si ricava che nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate all'affidamento di un appalto pubblico, l'omessa dichiarazione da parte del concorrente di tutte le condanne penali eventualmente riportate, anche se attinenti a reati diversi da quelli contemplati nell'art. 38, comma 1, lett. c), ne comporta senz'altro l'esclusione dalla gara, essendo impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità.
Non c'è possibilità che l'omissione possa essere sanata attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti elementi essenziali) radicalmente mancanti -pena la violazione della par condicio fra concorrenti- ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara.

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Quanto all'estinzione del reato (che consente di non dichiarare l'emanazione del relativo provvedimento di condanna), secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, essa sotto il profilo giuridico non è automatica per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata in una pronuncia espressa del giudice dell'esecuzione penale, che è l'unico soggetto al quale l'ordinamento attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente parlarsi di "reato estinto" e il concorrente non è esonerato dalla dichiarazione dell'intervenuta condanna.
Non può rilevare in contrario l’orientamento del giudice penale, affermato ai fini dell’individuazione della decorrenza anticipata degli effetti dell’estinzione a tutela del condannato, ma che prescinde dalla considerazione del contesto procedimentale nel quale, invece, l’estinzione rileva ai fini in questione. La stazione appaltante si trova a dover considerare, senza il dovere (e talvolta neanche la possibilità) di poter sospendere la propria valutazione, la rilevanza di una condanna, e non può che tener conto della sua esistenza, fino a che non sia intervenuta una valutazione dell’unico giudice competente, quello penale, in ordine al venir meno dei suoi effetti ed all’adozione del conseguente provvedimento dichiarativo.
E tanto è avvenuto anche nel caso in esame, con conseguente irrilevanza della sopravvenuta dichiarazione di estinzione da parte del Tribunale di Siena.
Il reato di frode processuale è tale da incidere sulla moralità, trattandosi di reato, a dolo specifico, commesso contro l’amministrazione della giustizia; la depenalizzazione del reato presupposto non rileva, in quanto, ai sensi dell’art. 170, primo comma, c.p., la causa di estinzione del reato presupposto non si estende all’altro reato.
Non si vede poi come si possa pretendere dalla stazione appaltante una motivazione sulla rilevanza della condanna, se l’esclusione è determinata dalla omessa dichiarazione.
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11. L’appello è infondato.
11.1. Dall’art. 38, comma 1, lettera c), e comma 2, si ricava che nelle procedure ad evidenza pubblica preordinate all'affidamento di un appalto pubblico, l'omessa dichiarazione da parte del concorrente di tutte le condanne penali eventualmente riportate, anche se attinenti a reati diversi da quelli contemplati nell'art. 38, comma 1, lett. c), ne comporta senz'altro l'esclusione dalla gara, essendo impedito alla stazione appaltante di valutarne la gravità (cfr., fra le tante, Cons. Stato, III, n. 4019/2016; IV, n. 834/2016; V, n. 4219/2016, n. 3402/2016 e n. 1641/2016).
11.2. Non c'è possibilità che l'omissione possa essere sanata attraverso il soccorso istruttorio, il quale non può essere utilizzato per sopperire a dichiarazioni (riguardanti elementi essenziali) radicalmente mancanti -pena la violazione della par condicio fra concorrenti- ma soltanto per chiarire o completare dichiarazioni o documenti già comunque acquisiti agli atti di gara (cfr. Cons. Stato, A.P. n. 9/2014; V, n. 4219/2016 e n. 927/2015).
11.3. Secondo un orientamento, invocato dall’appellante, costituisce eccezione l’ipotesi in cui la dichiarazione sia resa dal concorrente sulla base di modelli predisposti dalla stazione appaltante e questi sia indotto in errore dalla formulazione ambigua o equivoca del bando (cfr. Cons. Stato, III, n. 2006/2013, n. 507/2014, n. 925/2015 e n. 5240/2015).
11.4. Tuttavia, nel caso in esame una simile ambiguità deve escludersi, posto che il disciplinare, all’art. 10, punto 3, prevedeva, come contenuto della dichiarazione dell’assenza delle cause di esclusione di cui all’art. 38, “dichiara che nei propri confronti non è stata pronunciata sentenza di condanna passata in giudicato, o emesso decreto di condanna divenuto irrevocabile, o sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale; (oppure, se presenti) indica tutte le sentenze di condanna passate in giudicato, i decreti penali di condanna divenuti irrevocabili, le sentenze di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale emessi nei propri confronti …” ad esclusione di quelle per reati depenalizzati o per le quali è intervenuta la riabilitazione o l’estinzione, senza limitazioni ulteriori.
11.5. A ben vedere, anche il TAR, nell’affermare che il modulo di dichiarazione “avrebbe potuto essere formulato in termini più perspicui”, non giunge alla conclusione che la lex specialis fosse equivoca e tale da suscitare un legittimo affidamento nei concorrenti sulla non necessità di dichiarare le eventuali condanne di minor gravità, ma costituisce un mero antecedente logico del ragionamento volto ad accertare la doverosità della dichiarazione di tutte le condanne riportate.
11.6. Quanto all'estinzione del reato (che consente di non dichiarare l'emanazione del relativo provvedimento di condanna), secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, essa sotto il profilo giuridico non è automatica per il mero decorso del tempo, ma deve essere formalizzata in una pronuncia espressa del giudice dell'esecuzione penale, che è l'unico soggetto al quale l'ordinamento attribuisce il compito di verificare la sussistenza dei presupposti e delle condizioni per la relativa declaratoria, con la conseguenza che, fino a quando non intervenga tale provvedimento giurisdizionale, non può legittimamente parlarsi di "reato estinto" (cfr., tra le altre, Cons. Stato, III, n. 4118/2016; V, n. 3105/2015, n. 3092/2014 e n. 4528/2014; contra, per quanto risulta, soltanto la sentenza invocata dall’appellante) e il concorrente non è esonerato dalla dichiarazione dell'intervenuta condanna.
11.7. Non può rilevare in contrario l’orientamento del giudice penale, affermato ai fini dell’individuazione della decorrenza anticipata degli effetti dell’estinzione a tutela del condannato, ma che prescinde dalla considerazione del contesto procedimentale nel quale, invece, l’estinzione rileva ai fini in questione. La stazione appaltante si trova a dover considerare, senza il dovere (e talvolta neanche la possibilità) di poter sospendere la propria valutazione, la rilevanza di una condanna, e non può che tener conto della sua esistenza, fino a che non sia intervenuta una valutazione dell’unico giudice competente, quello penale, in ordine al venir meno dei suoi effetti ed all’adozione del conseguente provvedimento dichiarativo.
E tanto è avvenuto anche nel caso in esame, con conseguente irrilevanza della sopravvenuta dichiarazione di estinzione da parte del Tribunale di Siena.
11.8. Il reato di frode processuale è tale da incidere sulla moralità, trattandosi di reato, a dolo specifico, commesso contro l’amministrazione della giustizia; la depenalizzazione del reato presupposto non rileva, in quanto, ai sensi dell’art. 170, primo comma, c.p., la causa di estinzione del reato presupposto non si estende all’altro reato.
11.9. Non si vede poi come si possa pretendere dalla stazione appaltante una motivazione sulla rilevanza della condanna, se l’esclusione è determinata dalla omessa dichiarazione (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 29.05.2017 n. 2548 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Alla Corte costituzionale la mancata previsione, nell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990, di un termine per la sollecitazione, da parte del terzo, delle verifiche sulla Scia.
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Scia – Verifica – Richieste dal terzo – Art. 19, comma 6-ter, l. n. 241 del 1990 – Mancata previsione di un termine – Violazione artt. 3, 11, 97, 117, comma 1 Cost.
E' rilevante e non manifestamente infondata -per contrasto con gli artt. 3, 11, 97, 117, comma 1 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE, e 117, comma 2, lett. m), Cost.- la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241, nella parte in cui non prevede un termine per la sollecitazione, da parte del terzo, delle verifiche sulla Scia (1).
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   (1) Il Tar ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. 07.08.1990, n. 241 nella parte in cui, disponendo che la tutela del terzo a fronte della Scia da altri presentata sia realizzabile esclusivamente attraverso lo strumento del silenzio-rifiuto di cui all’art. 31 c.p.a. rispetto alla mancata risposta dell’Amministrazione alla sollecitazione delle verifiche amministrative avanzata dal terzo medesimo, omette tuttavia di fissare il termine entro il quale il terzo può avanzare l’istanza di sollecitazione. In assenza della fissazione ad opera della norma del termine suddetto, e ritenendo il Collegio che siano prive di convincente base normativa le soluzioni che mirano ad individuare in via interpretativa il termine medesimo, la norma censurata finisce per ammettere una sollecitazione del potere di verifica della Scia da parte del terzo sine die.
In tal modo essa si espone però a consistenti dubbi di legittimità costituzionale per violazione dell’affidamento del segnalante, che a distanza anche di anni può veder messa in discussione la legittimità della intrapresa attività, per violazione del buon andamento della p.a., che è costretta a riaprite a distanza di tempo il procedimento di verifica suddetto, nonché per violazione del principio di ragionevolezza e tutela dei livelli essenziali delle prestazioni, di cui all’art. 117, comma 2, lett. m) Cost..
Ed invero, ha chiarito il Tar, “la mancata previsione di tali termini è idonea a vanificare del tutto la prestazione somministrata dallo Stato al cittadino sotto forma di semplificazione delle procedure abilitative per lo svolgimento di attività (come quella edilizia) non liberalizzate. Se in teoria infatti la semplificazione dovrebbe consentire di raggiungere il medesimo risultato (assentimento dell’iniziativa privata) con un iter amministrativo più snello di quello ordinario, l’attuale disciplina della Scia risulta contraddittoria con tali finalità: da un lato invero, essa non assicura sempre una riduzione dell’attività burocratica (poiché il procedimento di verifica dei presupposti della segnalazione può essere avviato più volte a fronte di plurime istanze di soggetti controinteressati); e, d’altro lato, tale disciplina non conduce mai ad una regolamentazione definitiva degli interessi contrapposti nella vicenda amministrativa, residuando sempre un potere-dovere dell’Amministrazione di rimettere in discussione la legittimità originaria dell’intervento segnalato, ogniqualvolta essa riceva una domanda di intervento da parte di un terzo.
Peraltro, si evidenzia che l’esclusione dal novero dei livelli essenziali del termine per l’esercizio del potere sollecitatorio di cui all’art. 19 comma 6-ter rischia di pregiudicare l’esigenza di uniformità normativa che caratterizza l’istituto della SCIA nel suo complesso. Invero, tale opzione legislativa, data la peculiare natura della riserva posta dall’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. (la quale consente l’intervento regionale sugli aspetti di dettaglio del regime dei livelli essenziali: cfr. Corte cost. n. 297 del 2012 cit.), apre la strada a discipline territoriali eterogenee del suddetto termine, con conseguente disomogeneità degli standards di tutela a livello nazionale
” (TAR Toscana, Sez. III, ordinanza 11.05.2017 n. 667 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
...per l'accertamento:
   - (in tesi): della inefficacia della SCIA presentata dal sig. Em.Ca. al Comune di Campi Bisenzio in data 06.12.2012;
   - (in ipotesi): della illegittimità dell’intervento edilizio di cui alla suddetta SCIA quanto alla prevista apertura di finestra;
   - (in ulteriore ipotesi): dell’obbligo del Comune di Campi Bisenzio di pronunciarsi espressamente sull’istanza di verifica presentata dalla ricorrente in data 14.09.2016, nonché sulle precedenti istanze indicate in atti.
...
1 - Con ricorso notificato in data 23.10.2016 e depositato il successivo 02.11.2016, la sig.ra Pa.Mu. è insorta avverso il silenzio serbato dal Comune di Campi Bisenzio sull’istanza di inibitoria da essa presentata in data 14.09.2016 avverso la SCIA del 06.12.2012, con cui il sig. Em.Ca. ha comunicato al suddetto ente l’intenzione di procedere a lavori di manutenzione straordinaria (tra cui l’apertura di una finestra) sull’immobile in cui è compresa (anche) l’abitazione della ricorrente.
1.1 - Più in particolare la SCIA edilizia per cui è causa ha ad oggetto la realizzazione di alcune “opere interne ed esterne di manutenzione straordinaria” in un fabbricato terratetto, facente parte di un più ampio complesso immobiliare, poi divenuto condominio, sito in Campi Bisenzio, alla Via ..., n. 79.
In particolare, gli interventi progettati dal segnalante consistono: nell’apertura di una finestra a servizio di camera da letto posta al piano primo dell’edificio; nella demolizione di un tramezzo interno del sottoscala; nella diversa conformazione dei gradini di accesso all’abitazione; ed, infine, nella copertura dell’ingresso con una tettoia di modeste dimensioni.
Di queste opere, è stata portata a compimento soltanto la finestra, posto che, a seguito dell’istanza rivolta dall’assemblea del condominio di Via degli Allori al Comune di Campi Bisenzio, e diretta a conseguire la sospensione dei predetti lavori per asserito contrasto dei medesimi con l’art. 3 del regolamento condominiale, l’Ente, con ordinanza n. 4 del 14.01.2013, ne ha disposto l’immediata sospensione.
1.2 - In data 12.11.2015 la sig.ra Mu. ha inviato all’amministrazione una richiesta di “parere sulla legittimità degli atti e delle procedure promosse con la SCIA” della quale si discute, cui -in assenza di risposta da parte del Comune- è seguito un primo sollecito del 16.12.2015, poi reiterato il 12.04.2016.
Tutte e tre le richieste sono rimaste inevase, cosicché la Sig.ra Pa.Mu., con nota del 23.06.2016, ha dapprima invitato l’amministrazione ad accertare l’inefficacia della SCIA presentata dal Sig. Em.Ca. e ad adottare tutti i conseguenti provvedimenti sanzionatori diretti alla rimessa in pristino dell’edificio e poi, con ulteriore istanza del 14.09.2016, proposta ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter, della L. 241/1990, ha nuovamente sollecitato l’Ente a svolgere le verifiche ad esso spettanti.
Il silenzio serbato dall’amministrazione anche su tale ultima istanza ha condotto alla proposizione da parte della Sig.ra Patrizia Mu. del ricorso in esame, proposto ai sensi dell’art. 31 c.p.a.
1.3 - Nello specifico la sig.ra Mu. rileva che la suddetta SCIA è stata presentata dal sig. Ca. senza previa acquisizione del nullaosta previsto dall’art. 3.2. del regolamento edilizio comunale per gli interventi su immobili di interesse “documentale” ai sensi del d.lgs. 490/1999 –quale sarebbe l’edificio de quo– con conseguente inefficacia della segnalazione ai sensi dell’art. 84 l. r. 1/2005.
Essa censura, inoltre, il contrasto con l’art. 3.2.2. del suddetto regolamento, poiché quest’ultimo stabilisce che su immobili del tipo in questione siano eseguibili soltanto interventi ripristinatori di aperture preesistenti, mentre il sig. Ca. ha realizzato ex novo una finestra. In via preventiva rispetto a possibili eccezioni, la ricorrente ha evidenziato che il gravame dalla stessa proposto risulterebbe tempestivo, poiché l’art. 19 comma 6-ter l. n. 241/1990, non prevedendo alcun termine per la proposizione dell’istanza di inibitoria di una SCIA da parte del terzo controinteressato, consentirebbe a quest’ultimo di sollecitare l’intervento repressivo dell’Amministrazione nonché –ove questa non provveda– di proporre l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. senza alcun limite di tempo (ad eccezione dell’ordinario termine di prescrizione decennale). A fronte delle suesposte argomentazioni, la sig.ra Mu. ha concluso affinché l’adito Tribunale Amministrativo:
   a) in tesi, accerti e dichiari «che la SCIA presentata dal sig. Em.Ca. al Comune di Campi Bisenzio in data 06.12.2012 è inefficace» e per l’effetto accerti e dichiari «l’obbligo del Comune di Campi Bisenzio di adottare i provvedimenti necessari a sanzionare le opere eseguite in assenza di titolo abilitativo»;
   b) in ipotesi, accerti e dichiari «che l’intervento di cui alla SCIA presentata dal sig. Em.Ca.…è illegittimo quanto alla apertura della finestra» e, per l’effetto, accerti e dichiari «l’obbligo del Comune di Campi Bisenzio di adottare i provvedimenti necessari a sanzionare detto abuso mediante chiusura della finestra suddetta»;
   c) in ulteriore ipotesi, dichiari «l’obbligo del Comune di Campi Bisenzio di pronunciarsi espressamente sull’istanza di verifica presentata dalla ricorrente in data 14.09.2016, nonché sulle precedenti istanze presentate in atti».
1.4 - Si sono costituti in giudizio, per resistere al ricorso, il Comune di Campi Bisenzio e il controinteressato, che hanno eccepito la tardività del gravame, per tardiva sollecitazione dei poteri inibitori da parte del terzo, la inammissibilità delle azioni di accertamento e, per quanto concerne l’Amministrazione resistente, anche la inammissibilità del ricorso per carenza di legittimazione di parte ricorrente.
1.5 - Con ordinanza n. 141 del 2017 la Sezione ha evidenziato che con il presente ricorso parte ricorrente ha invero proposto una pluralità di azioni, volte sia all’accertamento della inefficacia della SCIA presentata dal controinteressato, sia all’accertamento della illegittimità dell’intervento edilizio segnalato, sia, infine, all’accertamento della sussistenza dell’obbligo dell’Amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di verifica presentata dalla ricorrente in relazione alla SCIA medesima, concludendo che solo l’ultima azione fosse trattabile con il rito camerale di cui all’art. 31 c.p.a. e che fosse quindi necessario, ai sensi dell’art. 32 c.p.a., disporre la congiunta trattazione delle più domande proposte con rito ordinario, a tal uopo fissando l’udienza pubblica a ciò deputata.
1.6 - In esito alla svolta udienza pubblica, con sentenza non definitiva n. 618 del 2017 il Collegio:
   a) ha esaminato e respinto l’eccezione di inammissibilità dell’intero gravame per difetto di legittimazione attiva, evidenziando come nella specie sussistano i presupposti della c.d. vicinitas, quale peculiare fattore di legittimazione all’azione giurisdizionale amministrativa, in forza del quale chi si trova in un rapporto di contiguità spaziale con un particolare luogo può contestare i provvedimenti che in concreto autorizzino la realizzazione di opere o impianti atti ad incidere sulla sua configurazione;
   b) ha esaminato e dichiarato inammissibili le due prime azioni di accertamento dispiegate dalla ricorrente nell’atto introduttivo del giudizio, stante il chiaro disposto dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 a mente del quale “gli interessati possono sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104”, con l’effetto che l’unica azione esperibile dal terzo è l’azione sul silenzio di cui all’art. 31 c.p.a.;
   c) ha avviato lo scrutinio dell’azione di cui all’art. 31 c.p.a., proposta in via di ulteriore ipotesi dalla sig.ra Mu., esaminando l’eccezione di tardività della sollecitazione da parte del terzo del potere inibitorio della p.a.; nella suddetta sentenza non definitiva la Sezione è giunta alla conclusione che l’art. 19 l. n. 241/1990 non indichi un termine entro il quale il terzo è chiamato, a pena di decadenza, a sollecitare le verifiche amministrative relative alla SCIA presentata e che un simile termine non sia ricavabile dal sistema, giacché i termini di cui all’art. 29 e 31 c.p.a., evocati dalle parti resistenti, hanno natura affatto diversa e non sono quindi richiamabili in via analogica per coprire il segnalato vuoto normativo; la Sezione ha quindi evidenziato che tutto ciò porterebbe al risultato di ritenere infondata l’eccezione di tardività formulata dai resistenti, per mancanza di un termine legale sul quale parametrare la tempestività o meno della sollecitazione del potere di verifica effettuata dalla ricorrente; tuttavia la Sezione medesima ha infine posto in evidenza come l’evocato art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, nella misura in cui non prevede un termine entro il quale il terzo è legittimato ad esercitare il potere sollecitatorio delle verifiche amministrative previsto dalla stessa disposizione, risulti in contrasto con le disposizioni costituzionali di cui agli artt. 11, 117, comma 1°, 3, 97, 117, comma 2°, lett. m) Cost., anticipando che con separata ordinanza avrebbe provveduto a rimettere la evidenziata questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale.
2 – E’ necessario richiamare, preliminarmente, l’insieme delle norme attualmente regolanti l’istituto della SCIA e quindi ripercorrere i passaggi fondamentali dell’evoluzione giurisprudenziale riguardante la tutela del terzo controinteressato rispetto all’attività oggetto di segnalazione.
3 - Com’è noto, l’art. 19 della l. n. 241/1990 consente al privato di avviare, mediante semplice SCIA, l’esercizio di un’attività che dipende «esclusivamente dall’accertamento di requisiti e presupposti richiesti dalla legge o da atti amministrativi a contenuto generale» e per la quale «non sia previsto alcun limite o contingente complessivo o specifici strumenti di programmazione settoriale» (comma 1).
Ai sensi di tale norma, l’attività oggetto di SCIA «può essere iniziata…dalla data della presentazione della segnalazione all’amministrazione competente» (comma 2), salvo il potere di quest’ultima di verificare successivamente l’effettiva sussistenza dei presupposti per lo svolgimento dell’attività medesima.
A tal proposito, l’art. 19, comma 3 (come modificato dalla l. n. 124/2015) prevede che, in caso di accertata carenza dei suddetti presupposti, l’Amministrazione possa adottare «motivati provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti dannosi» nonché –ove possibili– provvedimenti diretti alla conformazione dell’attività ai requisiti di legge, purché proceda in tal senso entro sessanta giorni dal ricevimento della segnalazione certificata del privato (comma 3) ovvero trenta giorni «nei casi di SCIA in materia edilizia» (comma 6-bis, introdotto dall’art. 5, co. 2, lett. b, del D.L. n. 70/2011).
Viceversa, una volta decorsi i suddetti termini, «l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 (ma in tal caso) alle condizioni previste dall'articolo 21-nonies», che –com’è noto– disciplina il potere di annullamento in autotutela dei provvedimenti illegittimi (cfr. art. 19, comma 4).
4 - Le sopra citate norme fissano i tratti significativi del potere di verifica ufficioso spettante all’amministrazione a seguito della presentazione di una SCIA. Da esse si evince, in particolare, che tale potere assume natura diversa a seconda che venga esercitato prima o dopo il decorso dei suddetti termini di sessanta o trenta giorni.
Invero, nel primo caso, l’amministrazione è tenuta semplicemente ad accertare la sussistenza o meno dei presupposti di legge per lo svolgimento dell’attività segnalata e, pertanto, i poteri repressivi ad essa spettanti sulla SCIA assumono carattere doveroso e vincolato.
Viceversa, una volta scaduti i suddetti termini, il potere dell’amministrazione di inibire gli effetti della SCIA resta soggetto agli stessi presupposti previsti dalla legge per l’annullamento d’ufficio, tra cui –com’è noto– rientra l’obbligo di previa valutazione delle «ragioni di interesse pubblico» giustificative del provvedimento repressivo. Ne deriva che, in quest’ultimo caso, il potere dell’amministrazione di interdire la prosecuzione dell’attività segnalata ha natura discrezionale e non doverosa.
