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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di GIUGNO 2017

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aggiornamento al 30.06.2017 (ore 23,59)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 30.06.2017 (ore 23,59)

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Parco Adda Nord, Terzi: emerse irregolarità, atti trasmessi a Procura e Corte Conti.

     Presunte irregolarità nell’attività di gestione del Parco Adda Nord sono emerse dai controlli avviati da Regione Lombardia ai sensi della Legge regionale 17/2014 che disciplina il sistema regionale dei controlli interni. Gli atti sono stati trasmessi alle autorità competenti: Procura della Repubblica, Corte dei Conti, Autorità nazionale anticorruzione e Inps.
A darne notizia, nel corso di una conferenza stampa convocata a Palazzo Pirelli, l’assessore regionale all’Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile Claudia Terzi.
     L’AVVIO DELL’ISPEZIONE – “In seguito a segnalazioni da parte di alcuni componenti del comitato di gestione del Parco, pervenute agli uffici dell’assessore all’Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile in merito a presunti comportamenti di dubbia legittimità posti in essere nell’ambito dell’attività dell’ente Parco Adda Nord – sottolinea Terzi, la direzione di funzione specialistica sistema dei controlli della presidenza regionale, in collaborazione con la Direzione generale Ambiente, ha avviato una verifica ispettiva sull’Ente. L’attività di ispezione –precisa l’assessore– si è svolta anche in contraddittorio con l’ente gestore del Parco, e ha abbracciato un lasso di tempo che va dal mese di ottobre 2016 al 21.06.2017”.
     IL RUOLO DELL’ARAC – “Tale attività di verifica ispettiva –prosegue l’assessore– ha beneficiato anche della partecipazione dell’Arac, l’Agenzia regionale anticorruzione, attraverso la collaborazione di due suoi componenti: la dottoressa Giovanna Ceribelli e il dottor Sergio Arcuri. Un passo importante nell’ambito dell’attività di controllo voluta dal presidente Maroni con la creazione di un’apposita agenzia regionale dedicata alla verifica del rispetto della legalità”.
     L’ESITO DEGLI ACCERTAMENTI – “Gli accertamenti svolti –spiega la titolare lombarda all’Ambiente– avrebbero rilevato, in particolare, accanto a presunte irregolarità nell’ambito di specifici procedimenti amministrativi, l’esistenza di una cattiva gestione della cosa pubblica come, ad esempio, nell’ambito della tutela della concorrenza nell’affidamento delle commesse pubbliche”.
     MANCATA ATTUAZIONE ATTIVITÀ PROMOZIONE – Tra le varie contestazioni, figura anche la mancata attuazione dell’attività di promozione ambientale tramite un call center dedicato, prevista in seguito all’erogazione da parte di Regione Lombardia al Parco Adda Nord, di fondi europei per un importo pari a 37.000 euro.
     TRASMISSIONE DEGLI ATTI – “Alla luce di quanto emerso dall’ispezione regionale –sottolinea Terzi– si è deciso di trasmettere gli atti conclusivi della verifica alle autorità inquirenti. Degli esiti della verifica verrà informata anche l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), in ragione delle possibili violazioni della disciplina in tema di appalti e di trasparenza rilevate, nonché ulteriori autorità pubbliche a vario titolo interessate per materia (Inps, Autorità di gestione Por Fesr 20017-2013, Autorità di audit fondi Ue), in considerazione della varietà delle violazioni emerse”.
     INTERVENTI REGIONALI – “L’amministrazione regionale –conclude Terzi– ha già in corso approfondimenti volti a valutare l’opportunità di puntuali interventi di modifica normativa, per quanto di propria competenza, al fine di ovviare alle principali criticità emerse” (27.06.2017 - link a https://claudiaterzi.wordpress.com).

 
 

Elezioni amministrative e nuovo Sindaco:
okkio ad esautorare "sic et simpliciter" il previgente responsabile dell'UTC!!

PUBBLICO IMPIEGOSe cambia il Primo cittadino, l’incarico dirigenziale non può essere revocato (08.05.2017 - link a www.altalex.com).
La Corte accoglie il ricorso del funzionario di un comune (privo di figure dirigenziali) al quale era stata attribuita la posizione apicale di Responsabile del settore tecnico lavori pubblici, incarico successivamente non confermato in occasione del rinnovo della nomina del Sindaco e proprio contro questa mancata riconferma ricorre il lavoratore.
I giudici ricordano che, sulla base di quanto stabilito da numerosa giurisprudenza costituzionale, il dirigente illegittimamente rimosso –cioè per cause non derivanti da accertamento di risultati negativi o a seguito di procedimenti disciplinari– va reintegrato nell’incarico per il tempo residuo di durata, ed i medesimi principi, dicono i giudici, vanno affermati con riguardo alle posizioni organizzative.
Nel caso di specie il dipendente non era stato riconfermato esclusivamente per il sopraggiunto insediamento del nuovo organo investito del potere di nomina, violando così anche i principi costituzionali della continuità dell’azione amministrativa e del buon andamento dell’azione amministrativa stessa.
Pertanto i giudici accolgono il ricorso e cassano la sentenza dettando il seguente principio di diritto cui la Corte del rinvio dovrà attenersi: “La revoca degli incarichi di posizioni organizzative nell’ambito degli enti locali può essere disposta sulla base degli specifici presupposti indicati dall’art. 9, comma 3, del ccnl 31.03.1999, ed è illegittima se comunicata in considerazione del mero mutamento dell’organo investito del potere di nomina” (commento tratto da www.aranagenzia.it).
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La revoca degli incarichi di posizioni organizzative nell'ambito degli enti locali può essere disposta sulla base degli specifici presupposti indicati dall'art. 9, comma 3, del c.c.n.l. 31.03.1999 ed è illegittima se comunicata in considerazione del mero mutamento dell'organo investito del potere di nomina.
La illegittimità dell'interruzione dello svolgimento degli incarichi dirigenziali determina —in linea generale- il diritto alla reintegrazione negli incarichi stessi.

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La Corte d'appello di Salerno, in riforma della sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore, ha respinto -con sentenza depositata il 29.03.2010- la domanda proposta da Lu.Fa., dipendente con qualifica di funzionario D6 del Comune di Castel San Giorgio, per la reintegrazione nella posizione apicale di Responsabile del settore tecnico lavori pubblici - ufficio espropri del Comune, incarico conferito con decreto del Commissario prefettizio n. 1349 del 27.01.2005 (a cui era stata aggiunta, con decreto n. 4278 del 23.03.2005, la responsabilità del servizio manutentivo degli immobili comunali) e di cui era stata comunicata la mancata conferma (con contestuale attribuzione di altro incarico), con decreto n. 6025 del 28.04.2005, in occasione del rinnovo della nomina del Sindaco.
La Corte di appello ha ritenuto -anche sulla scorta dei principi elaborati dal giudice di legittimità in materia di attribuzione di incarichi dirigenziali nell'ambito del personale privatizzato della pubblica amministrazione- che i criteri di temporaneità di detti incarichi (come sanciti, nell'ambito degli enti locali, dall'art. 109 del D.Lgs. n. 267 del 2000) e di inapplicabilità dell'art. 2103 c.c. (come previsto dall'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001) escludono la configurabilità di un diritto soggettivo alla conservazione dell'incarico affidato, senza alcun profilo di contrasto con l'art. 15 del c.c.n.l. comparto enti locali che si limita ad esplicitare la modalità di attribuzione delle posizioni organizzative negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale.
La Corte ha, conseguentemente, respinto le consequenziali domande di condanna di natura retributiva e risarcitoria.
...
1. Con il primo ed il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 50, 109, 110 del D.Lgs. n. 267 del 2000, dell'art. 15 del c.c.n.l. comparto Enti Locali, dell'art. 13 del Regolamento di organizzazione degli uffici e servizi del Comune di Castel San Giorgio, dell'ad,. 20 dello Statuto del medesimo Comune nonché vizio di motivazione (in relazione all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.), avendo, la Corte territoriale, trascurato che (al di là della contraddizione contenuta nel decreto n. 6025 del 2005 in ordine alla durata a tempo determinato o meno degli incarichi dirigenziali) l'art. 109 del D.Lgs. n. 267 del 2000 non prevede la cessazione degli incarichi dirigenziali in occasione della scadenza del mandato del Sindaco.
In particolare, con il secondo motivo, il ricorrente rileva che il Fa., in quanto titolare di posizione organizzativa quale dipendente a tempo indeterminato di categoria D, vanta il diritto ad ottenere funzioni dirigenziali le quali spettano, in un Comune privo di qualifica dirigenziale, al Responsabile del settore, in forza dell'art. 109 del D.Lgs. n. 267 del 2000 (secondo cui le funzioni dirigenziali possono essere attribuite, nei Comuni privi di qualifiche dirigenziali, ai Responsabili degli uffici), dell'art. 15 del c.c.n.l. di settore (in base al quale i Responsabili delle strutture apicali sono titolari delle posizioni organizzative), dell'art. 13 del Regolamento di organizzazione degli uffici e servizi del Comune di Castel San Giorgio (che stabilisce che la funzione dirigenziale è esercitata dai Responsabili di settore).
2. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché del principio di disponibilità delle prove nonché vizio di motivazione (in relazione all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale, attribuito al decreto n. 6025 del 28.04.2005 un significato contrastante con il suo testo letterale, avulso dal precedente decreto n. 1349 del 27.01.2005, emergendo chiaramente sia la natura indeterminata del conferimento della posizione organizzativa sia l'automatismo contrattuale che collega le funzioni dirigenziali alla titolarità di posizione organizzativa.
3. Con il quarto motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 109 del D.Lgs. n. 267 del 2000 nonché vizio di motivazione (in relazione all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.) dovendo ritenersi illegittimo il decreto n. 6025 del 28.4.2005 di mancato conferimento dell'incarico in quanto sprovvisto di motivazione e, comunque, dotato di motivazione contraddittoria (richiamando due norme, l'art. 109 e l'art. 110 del D.Lgs. n. 267 del 2000, incompatibili tra loro).
...
5. I motivi dal primo al quarto possono esaminarsi congiuntamente, vista la loro connessione, e sono fondati.
Il ricorrente ha trascritto stralcio del Regolamento di organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune di Caste! San Giorgio, ove è previsto (art. 13) che -trattandosi di ente privo di personale con qualifica dirigenziale- la funzione dirigenziale è esercitata dai responsabili di settore.
In ordine agli incarichi dirigenziali, il giudice delle leggi ha affermato -dichiarando la illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della L. n. 145 del 2002 che disponeva la cessazione degli incarichi di funzione dirigenziale generale decorsi 60 giorni dall'entrata in vigore della legge stessa- che il principio di continuità dell'azione amministrativa è strettamente correlato a quello del buon andamento dell'azione stessa, criterio che comporta -per i dirigenti- una valutazione fondata sui risultati da perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico (sentenza n. 103/2007).
La previsione di un'anticipata cessazione ex lege dell'incarico dirigenziale deresponsabilizza il dirigente dall'assunzione dei risultati amministrativi e rende arbitraria l'adozione di poteri di rimozione causalmente giustificabili soltanto nell'ottica della rispondenza ad un pubblico superiore interesse e non certo alla circostanza transeunte del mutamento dell'organo investito del potere di nomina.
La revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può, dunque, essere conseguenza soltanto di una accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di determinati presupposti e all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato.

La successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito e precisato che
i meccanismi di decadenza automatica, "ove riferiti a figure dirigenziali non apicali, ovvero a titolari di uffici amministrativi per la cui scelta l'ordinamento non attribuisce, in ragione delle loro funzioni, rilievo esclusivo o prevalente al criterio della personale adesione del nominato agli orientamenti politici del titolare dell'organo che nomina, si pongono in contrasto con l'art. 97 Cost., in quanto pregiudicano la continuità dell'azione amministrativa, introducono in quest'ultima un elemento di parzialità, sottraggono al soggetto dichiarato decaduto dall'incarico le garanzie del giusto procedimento e svincolano la rimozione del dirigente dall'accertamento oggettivo dei risultati conseguiti" (sentenze n. 34 del 2010, n. 351 e n. 161 del 2008, n. 104 e n. 103 del 2007).
Sulla scorta di tale pronuncia, questa Corte ha recentemente affermato che
il dirigente generale illegittimamente rimosso va reintegrato nell'incarico per il tempo residuo di durata, senza che rilevi l'indisponibilità del posto a seguito della riforma organizzativa dell'amministrazione (sentenza n. 3210/2016).
Medesimi principi vanno affermati con riguardo alle posizioni organizzative, avendo riguardo all'art. 15 del c.c.n.l. comparto Enti locali 2002-2005 (che -negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale- individua nei Responsabili delle strutture apicali i titolari delle posizioni organizzative) nonché all'art. 9, comma 3, del c.c.n.l. comparto Enti locali (che prevede che gli incarichi di posizioni organizzative possono essere revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato, in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in conseguenza di specifico accertamento di risultati negativi).
Invero,
la revoca degli incarichi di posizioni organizzative (incarichi che, di norma, hanno durata non superiore a cinque anni) viene ricollegata, dalle disposizioni contrattuali di settore, solamente alla presenza di determinati presupposti correlati alla modifica della struttura organizzativa dell'ente ovvero ad una valutazione negativa del risultato raggiunto, e non può essere disposta a seguito del mero rinnovo delle cariche politiche. Queste disposizioni perseguono quel principio di continuità dell'azione amministrativa sottolineato dal giudice delle leggi che impediscono l'intervento di profili di arbitrarietà nell'adozione dei poteri di rimozione di questi incarichi, poteri causalmente giustificabili soltanto nell'ottica del buon andamento dell'azione amministrativa e non certo ricollegabili alla circostanza transeunte del mutamento dell'organo investito del potere di nomina.
La Corte del merito non ha proceduto ad una corretta applicazione delle disposizioni legislative e negoziali (art. 109 D.Lgs. n. 276 del 2000, art. 9 c.c.n.l. comparto Enti locali 31.03.1999) che prevede, nell'ambito degli enti locali, la revoca degli incarichi dirigenziali per determinati casi (correlati a profili disciplinari o al mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati) tra i quali non è compreso il mutamento dell'organo investito del potere di nomina.
In assenza di previsione legislativa o negoziale di tale tenore e considerata, in ogni caso, la giurisprudenza costituzionale che ritiene disposizioni di tal fatta contrarie al principio di continuità dell'azione amministrativa, il decreto n. 6025 del 28.04.2005 adottato dal Sindaco del Comune di Castel San Giorgio è illegittimo in quanto motivato esclusivamente sulla base della decadenza "ope legis" degli incarichi dirigenziali a seguito del rinnovo delle cariche politiche.
La Corte del merito, concentrandosi sul profilo di temporaneità degli incarichi dirigenziali, non si è avveduta che la comunicazione di mancata conferma degli incarichi conferiti precedentemente al Fa. era basata, non già sulla scadenza dell'incarico bensì esclusivamente sul sopraggiunto insediamento del nuovo organo investito del potere di nomina.
Può dunque esprimersi il seguente principio di diritto al quale dovrà attenersi il giudice di rinvio:
la revoca degli incarichi di posizioni organizzative nell'ambito degli enti locali può essere disposta sulla base degli specifici presupposti indicati dall'art. 9, comma 3, del c.c.n.l. 31.03.1999 ed è illegittima se comunicata in considerazione del mero mutamento dell'organo investito del potere di nomina.
La illegittimità dell'interruzione dello svolgimento degli incarichi dirigenziali determina —in linea generale- il diritto alla reintegrazione negli incarichi stessi.

Peraltro, il Fa. risulta essere andato in pensione in data 31.12.2005 (come indicato a pag. 6 della sentenza della Corte del merito) e, quindi, in accoglimento del quinto motivo di ricorso, consegue il diritto al risarcimento del danno per il periodo corrispondente alla privazione degli incarichi dirigenziali (sino alla data del pensionamento), pregiudizio da commisurare alle indennità apicali non percepite.
...
7.- In sintesi, il ricorso deve essere accolto, per le ragioni dianzi esposte, mentre la censura relativa alle spese di lite contenuta nel quinto motivo va dichiarata inammissibile. La sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Salerno in diversa composizione, che si atterrà, nell'ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 18.04.2017 n. 9728).

 
 

Continuano imperterriti gli interrogativi in ordine all'«elemosina di Stato», ergo l'«incentivo funzioni tecniche»:

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: 1. Il legislatore del 2016 ha risolto le questioni di diritto transitorio scegliendo l’opzione dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime previgente continui ad operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”.
Ne deriva che l’istituto previsto dall’art. 113 non è applicabile alle procedure bandite prima della data di entrata in vigore del nuovo “Codice”; non può inoltre aversi ripartizione del fondo agli aventi diritto se non dopo l’adozione del regolamento di cui al comma 3 dell’art. 113.
   2. La Sezione non può che rinviare a quanto disposto dal comma 3 dell’articolo in esame in ordine al fatto che le modalità e i criteri di ripartizione sono stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
   3. La disposizione in esame non sembra delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto; tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva che, da un lato, ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza.
---------------

Il Sindaco del Comune di Besana in Brianza (MB) ha formulato una richiesta di parere in merito al regolamento per la ripartizione del fondo di cui all’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
In particolare, il rappresentante dell’Ente, dovendo procedere alla redazione del regolamento di cui all'art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, chiede un parere in merito ai seguenti aspetti.
   - “In primo luogo, sorge il dubbio in merito alla possibilità di riconoscere al personale dipendente gli incentivi per le opere effettivamente portate a termine nei periodi da1 19.08.2014 al 18.04.2016 (periodo di vigenza del citato art. 93, comma 7-bis, Divo 163/2006) e dal 19.04.2016 alla data di approvazione del predisponendo regolamento;
   - In secondo luogo, qualora si configuri la possibilità di procedere alla liquidazione; si devono stabilire le modalità con le quali effettuare la ripartizione delle somme destinate-agli incentivi;
   - In terzo luogo, in merito alla tipologia delle attività alle quali applicare il regolamento in parola si chiede se le attività di manutenzione possano o meno essere ricomprese.
Per quanto riguarda il primo ed il secondo punto, ci risulta di difficile comprensione il
parere 07.09.2016 n. 353 reso dalla Corte dei Conti sezione regionale di Controllo per il Veneto. Sinteticamente, la Corte rispondeva affermando che non è possibile adottare un regolamento avente efficacia retroattiva in quanto ciò è illegittimo a meno di espressa disposizione di legge, ma che è invece possibile accantonare delle somme per la successiva liquidazione, concludendo che ove poi il regolamento successivamente adottato dall'ente dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già stabilita dall'ente, la parte dell'accantonamento non utilizzata concorrerà alla determinazione del risultato di amministrazione.
A prima vista, la seconda risposta pare in contraddizione con la prima, a meno di voler sviluppare la risposta nel modo seguente:
   • non è più possibile adottare un regolamento che disciplini la fattispecie sulla base delle previsioni dì cui all'art. 93, comma 7-bis, D.Lvo 163/2006, a seguito della sua abrogazione da parte del successivo D.Lvo 50/2016;
   • è invece possibile e anzi doveroso adottare un nuovo regolamento in ossequio al D.Lvo 50/2016;
   • le somme accantonate per opere effettivamente portate a termine nel periodo dal 19.08.2014 alla data di adozione del nuovo regolamento andranno ripartite e liquidate secondo i criteri ivi previsti, informati al D.Lvo 50/2016.
Alternativamente, si chiede se è possibile ripartire e liquidare le somme accantonate e calcolate tenendo conto dei limiti massimi imposti dalla normativa vigente nel tempo utilizzando i criteri di riparto previsti nel previgente regolamento, e questo per le opere effettivamente realizzate nel periodo dal 19.08.2014 alla data di adozione del nuovo regolamento.
Per quanto riguarda il terzo punto, il 3° comma dell'art. 113 del D.Lvo 50/2016 testualmente recita: l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità previste in sede di contrattazione decentrata....
Precedentemente, il comma 7-ter dell'art. 93 D.Lvo 163/2006, ora abrogato, prevedeva che il fondo per la ripartizione degli incentivi di che trattasi doveva essere costituito escludendo le attività manutentive. Tale precisazione non compare nel disposto dell'art. 113 D.Lvo 50/2016.
Pertanto si chiede se, nel silenzio della nuova normativa, si deve ritenere abrogata l'esclusione delle attività di manutenzione o se, come ritiene la Corte dei Conti sezione regionale di controllo per la Sardegna con
parere 18.10.2016 n. 122, deve ritenersi tutt'ora esclusa dalla ripartizione delle risorse del fondo l'attività di manutenzione sia ordinaria sia straordinaria”.
...
3. I quesiti posti dal Comune istante sono tre, tutti riguardanti l’interpretazione dell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016.
L’articolo 113 del nuovo Codice dei contratti pubblici approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 introduce nuove forme di “Incentivi per funzioni tecniche”.
La nuova normativa del Codice dei contratti pubblici, sostitutiva della precedente, ha abolito gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente articolo 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006 e ha introdotto nuove forme di incentivazione per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
Detto articolo recita testualmente: “1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzata per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2
.”
Al riguardo si rileva che, l’articolo 1, comma 1, lettera rr), della legge delega 28.01. 2016, n. 11, ha previsto i seguenti criteri: “al fine di incentivare l'efficienza e l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera, è destinata una somma non superiore al 2 per cento dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla programmazione della spesa per investimenti, alla predisposizione e controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi alla progettazione”.
Sulla materia si è espressa la Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, affermando che “gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”.
3.1 Il primo quesito verte sulla possibilità di riconoscere al personale dipendente gli incentivi per le opere effettivamente portate a termine nel periodi dal 19.08.2014 al 18.04.2016 e nel periodo dal 19.04.2016 alla data di approvazione del regolamento di cui all’art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016.
3.1.1 La risposta al quesito necessita, innanzitutto, di chiarire un primo elemento temporale, relativo all’entrata in vigore dell’istituto incentivante di cui all’art. 113 citato nell’ambito della complessiva disciplina introdotta con il d.lgs. n. 50 del 2016.
In via generale l’introduzione di un nuovo assetto normativo, quale quello contenuto nel d.lgs. n. 50 del 2016, determina conseguenze in ordine all’avvicendamento temporale del medesimo rispetto alla disciplina precedente.
Tali conseguenze possono trovare, almeno in astratto,
tre possibili e differenti regolazioni: a) la normativa anteriore continua ad applicarsi ai rapporti sorti prima dell’entrata in vigore del nuovo atto normativo (principio di ultrattività); b) la nuova normativa si applica anche ai rapporti pendenti (principio di retroattività); c) previsione di una regolazione autonoma provvisoria.
In mancanza di un’esplicita regolazione del regime transitorio, soccorrono il principio del divieto di retroattività (art. 11 delle preleggi: “la legge non dispone che per l’avvenire”), che impedisce di ascrivere entro l’ambito operativo di una disposizione legislativa nuova una situazione sostanziale sorta prima, e, per quanto riguarda le fattispecie sostanziali che constano di una sequenza di atti, il principio del tempus regit actum, che impone di giudicare ogni atto della procedura soggetto al regime normativo vigente al momento della sua adozione.

Il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni di diritto transitorio e le ha risolte scegliendo l’opzione dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime previgente continui ad operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”. Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le disposizioni introdotte dal d.lgs. n.50 del 2016 si applicano solo alle procedure bandite dopo la data dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le disposizioni speciali e testuali di diverso tenore.
Non ricorrendo tale ultima eventualità in relazione all’istituto dell’incentivo di cui all’art. 113, la disciplina intertemporale del medesimo non può che rinvenirsi nella regola posta in termini generali dall’art. 216, comma 1, del d.lgs. n. 50 del 2016. Là dove, infatti, quest’ultima previsione si riferisce “al presente Codice”, si deve intendere che essa comprenda entro il proprio ambito applicativo tutte le disposizioni del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Se il legislatore avesse voluto escludere dall’ambito applicativo del regime transitorio la norma di cui all’art. 113, lo avrebbe dovuto esplicitare, come ha fatto per le previsioni riportate nei commi dell’art. 216 successivi al primo e come espressamente stabilito, quale criterio esegetico generale della disciplina transitoria, nella clausola di apertura del primo comma.
A fronte di una espressa regola intertemporale contenuta nell’art. 216 e in difetto di univoci indici che rivelino una chiara volontà di escludere dall’operatività del principio di ultrattività le norme contenute nell’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016, ogni opzione ermeneutica che giunga alla conclusione di applicare a queste ultime il principio della retroattività o, comunque, la regola del tempus regit actum si rivela priva di fondamento positivo, e, pertanto, foriera di incertezze interpretative e di confusione applicativa.
Ne deriva che
l’istituto previsto dall’art. 113 non è applicabile alle procedure bandite prima della data di entrata in vigore del nuovo “Codice”.
3.1.2 L’ulteriore corollario del primo quesito è relativo all’applicabilità dell’incentivo disciplinato dall’art. 113 del d.lgs. n. 50 del 2016 nel periodo successivo all’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici ma antecedente all’introduzione del regolamento ivi richiamato.
Sul punto si è in parte pronunciata la Sezione Veneto con parere 07.09.2016 n. 353, affermando che
l’adozione del regolamento è “una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo. Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge”.
Ne deriva che non può aversi ripartizione del fondo agli aventi diritto se non dopo l’adozione del regolamento di cui al comma 3 dell’art. 113. Fermo restando che la ripartizione è effettuata, come già sopra osservato, in relazione ad attività riferite a procedure bandite a partire dalla data di entrata in vigore del nuovo “Codice” e utilizzando le somme accantonate nel quadro economico riguardante la singola opera.
3.2 Il secondo quesito verte sulle modalità con le quali effettuare la ripartizione delle somme destinate agli incentivi.
Al riguardo la Sezione non può che rinviare a quanto disposto dal comma 3 dell’articolo in esame in ordine al fatto che
le modalità e i criteri di ripartizione sono stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
3.3 Il terzo quesito verte sulla “tipologia delle attività alle quali applicare il regolamento in parola”, chiedendo, in particolare, “se le attività di manutenzione possano o meno essere ricomprese”.
In primo luogo
la Sezione rileva la tassatività –che deriva, a tacer d’altro, dall’uso dell’avverbio “esclusivamente”- dell’elenco delle varie funzioni svolte all’interno delle fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura selettiva, stipulazione ed esecuzione). Con la conseguenza che possono beneficiare dell’incentivo esclusivamente i funzionari che hanno svolto i compiti espressamente indicati al comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 e che l’incentivo è causalmente collegato allo svolgimento delle attività ivi indicate.
Segnatamente gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere corrisposti solo in presenza di una delle attività espressamente considerate dalla disposizione richiamata (così Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle “verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333), che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del d.lgs. n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”), l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce espressamente le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo 3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del d.lgs. n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo
si è già rilevato che la Sezione delle autonomie ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati espressamente citati nel comma 1 dell’art. 113. Si aggiunge che il comma 2 del medesimo articolo è stato sostituito, prevedendo in modo espresso che il medesimo comma si applichi agli appalti relativi a servizi o forniture, limitando, tuttavia, tale eventualità al caso di nomina del direttore dell'esecuzione (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 12.06.2017 n. 191).

INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHE: 1. L’elenco delle attività incentivabili di cui all’art. 113, comma 2, come fatto palese dalla lettera della legge con l’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente”, deve ritenersi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che
gli incentivi in parola possono essere corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione di legge sopra richiamata all’interno delle fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura selettiva, stipulazione ed esecuzione).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle “verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva, che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza.
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”), l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce espressamente le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo 3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo
si è già rilevato che la Sezione delle autonomie ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture.
Da ultimo
non può non richiamarsi il correttivo al Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati espressamente citati nel comma 1 dell’art. 113.
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   2. Si chiede se gli incentivi per le attività di cui all’art. 113, comma 2, possono essere riconosciuti anche rispetto a contratti per l’affidamento dei quali non si sia proceduto allo svolgimento di una gara (come nel caso di affidamento diretto ai sensi dell’art. 36, comma 2, lettera a), del decreto-legislativo n. 50/2016), oppure debbano essere esclusi rispetto ai contratti al di sotto di una soglia minima di importo o a bassa complessità.
La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la determinazione del fondo destinato a finanziare gli incentivi, fa espresso riferimento all’“importo dei lavori (servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara.
Si deve pertanto concludere che
gli incentivi in questione possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa.

Si segnala peraltro che il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, in vigore dal 20.05.2017, nel riformulare l’art. 113, comma 2, del codice dei contratti, ha stabilito che “la disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione”.
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   3. Si chiede, infine, quale sia la disciplina normativa in materia di incentivi applicabile per le attività avviate in vigenza del decreto legislativo n. 163/2006 e ancora in corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici con il decreto legislativo n. 50/2016.
Non essendo rintracciabili espresse disposizioni che escludano la disciplina degli “incentivi tecnici” di cui all’art. 113 del nuovo codice dal regime intertemporale sopra riferito
si deve pertanto ritenere che quest’ultima possa essere applicata esclusivamente alle attività riferibili a contratti banditi successivamente al 19.04.2015.
Rimangono di conseguenza incentivabili secondo la disciplina previgente le attività riferite a contratti banditi antecedentemente a tale data, quantunque ancora in corso di svolgimento

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Con la nota sopra citata il Presidente della Provincia di Mantova formula una richiesta di parere riguardante la corretta interpretazione della disciplina degli incentivi per funzioni tecniche introdotta dall’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (c.d. nuovo codice degli appalti), formulando i seguenti quesiti:
   1. Se sia possibile riconoscere gli incentivi per funzioni tecniche per le prestazioni indicate dall’art. 113, comma 2, riferite ad appalti aventi ad oggetto lavori di manutenzione ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi, considerato che la nuova disposizione non esclude espressamente le attività manutentive e che alla luce degli orientamenti ermeneutici espressi in materia dalle Sezioni regionali di controllo, la stessa riconosce gli incentivi anche agli appalti di servizi e forniture.
   2. Se l'incentivazione sia applicabile anche agli appalti per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento di una gara (com'è il caso dell'affidamento diretto ex art. 36, comma 2, lettera a), del decreto legislativo n. 50/2016), oppure se la regolamentazione interna da adottare ai sensi dell’art. 113, comma 3, debba escludere dall'ambito di applicazione dell'incentivo i contratti al di sotto di una soglia minima di importo o di complessità.
   3. Quale normativa in tema di incentivi debba applicarsi alle prestazioni in corso di svolgimento nel periodo transitorio di passaggio dall’abrogato decreto legislativo n. 163/2006 al decreto legislativo n. 50/2016.
...
I quesiti formulati con la presente richiesta di parere richiedono di stabilire la corretta interpretazione dell’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 in materia di incentivi per funzioni tecniche che si riporta di seguito: “1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni professionali e specialistiche necessari per la redazione di un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico ove necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell'amministrazione. L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile di servizio preposto alla struttura competente, previo accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, ovvero prive del predetto accertamento, incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il presente comma non si applica al personale con qualifica dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a progetti di innovazione anche per il progressivo uso di metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture, di implementazione delle banche dati per il controllo e il miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento informatico, con particolare riferimento alle metodologie e strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma 2
.”
2. Con il primo quesito si chiede se possano essere riconosciuti incentivi per le funzioni tecniche previste dalla disposizione sopra richiamata riferite ad appalti aventi ad oggetto lavori di manutenzione ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi.
Si deve rilevare, in primo luogo, che
l’elenco delle attività incentivabili di cui all’art. 113, comma 2, come fatto palese dalla lettera della legge con l’utilizzo dell’avverbio “esclusivamente”, deve ritenersi tassativo e non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che
gli incentivi in parola possono essere corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione di legge sopra richiamata all’interno delle fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura selettiva, stipulazione ed esecuzione).
L’interpretazione riferita trova del resto conferma nella giurisprudenza contabile, concorde nell’escludere incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50/2016 (Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime. L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle “verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie, con deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333), che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”), l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che, a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce espressamente le attività di manutenzione ordinaria e straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo 3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi, senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo
si è già rilevato che la Sezione delle autonomie ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le forniture.
Da ultimo
non può non richiamarsi il correttivo al Codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati espressamente citati nel comma 1 dell’art. 113.
3. Con il secondo quesito formulato con la presente richiesta di parere si chiede se gli incentivi per le attività di cui all’art. 113, comma 2, possono essere riconosciuti anche rispetto a contratti per l’affidamento dei quali non si sia proceduto allo svolgimento di una gara (come nel caso di affidamento diretto ai sensi dell’art. 36, comma 2, lettera a), del decreto-legislativo n. 50/2016), oppure debbano essere esclusi rispetto ai contratti al di sotto di una soglia minima di importo o a bassa complessità.
La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la determinazione del fondo destinato a finanziare gli incentivi, fa espresso riferimento all’“importo dei lavori (servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una gara.
Si deve pertanto concludere che
gli incentivi in questione possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che, secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati previo espletamento di una procedura comparativa.
Si segnala peraltro che il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in vigore dal 20.05.2017, nel riformulare l’art. 113, comma 2, del codice dei contratti, ha stabilito che “la disposizione di cui al presente comma si applica agli appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è nominato il direttore dell’esecuzione”.
4. Si chiede, infine, quale sia la disciplina normativa in materia di incentivi applicabile per le attività avviate in vigenza del decreto legislativo n. 163/2006 e ancora in corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici con il decreto legislativo n. 50/2016.
La risposta all’ultimo quesito formulato dall’ente istante può essere fornita sulla base dell’art. 216, comma 1, dello stesso decreto legislativo n. 50/2016 che, nell’affrontare la questione del diritto transitorio conseguente all’introduzione dello stesso, stabilisce che “fatto salvo quanto previsto nel presente articolo ovvero nelle singole disposizioni di cui al presente codice, lo stesso si applica alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a presentare le offerte”.
Non essendo rintracciabili espresse disposizioni che escludano la disciplina degli “incentivi tecnici” di cui all’art. 113 del nuovo codice dal regime intertemporale sopra riferito
si deve pertanto ritenere che quest’ultima possa essere applicata esclusivamente alle attività riferibili a contratti banditi successivamente al 19.04.2015.
Rimangono di conseguenza incentivabili secondo la disciplina previgente le attività riferite a contratti banditi antecedentemente a tale data, quantunque ancora in corso di svolgimento (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 190).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE1.- Gli incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”; ciò sulla base di un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la peculiarità di tali incentivi.
Per converso, come rilevato in detta sede, va invece ribadito che,
nella riscrittura della materia ad opera del nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti
, come rilevato dalla Sezione delle autonomie, per le spese di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Con riferimento a tali emolumenti, resta dunque fermo il principio di diritto già affermato dalle Sezioni riunite della Corte dei conti le quali, avevano individuato e tipicizzato, come criterio generale di esclusione dal limite di spesa
posto allora dall’art. 9, comma 2-bis, del decreto legge n. 78 del 2010 (disposizione “sostanzialmente sovrapponibile”, secondo la Sezione delle autonomie, a quella vigente), tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra cui l’incentivo per la progettazione stabilito, nel quadro normativo ratione temporis vigente, dall’art. 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006.
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   2.-
Il quesito attiene alla disciplina specifica del fondo, in punto di alimentazione e di gestione, e non alla dazione delle somme ai beneficiari finali, aspetto questo che resta estraneo al quesito così formulato e che viene analizzato in altre pronunce di questa Corte. In tale ottica, deve essere in primis evidenziata l’irretroattività della fonte regolamentare ivi disciplinata, sulla scorta di quanto già deciso da questa Corte.
In particolare,
tale profilo della questione si inquadra nell’ambito della problematica, di per sé più ampia, della irretroattività dei provvedimenti amministrativi.