5 - In tale quadro, si inserisce il tema della tutela del terzo pregiudicato dall’intervento oggetto di SCIA, il quale ha costituito oggetto di un serrato dibattito giurisprudenziale negli anni che hanno preceduto l’emanazione del d.l. n. 138/2011.
5.1 - Invero, ancor prima dell’introduzione (ad opera di tale decreto legge) del comma 6-ter dell’art. 19 –il quale ha espressamente disciplinato il potere di reazione del terzo a fronte di una SCIA ritenuta illegittima– la giurisprudenza era suddivisa in più orientamenti.
Il primo, assumendo che il mancato esercizio del potere di verifica dell’Amministrazione desse luogo ad un provvedimento tacito di assenso all’attività segnalata, riteneva che il terzo leso da tale attività potesse esercitare l’ordinaria azione di annullamento avverso il suddetto titolo tacito (Cons. Stato, Sez. IV, 25.11.2008, n. 5811; id., 29.07.2008, n. 3742; id., 12.09.2007, n. 4828: Cons. Stato, Sez. VI, 05.04.2007, n. 1550).
Un secondo orientamento stabiliva che il terzo pregiudicato da una SCIA dovesse proporre un’azione di accertamento negativo dei presupposti dell’attività segnalata. Azione che –in caso di accoglimento– avrebbe obbligato l’Amministrazione a conformarsi ai contenuti della pronuncia giudiziale nel successivo esercizio dei poteri repressivi (Cons. St., sez. VI, 09.03.2009, n. 717; Con. Stato, Sez. VI, 15.04.2010, n. 2139; Cons. St., sez. IV, 12.11.2015, n. 5161).
Infine, un’ulteriore filone giurisprudenziale reputava che lo strumento appropriato per assicurare protezione giuridica al terzo fosse l’azione (originariamente disciplinata dall’art. 21-bis della l. n. 1034/1971, ossia quella) avverso il silenzio serbato dall’amministrazione nel procedimento di verifica ufficiosa dei presupposti della SCIA. Azione che, qualora accolta dal giudice dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 19 comma 3, avrebbe comportato –secondo certe pronunce– la condanna dell’Amministrazione ad esercitare il potere inibitorio avente carattere doveroso e vincolato (Cons. Stato, Sez. V, 22.02.2007, n. 948); viceversa –secondo altri arresti– l’ordine all’amministrazione stessa di attivare l’autotutela decisoria (avente invece contenuto discrezionale: Cons. Stato, Sez. IV, 04.09.2002, n. 4453).
5.2 – I suesposti contrasti giurisprudenziali sono stati in parte (e solo temporaneamente) sanati dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 29.07.2011, n. 15, la quale ha stabilito:
   a) che la scadenza dei termini di cui all’art. 19, commi 3 e 6-bis, senza che l’amministrazione abbia esercitato i poteri inibitori di cui alle medesime norme, dà luogo alla formazione di una determinazione tacita di conclusione negativa dell’accertamento in ordine ad eventuali vizi della segnalazione nonché di diniego di esercizio delle suddette potestà repressive; con conseguente onere per il terzo controinteressato di proporre avverso tale provvedimento l’azione di annullamento entro l’ordinario termine decadenziale, termine che, secondo la Plenaria, decorre dalla data di acquisita conoscenza, da parte del terzo medesimo, dell’iniziativa per lui pregiudizievole;
   b) che il controinteressato che abbia impugnato il silenzio negativo, benché siano scaduti i termini per l’adozione dei suddetti provvedimenti inibitori, ha comunque diritto «ad ottenere una pronuncia che impedisca lo svolgimento di un’attività illegittima mediante un precetto giudiziario puntuale e vincolante che non subisca l’intermediazione aleatoria dell’esercizio di un potere discrezionale»; perciò egli può sempre proporre, congiuntamente all’azione di annullamento del diniego tacito, la c.d. azione di adempimento, tesa ad ottenere una pronuncia che imponga all’amministrazione l’adozione del negato provvedimento inibitorio ove non vi siano spazi per la regolarizzazione della denuncia ai sensi del comma 3 dell’art. 19 della legge n. 241/1990;
   c) infine che, nelle more della formazione del titolo tacito, il terzo che abbia avuto conoscenza dell’iniziativa segnalata può proporre un’azione di accertamento autonoma in ordine alla legittimità o meno della SCIA (azione suscettibile di conversione automatica in mezzo impugnatorio in caso di emanazione dell’atto conclusivo del procedimento di verifica) nonché, congiuntamente a tale azione, chiedere la tutela interinale di cui agli artt. 55 e 61 c.p.a..
5.3 - Gli assunti fatti propri dall’autorevole arresto giurisprudenziale richiamato sono stati (pressoché immediatamente) superati con l’introduzione (ad opera dell’art. 6, comma 1, lett. c, del D.L. n. 138/2011) del comma 6-ter dell’art. 19, l. n. 241/1990, il quale disciplina espressamente gli strumenti di tutela del terzo a fronte della segnalazione di un’attività privata per esso lesiva.
Tale norma ha anzitutto previsto che «la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili».
In secondo luogo, il citato comma 6-ter ha precisato che, al fine di contestare la sussistenza dei presupposti dell’attività segnalata da altro soggetto, il terzo ha facoltà:
   a) di «sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione»;
   b) di «esperire –in caso di inerzia di quest’ultima– esclusivamente l’azione di cui all’art. 31, commi 1, 2 e 3 del decreto legislativo 02.07.2010, n. 104».
In altri termini, il nuovo testo dell’art. 19, comma 6-ter obbliga il privato che intenda contrastare l’attività oggetto di SCIA a sollecitare in via amministrativa l’intervento repressivo dell’Ente pubblico e, in caso di mancata risposta di quest’ultimo, a ricorrere in sede giurisdizionale avverso il silenzio dallo stesso serbato.
La citata previsione esclude quindi radicalmente l’ammissibilità –nell’attuale quadro normativo– degli strumenti di tutela a suo tempo riconosciuti dalla sentenza n. 15/2011 dell’Adunanza Plenaria al soggetto pregiudicato dall’altrui segnalazione.
Tanto si evince, in primo luogo, dall’affermazione per cui «la segnalazione certificata di inizio attività, la denuncia e la dichiarazione di inizio attività non costituiscono provvedimenti taciti direttamente impugnabili». Ciò che, evidentemente, nel nuovo contesto disciplinare, manifesta l’intento del legislatore di escludere che l’inerzia dell’Amministrazione nell’attività di verifica abbia il valore di silenzio significativo e, conseguentemente, di espungere l’azione di annullamento dal quadro delle tutele spettanti al terzo avverso l’altrui segnalazione certificata.
In secondo luogo, la suddetta norma precisa che la tutela del controinteressato può essere realizzata «esclusivamente» mediante l’azione avverso il silenzio, ciò che evidentemente rende inammissibili le azioni di accertamento autonome che la sentenza n. 15/2011 consentiva al terzo di esperire nella fase compresa fra la presentazione dell’altrui SCIA e la scadenza dei termini per l’inibitoria ufficiosa.
Ne deriva che l’unico strumento di reazione processuale spettante al terzo in virtù della nuova disposizione è l’azione avverso il silenzio.
6 - L’esposta scelta legislativa impone di stabilire se il potere sollecitato con l’azione avverso il silenzio (proposta dopo il decorso dei termini di cui all’art. 19, commi 3 e 6-bis) sia quello inibitorio ovvero quello di autotutela. Rileva il Collegio come il citato comma 6-ter pare aver (implicitamente) superato le incertezze a suo tempo messe in luce dalla giurisprudenza sotto tale profilo, poiché la formulazione della norma rende evidente che il potere stimolato dal controinteressato mediante il ricorso ex art. 31 c.p.a. è quello inibitorio (avente natura doverosa e vincolata) e non quello di autotutela, caratterizzato invece da alto tasso di discrezionalità. In tal senso depongono molteplici elementi logici e testuali.
6.1 - Il primo di essi è certamente costituito dalla previsione secondo cui il terzo, prima di promuovere l’eventuale ricorso avverso il silenzio, è tenuto a «sollecitare l’esercizio delle verifiche spettanti all’amministrazione». Da tale prescrizione si desume infatti che il controinteressato ha onere di attivare un procedimento di verifica dei presupposti della SCIA separato ed autonomo rispetto a quello ufficioso disciplinato dal comma 3 dell’art. 19 (cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VII, 23.10.2015, n. 4998). Dal che deriva, all’evidenza, che il regime dettato dal comma 4 –secondo cui il potere repressivo ufficioso dell’amministrazione degrada in autotutela dopo il decorso dei termini di cui al comma 3– non è applicabile alla procedura di controllo avviata su istanza del terzo. Al contrario, nell’ambito di tale procedura, l’amministrazione esercita (solo) le proprie potestà inibitorie.
6.2 - Nel senso che il terzo solleciti il potere inibitorio dell’Ente pubblico depone anche il richiamo operato dal comma 6-ter all’art. 31 commi 1 e 2 del d.lgs. n. 104/2010 (d’ora innanzi “c.p.a.”).
Invero, com’è noto, tali norme individuano il presupposto essenziale dell’azione avverso il silenzio nell’inadempimento dell’Ente pubblico all’obbligo di concludere il procedimento amministrativo mediante una determinazione espressa. Obbligo che, com’è noto, non è configurabile rispetto al potere di autotutela, il quale è incoercibile dall’esterno mediante il ricorso contro l’inerzia amministrativa (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. IV, 07.07.2014, n. 3426; id., sez. V, 22.01.2014 n. 322; id., Sez. IV, 22.01.2013, n. 355; con particolare riferimento all’autotutela sulla SCIA: cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 12.11.2015, n. 5161; TAR Campania, Sez. VII, n. 4998/2015).
Ne consegue che il rinvio alle suddette prescrizioni si spiega solo accedendo alla tesi secondo cui terzo –con l’istanza ex art. 19 comma 6-ter– attiva il potere inibitorio dell’Amministrazione.
6.3 - Infine, un’ulteriore (ed ancora più significativa) conferma di tale tesi, è costituita dal richiamo compiuto dal comma 6-ter al comma 3 del citato art. 31 c.p.a., secondo cui il giudice adito con l’azione avverso il silenzio può «pronunciare sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio» nei casi in cui l’Amministrazione ha esaurito le valutazioni discrezionali e gli adempimenti istruttori di sua competenza ovvero quando il potere da essa esercitato ha natura vincolata.
Ora, il riferimento espresso a tale disposizione implica che il terzo esercente la suddetta azione possa richiedere al giudice l’accertamento in ordine alla spettanza o meno del bene della vita oggetto del procedimento (rappresentato, nella specie, dal provvedimento repressivo dell’intervento denunciato) e che, in caso di accertamento positivo, tale giudice possa condannare l’Amministrazione all’emanazione del provvedimento medesimo (cfr. TAR Liguria, Sez. I, 09.04.2013, n. 611). Ciò implica necessariamente che il legislatore –laddove ha richiamato il comma 3 dell’art. 31 c.p.a.– ha implicitamente riconosciuto che gli strumenti di reazione del privato, di cui al comma 6-ter dell’art. 19, sono volti a stimolare la (sola) potestà inibitoria dell’Ente pubblico e non anche il suo intervento in autotutela.
6.4 - In favore di questa soluzione si è peraltro espressa autorevole giurisprudenza, secondo cui «il comma 6-ter dell'art. 19, riservando al terzo la possibilità di sollecitare l'amministrazione ad effettuare le verifiche di sua competenza e contemplando altresì la possibilità che avverso il silenzio mantenuto su tale istanza il terzo possa tutelarsi mediante l'azione ex art. 31 c.p.a., ha evidentemente presupposto che in esito alla presentazione della S.c.i.a. e della D.i.a. non si formi alcun provvedimento espresso o tacito e che pertanto le istanze sollecitatorie del terzo non hanno la finalità di eccitare dei poteri di autotutela amministrativa di secondo grado» (TAR Piemonte, Sez. II, 01.07.2015, n. 1114; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 30.11.2016, n. 2274; id., 15.04.2016, n. 735; id., 21.1.2014, n. 2799; TAR Campania, Napoli, Sez. III, 05.03.2015, n. 1410; TAR Veneto, Sez. II, 12.10.2015, n. 1038 e n. 1039).
6.5. Del resto, l’opposta tesi giurisprudenziale –secondo cui, decorsi i termini di cui all’art. 19 comma 3, il terzo attiva il (mero) potere di autotutela (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4610/2016; id., 22.09.2014, n. 4780; Cons. Stato, Sez. IV, 19.03.2015, n. 1493; TAR Calabria, Sez. I, n. 1533/2016)– oltre ad essere incompatibile con il disposto dell’art. 19, comma 6-ter, per le suesposte ragioni, contrasta con l’interpretazione conforme a Costituzione della norma stessa.
A quest’ultimo proposito, giova ricordare che, secondo il condivisibile principio affermato dalla Plenaria n. 15/2011 (in questa parte non scalfita dall’introduzione del comma 6-ter dell’art. 19), i caratteri dell’interesse pretensivo del terzo impongono «in un’ottica costituzionalmente orientata, di accedere ad una lettura del sistema delle tutele che consenta al terzo stesso di esperire un’azione idonea ad ottenere il risultato della cessazione dell’attività lesiva non consentita dalla legge mediante il doveroso intervento dell’amministrazione titolare del potere di inibizione». In altri termini, secondo la Plenaria, il controinteressato rispetto all’altrui SCIA ha diritto «ad ottenere una pronuncia che impedisca lo svolgimento di un’attività illegittima mediante un precetto giudiziario puntuale e vincolante che non subisca l’intermediazione aleatoria dell’esercizio di un potere discrezionale».
Ebbene, è evidente che la tesi che riconduce l’intervento dell’amministrazione su istanza del terzo al mero potere di autotutela è incompatibile col suddetto principio, poiché subordina integralmente la tutela del terzo stesso ad una valutazione discrezionale dell’Amministrazione in ordine alla sussistenza o meno di un interesse pubblico alla rimozione degli effetti della SCIA contestata.
7 – Il meccanismo di tutela del terzo congegnato dall’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 richiede, per la sua concreta operatività, l’individuazione di tre distinti termini: il primo è il termine entro il quale il terzo deve sollecitare le verifiche spettanti all’amministrazione, presentando la relativa istanza; il secondo è il termine concesso all’amministrazione per pronunciarsi su tale istanza, ovvero quel lasso temporale decorso il quale, come dice la norma, essa deve considerarsi inerte; l’ultimo è il termine entro il quale il terzo deve esperire l’azione avverso il silenzio mantenuto dall’amministrazione sulla sua richiesta di provvedere.
Osserva il Collegio come il secondo e terzo termine siano agevolmente rinvenibili; il termine concesso all’amministrazione per pronunciarsi sull’istanza sollecitatoria del privato, ancorché non fissato espressamente dalla norma in considerazione, è tuttavia agevolmente rinvenibile dal sistema con richiamo alla disciplina generale codificata dall’art. 2 l. n. 241/1990, secondo cui, in mancanza di una diversa previsione normativa espressa, i procedimenti amministrativi ad istanza di parte devono tutti concludersi entro trenta giorni dal ricevimento della domanda da parte dell’amministrazione competente; il termine per la proposizione dell’azione sul silenzio è invece fissato espressamente dall’art. 31 c.p.a., il cui secondo comma precisa che quest’ultima può proporsi fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento.
Non risulta invece fissato dall’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, né ricavabile dal sistema, il termine entro il quale il terzo deve presentare la propria istanza di sollecitazione delle verifiche amministrative, con apertura della possibilità interpretativa in base alla quale il terzo resterebbe sempre libero di presentare l’istanza sollecitatoria dei poteri amministrativi inibitori nonché di agire ex art. 31 c.p.a avverso il silenzio eventualmente serbato dall’Amministrazione, che è esattamente la lettura offerta dalla ricorrente (che richiama solo il termine prescrizionale decennale).
8 –
Ritiene il Collegio che, prima di analizzare l’opzione ermeneutica da ultimo evocata –che, come si vedrà, espone la norma a censure di incostituzionalità– sia necessario procedere ad un’attenta verifica interpretativa circa la possibilità di rinvenire la delimitazione temporale del potere sollecitatorio del terzo da altre previsioni regolanti la materia in questione.
8.1 - Una prima soluzione interpretativa è quella di ritenere che il termine concesso al controinteressato per presentare l’istanza sollecitatoria sia lo stesso che la norma assegna all’amministrazione per l’esercizio del potere inibitorio ufficioso, cioè sessanta ovvero trenta giorni dalla presentazione della SCIA, secondo quanto disposto dai commi 3 e 6-bis dell’art. 19 della L. 241/1990; in tale lettura una volta che l’amministrazione è decaduta dalle potestà inibitorie ufficiose ex art. 19, commi 3 e 6-bis, sarebbe anche definitivamente preclusa la possibilità per il terzo di ottenere un intervento repressivo, con conseguente onere per lo stesso di presentare l’istanza sollecitatoria prima della scadenza dei suddetti termini, onde conservare l’aspettativa alla soddisfazione del suo interesse pretensivo.
Si tratta tuttavia di opzione ermeneutica non convincente, in quanto manifestamente illogica.
I termini in considerazione sono strutturati con riferimento all’esercizio del potere di verifica ufficiosa, il che giustifica che il loro dies a quo sia fatto coincidere con il <ricevimento della segnalazione> da parte dell’amministrazione; ma essi finirebbero per risultare di pratica inoperatività ove applicati all’esercizio del potere sollecitatorio del terzo, atteso che nessuna norma assicura al medesimo la tempestiva comunicazione della presentazione della SCIA né tanto meno dell’inizio dell’attività segnalata; il terzo finirebbe quindi per rimanere privo di qualsiasi forma di tutela ove apprendesse della lesività dell’intervento dopo il decorso del termine concesso all’amministrazione per provvedere; d’altra parte, anche laddove il terzo fosse tempestivo, ma la sua istanza intervenisse in prossimità della scadenza di tale termine, ben difficilmente egli otterrebbe l’intervento di tutela cui aspira, restringendosi l’arco temporale entro il quale l’amministrazione dovrebbe accertare l’illegittimità dell’attività oggetto di SCIA nonché inibirne la prosecuzione.
8.2 - Una seconda prospettiva interpretativa sostiene che la facoltà del controinteressato di proporre l’istanza inibitoria ex art. 19, comma 6-ter, sarebbe soggetta al termine decadenziale di sessanta giorni, valido anche per la proposizione dell’ordinario ricorso annullatorio, termine che, in caso di SCIA, decorrerebbe dalla data in cui l’istante ha avuto notizia della segnalazione per esso lesiva. La tesi è sostenuta da Cons. Stato, Sez. IV, n. 5161/2015 cit. e ripresa dalle sentenze del TAR Lombardia (Milano) Sez. II, 30.11.2016, n. 2274, 15.04.2016, n. 735 e 05.12.2016, n. 2301, le quali precisano inoltre che il terzo, una volta decorso il suddetto termine decadenziale, non rimane del tutto privo di strumenti di reazione, ma conserva, nei confronti dell’Amministrazione, il potere di diffida all’adozione di atti di autotutela.
Il Collegio ritiene non condivisibile la proposta interpretazione.
Si tratta di statuizioni giurisdizionali sicuramente apprezzabili nel loro tentativo di eliminare le incertezze applicative della norma in commento, ma che risultano prive di base normativa, alla luce delle norme sull’interpretazione, e danno conseguentemente luogo ad una inammissibile integrazione pretoria del precetto normativo.
Il problema in esame riguarda infatti l’individuazione del termine assegnato al terzo per sollecitare l’intervento di verifica da parte dell’amministrazione sulla SCIA presentata da altro soggetto; si tratta quindi di termine inerente l’esercizio di una facoltà di attivazione del privato, funzionale a mettere in moto l’esecuzione di verifiche amministrative ad istanza di parte, sulla legittimità della SCIA presentata da altri; l’operazione ermeneutica che ritiene qui applicabile l’ordinario termine di sessanta giorni per la proposizione del ricorso giurisdizionale avverso provvedimenti amministrativi, non tiene conto della diversità ontologica della disciplina invocata (termine per le proposizione di atto “processuale”) rispetto all’ambito di attività in esame (ricerca di termine per attivazione del privato in sede “amministrativa”); non sussiste quindi nella specie il presupposto di “casi simili o materie analoghe” solo ricorrendo il quale è possibile l’utilizzo dell’analogia ai sensi dell’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale.
8.3 - Una terza tesi richiama il termine annuale di cui all’art. 31, comma 2, c.p.a., ritenendo che il terzo debba sollecitare l’amministrazione nell’anno dal deposito della SCIA presso i competenti uffici.
Anche questa tesi non convince, posto che il termine richiamato è concesso al terzo, non per stimolare l’intervento dell’amministrazione, ma per la proposizione dell’azione avverso il silenzio eventualmente formatosi sulla sua istanza; la richiesta di provvedere avanzata dal terzo apre, infatti, una nuova fase procedimentale, all’esito della quale l’amministrazione ha l’obbligo di pronunciarsi con un provvedimento espresso, sia esso di accoglimento (caso della SCIA illegittima) oppure di rigetto (caso della SCIA legittima); nell’ipotesi in cui poi essa rimanga inerte, lasciando inutilmente decorrere il termine di trenta giorni assegnatole, secondo la regola generale di cui all’art. 2 l. n. 241/1990, per la conclusione dei procedimenti amministrativi ad istanza di parte, il terzo potrà proporre l’azione di cui all’art. 31 c.p.a. entro un anno dalla formazione del silenzio.
Ne consegue che anche l’operazione ermeneutica qui evocata, nella misura in cui trasporta il termine annuale dall’art. 31 c.p.a. alla disciplina dell’esercizio della sollecitazione amministrativa del terzo, compie una interpretazione non consentita e che, ancora una volta, confonde un termine processuale (quello dell’art. 31 c.p.a.) con un termine amministrativo (quello per la sollecitazione delle verifiche da parte della p.a.).
8.4 - Una diversa lettura del sistema è fornita da una pronuncia (Cons. Stato, Sez. VI, n. 4610/2016 cit.) che supera invero il problema del termine per la proposizione dell’istanza sollecitatoria, affermando che il soggetto leso dall’iniziativa segnalata è comunque tenuto a proporre il ricorso di cui all’art. 31 c.p.a. entro il termine complessivo di un anno dalla data di acquisita «piena conoscenza dei fatti idonei a determinare un pregiudizio nella sua sfera giuridica».
La tesi non convince.
Essa utilizza il termine annuale dell’art. 31 c.p.a. non come termine per la presentazione della diffida del terzo, ma come termine per la proposizione dell’azione ex art. 31 c.p.a., da proporsi anche prescindendo dalla presentazione della diffida di cui all’art. 19 comma 6-ter l. n. 241/1990, termine che decorrerebbe dalla piena conoscenza della SCIA. Da un primo punto di vista tale ricostruzione risulta contraddire la natura propria del ricorso ex art. 31 c.p.a, il quale presuppone l’avvenuta presentazione di un’istanza di avvio (ovvero l’attivazione ufficiosa) di un procedimento amministrativo e la formazione del c.d. silenzio-inadempimento dell’amministrazione procedente. D’altra parte essa contrasta con il chiaro disposto del comma 2 del medesimo art. 31, secondo cui l’azione avverso il silenzio «può essere proposta fintanto che perdura l’inadempimento e, comunque, non oltre un anno dalla scadenza del termine di conclusione del procedimento».
Pertanto, anche la suddetta impostazione non appare al Collegio idonea a superare le criticità riscontrate.
8.5 - Né varrebbe a sanare la criticità in esame il richiamo del termine di 18 mesi previsto per l’annullamento d’ufficio dall’art. 21-nonies (come modificato dalla l. 124/2015) ed oggi applicabile anche all’intervento in autotutela sulla SCIA in base al combinato disposto della suddetta norma con l’art. 19, comma 4, l. n. 241/1990.
Invero, tale soluzione risulterebbe in contrasto con il disposto dell’art. 19, comma 6-ter, in primo luogo, poiché quest’ultimo consente al terzo di stimolare l’esercizio del potere inibitorio puro (e non dell’autotutela) dell’Ente pubblico. In secondo luogo, perché tale termine, riferendosi all’autotutela ufficiosa, risulta difficilmente conciliabile con le caratteristiche di un procedimento ad istanza di parte, come quello attivato dal terzo ai sensi dell’art. 19, comma 6-ter.
Tanto appare, peraltro, confermato da quanto prevede oggi l’art. 2, comma 4, del d.lgs. n. 222/2016, secondo cui, nei casi di autotutela sulla SCIA, il suddetto periodo di 18 mesi «decorre dalla data di scadenza del termine previsto dalla legge per l’esercizio del potere ordinario di verifica da parte dell’amministrazione competente». Ciò che chiarisce la riferibilità del suddetto limite temporale alle (sole) potestà repressive esercitate dall’Amministrazione in via ufficiosa.
Da tutto ciò consegue, che l’applicazione della suddetta disposizione al procedimento di cui all’art. 19, comma 6-ter, esorbiterebbe totalmente dai limiti che l’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale impone all’interpretazione analogica del giudice e, in definitiva, si tradurrebbe in una inammissibile modificazione pretoria dell’ambito applicativo del precetto legislativo.
9 – Le considerazioni che precedono evidenziano chiaramente che l’attuale regime della SCIA non prevede un termine per la presentazione da parte del terzo dell’istanza sollecitatoria delle verifiche amministrative di cui all’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 e che tale termine non è desumibile dal sistema normativo, con la conseguenza che la diffida del terzo dovrebbe ritenersi tempestiva anche se proposta a notevole distanza di tempo dall’avvenuto deposito della segnalazione presso l’Ente competente.
Ritiene tuttavia il Collegio che una simile lettura si porrebbe in evidente contrasto con l’esigenza di tutelare l’affidamento del segnalante circa la legittimità dell’iniziativa intrapresa, con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione nonché con il generale principio di certezza dei rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione. Ne consegue che, ad avviso del Collegio, l’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, nella misura in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo dei poteri di verifica amministrativa della SCIA presentata da altri, si espone a dubbi di legittimità costituzionale che risultano rilevanti nella presente fattispecie e non manifestamente infondati.
10 –
La prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, cit. risulta connotata dal requisito della rilevanza, ai fini della proposizione della questione incidentale di costituzionalità.
La rilevanza discende dalla diretta applicabilità al caso concreto della norma la cui costituzionalità è messa in discussione (cfr. Corte Cost., ordd. nn. 264/2015; 111/2009) e deve valutarsi alla stregua del criterio della pregiudizialità, in virtù del quale la rilevanza va affermata ogniqualvolta la causa non possa essere definita indipendentemente dalla risoluzione della questione (cfr. Corte Cost., sentt. nn. 270/2010; 151/2009; 303/2007; 50/2007; 84/2006).
Non è dubitabile che nella fattispecie in esame debba farsi applicazione della disciplina di cui all’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 e che la questione controversa non possa essere definita senza fare applicazione della suddetta norma e affrontando da parte del giudice il tema del termine entro il quale il terzo può porre in essere l’intervento sollecitatorio delle verifiche spettanti all’amministrazione.
In primo luogo, infatti, come risulta dalla narrativa in fatto, la ricorrente sig.ra Pa.Mu. ha posto in essere una serie di atti di sollecitazione del potere di verifica da parte dell’amministrazione della legittimità della SCIA presentata dal sig. Em.Ca. in data 06.12.2012; essa in particolare ha sollecitato il Comune di Campi Bisenzio ad effettuare le suddette verifiche con note del 12.11.2015, 16.12.2015, 12.04.2016, 23.06.2016 e 14.09.2016, quest’ultima istanza proposta anche espressamente ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 l. n. 241/1990. In secondo luogo, come chiarito nella narrativa in fatto, nel giudizio di merito questo Tribunale Amministrativo, sciolte altre questioni pregiudiziali, ha dovuto affrontare l’eccezione di tardiva sollecitazione dei poteri di verifica da parte del terzo, sollevata dalla parti resistenti, ed ha ritenuto che tale questione non fosse risolvibile senza la proposizione della presente questione di costituzionalità. Allo stato della legislazione la suddetta eccezione dovrebbe essere respinta.
Come già ampiamente illustrato, il comma 6-ter non prevede un termine entro il quale il terzo debba sollecitare l’intervento dell’amministrazione, né tale termine, come sopra evidenziato, può ricavarsi dal sistema, con la conseguenza che, stando così le cose, appare del tutto irrilevante la circostanza che, rispetto alla data di presentazione della SCIA edilizia da parte del Sig. Em.Ca., avvenuta il 06.12.2012, la Sig.ra Pa.Mu. abbia atteso ben due anni ed undici mesi per rivolgersi al Comune di Campi Bisenzio (la prima richiesta di intervento è del 12.11.2015) ed addirittura tre anni e nove mesi (se si considera l’istanza del 14.09.2016) prima di stimolare l’Ente ad esercitare i poteri inibitori ai sensi del comma 6-ter dell’art. 19 l. n. 241/1990.
D’altra parte l’azione giudiziaria ai sensi dell’art. 31 c.p.a. risulta proposta nell’anno dalla formazione del silenzio sulla richiesta di provvedere rivolta dalla medesima all’amministrazione; dagli atti di causa si rileva infatti che la Sig.ra Pa.Mu. ha notificato il proprio ricorso in data 23.10.2016 e, quindi, anche considerando la prima delle istanze dalla stessa formulate, ovvero quella del 12.11.2015, entro il prescritto termine di un anno; posto, infatti, che su tale istanza il silenzio si è formato il 12.12.2015 (e cioè, secondo quanto disposto dall’art. 2 della L. 241/1990, decorsi trenta giorni dalla presentazione dell’istanza senza che l’amministrazione si sia pronunciata su di essa) e che il menzionato termine di un anno è cominciato a decorrere proprio da tale data, la ricorrente avrebbe avuto a disposizione sino al 12.12.2016 per proporre l’azione avverso il silenzio mantenuto dal Comune di Campi Bisenzio.
Ne consegue, come già rilevato, che in applicazione della disciplina vigente, questo Tribunale Amministrativo dovrebbe dichiarare la infondatezza dell’avanzata eccezione di tardività. Ma, ad avviso del Collegio, la mancata fissazione di un termine entro il quale il terzo debba sollecitare le verifiche spettanti all’amministrazione si pone in contrasto, come meglio si vedrà di seguito, con una serie di parametri costituzionali.
La pronuncia della Corte costituzionale che dovesse accogliere la questione di legittimità costituzionale, come di seguito proposta, avrebbe sicuri effetti sulla decisione della presente questione, sia nell’ipotesi di pronuncia additiva, con la quale cioè la Corte dovesse fornire al giudice remittente il parametro temporale sulla cui base verificare la tardività o meno della sollecitazione dei poteri inibitori da parte del terzo, sia nell’ipotesi di declaratoria pura della illegittimità dell’art. 19, comma 6-ter, cit. per mancata previsione del termine di sollecitazione da parte del terzo dei poteri di verifica dell’amministrazione, la quale ultima renderebbe inoperativo, sino all’intervento additivo del legislatore, il sistema del silenzio-inadempimento, imponendo all’interprete, al fine di decidere la controversia, di applicare il diritto vivente così come ricostruito dalla giurisprudenza anteriormente all’introduzione del comma 6-ter da parte del legislatore medesimo.
11 –
Ritiene il Collegio che la mancanza di indicazione di un termine entro il quale il terzo possa sollecitare le verifiche amministrative sulla SCIA presentata da altri renda l’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990 costituzionalmente illegittimo.
In punto di non manifesta infondatezza, il Collegio evidenzia come la citata disposizione normativa contrasta con svariati principi di rilievo costituzionale, tra cui, in primo luogo, quello di tutela dell’affidamento del segnalante (quale desumibile dagli articoli 3, 11 e 117, co. 1 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE), in secondo luogo, quello del buon andamento dell’azione amministrativa (art. 97 Cost.) ed infine quello di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di tutela dei livelli essenziali di cui all’art. 117, comma 2, lett. m) Cost..
11.1 – In primo luogo il Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, laddove non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche amministrative, per violazione della necessaria tutela dell’affidamento del segnalante, come desumibile dagli artt. 3, 11 e 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE.
L’esigenza di tutelare l’affidamento circa la stabilità dei rapporti tra privato e pubblica amministrazione costituisce principio cardine dell’attività amministrativa in tutti i settori dell’intervento pubblico.
A questo proposito, già con la sentenza del 12.07.1957, Algera, C-7/56 e C- 3-7/57, la Corte di Giustizia Europea ha riconosciuto che l’affidamento del privato circa la stabilità del provvedimento amministrativo a lui favorevole dev’essere tutelato anche laddove l’Amministrazione disponga di un potere amministrativo repressivo del provvedimento stesso (quale quello di revoca e/o annullamento d’ufficio). In particolare, tale principio impone che i suddetti poteri vengano esercitati dall’Ente pubblico «almeno entro un limite di tempo ragionevole» dal rilascio dell’atto ampliativo della sfera giuridica del privato. Tale principio è stato poi ripetutamente confermato dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis CGCE, 03.03.1982, Alpha Steel Ltd. c. Commissione, C-14/81; id., 26.02.1987, Consorzio Cooperative d’Abruzzo c. Commissione, C-15/85).
Com’è noto, peraltro, il suddetto assunto ha trovato riconoscimento espresso nell’ordinamento nazionale, il quale, con varie disposizioni, ha sancito un limite temporale alla possibilità per l’Amministrazione di tornare su decisioni precedentemente adottate ed incidenti sulla sfera giuridica di soggetti privati. Così ad esempio l’art. 1, comma 136, della l. 311/2004 (non più vigente), stabiliva che l’annullamento d’ufficio di provvedimenti amministrativi incidenti su rapporti negoziali non potesse «essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante».
Analogamente, l’art. 21-nonies l. n. 241/1990 ha sancito che l’annullamento ufficioso di un (qualsivoglia) atto amministrativo debba intervenire «entro un termine ragionevole». Peraltro, a seguito delle modifiche introdotte a tale norma dalla l. 124/2015, si è precisato che il suddetto termine ragionevole non può comunque eccedere i «diciotto mesi dal momento dell'adozione dei provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici».
Ebbene, il citato principio di affidamento trova applicazione anche in materia di SCIA.
Al riguardo, si ricorda che l’art. 19, comma 4, l. n. 241/1990 prevede che «decorso il termine per l’adozione dei provvedimenti di cui al comma 3, primo periodo, ovvero di cui al comma 6-bis (cioè degli atti propriamente inibitori), l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 alle condizioni previste dall'articolo 21-nonies»: e cioè (tra l’altro) nel rispetto del suddetto termine ragionevole.
Ebbene, come recentemente chiarito dalla Corte costituzionale (pronunciatasi in un caso di SCIA edilizia), le suddette previsioni «debbono considerarsi il necessario completamento della disciplina dei titoli abilitativi, poiché la individuazione della loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza rispetto alle verifiche effettuate dall’Amministrazione successivamente alla maturazione degli stessi». Più nello specifico, la Corte ha chiarito che il rinvio all’autotutela (e conseguentemente al termine ragionevole di cui all’art. 21-nonies) contenuto in suddette norme «si colloca allo snodo delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo ed il suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento del privato, dall’altra» (Corte Cost. n. 49/2016).
In altri termini –secondo la Corte– le suddette previsioni hanno espressamente tutelato l’affidamento del segnalante in ordine alla legittimità dell’intervento denunciato, prevedendo che il mancato esercizio dei poteri inibitori puri entro i termini perentori di cui all’art. 19, commi 3 e 6-bis, fondi una legittima aspettativa del privato circa la legittimità dell’iniziativa intrapresa. Aspettativa che può essere nuovamente posta in discussione dall’Ente pubblico solo mediante ricorso alle forme (aggravate) dell’autotutela decisoria e che si consolida definitivamente con il decorso dell’ulteriore termine di 18 mesi per l’esercizio di tale autotutela.
È ben vero che il sistema introdotto dal citato art. 19, comma 4, non può operare laddove la verifica dei presupposti della SCIA sia stata sollecitata dal terzo ai sensi del comma 6-ter del medesimo articolo (infatti, come sopra chiarito, l’attuale testo dell’art. 19 consente al controinteressato di attivare un autonomo procedimento di controllo sulla legittimità della segnalazione, il quale deve concludersi, in caso di accertata insussistenza dei presupposti di legge, con un provvedimento di repressione dell’attività abusiva).
Tuttavia, è evidente che le esigenze di salvaguardia dell’affidamento del segnalante si ripropongono (con analoga cogenza) anche nei rapporti tra quest’ultimo ed il terzo proponente l’istanza di cui all’art. 19, comma 6-ter. Sarebbe infatti irragionevolmente discriminatoria l’interpretazione che riconoscesse tutela all’affidamento dell’autore della segnalazione solo nei confronti dell’iniziativa repressiva ufficiosa dell’amministrazione e non anche rispetto alle verifiche che quest’ultima effettua su richiesta del controinteressato.
Pur a fronte di ciò, tuttavia, la norma in esame non prevede un termine per la proposizione dell’istanza diretta a stimolare tali verifiche e conseguentemente espone il segnalante al rischio permanente dell’inibizione dell’attività iniziata. Così facendo, l’attuale meccanismo legislativo, da un lato esaspera la tutela del terzo, d’altro lato pretermette quella del segnalante e, in definitiva, vanifica l’intento (chiaramente palesato dal testo complessivo dell’art. 19) di favorire il consolidamento dell’aspettativa del segnalante stesso per effetto del mero decorso del tempo.
Da quanto sopra, ad avviso del Collegio, emerge la violazione dei principi nazionali e comunitari in materia di affidamento, nonché la violazione dell’art. 3 Cost., essendo irragionevole che la tutela dell’affidamento venga espressamente contemplata (con la temporizzazione dell’intervento) a fronte dell’esercizio dell’autotutela amministrativa e non a fronte dell’esercizio dei poteri di verifica attivati dal terzo.
La SCIA è infatti idonea ad ingenerare nel segnalante –a fronte del mancato esercizio dei poteri amministrativi repressivi– un certo affidamento in ordine alla legittimità dell’intervento avviato. Affidamento che dev’essere garantito –sia nei confronti dell’amministrazione che in quelli del controinteressato– mediante la fissazione di precisi termini entro (e non oltre) i quali i controlli amministrativi sulla regolarità della SCIA non possono più essere attivati né in via ufficiosa, né su istanza di parte.
Alla luce di quanto sopra, dunque, risulta evidente l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, il quale –in aperto contrasto con i suddetti principi– attribuisce al terzo un potere di sollecito a tempo indeterminato nei confronti dell’Ente pubblico e, conseguentemente, restituisce a quest’ultimo una potestà di intervento sine die sull’iniziativa denunciata.
A ciò si aggiunga che, con specifico riguardo alla materia edilizia, la suesposta soluzione normativa dà luogo ad un’irragionevole disparità di trattamento dei privati il cui intervento sia assoggettato, rispettivamente, al regime della SCIA ovvero a quello del permesso a costruire, ponendo ulteriore questione di violazione dell’art. 3 Cost..
Invero, com’è noto, in quest’ultimo caso lo strumento di tutela azionabile dal controinteressato è l’azione di annullamento del titolo abilitativo eventualmente rilasciato al richiedente. In tale ipotesi, dunque, l’affidamento di quest’ultimo è garantito dalla previsione del termine decadenziale generale di sessanta giorni per l’esperimento della suddetta azione, decorso il quale il permesso diventa inoppugnabile e l’aspettativa del richiedente stesso si consolida definitivamente (almeno nei confronti dei controinteressati).
Viceversa, in caso di SCIA, l’art. 19, comma 6-ter, codifica il principio opposto: di fronte ai terzi lesi dall’iniziativa segnalata, l’interesse del segnalante alla prosecuzione di quest’ultima non si consolida mai e, al contrario, recede sempre a fronte della pretesa dei terzi stessi alla rimozione dell’attività per essi lesiva.
Orbene, pur non potendosi predicare la necessaria parificazione delle tutele del segnalante e del soggetto richiedente il permesso di costruire, data la notevole differenza dei citati meccanismi abilitativi, è pur vero che tale diversità non giustifica la totale pretermissione (ma casomai il diverso bilanciamento) dell’affidamento maturato in capo all’autore della SCIA. Pena il crearsi di un’irragionevole disparità di trattamento tra posizioni soggettive aventi contenuto (se non analogo, quantomeno) affine.
Da quanto sopra deriva, ad avviso di questo Tribunale, la violazione dei principi costituzionali sopra richiamati.
11.2 – La prospettata questione di illegittimità costituzionale risulta del pari non manifestamente infondata per contrasto della norma in questione con i principi di ragionevolezza e buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost..
A questo proposito, merita anzitutto osservare che il meccanismo introdotto dall’art. 19, comma 6-ter, impone all’amministrazione, su semplice istanza del terzo, di avviare un procedimento di verifica a contenuto (in tutto e per tutto) analogo a quello già svolto in via ufficiosa ai sensi dell’art. 19 comma 3.
Peraltro, come sopra chiarito, la citata norma non prevede un termine per la presentazione della suddetta istanza, con la conseguenza che l’Ente pubblico è tenuto a verificare nuovamente i presupposti dell’attività segnalata anche qualora sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla relativa comunicazione.
Ora, è chiaro che il suesposto modello si pone in contrasto con i principi di cui alle citate norme costituzionali, nella misura in cui impone all’amministrazione, quale che sia il momento in cui sopravviene l’istanza del controinteressato, di rivedere la posizione assunta in precedenza (in sede di verifica ufficiosa) circa la legittimità dell’iniziativa segnalata.
Sul punto, si rileva anzitutto che la fissazione di precisi limiti temporali entro cui devono essere adottati i provvedimenti definitivi in ordine alle procedure (ivi comprese quelle di verifica) di competenza dell’amministrazione costituisce «applicazione generale…, sia pure non esaustiva, del principio costituzionale di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 della Costituzione) negli obiettivi di tempestività, pubblicità, partecipazione dell'azione amministrativa, quali valori essenziali in un ordinamento democratico» (Corte cost. n. 262/1997). Invero, è evidente che il rispetto dei termini perentori entro cui devono essere conclusi gli accertamenti e le valutazioni rimessi agli apparati pubblici incentiva l’efficienza degli apparati stessi nonché la ponderazione delle scelte adottate, stante l’impossibilità del loro ripensamento.
Viceversa, la possibilità incondizionata di rivalutare –anche a notevole distanza di tempo– l’assetto di interessi raggiunto con le precedenti determinazioni produce un effetto deflattivo sull’efficienza, aumenta il rischio di adozione di decisioni contraddittorie da parte dello stesso Ente e, in definitiva, pregiudica il buon andamento dell’azione pubblica.
Peraltro, si evidenzia che, riguardo al controllo ufficioso sulla legittimità o meno della SCIA, il legislatore ha fissato precisi termini alle facoltà di intervento dell’amministrazione (tanto in via inibitoria quanto in via di autotutela). Dacché si desume che lo stesso regime del controllo ufficioso prevede un limite temporale oltre il quale l’interesse pubblico all’eliminazione delle attività abusive viene meno, prevalendo su di esso l’esigenza di certezza dei rapporti tra privati e Pubblica Amministrazione.
E’ dunque evidente che la riapertura del procedimento di verifica dei presupposti della SCIA a fronte di un’istanza presentata dal terzo oltre i suddetti limiti temporali non può dirsi funzionale alla tutela di alcun interesse pubblico, il quale invece recede a fronte delle suddette esigenze di certezza.
Al contrario, il riavvio del suddetto procedimento si traduce in un inutile dispendio di attività per l’Ente pubblico, il quale, dopo un periodo di tempo (anche notevole) dalla presentazione della SCIA, sarebbe tenuto ad intraprendere una complessa attività istruttoria volta ad accertare l’originaria legittimità o meno dell’attività segnalata.
Peraltro tale ulteriore aggravio non trova assolutamente giustificazione nel rango dell’interesse tutelato dall’art. 19, comma 6-ter.
Infatti tale norma salvaguarda (solo) un’aspettativa individuale: quella del terzo leso dall’iniziativa segnalata a che la stessa iniziativa venga interrotta. Nondimeno, l’Ente pubblico, quando procede su istanza del controinteressato è sempre tenuto a provvedere in via inibitoria (anche a discapito del buon andamento amministrativo e dell’affidamento del segnalante). Viceversa, quando procede alle verifiche ufficiose –le quali assicurano il ben più pregnante interesse collettivo al controllo sul legittimo avviamento delle attività regolamentate– l’Ente stesso è tenuto a rispettare gli stringenti limiti temporali imposti dall’art. 19 commi 3, 4 e 6-bis. Ciò che evidentemente configura un meccanismo di tutela sproporzionatamente asimmetrico in capo al segnalante a seconda che l’attivazione delle verifiche amministrative avvenga in via ufficiosa o ad istanza del terzo.
Né in senso contrario può sostenersi che l’esclusione di una simile potestà di intervento sine die pregiudicherebbe le esigenze di contrasto agli illeciti commessi dai privati nei vari settori di attività in cui trova applicazione l’istituto della SCIA. Invero, per tutelare tali esigenze l’Amministrazione dispone di autonomi poteri repressivi sottratti al regime generale dell’art. 19 della l. n. 241/1990 (così ad esempio, nella materia che ci occupa, l’Amministrazione stessa dispone di poteri c.d. di “vigilanza edilizia” -cfr. artt. 27, 30-34, 37 del D.P.R. n. 380/2001– che sfuggono anche al «termine ragionevole» di cui all’art. 21-nonies: ex multis TAR Lazio, Roma, Sez. I-quater, 22.4.2016, n. 4713). Ma tali poteri non comportano un riesame della legittimità originaria dell’intervento già assentito con il precedente titolo abilitativo. Bensì attengono al riscontro di eventuali successive violazioni del titolo stesso ovvero alla repressione di iniziative intraprese senza previa consultazione dell’autorità competente.