Il principio della irretroattività degli atti –in linea generale immanente all’ordinamento giuridico, ma costituzionalizzato solo con riferimento all’irretroattività della legge penale (art. 25, primo comma, Cost.)– costituisce di per sé corollario dei più generali principi della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti dallo stesso prodotti, nonché del principio della certezza delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la retroattività dell’atto sia prevista dalla legge (atteso che la copertura costituzionale della irretroattività è appunto prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica “naturale” dell’atto stesso (es. annullamento che, de iure, produce effetto ex tunc).
D’altro canto,
per gli atti a contenuto normativo –come appunto i regolamenti– la regola della naturale irretroattività è affermata dal combinato disposto degli artt. 3, comma 2, 4, comma 1, e 11, comma 1, delle Disposizioni preliminari al Codice civile (cc.dd. Preleggi), disposizioni aventi rango primario, secondo le quali il regolamento, anche emanato da autorità diverse dal governo, non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge e, nella specie, al divieto di retroattività, stabilito dal successivo art. 11 per il complesso degli atti normativi; quest’ultima disposizione è dunque derogabile solo per il tramite di una norma di legge equiordinata che abiliti l’atto a produrre un tale effetto retroattivo (ad esclusione dell’ambito oggetto di disciplina ad opera della legge penale, per la quale la Costituzione, come s’è detto, pone un divieto assoluto); nella specie, nella rilevata mancanza di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo, il regolamento medesimo, in ossequio all’art. 11 delle cc.dd. preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Ciò posto, si deve al contempo ricordare, in punto di modalità di alimentazione del fondo medesimo, che il predetto parere 07.09.2016 n. 353 della Sezione regionale di controllo per il Veneto  ha ritenuto che,
nelle more della determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale entro la quale destinare le risorse e dei criteri di assegnazione, è corretto accantonare le risorse medesime in misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver approvato il regolamento suddetto: ciò sulla base della previsione, contenuta nell’art. 113, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo n. 50 del 2016, della destinazione ad un fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le ivi previste “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e l’innovazione tecnologica.
In particolare, mentre l’“accantonamento ad apposito fondo” di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento, modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara”, è direttamente stabilito dal secondo comma dell’art. 113, la ripartizione tra i dipendenti dell’ente viene regolata nel comma successivo, il quale stabilisce che essa deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (pro futuro), perché il regolamento –e solo il regolamento, nella sistematica della legge– è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge.
In quella pronuncia, sulla base della struttura dell’enunciato normativo, s’è ritenuto altresì che
il semplice accantonamento delle risorse, in attesa della disciplina regolamentare, può tuttavia essere disposto dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché, ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art. 113, secondo comma, del predetto decreto.
In tal caso, ove poi il regolamento successivamente adottato dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già applicata dall’ente medesimo, la parte dell’accantonamento non utilizzata verrebbe a concorrere alla determinazione del risultato di amministrazione. Nel caso inverso, ovvero nel caso di accantonamento di una somma inferiore a quella poi prevista nel regolamento, il mancato accantonamento costituirebbe invece nella sostanza “economia” dell’anno, concorrente alla determinazione del risultato di amministrazione, e come tale dovrebbe essere considerata; in altre parole, il fondo verrà comunque costituito con la sola dotazione iniziale frutto del prudenziale accantonamento dell’ente, fino all’entrata in vigore del regolamento, fermo restando la ripartizione delle somme solo successivamente a tale momento, conformemente alla disciplina regolamentare medio termine approvata e comunque nel rispetto della normativa vigente.
Va sottolineato che
tale accantonamento, tuttavia, viene disposto non sulla base del regolamento approvato successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una scelta prudenziale dell’ente effettuata, nei limiti di legge, ex ante.
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   3.- Sulla base del tenore letterale del menzionato art. 113 dlgs 50/2016 –il quale riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”-
l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa.
Dunque
sotto questo specifico profilo, ossia sotto il profilo della individuazione dei limiti entro i quali le attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una specifica remunerazione, la disciplina degli incentivi, derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione analogica.
Il punto
, così correttamente ricostruita la ratio della disposizione, diviene dunque non tanto quello dell’individuazione di un meccanismo di approvigionamento, effettivamente adottato dall’ente, quale presupposto per l’erogazione dell’incentivo –nella specie, come da richiesta del comune, il ricorso a Consip o Mepa, autonomamente di per sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza, secondo la specifica disciplina della procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle attività incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse possibili evenienze.
Peraltro, al riguardo non sfugga nemmeno come
la disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse nel fondo e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Al riguardo,
l’ente, nel valutare concretamente le attività incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo nelle diverse evenienze, deve altresì considerare correttamente il quadro normativo, sistematicamente considerato, che prevede che per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza, nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto,
spetta all’ente la valutazione nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivate in forza della ricordata disposizione normativa.
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   4.- In primo luogo
questa Sezione ritiene tassativo l’elenco delle attività incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può che confermare che gli incentivi per funzioni tecniche riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016; e ciò perché il suddetto emolumento, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, può essere corrisposto solo in presenza di una espressa previsione legislativa.
Sicché,
va confermato che gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere corrisposti, di per sé, solo in presenza di una delle attività espressamente considerate dalla disposizione richiamata.
Inoltre decisivo al riguardo risulta il fatto che la Sezione delle autonomie ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e forniture ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza.
Tale è dunque il quadro delle attività incentivabili, la cui individuazione, indipendentemente dallo specifico oggetto del contratto pubblico messo a gara, in concreto spetta, come s’è detto, all’Amministrazione, nel rispetto delle indicazioni desumibili dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte.
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   5.- Va rilevato che
il quadro normativo prevede una sfera di discrezionalità normativa degli enti locali, che devono comunque muoversi nell’ambito dei principi e delle regole stabilite dalle vigenti prescrizioni legislative. Al riguardo giova rilevare che il decreto legislativo n. 50 del 2006, in linea generale, prevede la misura massima delle risorse destinabili al fondo e la necessaria modulazione delle stesse in relazione all'importo dei lavori o delle procedure di acquisizione di beni e servizi concretamente espletate.
In tale contesto, spetta all’ente locale esercitare correttamente la propria discrezionalità, che potrà anche essere orientata dalle soglie indicate dall’art. 21 del medesimo decreto legislativo per la programmazione biennale per forniture e servizi e triennale per lavori, purché nell’ambito di una disciplina coerente e conforme alle specifiche previsioni stabilite dai commi 2, 3 e 4 del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Spetta al Comune richiedente, sulla base dei principi così espressi, valutare attentamente le singole fattispecie al fine di addivenire ad una corretta autodeterminazione nell’esercizio del proprio potere, anche regolamentare, in materia, nel rispetto del quadro legislativo vigente.
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  1.- Il Sindaco del Comune di Bollate (MI) –dando atto delle difficoltà riscontrate dagli enti locali nell’interpretazione dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 e nella predisposizione dei regolamenti ivi previsti– pone alla Sezione i seguenti cinque quesiti:
   a) se le somme previste dall’art. 113 siano da considerare afferenti al Fondo delle risorse decentrate (e soggiacenti alla relativa disciplina) oppure no;
   b) se il regolamento attuativo previsto dal terzo comma di detta disposizione (il quale prevede che “l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”) possa disciplinare anche la ripartizione e la liquidazione delle somme accantonate, secondo i criteri stabiliti dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto di questa Corte nella deliberazione n. 353/2016/PAR, con riferimento agli appalti di lavori, servizi e forniture espletati fra l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 50 del 2016 e la data di approvazione del regolamento, ad esempio con la previsione dell’accantonamento, retroattivamente stabilito, di una percentuale inferiore al due per cento, in linea con quella prevista nell’approvato regolamento, anche in relazione a detti appalti;
   c) se sia legittimo comprendere fra gli acquisti oggetto degli incentivi anche le adesioni alle convenzioni Consip e gli acquisti tramite Mepa, “anche solo per alcune delle attività previste dall’art. 113, secondo comma”, del predetto decreto legislativo;
   d) se sia legittimo –sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. nn), di detto decreto legislativo, che considera anche la “manutenzione di opere”– riconoscere l’incentivo “anche per le manutenzioni ordinarie e straordinarie (ciò a fronte di pareri nel senso della soluzione negativa delle Sezioni regionali di controllo per l’Emilia Romagna e per la Puglia, rispettivamente parere 07.12.2016 n. 118 e parere 24.01.2017 n. 5, conosciuti e richiamati dall’ente istante);
   e) se “le soglie per l’applicazione dell’incentivo possono essere liberamente disciplinate all’interno del regolamento” o se invece “devono prendere come riferimento le soglie indicate dall’art. 21 [del medesimo decreto legislativo] per la programmazione biennale per forniture e servizi e triennale per lavori.
...
4.- In via preliminare, la Sezione precisa che le decisioni relative alla scelta del contenuto dell’approvando regolamento, in quanto connesse all’attività di normazione interna dell’ente, spettano agli enti coinvolti, che ne assumono la relativa responsabilità.
In particolare, in materia occorre ribadire quanto già affermato dalla deliberazione 13.05.2016 n. 18 della Sezione delle Autonomie, secondo cui
la soluzione delle questioni poste alla Corte dei conti, in ragione della propria attività consultiva, «non può che rimanere definita in un ambito di stretto principio, non potendo la Corte in questa sede addentrarsi in aspetti di dettaglio della disciplina, che attengono (…) alla potestà regolamentare riconosciuta in capo agli enti locali»; ciò «anche in considerazione di quanto precisato nella delibera n. 3/2014/QMIG, in merito al fatto che “ausilio consultivo per quanto possibile deve essere reso senza che esso costituisca un’interferenza con le funzioni requirenti e giurisdizionali e ponendo attenzione ad evitare che di fatto si traduca in un’intrusione nei processi decisionali degli enti territoriali”».
Chiarito, dunque, che
la Corte non può interferire con la potestà regolamentare spettante all’ente locale, nei termini prima esposti, si può procedere all’esame, nel merito, dei singoli quesiti posti.
5.- Ciò presupposto, con il primo quesito l’ente chiede se le somme previste dall’art. 113 siano da considerare afferenti al Fondo delle risorse decentrate (e soggiacenti alla relativa disciplina), oppure no.
Al riguardo basti rilevare che la Sezione delle autonomie di questa Corte, con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha affermato, nell’esercizio della propria funzione nomofilattica, il principio di diritto secondo cui “
(g)li incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”; ciò sulla base di un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la peculiarità di tali incentivi. Alla motivazione di tale decisione si fa, in questa sede, espresso rinvio.
Per converso, come rilevato in detta sede, va invece ribadito che,
nella riscrittura della materia ad opera del nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti
, come rilevato dalla Sezione delle autonomie, per le spese di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, del decreto legislativo n. 50 del 2016.
Con riferimento a tali emolumenti, resta dunque fermo il principio di diritto già affermato dalle Sezioni riunite della Corte dei conti le quali, con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51, avevano individuato e tipicizzato, come criterio generale di esclusione dal limite di spesa posto allora dall’art. 9, comma 2-bis, del decreto legge n. 78 del 2010 (disposizione “sostanzialmente sovrapponibile”, secondo la Sezione delle autonomie, a quella vigente), tutti quei compensi per prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti qualificati, tra cui l’incentivo per la progettazione stabilito, nel quadro normativo ratione temporis vigente, dall’art. 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006.
6.- Con il secondo quesito, l’ente chiede se il regolamento attuativo previsto dal terzo comma di detta disposizione –il quale prevede che “l'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori”– possa disciplinare anche la ripartizione e la liquidazione delle somme accantonate, secondo i criteri stabiliti dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto di questa Corte nella Veneto parere 07.09.2016 n. 353, con riferimento agli appalti di lavori, servizi e forniture espletati fra l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 50 del 2016 e la data di approvazione del regolamento, ad esempio con la previsione dell’accantonamento, retroattivamente stabilito, di una percentuale inferiore al due per cento, in linea con quella prevista nell’approvato regolamento, anche in relazione a detti appalti.
Al riguardo, deve essere preliminarmente evidenziato che
il quesito attiene alla disciplina specifica del fondo, in punto di alimentazione e di gestione, e non alla dazione delle somme ai beneficiari finali, aspetto questo che resta estraneo al quesito così formulato e che viene analizzato in altre pronunce di questa Corte. In tale ottica, deve essere in primis evidenziata l’irretroattività della fonte regolamentare ivi disciplinata, sulla scorta di quanto già deciso da questa Corte (v. Sezione regionale di controllo per la Regione Veneto, parere 07.09.2016 n. 353).
In particolare,
tale profilo della questione si inquadra nell’ambito della problematica, di per sé più ampia, della irretroattività dei provvedimenti amministrativi.
Il principio della irretroattività degli atti –in linea generale immanente all’ordinamento giuridico, ma costituzionalizzato solo con riferimento all’irretroattività della legge penale (art. 25, primo comma, Cost.)– costituisce di per sé corollario dei più generali principi della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti dallo stesso prodotti, nonché del principio della certezza delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la retroattività dell’atto sia prevista dalla legge (atteso che la copertura costituzionale della irretroattività è appunto prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica “naturale” dell’atto stesso (es. annullamento che, de iure, produce effetto ex tunc).
D’altro canto,
per gli atti a contenuto normativo –come appunto i regolamenti– la regola della naturale irretroattività è affermata dal combinato disposto degli artt. 3, comma 2, 4, comma 1, e 11, comma 1, delle Disposizioni preliminari al Codice civile (cc.dd. Preleggi), disposizioni aventi rango primario, secondo le quali il regolamento, anche emanato da autorità diverse dal governo, non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge e, nella specie, al divieto di retroattività, stabilito dal successivo art. 11 per il complesso degli atti normativi; quest’ultima disposizione è dunque derogabile solo per il tramite di una norma di legge equiordinata che abiliti l’atto a produrre un tale effetto retroattivo (ad esclusione dell’ambito oggetto di disciplina ad opera della legge penale, per la quale la Costituzione, come s’è detto, pone un divieto assoluto); nella specie, nella rilevata mancanza di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo, il regolamento medesimo, in ossequio all’art. 11 delle cc.dd. preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Ciò posto, si deve al contempo ricordare, in punto di modalità di alimentazione del fondo medesimo, che il predetto parere 07.09.2016 n. 353 della Sezione regionale di controllo per il Veneto  ha ritenuto che,
nelle more della determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale entro la quale destinare le risorse e dei criteri di assegnazione, è corretto accantonare le risorse medesime in misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver approvato il regolamento suddetto: ciò sulla base della previsione, contenuta nell’art. 113, commi 2, 3 e 4, del decreto legislativo n. 50 del 2016, della destinazione ad un fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le ivi previste “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e l’innovazione tecnologica.
In particolare, mentre l’“accantonamento ad apposito fondo” di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento, modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara”, è direttamente stabilito dal secondo comma dell’art. 113, la ripartizione tra i dipendenti dell’ente viene regolata nel comma successivo, il quale stabilisce che essa deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (pro futuro), perché il regolamento –e solo il regolamento, nella sistematica della legge– è destinato ad individuare le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo fissato dalla legge.
In quella pronuncia, sulla base della struttura dell’enunciato normativo, s’è ritenuto altresì che
il semplice accantonamento delle risorse, in attesa della disciplina regolamentare, può tuttavia essere disposto dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché, ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art. 113, secondo comma, del predetto decreto.
In tal caso, ove poi il regolamento successivamente adottato dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a quella già applicata dall’ente medesimo, la parte dell’accantonamento non utilizzata verrebbe a concorrere alla determinazione del risultato di amministrazione. Nel caso inverso, ovvero nel caso di accantonamento di una somma inferiore a quella poi prevista nel regolamento, il mancato accantonamento costituirebbe invece nella sostanza “economia” dell’anno, concorrente alla determinazione del risultato di amministrazione, e come tale dovrebbe essere considerata; in altre parole, il fondo verrà comunque costituito con la sola dotazione iniziale frutto del prudenziale accantonamento dell’ente, fino all’entrata in vigore del regolamento, fermo restando la ripartizione delle somme solo successivamente a tale momento, conformemente alla disciplina regolamentare medio termine approvata e comunque nel rispetto della normativa vigente.
Va sottolineato che
tale accantonamento, tuttavia, viene disposto non sulla base del regolamento approvato successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una scelta prudenziale dell’ente effettuata, nei limiti di legge, ex ante.
7.- Con il terzo quesito, il Comune chiede se sia legittimo comprendere fra gli acquisti oggetto degli incentivi anche le adesioni alle convenzioni Consip e gli acquisti tramite Mepa, “anche solo per alcune delle attività previste dall’art. 113, secondo comma”, del predetto decreto legislativo.
Il quesito, per come formulato, risulta invero mal posto. Come la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito sulla base del tenore letterale del menzionato art. 113 –il quale riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”-
l’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa (così Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18, laddove, in via incidentale, sottolinea che la nuova disposizione ha abolito “gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter, introducendo nuove forme di incentivazione per funzioni tecniche (…) svolte dai dipendenti esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate”; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
Dunque
sotto questo specifico profilo, ossia sotto il profilo della individuazione dei limiti entro i quali le attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una specifica remunerazione, la disciplina degli incentivi, derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione analogica.
Il punto, così correttamente ricostruita la ratio della disposizione, diviene dunque non tanto quello dell’individuazione di un meccanismo di approvigionamento, effettivamente adottato dall’ente, quale presupposto per l’erogazione dell’incentivo –nella specie, come da richiesta del comune, il ricorso a Consip o Mepa, autonomamente di per sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza, secondo la specifica disciplina della procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle attività incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse possibili evenienze.
Peraltro, al riguardo non sfugga nemmeno come
la disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse nel fondo e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Al riguardo,
l’ente, nel valutare concretamente le attività incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo nelle diverse evenienze, deve altresì considerare correttamente il quadro normativo, sistematicamente considerato, che prevede che per i compiti svolti dal personale di una centrale unica di committenza, nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere riconosciuta, su richiesta della centrale unica di committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto, dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto,
spetta all’ente la valutazione nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di attività effettivamente incentivate in forza della ricordata disposizione normativa.
8.- Con il quarto quesito, l’ente chiede se sia legittimo –sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. nn), di detto decreto legislativo, che considera anche la “manutenzione di opere”– riconoscere l’incentivo “anche per le manutenzioni ordinarie e straordinarie” (ciò a fronte di pareri nel senso della soluzione negativa delle Sezioni regionali di controllo per l’Emilia Romagna e per la Puglia, rispettivamente parere 07.12.2016 n. 118 e parere 24.01.2017 n. 5, conosciuti e richiamati dall’ente istante).
Al riguardo, questa Sezione deve rilevare che il quesito, anche in tal caso, risulta posto in termini che non tengono conto della sostanza delle questioni evocate.
In primo luogo
questa Sezione, come già rilevato in precedenza, ritiene tassativo l’elenco delle attività incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può che confermare che gli incentivi per funzioni tecniche riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016; e ciò perché il suddetto emolumento, in virtù del principio di onnicomprensività del trattamento economico, può essere corrisposto solo in presenza di una espressa previsione legislativa.
In definitiva, alla luce di quanto riportato,
va confermato che gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere corrisposti, di per sé, solo in presenza di una delle attività espressamente considerate dalla disposizione richiamata (così Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la Puglia, parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il Veneto, parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana, parere 30.03.2017 n. 71).
Inoltre decisivo al riguardo risulta il fatto che la Sezione delle autonomie, nella già richiamata deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto lavori, ma anche servizi e forniture ed ha al contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia, parere 16.11.2016 n. 333) che, da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono attività relative alla progettazione e al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima Sezione).
Tale è dunque il quadro delle attività incentivabili, la cui individuazione, indipendentemente dallo specifico oggetto del contratto pubblico messo a gara, in concreto spetta, come s’è detto, all’Amministrazione, nel rispetto delle indicazioni desumibili dalla pregressa giurisprudenza di questa Corte.
9.- Con il quinto quesito, l’ente chiede infine se “le soglie per l’applicazione dell’incentivo possono essere liberamente disciplinate all’interno del regolamento” o se invece “devono prendere come riferimento le soglie indicate dall’art. 21 [del medesimo decreto legislativo] per la programmazione biennale per forniture e servizi e triennale per lavori”.
In realtà, al riguardo va rilevato che
il quadro normativo prevede una sfera di discrezionalità normativa degli enti locali, che devono comunque muoversi nell’ambito dei principi e delle regole stabilite dalle vigenti prescrizioni legislative. Al riguardo giova rilevare che il decreto legislativo n. 50 del 2006, in linea generale, prevede la misura massima delle risorse destinabili al fondo e la necessaria modulazione delle stesse in relazione all'importo dei lavori o delle procedure di acquisizione di beni e servizi concretamente espletate.
In tale contesto, spetta all’ente locale esercitare correttamente la propria discrezionalità, che potrà anche essere orientata dalle soglie indicate dall’art. 21 del medesimo decreto legislativo per la programmazione biennale per forniture e servizi e triennale per lavori, purché nell’ambito di una disciplina coerente e conforme alle specifiche previsioni stabilite dai commi 2, 3 e 4 del decreto legislativo n. 50 del 2016.
10.-
Spetta al Comune richiedente, sulla base dei principi così espressi, valutare attentamente le singole fattispecie al fine di addivenire ad una corretta autodeterminazione nell’esercizio del proprio potere, anche regolamentare, in materia, nel rispetto del quadro legislativo vigente (Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia, parere 09.06.2017 n. 185).

EDILIZIA PRIVATA: Gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2 del d.lgs. 50/2016 sono da includersi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) in quanto il compenso incentivante previsto dalla nuova disciplina non è sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato.
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Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di Moncalieri (TO), dopo aver richiamato il principio di diritto enunciato dalla Sezione delle Autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, secondo cui “gli incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113, comma 2, del d.lgs. 50/2016 sono da includersi nel tetto dei trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)” e dopo aver evidenziato che la precedente deliberazione della Sezione delle Autonomie n. 16 del 2009 aveva, invece, escluso dal calcolo della spese di personale, ai fini del limite di cui all’art. 557 legge 296/2006, gli incentivi di progettazione previsti dal previgente codice dei contratti pubblici (art. 93 d.lgs. 163/2006), chiede a questa Sezione di chiarire la portata applicativa della deliberazione della Sezione delle Autonomie con particolare riferimento alla possibilità di individuare, fra i vari tipi di incentivi alle funzioni tecniche, delle voci che si sottrarrebbero al principio di diritto enunciato da ultimo e, dunque, al limite del salario accessorio di cui all’art. 1, co. 236, della legge n. 208/2015.
Il Comune di Moncalieri formula, infatti, il seguente quesito:
- “se tutte le somme destinate ad incentivare le funzioni tecniche ai sensi dell’art. 113 dlgs 50/2016 siano da considerare comprese nel limite del salario accessorio ai fini dell’applicazione dell’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015 (legge di stabilità 2016) e siano da considerare incluse nella spesa di personale ai fini dell’applicazione del comma 557 della legge 296/2006 oppure se debba essere operata una distinzione, nell’ambito degli incentivi per le funzioni tecniche disciplinati dall’art. 113 dlgs 50/2016, tra gli incentivi relativi a prestazioni professionali tipiche, acquisibili all’esterno della P.A. e qualificabili come spesa di investimento (appalti di lavori e incentivi per es. per la direzione lavori) e incentivi di altro tipo (controllo delle procedure di bando e di esecuzione e in particolare incentivi per gli appalti di forniture e servizi), che risultino privi degli elementi indicati dalla
deliberazione 13.11.2009 n. 16 Sezioni Autonomie”.
...
Il quesito posto dall’ente locale attiene all’applicabilità, ai compensi destinati a remunerare le funzioni tecniche di cui all’art. 113, co. 2, d.lgs. 50/2016, del nuovo tetto al salario accessorio introdotto dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015. Su tale questione, in considerazione della sua portata generale e dell’esistenza di un preesistente intervento delle Sezioni Riunite (
deliberazione 04.10.2011 n. 51), si è recentemente pronunciata la Sezione delle Autonomie con la deliberazione 06.04.2017 n. 7, che lo stesso Comune istante cita ampiamente nella formulazione del proprio quesito.
La Sezione delle Autonomie, nella richiamata deliberazione, ha, infatti, evidenziato che “la questione di massima oggetto di esame è incentrata sull’esclusione o meno dal tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti pubblici –già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge n. 208/2015– dei compensi destinati a remunerare le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2, d.lgs. n. 50/2016. La questione, come sopra accennato, era stata risolta in senso positivo dalla deliberazione delle Sezioni riunite in sede di controllo n. 51/2011, con riferimento, però, all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006”.
La Sezione delle Autonomie ha, in proposito, preliminarmente rilevato “la sostanziale sovrapponibilità del provvedimento di limitazione alla crescita delle risorse destinate al trattamento accessorio del personale adottato con l’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, rispetto alla previsione della legge di stabilità 2016”, evidenziando come “gli aspetti innovativi della nuova formulazione –essenzialmente riferiti al richiamo alle perduranti esigenze di finanza pubblica, alla prevista attuazione dei decreti legislativi attuativi della riforma della pubblica amministrazione, alla considerazione anche del personale assumibile e all’assenza di una previsione intesa a consolidare nel tempo le decurtazioni al trattamento accessorio– non incidono sulla struttura del vincolo di spesa, come già evidenziato da questa Sezione" (deliberazione 07.12.2016 n. 34).
La norma si sostanzia in un vincolo alla crescita dei fondi integrativi rispetto ad una annualità di riferimento e nell’automatica riduzione del fondo in misura proporzionale alla contrazione del personale in servizio. Le Sezioni riunite, chiamate a pronunciarsi sulla soggezione di taluni compensi ai tetti di spesa per i trattamenti accessori posti dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, hanno ritenuto la norma di stretta interpretazione, tenuto conto dell’effetto di proliferazione della spesa per il personale determinato dalla contrattazione integrativa, i cui meccanismi hanno finito per vanificare l’efficacia delle altre misure di contenimento della spesa (tra cui i vincoli assunzionali).
In tale contesto, l’Organo nomofilattico ha individuato quale criterio discretivo la circostanza che determinati compensi siano remunerativi di “prestazioni tipiche di soggetti individuati e individuabili” le quali “potrebbero essere acquisite anche attraverso il ricorso a personale estraneo all’amministrazione pubblica con possibili costi aggiuntivi”. Sussistendo queste condizioni, gli incentivi per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, sono stati esclusi dall’ambito applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, andando a compensare prestazioni professionali afferenti ad “attività sostanzialmente finalizzata ad investimenti”.
Peraltro, tale orientamento si riporta alle affermazioni di questa Sezione (
deliberazione 13.11.2009 n. 16) che, ai fini del computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1, commi 557 e 562, l. 27.12.2006, n. 296, aveva escluso gli incentivi per la progettazione interna di cui al previgente codice degli appalti a motivo della loro riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di funzionamento”.
Quanto allo specifico quesito se, ai fini del computo del tetto di spesa, debbano o meno computarsi gli incentivi per le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2, del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016), la Sezione delle Autonomie ha espressamente escluso che il compenso incentivante previsto dalla nuova disciplina sia “sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi abrogato”.
Secondo la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, infatti, “nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano erogabili, con carattere di generalità, anche per gli appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si configurino, in maniera inequivocabile, come spese di funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di personale). Nel caso di specie, non si ravvisano poi, gli ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite (nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51), per escludere gli incentivi di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i trattamenti accessori del personale dipendente in quanto essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A., come risulta anche dal chiaro disposto dell’art. 113, comma 3, d.lgs. n. 50/2016.
La citata norma, infatti –nel disporre che la ripartizione della parte più consistente delle risorse (l’80%) debba avvenire “per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori” e che “gli importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico dell’amministrazione”– appare indicativa della diversa connotazione degli incentivi in parola.
È infatti evidente l’intento del legislatore di ampliare il novero dei beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici, all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di beni e servizi) all’esecuzione del contratto. Al contempo, la citata disposizione richiama gli istituti della contrattazione decentrata, il che può essere inteso come una sottolineatura dell’applicazione dei limiti di spesa alle risorse decentrate
”.
La Sezione, pertanto, non può che conformare il proprio parere a quanto già stabilito dalla Sezione delle Autonomie, la quale, nella deliberazione richiamata, ha inoltre ribadito che “
nella riscrittura della materia ad opera del nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo diverso dalla ripartizione del fondo. Infatti, per le spese di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, d.lgs. n. 50/2016. In tal senso, deve essere apprezzato l’intento chiarificatore del legislatore delegato” (Corte dei Conti, Sez. controllo Piemonte, parere 09.06.2017 n. 113).

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Agli incentivi per funzioni tecniche serve un tetto su misura nel fondo accessorio.
L’inclusione dei compensi per le funzioni tecniche nel tetto del fondo per la contrattazione decentrata solleva numerosi problemi operativi: alcuni possono essere risolti in via interpretativa, per altri è necessario un intervento legislativo.
La posizione della Corte dei conti
Per tutte le amministrazioni, in premessa, è necessario che queste somme siano inserite nel fondo delle risorse decentrate e che siano calcolate in modo preciso. La deliberazione 06.04.2017 n. 7 della sezione autonomie della Corte dei Conti (si veda il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 13.04.2017), con argomentazioni che devono essere giudicate come ineccepibili soprattutto rispetto ai principi affermati dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle sezioni riunite di controllo della magistratura contabile, ha stabilito che non ci sono più le condizioni per cui la incentivazione delle funzioni tecniche debba essere esclusa dal tetto del fondo per la contrattazione decentrata.
Il primo problema è che in questo modo si inseriscono nel tetto del fondo delle somme relative ad attività che ne erano escluse. Sembra abbastanza agevole sostenere, in virtù del principio di carattere generale della omogeneità dei dati messi a confronto, che si possa convenzionalmente intervenire sul fondo del 2015 e su quello del 2016, che rispettivamente sono attualmente e sulla base dell'emanando schema di decreto legislativo attuativo della riforma del testo unico del pubblico impiego, il tetto massimo del fondo di questo e dei prossimi anni.
Le nuove regole
Ma ciò non è comunque sufficiente: le nuove regole sulla incentivazione delle funzioni tecniche comprendono anche gli appalti di servizi e forniture, mentre in precedenza era prevista solamente la incentivazione dei lavori pubblici.
Essendo invariato il tetto delle risorse che possono essere destinate a queste incentivazioni, cioè il 2% dell'importo posto a base di gara, è assai probabile che si supereranno le somme previste a questo titolo nel 2015. Il che si realizzerà sicuramente nella gran parte delle realtà, nonostante il “decreto correttivo” limita la erogazione di questi compensi nel caso di forniture e servizi alla presenza del direttore della esecuzione, il che determina che in molti casi non si erogherà questo compenso.
Ed ancora, nonostante le amministrazioni si stanno dimostrando molto restie a prevedere somme rilevanti per questa incentivazione nel caso di appalti di forniture e servizi, perché la erogazione di questi compensi determina seccamente un aumento dei costi a carico dei bilanci degli enti o, in numerosi casi, a carico degli utenti. Anche con riferimento a questo elemento si ritiene che, sulla scorta dei principi dettati dalle deliberazioni della magistratura contabile, sia possibile determinare in questo l'anno zero di tali costi a cui fare riferimento come tetto invalicabile per il futuro, visto che esso è il primo in cui la norma è a regime.
Un tetto per il fondo
Di difficile soluzione senza un intervento legislativo è il possibile impatto con effetti stravolgenti di queste somme sul fondo.
Siamo in presenza comunque di somme di grande rilievo: cosa accade in un comune in un anno in cui si fanno molti e/o molto rilevanti appalti di forniture e servizi e, quindi, queste somme aumentano? Si deve tagliare la erogazione degli altri istituti del fondo? E se il fondo ha un elevato grado di rigidità, cosa avviene, visto che certo non si possono tagliare compensi che hanno un carattere fisso (progressioni economiche, comparto, eccetera) o sono legati allo svolgimento di attività essenziali (turno, reperibilità)?
La soluzione, ma occorre un’indicazione legislativa, è che si crei uno specifico tetto all'interno del fondo, per cui queste somme non incidano sul complesso, ma vadano confrontate con il dato omogeneo ovvero che il legislatore stabilisca che queste somme vanno al di fuori del tetto del fondo per la contrattazione decentrata, come si riteneva comunemente fino a qualche settimana fa, cioè fino alla deliberazione 06.04.2017 n. 7 della sezione autonomie della Corte dei conti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 22.05.2017).

Ma anche un recente nuovo (interessante) arresto circa il defunto "incentivo alla progettazione":
nisba se manca il regolamento interno!!

INCENTIVO PROGETTAZIONE: Niente incentivi alla progettazione se manca il regolamento.
Innovativa la posizione assunta dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 13937/2017, non solo fornisce una diversa interpretazione alla propria precedente pronuncia (Cassazione, Sezione Lavoro, 19.07.2004 n. 13384), ma precisa i seguenti presupposti per la legittima erogazione degli incentivi tecnici:
   a) l'attribuzione dell'incentivo deve essere prevista e regolata dalla contrattazione collettiva decentrata;
   b) il potere regolamentare della amministrazione, è limitato alla specificazione dei criteri di ripartizione i cui criteri di ripartizione devono coincidere con i criteri previsti dalla contrattazione collettiva decentrata;
   c) l'attività di progettazione può essere “premiata” dalla contrattazione collettiva decentrata con l'attribuzione degli incentivi se, e solo se, si risolva in una «effettiva utilità per l'amministrazione come attività propedeutica alla realizzazione dell'opera pubblica», quale può essere l'approvazione di un progetto esecutivo dell'opera pubblica;
   d) a fronte della riserva alla contrattazione collettiva (articolo 45 del Dlgs n. 165 del 2001), in mancanza dell'accordo decentrato è inibito al giudice ordinario procedere a liquidare l'incentivo in via equitativa.
Le precedenti indicazioni
In merito all'interpretazione sul diritto soggettivo del dipendente pubblico che effettui attività di progettazione, si era spesa la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie (deliberazione n. 7/2009) la quale aveva avuto modo di precisare quanto segue: «la Suprema Corte ha ritenuto che il diritto all'incentivo di cui si sta trattando, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva (Cass. Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004) che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito va individuato l'obbligo per l'Amministrazione di adempiere, a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere concreta l'erogazione del compenso», precisando successivamente come «dal compimento dell'attività nasce il diritto al compenso». Tali indicazioni della nomofilachia contabile hanno da quel momento assunto un risultato intangibile per le Corti territoriali.
Nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte anche il ricorrente, cui la Corte di appello aveva negato l'incentivo per mancata contrattazione dei criteri e in assenza del relativo regolamento da parte dell'amministrazione, precisa come si sia in presenza di un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai dipendenti, a nulla rilevando che detti diritti risultino indeterminati quantitativamente fino alla specificazione con regolamento delle modalità di ripartizione del fondo.
L'interpretazione autentica
Gli Ermellini non condividono tale interpretazione, nonostante le indicazioni della giurisprudenza contabile, precisando, diversamente da quanto opina il ricorrente, come i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 13384 del 2004 non offrono alcun supporto alle sue prospettazioni difensive atteso che la necessità del regolamento per il diritto agli incentivi è stata affermata anche nella citata sentenza del 2004, la quale aveva modo di precisare come in assenza di regolamento, essa non abbia affatto riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della amministrazione.
Nel caso di specie, inoltre, il ricorrente non fornisce alcuna prova circa l'esistenza di clausole della contrattazione collettiva integrativa disciplinanti la materia dell'incentivo, cui l'amministrazione avrebbe dovuto adeguarsi in sede regolamentare. Infine, in merito a una possibile liquidazione in via equitativa dell'incentivo da parte del giudice adito reclamato dal ricorrente, secondo i giudici di Palazzo Cavour, va escluso che, in difetto di disposizioni di fonte pattizia collettiva, il giudice avrebbe potuto liquidare in via equitativa il compenso retributivo accessorio domandato, ostandovi il principio di riserva alla contrattazione collettiva espresso nel comma 1 dell'articolo 49 del Dlgs n. 165 del 2001, riaffermato nel comma 1 dell'articolo 45 del Dlgs n. 165 del 2001 (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.06.2017).
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MASSIMA
1. Con la sentenza depositata il 01.02.2011, la Corte d'Appello di L'Aquila, per quanto oggi rileva, in accoglimento dell'appello incidentale proposto dal Consorzio di Bonifica Sud - Bacino Moro Sangro Sinello e Trigno -, nei confronti della sentenza del Tribunale di Vasto, ha respinto la domanda proposta da Gi.Ce. volta alla condanna del Consorzio al pagamento della somma di € 60.506,84 a titolo di incentivo per la progettazione ex art. 18 della L. n. 109 del 1994, in relazione alle attività espletate dal 1985 al 2001.
2. La statuizione è fondata sulle argomentazioni motivazionali che seguono: l'art. 18 della legge n. 109 del 1990 rinvia la "ripartizione tra il responsabile unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori", della quota percentuale (1,55) dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, alle modalità ed ai criteri previsti dalla contrattazione collettiva decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall'Amministrazione.
Ha rilevato che tanto la contrattazione collettiva decentrata quanto il Regolamento del Consorzio erano intervenuti in epoca successiva all'arco temporale cui era riferita la rivendicazione economica. Ha ritenuto inammissibile, perché proposta solo in grado di appello, la domanda risarcitoria fondata sull'inadempimento del Consorzio e sull'indebito arricchimento da questi conseguito.
...
Esame dei motivi
12. Il primo motivo è infondato, pur dovendo correggersi la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 384 c.p.c., nei termini di seguito esposti, essendo il dispositivo conforme a diritto.
13. Reputa il Collegio indispensabile la ricostruzione, che difetta nella sentenza impugnata, della disposizione contenuta nell'art. 18 della legge 11.02.1994 n. 109 in quanto, nell'arco temporale al quale è riferita la domanda di pagamento dell'incentivo, tale disposizione è stata oggetto di numerosi interventi del legislatore che ne hanno riformulato il testo, riformandone l'ambito di operatività oggettiva e soggettiva, i presupposti condizionanti l'insorgenza del diritto, le modalità ed i criteri per la sua liquidazione e le regole di contabilità.
14. L'iniziale formulazione dell'art. 18 della L. 11.02.1994, n. 109 così disponeva: "(Incentivi per la progettazione).
1. In sede di contrattazione collettiva decentrata, ai sensi del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, e in un quadro di trattamento complessivamente omogeneo delle diverse categorie interessate, può essere individuata una quota non superiore all'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro, da destinare alla costituzione di un fondo interno e da ripartire tra il personale dell'ufficio tecnico dell'amministrazione aggiudicatrice, qualora esso abbia redatto direttamente il progetto esecutivo della medesima opera o lavoro.
2. Le somme occorrenti ai fini di cui al comma 1 sono prelevate sulle quote degli stanziamenti annuali riservate a spese di progettazione ai sensi dell'articolo 16, comma 8, ed assegnate ad apposito capitolo dello stato di previsione della spesa o ad apposita voce del bilancio delle amministrazioni aggiudicatrici
".
15. Successivamente il D.L. 03.04.1995 n. 101, convertito con modificazioni dalla L. 02.06.1995 n. 216 ha modificato il richiamato art. 18 della L. n. 109 del 1994 nei termini che seguono: "1. In sede di contrattazione collettiva decentrata, ai sensi del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive modificazioni, è ripartita la quota dell'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro, da destinare alla costituzione di un fondo interno e da ripartire tra il personale dell'ufficio tecnico dell'amministrazione aggiudicatrice, qualora esso abbia redatto direttamente il progetto per l'appalto della medesima opera o lavoro, e il coordinatore unico di cui all'articolo 7 il responsabile del procedimento e i loro collaboratori."
Il decreto legge innanzi richiamato ha anche fatto espresso riferimento a progetti di cui era riscontrato il "perdurare dell'interesse pubblico alla realizzazione dell'opera".
16. A seguito dell'entrata in vigore della legge 15.05.1997 n. 127 (l'art. 16, c. 3), l'art. 18 è stato così riformulato "1. L'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono destinati alla costituzione di un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'articolo 7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis. Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione, sulla base di un regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione
".
17. La legge 16.06.1998 n. 191 (art. 2, c. 18) ha apportato ulteriori innovazioni all'art. 18 che per effetto delle modifiche recita: "L'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono destinati alla costituzione di un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'articolo 7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis. Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione, sulla base di un regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, nel quale vengono indicati i criteri di ripartizione che tengano conto delle responsabilità professionali assunte dagli autori dei progetti e dei piani, nonché dagli incaricati della direzione dei lavori e del collaudo in corso d'opera
".
18. Infine, per quanto rileva temporalmente nella vicenda in esame, la legge 17.05.1999 n. 140 ha disposto con l'art. 13, c. 4, la modifica dell'art. 18, commi 1 e 1-bis che, per effetto delle modifiche così recita: "Una somma non superiore all' 1,5 per cento dell'importo posto a base di gara di un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli stanziamenti di cui all'articolo 16, comma 7, è ripartita, per ogni singola opera o lavoro, con le modalità ed i criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra il responsabile unico del procedimento e gli incaricati della redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo dell'1,5 per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali connesse alle specifiche prestazioni da svolgere Le quote parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate a personale esterno all'organico dell'amministrazione medesima, costituiscono economie. I commi quarto e quinto dell'articolo 62 del regolamento approvato con regio decreto 23.10.1925, n. 2537, sono abrogati. I soggetti di cui all'articolo 2, comma 2, lettera b), possono adottare con proprio provvedimento analoghi criteri.
2. Il 30 per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 1, tra i dipendenti dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto
".
19. In continuità con i principi già affermati da questa Corte nella sentenza n. 8344 del 2011, deve ritenersi che l'art. 18, nella formulazione originaria ed in quella derivata dalle modifiche apportate dal D.L. n. 101 del 1995, convertito con modificazioni dalla L. n. 216 del 1995 ha attribuito alla contrattazione collettiva, decentrata, la possibilità, di individuare la quota della percentuale del costo preventivato di un'opera o di un lavoro da destinare alla costituzione del Fondo interno da ripartire tra i soggetti individuati dalla norma. Tanto in sintonia con l'art. 49 del D.Lgs. n. 29 del 1993, che aveva demandato alla contrattazione collettiva la regolamentazione del trattamento retributivo, fondamentale ed accessorio, dei pubblici dipendenti con rapporto di lavoro privatizzato. La norma, infatti si era limitata a porre i limiti legali all' intervento della contrattazione collettiva decentrata.
20. A seguito delle modifiche apportate dall'art. 16, c. 3, della L. n. 127 del 1997, la individuazione dei criteri di ripartizione del Fondo, destinato al pagamento dell'incentivo, è stata attribuita alla potestà regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, nel rispetto della normativa primaria, regola, questa, confermata dalle modifiche introdotte dall' art. 2, c. 18, della L. n. 191 del 1998, che ha dettato più precisi criteri per l'esercizio della potestà regolamentare (responsabilità professionali degli autori dei progetti e dei piani e degli incaricati della direzione dei lavoro e dei collaudi in corso d'opera), mentre la riformulazione dell'art. 18 della legge n. 109 del 1994 ad opera dell'art. 13, c. 4, della L. n. 144 del 1999, ha previsto che la potestà regolamentare dell'amministrazione aggiudicatrice debba in sostanza compendiarsi nel recepimento dei criteri di ripartizione stabiliti dalla contrattazione collettiva decentrata.
21. L'evoluzione del quadro normativo consente, in conclusione di affermare, che l'attribuzione dell'incentivo deve essere prevista e regolata dalla contrattazione collettiva decentrata, che il potere regolamentare della Amministrazione, introdotto dalla L. n. 127 del 1997 è limitato alla specificazione dei criteri di ripartizione, che tale specificazione, a far tempo dall'entrata in vigore dell'art. 13, c. 4, della L. n. 140 del 1999, deve coincidere con i criteri previsti dalla contrattazione collettiva decentrata.
22. L'esame del dato testuale contenuto nelle formulazioni dell'art. 18 della L. n. 109 del 1994 via via succedetesi nel tempo, consente inoltre di affermare, in conformità ai principi affermati da questa Corte territoriale nelle sentenze n. 11022/2016, n. 16736 del 2013 e n. 8344 del 2011 che l'attività di progettazione può essere "premiata" dalla contrattazione collettiva decentrata con l'attribuzione degli incentivi dell'art. 18 se e solo se si risolva in un'"effettiva utilità per l'amministrazione come attività propedeutica alla realizzazione dell'opera pubblica", quale può essere l'approvazione di un progetto esecutivo dell'opera pubblica.
23. Le prospettazioni difensive formulate dal ricorrente nel motivo in esame, e che invocando la sentenza di questa Corte n. 13384 del 2004, muovono dall'assunto secondo cui la norma di cui all'art. 18 citato, affermerebbe un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai dipendenti, a nulla rilevando che detti diritti risultino indeterminati quantitativamente fino alla specificazione con regolamento delle modalità di ripartizione del fondo, svalutano i dati normativi richiamati nei punti da 13 a 18 di questa sentenza.
24. Come già rilevato nei punti da 19 a 22 di questa sentenza,
il dato letterale e sistematico delle diverse formulazioni dell'art. 18 che si sono succedute nel tempo, attesta che l'incentivo può essere attribuito se previsto dalla contrattazione collettiva decentrata e se sia stato adottato l'atto regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice volto alla precisazione dei criteri di dettaglio per la ripartizione delle risorse finanziarie confluite nel Fondo e solo a condizione che l'attività di progettazione sia arrivata in una fase avanzata, perché sono intervenuti un progetto esecutivo approvato ed un'opera da realizzare.
25. Siffatti presupposti non ricorrono nella fattispecie dedotta in giudizio atteso che non è stata oggetto di alcuna censura l'affermazione della Corte territoriale secondo cui il regolamento è stato adottato solo in data 27.06.2007 e considerato che mai il Giuliani ha allegato l'esistenza di clausole della contrattazione collettiva integrativa disciplinanti la materia dell'incentivo previsto dall'art. 18 della L. n. 109 del 1994, come successivamente modificata.
26. Deve, infine, affermarsi che diversamente da quanto opina il ricorrente,
i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 13384 del 2004 non offrono alcun supporto alle sue prospettazioni difensive atteso che, come già osservato da questa Corte nella Ordinanza n. 3779 del 2012, la necessità del regolamento per il diritto agli incentivi è stata affermata anche nella sentenza del 2004, la quale in assenza di regolamento, non ha affatto riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice.
27. Deve, poi, escludersi che in difetto di disposizioni di fonte pattizia collettiva, il giudice avrebbe potuto liquidare in via equitativa il compenso retributivo accessorio domandato, ostandovi il principio di riserva alla contrattazione collettiva espresso nel richiamato c. 1 dell'art. 49 del D.Lgs. n. 165 del 2001, riaffermato nel c. 1 dell'art. 45 del D.Lgs. n. 165 del 2001.
28. Va, infine, rilevato, che il vizio in esame è inammissibile nella parte in cui è denunciata la violazione dell'art. 2126 c.c. in quanto, in difformità da quanto prescritto dall'art. 366, primo comma, n. 3 c.p.c., il ricorrente non ha svolto alcuna argomentazione volta a dimostrare in qual modo la sentenza abbia violato la disposizione codicistica ovvero l'interpretazione datane dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 24298/2016, 87/2016, 3010/2012, 5353/2007; Ord. 187/2014, 16308/2013) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 05.06.2017 n. 13937).