Con la conseguenza che neanche la generale esigenza di repressione degli abusi nei settori di attività non liberalizzate (quale è in buona parte l’attività edilizia) giustifica il modello di tutela del terzo introdotto dall’art. 19, comma 6-ter.
Orbene, le suesposte considerazioni mostrano già come tale modello costituisca un ostacolo al buon andamento dell’azione amministrativa, traducendosi potenzialmente in un notevole aggravio di attività per l’Amministrazione coinvolta, con effetti pregiudizievoli per i valori di celerità, stabilità ed efficienza sopra richiamati.
Vi è tuttavia un altro dato che rende evidente il contrasto tra la citata norma ed il suddetto principio costituzionale, ossia il rischio di un vero e proprio stallo delle Amministrazioni preposte al controllo delle attività oggetto di SCIA, a causa delle incertezze interpretative derivanti dall’attuale formulazione dell’art. 19, comma 6-ter.
A questo proposito, giova premettere che –come ripetutamente chiarito dal Giudice delle leggi– il principio del buon andamento sancito dall’art. 97 Cost. rappresenta, non solo un parametro di legittimità dell’azione amministrativa, ma anche un canone per il corretto esercizio della potestà normativa, in virtù del quale il legislatore deve assicurare quanto più possibile la chiarezza ed univocità interpretativa delle norme che l’amministrazione è tenuta ad applicare nell’esercizio del potere pubblico. Configurandosi, in caso contrario, un vizio capace di inficiare la stessa legittimità costituzionale della legge approvata.
Ed invero, la Corte costituzionale ha più volte sancito che «non è conforme a tale disposizione (art. 97 Cost.) l’adozione, per regolare l’azione amministrativa, di una disciplina normativa “foriera di incertezza”, posto che essa può tradursi in cattivo esercizio delle funzioni affidate alla cura della pubblica amministrazione» (Corte Cost., 16.04.2013, n. 70; Corte Cost., 22.12.2010, n. 364; in termini –anche se con riguardo alla violazione dell’art. 3 Cost.– Corte Cost., 20.07.2012, n. 200).
Ebbene, è evidente che la norma in questione pone l’Ente pubblico –chiamato a provvedere sull’istanza sollecitatoria del terzo– in stato di totale incertezza in ordine all’esistenza (o meno) di un obbligo a provvedere sull’istanza medesima.
Invero, a seconda dell’interpretazione data dall’Ente alla disposizione in esame, il sollecito del privato può ritenersi, di volta in volta, tardivo ovvero tempestivo. Con la conseguenza che, nel primo caso, l’Amministrazione è legittimata a dichiarare l’irricevibilità dell’istanza senza previo svolgimento di alcuna istruttoria (cfr. art. 2 comma 1, l. 241/1990). Viceversa, nel secondo caso, essa è tenuta a svolgere la verifica sui presupposti della SCIA ed a concluderla tramite l’emanazione di un atto espresso, pena la proposizione dell’azione di cui all’art. 31 c.p.a. da parte del terzo pretermesso.
Del resto, la molteplicità delle tesi proposte dalla giurisprudenza in ordine all’individuazione del termine per la presentazione dell’istanza del controinteressato, da un lato, acuisce le difficoltà interpretative poste dall’art. 19 comma 6-ter a carico dell’amministrazione e, d’altro lato, conferma la sostanziale incertezza del disposto di tale articolo. Dacché emerge, plasticamente, il contrasto di quest’ultimo con i suesposti principi costituzionali.
11.3 - Fermo quanto sopra, il Collegio ritiene che la non manifesta infondatezza della questione in oggetto emerga altresì dal contrasto tra la norma censurata ed il canone di ragionevolezza delle scelte legislative sancito nell’art. 3 Cost, in relazione all’art. 117, co. 2, lett. m, Cost..
Sul punto, si osserva anzitutto che svariate disposizioni di legge riconducono la normativa nazionale in materia di SCIA ai «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» e che, com’è noto, sono rimessi alla competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’art. 117, co. 2, lett. m), Cost. (cfr. art. 29, comma 2-quater l. 241/1990; art. 49, comma 4-ter, d.l. 78/2010, conv. con l. 122/2010).
Peraltro, nel condividere il suddetto assunto legislativo, la Corte Costituzionale ha chiarito che tutto il meccanismo della segnalazione certificata di inizio attività costituisce «prestazione specifica» dello Stato nei confronti del cittadino anche laddove viene tutelato «il diritto dell’interessato ad un sollecito esame, da parte della pubblica amministrazione competente, dei presupposti di diritto e di fatto che autorizzano l’iniziativa medesima» (Corte Cost., 27.06.2012, n. 164).
Tale assunto si riferisce evidentemente ai controlli amministrativi sulla legittimità o meno della SCIA che, secondo il Giudice delle leggi, devono essere assistiti dalla previsione legislativa di puntuali limiti temporali, diretti ad assicurare il «sollecito esame» dell’iniziativa denunciata e, in quanto tali, rientranti nei “livelli essenziali” di tutela della posizione del segnalante ex art. 117, comma 2, lett. m) Cost..
La suddetta affermazione –benché espressa dalla Corte con precipuo riferimento ai controlli ufficiosi di cui all’art. 19, commi 3, 4 e 6-bis– non può non valere anche riguardo alle verifiche amministrative svolte su istanza del terzo. Invero, rispetto a queste ultime, la posizione del segnalante presenta le stesse esigenze di sollecita definizione del procedimento inibitorio che le citate norme tutelano quando il procedimento stesso è avviato d’ufficio dall’Ente pubblico.
Sennonché, mentre rispetto a tali controlli ufficiosi il segnalante può contare sulla previsione di specifici termini decadenziali entro cui i controlli stessi devono necessariamente concludersi (e che, come detto, costituiscono “livelli essenziali” ex art. 117, co. 2, lett. m, Cost.), l’art. 19, comma 6-ter, non prevede alcun limite temporale alla possibilità che il terzo solleciti il potere inibitorio dell’amministrazione. Con la conseguenza che il termine per il compimento di tale sollecito resta escluso dal novero dei livelli essenziali di cui all’art. 117 comma 2, lett. m), Cost.
Tale soluzione normativa è palesemente irragionevole, poiché omette di disciplinare un elemento indispensabile alla tenuta complessiva del meccanismo semplificatorio introdotto dal legislatore e da quest’ultimo ascritto ai livelli essenziali delle prestazioni garantite su scala nazionale.
A questo proposito, è appena il caso di accennare che –secondo l’interpretazione datane dalla giurisprudenza costituzionale– l’art. 117, comma 2, lett. m) Cost. pone, in materia di livelli essenziali, una riserva di legge (relativa, ma) rinforzata «in quanto vincola il legislatore ad apprestare una garanzia uniforme sul territorio nazionale» (Corte Cost., 19.12.2012, n. 297). In particolare, nell’attuazione di tale riserva, il legislatore è tenuto a determinare gli «standard strutturali e qualitativi delle prestazioni da garantire (come detto, in modo uniforme) agli aventi diritto» (Corte Cost. 10.6.2010, n. 207; id., 05.04.2013, n. 62; id., 15.01.2010, n. 10), dacché deriva che la riserva stessa, oltre a ripartire le competenze normative in materia di livelli essenziali, impone al legislatore di prevedere standards minimi uniformi delle prestazioni riconducibili ai livelli stessi.
È evidente che nei suddetti standards minimi non possono non rientrare anche i termini per la conclusione dei controlli amministrativi sui presupposti della SCIA tanto nei casi in cui l’iniziativa repressiva è avviata d’ufficio dall’Ente pubblico (come del resto già affermato dalla citata sentenza n. 164/2012) quanto nelle ipotesi in cui il procedimento inibitorio è avviato su istanza del terzo.
Invero, la mancata previsione di tali termini è idonea a vanificare del tutto la prestazione somministrata dallo Stato al cittadino sotto forma di semplificazione delle procedure abilitative per lo svolgimento di attività (come quella edilizia) non liberalizzate. Se in teoria infatti la semplificazione dovrebbe consentire di raggiungere il medesimo risultato (assentimento dell’iniziativa privata) con un iter amministrativo più snello di quello ordinario, l’attuale disciplina della SCIA risulta contraddittoria con tali finalità: da un lato invero, essa non assicura sempre una riduzione dell’attività burocratica (poiché il procedimento di verifica dei presupposti della segnalazione può essere avviato più volte a fronte di plurime istanze di soggetti controinteressati); e, d’altro lato, tale disciplina non conduce mai ad una regolamentazione definitiva degli interessi contrapposti nella vicenda amministrativa, residuando sempre un potere-dovere dell’Amministrazione di rimettere in discussione la legittimità originaria dell’intervento segnalato, ogniqualvolta essa riceva una domanda di intervento da parte di un terzo.
Peraltro, si evidenzia che l’esclusione dal novero dei livelli essenziali del termine per l’esercizio del potere sollecitatorio di cui all’art. 19, comma 6-ter, rischia di pregiudicare l’esigenza di uniformità normativa che caratterizza l’istituto della SCIA nel suo complesso. Invero, tale opzione legislativa, data la peculiare natura della riserva posta dall’art. 117, comma 2, lett. m), Cost. (la quale consente l’intervento regionale sugli aspetti di dettaglio del regime dei livelli essenziali: cfr. Corte Cost. n. 297/2012 cit.), apre la strada a discipline territoriali eterogenee del suddetto termine, con conseguente disomogeneità degli standards di tutela a livello nazionale.
Da tali considerazioni emerge, ad avviso del Collegio, l’assoluta illogicità e sproporzione del meccanismo di tutela sine die apprestato dall’art. 19, comma 6-ter, alla posizione del soggetto leso dall’altrui SCIA nonché, in definitiva, un’illegittima compressione dei livelli essenziali delle prestazioni riconosciute al segnalante dalla norma nazionale.
Alla luce di quanto sopra, dunque, il precetto normativo censurato risulta palesemente incostituzionale.
12 – Alla luce delle considerazioni che precedono
il Collegio ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 6-ter, l. n. 241/1990, nella parte in cui non prevede un termine per la sollecitazione da parte del terzo delle verifiche sulla SCIA, per contrasto con gli artt. 3, 11, 97, 117, co. 1 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU ed all'art. 6, paragrafo 3, del Trattato UE, e 117 comma 2 lett. m) Cost..
Dispone quindi la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione della suddetta questione, sospendendo nelle more il presente giudizio.

EDILIZIA PRIVATA: Se sia consentito all’amministrazione comunale irrogare la sanzione pecuniaria di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 ad un soggetto che non sia il responsabile dell’abuso edilizio, e che non rientri neppure tra i soggetti di cui al precedente art. 29.
Il secondo comma dell’art. 34 dpr 380/2001 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere sanzionati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo”.
L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori.
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori.

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11. Il ricorso è fondato e va accolto, negli stretti limiti e per le ragioni qui di seguito precisate.
Va osservato, preliminarmente, che la quasi totalità delle argomentazioni difensive sviluppate dalla ricorrente nella prolissa illustrazione dei motivi di ricorso ha lasciato del tutto ai margini la questione centrale oggetto del presente giudizio, l’unica che avrebbe meritato una più attenta disamina: e cioè se sia consentito all’amministrazione comunale irrogare la sanzione pecuniaria di cui all’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001 ad un soggetto che non sia il responsabile dell’abuso edilizio, e che non rientri neppure tra i soggetti di cui al precedente art. 29.
Questione centrale, quest’ultima, che la parte ricorrente ha indubbiamente intercettato –più casualmente che consapevolmente, peraltro, visto il contesto in cui è avvenuto– soltanto in alcune considerazioni esposte a sostegno della domanda cautelare (pagg. 66-67), allorché essa ha rilevato di non essere lei l’autrice dell’abuso edilizio, di aver acquistato solo di recente la proprietà del fabbricato, edificato alla fine degli anni ’70, e di aver ignorato l’esistenza dell’abuso fino all’avvio del procedimento amministrativo sfociato nell’irrogazione della sanzione impugnata.
Il collegio, benché le predette considerazioni non siano state svolte all’interno di un motivo di ricorso formalmente rubricato, ma solo nella illustrazione della domanda cautelare, ritiene di doverle comunque valorizzare in un’ottica di giustizia sostanziale e di doverle valutare alla luce del presupposto implicito da cui muovono le censure formulate dalla ricorrente con i primi due motivi di ricorso, vale a dire l’inapplicabilità al caso di specie dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001.
12. La Sezione si è già occupata di una fattispecie analoga a quella oggetto del presente giudizio nella sentenza n. 1204/2013 del 15.11.2013.
12.1. Ha osservato la Sezione che “Il secondo comma dell’art. 34 prevede, come è noto, l’applicazione della sanzione pecuniaria pari al doppio del costo di costruzione e non specifica espressamente in capo a quali soggetti la sanzione debba essere applicata.
La questione è tuttavia risolta in termini inequivoci dall’art. 29 del T.U. Edilizia, ai cui sensi possono essere sanzionati il titolare del permesso di costruire, il committente, il costruttore ed il direttore dei lavori, che sono responsabili “ai fini e per gli effetti delle norme contenute nel presente capo”. L’ultimo periodo del primo comma dell’art. 29 specifica, poi, che essi soltanto sono “tenuti al pagamento delle sanzioni pecuniarie e solidalmente alle spese per l’esecuzione in danno, in caso di demolizione delle opere abusivamente realizzate, salvo che dimostrino di non essere responsabili dell’abuso”.
Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che ogni sanzione amministrativa, anche in materia edilizia, va comminata nei confronti del responsabile dell’abuso edilizio contestato, che ai sensi dell’art. 29 T.U. Edilizia non è soltanto il costruttore, ma anche il committente, mentre il proprietario non autore dell’abuso e non committente delle opere può ritenersi responsabile soltanto ove emerga un suo coinvolgimento doloso o colposo nella realizzazione dei lavori (cfr. TAR Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 26.09.2007 n. 2205; TAR Lazio, Sez. I-quater, 10.05.2010 n. 10469).
Ne discende, per tale profilo, l’illegittimità dell’ingiunzione di pagamento disposta nei confronti dei ricorrenti, che sono rimasti estranei alla commissione dell’abuso edilizio e non sono riconducibili ad alcuna delle figure tassativamente indicate dalla legge, non essendo titolari della concessione edilizia per la costruzione dell’immobile, né committenti, né costruttori, né direttori dei lavori
”.
12.2. In senso analogo si è pronunciato anche TAR Liguria, sez. I, 05.07.2011, n. 1051 (in aggiunta ai precedenti già citati).
12.3. Tali principi, da cui il collegio non ha motivi per discostarsi, si attagliano perfettamente al caso qui in esame.
Nel caso di specie, infatti, è pacifico che la ricorrente non è il soggetto responsabile dell’abuso accertato dall’amministrazione comunale, né rientra tra i soggetti di cui all’art. 29 del D.P.R. n. 380/2001 (titolare del permesso di costruire, committente, costruttore, direttore dei lavori). Essa ha acquistato la proprietà dell’immobile solo in anni recenti, mentre l’abuso edilizio, viste le sue caratteristiche (piano seminterrato previsto in progetto realizzato interamente fuori terra) è stato posto in essere necessariamente all’epoca della costruzione del manufatto, avvenuta alla fine degli anni ’70: sicché i destinatari della sanzione pecuniaria di cui all’art. 34, comma 2, andavano (e andranno) cercati altrove dall’amministrazione comunale, alla luce dei principi sopra esposti.
12.4. Né può assumere rilievo, in senso contrario, la circostanza che sia stata la stessa ricorrente a formulare istanza al Comune di rilascio del “permesso di costruire in sanatoria ai sensi dell’art. 34 comma 2 D.P.R. n. 380/2001”, sia perché sembra piuttosto verosimile quanto riferito in ricorso in ordine al fatto che furono gli stessi uffici comunali a suggerire al tecnico di fiducia della ricorrente di impostare in questo modo la propria domanda vista l’indisponibilità dell’amministrazione a praticare la strada della sanatoria giurisprudenziale; e sia soprattutto perché compete in ogni caso all’amministrazione, in ossequio al principio di legalità, qualificare correttamente la fattispecie di abuso edilizio e le corrette modalità di repressione dello stesso, a prescindere dalla prospettazione della parte interessata, che l’amministrazione ha l’obbligo di correggere laddove errata.
13. Alla luce di tali considerazioni, il ricorso va accolto con il conseguente annullamento dell’atto impugnato e l’assorbimento di ogni diversa doglianza (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.04.2017 n. 500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’accoglimento del ricorso implicherebbe, a rigore, la condanna dell’amministrazione resistente alla rifusione delle spese di lite, in applicazione del principio generale di soccombenza.
Tuttavia, il collegio non può ignorare la patente violazione da parte della difesa di parte ricorrente dell’obbligo di sinteticità degli atti processuali di cui all’art. 2, comma 2, del cod. proc. amm., solo in minima parte mitigata dal carattere più succinto (e ben più efficace) delle difese orali svolte in udienza pubblica.
Della violazione dell’obbligo di sinteticità degli atti processuali il collegio deve tener conto ai fini della regolazione delle spese di lite, secondo quanto previsto dall’art. 26, comma 1, cod. proc. amm.: il che, valutato congiuntamente alla qualità delle difese svolte in giudizio dall’amministrazione comunale, induce, in definitiva, a ritenere sussistenti i presupposti per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.
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14. L’accoglimento del ricorso implicherebbe, a rigore, la condanna dell’amministrazione resistente alla rifusione delle spese di lite, in applicazione del principio generale di soccombenza. Tuttavia, il collegio non può ignorare la patente violazione da parte della difesa di parte ricorrente dell’obbligo di sinteticità degli atti processuali di cui all’art. 2, comma 2, del cod. proc. amm., solo in minima parte mitigata dal carattere più succinto (e ben più efficace) delle difese orali svolte in udienza pubblica.
Della violazione dell’obbligo di sinteticità degli atti processuali il collegio deve tener conto ai fini della regolazione delle spese di lite, secondo quanto previsto dall’art. 26, comma 1, cod. proc. amm.: il che, valutato congiuntamente alla qualità delle difese svolte in giudizio dall’amministrazione comunale, induce, in definitiva, a ritenere sussistenti i presupposti per l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 13.04.2017 n. 500 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa chiusura di un balcone con una verandatura in alluminio (per 4x2 metri) è un intervento che costituisce una vera e propria ristrutturazione, che necessita del titolo abilitativo del permesso di costruire. In tal senso, sul piano qualificatorio, precipuo rilievo assume la creazione di un nuovo volume, incidente anche sotto il profilo della alterazione dei prospetti e della sagoma dell’edificio.
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La realizzazione di una veranda rappresenta un intervento di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio con incremento delle superfici e dei volumi, come tale, subordinato a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, co., D.P.R. n. 380 del 2001, non essendosi, al riguardo, in giurisprudenza mai dubitato che: <<Gli interventi edilizi che determinano una variazione planovolumentrica e architettonica dell'immobile nel quale vengono realizzati, quali le verande edificate sulla balconata di un appartamento, sono soggetti al preventivo rilascio del permesso di costruire. Ciò in quanto, in materia edilizia, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico - giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata a non sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile>>.
In particolare la chiusura di una veranda, a prescindere dalla natura dei materiali all’uopo utilizzati, costituisce comunque un aumento volumetrico, anche ove realizzata con pannelli in alluminio, atteso che, in materia urbanistico-edilizia, il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati.
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... per l'annullamento della disposizione dirigenziale del Comune di Napoli n. 308 del 17.03.2005 con la quale si è ordinata la demolizione delle opere abusive (veranda in alluminio preverniciato di m 4x2) realizzate al quinto piano (scala B, interno 43) dell’immobile sito in Napoli, via ..., n. 78;
...
1. Il ricorso è manifestamente infondato.
2. Occorre premettere che a seguito di accertamenti effettuati da parte dei vigili urbani si è constatato che la ricorrente ha proceduto alla chiusura di un balcone con una verandatura in alluminio (per 4x2 metri).
3. Giova a questo punto evidenziare che l’intervento costituisce una vera e propria ristrutturazione, che necessitava del titolo abilitativo del permesso di costruire. In tal senso, sul piano qualificatorio, precipuo rilievo assume la creazione di un nuovo volume, incidente anche sotto il profilo della alterazione dei prospetti e della sagoma dell’edificio.
La realizzazione di una veranda rappresenta un intervento di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio con incremento delle superfici e dei volumi, come tale, subordinato a permesso di costruire ai sensi dell’art. 10, co., D.P.R. n. 380 del 2001, non essendosi, al riguardo, in giurisprudenza mai dubitato che: <<Gli interventi edilizi che determinano una variazione planovolumentrica e architettonica dell'immobile nel quale vengono realizzati, quali le verande edificate sulla balconata di un appartamento, sono soggetti al preventivo rilascio del permesso di costruire. Ciò in quanto, in materia edilizia, una veranda è da considerarsi, in senso tecnico - giuridico, un nuovo locale autonomamente utilizzabile e difetta normalmente del carattere di precarietà, trattandosi di opera destinata a non sopperire ad esigenze temporanee e contingenti con la sua successiva rimozione, ma a durare nel tempo, ampliando così il godimento dell'immobile>> (TAR Napoli sez. IV, 15/01/2015, n. 259).
In particolare la chiusura di una veranda, a prescindere dalla natura dei materiali all’uopo utilizzati, costituisce comunque un aumento volumetrico, anche ove realizzata con pannelli in alluminio, atteso che, in materia urbanistico-edilizia, il presupposto per l'esistenza di un volume edilizio è costituito dalla costruzione di almeno un piano di base e due superfici verticali contigue, così da ottenere una superficie chiusa su un minimo di tre lati (Cfr. TAR Napoli sez. IV, 15/01/2015, n. 259) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 10.04.2017 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In materia di misure demolitorie il principio generale è che non sia necessaria alcuna specifica motivazione sull’esistenza di un interesse pubblico in quanto è pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera edilizia, costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione.
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Stante questo principio generale, è stata in giurisprudenza dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell’abuso, il suo accertamento e l’adozione della misura sanzionatoria, in quanto alcune pronunce hanno ritenuto di poter fare una eccezione al suindicato principio generale richiedendo, a tutela dell’affidamento del privato, una specifica motivazione sulla sussistenza ragioni di interesse pubblico che giustifichino la misura demolitoria, tanto che il provvedimento che non specifichi tali ragioni risulta affetto dal vizio di difetto di motivazione.
Il Collegio ritiene di aderire alla prevalente tesi che non richiede alcuna specifica motivazione sull’interesse pubblico indipendentemente dal passaggio del tempo dall’abuso o dal suo accertamento e il provvedimento sanzionatorio.
La giurisprudenza si è, infatti, più volte espressa, anche in tempi recenti, nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi.
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In queste ipotesi il fattore tempo non agisce in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse.
Al riguardo, il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa.
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento.
Si rileva infine che, da un lato, consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all’apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni.
Dall’altro, a fronte dalla serie di condoni edilizi concessi negli ultimi decenni, ammettere la sostanziale estinzione di un abuso per il mero decorso del tempo significherebbe costruire una sorta di sanatoria di fatto che opererebbe anche quando l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi del corrispondente istituto previsto dalla citata normativa premiale, e quindi senza nemmeno la necessità di versare le oblazioni da essa previste.
Per altro verso, poi, si deve comunque escludere che si possa parlare di affidamento tutelabile nel momento in cui di detta normativa l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi.
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5. Su tali premesse anche le altre censure prospettate non meritano positivo apprezzamento.
5.1. In particolare si censura l’omissione di qualsiasi valutazione e motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico attuale alla demolizione.
Ciò anche e soprattutto in relazione al significativo lasso di tempo trascorso dalla realizzazione del presunto abuso sino al suo accertamento (a seguito della presentazione e poi del rigetto dell’istanza di condono edilizio), e successivamente sino all’adozione dell’ordine di demolizione, anche in considerazione del legittimo affidamento che tale situazione avrebbe ingenerato nella società ricorrente.
Le censure sono infondate, in relazione al generale tema dell’influenza del passaggio del tempo sul contenuto dell’obbligo di motivazione delle sanzioni demolitorie.
5.1.1. In materia di misure demolitorie il principio generale è che non sia necessaria alcuna specifica motivazione sull’esistenza di un interesse pubblico in quanto è pacificamente riconosciuto che l'abusività di un'opera edilizia, costituisce già di per sé presupposto per l'applicazione della prescritta sanzione demolitoria.
Per costante giurisprudenza, infatti, la diffida a demolire manufatti abusivi è atto vincolato (ex multis Cons. Stato, VI, 28.06.2004, n. 4743; Cons. Stato, sez. V, 10.07.2003, n. 4107; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 04.02.2003, n. 617; 15.07.2003, n. 8246) e come tale non necessita di una puntuale valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né di un bilanciamento di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né di una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702).
Stante questo principio generale, è stata in giurisprudenza dibattuta la particolare ipotesi in cui sia trascorso un notevole lasso di tempo tra la commissione dell’abuso, il suo accertamento e l’adozione della misura sanzionatoria, in quanto alcune pronunce hanno ritenuto di poter fare una eccezione al suindicato principio generale richiedendo, a tutela dell’affidamento del privato, una specifica motivazione sulla sussistenza ragioni di interesse pubblico che giustifichino la misura demolitoria, tanto che il provvedimento che non specifichi tali ragioni risulta affetto dal vizio di difetto di motivazione.
5.1.2. Il Collegio ritiene di aderire alla prevalente tesi che non richiede alcuna specifica motivazione sull’interesse pubblico indipendentemente dal passaggio del tempo dall’abuso o dal suo accertamento e il provvedimento sanzionatorio.
La giurisprudenza si è, infatti, più volte espressa, anche in tempi recenti (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907), nel senso che il provvedimento di demolizione di una costruzione abusiva, al pari di tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest'ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né, ancora, alcuna motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (Cons. Stato Sez. VI, 28.01.2013, n. 496; Cons. Stato Sez. IV, 16.04.2012, n. 2185; Cons. Stato Sez. IV, 28.12.2012, n. 6702, Cons. Stato Sez. VI, 27.03.2012, n. 1813; Cons. Stato Sez. IV, 27.10.2011, n. 5758; Cons. Stato Sez. IV, 20.07.2011, n. 4403; Cons. Stato Sez. V, 27.04.2011, dalla n. 2497 alla n. 2527; Cons. Stato Sez. V, 11.01.2011, n. 79; TAR Lombardia Milano Sez. II, 08.09.2011, n. 2183; TAR Lazio Roma Sez. I-quater, 23.06.2011, n. 5582; TAR Campania Napoli Sez. III, 16.06.2011, n. 3211; TAR Campania Napoli Sez. VIII, 09.06.2011, n. 3029; Cons. Stato Sez. V, 09.02.2010, n. 628) e non potendo l'interessato dolersi del fatto che l'Amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi (Cons. Stato, VI, 31.05.2013, n. 3010; Cons. Stato, VI, 11.05.2011, n. 2781).
In particolare, nel caso di abusi edilizi vi è un soggetto che pone in essere un comportamento contrastante con le prescrizioni dell’ordinamento, che confida nell’omissione dei controlli o comunque nella persistente inerzia dell’amministrazione nell’esercizio del potere di vigilanza.
In queste ipotesi il fattore tempo non agisce in sinergia con l’apparente legittimità dell’azione amministrativa favorevole, a tutela di un’aspettativa conforme alle statuizioni amministrative pregresse (Cons. Stato, Sez. VI, 21.10.2013, n. 5088; Cons. Stato, Sez. VI, 04.10.2013, n. 4907; Cons. Stato, IV, 04.05.2012, n. 2592).
Al riguardo, il Collegio rileva come di affidamento meritevole di tutela si possa parlare solo ove il privato, il quale abbia correttamente ed in senso compiuto reso nota la propria posizione all’Amministrazione, venga indotto da un provvedimento della stessa Amministrazione a ritenere come legittimo il suo operato non già nel caso, come quello di specie, in cui si commetta un illecito a tutta insaputa della stessa (Cons. Stato, Sez. IV, 15.09.2009, n. 5509).
Inoltre, l’abuso edilizio rappresenta un illecito permanente integrato dalla violazione dell’obbligo, perdurante nel tempo, di ripristinare in conformità a diritto lo stato dei luoghi, di talché ogni provvedimento repressivo dell’Amministrazione non è emanato a distanza di tempo da un illecito ormai esaurito, bensì interviene su una situazione antigiuridica che perdura sino a quel momento (TAR Brescia, Sez. I, 22.02.2010, n. 860).
Si rileva infine che, da un lato, consentire la possibilità di non sanzionare gli abusi edilizi per effetto del mero decorso di un notevole lasso di tempo, non determinato con precisione, significherebbe introdurre nel sistema un pericoloso elemento di indeterminatezza, perché la repressione di un dato abuso nel caso concreto sarebbe rimessa all’apprezzamento del singolo funzionario, oltretutto pressoché impossibile da sindacare nella presente sede giurisdizionale, con intuibile possibilità di strumentalizzazioni (TAR Campania Napoli, Sez. IV, 22.05.2013, n. 2679).
Dall’altro, a fronte dalla serie di condoni edilizi concessi negli ultimi decenni, ammettere la sostanziale estinzione di un abuso per il mero decorso del tempo significherebbe costruire una sorta di sanatoria di fatto che opererebbe anche quando l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi del corrispondente istituto previsto dalla citata normativa premiale, e quindi senza nemmeno la necessità di versare le oblazioni da essa previste.
Per altro verso, poi, si deve comunque escludere che si possa parlare di affidamento tutelabile nel momento in cui di detta normativa l’interessato non abbia ritenuto di avvalersi (TAR Campania Napoli Sez. IV, 19.03.2013, n. 1535; TAR Campania Napoli, Sez. IV, 19.03.2013, n. 1536).
Per quanto indicato la censura è già per un profilo generale da rigettare, senza contare che l’asserita vetustà dell’opera non è stata affatto dimostrata (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 10.04.2017 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'onere per il privato di dimostrare che l'opera è stata completata entro una data utile, comporta che anche la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è sufficiente a tal fine, essendo necessari ulteriori riscontri documentali, eventualmente anche indiziari, purché altamente probanti.
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4. Secondo la tesi attorea la verandatura sarebbe stata presente fin dagli anni cinquanta (ed allega all’uopo autocertificazioni sul punto) e quindi l’intervento sanzionato sarebbe costituito semplicemente dalla sostituzione della precedente finitura.
Questa impostazione non appare persuasiva per due ordini, concorrenti, di ragioni.
In primo luogo la pre-esistenza di un’opera, ove non sorretta da adeguato titolo edilizio -abusiva, non vale a legittimare le successive opere di sostituzione o manutenzione, poiché l’opus mantiene inalterato il carattere abusivo.
A nulla rileva, a tali fini, l’allegazione di autodichiarazioni attestanti il periodo di completamento dell’opera originaria.
Si è, invero, affermato in giurisprudenza che l'onere per il privato di dimostrare che l'opera è stata completata entro una data utile, comporta che anche la dichiarazione sostitutiva di atto notorio non è sufficiente a tal fine, essendo necessari ulteriori riscontri documentali, eventualmente anche indiziari, purché altamente probanti (Consiglio di Stato sez. VI 27.07.2015 n. 3666; Cons. Stato, sez. VI, 06.05.2008, n. 2010; TAR Napoli, Sez. VI, 14/09/2016, n. 4279).
In secondo luogo, quand’anche fosse provata la pre-esistenza della struttura, per le costruzioni da realizzare nel territorio del Comune di Napoli, infatti, l’obbligo per gli interessati di richiedere la licenza edilizia è stato introdotto dall’art. 1 del Regolamento Edilizio del Comune di Napoli del 1935, con la conseguenza che, ai fini della legittimità, sotto il profilo urbanistico-edilizio di un’opera, non è sufficiente dimostrarne la realizzazione in data antecedente al 1967, ma è necessario provare che la stessa sia stata eseguita in epoca anteriore al 1935 (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 13.05.2008, n. 4255; C.d.S., Sez. IV, 21.10.2008, n. 5141, in motivazione) (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 10.04.2017 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: I procedimenti iniziati ad istanza di parte non abbisognano di comunicazione di avvio del procedimento, così che non si vìola l’art. 7 L. 241/1990.
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5.2. Infine, va respinto il motivo che si appella a pretese carenze procedimentali. Esse, in realtà, non sussistono, in quanto i procedimenti iniziati ad istanza di parte non abbisognano di comunicazione di avvio del procedimento, così che non è stato violato l’art. 7 L. 241/1990 (TAR Campania-Napoli, Sez. IV, sentenza 10.04.2017 n. 1921 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Per il rigetto della richiesta di accesso agli atti non basta addurre l'opposizione del controinteressato.
Con sentenza 06.04.2017 n. 460, la I Sez. del TAR Piemonte ha ribadito che, per legge, il rigetto della richiesta di accesso agli atti deve essere congruamente motivato e, da questo punto di vista, deve ritenersi affetta da radicale carenza di motivazione la giustificazione opposta dall'Amministrazione che poggi sulla posizione di mera contrarietà all’esibizione dei documenti manifestata, in termini del tutto generici e apodittici, dal terzo controinteressato.
L’approfondimento
Già in altre occasioni, del resto, la giurisprudenza ha costantemente ritenuto illegittimo il diniego all'accesso agli atti motivato con esclusivo riferimento alle ragioni contrarie espresse dal soggetto controinteressato, senza ulteriori ragionamenti e controdeduzioni in termini di interesse pubblico, pur meritevoli di considerazione nel bilanciamento dei contrapposti interessi (si veda Tar Lazio, sez. III, 21.12.2015, n. 14356).
La Pubblica amministrazione non può, infatti, legittimamente assumere quale unico fondamento del diniego di accesso agli atti la mancanza del consenso da parte dei soggetti controinteressati, atteso che la normativa in materia, lungi dal rendere i controinteressati arbitri assoluti delle richieste che li riguardino, rimette sempre all'Amministrazione destinataria della richiesta di accesso il potere di valutare la fondatezza dell’istanza, anche se in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai controinteressati (Tar Lecce, sez. II, 29.04.2015, n. 1419; Tar Reggio Calabria, sez. I, 16.03.2015, n. 281).
Il caso
Nella specie, un'Amministrazione rigettava la richiesta di accesso agli atti adducendo la posizione di mera contrarietà all’esibizione degli documenti manifestata, in termini del tutto generici e apodittici, dal terzo controinteressato.
Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione del Tar Piemonte persuade.
L'ultima parola, in tema di accesso agli atti, spetta infatti sempre all'Amministrazione.
No, dunque, al diniego all'accesso agli atti motivato con esclusivo riferimento alle ragioni contrarie espresse dal soggetto controinteressato, senza ulteriori ragionamenti e controdeduzioni in termini di interesse pubblico, pur meritevoli di considerazione nel bilanciamento dei contrapposti interessi.
In tal modo, infatti, si finirebbe per rendere i controinteressati arbitri assoluti delle richieste che li riguardino, mentre è solo l'Amministrazione destinataria della richiesta di accesso che -nell'equidistanza che deve mantenere rispetto agli interessi delle parti- ha la capacità e il potere di valutare la fondatezza dell’istanza, anche se in contrasto con l'opposizione eventualmente manifestata dai controinteressati (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 19.04.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Per giurisprudenza del tutto pacifica, non richiede alcun titolo edilizio una recinzione, anche se posta al confine di proprietà per escluderne gli estranei, realizzata con rete metallica e semplici paletti di sostegno di legno o di metallo.
Nel caso di specie, la recinzione nell’ordinanza impugnata è stata descritta in modo errato. Essa risulta in realtà costituita appunto da un manufatto leggero in rete e paletti di sostegno, nemmeno inteso a proteggersi dagli estranei perché destinato, a dire della parte, a sostenere piante rampicanti.
Il titolo edilizio per esso non era quindi necessario, e quindi la demolizione non poteva esserne ordinata.

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5. Il secondo motivo, relativo alla recinzione interna al lotto, è invece fondato per errato apprezzamento del fatto, da parte sia dell’amministrazione, sia della sentenza impugnata.
Per giurisprudenza del tutto pacifica –si vedano C.d.S. sez. V 09.04.2013 n. 1922 e 28.10.1998 n. 1537- non richiede alcun titolo edilizio una recinzione, anche se posta al confine di proprietà per escluderne gli estranei, realizzata con rete metallica e semplici paletti di sostegno di legno o di metallo.
6. Nel caso di specie, come risulta dalla relazione tecnica di parte già prodotta in primo grado e riprodotta in questa sede (doc. 14 ricorrente appellante, pp. 5-6) e come non è stato specificamente contestato dalla controparte, la recinzione nell’ordinanza impugnata è stata descritta in modo errato.
Essa risulta in realtà costituita appunto da un manufatto leggero in rete e paletti di sostegno, nemmeno inteso a proteggersi dagli estranei perché destinato, a dire della parte, a sostenere piante rampicanti. Il titolo edilizio per esso non era quindi necessario, e quindi la demolizione non poteva esserne ordinata (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.03.2017 n. 1476 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVICostituisce orientamento consolidato quello per cui l’ordinanza sindacale che rechi il divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree destinate a verde pubblico -pur se in ragione delle meritevoli ragioni di tutela dei cittadini in considerazione della circostanza che i cani vengono spesso lasciati senza guinzaglio e non ne vengono raccolte le deiezioni- risulta essere eccessivamente limitativa della libertà di circolazione delle persone ed è comunque posta in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità, atteso che lo scopo perseguito dall'Ente locale di mantenere il decoro e l'igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, può essere soddisfatto attraverso l’attivazione dei mezzi di controllo e di sanzione rispetto all’obbligo per gli accompagnatori o i custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi strumenti e di condurli in aree pubbliche con idonee modalità di custodia (guinzaglio e museruola) trattandosi di obblighi imposti dalla disciplina generale statale, cosicché il Sindaco può fronteggiare comportamenti incivili da parte dei conduttori di cani, al fine di prevenire le negative conseguenze di tali condotte, con l'esercizio degli ordinari poteri di prevenzione, vigilanza, controllo e sanzionatori di cui dispone l'Amministrazione.
Ed invero, le esigenze poste a fondamento della gravata ordinanza sindacale risultano già compiutamente salvaguardate dalla disciplina vigente in materia, che impone di condurre i cani al guinzaglio e di rimuovere le eventuali deiezioni, dovendo quindi l’Amministrazione Comunale adoperarsi –in luogo dell’indiscriminato divieto di accesso dei cani alle aree verdi pubbliche– al fine di rendere cogenti tali misure mediante una efficace azione di controllo e di repressione, in tal modo rendendo possibile il raggiungimento del pubblico interesse attraverso strumenti idonei e nel rispetto del principio di proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini perseguiti.
La gravata ordinanza, pertanto, in relazione ai dichiarati scopi perseguiti, appare essere posta in violazione dei principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’azione amministrativa, atteso che lo scopo di mantenere il decoro e l’igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, è già adeguatamente soddisfatto attraverso l’imposizione, di cui alla disciplina statale, agli accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi strumenti e di condurli al guinzaglio.
Agli esposti rilievi giova aggiungere che, sotto distinto e concorrente profilo, il provvedimento impugnato appare adottato in assenza dei requisiti di necessità ed urgenza idonei a legittimare l’adozione di misure extra ordinem, difettando una situazione di effettiva eccezionalità ed imprevedibilità tale da far temere emergenze igienico sanitarie o pericoli per la pubblica incolumità: e ciò noto essendo che il potere di emanare ordinanze di cui all’art. 50, comma 5, d.lgs. 267 del 2000, riservato al Sindaco, permette bensì l'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico dei destinatari, postulando, tuttavia, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento, non potendo l’eccezionale potere di ordinanza essere utilizzato per soddisfare esigenze che siano prevedibili ed ordinarie.

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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 133/15 avente ad oggetto divieto di abbandono di deiezione canine in aree pubbliche ed obbligo di custodia;
...
1.- Con ricorso notificato nei tempi e nelle forme di rito, l’associazione ricorrente, come in atti rappresentata e difesa, impugnava l’ordinanza, meglio distinta in epigrafe, con il quale il Sindaco di Avellino aveva disposto, tra l’altro, il “divieto assoluto di condurre cani nei giardini pubblici” (art. 1) e il “divieto di depositare gli escrementi canini nei cestini portarifiuti” (art. 3).
A sostegno del gravame deduceva:
   a) eccesso di potere per difetto di adeguata istruttoria (stante l’assenza di necessarie verifiche in ordine alla effettiva pericolosità, dal punto di vista sanitario, delle deiezioni canine oggetto di prospettica inibizione);
   b) eccesso di potere per violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità (stante il carattere assoluto ed indiscriminato del divieto, per giusta non accompagnato da misure intese alla prospettica ed adeguata allocazione di percorsi alternativi e appositi contenitori destinati alla recezione degli escrementi);
   c) violazione degli artt. 50 e 54 T.U.E.L. (avuto riguardo alla assenza dei presupposti di necessità ed urgenza idonei a legittimare l’attivazione dello straordinario potere di ordinanza).
2.- Nella resistenza dell’Amministrazione comunale, esaminata e favorevolmente delibata l’istanza intesa, in prospettiva cautelare, alla interinale sospensione degli effetti del provvedimento impugnato, alla pubblica udienza del 06.07.2016, sulle reiterate conclusioni dei difensori delle parti costituite, la causa veniva riservata per la decisione.
3.- Il ricorso è fondato e merita di essere accolto.
Non appare revocabile, in dubbio, in premessa, la legittimazione ad agire della Associazione ricorrente, alla luce dello scopo statutariamente perseguito, di adoperarsi per la garanzia e l’incremento del benessere e degli interessi degli animali
Ciò posto, costituisce orientamento consolidato, dal quale non si ravvisano ragioni per discostarsi (cfr., da ultimo, TAR Lazio, sez. II-bis, 17.05.2016, n. 5836; e cfr. altresì, tra le tante, TAR Potenza, 17.10.2013, n. 611; TAR Reggio Calabria, 28.05.2014, n. 225; TAR Milano, 22.10.2013 n. 2431; TAR Sardegna, 27.02.2016 n, 128; TAR Venezia, 12.04.2012, n. 502, oltre a TAR Campania, Salerno, sez. II, 28.07.2015, n. 1752), quello per cui l’ordinanza sindacale che rechi il divieto assoluto di introdurre cani, anche se custoditi, nelle aree destinate a verde pubblico -pur se in ragione delle meritevoli ragioni di tutela dei cittadini in considerazione della circostanza che i cani vengono spesso lasciati senza guinzaglio e non ne vengono raccolte le deiezioni- risulta essere eccessivamente limitativa della libertà di circolazione delle persone ed è comunque posta in violazione dei principi di adeguatezza e proporzionalità, atteso che lo scopo perseguito dall'Ente locale di mantenere il decoro e l'igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, può essere soddisfatto attraverso l’attivazione dei mezzi di controllo e di sanzione rispetto all’obbligo per gli accompagnatori o i custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi strumenti e di condurli in aree pubbliche con idonee modalità di custodia (guinzaglio e museruola) trattandosi di obblighi imposti dalla disciplina generale statale, cosicché il Sindaco può fronteggiare comportamenti incivili da parte dei conduttori di cani, al fine di prevenire le negative conseguenze di tali condotte, con l'esercizio degli ordinari poteri di prevenzione, vigilanza, controllo e sanzionatori di cui dispone l'Amministrazione.
Ed invero, le esigenze poste a fondamento della gravata ordinanza risultano già compiutamente salvaguardate dalla disciplina vigente in materia, che impone di condurre i cani al guinzaglio e di rimuovere le eventuali deiezioni, dovendo quindi l’Amministrazione Comunale adoperarsi –in luogo dell’indiscriminato divieto di accesso dei cani alle aree verdi pubbliche– al fine di rendere cogenti tali misure mediante una efficace azione di controllo e di repressione, in tal modo rendendo possibile il raggiungimento del pubblico interesse attraverso strumenti idonei e nel rispetto del principio di proporzionalità dei mezzi rispetto ai fini perseguiti.
La gravata ordinanza, pertanto, in relazione ai dichiarati scopi perseguiti, appare essere posta in violazione dei principi di adeguatezza e di proporzionalità dell’azione amministrativa, atteso che lo scopo di mantenere il decoro e l’igiene pubblica, nonché la sicurezza dei cittadini, è già adeguatamente soddisfatto attraverso l’imposizione, di cui alla disciplina statale, agli accompagnatori o custodi di cani di rimuovere le eventuali deiezioni con appositi strumenti e di condurli al guinzaglio.
Agli esposti rilievi giova aggiungere che, sotto distinto e concorrente profilo, il provvedimento impugnato appare adottato in assenza dei requisiti di necessità ed urgenza idonei a legittimare l’adozione di misure extra ordinem, difettando una situazione di effettiva eccezionalità ed imprevedibilità tale da far temere emergenze igienico sanitarie o pericoli per la pubblica incolumità: e ciò noto essendo che il potere di emanare ordinanze di cui all’art. 50, comma 5, d.lgs. 267 del 2000, riservato al Sindaco, permette bensì l'imposizione di obblighi di fare o di non fare a carico dei destinatari, postulando, tuttavia, da un lato, una situazione di pericolo effettivo, da esternare con congrua motivazione, e, dall'altro, una situazione eccezionale e imprevedibile, cui non sia possibile far fronte con i mezzi previsti in via ordinaria dall'ordinamento, non potendo l’eccezionale potere di ordinanza essere utilizzato per soddisfare esigenze che siano prevedibili ed ordinarie (cfr., proprio in tema di divieto assoluto di introdurre cani in aree verdi del territorio comunale, TAR Sardegna, sez. I, 30.11.2012, n. 1080).