INCENTIVO PROGETTAZIONEPer il diritto all'incentivo è indispensabile la predisposizione di un regolamento per determinarne le modalità di erogazione, perché così la legge prescrive.
Invero
la necessità del regolamento per il diritto agli incentivi è stata affermata anche da questa Corte perché, nella fattispecie trattata, in assenza di regolamento non è stato affatto riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo imposto dalla legge.
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Sono invece manifestamente fondati i primi tre motivi in cui si contesta il diritto all'incentivo di cui all'art. 19 della legge 109/1994.
Ed infatti,
per il diritto all'incentivo, era indispensabile la predisposizione di un regolamento per determinarne le modalità di erogazione, perché così la legge prescrive, e nella specie il regolamento di cui alla delibera n. 1401 del 2003 era stato annullato. Né era passibile di sostituzione con accordi di sorta.
Invero
la necessità del regolamento per il diritto agli incentivi è stata affermata anche da questa Corte con la sentenza indicata dai Giudici di merito a supporto della decisione, perché, in quel caso, in assenza di regolamento, non è stato affatto riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo imposto dalla legge.
E' stato infatti affermato (Cass. n. 13384 del 19/07/2004) che "
Il disposto dei commi primo e primo-bis dell'art. 18 della legge n. 109 D.L. 1994 (nel testo vigente a seguito delle modifiche di cui alla legge n. 127 del 1997 e prima delle modificazioni successivamente introdotte dalla legge n. 144 del 1999) nel prevedere l'obbligo delle amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di pianificazione di costituire un fondo interno e di ripartirlo tra il personale dei loro uffici tecnici, nonché di emanare un regolamento per le relative modalità di erogazione, correlava tali obblighi ai rapporti di lavoro in corso attribuendo a detti dipendenti un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva, alla cui configurabilità non era d'ostacolo la necessità di una successiva determinazione nel quantum, dovendosi, del resto, da un lato escludere che l'emanazione del regolamento (peraltro non subordinata dal suddetto disposto alla determinazione di criteri e modalità nella contrattazione decentrata) potesse configurarsi come condizione di esistenza di detto diritto, atteso che altrimenti si sarebbe dovuta qualificare come condizione meramente potestativa e perciò invalida, e, dall'altro, ritenere irrilevante l'assenza di un termine per detta emanazione, in quanto l'inerenza dell'obbligo ad un rapporto contrattuale comportava per le amministrazioni il rispetto dei principi di correttezza e buona fede e, quindi, il dovere di procedere all'emanazione in tempi ragionevoli".
Sulla base di tali principi la S.C., dando atto che non costituiva oggetto di impugnazione la statuizione del giudice di merito sull'applicabilità alla vicenda giudicata del sopra citato disposto normativo, ha riconosciuto fondata la pretesa di un lavoratore dell'ANAS al "risarcimento dei danni" a titolo di responsabilità ex art. 1218 cod. civ., per la mancata corresponsione del premio incentivante a seguito dell'omessa costituzione del fondo (Corte di Cassazione, Sez. VI civile, ordinanza 09.03.2012 n. 3779).

INCENTIVO PROGETTAZIONE: In assenza di regolamento, non si ha diritto al riconoscimento dell'incentivo ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice.
Il disposto dei commi 1 e 1-bis dell'art. 18 della legge n. 109 del 1994 (nel testo vigente a seguito delle modifiche di cui alla legge n. 127 del 1997 e prima delle modificazioni successivamente introdotte dalla legge n. 144 del 1999) nel prevedere l'obbligo delle amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di pianificazione di costituire un fondo interno e di ripartirlo tra il personale dei loro uffici tecnici, nonché di emanare un regolamento per le relative modalità di erogazione, correlava tali obblighi ai rapporti di lavoro in corso attribuendo a detti dipendenti un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva, alla cui configurabilità non era d'ostacolo la necessità di una successiva determinazione nel "quantum", dovendosi, del resto, da un lato escludere che l'emanazione del regolamento (peraltro non subordinata dal suddetto disposto alla determinazione di criteri e modalità nella contrattazione decentrata) potesse configurarsi come condizione di esistenza di detto diritto, atteso che altrimenti si sarebbe dovuta qualificare come condizione meramente potestativa e perciò invalida, e, dall'altro, ritenere irrilevante l'assenza di un termine per detta emanazione, in quanto l'inerenza dell'obbligo ad un rapporto contrattuale comportava per le amministrazioni il rispetto dei principi di correttezza e buona fede e, quindi, il dovere di procedere all'emanazione in tempi ragionevoli (sulla base di tali principi la S.C., dando atto che non costituiva oggetto di impugnazione la statuizione del giudice di merito sull'applicabilità alla vicenda giudicata del sopra citato disposto normativo, ha riconosciuto fondata la pretesa di un lavoratore dell'A.N.A.S. al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità "ex" art. 1218 c.c., per la mancata corresponsione del premio incentivante a seguito dell'omessa costituzione del fondo, escludendo che -in ragione della loro applicabilità per un preciso ambito temporale- potesse integrare causa di non imputabilità dell'inadempimento dell'obbligo di costituzione la successione di varie modifiche al testo dell'art. 18 legge n. 109 del 1994).
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La norma di cui al comma 1-bis dell'art. 18 della legge n. 109 del 1994, aggiunto dall'art. 6, comma tredicesimo, della legge n. 127 del 1997 (e, quindi, vigente anteriormente alla modifica dello stesso art. 18 disposta dall'art. 13, comma quarto, della legge n. 144 del 1999) imponeva alle Amministrazioni che ne erano destinatarie l'obbligo di emanare un regolamento per la determinazione delle modalità di erogazione del fondo interno previsto dal comma primo, senza che l'emanazione fosse subordinata alla preventiva determinazione di criteri e modalità fissati dalla contrattazione decentrata (essendo stato il riferimento a tale contrattazione reintrodotto soltanto con la legge n. 144 del 1999).

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Il primo motivo di ricorso è infondato per le seguenti considerazioni.
La ricorrente non censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che alla fattispecie in esame non possa applicarsi il disposto dell'art. 13, comma 4, della legge 17.05.1999 n. 144 (recante la formulazione attualmente vigente dell'art. 18 della legge 109/1994), perché norma priva di efficacia retroattiva e quindi non applicabile al periodo di tempo (27.01.1994/16.07.1998) in cui si sarebbe verificata la lesione per la quale il Ra. ha chiesto il risarcimento del danno. Neppure è oggetto di specifica censura il parametro legislativo di riferimento, individuato dalla Corte torinese "ratione temporis" nella versione del menzionato art. 18 legge 109/1994 introdotta dall'art. 6, comma 13, della legge 15.05.1997 n. 127.
Quest'ultima norma così dispone. Comma 1: "L'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva, sono destinati alla costituzione di un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'art. 7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori". Comma 1-bis: "Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione sulla base di un regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di pianificazione".
Dalla norma sopra trascritta si ricava:
   a) l'obbligo dell'amministrazione di costituire un fondo interno destinandovi l'1 per cento del costo preventivato dell'opera da realizzare o il 50 per cento della tariffa professionale relativa ad un atto di pianificazione;
   b) l'obbligo di ripartire detto fondo tra il personale degli uffici tecnici dell'amministrazione;
   c) l'obbligo di emanare un regolamento per determinare le modalità di erogazione del fondo.
Nella versione in esame della norma, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, l'emanazione del regolamento non è subordinata alla preventiva determinazione di criteri e modalità fissati dalla contrattazione decentrata. Tale riferimento alla contrattazione decentrata verrà reintrodotto solo con la legge 17.05.1999 n. 144, non applicabile alla fattispecie in esame.
Dalla norma di legge sopra trascritta si ricava altresì che tutti i predetti obblighi dell'amministrazione sono previsti in relazione a rapporti di lavoro in corso con i propri dipendenti; essi pertanto trovano la loro correlazione in un vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai dipendenti specificamente indicati nella norma. A nulla rileva che i predetti diritti siano quantitativamente indeterminati fino alla specificazione con regolamento delle modalità di ripartizione del fondo: infatti non osta all'esistenza del diritto retributivo del lavoratore la necessità di una successiva determinazione del quantum.
D'altro canto l'emanazione del regolamento non può essere configurata come condizione di esistenza del diritto, poiché una siffatta condizione null'altro sarebbe che una condizione meramente potestativa, da ritenersi invalida a norma dell'art. 1355 c.c.. Neppure può essere rilevante in senso contrario che la legge non ponga un termine all'amministrazione per l'emanazione del regolamento: l'inerenza dell'obbligo in questione ad un rapporto contrattuale comporta infatti per l'amministrazione il rispetto dei principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.), per cui l'ANAS era comunque tenuta ad emanare il regolamento entro termini ragionevoli.
Non avendo a ciò provveduto, l'ente si è reso certamente inadempiente nei confronti dei dipendenti aventi diritto alla liquidazione del fondo ed è tenuto a risarcire loro i danni subiti, ai sensi dell'art. 1218 c.c. , non avendo il debitore né allegato né provato l'impossibilità di tale adempimento per cause a lui non imputabili. Non costituiscono motivo di oggettiva impossibilità, infatti, le varie modifiche legislative al testo dell'art. 18 cit., atteso che, non avendo le innovazioni effetti retroattivi, ogni versione della norma aveva un suo preciso ambito di applicazione temporale.
In definitiva la responsabilità dell'ANAS nei confronti del Ra. non può essere messa in dubbio, avuto anche riguardo alla natura di ente pubblico economico assunta dall'azienda a partire dal 19.08.1995 ed alla conseguente contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti.
La sentenza impugnata, pertanto, nella parte in cui afferma la responsabilità dell'ANAS, deve trovare piena conferma, sia pure con le doverose precisazioni in diritto sopra specificate (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 19.07.2004 n. 13384).

 
 

"Campo minato" quello dell'incarico al legale:

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALISussiste l'onere d’immediata impugnazione del bando di gara pubblica per contestare clausole di loro impeditive dell'ammissione dell'interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i concorrenti la partecipazione alla gara.
In siffatti casi già la pubblicazione del bando genera una lesione della situazione giuridica per chi intenderebbe partecipare alla competizione ma non può farlo a causa della barriera all’ingresso a quello specifico mercato provocata da clausole del bando per lui insuperabili perché immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o sproporzionate per eccesso; il che comporta per lui un arresto procedimentale perché gli si rendono inconfigurabili successivi atti applicativi utili.

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Il motivo, ritiene qui il Collegio, è infondato.
Vanno condivise le giuste considerazioni della sentenza di prime cure sull’onere di immediata impugnazione del bando di gara, che opera allorché –come nel caso presente- le clausole della lex specialis prevedano requisiti di partecipazione ex se ostativi all'ammissione dell'interessato, vale a dire autonomamente ed immediatamente escludenti.
La giurisprudenza da tempo assume che sussiste l'onere d’immediata impugnazione del bando di gara pubblica per contestare clausole di loro impeditive dell'ammissione dell'interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i concorrenti la partecipazione alla gara. In siffatti casi già la pubblicazione del bando genera una lesione della situazione giuridica per chi intenderebbe partecipare alla competizione ma non può farlo a causa della barriera all’ingresso a quello specifico mercato provocata da clausole del bando per lui insuperabili perché immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o sproporzionate per eccesso; il che comporta per lui un arresto procedimentale perché gli si rendono inconfigurabili successivi atti applicativi utili (da ultimo Cons. Stato, V, 16.01.2015, n. 92; V, 20.11.2015, n. 5296; V, 06.06.2016 n. 2359).
Nella specie, una tale preclusione all’accesso alla contesa è costituita, per un avvocato –vale a dire, per un esercente la professione cui è per legge riservato il tipo giuridico della prestazione in gara di consulenza legale e che dunque è per ciò solo legittimato ad ambire all’aggiudicazione- dalla richiesta del requisito di un fatturato globale di ingenti entità, corrispondenti a non meno di € 20.000.000, iva esclusa, per consulenze strategico-organizzative e un fatturato per servizi legali nel diritto amministrativo non inferiore a €. 2.000.000,00, iva esclusa, di cui almeno €. 1.000.000,00 conseguiti per prestazioni di assistenza e di consulenza stragiudiziale legale in materia di contratti pubblici all’interno di tre esercizi finanziari ed un oggetto di gara.
Sulla base di siffatti livelli economici –di dimensioni tali da superare una proporzione che sia indice di qualità professionale- la sommatoria delle pregresse prestazioni richieste restringe effettivamente la platea dei concorrenti a un numero limitatissimo: sicché l’effetto di sbarramento del mercato con conseguente onere di immediata impugnazione diviene palese; la presentazione della domanda di partecipazione avrebbe avuto solo un carattere formale e dunque non necessario a radicare il bisogno di giustizia (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 26.06.2017 n. 3110 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla illegittimità di un appalto di servizi legali indetto da un Comune secondo il criterio del prezzo più basso e sulle modalità con cui l’amministrazione comunale ha determinato l’importo dell’appalto.
Il D.Lgs. n. 50/2016 e, prima ancora, la direttiva 2014/24/UE, ha segnato una netta preferenza per l’applicazione di criteri di aggiudicazione che si fondino su un complessivo apprezzamento del miglior rapporto qualità/prezzo, relegando il tradizionale criterio del prezzo più basso ad ipotesi tassativamente individuate.
Conseguentemente, il criterio di aggiudicazione fondato sul rapporto qualità/prezzo costituisce un principio immanente al sistema che consente l’applicazione del prezzo più basso solo nei casi espressamente previsti.

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In tale prospettiva,
il criterio qualità/prezzo è certamente più agevolmente coniugabile (rispetto al criterio del massimo ribasso) con il disposto dell’art. 2233, 2° comma, cod. civ., che –nel disciplinare il contratto d’opera intellettuale, cui è pur sempre riconducibile l’attività legale– dispone che “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.
Le considerazioni innanzi svolte dimostrano le ragioni dell’illegittimità della scelta dell’amministrazione comunale di procedere con il criterio del prezzo più basso, atteso che esso non è compatibile con le disposizioni dell’art. 95 del codice –come si è detto, per più motivi applicabile all’appalto per cui è causa– poiché il legislatore ne ha reso possibile l’applicazione solo in presenza di prestazioni ripetitive ovvero standardizzate, connotati questi che certo non possono ritenersi propri della attività legale che si caratterizza, invece, proprio per la peculiarità e specificità di ciascuna questione, sia essa contenziosa o stragiudiziale.

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I servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del Codice, quale quello in esame, sono comunque soggetti ai “principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” ex art. 4 Codice.
L’applicazione dei principi di trasparenza e di pubblicità richiedono che ogni potenziale offerente sia messo in condizione di essere a conoscenza di tutte le informazioni necessarie all’appalto in modo tale da consentire un’offerta completa ed adeguata.

Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha omesso del tutto l’applicazione di questi principi. Infatti,
nessuna motivazione è stata data in ordine alla congruità del compenso posto a base di gara, e non è stata effettuata alcuna istruttoria per determinare i parametri, quali la tipologia o quantità del contenzioso anche prendendo in considerazione gli anni precedenti, idonei per determinare il prezzo posto a base di gara e per permettere un’offerta consapevole.
Infatti, l’impossibilità di predeterminare il numero e gli importi dei procedimenti contenziosi, nonché la qualità e quantità dell’attività stragiudiziale, preclude qualsiasi serio apprezzamento della congruità dell’importo a base d’asta che, almeno teoricamente, l’amministrazione avrebbe potuto confortare ove avesse fornito dati statistici desunti dall’attività svolta negli anni precedenti.
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FATTO
I ricorrenti hanno impugnato gli atti con cui il comune di Racale ha indetto una gara, per l’affidamento della gestione del contenzioso e del supporto giuridico-legale ai vari uffici, e la successiva aggiudicazione provvisoria.
I ricorrenti hanno dedotto i seguenti motivi:
   1. Violazione art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001; eccesso di potere per falsa applicazione del d.lgs. 50/2016; eccesso di potere per carenza di istruttoria.
   2. Violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. 50/2016; eccesso di potere per irragionevolezza e illogicità manifeste.
   3. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 95 e 83 del d.lgs. 50/2016; eccesso di potere per illogicità e irragionevolezza manifeste; carenza di istruttoria.
   4. Violazione di legge; violazione d.lgs. 50/2016 e, in particolare, degli artt. 3 e 95, comma 2; violazione del d.m. 55/2014; violazione dell’art. 2233, comma 2, c.c.; violazione dei principi i tema di appalto a corpo e di indeterminatezza dell’oggetto.
   5. Falsa ed erronea interpretazione ed applicazione degli artt. 17, 4, 60 e 95, del d.lgs. 50/2016; violazione dei principi generali in materia di organizzazione e struttura dei servizi comunali, anche di cui al d.lgs. 267/2000; violazione degli artt. 18, 19 e 23 della l. 247/2012; violazione dei principi generali in tema di obbligo di svolgimento del concorso pubblico; falsa ed erronea interpretazione ed applicazione degli artt. 7, comma 6, 6-bis, 6-ter e 6-quater del d.lgs. 165/2001, dell’art. 110, comma 6, del d.lgs. 267/2000, dell’art. 2222 e ss. c.c. e dell’art., comma 56, della l. 244/2007, in considerazione anche del d.l. 112/2008; assoluta carenza motivazionale; violazione di legge; sviamento di potere.
Sostengono i ricorrenti:
   - che la prestazione professionale prevista dal bando non rientra nell’ambito di applicazione del d.lgs. 50/2016, ma deve ritenersi regolata dagli artt. 7 e 8 del d.lgs. 165/2001;
   - che la prestazione di rappresentanza legale non rientra nell’ambito dell’appalto;
che comunque, anche a voler ammettere l’appalto di servizi legali, non è possibile affidare questi servizi con il criterio del massimo ribasso e senza idonei criteri di selezione;
   - che, in ragione dell’importo a base d’asta, l’affidamento del servizio, essendo sottosoglia, risulta disciplinato dall’art. 95 del Codice che ammette il criterio del minor prezzo solo per i servizi con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato; che non sono stati indicati idonei criteri di selezione;
   - che sussiste una carenza di istruttoria in ordine alla determinazione dell’importo del prezzo base su cui operare il ribasso;
   - che si tratta di un contratto a misura e non a corpo;
   - che il prezzo previsto è violativo dell’art. 2233, comma 2, c.c.;
   - che, in ragione delle modalità di svolgimento del servizio richiesto, si è, in sostanza, acquisita senza concorso la disponibilità di prestazioni professionali assimilabili a quelle del lavoro dipendente;
   - che ciò integra una ulteriore illegittimità sotto il profilo dell’incompatibilità con il regime proprio dell’attività dell’avvocato esercente la libera professione.
I ricorrenti hanno poi chiesto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulla questione se la direttiva 2014/24/UE osti a una disciplina nazionale che preveda la possibilità di indire una procedura a evidenza pubblica per l’affidamento di un appalto di servizi legali.
Il Comune, con memoria del 16.01.2017, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso collettivo per la disomogeneità delle posizioni sostanziali vantate dai ricorrenti, nonché per difetto di legittimazione a ricorrere in capo alle varie categorie di ricorrenti, e l’irricevibilità del ricorso.
Nel merito ha rilevato:
   - che con l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti non si può più applicare l’art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001;
   - che il nuovo codice chiarisce che lo svolgimento di attività giuridico-legale in favore delle amministrazioni configura un appalto di servizi;
   - che le amministrazioni possono scegliere di avviare una vera e propria procedura di gara;
   - che nessuna norma preclude l’utilizzo del criterio del massimo ribasso;
   - che l’art. 95 del codice non può applicarsi al caso in esame posto che è uno dei servizi per i quali trovano applicazione solo gli artt. 140, 142, 143 e 144;
   - che nessuna disposizione impone alla stazione appaltante di prevedere speciali criteri di qualificazione;
   - che alla procedura hanno partecipato 17 professionisti con la conseguenza che il prezzo determinato non può ritenersi incongruo;
   - che le tariffe professionali sono state abrogate; che il Comune non ha assunto alcun nuovo dipendente.
Con ordinanza 19.01.2017 n. 21 è stata accolta la richiesta misura cautelare.
Le parti hanno depositato ulteriori memorie.
Alla pubblica udienza del 29.03.2017 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
DIRITTO
...
2. Nel merito.
2.1. Infondato è il motivo di ricorso con cui si contesta l’applicazione alla tipologia di servizi in questione della disciplina del d.lgs. 50/2016.
Il nuovo codice dei contratti, che, per quanto qui interessa, ha fedelmente recepito le direttive comunitarie, ha mantenuto i servizi legali tra gli appalti elencati nell’allegato IX, cui si applica il regime “alleggerito” ex artt. 140 e ss., mentre all’art. 17 sono elencati tra gli appalti esclusi dall’applicazione del codice quelli di servizi concernenti cinque tipologie di servizi legali tra cui, per quanto qui interessa, quelli di “rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e successive modificazioni”.
Nel caso di specie, è pacifico che il bando aveva ad oggetto sia l’affidamento relativo all’attività contenziosa, rientrante nel citato art. 17, sia l’affidamento di attività stragiudiziale rientrante negli appalti di servizi di cui al citato allegato IX.
Quest’ultima, soprattutto quando ha carattere generale, deve essere affidata nel rispetto delle previsioni del codice dei contratti.
Nel caso in esame non è possibile apprezzare se risulti prevalente
l’attività contenziosa (il cui affidamento è sottratto al codice dei contratti) o quella stragiudiziale (da affidare nel rispetto del codice dei contratti e delle altre norme dell’ordinamento applicabili) e, a ben vedere, non è neanche necessario tale accertamento poiché l’amministrazione ha inteso operare un unico affidamento sia per il contenzioso sia per l’attività stragiudiziale, di talché una siffatta scelta non poteva che comportare la necessità della procedura ad evidenza pubblica, quale che fosse l’estensione e il “peso” delle attività stragiudiziali, pena, altrimenti, la violazione delle norme che ne regolano l’affidamento. Peraltro, la ordinaria sottrazione dell’affidamento del contenzioso alle procedure del codice dei contratti non preclude certo all’amministrazione di far ricorso ad esse per propria scelta, non risultando rinvenibile un divieto in tal senso.
Va da sé che
la decisione di operare un unico affidamento –sia del contenzioso sia dell’attività stragiudiziale– impone, come innanzi già esposto, il rispetto delle norme del codice dei contratti pubblici e delle altre disposizioni dell’ordinamento.
Di qui l’insussistenza dei presupposti per una rimessione della questione alla Corte di Giustizia.
2.2. Ciò premesso,
al fine di individuare, per quanto in questa sede necessario, le disposizioni applicabili all’affidamento dei servizi legali, occorre rammentare che, oltre agli artt. 140, 142, 143 e 144, trova applicazione all’appalto de quo anche l’art. 95 d.lgs. 50/2016 –concernente i criteri di aggiudicazione- come rilevato da una condivisibile giurisprudenza, “in virtù dell'esplicito rinvio operato, per tutti gli appalti dei settori speciali, dall'art. 133, I comma, dello stesso Codice (applicabile anche ai servizi specifici di cui all'Allegato IX, per effetto della previsione dell'art. 114, I comma, il quale estende in via generale l'applicabilità della disciplina del Titolo VI - Capo I del Codice, ivi compreso l'art. 133 e le norme da quest'ultimo richiamate, anche ai servizi elencati nell'Allegato IX e menzionati nell'art. 140, I comma) (Tar Calabria, Reggio Calabria, sez. I, 30.11.2016, n. 1186).
L’art. 95 codice dei contratti pubblici, prevede che “
salve le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative relative al prezzo di determinate forniture o alla remunerazione di servizi specifici, le stazioni appaltanti, nel rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento, procedono all'aggiudicazione degli appalti e all'affidamento dei concorsi di progettazione e dei concorsi di idee, sulla base del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo o sulla base dell'elemento prezzo o del costo, seguendo un criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del ciclo di vita, conformemente all'articolo 96” (comma 2).
Per il comma 4 “
Può essere utilizzato il criterio del minor prezzo:
   a) per i lavori di importo pari o inferiore a 1.000.000 di euro, tenuto conto che la rispondenza ai requisiti di qualità è garantita dall'obbligo che la procedura di gara avvenga sulla base del progetto esecutivo;
   b) per i servizi e le forniture con caratteristiche standardizzate o le cui condizioni sono definite dal mercato;
   c) per i servizi e le forniture di importo inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, caratterizzati da elevata ripetitività, fatta eccezione per quelli di notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere innovativo
”.
Il D.Lgs. n. 50/2016 e, prima ancora, la direttiva 2014/24/UE, ha segnato una netta preferenza per l’applicazione di criteri di aggiudicazione che si fondino su un complessivo apprezzamento del miglior rapporto qualità/prezzo, relegando il tradizionale criterio del prezzo più basso ad ipotesi tassativamente individuate. Conseguentemente, il criterio di aggiudicazione fondato sul rapporto qualità/prezzo costituisce un principio immanente al sistema che consente l’applicazione del prezzo più basso solo nei casi espressamente previsti.
In tale prospettiva,
il criterio qualità/prezzo è certamente più agevolmente coniugabile (rispetto al criterio del massimo ribasso) con il disposto dell’art. 2233, 2° comma, cod. civ., che –nel disciplinare il contratto d’opera intellettuale, cui è pur sempre riconducibile l’attività legale– dispone che “in ogni caso la misura del compenso deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione”.
Le considerazioni innanzi svolte dimostrano –conformemente alle deduzioni ricorsuali- le ragioni dell’illegittimità della scelta dell’amministrazione comunale di procedere con il criterio del prezzo più basso, atteso che esso non è compatibile con le disposizioni dell’art. 95 del codice –come si è detto, per più motivi applicabile all’appalto per cui è causa– poiché il legislatore ne ha reso possibile l’applicazione solo in presenza di prestazioni ripetitive ovvero standardizzate, connotati questi che certo non possono ritenersi propri della attività legale che si caratterizza, invece, proprio per la peculiarità e specificità di ciascuna questione, sia essa contenziosa o stragiudiziale.
2.3. È inoltre fondato il motivo con cui si contestano le modalità con cui l’amministrazione comunale ha determinato l’importo dell’appalto.
I servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del Codice, quale quello in esame, sono comunque soggetti ai “principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” ex art. 4 Codice.
L’applicazione dei principi di trasparenza e di pubblicità richiedono che ogni potenziale offerente sia messo in condizione di essere a conoscenza di tutte le informazioni necessarie all’appalto in modo tale da consentire un’offerta completa ed adeguata.

Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha omesso del tutto l’applicazione di questi principi.
Infatti,
nessuna motivazione è stata data in ordine alla congruità del compenso posto a base di gara, e non è stata effettuata alcuna istruttoria per determinare i parametri, quali la tipologia o quantità del contenzioso anche prendendo in considerazione gli anni precedenti, idonei per determinare il prezzo posto a base di gara e per permettere un’offerta consapevole.
Infatti, l’impossibilità di predeterminare il numero e gli importi dei procedimenti contenziosi, nonché la qualità e quantità dell’attività stragiudiziale, preclude qualsiasi serio apprezzamento della congruità dell’importo a base d’asta che, almeno teoricamente, l’amministrazione avrebbe potuto confortare ove avesse fornito dati statistici desunti dall’attività svolta negli anni precedenti.

3 In conclusione, il ricorso, previa dichiarazione di inammissibilità dello stesso per difetto di legittimazione attiva nei confronti dell’Ordine degli Avvocati, va accolto, nei termini innanzi indicati, con assorbimento delle censure non esaminate (TAR Puglia-Lecce, Sez. II, sentenza 31.05.2017 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALI: Illegittima la scelta fiduciaria del legale esterno.
Con la deliberazione 26.04.2017 n. 75 (Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 - Comune di Faenza (Ra). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di operatori qualificati articolati in settori di competenza. Criticità: mancato inserimento degli incarichi di patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere l'incarico all'interno dell'ente; conferimento di un elevato numero di patrocini in relazione al numero di legali in forza all'Ufficio legale interno; ricorso all'affidamento diretto; ricorso alla transazione senza previa acquisizione del parere da parte dell'Organo di revisione contabile) la Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, vaglia l'operato di un Comune sotto il profilo dell'organizzazione e del funzionamento dell'ufficio legale, ponendo in rilievo una serie di criticità sia nella gestione dei servizi legali e di patrocinio, sia nella scelta dei professionisti esterni incaricati (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e della Pa del 03.05.2017).
Le censure della Corte
Dopo un'accurata analisi delle procedure dell'ente locale, i giudici contabili formulano le seguenti censure:
   a) mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel documento unico di programmazione o in altro atto di programmazione;
   b) mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a disciplinare l'affidamento dei patrocini legali e omesso accertamento dell'impossibilità di svolgerli all'interno dell'ente;
   c) conferimento di un elevato numero di patrocini e di incarichi esterni, anche in relazione al numero dei legali in forza all'ufficio interno;
   d) ricorso ingiustificato all'affidamento diretto degli incarichi, in contrasto con la giurisprudenza consolidata della magistratura contabile.
Tali conclusioni presuppongono una chiave di lettura estremamente rigorosa, che si può rintracciare nel percorso logico seguito dal collegio nell'affrontare la questione.
La disciplina sugli incarichi
La Sezione osserva che la disciplina da applicarsi agli incarichi di patrocinio legale deve essere rivista alla luce del Dlgs 18.04.2016 n. 50 (codice dei contratti), per il fatto che quest'ultimo, in aderenza ai principi del diritto comunitario, accoglie una nozione molto ampia dell'appalto di servizi, entro cui non può che rientrare ogni incarico di patrocinio legale.
Di conseguenza, l'affidamento di tali incarichi deve perciò avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
Questo assunto non era stato finora espresso in termini così chiari dato che la giurisprudenza contabile, a partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19 della Sezione Basilicata, ha per anni considerato l'incarico di patrocinio legale come un contratto d'opera intellettuale regolato dall'articolo 2230 del codice civile, e nel contempo non disciplinato al pari di un incarico esterno ex articolo 7, comma 6 e seguenti, del Dlgs 165/2001, in quanto conferito per adempimenti obbligatori ex lege.
Il cambio di rotta
Questo orientamento ha talora favorito la prassi di scegliere legali esterni secondo ragioni di carattere fiduciario, prassi che oggi non può trovare giustificazione, se non in casi isolati.
La Sezione Emilia Romagna rileva sul punto che ove ricorrano «ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia dell'ente conferente, tali da non consentire l'espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione».
In vista di tale evenienza, la Pa deve comunque istituire elenchi di operatori qualificati, in modo che l'affidatario venga individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi.
Si tratta, in ogni caso, della classica eccezione che conferma la regola, da identificarsi nella necessità di avviare una procedura comparativa per la scelta del legale esterno.
A conferma di ciò, il collegio evoca la recente sentenza 06.02.2017 n. 334 con cui il Tar Sicilia-Palermo, Sezione III, nel trattare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti, ha rimarcato come per tale appalto «debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente».
Il collegio accoglie queste indicazioni, ritenendo che esse rappresentino un passaggio obbligato per assicurare il corretto utilizzo delle risorse pubbliche, con l'effetto che deve ritenersi precluso agli enti locali qualsiasi margine di discrezionalità in materia (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.05.2017).

INCARICHI PROFESSIONALI: Anche il patrocinio legale «singolo» è un appalto di servizi.
Anche il singolo incarico di patrocinio legale deve essere inquadrato come appalto di servizi, soggetto ai principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza, ed è vietato procedere all'affidamento diretto sulla base del carattere fiduciario della scelta.

Con la deliberazione 26.04.2017 n. 73 (Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 - Comune di Ravenna (FC). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di operatori qualificati articolati in settori di competenza. Criticità: ricorso a domiciliazioni legali; violazione dei principi sul rimborso delle spese legali), deliberazione 26.04.2017 n. 74 (Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 - Comune di Cesena (FC). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di operatori qualificati articolati in settori di competenza.Criticità: mancato inserimento degli incarichi di patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere l'incarico all'interno dell'ente; ricorso all'affidamento diretto; mancata previa valutazione di congruità del preventivo; avventato ricorso a domiciliazioni legali) e deliberazione 26.04.2017 n. 75 (Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 - Comune di Faenza (Ra). A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di operatori qualificati articolati in settori di competenza. Criticità: mancato inserimento degli incarichi di patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere l'incarico all'interno dell'ente; conferimento di un elevato numero di patrocini in relazione al numero di legali in forza all'Ufficio legale interno; ricorso all'affidamento diretto; ricorso alla transazione senza previa acquisizione del parere da parte dell'Organo di revisione contabile) -relative alle relazioni sui servizi legali di alcuni capoluogo di provincia- la Sezione regionale di controllo della Corte dei Conti per l'Emilia Romagna chiarisce le corrette modalità per l'affidamento degli incarichi legali.
Tali indicazioni si aggiungono così a quelle proposte dall'Anac con lo schema di atto di regolamento sull'affidamento dei servizi legali, sottoposto a consultazione nei giorni scorsi. L'analisi dei magistrati parte dalla considerazione che con l'entrata in vigore del Dlgs 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato come appalto di servizi, soggetto all'applicazione del codice di contratti pubblici.
Ciò, sulla base del disposto di cui all'articolo 17, che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento. L'applicazione, anche al singolo patrocinio, della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma dunque l'impossibilità di considerare la scelta dell'avvocato esterno all'ente come connotata da carattere fiduciario.
L’elenco di operatori qualificati
Per la scelta del professionista, l'ente potrebbe avvalersi di un elenco di operatori qualificati, da individuare con procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta. Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto dell'importanza della causa e del compenso prevedibile.
È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti. In quest'ultimo punto i giudici contabili si discostano dall' Anac che sembra invece ammettere la previsione di un numero massimo di iscritti.
Quando l’affidamento diretto
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza, dettagliatamente giustificate e non derivanti da un'inerzia dell'ente conferente, tali da non consentire l'espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l'affidatario dev'essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Inserimento nel Dup
L'adozione di criteri di buon andamento e corretta gestione delle risorse pubbliche impone poi l'inserimento nel Dup, o in altro atto di programmazione, degli incarichi di patrocinio, la cui regolamentazione deve essere in ogni caso prevista dall'ente. Secondo i magistrati l'affidamento degli incarichi di patrocinio dovrebbe avvenire, in via preferenziale, in favore degli avvocati interni all'ente. Per questo, occorrerebbe procedimentalizzare l'accertamento, preliminare rispetto all'affidamento di ciascun incarico, dell'effettiva impossibilità per i legali dipendenti dall'ente di assumere l'incarico.
In mancanza di una disciplina specifica, è comunque onere dell'ente accertare, volta per volta, prima di affidare gli incarichi di patrocinio all'esterno, l'impossibilità da parte dei componenti dell'ufficio legale a svolgere tale incarico, allo scopo di evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile danno all'erario. Un accertamento di tale tipo è da considerarsi presupposto necessario per l'affidamento legittimo all'esterno di un patrocinio ed è indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi come appalti di servizi.
La mera indicazione, nella deliberazione di giunta «preso atto della impossibilità da parte dell'avvocatura comunale di assumere la difesa per effetto del pensionamento del Capo Servizio contenzioso» non è infatti sufficiente ad integrare detto accertamento. La presenza di un ufficio legale interno all'ente cui sia istituzionalmente demandata la competenza in materia di difesa in giudizio ed assistenza giuridica, implica che l'affidamento delle summenzionate attività a un soggetto esterno debba rappresentare un'eccezione rispetto ad un ordinario assetto delle attribuzioni.
Fra le criticità evidenziate, in tema di domiciliazione legale, i giudici contabili asseriscono che in questo caso l'intuitus personae non è di particolare rilevanza, pertanto la scelta dell'affidatario non può ragionevolmente fondarsi sull'aspetto prettamente fiduciario, ma deve orientarsi sul costo più basso ottenibile tramite una procedura comparativa. Risulta infatti meno rilevante, grazie all'utilizzo della pec, la funzione di interlocuzione diretta con le cancellerie da parte dei legali della circoscrizione.
Il parere dell'organo di revisione sulle delibere di giunta
Infine, la Corte affronta il tema del parere dell'organo di revisione sulle delibere di giunta aventi ad oggetto transazioni. Pur riconoscendo che la giurisprudenza prevalente esclude il parere dell'organo di revisione contabile sulle transazioni di competenza dell'organo esecutivo, i magistrati ritengono comunque utile segnalare l'opportunità, da parte dell'ente pubblico, di chiedere un parere all'organo di revisione anche in riferimento a transazioni non di competenza del consiglio, ove le stesse siano di particolare rilievo, o relative a controversie di notevole entità (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.05.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - INCARICHI PROFESSIONALI: Criticità rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di incarichi legali.
L’affidamento diretto di incarichi di patrocinio legale, operati dall’ente, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
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L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.

L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario del DUP, come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1, risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
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Pur costituendo la transazione uno strumento che si presta ad abusi, la giurisprudenza della Corte dei conti è ormai consolidata nel ritenere pienamente ammissibile il ricorso a tale strumento, ove risulti conveniente per l’Amministrazione, anche in riferimento a fattispecie rispetto alle quali non sia legislativamente previsto il tentativo obbligatorio di mediazione.
Occorre tuttavia la massima prudenza da parte dell’ente, nonché una dettagliata motivazione che dia conto del percorso logico seguito per giungere alla definizione transattiva della controversia, anche sulla base di un giudizio prognostico circa l’esito del contenzioso.

La deliberazione di Giunta di autorizzazione alla conclusione della transazione, nella fattispecie, non ha conseguito (richiesto) il parere dell’Organo di revisione.
La Sezione è a conoscenza dei precedenti giurisprudenziali che hanno ritenuto obbligatoria l’acquisizione di detto parere solo nel caso in cui costituisca atto di un procedimento che deve concludersi con una delibera del Consiglio.
Si ritiene comunque utile segnalare l’opportunità, da parte dell’ente pubblico, di chiedere un parere all’Organo di revisione anche in riferimento a transazioni non di competenza del Consiglio, ove le stesse siano di particolare rilievo, o relative a controversie di notevole entità.
Ovviamente
in detti casi, qualora non siano state previamente ampliate in via regolamentare le funzioni dei revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 6, del tuel (ampliamento che è rimesso alla discrezionale potestà dell’ente locale, ma che sarebbe utile) non vi è l’obbligo da parte dell’Organo di controllo interno di rendere il parere.
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testo deliberazione
A partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente consolidata nel considerare il singolo incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso,
la magistratura contabile già riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non riconducibile direttamente agli incarichi professionali esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto, dovendo essere attribuito a seguito di procedura comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di imparzialità, e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015, approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui all’art. 17 (recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi”), che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma l’orientamento consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una ricognizione interna finalizzata ad accertare l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere l’incarico
(così, da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n. 66/2016).
Con la recente sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
nel giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per esso debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con il Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP, ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da questa Sezione, che
nell'affidamento di un patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto, nella individuazione della “rosa” dei soggetti selezionati, dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che
già prima che entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio legale (C. conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale era configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico dell’amministrazione, ma si configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca (ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II, sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato,
la distinzione tra affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere presente che è tuttora possibile affidare a un legale un incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale.
Ad esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli incarichi professionali esterni individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al conferimento degli incarichi professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso,
si segnalano i seguenti specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel documento unico di programmazione o in altro atto di programmazione
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario del DUP, come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1, risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
Mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a disciplinare l’affidamento dei patrocini legali e omesso accertamento dell’impossibilità di svolgerli all’interno dell’ente
L’ente in analisi ha considerato gli incarichi di patrocinio legale come esclusi dalla disciplina che ha dettato per l’affidamento degli incarichi professionali esterni. Tuttavia, non ha regolamentato in alcun modo l’affidamento di patrocini legali all’esterno: una normativa finalizzata a disciplinare la materia sarebbe in realtà opportuna e dovrebbe tra l’altro prevedere che l’affidamento degli incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale, in favore degli avvocati interni all’ente.
Essa dovrebbe, inoltre, procedimentalizzare l’accertamento, preliminare rispetto all’affidamento di ciascun incarico, dell’effettiva impossibilità per i legali dipendenti dall’ente di assumere l’incarico. In mancanza di una disciplina specifica, è comunque onere dell’ente accertare, volta per volta, prima di affidare gli incarichi di patrocinio all’esterno, l’impossibilità da parte dei componenti dell’ufficio legale a svolgere gli stessi, allo scopo di evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile danno all’erario.
Un accertamento di tale tipo è da considerarsi presupposto necessario per l’affidamento legittimo all’esterno di un incarico di patrocinio ed è indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi come appalti di servizi. La mera indicazione, nella deliberazione di Giunta “preso atto della impossibilità da parte dell’avvocatura comunale di assumere la difesa per effetto del pensionamento del Capo Servizio contenzioso” non è sufficiente a integrare detto accertamento, soprattutto se si considera che solo 5 patrocini sono stati affidati nel corso dell’anno all’Ufficio legale.
Conferimento di un elevato numero di patrocini e di incarichi esterni, anche in relazione al numero dei legali in forza all’Ufficio interno
La presenza di un ufficio legale interno all’ente cui sia istituzionalmente demandata la competenza in materia di difesa in giudizio ed assistenza giuridica, implica che l’affidamento delle summenzionate attività a un soggetto esterno debba rappresentare un’eccezione rispetto ad un ordinario assetto delle attribuzioni e, anche in ragione del principio di buon andamento ed economicità dell’agere pubblico, debba rispondere ad un criterio di stretta necessità congruamente motivata.
Si ritiene che il Comune debba valutare l’opportunità di effettuare uno studio, allo scopo di verificare la possibilità di economicizzare la propria azione, utilizzando meglio i propri legali.
Ricorso all’affidamento diretto
L’affidamento diretto di incarichi di patrocinio legale, operati dall’ente in analisi, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.