4.- Le esposte considerazioni militano nel senso della complessiva fondatezza del ricorso, che deve, dunque, essere accolto, con consequenziale annullamento dei provvedimenti impugnati (TAR Campania-Salerno, Sez. II, sentenza 30.03.2017 n. 642 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAChi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio interesse.
Come sottolineato da TAR Lombardia Milano, l’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può esaurirsi nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le “determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà.
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La L.r. Lombardia 12/2005, all’art. 4, comma 3-ter (“L’autorità competente per la Valutazione Ambientale Strategica VAS, individuata prioritariamente all’interno dell’ente di cui al comma 3-bis, deve possedere i seguenti requisiti: a) separazione rispetto all’autorità procedente; b) adeguato grado di autonomia; c) competenza in materia di tutela, protezione e valorizzazione ambientale e di sviluppo sostenibile”), prevede che l’autorità competente per la VAS debba essere scelta prioritariamente all’interno dell’ente competente all’adozione del Piano oggetto della stessa VAS.
Condizione perché tale scelta non violi i canoni comunitari è unicamente che tra le due autorità, anche se appartenenti alla stessa amministrazione, sussista un adeguato grado di autonomia.
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Questa Sezione ha sostenuto che <<Relativamente al problema della separazione formale tra autorità competente e autorità procedente per la VAS (v. art. 5 e 12 del Dlgs. 152/2006), si rinvia all’interpretazione giurisprudenziale che considera normale la collocazione delle stesse all’interno del medesimo ente. Le funzioni delle due autorità non sono in rapporto di contrapposizione o di controllo. La distinzione ha invece la finalità di assicurare che, attraverso la collaborazione e lo scambio di informazioni, entrino nella valutazione ambientale tutti gli apporti tecnici necessari. … Questa impostazione è ora codificata nell’art. 4, comma 3-ter, della LR 12/2005, che prevede in via prioritaria la concentrazione delle due autorità nello stesso ente>>.
Non vi sono profili di contrasto con la normativa nazionale e con le direttive comunitarie: la separazione che garantisce l’autonomia dell’autorità competente è quella funzionale, la quale a sua volta deriva dal possesso di una particolare qualificazione tecnico-professionale, che sia esercitabile secondo le regole tecniche della pianificazione, senza interferenze di altra natura (sentenza Sezione 17/06/2015 n. 853, che richiama il proprio precedente 15/10/2014 n. 1059 e precisa che “Pertanto, le valutazioni dell’autorità competente possono essere censurate se non corrispondono alle suddette regole tecniche, o se si contraddicono, o quando siano incomplete, ma non per il solo fatto che vengano formulate da soggetti incardinati presso gli uffici dell’ente definito autorità procedente …)”.
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1.1 Va richiamato il principio secondo cui chi lamenta l’illegittimità della procedura di VAS è tenuto a dimostrare che dagli esiti di tale procedura sia derivata l’assunzione di scelte pianificatorie lesive del proprio interesse. Come sottolineato da TAR Lombardia Milano, sez. II – 15/11/2016 n. 2140 (che ha richiamato tra l’altro Consiglio di Stato, sez. IV – 12/01/2011 n. 133), l’interesse a impugnare lo strumento pianificatorio non può esaurirsi nella generica aspettativa a una migliore pianificazione dei suoli di propria spettanza, richiedendosi, invece che le “determinazioni lesive” fondanti l’interesse a ricorrere siano effettivamente “condizionate”, ossia causalmente riconducibili in modo decisivo, alle preliminari conclusioni raggiunte in sede di V.A.S., con la conseguenza che l’istante ha l’onere di precisare come e perché tali conclusioni nella specie abbiano svolto un tale ruolo decisivo sulle opzioni relative ai suoli in sua proprietà.
...
Nel merito, la censura è comunque infondata.
1.3 In primo luogo, occorre sottolineare come la L.r. 12/2005, all’art. 4, comma 3-ter (“L’autorità competente per la Valutazione Ambientale Strategica VAS, individuata prioritariamente all’interno dell’ente di cui al comma 3-bis, deve possedere i seguenti requisiti: a) separazione rispetto all’autorità procedente; b) adeguato grado di autonomia; c) competenza in materia di tutela, protezione e valorizzazione ambientale e di sviluppo sostenibile”), preveda che l’autorità competente per la VAS debba essere scelta prioritariamente all’interno dell’ente competente all’adozione del Piano oggetto della stessa VAS.
Condizione perché tale scelta non violi i canoni comunitari è unicamente che tra le due autorità, anche se appartenenti alla stessa amministrazione, sussista un adeguato grado di autonomia (Consiglio di Stato, sez. IV – 01/09/2015 n. 4081, e la giurisprudenza comunitaria richiamata).
1.4 Questa Sezione (cfr. sentenza 09/02/2016 n. 226) ha sostenuto che <<Relativamente al problema della separazione formale tra autorità competente e autorità procedente per la VAS (v. art. 5 e 12 del Dlgs. 152/2006), si rinvia all’interpretazione giurisprudenziale che considera normale la collocazione delle stesse all’interno del medesimo ente (v. CS Sez. IV 12.01.2011 n. 133; TAR Brescia Sez. II 02.05.2013 n. 400). Le funzioni delle due autorità non sono in rapporto di contrapposizione o di controllo. La distinzione ha invece la finalità di assicurare che, attraverso la collaborazione e lo scambio di informazioni, entrino nella valutazione ambientale tutti gli apporti tecnici necessari. … Questa impostazione è ora codificata nell’art. 4, comma 3-ter, della LR 12/2005, che prevede in via prioritaria la concentrazione delle due autorità nello stesso ente>>.
Non vi sono profili di contrasto con la normativa nazionale e con le direttive comunitarie: la separazione che garantisce l’autonomia dell’autorità competente è quella funzionale, la quale a sua volta deriva dal possesso di una particolare qualificazione tecnico-professionale, che sia esercitabile secondo le regole tecniche della pianificazione, senza interferenze di altra natura (sentenza Sezione 17/06/2015 n. 853, che richiama il proprio precedente 15/10/2014 n. 1059 e precisa che “Pertanto, le valutazioni dell’autorità competente possono essere censurate se non corrispondono alle suddette regole tecniche, o se si contraddicono, o quando siano incomplete, ma non per il solo fatto che vengano formulate da soggetti incardinati presso gli uffici dell’ente definito autorità procedente …)”.
1.5 Peraltro, “l’adeguato grado di autonomia” tra autorità ex articolo 4, comma 3-ter, della L.r. 12/2005 (richiamato dal Consiglio di Stato, sez. I – 23/11/2016 n. 2455), risulta esser stato assicurato per il fatto che l’Arch. So. era stata chiamata, ex ante e in generale, a sostituire la dirigente precedente Arch. Vi., nel ruolo di autorità competente sovracomunale nel procedimento di VAS del Parco Locale di Interesse Sovracomunale (PLIS), per cui si è ritenuta logica la scelta di individuarla quale autorità competente anche per le varianti dei singoli Comuni aderenti al PLIS medesimo.
Detta modalità, illustrata dalla difesa dell’amministrazione, non collide certamente con l’invocato principio di separazione e, in aggiunta, soddisfa condivisibili criteri di continuità di operato e di visione d’insieme. Al contempo l’individuazione della figura si collega al suo ruolo di autorità competente per il PLIS, assunto anteriormente all’avvio della procedura di variante, per cui anche la censura di tardività della nomina appare depotenziata
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.02.2017 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: • nella formazione dello strumento urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali, l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima area: l’autorità pianificatoria può anche apportare modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che una generica aspettativa al mantenimento della destinazione urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile (TAR Toscana, sez. I – 16/01/2017 n. 38 e la propria giurisprudenza menzionata; la sentenza evocata ha aggiunto che “La mera adozione della variante non poteva perciò produrre alcun effetto di affidamento dovendo tale atto essere sottoposto all’esame del Consiglio comunale dopo la presentazione delle osservazioni”);
• le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale attengono al merito dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare.
E' vero tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera …”;
• costituisce approdo consolidato e indiscusso quello secondo cui le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo e non danno luogo ad affidamento, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste alla base della formazione del Piano.

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3.1 E’ utile anzitutto richiamare, sinteticamente, alcuni consolidati principi giurisprudenziali della materia oggetto del contendere:
   • nella formazione dello strumento urbanistico e nelle scelte che presiedono all’approvazione di varianti generali, l’amministrazione vanta di regola un’ampia potestà discrezionale per cui, salva l’esistenza di un piano attuativo approvato e convenzionato, nessun affidamento deriva dalla diversa destinazione pregressa della medesima area: l’autorità pianificatoria può anche apportare modificazioni «peggiorative» rispetto agli interessi del proprietario, in capo al quale è configurabile nulla più che una generica aspettativa al mantenimento della destinazione urbanistica gradita, ovvero a una reformatio in melius, analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspiri ad una utilizzazione comunque proficua dell'immobile (TAR Toscana, sez. I – 16/01/2017 n. 38 e la propria giurisprudenza menzionata; la sentenza evocata ha aggiunto che “La mera adozione della variante non poteva perciò produrre alcun effetto di affidamento dovendo tale atto essere sottoposto all’esame del Consiglio comunale dopo la presentazione delle osservazioni”);
   • le scelte urbanistiche compiute dalle autorità preposte alla pianificazione territoriale attengono al merito dell’azione amministrativa e non sono sindacabili, a meno che risultino inficiate da arbitrarietà o irragionevolezza manifeste, ovvero da travisamento dei fatti in ordine alle esigenze che si intendono nel concreto soddisfare; è vero tuttavia, che “la verifica e la scelta della destinazione edificatoria, pure riservate al potere discrezionale, devono raccordarsi con la più generale disciplina urbanistica e rivelarsi altresì satisfattive dell’interesse pubblico al corretto ed armonico utilizzo del territorio, nel contemperamento delle varie esigenze della popolazione che su tale ambito insiste ed opera …” (TAR Lombardia Milano, sez. II – 16/01/2017 n. 102 e giurisprudenza richiamata);
   • costituisce approdo consolidato e indiscusso quello secondo cui le osservazioni dei privati ai progetti di strumenti urbanistici sono un mero apporto collaborativo e non danno luogo ad affidamento, con la conseguenza che il loro rigetto non richiede una specifica motivazione, essendo sufficiente che esse siano state esaminate e ritenute in contrasto con gli interessi e le considerazioni generali poste alla base della formazione del Piano (Consiglio di Stato, sez. I – 05/10/2016 n. 2050)
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.02.2017 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: La sopravvenuta previsione regionale lombarda (art. 5 L.r. 31/2014) si rivela ostativa (sia pure nell’attuale fase transitoria) alle scelte pianificatorie che comportino nuovo consumo di suolo, e nella recente pronuncia di questa Sezione 17/01/2017 n. 47, si è statuito che “In questo quadro, è evidente che la potestà pianificatoria dei comuni subisce, nel periodo transitorio, una duplice conformazione. Da un lato, non è possibile programmare nuovo consumo di suolo, dall’altro non è possibile cancellare i piani attuativi previsti dal PGT per la sola ragione che comportano consumo di aree agricole o di aree libere”.
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4. Anche l’ultimo motivo dedotto non è meritevole di positivo apprezzamento.
La sopravvenuta previsione regionale (art. 5 L.r. 31/2014) si rivela ostativa (sia pure nell’attuale fase transitoria) alle scelte pianificatorie che comportino nuovo consumo di suolo, e nella recente pronuncia di questa Sezione 17/01/2017 n. 47, si è statuito che “In questo quadro, è evidente che la potestà pianificatoria dei comuni subisce, nel periodo transitorio, una duplice conformazione. Da un lato, non è possibile programmare nuovo consumo di suolo, dall’altro non è possibile cancellare i piani attuativi previsti dal PGT per la sola ragione che comportano consumo di aree agricole o di aree libere”.
Inoltre, il comunicato regionale 25/03/2015 n. 80, recante indirizzi applicativi della L.r. 31/2014, puntualizza che nella fase transitoria sono da considerare precluse varianti che abbiano per oggetto aree esterne al vigente tessuto urbano consolidato che comportino nuovo consumo di suolo, purché individuate nel Piano delle Regole come aree destinate all’agricoltura (fattispecie di cui si controverte in questa sede).
Detta linea interpretativa appare del tutto condivisibile, e comunque si tratta di un profilo ostativo concorrente e aggiuntivo rispetto alle motivazioni che hanno sorretto lo stralcio, della cui ragionevolezza e attendibilità si è dato ampiamente conto
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 20.02.2017 n. 247 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Casa priva di certificato di abitabilità: è vendita dell'aliud pro alio (letteralmente “di una cosa per un'altra”).
In materia di vendita di immobile destinato ad abitazione, integra ipotesi di consegna di aliud pro alio il difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero l'insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di insanabili violazioni della legge urbanistica.
Il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale l'immobile stesso è incommerciabile; la violazione di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento, e non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, abbia già presentato una domanda di condono per sanare l'irregolarità amministrativa dell'immobile.
Tra l'altro, è irrilevante la concreta utilizzazione dell'immobile ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari.

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Va debitamente premesso che, in materia di vendita di immobile destinato ad abitazione, questa Corte spiega che integra ipotesi di consegna di aliud pro alio il difetto assoluto della licenza di abitabilità ovvero l'insussistenza delle condizioni necessarie per ottenerla in dipendenza della presenza di insanabili violazioni della legge urbanistica (cfr. Cass. 27.07.2006, n. 17140).
E soggiunge che il venditore di un immobile destinato ad abitazione ha l'obbligo di consegnare all'acquirente il certificato di abitabilità, senza il quale l'immobile stesso è incommerciabile; e che la violazione di tale obbligo può legittimare sia la domanda di risoluzione del contratto, sia quella di risarcimento del danno, sia l'eccezione di inadempimento, e non è sanata dalla mera circostanza che il venditore, al momento della stipula, abbia già presentato una domanda di condono per sanare l'irregolarità amministrativa dell'immobile (cfr. Cass. 23.01.2009, n. 1701; cfr. Cass. 20.04.2006, n. 9253, ove si precisa inoltre che è irrilevante la concreta utilizzazione dell'immobile ad uso abitativo da parte dei precedenti proprietari) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 30.01.2017 n. 2294).

EDILIZIA PRIVATAIn ordine al denunciato deficit motivazionale in punto di interesse pubblico alla demolizione, atteso che l’opus in questione risulta insistere su area demaniale, segnatamente al “Demanio dello Stato Ramo Idrico”, il valorizzato profilo di interesse deve ritenersi sussistente in re ipsa a prescindere dal decorso di un più o meno significativo lasso temporale dalla realizzazione del manufatto, stante il carattere permanente della condotta perpetrata ai danni del pubblico demanio.
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In presenza di interventi edilizi abusivamente realizzati su area demaniale l'art. 35, t.u. 06.06.2001 n. 380 non lascia all'ente locale alcuno spazio per valutazioni discrezionali ma, una volta accertato che il manufatto è stato realizzato in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire, gli impone di provvedere alla rimozione dello stesso, ponendo le relative spese a carico del responsabile dell'abuso, e ciò a prescindere dall’epoca dell’abuso.
Secondo l’insegnamento del Massimo Consesso di GA, infatti, “L'amministrazione, ai sensi dell'art. 35 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia) è tenuta (recte è vincolata) ad adottare la misura ripristinatoria anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso edilizio, non incontrando la relativa potestà alcun termine di prescrizione”. L’eventuale partecipazione del condominio ricorrente al procedimento che ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza, non avrebbe quindi potuto recare alcun contributo fattivo e potenzialmente idoneo a suggerire decisioni di segno diverso da quello assunto.
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I. Il ricorso è infondato.
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II.2. Nemmeno convince il secondo mezzo, col quale si denuncia deficit motivazionale in punto di interesse pubblico alla demolizione, atteso che l’opus in questione risulta insistere su area demaniale, segnatamente al “Demanio dello Stato Ramo Idrico”, di guisa che il valorizzato profilo di interesse deve ritenersi sussistente in re ipsa a prescindere dal decorso di un più o meno significativo lasso temporale dalla realizzazione del manufatto, stante il carattere permanente della condotta perpetrata ai danni del pubblico demanio.
Il motivo in esame va quindi respinto.
II.3. Infondato è, infine, il terzo mezzo, col quale si lamenta l’omessa comunicazione di avviso di avvio procedimentale, in quanto, come si afferma in sede pretoria, in presenza di interventi edilizi abusivamente realizzati su area demaniale l'art. 35, t.u. 06.06.2001 n. 380 non lascia all'ente locale alcuno spazio per valutazioni discrezionali ma, una volta accertato che il manufatto è stato realizzato in assenza o in totale difformità dal permesso di costruire, gli impone di provvedere alla rimozione dello stesso, ponendo le relative spese a carico del responsabile dell'abuso (TAR Potenza Basilicata, sez. I, 06.04.2012, n. 168), e ciò a prescindere dall’epoca dell’abuso.
Secondo l’insegnamento del Massimo Consesso di GA (Cons. Stato, Sez. V, 21.04.2016, n. 1581), infatti, “L'amministrazione, ai sensi dell'art. 35 d.P.R. 06.06.2001, n. 380 (T.U. Edilizia) è tenuta (recte è vincolata) ad adottare la misura ripristinatoria anche a notevole distanza di tempo dalla commissione dell'abuso edilizio, non incontrando la relativa potestà alcun termine di prescrizione”. L’eventuale partecipazione del condominio ricorrente al procedimento che ha condotto all’adozione dell’impugnata ordinanza, non avrebbe quindi potuto recare alcun contributo fattivo e potenzialmente idoneo a suggerire decisioni di segno diverso da quello assunto.
La difesa dell’Ente ha comunque documentato la comunicazione, in favore del Sig. Lo Bo., nella qualità anzidetta, della diffida prot n. 5856 del 26/01/2015, espressamente valevole anche come avviso di avvio procedimentale. Al riguardo, parte ricorrente evidenzia di aver presentato istanza di sdemanializzazione, non ancora esitata come documentato in atti, ma tale circostanza non è in grado di incidere, ma anzi conferma, l’attuale persistenza della condotta abusiva, con conseguente sussistenza del presupposto applicativo dell’art. 35 d.P.R. n. 380/2001, ai sensi del quale l’atto demolitorio è stato emesso.
III. Tanto premesso, il ricorso è del tutto infondato e pertanto va respinto (TAR Campania-Salerno, Sez. I, sentenza 02.01.2017 n. 7 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mera attività di indagine geotecnica non può costituire "inizio dei lavori" (al pari, peraltro, degli sbancamenti di terreno poi accertati), occorrendo a tal fine la compiuta organizzazione del cantiere e la presenza di altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita.
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Invero,
ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, "Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari".
Orbene, dalla lettera della norma -per come costantemente interpretata da questa Corte- deriva che
il decorso del termine di ultimazione dei lavori comporta, se non prorogato, la decadenza di diritto del permesso di costruire per la parte ancora non eseguita, con conseguente configurabilità del reato previsto dall'art. 44, lett. b), del citato decreto, in caso di loro prosecuzione oltre detto termine.
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4. Ciò premesso, il ricorso risulta infondato.
Ritiene la Corte che la questione centrale della presente vicenda afferisca all'avvenuto inizio delle opere, assentite dalla concessione edilizia n. 107 del 12/04/2012, entro il termine annuale fissato nel provvedimento medesimo, ed agli effetti -automatici o meno- della decadenza dal provvedimento stesso, in caso di esito negativo della prima verifica; orbene, con riguardo ad entrambi i profili la motivazione redatta dal Tribunale risulta tutt'altro che assente o meramente apparente, emergendo piuttosto come congrua, fondata su oggettivi riscontri investigativi e privi di qualsivoglia illogicità. Come tale, non censurabile.
In particolare, e richiamata la pacifica scansione cronologica degli eventi, l'ordinanza ha evidenziato che:
   1) la comunicazione di inizio lavori era stata inviata dalla "Pe.To. s.r.l." al Comune di Siracusa l'11/04/2013 (ultimo giorno utile, a fronte di una concessione rilasciata il 12/04/2012);
   2) il 02/12/2014 -ad avvenuta voltura del titolo da parte della "Re. s.r.l.", della quale il ricorrente è legale rappresentante- la Polizia municipale aveva accertato che non vi era alcuna attività lavorativa in corso, verificando soltanto «un terreno totalmente ricoperto da vegetazione autoctona, l'inesistenza in situ di opere di natura edilizia, scavi, sbancamenti, né tantomeno la presenza delle normali infrastrutture mobili che caratterizzano l'insediamento di un cantiere edile»;
   3) il successivo 04/02/2015, un ulteriore sopralluogo aveva riscontrato le medesime circostanze;
   4) soltanto in data 03/03/2015, erano risultati apposti i cartelli di cantiere, con esecuzione di lavori di sbancamento e terrazzamento del costone.
5. In forza di tali considerazioni -che questo Collegio non è autorizzato a contestare, attenendo a profili fattuali, peraltro consacrati in atti pubblici- il Tribunale del riesame ha quindi concluso che le opere da ultimo accertate erano state poste in essere ben oltre il termine di un anno dal rilascio della concessione edilizia e, pertanto, non più assentite, integravano il fumus del reato di cui all'art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001 (atteso il carattere vincolato dell'area).
Quel che, peraltro, priva di rilievo il primo motivo di gravame, con il quale si assume il difetto di motivazione con riguardo ai documenti prodotti dalla difesa in sede camerale; osserva la Corte, infatti, che la rilevanza degli stessi è stata implicitamente disattesa dalle affermazioni che precedono, poiché giammai idonei -quantomeno nella presente fase cautelare- a superare gli esiti di accertamenti compiuti da pubblici ufficiali, che avevano riferito nei termini suddetti.
E fermo restando, peraltro, che -per costante indirizzo di legittimità, qui da ribadire-
la mera attività di indagine geotecnica (di cui alla documentazione allegata), quand'anche avvenuta, non potrebbe comunque costituire "inizio dei lavori" nell'ottica in esame (al pari, peraltro, degli sbancamenti di terreno poi accertati), occorrendo a tal fine la compiuta organizzazione del cantiere e la presenza di altri indizi idonei a confermare l'effettivo intendimento del titolare del permesso di costruire di realizzare l'opera assentita (per tutte, Sez. 3, n. 7114 del 27/01/2010, Viola, Rv. 246220: in motivazione, la Corte ha precisato che detti indizi consistono nell'impianto del cantiere, nell'innalzamento di elementi portanti, nell'elevazione di muri e nell'esecuzione di scavi coordinati al gettito delle fondazioni del costruendo edificio).
6. Con riguardo, poi, al profilo della decadenza dal titolo abilitativo, strettamente connesso al precedente, rileva il Collegio che la motivazione dell'ordinanza risulta ancora congrua e tutt'altro che assente o meramente apparente.
Ed invero,
ai sensi dell'art. 15, comma 2, d.P.R. n. 380 del 2001, "Il termine per l'inizio dei lavori non può essere superiore ad un anno dal rilascio del titolo; quello di ultimazione, entro il quale l'opera deve essere completata, non può superare tre anni dall'inizio dei lavori. Decorsi tali termini il permesso decade di diritto per la parte non eseguita, tranne che, anteriormente alla scadenza, venga richiesta una proroga. La proroga può essere accordata, con provvedimento motivato, per fatti sopravvenuti, estranei alla volontà del titolare del permesso, oppure in considerazione della mole dell'opera da realizzare, delle sue particolari caratteristiche tecnico-costruttive, o di difficoltà tecnico-esecutive emerse successivamente all'inizio dei lavori, ovvero quando si tratti di opere pubbliche il cui finanziamento sia previsto in più esercizi finanziari".
Orbene, dalla lettera della norma -per come costantemente interpretata da questa Corte- deriva che
il decorso del termine di ultimazione dei lavori comporta, se non prorogato, la decadenza di diritto del permesso di costruire per la parte ancora non eseguita, con conseguente configurabilità del reato previsto dall'art. 44, lett. b), del citato decreto, in caso di loro prosecuzione oltre detto termine (Sez. 3, n. 17971 dell'08/04/2010, Garofalo, Rv. 247161: in motivazione, peraltro, la Corte ha precisato che, diversamente, un provvedimento espresso e motivato dell'Autorità amministrativa è richiesto per la proroga del termine.
Negli stessi termini, tra le altre, Sez. 3, n. 12316 del 21/02/2007, Minciarelli, Rv. 236336). E senza che, al riguardo, possa rilevare il diverso indirizzo che il Consiglio di Stato ha espresso con la decisione n. 4823 del 22/10/2015, richiamata nel gravame, peraltro non pacifico neppure in seno al medesimo Consesso; ed invero, nella motivazione della stessa (resa, all'evidenza, in un'ottica diversa da quella in esame), si afferma -pur aderendo all'indirizzo citato- che il provvedimento di decadenza è «meramente dichiarativo e con efficacia ex tunc, qualunque sia l'epoca in cui è stato adottato e quindi anche se intervenuto molto tempo dopo che i termini in questione erano inutilmente decorsi, e ancorché i suoi effetti retroagiscano al momento dell'evento estintivo».
7. In forza di quanto precede, dunque, il provvedimento impugnato risulta sostenuto da adeguata motivazione con riferimento al contestato art. 44, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 380 del 2001, sì da non poter esser censurato nei termini invocati; emerge sufficiente, infatti, il fumus di opere eseguite in difetto di titolo edilizio, poiché già decaduto. E senza che, pertanto, assuma alcun rilievo la doglianza -invero astrattamente fondata- con la quale si contesta l'asserita illegittimità della concessione in esame in forza del rapporto (individuato dal Tribunale) tra le opere in oggetto, la loro destinazione ad esser fruite dalla collettività e la balneabilità del mare antistante; trattasi, infatti, di un nesso che pare sfuggire ai canoni della logica, ma che, proprio per ciò, non integra una violazione di legge contestabile in sede di legittimità.
8. Di seguito, con particolare riguardo alla condotta ex art. 181, d.Lgs. n. 42 del 2004 (in ordine alla quale -alla luce della recente sentenza della Corte costituzionale n. 56 del 23/03/2016- dovrà peraltro esser verificata la configurabilità del primo o del secondo comma della norma, con ogni conseguente effetto), osserva il Collegio che l'ordinanza ne ha riconosciuto il fumus ancora in ragione di una risultanza obiettiva, quale il vincolo paesaggistico gravante sull'area in oggetto; ciò, giusta decreto del competente assessorato a data 30/09/1998 (che aveva dichiarato il notevole interesse pubblico della zona) e Piano paesistico del 01.02.2012, che aveva inserito il medesimo territorio sotto un livello 3 di tutela.
In ragione del quale -giusta valutazione operata dal Tribunale, non sindacabile in questa sede poiché attinente a mero fatto- gli interventi quale quello riscontrato non possono esser compiuti, in quanto esclusi ai sensi del punto 13g dello stesso Piano. E senza che, da parte di questa Corte, possa accogliersi il motivo proposto al riguardo dal Serra, che imporrebbe un esame di merito della tipologia dell'opera de qua ed il suo inserimento -o meno- tra le previsioni del punto 13g citato.
9. Del pari, con riguardo alla medesima contestazione, osserva poi il Collegio che l'ordinanza -ancora con solido percorso motivazionale- ha confutato la tesi per la quale l'autorizzazione paesaggistica, poiché rilasciata prima dell'approvazione del Piano, sarebbe risultata comunque valida per i successivi cinque anni, giusta art. 48 di quest'ultimo; ed invero, come si legge nell'ordinanza, al maturare del quinquennio dal 04/06/2009 nessun lavoro aveva ancora avuto inizio sull'area in esame, come da plurimi accertamenti compiuti, sì che i successivi sbancamenti non erano risultati "coperti" da alcun provvedimento al riguardo.
Né, peraltro, può esser invocato
l'art. 146, comma 4, d.lgs. n. 42 del 2004, a mente del quale "Il termine di efficacia dell'autorizzazione decorre dal giorno in cui acquista efficacia il titolo edilizio eventualmente necessario per la realizzazione dell'intervento, a meno che il ritardo in ordine al rilascio e alla conseguente efficacia di quest'ultimo non sia dipeso da circostanze imputabili all'interessato"; ed invero, questa disposizione "lega" cronologicamente i due provvedimenti sul presupposto dall'effettiva vigenza di quello urbanistico, da escludere nel caso di specie -alla data di esecuzione dello sbancamento- in ragione della maturata decadenza, come ben riconosciuta dal Tribunale del riesame (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.08.2016 n. 35243).

EDILIZIA PRIVATALa diffida a demolire è atto presupposto dell'ordinanza di demolizione, idoneo a ledere direttamente e immediatamente il destinatario della sanzione ed, in quanto tale, è immediatamente impugnabile con la conseguente inammissibilità del ricorso proposto avverso l'ordine di demolizione tutte le volte in cui le censure volte a sostenere la regolarità del manufatto non siano state tempestivamente dedotte con riferimento alla diffida.
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SULLA PARZIALE INAMISSIBILITA’ E COMUNQUE IMPROCEDIBILITA’ DEL RICORSO INTRODUTTIVO
19. Il ricorso introduttivo risulta all’evidenza in parte inammissibile, laddove, come evidenziato dalla difesa del Comune, rivolto avverso un atto endoprocedimentale -ovvero contro l’atto di comunicazione di avvio del procedimento di rigetto delle istanze di condono prodotte da parte ricorrente- privo pertanto di autonoma capacità lesiva.
19.1. Per contro tale ricorso risulta improcedibile laddove rivolto contro la diffida non rinnovabile a demolire, ai sensi dell’art. 35 D.P.R. 380/2001, trattandosi di atto che seppure impugnabile in quanto dotato di autonoma capacità lesiva [cfr. ex multis, TAR Piemonte, sez. I, 07.07.2009, n. 2005, e TAR Valle d'Aosta, 12.03.2008, n. 23, TAR Abruzzo Pescara Sez. I, Sent., 14.01.2010, n. 23 secondo cui la diffida a demolire è atto presupposto dell'ordinanza di demolizione, idoneo a ledere direttamente e immediatamente il destinatario della sanzione ed, in quanto tale, è immediatamente impugnabile con la conseguente inammissibilità del ricorso proposto avverso l'ordine di demolizione tutte le volte in cui le censure volte a sostenere la regolarità del manufatto non siano state tempestivamente dedotte con riferimento alla diffida (Cons. St. sez. VI, 30.10.2007, n. 5689)] risulta superato dalla successiva ordinanza di demolizione n. 441 del 2011 e successivamente dall’ordinanza di demolizione n. 3288/2012, avente natura, alla stregua di quanto di seguito indicato, di provvedimento di conferma in senso proprio, dotato pertanto di autonoma capacità lesiva (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Qualora l'Amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una aggiornata motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente atto, il successivo provvedimento si qualifica come atto del tutto nuovo, sia pure con effetto confermativo, e non meramente confermativo.
Di conseguenza deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal provvedimento di conferma, innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario e, come tale, idoneo a rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento.

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SULLA PARZIALE IMPROCEDIBILITA’ E SULL’INFONDATEZZA DEL PRIMO RICORSO PER MOTIVI AGGIUNTI
20. Il primo ricorso per motivi aggiunti è rivolto contro un atto a duplice valenza, in quanto avente ad oggetto sia il diniego delle istanze di sanatoria ex l. 47/1985 ed ex lege 724/1994, prodotte da parte ricorrente, sia il consequenziale ordine di demolizione delle opere in contestazione.
Si osserva al riguardo che l’ordine demolitorio de quo risulta successivamente superato da quello contenuto nell’ordinanza n. 32885/2012, oggetto di impugnazione con il quinto ricorso per motivi aggiunti.
20.1 Ciò in quanto, come evidenziato sia dalla difesa del Comune resistente che della controinteressata Be.Fl., tale ordinanza è stata adotta all’esito di apposita istruttoria e di previo parere dell’Ufficio Legale in relazione all’istanza di parte ricorrente tesa all’applicazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 38 D.P.R. 380/2001 e pertanto assume la natura di atto di conferma del precedente ordine demolitorio –a valenza provvedimentale– e non di atto meramente confermativo.
20.2. Per contro l’ordinanza n. 32885/2012 non contiene alcun riesame in ordine alle istanze di condono prodotte da parte ricorrente (oggetto di decisione con la precedente ordinanza n. 441 del 2011, sul punto meramente richiamata nell’ordinanza n. 32885/2012).
20.3. Alla stregua di tali rilievi, il primo ricorso per motivi aggiunti va esaminato solo in relazione a quelle censure volte a contestare il diniego di condono, ovvero quella parte dell’ordinanza n. 441/2011 che non risulta superata dalla successiva ordinanza n. 32885/2012 (cfr. ex multis Consiglio di Stato sez. III, 09/07/2014, n. 3491) secondo cui “Qualora l'Amministrazione, sulla scorta di una rinnovata istruttoria e sulla base di una aggiornata motivazione, dimostri di voler confermare la volizione espressa in un precedente atto, il successivo provvedimento si qualifica come atto del tutto nuovo, sia pure con effetto confermativo, e non meramente confermativo; di conseguenza deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, il ricorso diretto avverso il provvedimento che, in pendenza del giudizio, sia stato sostituito dal provvedimento di conferma, innovativo e dotato di autonoma efficacia lesiva della sfera giuridica del suo destinatario e, come tale, idoneo a rendere priva di ogni utilità la pronuncia sul ricorso proposto avverso il precedente provvedimento” (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo.
La "precarietà" dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo.
Non possono essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
E’ illegittima la deliberazione del Consiglio comunale con la quale gli uffici sono stati autorizzati ad assentire un ampliamento di un chiosco-bar già esistente (per un’estensione di circa 12 mq.), presente in una pineta, trasformandolo in una grande struttura di circa 120 mq., atteso che tale intervento, per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione è riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell'articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001 (a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, "e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee").
In tal caso, quindi, l’intervento in questione deve essere qualificato come ‘nuova costruzione’, ai sensi del d.P.R. 380 del 2001, a nulla rilevando che il chiosco-bar venga smontato nel corso dell'anno per alcuni mesi.
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SULL’INAMISSIBILITA’ DEL SECONDO E TERZO RICORSO PER MOTIVI AGGIUNTI E COMUNQUE SULLA LORO IMPROCEDIBILITA’
22. Inammissibili sono poi il secondo e il terzo ricorso per motivi aggiunti, non tanto per il rilievo indicato dalla difesa del Comune, secondo cui essi avrebbero ad oggetto atti non immediatamente lesivi in quanto di carattere endoprocedimentale (ovvero la nota prot. n. 5683 del 28/02/2012 del Comandante della Capitaneria di Porto di Castellamare di Stabia con la quale si attesta come le opere di cui è causa facenti parte delle stabilimento balneare marittimo sono classificabili fra quelle di facile rimozione di cui alle Circolari del Ministero Infrastrutture e Trasporti n. 120 del 24/05/2011 e n. 22 del 25/02/2009, e la nota prot. 13659/03 04 02 alle. 2 del 22.05.2012 adottata dal Comandante della Capitaneria di Porto di Castellamare di Stabia avene ad oggetto “richiesta attestazione inerente l’insistenza di opere sul pubblico demanio marittimo”) ma per la ragione che parte ricorrente ha utilizzato tali atti per produrre –tardivamente– nuove censure avverso gli atti già gravati e segnatamente avverso l’ordinanza n. 441 del 2011, deducendo, con il secondo ricorso per motivi aggiunti la non necessità di concessione edilizia per le opere de quibus, venendo in rilievo strutture facilmente amovibili, non necessitanti di concessione edilizia -ora permesso di costruire– e con il terzo ricorso per motivi aggiunti l’incompetenza del Comune ad emettere l’ordine demolitorio, in considerazione della competenza in materia della Capitaneria di Porto, ai sensi dell’art. 54 cod. nav.
22.1 Pertanto si deve ritenere che parte ricorrente abbia voluto formulare non i motivi aggiunti di nuovo conio, introdotti nel sistema processualamministrativo della l. 205/2000, relativi alla successiva emanazione di atti connessi con quello già oggetto di impugnativa e parimenti lesivi, ma i motivi aggiunti di risalente struttura processuale, individuati dalla giurisprudenza in relazione alla formulazione di nuove censure avverso gli atti già impugnati con il ricorso introduttivo, in considerazione del successivo deposito di documenti non conosciuti, da cui fosse possibile desumere l’esistenza di altri vizi del provvedimento impugnato (quando ad es. l’incompleta conoscenza del compendio provvedimentale lesivo per l’interessato non permettesse, entro la scadenza del termine per ricorrere, di aprire per intero il ventaglio delle censure impugnatorie e solo una successiva evenienza conoscitiva -ad es. comunicazione del testo della motivazione di un provvedimento già conosciuto solo nel dispositivo o comunque solo parzialmente, acquisizione di un atto-presupposto di quello impugnato, ecc.- con la concessa possibilità di riaprire con un secondo termine di ricorso la possibilità-onere della formulazione di altri motivi di ricorso prima non dedotti perché prima non deducibili; cfr ora art. 43 cp.a. secondo cui “I ricorrenti, principale e incidentale, possono introdurre con motivi aggiunti nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte”).
22.2. Risulta peraltro all’evidenza come non ricorrano nell’ipotesi di specie i presupposti per la proposizione di motivi aggiunti di tal genere, avendo il ricorrente utilizzato, ai fini della proposizione di censure tardive, atti posteriori, relativi ad una successiva attività amministrativa, che giammai potevano esimerlo dalla proposizione nei termini decadenziali delle relative censure, salva migliore articolazione a mezzo di motivi aggiunti.
22.2.1. In particolare, la tardività della censura articolata nel terzo ricorso per motivi aggiunti in ordine all’incompetenza del Comune per risiedere la struttura per cui è lite su demanio marittimo, si evince altresì dal fatto che trattavasi di circostanza già nota a parte ricorrente, come desumibile peraltro dal fatto che il Comune ha fatto applicazione del disposto dell’art. 35 D.P.R. 380/2001 e non dell’art. 31 D.P.R. 380/2001, nonché da quanto statuito nella sentenza di questa Sezione n. 10358/2004 e nella sentenza del Consiglio di Stato n. 813/2011.
22.3. In ogni caso, al di là di tali assorbenti rilievi, in ordine all’inammissibilità, detti ricorsi per motivi aggiunti, in quanto rivolti ulteriormente a censurare l’ordinanza n. 441/2011, nella parte in cui dispone la demolizione della struttura de qua, oggetto di impugnativa con il primo ricorso per motivi aggiunti, non possono non risentire dell’improcedibilità in parte qua di tale ricorso, per essere stato superato, quanto all’ordine demolitorio, dall’emanazione della successiva ordinanza nr. 32885/2012, oggetto di impugnazione con il quinto ricorso per motivi aggiunti, secondo quanto innanzi precisato.
22.4. Solo per esigenze di mera completezza si evidenzia peraltro come entrambe le censure articolate in tali ricorsi per motivi aggiunti siano infondate, rinviando per quanto concerne la censura di incompetenza del Comune, al paragrafo relativo alla disamina del sesto ricorso per motivi aggiunti, e per quanto concerne la precarietà della struttura, a quanto ritenuto dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 813/2011 in ordine al carattere stabile e non precario della medesima e in ordine pertanto alla sua totale abusività, stante l’illegittimità dell’ordinanza sindacale n. 201/1997.
22.4.1. Peraltro l’assunto di parte ricorrente contrasta con il costante orientamento giurisprudenziale circa la necessità del rilascio del permesso di costruire in relazione a manufatti destinati a soddisfare esigenze durevoli nel tempo (Cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sez. VI - sentenza 03.06.2014 n. 2842 secondo cui “Vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l'assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo.
La "precarietà" dell'opera, che esonera dall'obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo.
Non possono essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l'alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
E’ illegittima la deliberazione del Consiglio comunale con la quale gli uffici sono stati autorizzati ad assentire un ampliamento di un chiosco-bar già esistente (per un’estensione di circa 12 mq.), presente in una pineta, trasformandolo in una grande struttura di circa 120 mq., atteso che tale intervento, per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione è riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell'articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001 (a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, "e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee").
In tal caso, quindi, l’intervento in questione deve essere qualificato come ‘nuova costruzione’, ai sensi del d.P.R. 380 del 2001, a nulla rilevando che il chiosco-bar venga smontato nel corso dell'anno per alcuni mesi
”) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Non è possibile applicare il disposto sanante dell’art. 38 del D.P.R assimilabile -secondo lo stesso dettato normativo- al provvedimento di concessione edilizia in sanatoria di cui all’art. 36 del D.P.R. 380/2001, alle opere costruite su suolo demaniale, rispetto al quale l’art. 35 del D.P.R. 380/2001 non contempla alcuna ipotesi alternativa alla demolizione.
Afferma la norma summenzionata: “1. In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.
2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, in caso di accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo".
Come già evidenziato dalla Sezione nel precedente richiamato nel gravato provvedimento “l’art. 14 l. n. 47/1985, al pari dell'analogo disposto dell'art. 35 d.lgs. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), con riferimento a tutte le opere realizzate sine titulo su aree e terreni di proprietà pubblica (Stati o Enti Pubblici in genere) prevede come unico provvedimento sanzionatorio -salvo che per quelli realizzati dai soggetti di cui rispettivamente all'art. 5 della legge n. 47/1985 e dell'art. 28 D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia)- l'adozione dell'ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi. L'ordinanza di demolizione e di ripristino se, da un lato, si configura come unico e doveroso provvedimento sanzionatorio, dall'altro, costituisce circostanza idonea ad escludere in radice non solo ogni possibilità di sanatoria, ma anche la stessa sussistenza dell'obbligo di provvedere su tale istanza, in quanto manifestamente inammissibile e infondata”.
Pertanto in relazione all’edificazione contra legem su suolo di proprietà pubblica la sanzione demolitoria (vale sottolinearlo) è l’unica applicabile, stante il regime pubblicistico del suolo.
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L’art. 38 del D.P.R. 380/2001, al pari degli esaminati disposti dell’art. 31, comma 1, lett. b), e 35, comma, 2 l. 47/1985, è volto a tutelare, come evidenziato nell’atto gravato, l’affidamento del soggetto che abbia edificato in virtù di titolo edilizio solo successivamente annullato.
Detto disposto normativo pertanto non può trovare applicazione nell’ipotesi di specie, in quanto, secondo quanto innanzi accennato, le opere di cui è causa sono state realizzate ab initio “sine titulo”, rilasciato solo successivamente ed implicitamente a sanatoria con l’ordinanza n. 201 del 1997 –successivamente annullata in sede giurisdizionale- per cui difettano nell’ipotesi di specie i presupposti per la tutela dell’affidamento dell’istante.
Invero, “L'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato non é tutelato in via generale ma é rimesso alla discrezionalità del legislatore, al quale compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del 1994; ne consegue che, in difetto di una espressa previsione legislativa, la posizione di colui che abbia realizzato l'opera edilizia sulla base di un titolo annullato non si differenzia dagli altri soggetti che hanno invece realizzato l'opera abusiva senza titolo”).
Né alcun rilievo ha la circostanza dedotta da parte ricorrente secondo cui nell’ipotesi di specie non sarebbe ravvisabile il reato di abusiva occupazione demaniale –avente natura permanente- essendo state le opere realizzate in forza di concessione demaniale, in quanto, come più volte evidenziato dalla Sezione, ciò che è stata sanzionata con l’ordinanza gravata non è l’assenza di titolo concessorio, ma l’assenza di titolo edilizio.
Alla stregua di tali rilievi, stante la doverosità della demolizione in relazione all’edificazione sine titulo su suolo di proprietà pubblica, del tutto irrilevanti si profilano le deduzioni di parte ricorrente circa la difficoltà e dannosità della demolizione in danno, in quanto l’impossibilità del ripristino richiesto dall’art. 38 D.P.R. è elemento da solo non sufficiente per l’operatività della norma, come detto non applicabile qualora l’opera sia stata edificata ab initio sine titulo (non essendovi alcuna affidamento da tutelare) e su suolo di proprietà pubblica.
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SULL’INFONDATEZZA DEL QUINTO RICORSO PER MOTIVI AGGIUNTI
24. Del tutto destituite di fondamento sono le censure articolate nel quinto ricorso per motivi aggiunti, avente ad oggetto l’atto di diniego dell’istanza ex art. 38 D.P.R. 380/2001 e il conseguente ordine demolitorio, relative al difetto di istruttoria e di motivazione in ordine all’applicazione del disposto di cui all’art. 38 D.P.R. 380/2001.
24.1. Parte ricorrente deduce al riguardo che nell’ipotesi di specie ricorrevano tutti i presupposti per l’applicazione della sanzione pecuniaria in luogo della demolitoria, avuto riguardo alla circostanza che egli disponeva di titolo edilizio, poi oggetto di annullamento, nonché alla circostanza che la demolizione in danno delle opere di cui è causa si presenterebbe pericolosa in relazione ai rischi di erosione del litorale, nonché in relazione ai danni arrecabili ai reperti archeologici siti nel sottosuolo, ed al contesto ambientale di rilievo comunitario.
Assume in ogni caso l’illegittimità del provvedimento demolitorio, in quanto relativo all’intera struttura, nonostante la pedana in legno fosse stata realizzata in data antecedente il 01/09/1997, con il parere favorevole della Soprintendenza.
24.2. Le censure non sono meritevoli di accoglimento in primo luogo in quanto non è possibile applicare il disposto sanante dell’art. 38 del D.P.R assimilabile -secondo lo stesso dettato normativo- al provvedimento di concessione edilizia in sanatoria di cui all’art. 36 del D.P.R. 380/2001, alle opere costruite su suolo demaniale, rispetto al quale l’art. 35 del D.P.R. 380/2001 non contempla alcuna ipotesi alternativa alla demolizione, come evidenziato nell’ordinanza gravata con rinvio alla motivazione della nota del Servizio Affari legale prot. n. 30751 del 2012.