Ricorso alla transazione
Pur costituendo la transazione uno strumento che si presta ad abusi, la giurisprudenza della Corte dei conti è ormai consolidata nel ritenere pienamente ammissibile il ricorso a tale strumento, ove risulti conveniente per l’Amministrazione, anche in riferimento a fattispecie rispetto alle quali non sia legislativamente previsto il tentativo obbligatorio di mediazione.
Occorre tuttavia la massima prudenza da parte dell’ente, nonché una dettagliata motivazione che dia conto del percorso logico seguito per giungere alla definizione transattiva della controversia, anche sulla base di un giudizio prognostico circa l’esito del contenzioso.

La deliberazione di Giunta di autorizzazione alla conclusione della transazione descritta nella parte in fatto della presente deliberazione, reca il parere dell’avvocatura interna, che è integrato nel parere di regolarità tecnica. Tuttavia, non è stato richiesto il parere dell’Organo di revisione.
La Sezione è a conoscenza dei precedenti giurisprudenziali che hanno ritenuto obbligatoria l’acquisizione di detto parere solo nel caso in cui costituisca atto di un procedimento che deve concludersi con una delibera del Consiglio (Sez. regionale di controllo per il Piemonte, parere 26.09.2013 n. 345 e Sez. regionale di controllo per la Puglia, parere 28.11.2013 n. 181), pertanto tale mancata richiesta non sembra viziare l’atto.
Si ritiene comunque utile segnalare l’opportunità, da parte dell’ente pubblico, di chiedere un parere all’Organo di revisione anche in riferimento a transazioni non di competenza del Consiglio, ove le stesse siano di particolare rilievo, o relative a controversie di notevole entità.
Ovviamente
in detti casi, qualora non siano state previamente ampliate in via regolamentare le funzioni dei revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 6, del tuel (ampliamento che è rimesso alla discrezionale potestà dell’ente locale, ma che sarebbe utile) non vi è l’obbligo da parte dell’Organo di controllo interno di rendere il parere (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 26.04.2017 n. 75).

INCARICHI PROFESSIONALI: Criticità rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di incarichi legali.
L’affidamento diretto di un incarico di patrocinio legale, operato dall’ente, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
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L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario del DUP
, come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1, risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
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L’ente, prima di procedere all’affidamento dell’incarico non ha accertato la congruità del preventivo, il quale, a tal fine, dovrebbe essere adeguatamente dettagliato anche sulla base degli eventuali scostamenti dai valori medi tabellari di cui al D.M. n. 55/2014.
A tal fine in ragione del principio di buon andamento ed economicità dell’azione pubblica, sarebbe altresì opportuno che i preventivi accolti presentassero decurtazioni rispetto al richiamato valore medio.
Detta valutazione è necessaria per garantire un’attenta e prudente gestione della spesa pubblica e deve avere ad oggetto anche il rapporto tra il preventivo e l’importanza, nonché la delicatezza della causa. Il responsabile del procedimento, successivamente, ogni anno deve chiedere al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto l’impegno originario, in modo da assicurare la copertura della spesa.
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testo deliberazione
A partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente consolidata nel considerare il singolo incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso,
la magistratura contabile già riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non riconducibile direttamente agli incarichi professionali esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto, dovendo essere attribuito a seguito di procedura comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015, approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di patrocinio legale sembra dover essere inquadrato come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui all’art. 17 (recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi”), che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente da parte di un avvocato in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità .
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma l’orientamento consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una ricognizione interna finalizzata ad accertare l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere l’incarico
(così, da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n. 66/2016).
Con la recente sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
nel giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per esso debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP, ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da questa Sezione,
che nell'affidamento di un patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto, nella individuazione della “rosa” dei soggetti selezionati, dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza, e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio legale
(C. conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale era configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico dell’amministrazione, ma si configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca (ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II, sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato,
la distinzione tra affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere presente che è tuttora possibile affidare a un legale un incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale. A esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli incarichi professionali esterni individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al conferimento degli incarichi professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso,
si segnalano i seguenti specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel documento unico di programmazione o in altro atto di programmazione
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario del DUP
, come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1, risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
Mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a disciplinare l’affidamento dei patrocini legali ed omesso accertamento dell’impossibilità di svolgere l’incarico all’interno dell’ente
Il Comune di Cesena ha considerato gli incarichi di patrocinio legale come esclusi dalla disciplina che ha dettato per l’affidamento degli incarichi professionali esterni. Tuttavia, non ha regolamentato l’affidamento di patrocini legali all’esterno: una normativa finalizzata a disciplinare la materia sarebbe in realtà opportuna e dovrebbe tra l’altro prevedere che l’affidamento degli incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale, in favore degli avvocati interni all’ente. Essa dovrebbe, inoltre, procedimentalizzare l’accertamento, preliminare rispetto all’affidamento di ciascun incarico, dell’effettiva impossibilità per i legali dipendenti dall’ente di assumere l’incarico .
In mancanza di una disciplina specifica, sarebbe stato comunque onere dell’ente accertare, volta per volta, prima di affidare gli incarichi di patrocinio all’esterno, l’impossibilità da parte dei componenti dell’ufficio legale a svolgere gli stessi, allo scopo di evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile danno all’erario. Un accertamento di tale tipo sarebbe da considerarsi presupposto necessario per l’affidamento legittimo all’esterno di un incarico di patrocinio, anche qualora si considerasse la scelta del libero professionista esterna come a carattere fiduciario, ed è indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi come appalti di servizi.
Ricorso all’affidamento diretto
L’affidamento diretto di un incarico di patrocinio legale, operato dall’ente in analisi, si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.

Mancanza di una previa valutazione di congruità del preventivo
L’ente, prima di procedere all’affidamento dell’incarico non ha accertato la congruità del preventivo, il quale, a tal fine, dovrebbe essere adeguatamente dettagliato anche sulla base degli eventuali scostamenti dai valori medi tabellari di cui al D.M. n. 55/2014. A tal fine in ragione del principio di buon andamento ed economicità dell’azione pubblica, sarebbe altresì opportuno che i preventivi accolti presentassero decurtazioni rispetto al richiamato valore medio.
Detta valutazione è necessaria per garantire un’attenta e prudente gestione della spesa pubblica e deve avere ad oggetto anche il rapporto tra il preventivo e l’importanza, nonché la delicatezza della causa. Il responsabile del procedimento, successivamente, ogni anno deve chiedere al legale di confermare o meno il preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto l’impegno originario, in modo da assicurare la copertura della spesa.
Peraltro, il generale principio di economicità dell’azione amministrativa è ora esplicitamente richiamato dall’art. 4 del d.lgs. n. 50/2016.
Ricorso a domiciliazioni legali
Pur avendo l’ente fatto ricorso ad una sola domiciliazione legale, peraltro per un importo ragionevole, è utile evidenziare che, poiché la domiciliazione è un incarico in cui il requisito dell’intuitus personae non è di particolare rilevanza, la scelta dell’affidatario non può ragionevolmente fondarsi sull’aspetto prettamente fiduciario, ma deve orientarsi su un altro criterio di selezione, in particolare il costo più basso ottenibile tramite una procedura comparativa.
Non è poi da sottovalutare che, in ragione del fatto che le comunicazioni da parte delle cancellerie dei tribunali a mezzo di posta elettronica certificata possono intervenire presso i difensori legali su tutto il territorio nazionale, la funzione di interlocuzione diretta con le cancellerie da parte dei legali della circoscrizione risulta meno rilevante. Pertanto, l’ente è invitato, per il futuro, a valutare con la massima attenzione la convenienza di ricorrere a domiciliazioni legali.
A seguito di istruttoria è pertanto emerso come il Comune di Cesena abbia proceduto all’affidamento diretto all’esterno degli incarichi di patrocinio legale, peraltro senza di volta in volta avere previamente accertato l’impossibilità, da parte dell’ufficio interno, a svolgere detti incarichi.
Non ci si può esimere dal rilevare, inoltre, come nell’anno 2015 un unico avvocato sia risultato affidatario diretto di due incarichi di patrocinio su cinque, dell’unico incarico di domiciliazione e sia stato selezionato a seguito di comparazione di curricula per uno dei due appalti di servizi legali; ciò, per un importo totale pari ad euro 45.948,14. Lo stesso avvocato, inoltre, nei due anni precedenti, quindi tra il 2013 e il 2014, è stato affidatario di ulteriori 5 incarichi di patrocinio legale e di 3 appalti di servizi legali, per un importo totale di euro 86.467,65 (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 26.04.2017 n. 74).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Criticità rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di incarichi legali e sul rimborso delle spese legali ad amministratori e dipendenti.
Il rimborso delle spese legali in favore dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per non avere commesso il fatto nell’ambito di un procedimento connesso con l’espletamento del servizio, deriva dal principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per la fedele esecuzione del suo compito.
Il rimborso in favore dei dipendenti degli enti locali è attualmente disciplinato dall’art. 12 del CCNL del 12.12.2002 per l’area della dirigenza, e dall’art. 28 del CCNL del 14.09.2000, per il restante personale; dette norme lo subordinano alle circostanze che i fatti o gli atti siano direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, all’insussistenza del conflitto d’interessi e all’assenza di dolo o di colpa grave.
Solo recentemente il legislatore statale ha riconosciuto, con l’art. 7-bis del d.l. 19.06.2015, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2015, n. 125,
detto diritto anche in favore degli amministratori locali; ciò, “nel caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di dolo o colpa grave”.
L’assenza di conflitto d’interessi con l’ente, condicio sine qua non della risarcibilità delle spese in argomento, richiede in generale l’accertamento che i beneficiari del rimborso non abbiano tenuto comportamenti contrari ai doveri d’ufficio.
Solo le pronunce di assoluzione motivate per insussistenza del fatto o perché l’imputato non lo ha commesso, consentono di escludere in radice il conflitto d’interessi. Qualora, invece, siano motivate ai sensi del comma 2, dell’art. 530, del c.p.p., che ricorre qualora “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”, occorrerà altresì verificare l’assenza del conflitto d’interessi con l’ente pubblico; sarà pertanto onere dell’ente, prima di rimborsare le spese legali, effettuare un accertamento interno che, qualora venga aperto un fascicolo disciplinare, sarà coincidente con le risultanze di quest’ultimo.
Nello specifico, invece, il Comune ha deliberato il rimborso delle spese legali sulla mera base di un provvedimento di archiviazione che si è limitato ad escludere la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto, nonché di un ulteriore provvedimento di archiviazione relativo a un procedimento penale connesso al primo, il quale ha dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta remissione di querela nei confronti di un dipendente e l’infondatezza della notizia di reato rispetto ad altro dipendente.
Tali circostanze, in assenza di un accertamento interno, non escludono che i comportamenti in argomento possano essere stati contrari a doveri d’ufficio.
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testo deliberazione
A partire dalla deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente consolidata nel considerare il singolo incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso,
la magistratura contabile già riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non riconducibile direttamente agli incarichi professionali esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto, dovendo essere attribuito a seguito di procedura comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di imparzialità e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015, approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui all’art. 17
(recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto e concessione di servizi”), che considera come contratto escluso la rappresentanza legale di un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la consulenza legale fornita in preparazione di detto procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma l’orientamento consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una ricognizione interna finalizzata ad accertare l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere l’incarico
(così, da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n. 66/2016).
Con la recente sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III,
nel giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per esso debba essere assicurata la massima partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG 45/2016/AP, ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da questa Sezione,
che nell'affidamento di un patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di rotazione, applicato tenendo conto, nell’individuazione della rosa dei soggetti selezionati, dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori qualificati possono essere articolati in diversi settori di competenza, e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento di una procedura comparativa, le amministrazioni possono prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).

Si precisa, altresì, che
già prima che entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio legale (C. conti, Sez. controllo Basilicata, deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente giurisprudenza amministrativa, per la quale era configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico dell’amministrazione, ma si configuri come modalità organizzativa di un servizio, affidato a professionisti esterni, più complesso e articolato, che può anche comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca (ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II, sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato,
la distinzione tra affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere presente che è tuttora possibile affidare a un legale un incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale. Ad esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli incarichi professionali esterni individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al conferimento degli incarichi professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso,
si segnalano i seguenti specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente all’esterno.
Ricorso a domiciliazioni legali
Pur apparendo l’importo complessivamente corrisposto dal Comune di Ravenna per incarichi di domiciliazione legale giustificato, poiché sono stati affidati 23 incarichi di detta tipologia a fronte di una spesa complessiva lorda di 11.712,22 euro, è comunque utile ricordare che, in ragione della circostanza che le comunicazioni da parte delle cancellerie dei tribunali, a mezzo di posta elettronica certificata, possono intervenire presso i difensori legali su tutto il territorio nazionale, la funzione di interlocuzione diretta con le cancellerie da parte dei legali della circoscrizione risulta meno rilevante.
Pertanto, l’ente in analisi è invitato, per il futuro, a valutare con attenzione la convenienza di ricorrere a domiciliazioni legali.
Violazione dei principi sul rimborso delle spese legali
Il rimborso delle spese legali in favore dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per non avere commesso il fatto nell’ambito di un procedimento connesso con l’espletamento del servizio, deriva dal principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per la fedele esecuzione del suo compito (C. conti, S.r. n. 707/1991).
Il rimborso in favore dei dipendenti degli enti locali è attualmente disciplinato dall’art. 12 del CCNL del 12.12.2002 per l’area della dirigenza, e dall’art. 28 del CCNL del 14.09.2000, per il restante personale; dette norme lo subordinano alle circostanze che i fatti o gli atti siano direttamente connessi all’espletamento del servizio e all’adempimento dei compiti d’ufficio, all’insussistenza del conflitto d’interessi e all’assenza di dolo o di colpa grave.
Solo recentemente il legislatore statale ha riconosciuto, con l’art. 7-bis del d.l. 19.06.2015, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 06.08.2015, n. 125, detto diritto anche in favore degli amministratori locali; ciò, “nel caso di conclusione del procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di dolo o colpa grave”.
L’assenza di conflitto d’interessi con l’ente, condicio sine qua non della risarcibilità delle spese in argomento, richiede in generale l’accertamento che i beneficiari del rimborso non abbiano tenuto comportamenti contrari ai doveri d’ufficio.
Solo le pronunce di assoluzione motivate per insussistenza del fatto o perché l’imputato non lo ha commesso, consentono di escludere in radice il conflitto d’interessi. Qualora, invece, siano motivate ai sensi del comma 2, dell’art. 530, del c.p.p., che ricorre qualora “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona imputabile”, occorrerà altresì verificare l’assenza del conflitto d’interessi con l’ente pubblico; sarà pertanto onere dell’ente, prima di rimborsare le spese legali, effettuare un accertamento interno che, qualora venga aperto un fascicolo disciplinare, sarà coincidente con le risultanze di quest’ultimo.
Nello specifico, invece, il Comune di Ravenna ha deliberato il rimborso delle spese legali sulla mera base di un provvedimento di archiviazione che si è limitato ad escludere la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto, nonché di un ulteriore provvedimento di archiviazione relativo a un procedimento penale connesso al primo, il quale ha dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta remissione di querela nei confronti di un dipendente e l’infondatezza della notizia di reato rispetto ad altro dipendente.
Tali circostanze, in assenza di un accertamento interno, non escludono che i comportamenti in argomento possano essere stati contrari a doveri d’ufficio (Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, deliberazione 26.04.2017 n. 73).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocati, ribassi banditi. Il legale non può chiedere compensi irrisori. Tar Lombardia sulle gare per affidare la difesa in giudizio dei comuni.
Nelle gare per affidare la difesa in giudizio di un comune, l'avvocato non può proporre un compenso irrisorio. Ad esempio chiedere solo le spese vive in caso di soccombenza, contando di vedersi riconoscere un compenso a carico di controparte in caso di vittoria, equivale proporre di lavorare gratis. E questa offerta è inammissibile per contrasto con il dm sui parametri dei compensi forensi, che impongono compensi proporzionati all'attività svolta.

È quanto ha deciso il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 19.04.2017 n. 902, che interviene in materia di affidamento con gara degli incarichi giudiziali agli avvocati. Tra l'altro, la questione in sé tutt'altro che pacifica, anche avendo riguardo al Codice dei contratti pubblici, in cui gli incarichi ai legali sono inseriti tra i contratti esclusi, e ritenendosi da alcuni che questo implichi l'applicazione delle regole generali, relativi a procedure selettive, con esclusione degli incarichi diretti su base fiduciaria.
Tornando al caso lombardo, un comune ha iniziato una procedura negoziata per l'affidamento del servizio di rappresentanza legale dell'ente in un procedimento giurisdizionale di recupero di un credito dell'ente nei confronti della società telefonica. La procedura di gara si è svolta per via telematica avvalendosi di una piattaforma regionale e il criterio di aggiudicazione è stato quello del prezzo più basso.
Al termine del procedura, il servizio è stato affidato a uno studio legale. Un altro avvocato, partecipante alla gara, ha presentato ricorso al Tar e ha avuto torto.
I fatti rilevanti sono stati i seguenti. Il criterio di aggiudicazione era quello del prezzo più basso. E l'avvocato arrivato secondo ha offerto il prezzo di euro 550,00, molto inferiore a quello degli altri partecipanti.
Il funzionario del comune responsabile del procedimento (Rup) ha chiesto chiarimenti, invitando a dettagliare l'offerta sulla base dei compensi da richiedersi a fronte di un ricorso per decreto ingiuntivo finalizzato al recupero del credito dell'amministrazione.
Alla richiesta di chiarimenti, l'avvocato arrivato secondo ha risposto con una nota, nella quale, quanto al compenso indicato nell'offerta (euro 550), l'avvocato specificava che la stessa corrispondeva soltanto alle spese «vive» dell'attività giurisdizionale, in quanto il vero e proprio compenso professionale sarebbe stato costituito dal compenso liquidato dal giudice a proprio favore e posto a carico della parte perdente, vista la «certezza della vittoria processuale pronosticata».
Per l'ipotesi di sconfitta l'avvocato non avrebbe chiesto nulla, se non di trattenere le 550 euro di spese vive.
Il Tar ha dato torto all'avvocato, per una serie di ragioni.
Innanzi tutto è contrario alla comune esperienza affermare che sicuramente si vincerà la causa, essendo noto ad ogni operatore del diritto (giudice o avvocato), che ogni azione giurisdizionale porta in sé inevitabilmente un margine più o meno ampio di incertezza.
Inoltre, anche se si vince, non sempre il giudice liquida le spese a favore dell'avvocato che difende la parte vittoriosa.
L'offerta è stata, quindi, ritenuta indeterminata e condizionata, notando che nel caso di eventuale soccombenza, l'offerta del ricorrente finirebbe per essere un'offerta pari a zero.
E un'offerta pari a zero appare non legittima in quanto, oltre che non essere seria e affidabile, non sono emersi ragioni particolari per le quali la prestazione del professionista intellettuale debba essere di fatto gratuita. D'altra parte il decreto ministeriale sui parametri del compenso dell'avvocato prescrive che il compenso sia «proporzionato all'importanza dell'opera» e, rileva il Tar, un'offerta a compenso zero appare in evidente contrasto con tale previsione normativa.
Il giudice ha quindi confermato l'incarico conferito allo studio legale che ha chiesto un compenso e ha condannato l'avvocato arrivato secondo a pagare le spese del giudizio al Tar.
Dunque questo legale proponeva di fare attività a compenso zero e si trova ora a dover pagare oltre 3 mila euro di spese di soccombenza, da dividere in parti uguali a favore del Comune e del collega che si è aggiudicato l'incarico (articolo ItaliaOggi Sette dell'08.05.2017).

 
 

Sono da qualificarsi come "interventi di nuova costruzione" [ex art. 3, comma 1, lett. e), DPR n. 380/2001] i lavori di riporto/livellamento di terreno di vasta entità.

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo, sbancamento e livellamento: quando occorre il titolo abilitativo edilizio?
Cassazione: “Solo una migliore sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine di una più adeguata coltivazione esula dalla norma urbanistica (14.05.2015 - link a www.casaeclima.com).
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“Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di questa Corte Suprema, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio”.
Lo ha ricordato la Cassazione penale, Sezione III , con la sentenza n. 17114/2015 depositata il 24 aprile. (...continua).
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MASSIMA
3. Di più agevole soluzione la questione posta dal ricorrente in merito alla asserita inosservanza della legge penale (art. 44, lett. c), D.P.R. 380/2001 e 181 D.Lgs. 42/2004) oggetto del secondo motivo. Anzitutto va osservato che, una volta sgombrato il campo dalla possibilità di escludere dalla categoria di rifiuto il materiale non litoide contenuto nella parte dell'area adibita a piazzale, è logico concludere che si è trattato di materiale di vario genere adoperato (unitamente a quello consentito) per la realizzazione di un'opera nuova diversa, però, dalla situazione originaria del terreno e non limitata -come preteso dalla difesa del ricorrente- all'elisione di alcuni avvallamenti del terreno.
3.1 Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di questa Corte Suprema,
le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Sez. 3^ 13.01.2011 n. 4916, Agostini, Rv. 262475; idem 22.02.2012 n. 29466, Batteta, Rv. 253154; idem 11.07.1991 n. 9978, Laviano e altro, Rv. 188229).
Ciò che connota l'attività di spianamento libera da quella vincolata ad una preventiva autorizzazione è, dunque, la finalità dell'opera, nel senso che solo una migliore sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine di una più adeguata coltivazione esula dalla norma urbanistica (in termini Sez. 3^ 09.03.1994 n. 4722, Gianni, Rv. 198730) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.04.2015 n. 17114).

EDILIZIA PRIVATA: Opere di scavo ad uso diverso dall'agricolo, necessario il titolo abilitativo edilizio.
Cassazione: incidono sul tessuto urbanistico del territorio le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli (24.02.2015 - link a http://www.casaeclima.com).
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Con la sentenza n. 4916/2015 depositata il 3 febbraio, la terza sezione penale della Cassazione ha ribadito che “le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio” (cfr., Sez.3, n. 8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed altro, Rv.242741). (...continua).
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MASSIMA
7. Il secondo ed il quarto motivo, tra loro sostanzialmente collegati perché basati sul medesimo presupposto, sono infondati.
Va ribadito che,
come già più volte affermato da questa Corte, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (cfr., Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed altro, Rv. 242741).
Nella specie, la sentenza ha correttamente argomentato, traendone logica conferma dall'avvenuta presentazione, con esito negativo, di richiesta di permesso a costruire un manufatto, come si versi in presenza di lavori di scavo e di sbancamento finalizzati ad edificazione di annesso agricolo e dunque, appunto, di manufatto, e non, invece, ad attività di coltivazione (la cui natura non è stata neppure specificata dal ricorrente), stante anche la conformazione del terreno.
Correttamente, inoltre, la sentenza impugnata ha richiamato, con riguardo alla pretesa mancata considerazione dell'ordinanza comunale secondo cui, come affermato in ricorso, sarebbe stata necessaria una mera richiesta di inizio attività, il principio di autonomia delle valutazioni adottate in sede giurisdizionale rispetto a quelle dell'autorità amministrativa con le sole previsioni derogatorie tassativamente previste dalla legge (cfr., Sez. 3, n. 22823 del 26/02/2003, Barbieri, Rv. 225293).
Va aggiunto che, proprio in ragione della finalizzazione dello scavo ad usi diversi da quelli agricoli, deve ritenersi che la Corte abbia poi correttamente escluso, con riguardo a quanto lamentato con il quarto motivo di ricorso, l'applicabilità del disposto dell'art. 149, comma 1, lett. b), del d.Lgs. n. 42 del 2004 che proprio l'essenziale presupposto di attività agro-silvo-pastorale implica.
Va considerato, per di più, che
anche gli interventi inerenti l'esercizio dell'attività agro-silvo-pastorale, laddove comportano un'alterazione permanente dell'assetto territoriale, richiedono la preventiva autorizzazione di legge, atteso che gli stessi assumono, in forza di ciò, la natura di opera civile (cfr., Sez. 3, n. 2950 del 12/11/2003, Pizzolato ed altro, Rv. 227395) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 03.02.2015 n. 4916 - tratto da www.lexambiente.it).

EDILIZIA PRIVATAIn tema di trasformazione dei suoli la giurisprudenza della S.C. è stata sempre costante nel ritenere che, versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio.
Siffatto orientamento muove dalla rilevava profonda differenza tra la materia urbanista considerata nel suo significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità della materia urbanistica mirante ad una generale disciplina dell'uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione dell'ambiente.
E proprio per tali ragioni qualsiasi trasformazione rilevante del terreno comporta la necessità di una preventiva concessione urbanistica e non di una semplice autorizzazione.

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BA.Pa., imputato del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. b) "per avere realizzato senza concessione opere di trasformazione edilizia de territorio, consistenti in spianamento e riporto di terreno con stoccaggio di attrezzature per l'attività edilizia", veniva dichiarato colpevole del detto reato dal Tribunale di Cagliari che con sentenza del 13.07.2010, lo condannava alla pena di giorni venti di arresto ed Euro 10.400,00 di ammenda.
La Corte di Appello di Cagliari, a seguito di impugnazione proposta dell'imputato, confermava la sentenza suddetta in data 16.11.2011.
...
Il ricorso è infondato.
La Corte di appello dopo aver passato in rassegna tutti gli elementi di prova raccolti nel corso del giudizio di primo grado (prove dichiarative e documentali; rilievi fotografici) ha correttamente concluso per la sussistenza del reato in esame in relazione all'intervenuto spianamento del terreno nonostante l'assenza di qualsivoglia autorizzazione ritenendo che in ipotesi quale quella sottoposta al suo esame fosse necessario il permesso di costruire e non la semplice autorizzazione, peraltro mai richiesta.
Nell'affermare ciò la Corte territoriale ha anche sottolineato che, rispetto al rifacimento di una recinzione con paletti e rete metallica lungo il confine del terreno (recinzione a sua volta difforme rispetto all'autorizzazione concessa e poi adeguata a seguito di controlli successivi), lo spianamento del terreno adiacente non riguardava solo una porzione di superficie ristretta e funzionale all'esecuzione dei lavori di rifacimento della recinzione ma copriva la quasi totalità del terreno ("giungendo ad interessare gran parte del fondo ed anche le aree non confinanti con la recinzione" - così, testualmente pag. 4 della sentenza impugnata).
Proprio per tale ragione la Corte aveva ritenuta corretta la decisione del primo giudice individuando nella esistenza di lavori di scavo e spianamento ed ancora nella collocazione di un container di grandi dimensioni oltre a materiale edile una serie di opere incompatibili sia con la costruzione della recinzione in quanto di gran lunga sottodimensionata, sia con la destinazione agricola del terreno (nonostante l'attivazione di una porzione a piccolo orto).
In tema di trasformazione dei suoli la giurisprudenza di questa Corte è stata sempre costante nel ritenere che, versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (Cass. Sez. 3^ 02.12.2008 n. 8064, P.G. in proc. Dominelli ed altri, Rv. 242741; nello stesso senso, Cass. Sez. 3^ 22.12.1999 n, 3107, Alliate ed altro, Rv. 216521).
Siffatto orientamento muove dalla rilevava profonda differenza tra la materia urbanista considerata nel suo significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità della materia urbanistica mirante ad una generale disciplina dell'uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione dell'ambiente. E proprio per tali ragioni qualsiasi trasformazione rilevante del terreno comporta la necessità di una preventiva concessione urbanistica e non di una semplice autorizzazione.
L'infondatezza del motivo refluisce sulla inaccoglibilità anche del secondo motivo legato stavolta ad una errata applicazione della legge urbanistica rispetto alla legge regionale a statuto speciale che secondo quanto sostenuto dal ricorrente escluderebbe che l'attività posta in essere dall'imputato fosse assoggettata.
Si tratta di una censura già prospettata in grado di appello e ritenuta infondata dalla Corte territoriale posto che in materia di legislazione edilizia nelle regioni a statuto speciale, pur spettando alla Regione una competenza legislativa esclusiva in materia, la relativa legislazione deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale, ma deve anche essere interpretata in modo da non collidere con i medesimi (Cass. Sez. 3^ 25.10.2007 n. 2017, Giangrasso, Rv. 238555).
Ne deriva che l'interpretazione della norma regionale deve essere conforme alla normativa statale per evitare il rischio di sconfinamenti nella riserva in materia penale della legge statale valida per l'intero territorio nazionale..
Il richiamo alla norma regionale citata in ricorso (art. 11, comma 1, riguardante i mutamenti di destinazione d'uso soggetti a semplice autorizzazione) è inconferente in quanto nel caso di specie non si trattava di mutamento di destinazione d'uso del terreno da agricolo ad edilizio, ma di trasformazione consistente dell'assetto territoriale di. un fondo tale da comportare una trasformazione urbanistica permanente, così come rettamente intesa dalla Corte (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.07.2012 n. 29466).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla qualificazione (ex art. 3 DPR n. 380/2001) dei lavori consistenti in deposito di terreno ove insiste una depressione naturale di vaste dimensioni.
Nel caso di specie si è in presenza di lavori (abusivi) consistenti “in deposito di terreno ove insiste una depressione naturale che si sviluppa su un’area di 11.000 mq. c.ca determinando una variazione dello stato dei luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per il versante Ovest”.
Orbene,
appare incontestabile che l’intervento de quo –caratterizzato da dimensioni che non possono certo qualificarsi di “modesta entità”, investendo un’area di 11.000 mq. circa– ha attuato una trasformazione urbanistica del territorio e, perciò, rappresenta un “intervento di nuova costruzione”, assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 1, lett. e), e 10 del D.P.R. n. 380/2001.
Di conseguenza, è da ritenere che il Comune –applicando la sanzione ripristinatoria della demolizione, ai sensi dell’art. 31 del medesimo decreto– abbia correttamente operato.
In altri termini,
va rilevato che il provvedimento adottato si profila coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui:
   -
la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comprende non le sole attività di edificazione, ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e duratura dello stato del territorio e nell’alterazione della conformazione del suolo;
   -
non abbisognano del previo rilascio di un titolo edilizio le sole costruzioni aventi intrinseche caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, cioè destinate dall’origine a soddisfare esigenze contingibili e circoscritte nel tempo, mentre un titolo è sempre richiesto ogni volta che si sia in presenza di un intervento che attui una trasformazione del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi.
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In ragione di quanto rilevato, e cioè della accertata riconducibilità dei lavori di cui trattasi nell’elenco di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001, è chiaro che gli stessi lavori non possono essere ritenuti soggetti a mera denuncia di attività.
Come già detto,
detti lavori –considerate l’entità e la consistenza da cui sono caratterizzati– determinano una trasformazione urbanistica del territorio e, dunque, concretizzano un intervento di nuova costruzione.
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... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza del Dirigente V Settore Urbanistica n. 617 del 13.10.2003, notificata a mezzo del servizio postale il 18.10.2003, portante ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi entro novanta giorni dalla notifica dell’atto medesimo con comminatoria, in difetto, dell’acquisizione al patrimonio del Comune delle opere pretesamene abusive e dell’area di sedime, nonché di ogni altro atto coordinato o comunque connesso, ancorché sconosciuto;
...
Attraverso il ricorso in epigrafe, notificato in data 17.12.2003 e depositato il successivo 15.01.2004, la ricorrente impugna l’ordinanza n. 617 del 13.10.2003, con la quale il Comune di Marino –accertata la realizzazione di lavori in assenza di titolo abilitativo, “consistenti in deposito di terreno ove insiste una depressione naturale che si sviluppa su un’area di 11.000 mq. c.ca. determinando una variazione dello stato dei luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per il versante Ovest”- le ha ingiunto il ripristino del precedente stato dei luoghi.
In particolare, espone:
   - che, con comunicazione del 22.03.2001, dichiarava al Comune di Marino che avrebbe provveduto ad opere di rimodellamento e riporto di terra su parte di un terreno di sua proprietà (ca. 11.000 mq.), ai fini del miglioramento delle coltivazioni e per esigenze di sicurezza;
   - di aver provveduto all’esecuzione delle opere, quotidianamente visionata dai tecnici comunali;
   - che, trascorsi due anni, l’area veniva sottoposta a sequestro penale da parte della Polizia Municipale (cfr. verbale del 22.07.2003);
   - che il sequestro non veniva convalidato dall’autorità giudiziaria “sul rilievo del non assoggettamento dell’intervento in questione al regime della concessione edilizia, trattandosi di semplici opere di reinterro” e, dunque, l’area veniva dissequestrata;
   - che, nonostante la vicenda sembrasse chiusa, il Comune di Marino adottava l’ordinanza impugnata.
...
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
1.1. Come esposto nella narrativa che precede, la ricorrente incardina le proprie censure essenzialmente sulla impossibilità di ricondurre le opere realizzate nell’ambito di quelle soggette al previo rilascio del permesso di costruire e, dunque, di quelle sanzionabili –in caso di inosservanza delle disposizioni che regolamentano la materia– mediante l’adozione di misure ripristinatorie.
In particolare, sostiene che l’intervento edilizio contestato rientra tra quelli “che possono essere eseguiti liberamente” o, al più, tra quelli assoggettati a denuncia di inizio attività, perseguibili –in caso di mancato rispetto della disciplina prescritta- mediante l’applicazione della sola sanzione pecuniaria, ai sensi dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
1.2. Il Collegio –valutata meglio la questione- ritiene che la ricostruzione giuridica della fattispecie prospettata dalla ricorrente non sia condivisibile.
Nel caso di specie, si è, infatti, in presenza di lavori –la cui realizzazione non è affatto contestata– consistenti “in deposito di terreno ove insiste una depressione naturale che si sviluppa su un’area di 11.000 mq. c.ca determinando una variazione dello stato dei luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per il versante Ovest”.
Orbene,
appare incontestabile che l’intervento de quo –caratterizzato da dimensioni che non possono certo qualificarsi di “modesta entità”, investendo un’area di 11.000 mq. circa– ha attuato una trasformazione urbanistica del territorio e, perciò, rappresenta un “intervento di nuova costruzione”, assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 1, lett. e), e 10 del D.P.R. n. 380/2001.
Di conseguenza, è da ritenere che il Comune –applicando la sanzione ripristinatoria della demolizione, ai sensi dell’art. 31 del medesimo decreto– abbia correttamente operato.
In altri termini,
va rilevato che il provvedimento adottato si profila coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui:
   -
la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comprende non le sole attività di edificazione, ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e duratura dello stato del territorio e nell’alterazione della conformazione del suolo (cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, n. 5452/2007; TAR Veneto, n. 449/2006; TAR Sezione Autonoma per la Provincia di Bolzano, n. 278/2000);
   -
non abbisognano del previo rilascio di un titolo edilizio le sole costruzioni aventi intrinseche caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, cioè destinate dall’origine a soddisfare esigenze contingibili e circoscritte nel tempo, mentre un titolo è sempre richiesto ogni volta che si sia in presenza di un intervento che attui una trasformazione del territorio, con perdurante modifica dello stato dei luoghi (cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, n. 438/2008).
1.3. Al fine di supportare la natura “libera” –ossia non soggetta ad alcun titolo abilitativo edilizio- dell’intervento realizzato, la ricorrente invoca l’art. 6, comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
In verità, il Collegio ritiene che la richiamata disposizione sia confermativa della prospettazione giuridica di cui è stata data evidenza.
Tale disposizione prevede, infatti, che possono essere eseguite senza titolo opere caratterizzate –appunto- dalla “temporaneità”, dirette all’“attività di ricerca nel sottosuolo”. Appare, pertanto, evidente che si tratta di una previsione che non sconfessa ma, anzi, è pienamente in linea con l’orientamento giurisprudenziale sopra ricordato.
Sotto il profilo sostanziale, non è, poi, possibile esimersi dal precisare che –a differenza di quanto asserito dalla ricorrente– le opere indicate al citato art. 6, proprio in quanto “temporanee”, hanno un impatto sicuramente minore sul territorio di quello dei lavori contestati nel provvedimento impugnato, la cui connotazione permanente appare “in re ipsa” e, comunque, non è in alcun modo negata.
In definitiva, i lavori descritti nel provvedimento impugnato sono ben diversi da quelli contemplati all’art. 6 in argomento né possono essere ricondotti nell’ambito di quest’ultimi in ragione di una minore rilevanza urbanistica ed edilizia, la quale è del tutto insussistente.
1.4.
In ragione di quanto rilevato, e cioè della già accertata riconducibilità dei lavori di cui trattasi nell’elenco di cui all’art. 10 del D.P.R. n. 380/2001, è, altresì, chiaro che gli stessi lavori non possono essere ritenuti soggetti a mera denuncia di attività.
Come già detto,
detti lavori –considerate l’entità e la consistenza da cui sono caratterizzati– determinano una trasformazione urbanistica del territorio e, dunque, concretizzano un intervento di nuova costruzione.
Ciò trova conferma anche nell’impossibilità di identificare gli stessi lavori –oltre che con gli interventi di cui all’art. 3, comma 1, lett. a e d, del D.P.R. n. 380/2001- con la tipologia di opere contemplate all’art. 3, comma 1, lett. b e c, del medesimo D.P.R., sicuramente soggette –in base al criterio della residualità, sancito all’art. 22, comma 1, del medesimo D.P.R.- a mera denuncia di inizio attività.
In termini più generali, va, poi, rilevato che
nessuna previsione normativa prevede deroghe e/o esoneri rispetto al regime dei titoli abilitativi edilizi sulla base di meri fini di utilizzazione agricola dei terreni (i quali, tra l’altro, non appaiono –nel caso di specie- adeguatamente comprovati).
1.5. Stante quanto in precedenza rappresentato, è da rilevare che non emergono ragioni cui sia riconducibile un diverso contenuto del provvedimento impugnato.
A ciò consegue l’inidoneità dei vizi di procedura –quale è la denunciata violazione degli artt. 7 e ss. della legge n. 241/1990– o di forma a determinare l’annullamento del provvedimento stesso, a norma dell’art. 21-octies della già richiamata legge n. 241/1990, nel testo innovato dalla legge n. 15/2005, da ricondurre nell’ambito delle norme di carattere processuale o procedurale, le quali sono di immediata applicazione (cfr., tra le altre, TAR Sardegna, n. 483 del 2005; TAR Campania, Napoli, n. 3780 del 2005).
2. Per le ragioni sopra illustrate, il ricorso deve essere respinto (TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater, sentenza 20.01.2009 n. 394 - tratta da www.studiovandelli.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione di un terrapieno - Di rilevanti dimensioni - Reato di esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire - Configurabilità - Fondamento.
Integra il reato di costruzione edilizia abusiva la realizzazione di un terrapieno di rilevanti dimensioni sia in ampiezza che in altezza, non potendosi inquadrare tale intervento tra quelli per i quali non è richiesto il permesso di costruire. (fattispecie nella quale l'intervento eseguito presentava un'estensione pari a 3000 mq. per 2 metri di altezza).
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Con sentenza del 13.12.2005, il Tribunale di Catania aveva condannato F.C., riconosciute le attenuanti generiche, alla pena di mesi cinque di arresto ed Euro 6.000,00 di ammenda, pena sospesa e la confisca dell'immobile in sequestro, avendola ritenuta colpevole del reato di cui all'art. 81 cpv. c.p., della L. 28.02.1985, n. 47, art. 20, comma 1, lett. b), del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, art. 51, comma 3, della L. 05.11.1971, n. 1986, art. 2, commi 1 e 2, art. 13, art. 4, comma 1 e art. 14, della L. 02.02.1974, n. 64, artt. 17, 18 e 20 [come accertato in (OMISSIS) il (OMISSIS)].
Si era trattato della realizzazione di un terrapieno di circa 3000 mq di area e dell'altezza di mt. 2,00 e della costruzione di una recinzione in muratura con pilastri e travi in cemento armato, senza concessione edilizia e in violazione delle disposizioni in materia di costruzioni in cemento armato e in zona sismica.
...
Il ricorso è manifestamente infondato.
Per quanto concerne il reato edilizio e quelli connessi, se corrisponde a verità che la L.R. Sicilia 10.08.1985, n. 37, art. 6 esclude dalla necessità di concessione edilizia la "recinzione di fondi rustici", nel caso di specie trattavasi, secondo i Giudici di merito, di un'opera ben più complessa, comportante la realizzazione di un terrapieno di rilevanti dimensioni sia in ampiezza che in altezza, quindi recintato e all'interno del quale era depositato il materiale che ha dato luogo alla contestazione di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 3.
Poiché siffatta opera non rientra tra quelle non subordinate a concessione edilizia secondo la legislazione statale (cfr., per un caso analogo, Cass. 29.09.1999 n. 11126) e secondo l'analoga normativa regionale, le censure svolte al riguardo appaiono manifestamente infondate (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 27.09.2007 n. 35629).

EDILIZIA PRIVATA: Sui lavori di sbancamento e riporto di terreno.
La trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio non comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso.
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Con verbale di constatazione n. 55/87 dd. 06.04.1987 il Servizio controllo Costruzioni del Comune di Bolzano accertava l’esecuzione sulla p.f. 988 c.c. Gries, di proprietà del sig. Ha., lavori di sbancamento e riporto di terreno senza il necessario permesso edilizio, oltre ad un cambio di coltura da bosco ad area di equitazione.
Con ordinanza n. 6/87 dd. 04.05.1987 l’Assessore all’urbanistica ingiungeva il ripristino dello stato dei luoghi in conformità alla destinazione prevista dal Piano Urbanistico comunale.
...
Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 4 nn. 3 e 4 della legge provinciale 21.01.1987 n. 4 per insussistenza del presupposto della inottemperanza al cambio di coltura ed eccesso di potere per travisamento, contraddittorietà in relazione alla preesistenza dello spianamento e della destinazione dell’area a campo di pattinaggio.
Lo spianamento con modesti sbancamenti sarebbe stato effettuato nel 1965 dall’affittuario del suo predecessore, che realizzò un campo di pattinaggio, successivamente abbandonato, e nel 1987 riassettato e destinato a piccolo campo di maneggio. Comunque l’odierno ricorrente avrebbe proceduto a dar ottemperanza all’ordinanza nei limiti di quanto da lui stesso operato, non ritenendo di essere obbligato all’impianto di alberi di alto fusto abbattuti ancora nel 1965 con autorizzazione forestale.
Orbene, come rileva la difesa del Comune di Bolzano, dal verbale del servizio Controllo Costruzioni n. 176/1993 risulta il mancato ripristino d’uso dei terreni che in effetti hanno continuato ad essere utilizzati come area di equitazione. La trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio non comprende le sole attività di edificazione, ma tutte quelle consistenti nella modificazione dello stato materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad un impiego diverso, così come ribadito dalla richiamata sentenza del Consiglio di Stato sez. V n. 319 dd. 22.02.1991 (TRGA Trentino Alto Adige, sentenza 30.09.2000 n. 278 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 
 

La ricostruzione (ancorché fedele, quindi quale ristrutturazione edilizia) di un edificio, distrutto per incendio fortuito, soggiace al versamento del contributo di costruzione.

EDILIZIA PRIVATA: E' oneroso l'intervento edilizio di ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale andata distrutta a seguito di incendio.
L’intervento di ricostruzione, di una porzione di edificio andata distrutta a seguito di incendio, è stato qualificato, sia dai ricorrenti che dal comune, come intervento di ristrutturazione edilizia.
Ciò premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 43, primo comma, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), gli interventi di ristrutturazione edilizia sono espressamente assoggettati al pagamento del contributo di costruzione, sia con riferimento agli oneri di urbanizzazione che con riferimento al costo di costruzione.
A fronte del chiaro dettato normativo, all’interprete sembra sottratta la possibilità di effettuare specifiche valutazioni atte a rilevare se il singolo intervento di ristrutturazione abbia o meno comportato un aumento del carico urbanistico o possa essere considerato alla stregua di un indice di capacità contributiva.
Né a diverse conclusioni può portare la circostanza che, nel caso specifico, l’intervento di ricostruzione è stato reso necessario a causa dell’incendio che in precedenza aveva distrutto il bene, atteso che l’art. 17, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 -nel disciplinare le ipotesi di esenzione dall’obbligo di versamento del contributo di costruzione- prende in considerazione, alla lett. d), anche le cause di forma maggiore, circoscrivendo tuttavia l’esenzione ai soli casi di interventi realizzati in attuazione di norme o provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità.
In tale quadro, si deve anche escludere che il Comune di Milano fosse tenuto a fornire una specifica motivazione, posto che, come visto, nella fattispecie, l’obbligo di versamento del contributo di costruzione discende dalla piana applicazione della vigente normativa.

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1. Con il ricorso in esame, viene impugnato il permesso di costruire n. 2/2016 del 15.01.2016, rilasciato dal Comune di Milano ai sigg.ri Ga.Al., Lu.Fr.Ce. e An.Pa., nella parte in cui assoggetta l’intervento assentito al pagamento del contributo di costruzione, per un ammontare complessivo pari ad euro 58.514,02.
2. L’intervento oggetto dell’atto impugnato consiste nella ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale sito in Milano, Via ... n. 6, andata a distrutta a seguito di un incendio.
3. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il Comune di Milano.
4. La Sezione, con ordinanza 18.03.2016 n. 328, ha accolto l’istanza cautelare.
5. Tenutasi la pubblica udienza in data 30.03.2017, la causa è stata trattenuta in decisione.
6. Con il primo motivo, i ricorrenti sostengono che, nel caso di specie, non vi sarebbero i presupposti necessari per esercitare la pretesa di pagamento del contributo di costruzione, e ciò in quanto l’intervento oggetto del permesso di costruire del 15.01.2016 non comporterebbe alcun aumento del carico urbanistico (presupposto necessario per la pretesa degli oneri di urbanizzazione) né sarebbe indice di incremento patrimoniale (requisito necessario per la pretesa del costo di costruzione).
7. Con il secondo motivo, viene dedotta la violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, in quanto, a dire dei ricorrenti, proprio in considerazione della specificità del caso in esame, il Comune avrebbe dovuto indicare, nel provvedimento impugnato, le ragioni per le quali si è ritenuto che l’intervento che ne costituisce oggetto abbia determinato un aumento del carico urbanistico.
8. I due motivi sono infondati per le ragioni di seguito esposto.
9. Come anticipato, l’intervento oggetto del permesso di costruire impugnato consiste nella ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale andata distrutta a seguito di incendio.
10. L’intervento è stato qualificato, sia dai ricorrenti che dal Comune di Milano, come intervento di ristrutturazione edilizia.
11. Ciò premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 43, primo comma, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), gli interventi di ristrutturazione edilizia sono espressamente assoggettati al pagamento del contributo di costruzione, sia con riferimento agli oneri di urbanizzazione che con riferimento al costo di costruzione.
12. A fronte del chiaro dettato normativo, all’interprete sembra sottratta la possibilità di effettuare specifiche valutazioni atte a rilevare se il singolo intervento di ristrutturazione abbia o meno comportato un aumento del carico urbanistico o possa essere considerato alla stregua di un indice di capacità contributiva.
13. Né a diverse conclusioni può portare la circostanza che, nel caso specifico, l’intervento di ricostruzione è stato reso necessario a causa dell’incendio che in precedenza aveva distrutto il bene, atteso che l’art. 17, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 -nel disciplinare le ipotesi di esenzione dall’obbligo di versamento del contributo di costruzione- prende in considerazione, alla lett. d), anche le cause di forma maggiore, circoscrivendo tuttavia l’esenzione ai soli casi di interventi realizzati in attuazione di norme o provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità (cfr., TAR Lombardia Milano, sez. II, 25.05.2016, n. 1079).
14. In tale quadro, si deve anche escludere che il Comune di Milano fosse tenuto a fornire una specifica motivazione, posto che, come visto, nella fattispecie, l’obbligo di versamento del contributo di costruzione discende dalla piana applicazione della vigente normativa.
15. Per tutte queste ragioni, il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 12.06.2017 n. 1319 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La ricostruzione di una porzione edificio crollata a seguito di incendio (quale ristrutturazione edilizia) sconta il versamento del contributo di costruzione.
L'intervento in discorso è volto unicamente alla ricostruzione del fabbricato totalmente crollato a causa dell'incendio accidentale e non comporta alcuna alterazione di sagoma e di superficie, né la modifica della destinazione d'uso di cui all'originaria concessione edilizia (e successive varianti).
Tuttavia, non coglie nel segno il primo motivo, con cui la ricorrente ha dedotto che l’incendio verificatosi sarebbe da annoverare tra le “pubbliche calamità” individuate dalla lett. d) dell’art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 come motivo di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, e ciò in relazione all’ordinanza emessa dal dirigente del settore edilizia.
Tale provvedimento, all’opposto, è stato adottato alla luce del fatto che i fabbricati risultavano “ammalorati ed interessati da dissesto strutturale”: il che ha prospettato “condizioni che non consentono l’utilizzo in sicurezza delle unità immobiliari costituenti le porzioni di capannone in lato nord/ovest ed il lato nord/est, poste in aderenza alla porzione di capannone all’interno del quale si è sviluppato l’incendio”.
Si è, pertanto, disposto il “ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità immobiliari interessate dall’incendio mediante eliminazione delle macerie e delle parti pericolanti, con delimitazione della zona mediante opportune opere provvisionali atte ad interdire l’accesso alle zone pericolose”, nonché la “verifica degli impianti elettrici e di adduzione gas, e di tutte le eventuali diramazioni interessanti le unità immobiliari”.
Si è, quindi, trattato di un episodio grave e dannoso per l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di normali operazioni di messa in sicurezza; né, tantomeno, risultano essere stati adottati piani di emergenza o evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è stata messa a immediato repentaglio –se non in via del tutto potenziale– la pubblica incolumità.

Peraltro, l’infondatezza del primo motivo è, indirettamente, avvalorata dal tenore della seconda censura proposta, anch’essa infondata, con cui la ricorrente ha dedotto che l’assentito intervento integrerebbe (solo) una manutenzione straordinaria.
La Sezione ha più volte ribadito che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella “demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ciò ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge regionale 12/2005, ai quali, inoltre, è direttamente correlata, ai fini del calcolo del costo di costruzione, la disciplina di cui al successivo art. 44, con eventuali riduzioni in funzione delle modalità esecutive della ristrutturazione.

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... per l'annullamento del provvedimento emesso in data 11.04.2015 dal responsabile del settore governo del territorio del Comune di Monza -sportello unico dell’edilizia– con cui è stato comunicato il rilascio del permesso di costruire (a seguito di domanda presentata dalla ricorrente in data 26.11.2014), e ciò nella parte in cui è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione di importo pari a € 257.377,54; della comunicazione di conclusione del procedimento del 13.01.2015 e della deliberazione di Giunta comunale n. 43 del 03.11.2008, con cui è stato approvato l’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e del costo base di costruzione.
...
Con ricorso ritualmente proposto la società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il provvedimento emesso in data 11.04.2015 dal responsabile del settore governo del territorio del Comune di Monza –sportello unico dell’edilizia– con cui è stato comunicato il rilascio del permesso di costruire (a seguito di domanda presentata dalla ricorrente in data 26.11.2014), e ciò nella parte in cui è stato richiesto il versamento del contributo di costruzione di importo pari a € 257.377,54, nonché la comunicazione di conclusione del procedimento del 13.01.2015 e la deliberazione di Giunta comunale n. 43 del 03.11.2008, con cui è stato approvato l’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e del costo base di costruzione.
La società ricorrente ha esposto di essere “proprietaria di una parte dell’edificio sito nel Comune di Monza, in Via ... n. 1-5”, avente “destinazione produttiva –inserito dall'attuale PGT in Area D1 “Area per insediamenti produttivi esistenti, di contenimento della capacità edificatoria”– realizzato in virtù di concessione edilizia n. 102 del 16/07/1985 rilasciata dall'Amministrazione comunale sia alla società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. sia al signor Ed.Fo., a cui hanno avuto seguito due concessioni edilizie in variante” (cfr. pag. 2).
Ha soggiunto che “in data 20/09/2012, proprio presso i locali dell'edificio produttivo in discorso, è divampato accidentalmente un incendio che ha comportato il crollo della porzione di fabbricato”, il che ha reso necessaria, da parte dell’Amministrazione, l’adozione, in data 24.09.2012, di un’ordinanza di ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità interessate dall’incendio “per scongiurare pericoli per la pubblica incolumità, in considerazione della gravità dell'evento che ha comportato l'assoluta inagibilità dei locali” (cfr. pag. 3).
Al termine dei lavori di bonifica e rimozione dei rifiuti, la ricorrente, “conformemente alle disposizioni dirigenziali, ha presentato in data 26.11.2014, presso lo Sportello Unico Edilizia del Comune di Monza, istanza di permesso di costruire per la (ricostruzione di porzione di fabbricato produttivo esistente della superficie coperta di mq. 3468,96 oltre una tettoia della superficie di mq 363.68” (cfr., ancora, pag. 3), cui è seguito il rilascio del permesso di costruire oggetto di impugnazione nella parte relativa alla prescritta corresponsione del costo di costruzione.
La legittimità di tale prescrizione è stata contestata sull’assunto che “l’intervento in discorso è volto unicamente alla ricostruzione del fabbricato totalmente crollato a causa dell'incendio del 20.09.2012 e non comporta alcuna alterazione di sagoma e di superficie, né la modifica della destinazione d'uso di cui all'originaria concessione edilizia (e successive varianti). A ciò si aggiunga che le realizzazioni in argomento prevedono il mantenimento della rete fognaria esistente, con il semplice adeguamento della stessa alla normativa attuale” (cfr. pag. 4).
A fondamento dell’impugnazione sono stati dedotti i seguenti motivi:
   - 1°) violazione degli artt. 16, comma 1 e 17, comma 3 del DPR 380/2001; eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, ingiustizia manifesta.
Ad avviso della ricorrente “posto che, secondo la disciplina generale, il contributo di costruzione è eventuale e commisurato all'incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione, come meglio si vedrà in seguito, l’art. 17, comma 3, lett. d), del D.P.R. 380/2001 lo esclude, in ogni caso, per gli interventi da realizzare in attuazione di norme o provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità. Come precisato dalla disposizione normativa appena richiamata, in conseguenza di eventi calamitosi (ovverosia di eventi con effetti disastrosi) che coinvolgono la collettività –quale è, per l'appunto, l’incendio accidentale verificatosi presso i locali del fabbricato produttivo, che ha condotto l'Amministrazione ad adottare immediati provvedimenti a tutela della sicurezza e della pubblica incolumità– i successivi interventi effettuati e da effettuare sono, per legge, esonerati dal carico contributivo” (cfr. pag. 5).
   - 2°) violazione degli artt. 44 e 45 della legge regionale 12/2005, degli artt. 16, 17, comma 3 e 22, comma 7 del DPR 380/2001; eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, difetto d’istruttoria e illogicità manifesta.
La ricorrente ha censurato il fatto che l’Amministrazione avrebbe chiesto il pagamento di oneri per un intervento di ripristino di parte dell’edificio crollato, “in relazione al quale la società proprietaria in passato ha già provveduto alla relativa corresponsione per la sua realizzazione” (cfr. pagg. 6–7), ignorando che il “criterio discretivo (…) per stabilire l’assoggettabilità o meno di una realizzazione edilizia al pagamento degli oneri di urbanizzazione è la tipologia di intervento e i riflessi che lo stesso ha sull’area coinvolta, in termini di trasformazione o aggravio del carico urbanistico della stessa” (cfr. pag. 7).
In altri termini, l’ordinamento positivo non prevedrebbe alcun automatismo nell’applicazione degli oneri concessori, tale principio trovando conferma negli “incisi “se dovuti” contenuti nella disposizione di cui all’art. 44 della L.R. Lombardia n. 12/2005” oltre che nell’art. 22 del testo unico dell’edilizia, che al comma 7 ammette l’esenzione dall’obbligo di pagamento per gli interventi qualificabili come “manutenzione straordinaria” ai sensi dell’art. 3 del citato testo unico, come modificato dal D.L. 133/2014, convertito nella legge 164/2014: fattispecie che si attaglierebbe al caso di specie (cfr. pag. 8).
   - 3°) violazione dell’art. 3 della legge 241/1990, degli artt. 41 e 43 della Costituzione e dei principi di buona Amministrazione.
La ricorrente ha, infine, dedotto che l’impugnato provvedimento “non contiene nemmeno l’espressa indicazione delle operazioni di calcolo che hanno condotto all'individuazione di quel determinato ammontare ed in presenza delle quali la giurisprudenza ritiene adempiuto l'onere motivazionale” (cfr. pag. 11).
Si è costituito in giudizio il Comune di Monza (01.07.2015), eccependo, nella memoria del 20.7.2015, l’inammissibilità del ricorso in riferimento agli ulteriori provvedimenti impugnati in via presupposta, i quali non sarebbero lesivi della sfera giuridica della società ricorrente; nel merito ha opposto che “l’evento definito dal ricorrente come "calamitoso" non è né tale né, tantomeno, "pubblico" in quanto, come si evidenzia dagli atti di controparte, non ha assunto proporzioni tali da coinvolgere una pluralità indefinita di soggetti, ma è rimasto circoscritto al capannone della ricorrente ed a quello confinante, ed è stato fronteggiato con gli ordinari mezzi di intervento dei VV.FT., Polizia, ecc., senza che fosse necessario far intervenire, ad esempio, la Protezione Civile la quale, invece, è sempre chiamata a svolgere la propria funzione laddove vi siano eventi effettivamente riconducibili alla pubblica calamità”, e che, comunque, la messa in sicurezza oggetto dell’ordinanza comunale rientrerebbe nell’ordinaria amministrazione (cfr. pag. 6); ha, inoltre, contestato “il tentativo di controparte di qualificare come manutenzione straordinaria l'intervento per il quale è stata presentata dalla stessa ricorrente, domanda di permesso di costruire” (cfr. pag. 10), che, invece, integrerebbe una ristrutturazione edilizia; che, infine, la ricorrente sarebbe stata “perfettamente a conoscenza delle previsioni normative che impongono il versamento del contributo di costruzione nei casi di rilascio di permesso di costruire. nonché della deliberazione di Consiglio Comunale n. 43 del 03/11/2008 di aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e aggiornamento del costo base di costruzione” (cfr. pag. 14).
Con ordinanza 27.07.2015 n. 977 la Sezione ha ritenuto di riservarsi nel merito sulle questioni oggetto del giudizio, concedendo “la misura cautelare subordinatamente alla prestazione, da parte della ricorrente, di una garanzia bancaria o assicurativa con clausola “a prima richiesta” in favore del Comune di Monza, per un importo pari a quello indicato nel provvedimento impugnato”.
...
Nel merito, il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, con cui la ricorrente ha dedotto che l’incendio verificatosi in data 20.09.2012 sarebbe da annoverare tra le “pubbliche calamità” individuate dalla lett. d) dell’art. 17, comma 3, del DPR 380/2001 come motivo di esenzione dal pagamento del contributo di costruzione, e ciò in relazione all’ordinanza emessa in data 24.09.2012 dal dirigente del settore edilizia.
Tale provvedimento, all’opposto, è stato adottato alla luce del fatto che i fabbricati risultavano “ammalorati ed interessati da dissesto strutturale”: il che ha prospettato “condizioni che non consentono l’utilizzo in sicurezza delle unità immobiliari costituenti le porzioni di capannone in lato nord/ovest ed il lato nord/est, poste in aderenza alla porzione di capannone all’interno del quale si è sviluppato l’incendio”.
Si è, pertanto, disposto il “ripristino delle condizioni minime di sicurezza delle unità immobiliari interessate dall’incendio mediante eliminazione delle macerie e delle parti pericolanti, con delimitazione della zona mediante opportune opere provvisionali atte ad interdire l’accesso alle zone pericolose”, nonché la “verifica degli impianti elettrici e di adduzione gas, e di tutte le eventuali diramazioni interessanti le unità immobiliari”.
Si è, quindi, trattato di un episodio grave e dannoso per l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di normali operazioni di messa in sicurezza; né, tantomeno, risultano essere stati adottati piani di emergenza o evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è stata messa a immediato repentaglio –se non in via del tutto potenziale– la pubblica incolumità.
Peraltro, l’infondatezza del primo motivo è, indirettamente, avvalorata dal tenore della seconda censura proposta, anch’essa infondata, con cui la ricorrente ha dedotto che l’assentito intervento integrerebbe (solo) una manutenzione straordinaria.
La Sezione ha più volte ribadito (cfr., tra le tante, la sentenza 18.05.2010, n. 1566) che nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi anche quelli consistenti nella “demolizione e ricostruzione parziale o totale nel rispetto della volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e ciò ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge regionale 12/2005, ai quali, inoltre, è direttamente correlata, ai fini del calcolo del costo di costruzione, la disciplina di cui al successivo art. 44, con eventuali riduzioni in funzione delle modalità esecutive della ristrutturazione.
Nella specie, poi, il Comune di Monza si è dato una puntuale regolamentazione mediante l’aggiornamento degli oneri di urbanizzazione e del costo base di costruzione, approvato con la deliberazione di G.C. n. 43 del 03.11.2008 (impugnata dalla società ricorrente, ma senza articolare alcuna specifica censura), la quale ha previsto che per gli interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e ricostruzione si applichino gli oneri di urbanizzazione relativi alle nuove costruzioni (dettagliati nell’allegato B).
Conseguentemente, l’espressione contenuta nella nota del 13.01.2015 (in cui il responsabile dello sportello unico dell’edilizia ha fatto cenno al “calcolo dell’eventuale contributo di costruzione”) non può essere enfatizzata alla luce della piana applicazione della normativa primaria e secondaria, richiamata dall’Amministrazione nella motivazione del permesso di costruire (il che determina l’infondatezza del terzo motivo di ricorso).
In conclusione, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.05.2016 n. 1079 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

IN EVIDENZA

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAAl fine di ravvisare il silenzio-inadempimento dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice presupposto dell’omessa conclusione del procedimento amministrativo entro il termine astrattamente previsto per il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere sull’istanza del privato.
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Il
nostro ordinamento vede con particolare disfavore l’ottenimento di benefici originato da dichiarazioni false.
L'’art. 75 del D.P.R. 445/2000, in tema di controllo di veridicità delle dichiarazioni sostitutive, prevede che “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”.
In base all'art. 75 predetto “la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto responsabilità”.
In materia di gare d’appalto, le dichiarazioni mendaci non possono essere regolarizzate e, una volta che l’amministrazione abbia conseguito la certezza della non veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare applicazione dell’art. 21-nonies della L. 241/1990, le cui disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di autotutela aventi natura tipicamente discrezionale.
Anche in materia di benefici ottenuti grazie alla qualificazione di IAFR (impianti alimentati da fonti rinnovabili), la previsione ex lege delle conseguenze della dichiarazione non veritiera in termini di decadenza automatica rende la determinazione del GSE vincolata nei suoi contenuti, con connotazione della stessa in termini di automaticità, per cui risulta evidente la non operatività dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 .
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In materia di segnalazione di inizio attività, l’art. 19 della L. 241/1990 statuisce che, decorso il termine di legge per adottare provvedimenti inibitori ovvero di conformazione (60 giorni dal ricevimento della dichiarazione), l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies (riguardante i presupposti per l’annullamento d’ufficio).
Tale essendo la disciplina posta dell’art. 19 citato, in tema di liberalizzazione (in senso lato) della attività economiche, dalla disamina congiunta della disciplina racchiusa nei commi 3 e 4, <<si evince agevolmente che l’Amministrazione procedente può vietare (o, comunque, interdire, conformare ovvero chiedere integrazioni documentali), ai sensi del comma 3, in relazione all’attività commerciale comunicata con segnalazione certificata di attività entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione della stessa, mentre, successivamente al decorso di tale termine, ai sensi del successivo comma 4, residua in capo alla predetta Amministrazione, un analogo potere che non può configurarsi quale autotutela in quanto la dichiarazione del privato resta tale anche dopo il termine di sessanta giorni e non si trasforma in provvedimento amministrativo nei confronti del quale sarebbe ipotizzabile un’attività di autotutela; sul punto il potere di intervento successivo della P.A. si sostanzia nell’uso di poteri inibitori soggetti a limiti imposti per legge, per i quali, non a caso, la legge n. 124/1915 ha correttamente eliminato la definizione di “autotutela”, operando un richiamo all’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990>>;
In effetti, la vicenda di cui si discorre non è stata originata da una SCIA, e tuttavia potrebbe rientrare nella casistica delle dichiarazioni mendaci, per la quale il legislatore prevede tassativamente la decadenza dei benefici ritratti dal loro autore;
IL comma 2-bis all’art. 21-nonies, introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 2, della L. 124/2015, statuisce che l’amministrazione conserva il potere di intervenire dopo la scadenza del richiamato termine per l’annullamento d’ufficio (18 mesi) proprio nel caso in cui i provvedimenti amministrativi siano stati “conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato”, seppur previo accertamento con sentenza passata in giudicato.
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L
addove una concessione edilizia sia stata ottenuta in base ad una falsa rappresentazione dello stato effettivo dei luoghi negli elaborati progettuali, al Comune è consentito di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto concessorio senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III – 07/11/2016 n. 5141 –che risulta appellata– e la giurisprudenza citata, tra cui la pronuncia di questo TAR 20/11/2002 e TAR Campania Napoli, sez. VI – 12/05/2016 n. 2416, ad avviso del quale in materia di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, quando l'operato dell'amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va individuato nell’aspirazione della collettività al rispetto della disciplina urbanistica, e in questi casi, si è quindi al cospetto di un atto vincolato).
In argomento, si è pronunciato il Consiglio di Stato rilevando che qualificata giurisprudenza di primo grado ha affermato il principio secondo il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica”.
Sicché, la falsità dichiarativa impedisce anche la maturazione in capo all’autore di un affidamento meritevole di protezione, e siffatta carenza non può non incidere (in senso favorevole all’amministrazione) anche sulla valutazione della ragionevolezza del termine entro il quale dovesse intervenire il provvedimento di autotutela (riferimento temporale cui parametrare normativamente la tempestività dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio).

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S
econdo l’art. 6, comma 1, lett. a), della L. 241/1990, spetta al responsabile del procedimento valutare “ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento”.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è attestata nel senso che, prima di accordare un permesso di costruire (o una sanatoria edilizia) l’amministrazione debba verificare la situazione di diritto e di fatto, anche se solo nei limiti richiesti dalla ragionevolezza e dalla comune esperienza.
Ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 il Comune, nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio.