Afferma la norma summenzionata: “1. In caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall'agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest'ultima e l'amministrazione comunale. La valutazione dell'agenzia è notificata all'interessato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa.
2. L'integrale corresponsione della sanzione pecuniaria irrogata produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria di cui all'articolo 36.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, in caso di accertamento dell'inesistenza dei presupposti per la formazione del titolo
".
Come già evidenziato dalla Sezione nel precedente richiamato nel gravato provvedimento “l’art. 14 l. n. 47/1985, al pari dell'analogo disposto dell'art. 35 d.lgs. n. 380 del 2001 (T.U. Edilizia), con riferimento a tutte le opere realizzate sine titulo su aree e terreni di proprietà pubblica (Stati o Enti Pubblici in genere) prevede come unico provvedimento sanzionatorio -salvo che per quelli realizzati dai soggetti di cui rispettivamente all'art. 5 della legge n. 47/1985 e dell'art. 28 D.P.R. n. 380/2001 (T.U. Edilizia)- l'adozione dell'ordinanza di demolizione e di ripristino dello stato dei luoghi. L'ordinanza di demolizione e di ripristino se, da un lato, si configura come unico e doveroso provvedimento sanzionatorio, dall'altro, costituisce circostanza idonea ad escludere in radice non solo ogni possibilità di sanatoria, ma anche la stessa sussistenza dell'obbligo di provvedere su tale istanza, in quanto manifestamente inammissibile e infondata” TAR Campania Napoli Sez. VII, 22.03.2012, n. 1445; TAR Puglia Bari, sez. III, 18.10.2010, n. 3675).
Pertanto in relazione all’edificazione contra legem su suolo di proprietà pubblica la sanzione demolitoria (vale sottolinearlo) è l’unica applicabile, stante il regime pubblicistico del suolo (TAR Sicilia, Palermo, sez. II. Sent. 2418/2011, precedente del pari richiamato nella gravata ordinanza).
24.3. In secondo luogo in quanto l’art. 38 del D.P.R. 380/2001, al pari degli esaminati disposti dell’art. 31, comma 1, lett. b), e 35, comma, 2 l. 47/1985, è volto a tutelare, come evidenziato nell’atto gravato, l’affidamento del soggetto che abbia edificato in virtù di titolo edilizio solo successivamente annullato.
Detto disposto normativo pertanto non può trovare applicazione nell’ipotesi di specie, in quanto, secondo quanto innanzi accennato, le opere di cui è causa sono state realizzate ab initiosine titulo”, rilasciato solo successivamente ed implicitamente a sanatoria con l’ordinanza n. 201 del 1997 –successivamente annullata in sede giurisdizionale- per cui difettano nell’ipotesi di specie i presupposti per la tutela dell’affidamento dell’istante (cfr. al riguardo ex multis Consiglio di Stato Sez. IV, sent. n. 4770 del 10.08.2011, secondo cui “L'affidamento del privato a poter conservare l'opera realizzata sulla base di un titolo edilizio successivamente annullato non é tutelato in via generale ma é rimesso alla discrezionalità del legislatore, al quale compete emanare norme speciali di tutela come la potenziale commutabilità della sanzione demolitoria in quella pecuniaria (art. 38 d.P.R. n. 380 del 2001), ovvero un regime di favore in sede di condono edilizio, come avvenuto con l'art. 39, l. n. 724 del 1994; ne consegue che, in difetto di una espressa previsione legislativa, la posizione di colui che abbia realizzato l'opera edilizia sulla base di un titolo annullato non si differenzia dagli altri soggetti che hanno invece realizzato l'opera abusiva senza titolo”).
24.4. Né alcun rilievo ha la circostanza dedotta da parte ricorrente secondo cui -come evidenziato dal G.I.P. di Torre Annunziata- nell’ipotesi di specie non sarebbe ravvisabile il reato di abusiva occupazione demaniale –avente natura permanente- essendo state le opere realizzate in forza di concessione demaniale, in quanto, come più volte evidenziato dalla Sezione, ciò che è stata sanzionata con l’ordinanza gravata non è l’assenza di titolo concessorio, ma l’assenza di titolo edilizio (cfr. al riguardo sul contenzioso in oggetto, relativamente alla parallela procedura di ottemperanza all’esecuzione in danno di cui alla sentenza n. 3610/2012, la sentenza di questa Sezione n. 2224/2014, secondo la quale “infatti, come correttamente chiarito in detta nota è pacifico che tutte le pronunce citate in premessa e alle quali il commissario ad acta deve dare esecuzione riguardano unicamente ed esclusivamente l’esercizio delle funzioni repressive dal punto di vista edilizio e non involgono, né avrebbero potuto o dovuto involgere, anche la concessione demaniale rilasciata al sig. Ai., atteso che si tratta di titolo del tutto estraneo al contenzioso edilizio e che non ha alcuna incidenza sullo stesso, a maggior ragione nella fase esecutiva”).
24.5. Alla stregua di tali rilievi, stante la doverosità della demolizione in relazione all’edificazione sine titulo su suolo di proprietà pubblica, del tutto irrilevanti si profilano le deduzioni di parte ricorrente circa la difficoltà e dannosità della demolizione in danno, in quanto l’impossibilità del ripristino richiesto dall’art. 38 D.P.R. è elemento da solo non sufficiente per l’operatività della norma, come detto non applicabile qualora l’opera sia stata edificata ab initio sine titulo (non essendovi alcuna affidamento da tutelare) e su suolo di proprietà pubblica.
Peraltro deve osservarsi che le deduzioni di parte ricorrente sono del tutto generiche e non supportate da alcun valido principio di prova (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Al fine di valutare la portata di un intervento edilizio complesso, costituito da una pluralità di opere deve effettuarsi una valutazione globale e non atomistica delle stesse.
Invero, “Nel verificare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve necessariamente effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione; di conseguenza, in presenza di un abuso di notevoli dimensioni, composto da diverse opere l'una funzionale all'altra, si è in realtà in presenza di un'unica attività di trasformazione urbanistica, per la quale è necessario il permesso di costruire, senza possibilità di scomporre una parte per sostenerne l'assoggettabilità a d.i.a.”.

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SULL’INFONDATEZZA DEL QUINTO RICORSO PER MOTIVI AGGIUNTI
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24.6. Del pari infondata è la deduzione di parte ricorrente, secondo la quale l’ordinanza de qua sarebbe illegittima nella parte in cui dispone la demolizione dell’intera struttura nonostante la pedana in legno fosse antecedente al settembre del 1967 e fosse stata autorizzata dalla Soprintendenza.
Ciò per un duplice rilievo.
24.6.1. In primo luogo in quanto detto parere aveva ad oggetto una struttura del tutto precaria, mentre come evidenziato dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 813/2011, parte ricorrente ha poi realizzato una struttura stabile da ritenersi totalmente abusiva, per cui alcun rilievo potevano avere le pregresse autorizzazione paesaggistiche.
24.6.2. In secondo luogo in quanto, secondo il costante orientamento giurisprudenziale, condiviso dalla Sezione, al fine di valutare la portata di un intervento edilizio complesso, costituito da una pluralità di opere deve effettuarsi una valutazione globale e non atomistica delle stesse (ex multis da ultimo TAR Torino (Piemonte) sez. II, 09/05/2014, n. 825 secondo cui “Nel verificare un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere deve necessariamente effettuarsi una valutazione globale delle stesse, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprendere l'effettiva portata dell'operazione; di conseguenza, in presenza di un abuso di notevoli dimensioni, composto da diverse opere l'una funzionale all'altra, si è in realtà in presenza di un'unica attività di trasformazione urbanistica, per la quale è necessario il permesso di costruire, senza possibilità di scomporre una parte per sostenerne l'assoggettabilità a d.i.a.”; in senso analogo TAR Campania, Napoli, sez. VI, n. 7053 del 2009, nn. 1155, 1993 e 26787 del 2010 e nn. 1041 e 5837 del 2013; TAR Lombardia, Milano, sez. II, n. 584 del 2010; TAR Piemonte, sez. II, n. 143 del 2012; TAR Valle d'Aosta, n. 75 del 2010) (TAR Campania-Napoli, Sez. VII, sentenza 10.10.2014 n. 5261 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La valutazione dell’incidenza urbanistico-edilizia dell’intervento abusivamente realizzato deve essere condotta avuto riguardo alla globalità delle opere, che non possono essere considerate in modo atomistico.
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Analogamente infondato appare, quindi, il secondo motivo di ricorso, poiché l’abuso edilizio deve essere valutato nel suo complesso e non in modo atomistico, sicché non sarebbe possibile, come auspicato dalla ricorrente, che l’amministrazione scorpori la parte dell’abuso ricadente in zona edificabile da quella ricadente in area agricola, onde sanarne almeno una parte.
Più in generale, va ribadito che la valutazione dell’incidenza urbanistico-edilizia dell’intervento abusivamente realizzato deve essere condotta avuto riguardo alla globalità delle opere, che non possono essere considerate in modo atomistico (cfr. in tal senso, Consiglio di Stato, VI, 06.06.2012 n. 3330; TAR Lombardia, Milano, II, 24/07/2012 n. 2058).
In tal senso, la pur succinta motivazione –riportata nella parte in fatto– addotta dall’amministrazione a supporto del diniego di sanatoria, è comunque idonea a rappresentare le ragioni del diniego stesso, atteso che, da un lato, si è in presenza di un’attività vincolata dell’amministrazione, scandita dal chiaro disposto dell’art. 36 d.P.R. n. 380/2001; e, dall’altro, l’abuso deve essere, per le ragioni anzidette, valutato in termini unitari.
Ne discende che, insistendo una parte dell’abuso edilizio per cui è causa in zona agricola inedificabile, è evidente la mancanza, nel caso concreto, del presupposto della cd. doppia conformità, a cui l’articolo da ultimo citato àncora il rilascio del permesso in sanatoria (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 18.09.2013 n. 2178 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa trasformazione di una copertura in terrazzo praticabile costituisce variazione essenziale ai sensi dell’art. 8 della l. 47/1985, come sostituito in Sicilia dall’art. 4 della L.R. 37/1985, se determina aumento della superficie utile in misura superiore al 10% di quella originaria. In sé, la modifica della mera copertura a lastrico in terrazza aumenta la superficie “utile” dell’immobile, perché trasforma la natura prevalentemente di protezione del fabbricato che è propria del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente alla fruizione umana, per affaccio e sosta.
La dottrina, infatti, suole distinguere il lastrico dalla terrazza, perché il lastrico è una forma di copertura dell’edificio, sostituente il tetto, non destinato in sé, come invece la terrazza, ad una particolare forma di fruizione umana o di godimento a favore di chi ne è proprietario. Per questo, mentre per la terrazza è concepibile una copertura, il lastrico è sempre scoperto; quest’ultimo, tipologicamente, si distingue dalla terrazza perché mancano le opere di ornamento e fruizione tipiche della utilizzazione umana, come parapetti, pavimentazione, porte di accesso, muretti divisori e solai sottostanti, impermeabilizzazione, gronde, giardini pensili, arredi e così via.
In altri termini, la copertura del fabbricato, di per sé, è area fabbricabile (alle condizioni e nei limiti previsti dallo strumento urbanistico) e dunque anche la costruzione di una terrazza rientra nella nozione di opera edilizia che è subordinata a permesso di costruire tutte le volte che implichi una permanente trasformazione del suolo inedificato (Cass. Civ. III, 27.01.2004, che ha ritenuto soggetta a permesso di costruire la realizzazione di un parcheggio in area precedentemente agricola mediante la semplice apposizione di ghiaia), pure in assenza di opere in muratura, purché finalizzate ad una trasformazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarla ad un impiego diverso da quello originario in relazione alla natura e qualificazione giuridica.

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III) Quanto al merito delle domande introdotte con il ricorso e con i motivi aggiunti, si deve osservare che decisivo, ai fini della soluzione della questione posta alla decisione del Collegio, è l’accertamento della natura della copertura del fabbricato dei ricorrenti.
La verificazione ha concluso, sul punto, che la copertura del fabbricato è stata trasformata in terrazzo dopo la originaria licenza edilizia del 1973; nella relazione tecnica che accompagna il progetto di manutenzione straordinaria del 2001, non si fa esplicito riferimento alla trasformazione del lastrico in terrazzo, posto che si considera quest’ultimo come già esistente.
Vanno pertanto distinte due diverse problematiche: la trasformazione o realizzazione del terrazzo e la copertura di parte di esso con una struttura permanente, sia pure realizzata in materiali di facile rimozione, almeno in parte.
La trasformazione di una copertura in terrazzo praticabile costituisce variazione essenziale ai sensi dell’art. 8 della l. 47/1985, come sostituito in Sicilia dall’art. 4 della L.R. 37/1985, se determina aumento della superficie utile in misura superiore al 10% di quella originaria. In sé, la modifica della mera copertura a lastrico in terrazza aumenta la superficie “utile” dell’immobile, perché trasforma la natura prevalentemente di protezione del fabbricato che è propria del lastrico, destinandola ordinariamente e durevolmente alla fruizione umana, per affaccio e sosta.
La dottrina, infatti, suole distinguere il lastrico dalla terrazza, perché il lastrico è una forma di copertura dell’edificio, sostituente il tetto, non destinato in sé, come invece la terrazza, ad una particolare forma di fruizione umana o di godimento a favore di chi ne è proprietario. Per questo, mentre per la terrazza è concepibile una copertura, il lastrico è sempre scoperto; quest’ultimo, tipologicamente, si distingue dalla terrazza perché mancano le opere di ornamento e fruizione tipiche della utilizzazione umana, come parapetti, pavimentazione, porte di accesso, muretti divisori e solai sottostanti, impermeabilizzazione, gronde, giardini pensili, arredi e così via.
In altri termini, la copertura del fabbricato, di per sé, è area fabbricabile (alle condizioni e nei limiti previsti dallo strumento urbanistico) e dunque anche la costruzione di una terrazza rientra nella nozione di opera edilizia che è subordinata a permesso di costruire tutte le volte che implichi una permanente trasformazione del suolo inedificato (Cass. Civ. III, 27.01.2004, che ha ritenuto soggetta a permesso di costruire la realizzazione di un parcheggio in area precedentemente agricola mediante la semplice apposizione di ghiaia; cfr. anche Consiglio di Stato, V, 10.07.2003, nr. 4107), pure in assenza di opere in muratura (Consiglio di Stato, V, 21.10.2003, nr. 6519), purché finalizzate ad una trasformazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarla ad un impiego diverso da quello originario in relazione alla natura e qualificazione giuridica (Consiglio di Stato, V 31.01.2001, nr. 343).
Ai fini dell’applicazione della norma di cui all’art. 8 citato, inoltre, l’aumento della superficie utile, nella fattispecie in esame, supera pacificamente il 10% di quella originaria, come si evince dall’esame degli elaborati tecnici allegati al progetto ed acquisiti agli atti del giudizio.
La differenza urbanistica tra semplice copertura-lastrico solare e terrazzo (che implica la modifica della condizione naturale e della qualificazione giuridica dell’area) si evince, in Sicilia, anche dalla esistenza di uno specifico regime per le terrazze, dato dalle disposizioni di cui all’art. 20 della L.R. 4/2003 che autorizza la realizzazione di verande e chiusure di terrazze di collegamento o terrazze di copertura di superficie compresa entro i 50 mq, con una procedura semplificata e che, essendo norma speciale rispetto all’ordinario regime edilizio, va intesa restrittivamente, applicandosi dunque solamente alle terrazze e non alle semplici coperture.
Pertanto, la trasformazione di una copertura di edificio da lastrico solare a terrazza, in Sicilia, richiede la concessione edilizia, in quanto variazione essenziale, ai sensi dell’art. 8 della l. 47/1985 ed in quanto muta la funzione urbanistica della copertura medesima, da elemento prevalentemente di copertura ad elemento strutturale finalizzato parimenti alla fruizione umana, rendendola, come tale, atta all’applicazione della normativa in tema di procedimento semplificato per l’autorizzazione alla copertura delle terrazze, ex art. 20 L.R. 4/2003.
Ciò premesso, i lavori, nella relazione tecnica sottoscritta il 30.05.2001, sono così descritti: “sul terrazzo sarà realizzato un piccolo lanternino con struttura precaria in profilati di alluminio e vetri per la protezione del nuovo sbarco scala, un parapetto in parte in muratura ed in parte in ferro, infine sarà rifatta la pavimentazione con marmette di graniglia compresa l’idonea impermeabilizzazione con guaina asfaltica di tutta la superficie del terrazzo”.
La suddetta tipologia di opere sarà, dunque, da ascriversi nel novero dei lavori soggetti a concessione edilizia e non a semplice autorizzazione, laddove risulti che non preesisteva una terrazza, ossia una superficie ordinariamente calpestabile ed atta alla sosta ed al passaggio, secondo l’uso edilizio comune.
Nella medesima relazione si legge, nella parte iniziale ove è descritto lo stato dei luoghi, che una scala in ferro conduce “al terrazzo soprastante praticabile”.
La verificazione ha permesso di riscontrare che la realizzazione del terrazzo non era prevista nella originaria licenza edilizia: in effetti, la relazione tecnica del 05.07.1972 non fa alcun riferimento alla natura della copertura del fabbricato, sebbene il verificatore abbia accertato che i calcoli statici furono realizzati tenendo presente la calpestabilità della copertura. Tale circostanza non è di per sé indicativa della previsione di una utilizzazione della copertura a terrazza, posto che quest’ultima va tecnicamente realizzata con apposite lavorazioni (specie in ordine al trattamento dei pavimenti e della impermeabilizzazione) tanto che, nella relazione tecnica del progetto del 2001 si prevede la “realizzazione” di parapetti e non la loro “sostituzione”; in punto di fatto, nell’accertamento del 06.11.2002, il tecnico comunale Ing. Fo. rileva che, a quella data, è stato “realizzato” un parapetto.
In altri termini, sia la mancanza di una previsione iniziale di utilizzazione della copertura a terrazza; sia la natura dei lavori oggetto dell’autorizzazione del 2001, e la natura dei luoghi e della distribuzione degli spazi, non consentono altro che ritenere che, sul punto, il ricorso della sig.ra Ce. è fondato, perché l’autorizzazione del 2001 ha, in pratica, assentito la realizzazione da parte della controinteressata della copertura a terrazza, che avrebbe dovuto essere, invece, oggetto di concessione edilizia.
D’altronde, la controinteressata nessuna prova ha offerto della eventuale preesistenza della terrazza (ad esempio, perché realizzata dai precedenti proprietari o comunque in tempi anteriori), non essendo sufficiente a tale scopo la mera indicazione contenuta nella relazione tecnica del progetto del 2001, che il terrazzo soprastante era “praticabile”, non accompagnata da alcun serio riscontro, progettuale prima di tutto, della sussistenza del requisito della “praticabilità” della copertura o della esistenza di un terrazzo.
Di per sé, infatti, la praticabilità della copertura, assicurata da un collegamento mediante scala in ferro esterna, non implica la sua fruibilità come terrazzo, dovendo essere accessibile anche una copertura a lastrico ai fini della sua manutenzione.
Un ulteriore indicatore in tal senso è dato, sempre con riferimento al progetto del 2001, dalla revisione degli spazi interni: è indicativa in tal senso soprattutto la differente ed armonica previsione di una unica scala a chiocciola che unifica i piani tra loro, e consente anche il semplice ed agevole collegamento con il terrazzo, in luogo della evidentemente meno agevole scala in ferro all’aperto che risulta rappresentata nei grafici di progetto (sempre del 2001) come collegante il terrazzino del primo piano con la copertura.
Questa scelta architettonica e la relativa nuova disposizione degli spazi e dei supporti a servizio è logicamente funzionale ad un mutato contesto di utilizzazione della copertura, che adesso è ordinariamente aperta alla fruibilità tipica di un terrazzo (che viene assistita anche da un ampliamento del locale di sbarco della scala), laddove la precedente scala in ferro esterna, invece, realizzando un collegamento evidentemente disagevole tra il terrazzo a livello del primo piano e la copertura del secondo piano implicava una destinazione di quest’ultima all’ uso umano episodica o comunque non frequente, ossia occasionale.
Quanto alla realizzazione del lanternino che accoglie lo sbarco della scala a chiocciola, si deve ritenere quanto segue.
Mentre nel progetto del 2001 si prevedeva una semplice “copertura” dello sbarco, in materiale precario, nella sua realizzazione concreta il Comune ha accertato che tale copertura si è estesa, ampliandosi sia per superficie che per tipologia di lavorazione (in parte in muratura) fino a coprire l’intera porzione di terrazzo nella quale sbarca la scala a chiocciola.
Secondo la controinteressata, tale manufatto, per tipologia e destinazione d’uso, è da considerarsi quale volume tecnico, in quanto ospitante lo sbarco della scala.
Dal risultato dell’esame dei luoghi condotto dal verificatore, il Collegio deve invece ritenere che non sussistono elementi strutturali che giustificano tale qualificazione, essendo l’area coperta ben maggiore delle esigenze di sbarco della scala ed essendo preordinata la struttura alla sua immediata chiusura (come è stato rilevato durante il sopralluogo della verificazione).
Pertanto, la realizzazione di tale opera, congiuntamente alla trasformazione della copertura in terrazzo pavimentato ed alla risistemazione dei collegamenti interni mediante la nuova scala a chiocciola che conduce fino al terrazzo medesimo, al momento della sua realizzazione ha implicato la costruzione di un nuovo manufatto in senso urbanistico ed edilizio (il terrazzo) ed un aumento dei volumi (copertura di parte della terrazza) e dunque avrebbe dovuto essere soggetta a concessione.
Va da sé che la tettoia e lo sbarco scala, anche se realizzate in materiale non precario, sarebbero oggi astrattamente ammissibili per effetto della norma regionale di cui all’art. 20 della LR 4/2003 (applicabile anche ai manufatti già realizzati alla sua entrata in vigore: TAR Catania, I, 14.03.2007, nr. 474). Tuttavia, tale compatibilità, che presuppone comunque una apposita valutazione dell’Amministrazione, è pur sempre condizionata alla preventiva regolarizzazione della terrazza, la cui realizzazione, come detto, avrebbe richiesto il rilascio della concessione edilizia (posto che, lo si ripete, l’art. 20 citato trova applicazione solo alle terrazze e non alle semplici coperture).
Spetterà all’Amministrazione, se in ciò richiesta dall’interessata, valutare dunque la possibilità di una sanatoria a regime della terrazza e, nel caso in cui tale istanza possa essere assentita, secondo le procedure di legge, la conseguente sanabilità del manufatto a copertura della terrazza medesima, nel rispetto dei criteri e delle condizioni di cui all’art. 20 della L.R. 4/2003 (TAR Sicilia-Catania, Sez. I, sentenza 10.11.2008 n. 2068 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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