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Evidenziato:
- che il ricorrente riferisce di essere proprietario di un appartamento ubicato nel Comune di Castiglione delle Stiviere in Via ... n. 9, catastalmente identificato al foglio 16, mappale n. 220, sub. 7, 11 e 17, e confinante con l’immobile di proprietà dei Sigg.ri Bo., a sua volta identificato in catasto al foglio 16, mappale n. 220, sub. 5, 8 e 13;
- che, a seguito dell’istanza depositata da uno dei controinteressati per realizzare un sopralzo della copertura in legno dell’appartamento (in modo da creare una soffitta non abitabile), il Comune rilasciava nel 2011 il permesso di costruire n. 603, e nel 2015 il titolo abilitativo in sanatoria n. 940, ritualmente impugnato dal ricorrente con gravame r.g. 1233/2016, ad oggi pendente innanzi a questo TAR;
- che il controinteressato, in sede di richiesta del titolo edilizio, ha affermato di essere proprietario dell’edificio identificato –al NCEU del Comune di Castiglione– al foglio 16, mappali 220 e 206 (cfr. dichiarazione sostitutiva del 04/04/2011 - doc. 1), quando, nell’anno 2010, il medesimo aveva alienato all’odierno ricorrente l’appartamento identificato al mappale 220, sub 7, 17 e 11 (cfr. doc. 2);
- che risulterebbe evidente la non rispondenza al vero della dichiarazione rilasciata dal controinteressato al Comune di Castiglione delle Stiviere;
- che la circostanza avrebbe tratto in errore l’amministrazione intimata, la quale ha emesso un titolo abilitativo in relazione ad un edificio di cui il richiedente non aveva la piena disponibilità;
- che, in base all’attestazione non veritiera del Sig. Gi.Bo., il Comune avrebbe indebitamente emanato un permesso di costruire, atteso che gli artt. 10 e 17 delle NTA del Piano delle regole del PGT vigente prevedono, per gli immobili ricadenti in zona B3 (“Ambito residenziale consolidato di salvaguardia ambientale”) il rispetto, per qualsiasi edificazione o ampliamento di fabbricati esistenti, della distanza di 5 metri dai confini e il divieto di recupero a fini abitativi dei sottotetti;
- che la dichiarazione infedele, nell’ambito della disciplina dettata dal D.P.R. 445/2000, precluderebbe al dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era indirizzata, e provocherebbe la decadenza dall’utilitas conseguita per effetto del mendacio;
- che, alla luce della situazione sottostante, sussisterebbe in capo al Comune intimato l’obbligo di provvedere sull’istanza presentata dal ricorrente in data 02/11/2016, con la conseguente illegittimità del silenzio serbato;
- che, in aggiunta, trattandosi di attività vincolata, sussisterebbe anche il dovere per l’amministrazione di adottare il provvedimento di decadenza e/o annullamento in autotutela del permesso di costruire, rilasciato al controinteressato sulla base di una dichiarazione falsa;
- che, pertanto, essendo l’amministrazione comunale rimasta inerte, con l’introdotto ricorso l’esponente chiede che sia dichiarato l’obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 31, comma 1, del Cpa, nonché l’accertamento della fondatezza della pretesa avanzata ai sensi dell’art. 31 comma 3 e 34, comma 1, lett. c) Cpa, con la conseguente condanna ad adottare il provvedimento richiesto;
- che, in subordine, il Sig. Pi. insiste affinché sia acclarato comunque il dovere del Comune di assumere un atto formale a riscontro dell’istanza del privato;
- che, in ogni caso, chiede di nominare, in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione, un Commissario ad acta che provveda in via sostitutiva;
Considerato:
- che, ad avviso del controinteressato costituito, il ricorrente non contesta la proprietà dell’immobile inciso dall’intervento di sopralzo, ma solo il fatto che quest’ultimo sia stato realizzato in violazione delle disposizioni comunali in tema di distanze/distacchi;
- che detta questione sarebbe del tutto estranea al contenuto della dichiarazione del 2011 invocata dall’esponente, mentre risulterebbe del tutto veritiera per poter compiere l’intervento, dando conto della legittimazione richiesta;
- che il controinteressato sarebbe ancor oggi proprietario dell’edificio rispetto al quale è stato realizzato il sopralzo, essendosi privato di una sola porzione dell’immobile, ossia dei mappali sub 6 (appartamento) e 10 (autorimessa), oggetto della compravendita;
- che il ricorrente, al fine di ottenere il titolo edilizio, avrebbe affermato al Comune la sua posizione di proprietario dell’immobile ove è stato edificato il sopralzo, a prescindere dalla circostanza che l’intervento potesse violare i diritti dei terzi (problematica da affrontare negli ulteriori giudizi già instaurati);
- che, siccome il controinteressato non ha invaso la proprietà altrui (riguardando le opere esclusivamente il proprio perimetro di proprietà) il Sig. Pi. avrebbe palesemente travisato la dichiarazione resa nel 2011 ai fini del rilascio del permesso di costruire;
- che, in diritto, in presenza di un silenzio-rifiuto sull’istanza di esercizio dei poteri in autotutela, non sarebbe configurabile alcun obbligo giuridico di provvedere espressamente, trattandosi di richiesta avente natura meramente sollecitatoria;
Rilevato, sotto il profilo giuridico:
- che, al fine di ravvisare il silenzio-inadempimento dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice presupposto dell’omessa conclusione del procedimento amministrativo entro il termine astrattamente previsto per il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere sull’istanza del privato (cfr. sentenza di questo TAR, sez. II – 23/03/2016 n. 442);
- che, ad avviso della parte ricorrente, nella fattispecie non si controverte circa la sussistenza o meno in capo al Sig. Bo. della legittimazione a presentare la domanda di permesso di costruire, ma sul fatto che costui, dichiarando falsamente di essere proprietario dell’intero edificio, ha ottenuto un’utilità che, diversamente, non avrebbe conseguito;
- che controparte, infatti, avrebbe attestato e rappresentato di essere proprietaria unica dell’immobile, senza indicare l’avvenuta cessione parziale al ricorrente, né (conseguentemente) i limiti di proprietà dai quali calcolare la distanza dai confini;
- che detto ordine di idee merita condivisione;
- che il nostro ordinamento vede con particolare disfavore l’ottenimento di benefici originato da dichiarazioni false;
- che l’art. 75 del D.P.R. 445/2000, in tema di controllo di veridicità delle dichiarazioni sostitutive, prevede che “Fermo restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione il dichiarante decade dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”;
- che, secondo l’indirizzo del Consiglio di Stato, sez. V – 15/03/2017 n. 1172 (che richiama sez. V – 03/02/2016 n. 404), in base all'art. 75 predetto “la non veridicità della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto responsabilità”;
- che, in materia di gare d’appalto, le dichiarazioni mendaci non possono essere regolarizzate e, una volta che l’amministrazione abbia conseguito la certezza della non veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare applicazione dell’art. 21-nonies della L. 241/1990, le cui disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di autotutela aventi natura tipicamente discrezionale (cfr. TAR Lazio Roma, sez. II – 14/11/2016 n. 11286 e la giurisprudenza ivi citata);
- che, anche in materia di benefici ottenuti grazie alla qualificazione di IAFR (impianti alimentati da fonti rinnovabili), la previsione ex lege delle conseguenze della dichiarazione non veritiera in termini di decadenza automatica rende la determinazione del GSE vincolata nei suoi contenuti, con connotazione della stessa in termini di automaticità, per cui risulta evidente la non operatività dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 (Consiglio di Stato, sez. IV – 21/12/2015 n. 5799);
- che, in materia di segnalazione di inizio attività, l’art. 19 della L. 241/1990 statuisce che, decorso il termine di legge per adottare provvedimenti inibitori ovvero di conformazione (60 giorni dal ricevimento della dichiarazione), l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies (riguardante i presupposti per l’annullamento d’ufficio);
- che, secondo TAR Campania Napoli, sez. III – 26/04/2017 n. 2235, tale essendo la disciplina posta dell’art. 19 citato, in tema di liberalizzazione (in senso lato) della attività economiche, dalla disamina congiunta della disciplina racchiusa nei commi 3 e 4, <<si evince agevolmente che l’Amministrazione procedente può vietare (o, comunque, interdire, conformare ovvero chiedere integrazioni documentali), ai sensi del comma 3, in relazione all’attività commerciale comunicata con segnalazione certificata di attività entro il termine di sessanta giorni dalla presentazione della stessa, mentre, successivamente al decorso di tale termine, ai sensi del successivo comma 4, residua in capo alla predetta Amministrazione, un analogo potere che non può configurarsi quale autotutela in quanto la dichiarazione del privato resta tale anche dopo il termine di sessanta giorni e non si trasforma in provvedimento amministrativo nei confronti del quale sarebbe ipotizzabile un’attività di autotutela; sul punto il potere di intervento successivo della P.A. si sostanzia nell’uso di poteri inibitori soggetti a limiti imposti per legge, per i quali, non a caso, la legge n. 124/1915 ha correttamente eliminato la definizione di “autotutela”, operando un richiamo all’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990>>;
- che, in effetti, la vicenda di cui si discorre non è stata originata da una SCIA, e tuttavia potrebbe rientrare nella casistica delle dichiarazioni mendaci, per la quale il legislatore prevede tassativamente la decadenza dei benefici ritratti dal loro autore;
- che il comma 2-bis all’art. 21-nonies, introdotto dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 2, della L. 124/2015, statuisce che l’amministrazione conserva il potere di intervenire dopo la scadenza del richiamato termine per l’annullamento d’ufficio (18 mesi) proprio nel caso in cui i provvedimenti amministrativi siano stati “conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato”, seppur previo accertamento con sentenza passata in giudicato;
Rilevato:
- che, laddove una concessione edilizia sia stata ottenuta in base ad una falsa rappresentazione dello stato effettivo dei luoghi negli elaborati progettuali, al Comune è consentito di esercitare il proprio potere di autotutela ritirando l'atto concessorio senza necessità di esternare alcuna particolare ragione di pubblico interesse (cfr. TAR Campania Napoli, sez. III – 07/11/2016 n. 5141 –che risulta appellata– e la giurisprudenza citata, tra cui la pronuncia di questo TAR 20/11/2002 e TAR Campania Napoli, sez. VI – 12/05/2016 n. 2416, ad avviso del quale in materia di annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, quando l'operato dell'amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va individuato nell’aspirazione della collettività al rispetto della disciplina urbanistica, e in questi casi, si è quindi al cospetto di un atto vincolato);
- che, in argomento, si è pronunciato il Consiglio di Stato (cfr. sez. IV – 31/08/2016 n. 3735), rilevando che qualificata giurisprudenza di primo grado (TAR Toscana, sez. III – 27/05/2015 n. 825), ha affermato il principio secondo il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato nell’interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica”;
- che la falsità dichiarativa impedisce anche la maturazione in capo all’autore di un affidamento meritevole di protezione, e siffatta carenza non può non incidere (in senso favorevole all’amministrazione) anche sulla valutazione della ragionevolezza del termine entro il quale dovesse intervenire il provvedimento di autotutela (riferimento temporale cui parametrare normativamente la tempestività dell’esercizio del potere di annullamento d’ufficio – TAR Campania Salerno, sez. I – 02/03/2017 n. 411);
Tenuto conto:
- che, secondo l’art. 6, comma 1, lett. a), della L. 241/1990, spetta al responsabile del procedimento valutare “ai fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per l'emanazione di provvedimento”;
- che la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV – 05/06/2017 n. 2648 e i precedenti citati) è attestata nel senso che, prima di accordare un permesso di costruire (o una sanatoria edilizia) l’amministrazione debba verificare la situazione di diritto e di fatto, anche se solo nei limiti richiesti dalla ragionevolezza e dalla comune esperienza;
- che, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 il Comune, nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti private in ordine all’assetto proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso;
- che, in tal senso, l’amministrazione è tenuta a svolgere un livello minimo di istruttoria che comprende l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle attività sottoposte al controllo autorizzatorio (TAR Lombardia Milano, sez. II – 31/01/2017 n. 235);
- che, nel caso di specie, si denuncia che il Comune ha trascurato di valutare (per la dichiarazione mendace o comunque fuorviante dell’istante) la reale situazione di fatto, ossia che la proprietà del fabbricato non era estesa all’intero mappale 220 ma solo a una frazione di esso, con conseguente omessa verifica delle condizioni correlate (in particolare, il rispetto delle distanze);
- che detta omissione formale ha provocato un grave deficit istruttorio, che ha indotto l’amministrazione a non indagare la sussistenza di determinati presupposti, indispensabili per il rilascio del titolo;
Ritenuto:
- che, alla luce delle considerazioni diffusamente espresse, sussiste l’obbligo del Comune intimato di pronunciarsi tempestivamente sulla domanda del privato ricorrente;
- che, diversamente da quanto richiesto in via principale, non si ritiene di poter adottare il provvedimento in luogo dell’amministrazione competente, in quanto la vicenda merita ulteriori approfondimenti spettanti all’autorità amministrativa e riguardanti:
   a) l’effettività e la rilevanza della “falsità” o comunque il carattere fuorviante della dichiarazione, tenuto conto dell’avvenuta suddivisione del mappale di cui si è dato conto;
   b) l’individuazione delle norme di legge e delle regole della pianificazione urbanistica comunale pertinenti;
   c) le valutazioni sulla sussistenza di una potestà di autotutela e sulla ricorrenza delle condizioni per esercitarla;
- che, alla luce di ciò, sussiste unicamente il presupposto per l’accoglimento della domanda formulata in via subordinata;
- che, in definitiva, deve essere dichiarato l’obbligo del Comune di Castiglione delle Stiviere di provvedere sull’istanza, secondo le seguenti scansioni temporali:
   • entro il 20.06.2017, il Comune dovrà attivare il procedimento di verifica sollecitato dal ricorrente, dando la comunicazione di avvio al medesimo e al soggetto controinteressato;
   • entro il 15.07.2017, il Comune dovrà aver completato l’attività istruttoria;
   • entro il 31.07.2017 dovrà essere emesso l’atto finale (con trasmissione di copia di esso a questo all’interessato e a questo TAR);
- che, in accoglimento dell’istanza di parte ricorrente, si nomina sin da ora quale Commissario ad acta il dirigente del Settore Sportello dell’Edilizia (Area Pianificazione Urbana e Mobilità) del Comune di Brescia, con facoltà di delega;
- che quest’ultimo (ove il Comune non provveda entro la scadenza indicata del 31.07.2017) dovrà insediarsi tempestivamente, e compiere la propria attività entro e non oltre 60 (sessanta) giorni, per poi relazionare a questo TAR;
- che, in caso di ulteriori ritardi anche del Commissario, questo Tribunale, previa istanza di parte, provvederà ad assumere i provvedimenti necessari e a segnalare l’inerzia alle competenti autorità, anche giurisdizionali, per la valutazione degli eventuali e concorrenti profili di responsabilità;
- che, in conclusione, il ricorso è fondato e merita accoglimento nei limiti sopra esposti (TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 09.06.2017 n. 765 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Mentre le linee guida dell'ANAC si distinguono in vincolanti e non vincolanti, va invece senz’altro affermata la natura di meri pareri dei comunicati del Presidente dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in tema di appalti pubblici.
Invero, non può ammettersi nel vigente quadro costituzionale, in tal delicato settore, un generale vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
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Nessuna decisiva rilevanza può attribuirsi al comunicato del Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 pervicacemente invocato dalla difesa della ricorrente.
Come noto,
il Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50 del 2016 ha previsto per la relativa attuazione, in completa rottura rispetto al sistema precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente forma e sostanza di regolamento governativo bensì una pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui per quello che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC.
Tali linee guida, costituendo una novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31, comma 5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime invero molto più frequenti e assimilabili -secondo una tesi- alla categoria di stampo internazionalistico della c.d. “soft law” oppure -seconda altra opzione- alle circolari intersoggettive interpretative con rilevanza esterna, operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee guida (es. art. 36, comma 7, D.lgs. 50/2016).
Senza dover affrontare tale tematica, per quel che qui rileva
va invece senz’altro affermata la natura di meri pareri dei comunicati del Presidente dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in tema di appalti pubblici.
Infatti, per quanto a norma dell’art. 213 del D.lgs. 50 del 2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati all’ANAC sia invero penetrante ed esteso, a presidio della più ampia legalità nell’attività contrattuale delle stazioni appaltanti e della prevenzione della corruzione,
non può ammettersi nel vigente quadro costituzionale, in tal delicato settore, un generale vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
Diversamente dalle linee guida, per la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato e partecipato (vedi art. 213, comma 2, D.lgs. 50 del 2016) -nel solco d’altronde degli stessi principi affermati dalla giurisprudenza in tema di esercizio di poteri di tipo normativo o regolatorio da parte di Autorità Indipendenti- i comunicati del Presidente dell’ANAC sono dunque pareri atipici e privi di efficacia vincolante per la stazione appaltante e gli operatori economici.
Alla stregua delle suesposte considerazioni
nessuna rilevanza può dunque avere, ai fini del presente giudizio, il comunicato ANAC del 05.10.2016 da cui la Regione Umbria poteva discostarsi senza dover fornire alcuna motivazione.
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Viene all’esame del Collegio la corretta interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. e), del D.lgs. 50/2016 ed in particolare la questione se nel caso di offerte recanti l’identico ribasso, ai fini del c.d. taglio delle ali, devono essere conteggiati o meno tutti i ribassi, con conseguente possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore o minor ribasso.
Ritiene il Collegio la suindicata questione interpretativa particolarmente problematica sicché ritiene, altresì, di dover sospendere il giudizio sino alla pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria a seguito della rimessione operata dalla V Sezione del Consiglio di Stato.
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1.- Con il ricorso in epigrafe Ri.Co. s.r.l. impugna gli atti inerenti la gara d’appalto indetta dalla Regione Umbria ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. 50/2016 per l’affidamento delle opere di urbanizzazione primaria per le soluzioni abitative d’emergenza presso il Comune di Norcia in seguito agli eventi sismici che hanno recentemente colpito anche il territorio umbro.
Con ordinanza n. 394 del 19.09.2016 a firma del Capo Dipartimento della Protezione civile, la Regione Umbria è stata indicata quale soggetto attuatore delle attività preliminari all’insediamento delle soluzioni abitative d’emergenza, anche in parziale deroga alla vigente disciplina in materia di appalti pubblici (art. 5 cit. ordinanza).
Il bando è stato pubblicato sulla G.U.R.I. V Serie Speciale Contratti Pubblici n. 151 del 30.12.2016 con importo a base d’asta di 3.222.326,55 euro e criterio di aggiudicazione del prezzo più basso ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. 50 del 2016.
Alla procedura aperta hanno partecipato 265 concorrenti (tra cui l’impresa ricorrente) e il calcolo della soglia di anomalia sorteggiato dalla Commissione è risultato quello previsto dalla lett. e) dell’art. 97, comma 2, del D.lgs. 50/2016 (c.d. taglio delle ali).
Nell’individuare le offerte con minor ribasso da accantonare nella percentuale del 10% la Commissione escludeva 28 offerte in luogo delle 27, ritenendo come unica offerta le pervenute due offerte identiche tra quelle con minor ribasso (13,2230% proposte da Ni. s.r.l. e dall’a.t.i. Im.Ed.Ma. s.r.l.) entrambe dunque accantonate nel taglio delle ali, con conseguente determinazione della soglia di anomalia nel ribasso pari a 25,699%.
Con determinazione dirigenziale n. 902 del 03.02.2017 la gara è stata definitivamente aggiudicata in favore della Ma.Co. s.r.l. con un ribasso del 25,695% e in data 27.02.2017 è stato stipulato il contratto il quale allo stato attuale risulta in gran parte eseguito (in misura dell’85% secondo quanto risultante dagli atti di causa e rappresentato dalla difesa regionale all’udienza pubblica).
La Ri.Co., impugna il suddetto provvedimento di aggiudicazione unitamente ai verbali di gara, deducendo il seguente unico motivo di diritto:
   - Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 comma 2, lett. e), del D.lgs. 50/2016 e delle “direttive” ANAC del 05.10.2016; violazione del principio di selezione della miglior offerta in tema di gare pubbliche; eccesso di potere per difetto di istruttoria, travisamento e sviamento: lamenta la Ri.Co. l’erroneità del calcolo della soglia di anomalia operato dalla stazione appaltante, poiché essa avrebbe dovuto escludere soltanto 27 delle offerte con il minor ribasso, ossia un numero di offerte pari al 10% arrotondato all’unità superiore (265 x 10% = 26,5 = 27) dovendo considerare le pervenute due offerte identiche “uti singulis” ovvero idonee ad essere considerate singolarmente ai fini della percentuale di offerte da inserire nel taglio delle ali.
La Commissione e la stazione appaltante non avrebbero correttamente applicato l’art. 92, comma secondo, lett. e), del nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50 del 2016, perpetrando nell’applicazione del criterio previsto dall’art. 121 del d.P.R. 207/2010 abrogato per effetto dell’art. 217, c. 1, lett. u), del citato D.lgs. 50/2016. Pertanto nel caso di offerte di ugual valore, tutte dovrebbero essere considerate come offerte singole che vanno a formare il limite massimo del 10%.
La Ri.Co. lamenta pertanto la lesione del proprio interesse legittimo al conseguimento dell’aggiudicazione, dal momento che laddove le imprese escluse fossero state 27 (anziché 28) la soglia di anomalia sarebbe stata pari a 25,6846, si che la propria offerta diverrebbe con certezza quella con il minor ribasso percentuale tra le offerte non anomale. Cita a supporto della propria tesi anche il Comunicato del Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 secondo cui sotto la vigenza del D.lgs. 50/2016 l’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010 non può più essere applicato con conseguente non applicabilità del criterio c.d. relativo ivi previsto, dovendosi fare esclusivo riferimento al dato numerico delle offerte e non al valore delle stesse.
Si è costituita la Regione Umbria eccependo l’infondatezza del gravame, poiché in sintesi:
   - l’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010 avrebbe carattere non già innovativo ma di norma interpretativa dell’art. 86 comma 1, del D.lgs. 163/2006, il cui testo coincide con l’art. 97, comma 2, del D.lgs. 50/2016;
   - la lettura fornita dal Presidente dell’ANAC nel comunicato del 05.10.2010 sarebbe del tutto errata;
   - la stessa ANAC avrebbe in realtà avallato l’operato della Regione Umbria avendo ricevuto il 20.02.2017 tutta la documentazione di gara nell’ambito del protocollo d’intesa siglato con la stessa Autorità di Vigilanza senza nulla eccepire in merito al calcolo della soglia di anomalia;
   - la propria assoluta mancanza di colpa in riferimento alla domanda risarcitoria ex adverso formulata.
...
2.-
Viene all’esame del Collegio la corretta interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. e), del D.lgs. 50/2016 ed in particolare la questione se nel caso di offerte recanti l’identico ribasso, ai fini del c.d. taglio delle ali, devono essere conteggiati o meno tutti i ribassi, con conseguente possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore o minor ribasso.
Trattasi di questione invero ben nota in riferimento all’omologo disposto di cui all’art. 86, c. 1, del D.lgs. 163 del 2006 e relativa norma di attuazione contenuta nell’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010, in passato oggetto di contrasti giurisprudenziali.
3. - Secondo un primo orientamento infatti,
nel caso in cui siano state presentate due o più offerte aventi la medesima riduzione percentuale che si trovino nella fascia delle imprese rientranti nel 10% ogni offerta deve essere considerata individualmente (c.d. criterio assoluto) poiché la soluzione opposta comporterebbe il superamento del limite fissato dal legislatore nel 10% e si porrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 86, c. 1, del D.lgs. 163 del 2006 in assenza di ragioni sostenibili o ispirate all’interesse pubblico (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 28.08.2014, n. 4429).
Al contrario, secondo un diverso orientamento giurisprudenziale avvalorato anche dai pareri della Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici (cfr. parere Autorità vigilanza contratti pubblici n. 133 del 24.07.2013; parere Anac n. 87 del 23.04.2014),
nel caso vi siano offerte portanti lo stesso ribasso nella fascia delle ali, devono essere conteggiati tutti i ribassi con conseguente possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore o minore ribasso (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 18.06.2001, n. 3216; id. sez. V, 06.07.2012, n. 3953; 15.10.2009, n. 6323; id. sez. V, 15.03.2006, n. 1373; C.G.A.S., 26.07.2006, n. 439; id. 21.07.2008, n. 608; 15.10.2009, n. 6323; TAR Liguria, sez. II, 12.04.2006, n. 364; TAR Umbria, 11.04.2013, n. 230).
Si è infatti osservato che con il taglio delle ali la norma persegue l’intento di eliminare in radice l’influenza che possono avere sulla media dei ribassi, offerte manifestamente distanti dai valori medi e il ribasso, così individuato, ha natura oggettiva, nel senso che riporta ad unica categoria anche più offerte quando, casualmente o meno, esse hanno la medesima misura; pertanto l’indicazione del 10% delle offerte da escludere dalla media non deve essere inteso in senso soltanto numerico, ma anche in senso logico, cosicché a determinare il valore medio in questione concorrono offerte che, per la loro oggettiva consistenza, siano identiche ad altra ritenuta per definizione ininfluente o fuorviante, venendo altrimenti a mancare, nello scarto degli estremi, la funzione correttiva sostanziale sia del computo della media, sia del calcolo dello scarto aritmetico medio dei ribassi percentuali, cui l’articolo 86 del Codice fa riferimento.
I dubbi interpretativi -secondo la richiamata giurisprudenza- dovevano comunque ritenersi superati alla luce della norma regolamentare di cui all’articolo 121, primo comma, del d.P.R. n. 207 del 2010, a mente del quale “Qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’art. 86, comma 1, del codice, siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”.
Una volta ammesso, infatti, che il tenore letterale dell’articolo 86, comma 1, del D.lgs. n. 163 del 2006 può essere superato per via interpretativa per le offerte ‘a cavallo’ delle ali, non vi sono ragioni per non applicare lo stesso criterio alle offerte uguali che si collocano all’interno delle ali (entro l’ala superiore o entro l’ala inferiore, ovvero nel 10% delle offerte con maggior ribasso o nel 10% delle offerte con minor ribasso), criterio del c.d. “blocco unitario”.
Identificare ciascuna offerta con uno specifico ribasso (accorpando le offerte con valori identici) consente, nella fase del taglio delle ali, di depurare la base di calcolo dai ribassi effettivamente marginali (definiti ex lege nel limite del 10% superiore e inferiore di oscillazione delle offerte). In questa prospettiva è irrilevante che i ribassi identici siano a cavallo o all’interno delle ali, perché si tratta comunque di valori che se considerati distintamente limitano l’utilità dell’accantonamento e ampliano eccessivamente la base di calcolo della media aritmetica e dello scarto medio aritmetico, rendendo inaffidabili i risultati.
L’articolo 121, comma 1, del d.P.R. n. 207 del 2010 aveva dunque eliminato (secondo la prevalente giurisprudenza) ogni dubbio interpretativo, specificando che le offerte da accantonare sono quelle identiche, senza distinzione tra ribassi ‘a cavallo’ o all’interno delle ali. Il che equivale a dire che le offerte identiche devono essere considerate, in questa fase, come un’offerta unica, mentre nella fase successiva, calcolando la media aritmetica e lo scarto medio aritmetico, si utilizzano tutte le offerte, anche quelle con valori identici.
E, infatti, quando sia stato circoscritto in modo rigoroso l’intervallo dei ribassi attendibili ai fini del calcolo della soglia di anomalia, è ragionevole che alla definizione delle medie partecipino tutte le offerte non accantonate.
Tale interpretazione, tra l’altro, è stata correttamente ritenuta più garantista dell’interesse pubblico e previene manipolazioni della gara e del suo esito ostacolando condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso (ex plurimis Consiglio di Stato sez. V, 08.06.2015 n. 2813; id. sez. IV, 29.02.2016, n. 818).
3.1. - Tanto premesso
va evidenziato -come correttamente prospettato dalla difesa della Ri.Co.- che la descritta questione è stata recentemente nuovamente posta in discussione e rimessa, ai sensi dell’art. 99 cod. proc. amm., all’Adunanza Plenaria (Consiglio di Stato, sez. III, ordinanza 13.03.2017 n. 1151).
Precisamente sono stati proposti i seguenti quesiti:
   a)
se nel calcolo del 10% delle offerte aventi maggiore e/o minore ribasso, ai sensi dell’art. 86, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006, occorra computare tutte le offerte aventi medesimo valore (e, dunque, medesimo ribasso) singolarmente una ad una o, invece, quale unica offerta (c.d. blocco unitario), facendo detta disposizione riferimento, letteralmente, all’esclusione del 10% delle offerte aventi maggiore e minore ribasso e non dei singoli ribassi;
   b)
se la disposizione regolamentare dell’art. 121, comma 1, secondo periodo, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel prevedere che «qualora nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui all’articolo 86, comma 1, del Codice siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di anomalia», intenda o, comunque, presupponga che le offerte aventi eguale valore rispetto a quelle da accantonare siano considerate, “accantonate” e accorpate come un’unica offerta o, invece, si limiti a prevedere solo che debbano essere escluse (“accantonate”) dal calcolo della soglia di anomalia le offerte che, pur non rientrando nella quota algebrica del 10%, abbiano tuttavia eguale valore rispetto a quelle da accantonare e cioè, per logica necessità, a quelle situate al margine estremo delle ali (c.d. offerte a cavallo).
3.2. - Come evidenziato dalla difesa della ricorrente trattasi di questione inerente l’applicazione dell’art. 86, comma 1, del D.lgs. 163/2006 e non già dell’art. 97, comma 2, lett. e), del nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 2016 n. 50 applicabile “ratione temporis” alla gara di che trattasi, ma nondimeno rilevante, in considerazione della sostanziale identità delle due norme.
Infatti a norma della prima “Nei contratti di cui al presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso, le stazioni appaltanti valutano la congruità delle offerte che presentano un ribasso pari o superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media”.
Secondo il citato art. 97, comma 2, lett. e), del citato D.lgs. 50/2016 “Quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso la congruità delle offerte è valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o superiore ad una soglia di anomalia determinata, al fine di non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di riferimento per il calcolo della soglia, procedendo al sorteggio, in sede di gara, di uno dei seguenti metodi: …omissis …… e) media aritmetica dei ribassi percentuali di tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei ribassi percentuali che superano la predetta media, moltiplicato per un coefficiente sorteggiato dalla commissione giudicatrice all’atto del suo insediamento tra i seguenti valori: 0,6; 0,8; 1; 1,2; 1,4;”.
3.3. - Dovendosi dar atto della sostanziale identità di contenuto tra le due norme (fatta eccezione per l’applicazione del coefficiente sorteggiato dalla Commissione) ritiene la Ri.Co. elemento decisivo l’intervenuta abrogazione (ad opera dell’art. 217, c. 1, lett. u), del D.lgs. 50 del 2016) dell’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010, dal momento che il criterio c.d. relativo ai fini del calcolo delle ali traeva il proprio presupposto da tal innovativo disposto regolamentare.
Ritiene il Collegio la suindicata questione interpretativa particolarmente problematica.
3.4. - Infatti, da un lato potrebbe aderirsi alla motivata tesi della Regione che fa leva sul descritto orientamento pretorio formatosi prima dell’entrata in vigore del Regolamento attuativo del Codice dei Contratti pubblici del 2006, secondo cui sulla base del citato art. 86 (e ancor prima dell’art. 21, c. 1-bis, della legge “Merloni” n. 109/1994 e s.m.) va dato peso al valore delle offerte e non solo al relativo numero, considerando in modo unitario quelle aventi il medesimo ribasso, dando la stura alla possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla percentuale del dieci per cento delle offerte di maggiore o minor ribasso.
La ragione di tale interpretazione era stata individuata -come visto- nella prevenzione di manipolazioni della gara frustrando altrimenti la ricerca voluta dal citato art. 86 di un indicatore ragionevole della soglia di anomalia, così vanificando in definitiva la ricerca del miglior contraente per la P.A.
Ne consegue, così opinando, la natura puramente interpretativa e non già innovativa della pur abrogata disposizione contenuta nell’art. 121 del d.P.R. 207/2010, limitandosi a chiarire il contenuto della disposizione della norma primaria secondo un significato affermatosi nella prassi e ormai diventato regola di diritto vivente.
Ne sarebbe dimostrazione poi la stessa natura esecutiva ed attuativa del Regolamento approvato con d.P.R. 207 del 2010 (Consiglio di Stato sez. affari normativi, 17.09.2007, n. 3262/2007) si da impedire in subiecta materia l’introduzione di disposizioni praeter legem.
3.5. - Al contempo anche la tesi prospettata dalla ricorrente non manca invero di elementi persuasivi, primo fra tutti l’intervenuta abrogazione dell’art. 121 del d.P.R. 207/2010, norma che anche a non volerne riconoscere il carattere innovativo aveva comunque assunto un indubbio valore sul piano ermeneutico.
Osserva poi il Collegio come la finalità di ostacolare condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali di ribasso e prevenire manipolazioni della gara sia in realtà già a monte affrontata e disciplinata dal nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50/2016, dal momento che il previsto (art. 97) innovativo meccanismo di sorteggio tra ben 5 diversi metodi per il calcolo della soglia di anomalia rende oltremodo difficoltosa tale manipolazione, a beneficio della effettività del confronto concorrenziale.
Con la conseguenza che venendo meno le ragioni di interesse pubblico alla base di tale lettura logico-sistematica, il criterio c.d. assoluto elaborato dalla giurisprudenza potrebbe in quanto in ipotesi maggiormente aderente al tenore letterale (art. 12, comma 1, disp. Prel. c.c.) riprendere corpo (vedi sul punto le analoghe argomentazioni del Consiglio di Stato nella citata ordinanza n. 1151 del 2017).
3.6. - D’altronde
nessuna decisiva rilevanza può attribuirsi al comunicato del Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 pervicacemente invocato dalla difesa della Ri.Co..
Come noto,
il Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50 del 2016 ha previsto per la relativa attuazione, in completa rottura rispetto al sistema precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente forma e sostanza di regolamento governativo bensì una pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui per quello che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC.
Tali linee guida, costituendo una novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31, comma 5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime invero molto più frequenti e assimilabili -secondo una tesi- alla categoria di stampo internazionalistico della c.d. “soft law (Consiglio di Stato parere n. 1767 del 02.08.2016) oppure -seconda altra opzione- alle circolari intersoggettive interpretative con rilevanza esterna, operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee guida (es. art. 36, comma 7, D.lgs. 50/2016).
Senza dover affrontare tale tematica, per quel che qui rileva
va invece senz’altro affermata la natura di meri pareri dei comunicati del Presidente dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in tema di appalti pubblici.
Infatti, per quanto a norma dell’art. 213 del D.lgs. 50 del 2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati all’ANAC sia invero penetrante ed esteso, a presidio della più ampia legalità nell’attività contrattuale delle stazioni appaltanti e della prevenzione della corruzione,
non può ammettersi nel vigente quadro costituzionale, in tal delicato settore, un generale vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
Diversamente dalle linee guida, per la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato e partecipato (vedi art. 213, comma 2, D.lgs. 50 del 2016) -nel solco d’altronde degli stessi principi affermati dalla giurisprudenza in tema di esercizio di poteri di tipo normativo o regolatorio da parte di Autorità Indipendenti (Consiglio di Stato sez. atti normativi, 06.02.2006; TAR Lombardia Milano, 04.02.2006, n. 246)- i comunicati del Presidente dell’ANAC sono dunque pareri atipici e privi di efficacia vincolante per la stazione appaltante e gli operatori economici.
3.7. - Alla stregua delle suesposte considerazioni
nessuna rilevanza può dunque avere, ai fini del presente giudizio, il comunicato ANAC del 05.10.2016 da cui la Regione Umbria poteva discostarsi senza dover fornire alcuna motivazione.
4. - Per i suesposti motivi
ritiene il Collegio la sussistenza di peculiari ragioni di opportunità tali da sospendere il giudizio in attesa della decisione dell’Adunanza Plenaria, dal momento che in considerazione della particolare complessità della questione -nonché dello stesso interesse pubblico al completamento dei lavori e al contenimento della spesa pubblica stante la responsabilità oggettiva sussistente in subiecta materia (C.G.U.E. 30.09.2010 C - 314/09)- la sentenza resa dall’adito Tribunale rischierebbe di risultare “inutiliter data” ove in contrasto con le indicazioni dell’organo nomofilattico.
4.1. - E ciò anche nella pur consapevole mancanza sia di una previsione normativa (del tipo di quella recentemente introdotta in via sperimentale per il solo PAT) che autorizzi anche il Tribunale Amministrativo a deferire direttamente la questione alla Plenaria, riferendosi come noto l’art. 99 cod. proc. amm. al solo giudizio d’appello, sia invero di una norma che consenta nel caso di specie la sospensione del giudizio, non sussistendo i presupposti tipici indicati dagli artt. 295 e 296 c.p.c. (richiamati dall’art. 79 cod. proc. amm.) stante la stessa opposizione manifestata dalla difesa regionale al rinvio dell’udienza.
5. – Per tutti i suesposti motivi ritiene
il Collegio di dover sospendere il giudizio sino alla pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria a seguito della rimessione operata dalla V Sezione del Consiglio di Stato (TAR Umbria, ordinanza 31.05.2017 n. 428 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Oltre l'anno dalla mancata conclusione del procedimento è necessaria la nuova istanza.
Con la sentenza 28.04.2017 n. 427, la Sez. II del TAR Puglia-Bari, ha stabilito l’irricevibilità del ricorso notificato oltre il termine di un anno (termine previsto dall’articolo 31 Cpa per la proposizione dell’azione avverso il silenzio della pubblica amministrazione) dall’astratta scadenza del termine di conclusione del procedimento.
Il principio di diritto
Già il Consiglio di Stato ha infatti evidenziato, sul punto, che il legislatore, al fine di attenuare il rischio che, eliminato l’onere della diffida, il silenzio-inadempimento potesse divenire inoppugnabile dopo il decorso del termine (normalmente) più breve previsto per proposizione dei ricorsi davanti al giudice amministrativo, ha ritenuto congruo assegnare alla parte istante il termine di un anno (dal termine assegnato all’Amministrazione per la conclusione del procedimento) per esercitare l’azione tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia.
Decorso tale termine la parte, se ha ancora interesse ad ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere alla stessa una nuova istanza ed eventualmente, se l’Amministrazione non provvede nel termine procedimentale assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo silenzio inadempimento formatosi (Cons. Stato, sez. III, n. 1050/2015).
Riguardo a tale richiesta, peraltro, se rispetto ad essa non può ravvisarsi una posizione qualificata e differenziata di interesse legittimo della parte istante, né un obbligo di provvedere, e quindi di rispondere a tale richiesta in capo al Comune, l’inerzia diviene non qualificabile come silenzio-inadempimento e il ricorso, in parte qua, non può che essere dichiarato inammissibile.
Il caso
Nella specie, si controverteva sul se considerare irricevibile il ricorso notificato oltre il termine di un anno (termine previsto dall’art. 31 citata) dall’astratta scadenza del termine di conclusione del procedimento, nonostante l'invio, ad opera della parte istante, di una nota inidonea a far sorgere una posizione qualifica e differenziata di interesse legittimo, e neppure un obbligo di provvedere in capo alla Pa.
Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione del Tar Puglia persuade.
In primo luogo, perché decorso il termine di un anno dal termine assegnato all’Amministrazione per la conclusione del procedimento, se la parte istante ha ancora interesse ad ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere alla stessa una nuova istanza, che -per essere tale- non può essere evidentemente troppo diversa dalla prima, nella forma e soprattutto nella sostanza.
Inoltre, anche al di fuori dei casi di nuova istanza, ogniqualvolta l'istanza, per come formulata, non faccia sorgere una posizione qualifica e differenziata di interesse legittimo, né un obbligo di provvedere in capo all'amministrazione, l’inerzia diviene non qualificabile come silenzio-inadempimento e quindi il ricorso, in parte qua, non può che essere dichiarato inammissibile (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.05.2017).
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MASSIMA
Con il gravame indicato in epigrafe, parte ricorrente ha chiesto a questo Tribunale di dichiarare l’illegittimità del silenzio serbato dal Comune di Molfetta, in ordine all’istanza acquisita con il prot. n. 41626 del 15.07.2011, nonché in ordine alle istanze riportate nella diffida ad adempiere del 07.07.2016.
L’Amministrazione comunale si è costituita in giudizio eccependo l’inammissibilità del ricorso per essere stato presentato ben oltre i termini di decadenza previsti dagli articoli 30 e 31 del codice del processo amministrativo.
Il Comune di Molfetta ha evidenziato, inoltre, che con nota del 01.09.2011, era stato comunicato alla ricorrente, con provvedimento espresso, che l’istanza de qua era in attesa di essere istruita seguendo l’ordine cronologico di presentazione, giusta disposizione di cui all’art. 34 del Piano generale degli impianti pubblicitari e delle pubbliche affissioni.
Alla camera di consiglio del 04.04.2017 la causa è stata trattenuta in decisione.
Il Collegio, in via preliminare, deve esaminare l’eccezione d’inammissibilità del ricorso sollevata dal Comune di Molfetta.
L’eccezione è fondata e va accolta.
Il ricorso è irricevibile considerato che lo stesso è stato inviato alla notifica il 04.10.2016 e, dunque, oltre il termine di un anno (termine previsto dall’art. 31 del codice del processo amministrativo per la proposizione dell’azione avverso il silenzio della pubblica amministrazione) dall’astratta scadenza del termine di conclusione del procedimento di che trattasi (l’istanza risale, infatti, al 15.07.2011).
Sul punto, il Consiglio di Stato, ha evidenziato che “
Il legislatore, infatti, al fine di attenuare il rischio che, eliminato l’onere della diffida, il silenzio-inadempimento potesse divenire inoppugnabile dopo il decorso del termine (normalmente) più breve previsto per proposizione dei ricorsi davanti al giudice amministrativo, ha ritenuto congruo assegnare alla parte istante il termine di un anno (dal termine assegnato all’Amministrazione per la conclusione del procedimento) per esercitare l’azione tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia. Decorso tale termine la parte, se ha ancora interesse ad ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere alla stessa una nuova istanza ed eventualmente, se l’Amministrazione non provvede nel termine procedimentale assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo silenzio-inadempimento formatosi” (Cons. Stato, sez. III, 03.03.2015, n. 1050).
Infine, per quanto riguarda l’ulteriore richiesta contenuta nella diffida del 07.07.2016 (sulla quale la ricorrente, con il ricorso de quo, ha chiesto a questo Tribunale di pronunciarsi), consistente nel comunicare quali iniziative l’Ente comunale avesse adottato per conformarsi al rispetto della normativa vigente in tema di autorizzazioni per l’installazione di impianti pubblicitari, nonché, in tema di rispetto dei canoni di buona amministrazione, del principio costituzionale di libertà di iniziativa economica nonché, dei principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, il Collegio si limita ad evidenziare che
in relazione a tale richiesta, come formulata, non si ravvisa né una posizione qualifica e differenziata di interesse legittimo della ricorrente, né un obbligo di provvedere (rectius di rispondere a tale richiesta) in capo al Comune; in assenza di un obbligo di provvedere in capo all’Amministrazione, l’inerzia non è qualificabile come silenzio-inadempimento e il ricorso, in parte qua, non può che essere dichiarato inammissibile.
Inammissibile per la sua assoluta genericità risulta, infine, la richiesta di condannare il Comune di Molfetta al risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2-bis, comma 1 della legge n. 241 del 1990.
Sul punto, si evidenzia che, recentemente, il Consiglio di Stato ha chiarito che “
l'ingiustizia e la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi costitutivi della relativa domanda (si veda ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2011, n. 2675)” (Cons. Stato, sez. V, 25.03.2016, n. 1239).

UTILITA'

EDILIZIA PRIVATA: RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI (Agenzia delle Entrate, 14.06.2017).

SICUREZZA LAVORO: Il D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 -noto come Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro- in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, integrato con circolari, accordi Stato Regioni, interpelli ed altre fonti normative ed amministrative (aggiornato nell'edizione maggio 2017 - tratto da www.ispettorato.gov.it).

VARI: VADEMECUM PER ACQUISTARE O AFFITTARE CASA (C.C.I.A.A. di Milano, aprile 2017).

SINDACATI & ARAN

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Banca dati contratti integrativi – Comunicazione a tutte le pubbliche amministrazioni.
L’Aran e il Cnel hanno reso disponibile, attraverso una procedura WEB, la banca dati dei contratti integrativi delle amministrazioni pubbliche, consultabile all’indirizzo: www.contrattintegrativipa.it.
Si tratta di una banca dati che raccoglie tutti i contratti integrativi (o di secondo livello) stipulati dalle amministrazioni pubbliche e dai sindacati sul territorio.
I contratti integrativi raccolti –oltre 25.000 fino ad oggi- sono inviati da ciascuna amministrazione pubblica all’Aran ed al Cnel mediante la procedura di trasmissione congiunta che è attiva dal 01.10.2015.
Nella logica degli “open data”, la banca dati sarà accessibile a tutti. I dati saranno consultabili e scaricabili mediante “filtri di ricerca” che consentiranno estrazioni per singola amministrazione, per territorio di riferimento, per anno di trasmissione.
Questo strumento consentirà inoltre alle amministrazioni di ridurre i propri oneri informativi in materia di trasparenza. Le nuove norme introdotte con il cosiddetto FOIA sollevano infatti le amministrazioni pubbliche dall’obbligo di pubblicazione dei contratti integrativi inviati alla banca dati, a partire dal prossimo 23 giugno. In tal modo, i cittadini interessati, invece di consultare il sito di ciascuna amministrazione, avranno a disposizione un’unica pagina web “nazionale” nella quale saranno consultabili (e scaricabili) tutti i contratti integrativi acquisiti dalla banca dati.
Il nuovo strumento mette anche a disposizione di studiosi e istituzioni di ricerca, interessati al tema delle relazioni sindacali nella pubblica amministrazione, un importante patrimonio informativo sul quale sarà possibile effettuare elaborazioni e ricerche ad hoc (19.06.2017 - link a www.aranagenzia.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Semplificate le procedure per le progressioni verticali nel Pubblico Impiego (CGIL-FP di Bergamo, nota 25.05.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI - Area II della dirigenza (ARAN, gennaio 2017).

PUBBLICO IMPIEGO: RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI - Personale non dirigente (ARAN, gennaio 2017).

SEGRETARI COMUNALI: RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI - Segretari comunali e provinciali (ARAN, gennaio 2017).

PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi - Istituto contrattuale: Permessi retribuiti (ARAN, dicembre 2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi - Istituto contrattuale: Permessi brevi (ARAN, dicembre 2016).

PUBBLICO IMPIEGO: Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi - Istituto contrattuale: Diritto allo studio (ARAN, dicembre 2016).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

ENTI LOCALI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 30.06.2017, "Recepimento accordo conferenza unificata moduli unificati e standardizzati in materia di attività commerciali e assimilate - d.lgs. n. 126/2016 e d.lgs. n. 222/2016" (decreto D.U.O. 27.06.2017 n. 7649).

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 29.06.2017, "Aggiornamento dei bacini di utenza della rete di distribuzione carburanti dei prodotti metano e gpl sulla rete stradale ordinaria" (decreto D.U.O. 22.06.2017 n. 7494).

ENTI LOCALI: G.U. 26.06.2017 n. 147 "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica" (D.Lgs. 16.06.2017 n. 100).

APPALTI - EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO: G.U. 23.06.2017 n. 144, suppl. ord. n. 31/L, "Testo del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, coordinato con la legge di conversione 21.06.2017, n. 96, recante: «Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo»".
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Di particolare interesse si leggano:
• Art. 13-quater - Sospensione del conio di monete da 1 e 2 centesimi
• Art. 21 - Disposizioni in favore delle fusioni di comuni
• Art. 52-ter - Modifiche al codice dei contratti pubblici
• Art. 52-quater - Organizzazione dell’ANAC
• Art. 54 - Documento Unico di Regolarità Contributiva
• Art. 54-bis - Disciplina delle prestazioni occasionali. Libretto Famiglia. Contratto di prestazione occasionale
• Art. 62 - Costruzione di impianti sportivi
• Art. 65-bis - Modifica all’articolo 3 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380

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In Gazzetta Ufficiale la Manovrina (legge n. 96/2017).
Ok alla cessione dell'ecobonus condomini alle banche. Il sismabonus esteso all'acquisto di case demolite e ricostruite nelle zone a rischio 1 anche con variazione volumetrica. Possibilità di cambiare la destinazione d’uso di un immobile in seguito ad interventi di restauro o risanamento (26.06.2017 - link a
www.casaeclima.com).
...
La Manovrina è legge: tutte le novità punto per punto.
Ok alla cessione dell'ecobonus condomini alle banche. Il sismabonus esteso all'acquisto di case demolite e ricostruite nelle zone a rischio 1 anche con variazione volumetrica. Possibilità di cambiare la destinazione d’uso di un immobile in seguito ad interventi di restauro o risanamento
(15.06.2017 - link a www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 23.06.2017 n. 144, "Disposizioni recanti modifiche al decreto legislativo 08.03.2006, n. 139, concernente le funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché al decreto legislativo 13.10.2005, n. 217, concernente l’ordinamento del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, e altre norme per l’ottimizzazione delle funzioni del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ai sensi dell’articolo 8, comma l, lettera a) , della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. 29.05.2017 n. 97).
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Prevenzione incendi, dall'8 luglio sanzioni più severe per le imprese che omettono la SCIA.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo di riforma del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (26.06.2017 - link a www.casaeclima.com).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 22.06.2017, "Approvazione del secondo bando «Criteri e procedure per concessione ai comuni di contributi una tantum a fondo perduto per la rimozione del cemento-amianto esistente in pubblici edifici»" (decreto D.S. 15.06.2017 n. 7112).

URBANISTICA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2017, "Disposizioni regionali concernenti l’attuazione del piano di gestione dei rischi di alluvione (PGRA) nel settore urbanistico e di pianificazione dell’emergenza, ai sensi dell’art. 58 delle norme di attuazione del piano stralcio per l’assetto idrogeologico (PAI) del bacino del Fiume Po così come integrate dalla variante adottata in data 07.12.2016 con deliberazione n. 5 dal comitato istituzionale dell’autorità di bacino del Fiume Po" (deliberazione G.R. 19.06.2017 n. 6738).

ENTI LOCALI - VARI: G.U. 19.06.2017 n. 140 "Modifiche al DM 13.12.2016, recante Direttive e Calendario per le limitazioni alla circolazione stradale fuori dai centri abitati per l’anno 2017 nei giorni festivi e particolari, per i veicoli di massa superiore a 7,5 tonnellate" (Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, decreto 27.04.2017).
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Dal 19.12.2017 sarà possibile omologare e installare i misuratori di tempo residuo dei cicli semaforici.
Tra pochi mesi sarà possibile installare sugli impianti semaforici i dispositivi che avvisano gli utenti circa il tempo residuo del colore attivo. Ma per aggiornare i vecchi impianti andrà cambiato tutto il cuore del sistema. Meglio mettere semafori nuovi.

AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 16.06.2017, "Riordino e razionalizzazione delle disposizioni attuative della disciplina regionale in materia di distribuzione carburanti e sostituzione delle dd.gg.rr. 11.06.2009, n. 9590, 02.08.2013, n. 568, 23.01.2015 n. 3052, 25.09.2015, n. 4071, 26.09.2016 n. 5613" (deliberazione G.R. 09.06.2017 n. 6698).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 14.06.2017, "Quarto aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005, art. 80)" (decreto D.G. 08.06.2017 n. 6724).

APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: G.U. 13.06.2017 n. 135, "Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato" (Legge 22.05.2017 n. 81).
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Di particolare interesse, si legga:
• Art. 12. - Informazioni e accesso agli appalti pubblici e ai bandi per l’assegnazione di incarichi e appalti privati.

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2017, "Pubblicazione ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale 21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in acustica ambientale alla data del 31.05.2017, in attuazione dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447 e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935" (comunicato regionale 06.06.2017 n. 102).

ENTI LOCALI - VARI: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2017, "Indirizzi regionali per l’organizzazione dei controlli delle ATS sulle case dell’acqua" (decreto D.U.O. 05.06.2017 n. 6589).

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 09.06.2017, "Monitoraggio degli interventi di recupero dei vani e locali seminterrati in attuazione della legge regionale 10.03.2017, n. 7" (decreto D.S. 05.06.2017 n. 6555).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 07.06.2017 n. 130, "Modifiche e integrazioni al decreto legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16, commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17, comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l), m), n), o), q), r), s) e z), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs. 25.05.2017 n. 75).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U. 07.06.2017 n. 130, "Modifiche al decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, in attuazione dell’articolo 17, comma 1, lettera r), della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs. 25.05.2017 n. 74).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 05.06.2017 n. 128, suppl. ord. n. 26, "Accordo tra il Governo, le Regioni e gli Enti locali concernente l’adozione di moduli unificati e standardizzati per la presentazione delle segnalazioni, comunicazioni e istanze. Accordo, ai sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281 (Repertorio atti n. 46/CU)" (Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza Unificata, accordo 04.05.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: G.U. 22.05.2017 n. 117, "Criteri per la realizzazione da parte dei comuni di sistemi di misurazione puntuale della quantità di rifiuti conferiti al servizio pubblico o di sistemi di gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai criteri di ripartizione del costo del servizio, finalizzati ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al servizio reso a copertura integrale dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, decreto 20.04.2017).

ENTI LOCALI: G.U. 24.04.2017 n. 95, suppl. ord. n. 20/L, "Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo" (D.L. 24.04.2017 n. 50).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 21.04.2017, "Indicazioni per la presentazione a Regione Lombardia Delle istanze per tecnico competente in acustica conseguenti all’entrata in vigore del d.lgs. 42/2017" (comunicato regionale 18.04.2017 n. 65).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

URBANISTICA: D. D'Alessandro, L’esclusione dalla normativa sugli appalti delle convenzioni non onerose per l’amministrazione (fra programmazione urbanistica, interesse pubblico ed interesse privato) (28.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa e profili generali. 2. Alla ricerca di una nozione di causa idonea a tutelare l’interesse pubblico e quello privato. La funzione economico-individuale, la gratuità, l’interesse patrimoniale del disponente, il rischio di elusioni della disciplina dei contratti. 3. La gratuità ed i controversi limiti dell’urbanistica consensuale. Le opere a scomputo e l’art. 20, fra natura corrispettiva degli oneri tabellari e rischio di elusioni del codice dei contratti. 4. Le parti. Le tensioni in ordine ai requisiti dell’esecutore 5. La (blanda) tipizzazione. I contenuti necessari della proposta. 6. L’oggetto, come programma delle attività preordinato alla realizzazione dell’opera, fra autotutela civilistica e pubblicistica. 7. Il presupposto della previsione dell’opera nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici. Interrogativi sull’ammissibilità di proposte di modifica e sulla configurabilità di un obbligo di provvedere. 8. La disciplina applicabile fra contratti attivi, accordi, attività di diritto privato e contratti esclusi. 9. Gli incerti confini con i contratti di sponsorizzazione. 10. Problemi e prospettive.

EDILIZIA PRIVATA: D. Marrama, Le novità in tema di SCIA del biennio 2015-2016 (28.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Gli esordi della D.I.A. tra scenari innovativi, lacune e difetti normativi. 2. Il nuovo art. 18-bis della legge n. 241 del 1990. 3. Le modifiche al 3° comma dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990. 4. SCIA ed autotutela. 5. Il nuovo art. 19-bis della legge 241 del 1990. 6. I poteri dell’Amministrazione dopo la scadenza del termine originario per provvedere. 7. SCIA e tutela del terzo.

EDILIZIA PRIVATA: A. Berti Suman, Scia e tutela del terzo - Le questioni aperte dopo la riforma Madia ed i decreti attuativi SCIA1 e SCIA2 (a margine della ordinanza Tar Toscana, Sez. III, 11.05.2017, n. 667) (16.06.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it)..
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SOMMARIO: 1. Premessa: il completamento della riforma della SCIA ed i nodi ancora irrisolti – 2. L’ordinanza Tar Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667: dubbi di costituzionalità sulla mancanza di un termine espresso per la sollecitazione da parte del terzo dei poteri spettanti alla p.a. – 3. La tutela del terzo e la SCIA nella l. n. 124 del 2015 e nei decreti attuativi: il problema del coordinamento con la nuova disciplina dell’autotutela e del termine massimo di diciotto mesi – 4. L’evoluzione della giurisprudenza su SCIA e tutela del terzo – 4.1 L’intervento dell’Adunanza Plenaria n. 15/2011 e del legislatore (art. 19, comma 6-ter): il tipo di azione esperibile da parte del terzo – 4.2 La giurisprudenza più recente: contrasti sulla natura dei poteri spettanti alla p.a. e sul termine per la loro sollecitazione – 5. Le questioni aperte: a) il termine di sollecitazione; b) la sua decorrenza; c) i provvedimenti esigibili – 6. Le lacune dell’art. 19 secondo i pareri del Consiglio di Stato e la necessità di una disciplina di dettaglio: prospettive de iure condito e de iure condendo.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Porporato, Il “nuovo” accesso civico “generalizzato” introdotto dal d.lgs. 25.05.2016, n. 97 attuativo della riforma Madia e i modelli di riferimento (14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Le quattro tappe del cammino normativo della trasparenza. – 2. La quinta tappa del cammino normativo della trasparenza: la riforma Madia e il d.lgs. 25.05.2016, n. 97. Le novità del d.lgs. 25.05.2016, n. 97: alcuni rilievi critici. – 3. I modelli di riferimento della riforma Madia e del d.lgs. 25.05.2016, n. 97. – 4. Rilievi critici conclusivi.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Gualdani, Il tempo nell’autotutela (14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa. 2. La disciplina del termine nell’annullamento d’ufficio e la sempre attuale rilevanza del criterio della “ragionevolezza”. 3. La “conferma” della discrezionalità dell’annullamento d’ufficio: una prova di resistenza. 4. La natura del termine. 5. L’indispensabilità della previsione di una disciplina del tempo anche nella revoca.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Nicotra, I principi di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione amministrativa (14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Introduzione. 2. Il principio di ragionevolezza: 2.1. Premessa. 2.2. Genesi del principio di ragionevolezza in diritto costituzionale. 2.3. Il significato del canone di ragionevolezza in diritto costituzionale. 2.4. La ragionevolezza nel diritto amministrativo. 3. Il principio di proporzionalità: origini e natura. 3.1. I presupposti applicativi. 4. Il rapporto tra il principio ragionevolezza e proporzionalità. 4.1. Ragionevolezza e proporzionalità in materia costituzionale. 4.2. Ragionevolezza e proporzionalità in diritto amministrativo. 5. I principi di proporzionalità e ragionevolezza nella materia degli appalti. 6. Considerazioni conclusive.

APPALTI: G. A. Giuffrè, Revirement del Consiglio di Stato sull’immediata impugnabilità della scelta del criterio di selezione delle offerte: le novità (sostanziali e processuali) del Codice dei contratti giustificano il superamento dell’Adunanza Plenaria n. 1 del 2013? (14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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A fronte dell’illegittima adozione del criterio del massimo ribasso da parte della stazione appaltante, il concorrente che si ritiene danneggiato dalla scelta di siffatto criterio, deve impugnare immediatamente la documentazione di gara nella parte in cui lo prevede, senza attendere l’esito della gara, in quanto sono già sussistenti tutti i necessari presupposti:
   a) la posizione giuridica legittimante avente a base, quale interesse sostanziale, la competizione secondo meritocratiche opzioni di qualità oltre che di prezzo;
   b) la lesione attuale e concreta, generata dalla previsione del massimo ribasso in difetto dei presupposti di legge; c) l’interesse a ricorrere in relazione all’utilità concretamente ritraibile da una pronuncia demolitoria che costringa la stazione appaltante all’adozione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ritenuto dalle norme del nuovo codice quale criterio “ordinario” e generale (Consiglio di Stato,
Sez. III, sentenza 02.05.2017 n. 2014).

EDILIZIA PRIVATA: F. Lorenzotti, I regimi amministrativi degli interventi edilizi dopo il D.Lgs. n. 222 del 2016 (06.06.2017 - tratto da www.ambientediritto.it).
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Sommario: 1. Riforme e ritocchi incessanti per il testo unico dell’edilizia. – 2. La legge delega n. 124 del 2015 avvia la revisione dei titoli abilitativi edilizi. - 3. Il decreto legislativo n. 126 del 2016 e la revisione della SCIA. –3.1. Un principio difficilmente attuabile nell’edilizia: la libertà delle attività private. - 3.2. I moduli unificati e standardizzati per la presentazione di domande, segnalazioni e comunicazioni. - 3.3. La ricevuta della presentazione di domande, segnalazioni e comunicazioni. – 4. Il decreto legislativo n. 127 del 2016 e le modificazioni al procedimento per il rilascio del permesso di costruire. - 5. Il decreto legislativo n. 222 del 2016 e la Tabella A, sezione II, sui titoli abilitativi edilizi. - 6. Aspettando il glossario unico dell’edilizia. - 7. L’attività edilizia libera secondo la Tabella. - 8. L’attività edilizia delle pubbliche amministrazioni. – 9. Le attività edilizie soggette a semplice comunicazione di inizio lavori (CIL). - 10. La comunicazione di inizio dei lavori asseverata (CILA). – 11. Gli interventi edilizi realizzabili con la CILA secondo la Tabella. - 12. La segnalazione certificata di inizio attività (SCIA). – 13. Gli interventi edilizi realizzabili con la SCIA secondo la Tabella. - 14. Il permesso di costruire e il procedimento per il suo rilascio. – 15. Gli interventi realizzabili con il permesso di costruire secondo la Tabella. – 16. La formazione del silenzio assenso sulla domanda di permesso di costruire. - 17. Gli interventi realizzabili per silenzio assenso secondo la Tabella. - 18. La SCIA in alternativa al permesso di costruire. - 19. Gli interventi subordinati alla SCIA in alternativa al permesso di costruire secondo la Tabella. – 20. La Tabella e gli impianti alimentati da fonti rinnovabili. – 21. Passaggio dai titoli abilitativi edilizi ai regimi amministrativi degli interventi edilizi.

EDILIZIA PRIVATA: S. Cacace, Semplificazione amministrativa e governo del territorio: i titoli abilitativi e gli strumenti di semplificazione (22.04.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. La disciplina dei titoli abilitativi edilizi. 2. La generalizzazione del silenzio-assenso: il silenzio avente valore di permesso di costruire. 3. La dichiarazione di inizio attività (D.I.A.) e la segnalazione certificata di inizio attività (Scia).

APPALTI: M. Fratini e F. Iorio, La contrattualizzazione della responsabilità precontrattuale (De Iustitia n. 2/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Trattative e principio di buona fede: obblighi e ratio della responsabilità precontrattuale. 3. Le forme di responsabilità precontrattuale e la diversa entità di danno risarcibile. 4.1. La natura giuridica della responsabilità precontrattuale. 4.1.1. Il recente revirement della Corte di Cassazione: la sentenza n. 14188 del 2016. 4.1.2. Segue. Le conseguenze della contrattualizzazione della responsabilità precontrattuale: l’ipotesi della configurabilità di una responsabilità precontrattuale del terzo. 4.1.3. Segue. Le conseguenze della contrattualizzazione della responsabilità precontrattuale: la responsabilità precontrattuale della p.a.. 4.1.4. Segue. Atti adottati in sede di trattative. 5. Conclusioni.

EDILIZIA PRIVATA: G. Rizzi, La disciplina della attività edilizia dopo il D.Lgs. 222/2016 (20.02.2017 - tratto da www.notairizzitrentin.it).

EDILIZIA PRIVATA: A. La Marca, La natura giuridica della cessione di cubatura e la tipicità dei diritti reali (De Iustitia n. 1/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. I caratteri dei diritti reali: i principi del numerus clausus e di tipicità. 2. La cessione di cubatura e le sue condizioni di ammissibilità. 3. La natura giuridica dell’istituto: le teorie pubblicistiche e le teorie privatistiche. 4. La trascrizione dei contratti che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti edificatori ai sensi dell’art. 2643, n. 2-bis, c.c.. 5. Conclusioni.

ATTI  AMMINISTRATIVI: A. Rapillo, La motivazione del provvedimento amministrativo e le sorti dell’atto plurimotivato parzialmente viziato (De Iustitia n. 1/2017 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La motivazione del provvedimento amministrativo. 2.1. Profili storici. 2.2. La struttura della motivazione.3. Le funzioni della motivazione. 4. Le deroghe all’obbligo di motivazione. 5. I vizi della motivazione. 5.1. Segue… la riforma del 2005. 6. La motivazione postuma: una questione controversa. 7. Atto plurimotivato e vizio parziale della motivazione: il principio di conservazione degli atti.

EDILIZIA PRIVATA: R. Iervolino, L’evoluzione dell’istituto della S.C.I.A. nel processo di liberalizzazione delle attività private (De Iustitia n. 4/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Premessa storica dell’istituto: dalla "denuncia", alla "dichiarazione", alla "segnalazione" di inizio attività; 3. La disciplina della s.c.i.a. alla luce della L. n. 122 del 2010; 4. La natura giuridica dell’istituto e la tutela dei contro interessati; 4.1. La tesi della natura pubblicistica; 4.2. La tesi della natura privatistica; 4.3. Conseguenze pratiche: tecniche di tutela del contro interessato; 4.4. La risposta al quesito: Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 15/2011; 4.5. La soluzione del Legislatore: il D.L. n. 138/2011; 5. Le ennesime riforme dell’istituto; 5.1. Lo “Sbolcca Italia”…; 5.2. …E la Riforma Madia; 6. Considerazioni conclusive.

APPALTI SERVIZI: I. Siniscalchi, L’affidamento in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. Considerazioni alla luce della sentenza della Corte Costituzionale del 17.07.2012 n. 199 e del Decreto Legislativo n. 50 del 18.04.2016 (De Iustitia n. 4/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. La nozione di servizio pubblico. 2. La disciplina dell’affidamento dei servizi pubblici locali e la tutela della concorrenza. 3. L’art. 23-bis del D.L. 25.06.2008, n. 112. 4. Il referendum abrogativo del 12 e 13.06.2011 e l’art. 4 del D.L. 13.08.2011, n. 138. 5. L’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza del 17.07.2012 n. 199 e l’attuale disciplina dei servizi pubblici locali. 6. L’affidamento in house dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. 7. Il requisito del “controllo analogo” . 8. Il requisito della “destinazione prevalente dell’attività”.

EDILIZIA PRIVATA: A. Auletta, L’evoluzione giurisprudenziale sulle nullità urbanistiche: brevi riflessioni circa la (possibile) incidenza sulla vendita forzata (De Iustitia n. 3/2016 - tratto da www.deiustitia.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: E. Maino, Il principio di trasparenza: ieri, oggi e domani: le nuove prospettive della Foia (De Iustitia n. 3/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Il principio di trasparenza ieri. 2. Il principio di trasparenza e il diritto di accesso: la casa dai vetri oscurati. 3. L’accesso civico e il principio di trasparenza oggi. 4. Foia e il ritorno alle origini. 5. Prospettive future del principio di trasparenza.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Rubano, I reati di falso e la portata concreta del principio di offensività (De Iustitia n. 3/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. La portata del principio di offensività. 2. I delitti contro la fede pubblica: cenni evolutivi. 3. La natura monoffensiva o plurioffensiva dei reati di falso. 4. Il concetto di falso documentale e la rilevanza delle invalidità dell’atto. 5. Il c.d. falso documentale consentito. 6. Il falso materiale e il falso ideologico. 7. Le falsità in atti pubblici. 8. Le falsità in atti privati e la loro recente abrogazione. 9. Il falso in autorizzazioni e in concessioni. 10. Il falso grossolano, innocuo e inutile. 11. La dichiarazione infedele di ammissione al patrocinio a spese dello Stato. 12. La falsa indicazione “Made in Italy”.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: A. Amendola, Il danno all’immagine della pubblica amministrazione (De Iustitia n. 2/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Il risarcimento del danno non patrimoniale delle persone giuridiche. 3. Il danno all’immagine della p.a. nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte dei Conti. 4. La nuova disciplina dell’azione risarcitoria introdotta dall’art. 17, comma 30-ter, d.l. 78 del 2009.

ATTI AMMINISTRATIVI: F. Caringella, Brevi osservazioni sull’annullamento con effetti variabili del provvedimento amministrativo … “verso un annullamento a geometrie variabili?” (De Iustitia n. 2/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. I dubbi sollevati dalla giurisprudenza amministrativa. 2. Le geometrie variabili della tutela demolitoria.

APPALTI: V. Ferrara, Il soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza pubblica: l’atavico duello tra forma e sostanza (De Iustitia n. 1/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
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SOMMARIO: 1. Il dato normativo: genesi e profili problematici dell’istituto. 2. La giurisprudenza contrastante: come delimitare il raggio d’azione della stazione appaltante? 3. Le soluzioni dell’Adunanza Plenaria: il fardello del formalismo. 4. Uno sguardo ai cugini d’Oltralpe: l’art. 52 del Code des Marchés Publics. 5. Conclusioni.

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

URBANISTICA: Oggetto: Legge regionale 31/2014 per la riduzione del consumo di suolo – Modificato il regime transitorio (ANCE di Bergamo, circolare 28.06.2017 n. 117).

TRIBUTI: Oggetto: Esenzione IMU sul “magazzino” delle imprese edili – Dichiarazione (ANCE di Bergamo, circolare 28.06.2017 n. 116).

EDILIZIA PRIVATAOggetto: Svolgimento di manifestazioni pubbliche - Profili di security e di safety (Prefettura di Bergamo, nota 23.06.2017 n. 35618 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Albo Nazionale Gestori Ambientali: nuovi requisiti e verifiche di idoneità per il responsabile tecnico (ANCE di Bergamo, circolare 23.06.2017 n. 115).

SEGRETARI COMUNALIOggetto: articolo 43, comma 2, del C.C.N.L. dei segretari comunali e provinciali del 15.05.2001: modalità procedurali per la formulazione delle richieste di rimborso (Ministero dell'Interno, nota 20.06.2017 n. 7122 di prot.).
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Il Ministero dell'Interno, con circolare n. 7122 del 20.06.2017 concernente le modalità procedurali per la formulazione delle richieste di rimborso -articolo 43, comma 2, del CCNL- dei Segretari comunali e provinciali, fornisce indicazioni in merito. La normativa in oggetto, riserva al segretario collocato in posizione di disponibilità, la facoltà di conservare, in caso di incarico presso un ente di fascia immediatamente inferiore a quella di iscrizione, la retribuzione di posizione più alta, corrispondente alla fascia demografica dell'ente locale di cui il segretario era titolare al momento del collocamento di disponibilità .
In riferimento alle modalità per la formulazione delle richieste di rimborso viene precisato che compete comunque all'ente locale l'erogazione della retribuzione di posizione al segretario anche per la quota posta a carico del Ministero dell'Interno. L'importo oggetto di rimborso viene limitato, dalla contrattazione collettiva, al differenziale risultante dal confronto tra la retribuzione di posizione erogata al segretario durante il periodo di disponibilità e quella prevista per la fascia di appartenenza dell'ente dalla contrattazione collettiva di settore.
Non costituiscono oggetto di rimborso le voci stipendiali previste dai commi 4 e 5 dell'articolo 41 del C.C.N.L. 16.05.2001, eventualmente riconosciute dall'ente al segretario; parimenti esclusa dal rimborso è la retribuzione aggiuntiva per sedi convenzionate erogata dall'ente locale al segretario in relazione al trattamento economico in godimento ai sensi dell'articolo 45 del C.C.N.L. del 16.05.2001.
Infine si evidenzia che l'istanza di rimborso deve essere corredata da una dichiarazione da parte dell'ente locale attestante l'effettiva erogazione, in favore del segretario, del differenziale (commento tratto da www.logospa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Commissioni comunali di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo (Ministero dell'Interno, Comando Provinciale Vigili del Fuoco - Bergamo, nota 12.06.2017 n. 12673 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Nuovi chiarimenti ministeriali sul decreto sottoprodotti (ANCE di Bergamo, circolare 09.06.2017 n. 105).
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Si legga anche la nota 30.05.2017 n. 7619 di prot. del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento ivi menzionata).

AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Circolare esplicativa per l’applicazione del decreto ministeriale 13.10.2016, n. 264 (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento, nota 30.05.2017 n. 7619 di prot.).
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Con decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare 13.10.2016, n. 264 (in Gazzetta ufficiale del 15.02.2017, n. 38, di seguito “Regolamento” o “Decreto”) sono stati adottati «Criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti».
In considerazione dei molteplici quesiti pervenuti a questo Ministero su diversi profili interpretativi ed operativi, appare utile fornire in questa sede alcuni chiarimenti, in modo da consentire una uniforme applicazione ed una univoca lettura del provvedimento.
Stante l’oggettiva complessità della disciplina, di origine interna ed europea, concernente l’utilizzazione dei sottoprodotti, e l’assenza di prassi interpretative lungamente consolidate, per una migliore applicazione del Decreto si ritiene utile fornire alcuni chiarimenti interpretativi, accompagnando la presente circolare con un Allegato tecnico-giuridico, che deve essere considerato parte integrante della medesima. A tale Allegato si rinvia, dunque, sin d’ora, per l’approfondimento dei temi di seguito affrontati. (...continua).

PUBBLICO IMPIEGO: OGGETTO: Riduzione del periodo di prognosi riportato nel certificato attestante la temporanea incapacità lavorativa per malattia (INPS, circolare 02.05.2017 n. 79 - link a www.inps.it).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Prognosi riportata nel certificato - 3. Obblighi del lavoratore e del datore di lavoro - 4. Provvedimenti sanzionatori.

QUESITI & PARERI

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri, porte aperte. Legittimo l'accesso reiterato al protocollo. Va riconosciuto un diritto più ampio rispetto al semplice cittadino.
È legittima la condotta di un consigliere di minoranza che reitera nel tempo numerose istanze di accesso al protocollo del Comune?

Secondo l'art. 22, comma 2, della legge n. 241/1990 «l'accesso ai documenti amministrativi, attese le sue rilevanti finalità di pubblico interesse, costituisce principio generale dell'attività amministrativa al fine di favorire la partecipazione e di assicurarne l'imparzialità e la trasparenza».
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, invece, consente ai consiglieri comunali di accedere a «tutte le notizie e le informazioni» in possesso dell'Ente, utili all'espletamento del proprio mandato. Nella fattispecie in esame, il Sindaco ha sospeso le richieste di accesso del consigliere al protocollo, ritenendole «formalizzate in modo abnorme, generico, indiscriminato e reiterato e finalizzate a strategie ostruzionistiche comportanti aggravi dell'attività amministrativa dell'Ente».
Tuttavia, va considerato che al consigliere comunale, in relazione proprio al munus rivestito, deve essere riconosciuto un diritto più ampio rispetto a quello esercitabile dal semplice cittadino, che si estende oltre le competenze attribuite al consiglio comunale, al fine della necessaria valutazione della correttezza ed efficacia dell'operato dell'amministrazione comunale (cfr.: Cds n. 4525 del 05/09/2014, Cds sez. V n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez. 21/02/1994 n. 119, Cons. stato, V sez. 26/09/2000 n. 5109, Cons. stato, V sez. 02/04/2001 n. 1893).
La giurisprudenza (cfr. Tar Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004, Tar Lombardia, Brescia, n. 362/2005, Tar Campania, Salerno, n. 26/2005) -superando le precedenti decisioni contrarie e fatta salva la necessità di non aggravare la funzionalità amministrativa dell'Ente con richieste emulative- è infatti, oggi orientata nel ritenere illegittimo il diniego opposto dall'amministrazione di prendere visione del protocollo generale e di quello riservato del Sindaco, comprensivo sia della posta in arrivo che di quella in uscita.
Del resto, i giudici del Tar Sardegna, con la citata sentenza n. 29/2007, hanno affermato che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono comunque tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, mentre il Tar Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre al consigliere l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la previa visione dei vari protocolli (tra cui il protocollo informatico che rappresenta una innovazione tecnologica consolidata, già prevista dall'art. 17, del dlgs n. 82/2005), è necessaria, e potrà trovare apposita disciplina di dettaglio nel regolamento dell'Ente, per poter individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio.
La Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, esprimendosi sull'esercizio di tale diritto (cfr. parere 29.11.2009), sulla base del principio di economicità che incombe sia sugli uffici tenuti a provvedere, sia sui soggetti che chiedono prestazioni amministrative, ha riconosciuto «la possibilità per il consigliere di avere accesso diretto al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente attraverso l'uso della password di servizio ( ) proprio al fine di evitare che le continue richieste di accesso si trasformino in un aggravio dell'ordinaria attività amministrativa dell'ente locale» (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: risposta alla richiesta di parere circa la prova dell’esistenza di un edificio costruito ante 1967 (Regione Emilia Romagna, nota 30.05.2017 n. 402646 di prot.).
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1. Viene richiesto parere in oggetto, in quanto alla richiesta di un certificato di conformità edilizia, da parte di un privato, per un intervento su un immobile, da sottoporre a SCIA, di cui risulta esservi il solo accatastamento nel 2007 e che risulta essere costruito in un lasso di tempo tra il 1940 e il 1949, un Comune, ha richiesto l’attestazione dell’esistenza dell’edificio di cui sopra, prima del 1950.
Da quanto sopra descritto ed in buona sostanza si chiede se un edificio, originariamente posto in zona agricola e realizzato prima del 01.09.1967 e quindi prima dell’entrata in vigore della Legge 06.08.1967, n.765 (c.d. Legge Ponte), sia illegittimo, se privo di titolo edilizio. Si premette che il parere richiesto viene fornito rispetto a questioni generali che vengono considerate in astratto, escludendo quindi valutazioni sul caso specifico, il cui apprezzamento spetterà al Comune. (...continua).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Interpellanze in consiglio. La minoranza può chiedere la convocazione. Non si configura l'uso distorto dell'art. 39, comma 2, dlgs 267/2000.
Ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, la minoranza consiliare può chiedere al Presidente del consiglio comunale di convocare il consiglio, entro 20 giorni, per discutere interrogazioni, interpellanze, mozioni, o ciò costituisce un uso distorto di tale norma?

Secondo l'art. 39, comma 2, del dlgs n. 267/2000 il presidente del consiglio comunale è tenuto a riunire il consiglio, «in un termine non superiore ai venti giorni», quando lo richiedano un quinto dei consiglieri, inserendo all'ordine del giorno le questioni richieste. La norma sembra configurare un obbligo del Presidente del consiglio comunale di procedere alla convocazione dell'organo assembleare per la trattazione, da parte del Consiglio, delle questioni richieste, senza alcun riferimento alla necessaria adozione di determinazioni da parte del consiglio stesso.
Tale diritto di iniziativa, «...è tutelato in modo specifico dalla legge, che prevede la modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del Prefetto (misura, questa, severa ed eccezionale) in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine, breve, di venti giorni» (Tar Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che vede riconosciuto e definito come «diritto, dal legislatore, «...il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio medesimo» è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, Sez. I del 04.02.2004, n. 124). In merito alla questione relativa alla sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, l'orientamento consolidato è nel senso di prevedere che al Presidente del Consiglio spetti solo la verifica formale della richiesta, non potendo comunque sindacarne l'oggetto. La giurisprudenza in materia si è, al riguardo, da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996).
Nondimeno, spetta all'assemblea decidere in via pregiudiziale se un dato argomento inserito nell'ordine del giorno debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar Puglia, Lecce, Sez. 1, 04.02.2004, n. 124). Peraltro, l'art. 43 del Tuoel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei Comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Pertanto, qualora l'intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera del Consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare che, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, rientri nella competenza del Consiglio comunale, in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo», anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo articolo, attengono comunque a tale ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale. Quindi, la richiesta di convocazione del consiglio ex art 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 finalizzata all'esame degli atti di sindacato ispettivo non configura un utilizzo distorto della citata disposizione, dettata dal legislatore a tutela delle minoranze consiliari (articolo ItaliaOggi del 26.05.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA: OSSERVATORIO VIMINALE/ Garanzia d'alto profilo. Commissione: attività di governo nel mirino. Questioni di sicurezza rientrano nel perimetro degli organismi speciali.
Al fine di verificare l'eventuale violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un distributore di carburanti nel territorio comunale, un comitato di cittadini può chiedere la convocazione della Commissione Garanzia e Controllo comunale?

La questione deve essere risolta facendo riferimento alle disposizioni di legge o di regolamento, ovvero degli statuti locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti commissioni obbligatorie (previste per legge come, ad esempio, la commissione elettorale comunale) e commissioni facoltative (come, le cd. commissioni consiliari permanenti ex art. 38 del Tuoel n. 267/2000); in entrambi i casi, la rispettiva composizione ed il funzionamento si riconducono generalmente alla fonte normativa che le istituisce e, quindi, alle citate previsioni statutarie e regolamentari.
Nella fattispecie in esame, lo Statuto comunale stabilisce solo che i presidenti delle commissioni permanenti istituite con finalità di controllo sono eletti tra i rappresentanti dei gruppi consiliari di opposizione, prevede la possibilità di istituire commissioni di inchiesta e consente di istituire commissioni speciali per l'esame di problemi particolari, demandando al Consiglio la composizione, l'organizzazione, le competenze, i poteri e la durata.
Il regolamento consiliare, invece, disciplina le commissioni speciali e le commissioni di inchiesta; inoltre, dispone che le commissioni con funzioni di garanzia e di controllo «effettuano verifiche sull'attività di governo, sulla programmazione e sulla pianificazione delle attività, sui risultati e sugli obiettivi raggiunti».
Orbene, le commissioni aventi funzioni di controllo e di garanzia potrebbero considerarsi, come ha sostenuto parte della dottrina, una specie del medesimo genere delle commissioni di indagine. Tale assunto è confermato dalla circostanza che la materia è trattata nello stesso art. 44 del dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della minoranza che si concretizza nell'affidamento della presidenza della commissione permanente ad un consigliere dell'opposizione, una volta costituita, l'attività istituzionale di tale commissione segue la dinamica delle altre commissioni permanenti, nel rispetto comunque delle competenze amministrative demandate previamente agli Uffici comunali.
Poiché lo Statuto e il regolamento hanno previsto la possibilità di istituire anche commissioni speciali con il compito di approfondire «particolari questioni o problemi che interessino il comune», la fattispecie relativa alla presunta violazione delle norme sulla sicurezza nella costruzione di un impianto sul territorio comunale sembra incidere in particolare sulla competenza di tali organismi, dovendo limitarsi l'attività della commissione Garanzia e controllo, alle verifiche sull'attività di governo (articolo ItaliaOggi del 19.05.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ Presidente super partes. Revoca per motivi istituzionali, non politici. I casi in cui si può destituire il numero uno dell'assemblea comunale.
Il consiglio comunale può attivare la mozione di sfiducia nei confronti del suo stesso presidente?
Al riguardo, l'articolo 38, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il funzionamento del consiglio comunale alla disciplina regolamentare «nel quadro dei principi stabiliti dallo statuto».
Circa la fattispecie in esame, assume particolare rilievo la modalità con cui la mozione di sfiducia, prevista dallo statuto nei confronti del presidente del consiglio, può conciliarsi con la disposizione regolamentare che limita la possibilità di un voto all'espressione di «un giudizio su mozione presentata in merito ad atteggiamenti del sindaco o della giunta comunale, ovvero un giudizio sull'intero indirizzo dell'amministrazione».
In merito la norma regolamentare che disciplina le adunanze affida addirittura al sindaco la presidenza del consiglio, non contenendo alcuna norma specifica che disciplini la sfiducia al presidente del consiglio, mentre è proprio lo statuto che prevede come meramente eventuale l'elezione di un presidente del consiglio comunale tra i propri componenti.
Nonostante la mancanza di una disciplina regolamentare di dettaglio, il consiglio ha dunque utilizzato la normativa statutaria (ritenendola sufficiente) per eleggere il presidente del consiglio; talché, la richiesta applicazione di ipotetiche norme regolamentari che dovrebbero obbligatoriamente disciplinare anche la revoca, appare incoerente rispetto alla pacifica accettazione della sola norma statutaria per l'elezione del presidente del consiglio.
Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni caso, non prevede espressamente la possibilità di revoca del presidente del consiglio, tant'è che in carenza di una specifica previsione statutaria, la giurisprudenza tende ad affermarne costantemente l'illegittimità (si veda tra l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04/09/2009, n. 2248).
Ferma restando, dunque, l'applicabilità della citata disposizione statutaria che disciplina la revoca del presidente, «la giurisprudenza ha chiarito che la figura del presidente del consiglio è posta a garanzia del corretto funzionamento di detto organo e della corretta dialettica tra maggioranza e minoranza, per cui la revoca non può essere causata che dal cattivo esercizio della funzione, in quanto ne sia viziata la neutralità e deve essere motivata, perciò, con esclusivo riferimento a tale parametro e non a un rapporto di fiducia» (conforme, Tar Puglia–Lecce, sentenza n. 528/2014, Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)
Peraltro il Tar Piemonte, con la citata sentenza (richiamando anche Tar Sicilia - Catania, sez. I, 20.04.2007, n. 696; Tar Sicilia Catania, sez. I, 18.07.2006, n. 1181), ha statuito che «lo statuto comunale, tuttavia, può prevedere ipotesi e procedure di revoca del presidente del consiglio comunale, con riferimento a fattispecie che integrino comportamenti incompatibili con il ruolo istituzionale super partes che esso deve costantemente disimpegnare nell'assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania–Napoli - sez. I, con decisione 03/05/2012 n. 2013, ribadendo che il ruolo del presidente del consiglio comunale è strumentale non già all'attuazione di un indirizzo politico di maggioranza, bensì al corretto funzionamento dell'organo stesso e, come tale, non solo è neutrale, ma non può restare soggetto al mutevole atteggiamento fiduciario della maggioranza, ha precisato che la revoca di detta carica non può essere attivata per motivazioni politiche, ma solo istituzionali, quali la ripetuta e ingiustificata omissione della convocazione del consiglio o le ripetute violazioni dello statuto o dei regolamenti comunali (si veda anche, Consiglio di stato, sez. V, 18/01/2006, n. 114) (articolo ItaliaOggi del 12.05.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il consiglio ai consiglieri. Il vicesindaco esterno non può presiederlo. Non si può fungere da presidente di un collegio a cui non si appartiene.
È possibile affidare la carica di vicepresidente del consiglio comunale al vice sindaco, assessore esterno in un Comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti? Il vicesindaco facente funzioni può assumere le funzioni di presidente della commissione elettorale comunale e partecipare alle relative operazioni?
In merito al primo quesito, ai sensi dell'art. 64, comma 3, del Tuel n. 267/2000, nei comuni con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti, non vi è incompatibilità tra la carica di consigliere comunale ed assessore nella rispettiva giunta, mentre la nomina di assessori esterni al consiglio fa parte del contenuto facoltativo dello statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del medesimo decreto legislativo.
Per quanto concerne le funzioni di presidente del consiglio comunale, l'art. 39, comma 3, del richiamato decreto legislativo n. 267/2000 prevede che nei comuni sino a 15.000 abitanti le stesse sono svolte dal sindaco, «salvo differente previsione statutaria», mentre il comma 1, stabilisce che le funzioni vicarie del presidente del consiglio, quando lo statuto non dispone diversamente, sono esercitate dal consigliere anziano.
Pertanto, la normativa statale, anche in carenza di specifiche disposizioni dell'ente, individua il vicario del presidente del consiglio.
Nella fattispecie in esame, lo statuto del comune conferma al sindaco il potere di presiedere il consiglio comunale e stabilisce che, «qualora il consigliere anziano sia assente o rinunci a presiedere l'assemblea, la Presidenza è assunta dal consigliere che, nella graduatoria di anzianità occupa il posto immediatamente successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del consiglio comunale conferma la titolarità della presidenza in capo al sindaco; la stessa disposizione, tuttavia, stabilisce che in caso di assenza o di impedimento del sindaco, la presidenza è assunta dal vice sindaco e ove questi sia assente o impedito, dall'assessore più anziano di età.
La disposizione regolamentare si pone, dunque, in contrasto con la norma statutaria.
Seguendo la gerarchia delle fonti, conformemente anche all'articolo 7 del citato decreto legislativo n. 267/2000 che disciplina l'adozione dei regolamenti comunali «nel rispetto dei principi fissati dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011) la disposizione statutaria dovrebbe essere prevalente sulla norma regolamentare.
In ogni caso, per quanto concerne la possibilità, nei comuni fino a 15.000 abitanti di far presiedere il consiglio comunale, in assenza del sindaco, al vice sindaco non consigliere comunale, il Consiglio di stato, con il parere n. 94/96 del 21/02/1996 (richiamato dal successivo parere n. 501 del 14/6/2001), con riferimento all'estensione dei poteri del vicesindaco, ha evidenziato che il vicesindaco può sostituire il sindaco nelle funzioni di presidente del consiglio comunale soltanto nel caso in cui il vicario rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come nel caso di specie, sia un assessore esterno, questi non può presiedere il consiglio, in quanto non può «fungere da presidente di un collegio un soggetto che non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova adeguata soluzione nell'orientamento del Consiglio di stato, espresso con pareri n. 94/1996 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del 04.06.2001, che, nella sostanza, hanno avallato la linea interpretativa già seguita, in materia, dal ministero dell'interno.
In particolare l'Alto consesso, rilevando che le funzioni del sindaco sospeso vengono svolte dal vicesindaco in virtù dell'art. 53, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, ha stabilito che nell'ipotesi di vicarietà, nessuna norma positiva identifica atti riservati al titolare della carica e vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale risulta confortata da riflessioni di carattere sistematico, poiché la preposizione di un sostituto all'ufficio o carica in cui si è realizzata la vacanza implica, di regola, l'attribuzione di tutti i poteri spettanti al titolare, con la sola limitazione temporale connessa alla vacanza medesima.
Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di continuità dell'azione amministrativa dell'ente locale postula che in ogni momento vi sia un soggetto giuridicamente legittimato ad adottare tutti i provvedimenti oggettivamente necessari nell'interesse pubblico (riguardo la questione precedente, infatti, l'assenza del sindaco presidente del consiglio è supplita dal consigliere anziano) è necessario riconoscere al vicesindaco reggente pienezza di poteri.
Peraltro, in merito alla specifica fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223 all'articolo 14, stabilisce che la commissione elettorale comunale è presieduta dal sindaco e in caso di assenza, impedimento o cessazione dalla carica, dall'assessore delegato o dall'assessore anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso dalle funzioni di ufficiale del governo, la commissione è presieduta dal commissario prefettizio incaricato di esercitare tali funzioni.
Nel caso di cui trattasi, alla luce delle disposizioni di cui al Tuel, dunque, il vice sindaco assumerà anche le funzioni di presidente della commissione elettorale in sostituzione del sindaco assente (articolo ItaliaOggi del 05.05.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il sindaco paga lo staff. Il rapporto è necessariamente oneroso. La figura del consigliere politico non è prevista dall'ordinamento.
Il sindaco di un comune può individuare e nominare i «consiglieri politici», figure non previste dallo statuto comunale, che dovrebbero svolgere funzioni di supporto all'azione amministrativa assicurando maggiore incisività ed efficacia al governo della comunità locale, senza alcun onere per il comun
e?
L'ordinamento degli enti locali non prevede la figura del «consigliere politico»; i consiglieri, gli assessori ed il sindaco, quali organi di governo degli enti locali, sono figure tipiche individuate dalla legge.
Nel sistema disciplinato dal legislatore costituzionale, art. 117, lettera p), lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di «organi di governo e funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane», mentre all'ente locale è riconosciuta un'autonomia statutaria, normativa, organizzativa ed amministrativa nel rispetto, però, dei principi fissati dal decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del Tuel, lo statuto stabilisce le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente e specifica le attribuzioni degli organi.
È prevista, inoltre, la possibilità di istituire uffici di supporto agli organi di direzione politica ai sensi dell'art. 90 del citato decreto legislativo che al primo comma demanda al regolamento degli uffici e dei servizi la possibilità di prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, della giunta o degli assessori per l'esercizio delle funzioni di indirizzo e controllo loro attribuite dalla legge. Con riferimento a tale istituto, la giurisprudenza contabile ha evidenziato il carattere necessariamente oneroso del rapporto con i soggetti incaricati di funzioni di staff (cfr. pronuncia Src Campania n. 155/2014/PAR).
Per quanto concerne la possibilità che il sindaco deleghi proprie funzioni ai consiglieri, tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi dell'art. 54, comma 10, per l'esercizio delle funzioni di ufficiale del governo nei quartieri e nelle frazioni, e ai sensi dell'art. 31, comma 4, in caso di partecipazioni alle assemblee consortili (articolo ItaliaOggi del 28.04.2017).

CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/ L'accesso non ha limiti. Gli uffici non possono sindacare le richieste. Vanno riviste le norme comunali che impongono l'obbligo di motivazione.
Ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000, in materia di diritto di accesso dei consiglieri comunali, possono considerarsi legittime le norme regolamentari che impongono al consigliere comunale di motivare la propria richiesta di accesso agli atti; ovvero che affidano al sindaco il potere di verificare che l'informazione richiesta attenga al mandato del consigliere; oppure che limitano il diritto di visione degli atti quando ciò si traduca in «un potere di inchiesta, di ispezione o di verifica»?

Il «diritto di accesso» e il «diritto di informazione» dei consiglieri comunali in ordine agli atti in possesso dell'amministrazione comunale, utili all'espletamento del proprio mandato, trovano la loro disciplina specifica nel citato art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000, che si differenzia rispetto al pur ampio diritto di accesso riconosciuto al cittadino dall'articolo 10 del medesimo decreto legislativo.
Il termine «utili», contenuto nella citata disposizione del Tuel, garantisce, infatti, l'estensione di tale diritto di accesso a qualsiasi atto ravvisato utile per l'esercizio del mandato (cfr. Cds n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione possa derivare dall'eventuale natura riservata delle informazioni richieste (v. anche Consiglio di stato, sentenza n. 4525 del 05.09.2014, che ha richiamato Cds, sez. V, 17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi, con parere reso in data 09.04.2014, ha specificato che l'accesso del consigliere non può essere soggetto ad alcun onere motivazionale, giacché altrimenti sarebbe introdotta una sorta di controllo dell'ente, attraverso i propri uffici, sull'esercizio del mandato del consigliere comunale. La Commissione, infatti, considerato che il consigliere è comunque vincolato al segreto d'ufficio, ha ritenuto che gli unici limiti all'esercizio del diritto di accesso dei consiglieri comunali si rinvengano, per un verso, nel fatto che esso non deve sostanziarsi in richieste assolutamente generiche, ovvero meramente emulative (fermo restando che la sussistenza di tali caratteri necessita di attento e approfondito vaglio, al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto stesso), nonché, per altro verso, nel fatto che esso debba avvenire in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici comunali (vedi, oltre al citato parere del 09.04.2014, anche il precedente plenum in data 06.04.2011, conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n. 2716, Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez. I, 07.05.2009, n. 143).
Conseguentemente, gli uffici comunali e il sindaco non hanno il potere di sindacare il nesso intercorrente tra l'oggetto delle richieste di informazioni avanzate da un consigliere comunale e le modalità di esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione dei poteri (artt. 4 e 14 del decreto legislativo n. 165/2001) sancita, per gli enti locali, dall'art. 107 del decreto legislativo n. 267/00 secondo cui i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo spettano agli organi di governo, essendo riservata ai dirigenti la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica.
Peraltro, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del Tuel il consiglio è l'organo di indirizzo e «di controllo politico-amministrativo»; sicché, il controllo del sindaco sull'operato anche dei singoli consiglieri si porrebbe in contrasto alla predetta normativa.
Nel caso di specie, pertanto, è opportuna la revisione delle disposizioni che impongono l'obbligo motivazionale a carico dei consiglieri richiedenti l'accesso e che affidano al sindaco il potere di verifica. Tuttavia l'ente, attraverso l'esercizio della propria potestà regolamentare, può optare, tra le varie alternative possibili, per la disciplina che, in concreto, meglio contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle condizioni più adeguate all'espletamento del mandato da parte dei consiglieri comunali e quelle di salvaguardia della funzionalità degli uffici e del normale espletamento del servizio da parte del personale dipendente, nonché quella di tutela della sicurezza degli uffici, del personale e del patrimonio (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Il gruppo cambia nome. Anche se lo statuto del comune non lo consente. È una scelta politica da considerarsi generalmente ammissibile.
Se le norme statutarie e regolamentari vigenti in un comune prevedono solo la modifica della composizione dei medesimi gruppi, è' ammissibile il cambio di denominazione dei gruppi consiliari?

L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art. 39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n. 267/2000).
La materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali nell'ambito dell'autonomia organizzativa riconosciuta, dall'art. 38 del citato Tuel, ai consigli comunali.
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze politiche presenti in consiglio comunale per effetto di dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza, comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari, ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali, nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i titolari della competenza a dettare norme, statutarie e regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, si tratta, tuttavia, di cambio di denominazione di un gruppo consiliare che, in assenza di una specifica disposizione statutaria o regolamentare, appare comunque rientrare nelle scelte proprie delle formazioni politiche presenti nel consiglio, che sono in genere da ritenersi ammissibili.
Peraltro, sebbene sia lo statuto che il regolamento dell'ente locale presentino, nella fattispecie in esame, una certa rigidità nella formazione dei gruppi, ancorandola alla denominazione della corrispondente lista di elezione, lo stesso statuto comunale consente la costituzione di gruppi non corrispondenti alle liste elettorali, purché siano composti da almeno tre membri.
Pertanto, può ritenersi che tale valore numerico costituisca il limite per la costituzione di gruppi con denominazioni diverse da quelle originarie (articolo ItaliaOggi del 31.03.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: NOLI (Savona) — Vincolo paesaggistico relativo alla via Aurelia (sede stradale e fasce laterali) (MIBACT, nota 08.03.2017 n. 7403 di prot.).
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Si riscontra la nota prot. 20630 del 07.12.2016 con la quale codesta Direzione, anche a seguito di uno specifico quesito posto dall'amministrazione comunale alla competente Soprintendenza, chiede un parere in merito alla corretta interpretazione del vincolo in oggetto, che tutela sia il sedime stradale dell'antica via Aurelia, sia le fasce laterali del sedime (per una profondità costante di 100 m dai due bordi stradali compresi tra le progressive chilometriche espressamente indicate) nelle quali vige il divieto assoluto di apporre cartelli stradali pubblicitari.
In particolare, il d.m. del 20.03.1956 dichiara di notevole interesse pubblico, ai sensi della legge 29.06.1939, n. 1497, "la sede stradale della via Aurelia", nel percorso ivi individuato. Per quanto riguarda invece le fasce laterali del sedime (non espressamente citate nel decreto di vincolo) nel testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 1956, a corredo del d.m., sono pubblicati gli estratti degli elenchi della Commissione provinciale di Savona, riferiti alle sedute del 20.10.1953 e del 17.02.1954. (...continua).

CORTE DEI CONTI

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno erariale per l’incarico esterno su attività gestibili dai dipendenti dell’ente.
Il Comune che delibera l’affidamento di un incarico esterno che si sarebbe potuto svolgere con il proprio personale provoca un danno erariale in quanto viola, con grave colpa, i principi di economicità, efficienza, efficacia e ragionevolezza –sanciti dall’articolo 1 della L. n. 241/1990 e dal Dlgs n. 165/2001- posti a fondamento del buon andamento della Pa, di cui all’articolo 97 della Costituzione.
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La domanda risarcitoria dedotta in giudizio trae origine dall’affidamento esterno di una prestazione d’opera professionale -consistente nella ricerca della “attivazione di risorse finanziarie non impositive”- in assenza dei requisiti e delle condizioni che ne giustificassero l’adozione, con conseguente danno corrispondente all’inutile costo -pari ad € 40.500,00- riconosciuto alla ditta affidataria a titolo di ingiusto corrispettivo, ed imputato agli odierni convenuti (componenti della Giunta Municipale che adottò la Deliberazione n. 90 del 06/10/2008) in ragione delle responsabilità derivanti dalle funzioni e dai compiti esercitati in concreto nella procedura di affidamento, alla cui formazione era stato inizialmente riconosciuto il contributo causale del Responsabile dell’Area Tecnica -ing. Fr.Di.- il cui successivo decesso aveva comportato, unitamente alla esclusione della imputazione di personale responsabilità, la conseguente rideterminazione del danno, oggi utilmente perseguibile, nella misura di € 32.400,00.
Il Collegio ritiene che la pretesa risarcitoria azionata da Parte Pubblica sia fondata, e ciò sulle seguenti considerazioni fattuali e giuridiche che ne determinano l’integrale accoglimento, anche alla stregua di un percorso valutativo che imponga “ex ante” la misurazione delle regolari condotte esigibili, in fattispecie concreta, dai convenuti.
Preliminarmente il Collegio intende soffermarsi sulla esatta qualificazione giuridica da conferire alla “fattispecie negoziale” individuata come produttiva del danno in contestazione, ancorché su siffatta questione le parti non abbiano sollevato alcuna specifica eccezione o rilievo “dubitativo”, essendosi le ragioni della controversia sviluppate lungo la traccia giuridico-normativa delineata dall’art. 7, co. 6, D.Lgs. n. 165/2001 disciplinante il conferimento di incarichi fiduciari esterni, nonostante, dagli atti di causa emerga qualche riferimento al sistema degli appalti di servizi.
Invero:
- la determina n. 320 Reg. Gen. del 14.10.2008, a firma dell’ing. Fr.Di. reca ad oggetto l’“affidamento prestazioni”;
- il successivo contratto del 16.10.2008 (sempre firmato dall’ing. Di.), dopo aver riportato in premessa il richiamo a “prestazione servizi ai sensi D.Lgs. n. 163/2006”, individua quale oggetto dello stesso la “prestazione di servizi”;
- lo stesso atto di citazione, nell’introdurre la descrizione della vicenda di danno, discorre di “…prestazione di servizi…”;
- e, in ultimo, la pur censurata modalità di affidamento dell’incarico in argomento è quella –“negoziata”– contemplata dal suddetto D.Lgs. n. 163/2006 disciplinante la materia degli appalti di servizi.
In realtà, “…l’incarico di prestazione di servizi…” affidato dal Comune di Stigliano alla ditta “L.S.”, lungi dal consentire la pacifica ed agevole qualificazione dello stesso nel novero del sistema degli “Appalti di servizi”, configura una vera e propria fattispecie di “Conferimento di incarico esterno”, con conseguente applicazione dei presupposti, delle condizioni e dei limiti, di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, posti a presidio della corretta utilizzazione di tale modulo operativo.
E ciò, indipendentemente dal nomen iuris emergente dagli atti del procedimento amministrativo e dagli scritti di causa, inidonei a vincolare il Giudice nell’esercizio del proprio dovere-potere di qualificare giuridicamente l’azione ed il rapporto dedotto in giudizio, con l’unico limite dell’integrità dei fatti e degli elementi costitutivi della domanda
(Cass. Sez. II nn. 15925/2007, 10922/2005 e 3980/2004; C.d.c. FVG, 20.02.2009, n. 73).
Del resto, che la fattispecie si inquadri nel “tipo” degli incarichi e delle consulenze esterne, v’è conferma nel richiamo, svolto in punto di motivazione del provvedimento di affidamento, alla rilevata insufficienza, o impreparazione, del personale organicamente inserito nell’Ente per l’assolvimento della prestazione oggetto di esternalizzazione.
In ogni caso, ed indipendentemente dalla qualificazione giuridica prospettata dalle parti, ma nel rispetto di quei principi di ragionevolezza non suscettibili di alcuna indebita interferenza col divieto di sindacato sulle scelte discrezionali dell’Amministrazione,
va precisato come ormai cogente ed obbligatorio si manifesti il dovere per ogni Pubblica Amministrazione di rispettare le regole che presidiano gli affidamenti di incarichi esterni –comunque formalizzati– regole, queste, copiosamente e partitamente enucleate dalla Corte dei conti nell’esercizio della funzione giurisdizionale e di controllo sulla scorta dell’impianto normativo di settore formatosi nel tempo, e che conferiscono a tale “scelta operativa” il carattere della eccezionalità, rispetto all’ordinario impiego delle risorse professionali ritraibili dal proprio organico.
Nella sintetizzata ottica organizzativa vanno quindi lette le limitazioni costituite dalla peculiarità dell’oggetto della prestazione conferita, dalla delimitazione temporale dell’incarico, dalla coerenza del compenso con la qualità e quantità del lavoro affidato e dalla inesistenza di figure professionali “interne” in grado di assolvere a quel compito, riscontrata mediante una reale, e dimostrata, ricognizione.
I limiti, invero stringenti, al conferimento di incarichi esterni, sommariamente richiamati, risultano essere stati platealmente superati nell’ambito dell’affidamento del servizio di “ricerca dei finanziamenti utilizzabili” alla ditta “L.S.” sotto il duplice profilo dell’assenza di tratti di particolare complessità o specialità della prestazione, e del reale, concreto ed attendibile riscontro della inidoneità del personale “intraneo” a svolgere il servizio di cui si predicava, e disponeva, la necessaria esternalizzazione.
E tanto, senza indugiare sui pur adombrati profili collusivi documentalmente, e sospettosamente, emergenti dalla perfetta coincidenza delle prerogative professionali vantate dalla ditta in sede di illustrazione della propria offerta, con le motivazioni poste a sostegno della Deliberazione giuntale n. 90 del 2008, la cui valenza di “mero” atto di indirizzo, pure eccepita in sede difensiva dagli autori della stessa per decolorarne la incidenza nella dinamica causativa del danno, è clamorosamente smentita dalla minuziosa e particolareggiata descrizione delle caratteristiche della prestazione oggetto di affidamento, sorprendentemente coincidenti con le specifiche distintive della ditta affidataria.
In realtà, osserva il Collegio in aperta condivisione delle stigmatizzazioni accusatorie sul punto,
l’attività ricognitiva delle disponibilità finanziarie “dormienti” o “silenti”, non appare connotata da quel tratto di alta complessità o specialità che imponga il ricorso ad operazioni di particolare competenza non esigibile da personale impiegato nella gestione del settore economico-finanziario di un Comune che, a maggior dire per quello di Stigliano, non contempla tra i propri compiti quello di intraprendere o perseguire attività o strategie di investimento, o di indebitamento, che in qualche modo, e con elevato rischio, vengono riservate a soggetti finanziari privati, certamente più avvezzi alla speculazione che alla pianificazione.
Ed a conforto di tale valutazione non vale tanto richiamare la pur facile constatazione del risultato -invero “ordinario”- ottenuto dalla “fragorosa” iniziativa intrapresa (la contabilizzazione dei mutui non utilizzati), quanto la manifesta irragionevolezza di una scelta che, già in una valutazione ex ante, avrebbe dovuto far intuire, in un’ottica di credibile verosimiglianza sorretta dalla doverosa conoscenza dei dati relativi alla esperienza concreta della gestione delle risorse di bilancio, la possibilità di definire in autonomia, e senza ricorso ad onerose consulenze esterne, tale passaggio ricognitivo, anche nella ritenuta necessarietà dello stesso per la pianificazione di nuovi e proficui investimenti.
Peraltro, non è di poco conto rilevare come, successivamente a tale riscontrata necessità, iniziative di identico tenore e contenuto fossero state con successo intraprese dal Comune (Determinazioni del Servizio di Urbanistica “lavorate” dal personale dell’Ente e finalizzate all’accensione dei mutui di € 235.000,00 e € 14.500,00): a conferma del fatto che “…da soli si poteva!...”.
Né è ravvisabile, come ampiamente argomentato dalla difesa, una condizione di insufficienza, numerica e qualitativa, del personale impiegato cui poter affidare tale incombenza.
In disparte la pur condivisa osservazione sulla mancanza di ogni reale e concreta indagine ricognitiva che valesse ad integrare il requisito richiesto dalla normativa di settore (ma sarebbe più corretto dire “richiesto dalle regole di una ragionata e prudente amministrazione”) deve rilevarsi come “L’assetto organizzativo del Comune ed il piano di assegnazione contingenti di personale” di cui alla Deliberazione n. 78 del 03/07/2003, non sostanzialmente modificata dal successivo Atto giuntale (Deliberazione n. 5 del 28/01/2009) intervenuto sul punto, contemplasse l’assegnazione al 2° Settore-Area Economico finanziaria di 9 unità di personale, 7 delle quali appartenenti alle categorie B e C, e quindi con qualifica di “istruttore” e “collaboratore”: pur volendo considerare il rilievo “incidente” dell’assenza del dirigente, la descritta dotazione organica non appare plausibilmente connotata da quella grave e cronica penuria di risorse umane che offra ragione della scelta di esternalizzazione effettuata.
Né in altri atti dell’Ente è dato rilevare un significativo segnale di “criticità” della organizzazione del personale che, nel settore coinvolto indirettamente nella intrapresa iniziativa, ne paventasse in qualche modo l’adottata soluzione “di rimedio”.
Sulla scorta delle dispiegate osservazioni,
il Collegio giudica la scelta di ricorrere ad un oneroso servizio consulenziale esterno per la ricognizione delle risorse finanziarie disponibili, intrapresa dalla Giunta Municipale di Stigliano con la Deliberazione n. 90 del 2008, come segnata da grave ed inescusabile superficialità, nonché produttiva di ingiustificato danno, costituito dal corrispettivo riconosciuto alla ditta affidataria.
Di tale danno, pari ad € 32.400,00 per effetto dello stralcio della quota inizialmente addebitata all’ing. Di., nelle more della vicenda giudiziaria deceduto, vanno dichiarati responsabili gli odierni convenuti che, in qualità di componenti della Giunta Municipale che adottò la delibera di affidamento, offrirono decisivo ed unico contributo causale all’avveramento dello stesso.
Somma comprensiva di rivalutazione monetaria. Interessi legali dalla sentenza sino al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Basilicata così decide:
   a)
condanna gli odierni convenuti DI GI. Le., BA.An., CA.Gi. e FE.Gi. al risarcimento, in parti uguali, in favore del Comune di Stigliano, della somma complessiva di € 32.400,00. Somma comprensiva di rivalutazione monetaria. Interessi legali dalla sentenza sino al soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Basilicata, sentenza 16.06.2017 n. 62).

APPALTI FORNITURE: Sulla possibilità di acquistare, al di fuori del Mercato elettronico (MePa) e della convenzione stipulata attraverso la Consip, il gasolio e la benzina per i mezzi comunali, a prezzi più vantaggiosi (-10%).
Obbligo Consip per le forniture di carburante anche senza risparmio di spesa.
Per rifornirsi di carburante il Comune non può approvvigionarsi in autonomia sul mercato e sottrarsi al meccanismo delle convenzioni-quadro, a prescindere dall'onerosità e dalla minor convenienza che l'acquisizione centralizzata di beni e servizi presso la Consip può comportare.

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Il Sindaco del Comune di Pettorazza Grimani (RO) ha presentato richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma 8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando un quesito sulla possibilità di acquistare, al di fuori del Mercato elettronico (MePa) e della convenzione stipulata attraverso la Consip, il gasolio e la benzina per i mezzi comunali, considerato che i prezzi applicati in forza della convenzione sarebbero molto più alti di quelli praticati dai locali distributori di carburante, con una differenza di oltre il 10%.
...
Il quesito formulato dal Sindaco del Comune di Pettorazza Grimani, tuttavia, poiché espresso in termini non propriamente generali ed astratti, può essere affrontato limitatamente all’interpretazione delle summenzionate disposizioni ed all’ambito di operatività delle specifiche deroghe previste in materia.
L’acquisizione centralizzata di beni e servizi da parte delle pubbliche amministrazioni mediante le c.d. centrali di committenza e la Consip, in particolare (individuata dall’art. 58 della L. 388/2000 quale centrale di acquisti nazionale), ossia mediante convenzioni-quadro, già prevista dalla L. n. 488/1999, è stata ulteriormente disciplinata dalla L. n. 296/2006, la quale ha imposto alle Amministrazioni statali il ricorso a tali convenzioni per qualunque categoria merceologica, sancendo l’obbligo per la quasi totalità delle amministrazioni statali e periferiche di ricorrere al Mercato Elettronico della PA (MePa) per gli acquisti sotto la soglia di rilievo comunitario (art. 1, commi 449-450).
Successivamente, il D.L. n. 95/2012 (conv. nella L. n. 135/2012) ha esteso a tutte le pubbliche amministrazioni ed alle società inserite nel conto economico consolidato della PA l’obbligo di utilizzare le convenzioni Consip per particolari categorie merceologiche di beni, compresi i carburanti, prevedendo la nullità dei contratti stipulati in violazione di tale obbligo, oltre ad una connessa ipotesi di responsabilità disciplinare e per danno erariale in capo agli autori della violazione medesima.
Da ultimo, la L. n. 208/2015 ha introdotto una serie di disposizioni, sempre in materia di acquisti delle pubbliche amministrazioni, disciplinando ulteriormente la possibilità di deroga al regime dianzi sinteticamente descritto, che era stata introdotta dalla L. n. 228/2013.
In primo luogo,
il comma 510 dell’art. 1 della Legge di stabilità per il 2016, ha riconosciuto alle pubbliche amministrazioni obbligate ad approvvigionarsi attraverso le convenzioni Consip -o attraverso quelle stipulate con altre centrali di committenza regionali- la facoltà di procedere ad acquisti autonomi, esclusivamente nel caso in cui “il bene o il servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al soddisfacimento dello specifico fabbisogno dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche essenziali” ed a condizione che vi sia la previa autorizzazione motivata dell’organo di vertice amministrativo, da trasmettere al competente ufficio della Corte dei conti.
In secondo luogo,
il comma 494 del medesimo art. 1 della citata Legge di stabilità, modificando il comma 7 dell’art. 1 del D.L. n. 95/2012, ha fatta salva la possibilità, introdotta dall’art. 1, comma 151, della L. n. 228/2013, di procedere ad affidamenti al di fuori della convenzione Consip conseguenti “ad approvvigionamenti da altre centrali di committenza o a procedure di evidenza pubblica”, ma ha disposto, altresì, che gli stessi debbano prevedere “corrispettivi inferiori almeno del 10 per cento per le categorie merceologiche telefonia fissa e telefonia mobile e del 3 per cento per le categorie merceologiche carburanti extra-rete, carburanti rete, energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip SpA e dalle centrali di committenza regionali”.
La disposizione, inoltre, ha confermato la necessità di apporre ai relativi contratti una clausola risolutiva espressa, fissando, però, ad una soglia (più del 10 per cento) la percentuale di maggior vantaggio economico ai fini dell’adeguamento del contraente ai “migliori corrispettivi” offerti dalla Consip ed ha individuato un “periodo sperimentale” di tre anni (dal 01.01.2017 al 31.12.2019), nel quale la facoltà per le amministrazioni di svincolarsi dalle convenzioni Consip non è operante.
La ratio delle modifiche appena illustrate è quella di rafforzare il sistema di acquisizione centralizzata, disincentivando gli acquisti autonomi anche attraverso la “disapplicazione” della deroga con riguardo ad alcune categorie merceologiche, tra le quali proprio i carburanti.
Così definito il quadro normativo di riferimento,
occorre accertare se ed in che termini un ente locale possa effettuare acquisti di carburante in via diretta, sottraendosi, cioè, al meccanismo della convenzione-quadro, ove questa comporti l’applicazione di un corrispettivo (prezzo) sensibilmente più elevato rispetto a quello rinvenibile sul mercato locale, avente, tra l’altro, il vantaggio della vicinanza dei luoghi di rifornimento (distributori presenti sul territorio comunale).
In merito si sono già espresse altre Sezioni regionali di controllo, soffermandosi, in particolare, sulla interpretazione delle citate norme derogatorie (Sezione regionale di controllo per l’Emilia Romagna, parere 20.04.2016 n. 38 e Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia, parere 25.03.2016 n. 35).
La prima, ossia quella che prevede la possibilità di procedere, in generale, ad acquisti autonomi, laddove il bene o servizio offerto in forza della convenzione non soddisfi lo specifico fabbisogno dell’amministrazione acquirente (comma 510 della L. n. 208/2015), correttamente è stata ritenuta non applicabile al caso di acquisto di beni fungibili (qual è, di norma e per natura, il carburante) (Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia Giulia, deliberazione cit.). La seconda, che riguarda, invece, il reperimento sul mercato di alcune categorie di prodotti, tra i quali proprio il carburante (art. 1, comma 7, del D.L. n. 95/2012, come modificato dal comma 494 della L. n. 208/2015) è senz’altro applicabile.
La deroga, come emerge dal testo di tale ultima disposizione, è sottoposta a limiti ed a condizioni ben precisi, concretizzandosi nell’alternativa del ricorso ad altre centrali di committenza o dell’esperimento di apposita procedura ad evidenza pubblica. E’ richiesto, in entrambi i casi, il conseguimento di un risparmio apprezzabile che, per quanto riguarda il carburante (ed altre tipologie di beni individuati dal legislatore), non può essere inferiore del 3 per cento rispetto ai prezzi fissati nelle convenzioni Consip.
Non esistono, allo stato, possibilità di approvvigionamento alternative diverse da quelle previste da tali disposizioni, le quali, tra l’altro, avendo carattere derogatorio e, quindi, eccezionale, devono considerarsi di stretta interpretazione.
Per quanto riguarda l’acquisto di carburante, in generale ed ad eccezione degli esercizi 2017, 2018 e 2019, dunque, il ricorso diretto al mercato, laddove sia suscettibile di determinare un effettivo risparmio di spesa, potrà avvenire in presenza dei presupposti individuati dal legislatore e nei limiti da quest’ultimo fissati.

Ne consegue che,
qualora una amministrazione pubblica non volesse far ricorso ad altre centrali di committenza per l’acquisto di carburante, sottraendosi al meccanismo delle convenzioni-quadro, e volesse, invece, stabilire un rapporto diretto con un fornitore, non potrebbe proprio farlo nel presente esercizio (come negli altri due successivi), mentre al di fuori del periodo di sospensione della deroga, avrebbe l’obbligo di individuare tale fornitore mediante procedura ad evidenza pubblica, secondo i principi generali e secondo le modalità previste dal citato comma 494 dell’art. 1 della L. n. 208/2015.
Ciò a prescindere dall’onerosità e dalla minor convenienza che, nel caso concreto rappresentato dall’ente, sono certamente imputabili al sistema di acquisto previsto dalle norme vigenti, alle quali codesta Sezione, al pari delle amministrazioni pubbliche destinatarie della normativa medesima, tuttavia, è tenuta a dare applicazione (Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto, parere 29.05.2017 n. 348).

CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI: Danno erariale al sindaco per l’affidamento diretto di incarichi legali.
Secondo i magistrati contabili l'affidamento in via diretta, da parte del sindaco, del patrocinio legale ad avvocati del libero foro, in presenza all'interno dell'ente di una propria avvocatura civica, costituisce colpa grave tale da generare danno erariale.
Una possibile ed eccezionale scelta di avvocati all'esterno, resta, in ogni caso, attribuita in via esclusiva alla competenza dell'organo gestionale (avvocatura) e non all'organo politico che, avendo proceduto con un illegittimo affidamento fiduciario, ne subisce le sorti in fatto di responsabilità erariale trattandosi di spesa inutilmente sostenuta dall'ente. In altri termini, i citati incarichi effettuati dal sindaco, rientrando in una scelta di gestione attiva, ne radicano le conseguenze e le relative responsabilità.

Sono queste le conclusioni cui è pervenuta la Corte dei conti, Sez. giurisdiz. per il Lazio con la sentenza 29.05.2017 n. 124.
Il fatto
La causa amministrativa che vedeva esposta l'amministrazione comunale, con rilevanti risarcimenti di danni richiesti da una ditta aggiudicataria a cui era stata successivamente disposta la revoca dell'aggiudicazione, aveva condotto il sindaco ad affidare in via diretta la difesa dell'ente a due avvocati esterni del libero foro, pur in presenza di una avvocatura interna. L'amministrazione, a fronte delle richieste avanzate dai ricorrenti e della possibile soccombenza l'ente, addiveniva a una transazione con l'aggiudicatario estromesso, transazione considerata vantaggiosa per l'ente.
In considerazione della mancata preventiva definizione degli onorari da corrispondere ai legali esterni, si addiveniva a un accordo sulle somme da corrispondere, con il successivo riconoscimento di un debito fuori bilancio da parte del consiglio comunale per circa mezzo milione di euro. A fronte di tale scelta fiduciaria e del rilevante importo corrisposto, la Procura rinviava a giudizio di conto il sindaco stimando il danno erariale pari alla differenza tra quanto corrisposto ai legali esterni e quanto invece da corrispondere agli avvocati interni (incentivi) in caso di assegnazione a questi ultimi della difesa dell'ente.
La difesa dell'ex sindaco
Nelle proprie memorie di comparsa l'ex primo cittadino si difende precisando come l'assistenza esterna era giustificata dalla rilevanza economica del risarcimento richiesto, tanto che la transazione, successivamente raggiunta, era avvallata anche dall'avvocatura interna, inoltre gli onorari pagati agli avvocati esterni prevedevano una decurtazione importante, rispetto a quanto inizialmente richiesto e, in ultimo, se di responsabilità doveva parlarsi la stessa non poteva non trovare altri possibili interlocutori a partire dai consiglieri comunali che avevano votato il riconoscimento e quindi l'utilità della citata prestazione, oltre ai responsabili dei servizi che ne avevano sottoscritto i pareri di conformità contabile e tecnica, ivi inclusa la stessa avvocatura civica che ne aveva giudicato la congruità.
Le motivazioni del collegio contabile
Secondo il collegio contabile la responsabilità del danno erariale, causato alle casse dell'ente locale, discende in via preliminare dall'illegittimo conferimento diretto effettuato dal sindaco, ossia in assenza di una comprovata e motivata impossibilità di assegnazione della difesa dell'ente alla propria avvocatura civica (composta da ben 24 legali interni). Altro aspetto fondamentale, che radica la responsabilità al primo cittadino, è soprattutto la circostanza che l'iniziativa per l'attribuzione dell'incarico esterno era stata assunta dal sindaco mediante una ingerenza nell'attività gestionale e tale che sul medesimo non poteva non gravare anche un onere di verifica della legittimità delle modalità con le quale si intendeva conferire i citati incarichi.
In altri termini, se l'incarico esterno fosse stato attribuito dal responsabile dell'avvocatura civica, lo stesso avrebbe dovuto necessariamente motivare l'impossibilità ad assolvere con la struttura interna il citato incarico, oltre alle necessarie ed obbligatorie attività gestionali, ivi comprese quelle relative all'affidamento degli incarichi di patrocinio legale all'esterno, mentre nel caso di specie il Sindaco, inserendosi indebitamente nella gestione attiva, non può non subirne le conseguenze degli incarichi illegittimi attribuiti in via fiduciaria.
Il Collegio contabile considera, pertanto, le somme corrisposte ai citati legali del libero foro come diminuzione patrimoniale subita dall'ente con ripristino della tutela contabile in capo al convenuto, applicando, tuttavia, la riduzione di 1/3 delle somme che avrebbero dovute essere poste in capo anche ad altri soggetti, non chiamati dalla Procura contabile in giudizio, ma che in ogni caso hanno partecipato alla successiva liquidazione delle somme non dovute mediante il citato riconoscimento del debito fuori bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 05.06.2017).

INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGOAffinché l'affidamento di un incarico professionale all'esterno dell'ente non sostanzi un danno erariale, la giurisprudenza contabile ha precisato principi e criteri da osservare, poi positivizzati dal legislatore, quali:
   a) i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza dell'Amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale dipendente e conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato amministrativo;
   b) l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività continuativa bensì la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento del quale debbono costituire l'oggetto espresso;
   c) l'incarico si deve caratterizzare per la specificità e la temporaneità, dovendosi altresì dimostrare l'impossibilità di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo;
   d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge;
   e) il compenso connesso all'incarico sia proporzionato all'attività svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
   f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei requisiti previsti;
   g) l'organizzazione dell'Amministrazione deve essere comunque caratterizzata per il rispetto dei princìpi di razionalizzazione, senza duplicazione di funzioni e senza sovrapposizione all'attività ed alla gestione amministrativa, per la migliore utilizzazione e flessibilità delle risorse umane nonché per l'economicità, trasparenza ed efficacia dell'azione amministrativa, per il prioritario impiego delle risorse umane già esistenti all'interno dell'apparato;
   h) l'incarico non deve essere generico o indeterminato, al fine di evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli organici dell'Ente, il che presuppone la previa ricognizione e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli organici delle specifiche professionalità richieste;
   i) i criteri di conferimento non devono rivelarsi generici, perché la genericità non consente un controllo sulla legittimità dell'esercizio dell'attività amministrativa di attribuzione degli incarichi.

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Con riguardo all’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa si reputa che la condotte del convenuto (sindaco) sia stata connotata da colpa grave evincibile dalla violazione di disposizioni normative chiare, non connotate da complessità esegetiche in ordine al conferimento di incarichi esterni.
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4. Nel merito, il Collegio deve esaminare la vicenda descritta nella premessa in fatto e procedere alla verifica della sussistenza degli elementi tipici della responsabilità amministrativa che si sostanziano in un danno patrimoniale, economicamente valutabile, arrecato alla pubblica amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e l'evento dannoso, nonché, nella sussistenza di un rapporto di servizio fra colui che lo ha determinato e l'ente danneggiato.
5. Con riferimento all’elemento oggettivo va espressa condivisione in ordine all’an del danno erariale contestato dall’organo requirente e per le considerazioni dallo stesso espresse.
Si premette che il quadro normativo di riferimento è rappresentato:
   · dall’art. 13, comma 5, del "Regolamento sull'Ordinamento degli Uffici e dei Servizi" approvato con deliberazione della Giunta Comunale n. 62 del 29.10.2002, e vigente all’epoca dei fatti;
   · dall'art. 6, comma 1, del "Regolamento di Organizzazione per l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio, resistenza alle liti, conciliazione e transazione" approvato con deliberazione della Giunta Comunale n. 182 del 27.01.2001 e tuttora vigente;
   · in termini generali, dall’art. 110 del Tuel e dall’art. 7, comma 6 e seguenti, del decreto legislativo n. 165/2001.
Sempre
in subiecta materia la giurisprudenza contabile ha precisato principi e criteri da osservare, poi positivizzati dal legislatore con le disposizioni normative richiamate:
   a) i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza dell'Amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale dipendente e conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato amministrativo;
   b) l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività continuativa bensì la soluzione di specifiche problematiche già individuate al momento del conferimento del quale debbono costituire l'oggetto espresso;
   c) l'incarico si deve caratterizzare per la specificità e la temporaneità, dovendosi altresì dimostrare l'impossibilità di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo;
   d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge;
   e) il compenso connesso all'incarico sia proporzionato all'attività svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
   f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei requisiti previsti;
   g) l'organizzazione dell'Amministrazione deve essere comunque caratterizzata per il rispetto dei princìpi di razionalizzazione, senza duplicazione di funzioni e senza sovrapposizione all'attività ed alla gestione amministrativa, per la migliore utilizzazione e flessibilità delle risorse umane nonché per l'economicità, trasparenza ed efficacia dell'azione amministrativa, per il prioritario impiego delle risorse umane già esistenti all'interno dell'apparato;
   h) l'incarico non deve essere generico o indeterminato, al fine di evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli organici dell'Ente, il che presuppone la previa ricognizione e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli organici delle specifiche professionalità richieste;
   i) i criteri di conferimento non devono rivelarsi generici, perché la genericità non consente un controllo sulla legittimità dell'esercizio dell'attività amministrativa di attribuzione degli incarichi.

Ciò posto,
l’illegittimità del conferimento di incarico in esame si evince:
   ·
dalla chiara violazione delle disposizioni regolamentari disciplinanti l’istituto, in base alle quali apparteneva al Capo dell'Avvocatura Comunale sia il potere di proposta di conferimento di incarichi professionali ad avvocati del libero foro (art. 13, comma 5, del "Regolamento sull'Ordinamento degli Uffici e dei Servizi”), sia il potere di scelta del legale esterno (all'art. 6, comma 1, "Regolamento di Organizzazione per l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio, resistenza alle liti, conciliazione e transazione"), mentre, nella fattispecie in esame, la nomina dei legali esterni è avvenuta mediante la procura a firma del Sindaco Gi.Al. estesa a margine dell'atto di costituzione del Comune di Roma nel giudizio avanti al TAR Lazio;
   ·
dall’omessa –seria e concreta- preliminare verifica in ordine alla effettiva impossibilità di ricorrere a risorse interne, imposta sia dalle disposizioni regolamentari richiamate che, più in generale, da norme di legge ordinaria. Al riguardo anche i principi di diritto affermati dalle Sezioni Riunite di questa Corte (delib. n. 6/2005) espressi nel senso che “deve essere adeguatamente motivato con specifico riferimento all’assenza di strutture organizzative o professionalità interne all’ente in grado di assicurare i medesimi servizi. L’affidamento dell’incarico deve essere preceduto, perciò, da un accertamento reale, che coinvolge la responsabilità del dirigente competente, sull’assenza di servizi o di professionalità, interne all’ente, che siano in grado di adempiere l’incarico”;
   · dalla circostanza –ben posta in rilievo dall’organo requirente- che all'epoca dei fatti, nel mese di febbraio 2009, l'Avvocatura Civica romana disponeva di ben ventiquattro avvocati in servizio permanente.
La grave carenza istruttoria rilevata milita, peraltro, nel senso che la nomina dei legali esterni sia stata frutto di scelta fiduciaria da parte dell'allora Sindaco Al..
5.1 Non inficiano le conclusioni raggiunte le pur suggestive argomentazioni difensive volte ad evidenziare:
   · la estrema rilevanza ed importanza (anche economica) della questione, giacché tale aspetto non rende legittimo il conferimento dell’incarico effettuato in palese violazione di disposizioni legislative e regolamentari;
   · l’assenza di segnalazione da parte del Capo dell’Avvocatura in ordine a una possibile violazione procedimentale del conferimento dell’incarico che -pur valutabile in sede di quantificazione del danno erariale imputabile- non ha valenza esimente dalla responsabilità amministrativa in ragione della esigibilità di una condotta informata ai principi di diligenza da parte del “primo cittadino”, e declinabile nella vicenda in esame in termini di preliminare verifica in ordine alla legittimità delle modalità del conferimento di incarico che si intendeva effettuare;
   · l’assenza di danno erariale asserita affermando che il compenso professionale era correlato alla prestazione, in quanto siffatta tesi sovrappone impropriamente due piani, quello civilistico riguardante l’esecuzione dell’incarico e che vede come Parti l’Ente locale e i legali interessati, e quello contabile nel cui ambito si è consumata la illegittima procedura di conferimento e nel quale vengono in rilievo l’Ente nella veste di danneggiato e il dipendente in quella di presunto danneggiante;
   · l’assenza di danno erariale affermata -sotto diverso profilo- sull’assunto secondo cui l’Ente locale non avrebbe conseguito un risparmio ove l’incarico fosse stato svolto in via esclusiva dagli Avvocati interni dell’Ente, in quanto asserzione puramente ipotetica;
   · l’interruzione di ogni nesso causale tra il presunto danno ed il comportamento tenuto dal convenuto che sarebbe stata determinata dall’adozione della delibera n. 64/2012, in quanto tale erronea tesi scaturisce dall’omessa distinzione tra la delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio -che va a sanare un rapporto a contenuto patrimoniale tra l’Ente e un soggetto esterno- doverosa ex art. 191 del Tuel e la condotta illegittima e dannosa del convenuto foriera di responsabilità amministrativa;
   · l’impossibilità, da parte del sindaco, di essere a conoscenza del regolamento dell’Ente articolato e complesso disciplinante la materia, in quanto tale assunto –in astratto condivisibile- non tiene conto che –in concreto- nella fattispecie l’iniziativa per l’attribuzione dell’incarico era assunta dal sindaco con una ingerenza nell’attività gestionale e sul medesimo non poteva non gravare anche un onere di verifica della legittimità delle modalità con le quale si intendeva conferirlo;
   · l’autentica di firma apposta consiste nell’attestazione che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza da persona la cui identità è stata previamente accertata conferendo anche certezza alla data, ma non ha valenza di condivisione del contenuto dell’atto.
6. Diverso apprezzamento si ritiene debba esprimersi in ordine alla quantificazione del danno erariale -operata dall’organo requirente in euro 468.720,00- che deve tener conto del contributo causale di altri soggetti non evocati in giudizio, sicché il danno risarcibile in favore dell’Ente locale viene rideterminato in euro 312.480,00, oltre alla rivalutazione monetaria dalla data (02.07.2013) dell’esborso.
7.
Con riguardo all’elemento soggettivo della responsabilità amministrativa si reputa che la condotte del convenuto sia stata connotata da colpa grave evincibile dalla violazione di disposizioni normative chiare, non connotate da complessità esegetiche in ordine al conferimento di incarichi esterni.
8. Si reputano, inoltre, sussistenti, nella fattispecie in esame, anche gli altri elementi della responsabilità amministrativa, del rapporto di servizio –peraltro non contestato- e del nesso di causalità.
9. In conclusione, accertata l’esistenza di tutti i requisiti costitutivi della responsabilità amministrativa, la domanda della Procura va accolta per le ragioni da questa prospettate ma nella diversa misura dal Collegio determinata oltre a rivalutazione monetaria e interessi legali dalla data della sentenza al soddisfo.
10. Alla soccombenza segue anche l’obbligo del pagamento delle spese di giudizio.
P. Q. M.
La Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione reiette
RESPINGE
l’istanza di integrazione del contraddittorio.
CONDANNA
per l’addebito di responsabilità amministrativa di cui all’atto di citazione in epigrafe, il signor Gi.Al. al pagamento, in favore del comune di Roma Capitale, di complessivi euro 312.480,00, oltre alla rivalutazione monetaria dalla data del 02.07.2013.

Tale somma sarà gravate di interessi legali a far data dalla pubblicazione della presente sentenza all’effettivo soddisfo (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 29.05.2017 n. 124).

APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI:  Risponde di danno erariale il sindaco che assume iniziative per il comune senza seguire l'iter formale giuridico contabile.
Risponde di danno erariale il sindaco che, con una condotta del tutto difforme dalla normativa vigente, assume iniziative estranee alle finalità istituzionali assegnate dalla legge.
Nell'ordinamento degli enti locali le obbligazioni contratte per acquisto di beni e servizi senza atto di impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio ovvero senza attestazione di copertura finanziaria non vincolano l'Amministrazione, bensì intercorrono tra il terzo e l'amministratore o funzionario che le ha stipulate e/o ne ha consentito l'esecuzione.
Va, pertanto, dichiarato danno ingiusto il pagamento -a titolo di debito fuori bilancio- delle somme richieste per prestazioni non collegate all'esercizio di funzioni o servizi di competenza dell'ente e delle somme cui non corrisponda un "arricchimento" dell'ente ai sensi dell'art. 2041 c.c.
(Corte dei conti, Sez. giurisdiz. Toscana, sentenza 23.05.2017 n. 133 - massima tratta da www.dirittodeiservizipubblici.it).
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MASSIMA
Non essendo state poste questioni preliminari, il Collegio entrando nel merito ritiene che la richiesta di parte attorea sia fondata e sia da accogliere nei sensi di cui in motivazione.
La Procura contesta all’odierno convenuto di aver assunto una iniziativa estranea alle finalità istituzionali dell’ente, con un uso della comunicazione istituzionale che, nella specie, poteva definirsi comunicazione politica.
Osserva il Collegio che nell’ambito degli indirizzi di modernizzazione delle Amministrazioni Pubbliche assume rilevanza l’adozione di iniziative e strumenti di trasparenza, relazione, comunicazione ed informazione diretti a realizzare un rapporto aperto con i cittadini.
Alcune iniziative di legge, e tra esse la legge 07.08.1990 n. 241 e la legge 07.06.2000 n. 150, nell’ottica di tale orientamento, hanno introdotto principi operativi e strutture organizzative volti a questo scopo.
Tra le iniziative adottate dalle Amministrazioni vi è quello della rendicontazione sociale che risponde alle esigenze conoscitive dei diversi interlocutori (singoli cittadini, famiglie, imprese, associazioni, altre istituzioni pubbliche e private), cui è consentito di comprendere e valutare gli effetti dell’azione amministrativa.
Nella specie la base normativa primaria di riferimento è costituita dall’art. 1 della l. 07.06.2000 n. 150 che prevede (comma 5): ”le attività di formazione e comunicazione sono, in particolare, finalizzate a: a) illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni normative al fine di facilitarne l’ applicazione; b) illustrare le attività delle istituzioni e il loro funzionamento; c) favorire l’accesso ai servizi pubblici, promuovendone la conoscenza; d) promuovere conoscenze allargate ed approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale; e) favorire processi interni di semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli apparati amministrativi nonché la conoscenza dell’avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi; f) promuovere l’ immagine delle amministrazioni , nonché quella dell’ Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e visibilità ad eventi di importanza locale, regionale, nazionale ed internazionale”.
Date queste finalità,
il volume dato alle stampe dal sig. Au.Pe. non appare certamente sussumibile in una delle tipologie previste dalla normativa e la condotta identifica, secondo la parte attorea, un danno erariale in quanto costituente un atto politico che può dichiararsi di parte e imputato e traslato come costo sul bilancio dell’Amministrazione.
Osserva il Collegio che
senza dubbio non appare sempre agevole lo scrutinio del contenuto della pubblicazione con la individuazione dell’assenza della finalità della comunicazione istituzionale e la strumentalizzazione della pubblicazione al fine della propaganda politica atteso che la propaganda (politica) in quanto caratterizzata da una valenza manipolativa e persuasiva -poiché il messaggio che a suo mezzo viene trasmesso ha la finalità di provocare l’adesione dei destinatari verso l’opzione enunciata dall’autore della comunicazione– che si distingue concettualmente dall’informazione, ma la distinzione, agevole in astratto, può in concreto presentare difficoltà nei casi limite: cfr. Cass. Sez. I Civ. 20.01.1998 n. 477.
Tuttavia in ogni caso
la finalità istituzionale disegnata dal quadro normativo suddetto è stata implementata dal convenuto con un uso scorretto delle risorse finanziarie e con consequenziale danno erariale per avere il soggetto convenuto violato l’iter formale giuridico contabile destinato ad esitare nel previo impegno di spesa, siccome è confermato dalla nota del segretario comunale del 23.10.2014, il quale confermava che non risultavano agli atti del Comune impegni di spesa inerenti l’acquisto del libro di cui si tratta.
In altri termini
il convenuto ha assunto, con condotta gravemente colposa, un’iniziativa che non solo può qualificarsi estranea alle finalità istituzionali assegnate dalla legge, in conseguenza della decisione di impegnare i fondi pubblici per la pubblicazione del volume in assenza dei presupposti previsti dalla richiamata normativa, ma ha agito anche in assenza di un impegno di spesa violando i doverosi passaggi procedurali giuscontabili comportamento sanzionato sistematicamente dalla giurisprudenza contabile (cfr. Sez. I Centr. 18.01.2016 n. 22 e Sez. II Centr. 05.04.2002 n. 114), con consequenziale assunzione di un debito fuori bilancio causativo di un danno erariale.
Pertanto, vista la ritenuta responsabilità per i menzionati motivi, gli oneri sostenuti dal Comune costituiscono danno erariale in quanto i relativi oneri non potevano essere posti a carico del Comune e devono essere rifusi dal convenuto che ha adottato l’iniziativa in questione: cfr. Sezione giurisdizionale Trentino Alto Adige 13.05.2015 n. 14.
Indiscusso il rapporto di servizio sussistente per il sindaco Pe., il danno erariale deriva e si configura definitivamente in forza del decreto ingiuntivo n. 36/2013 la cui cogenza esclude ogni responsabilità di coloro che espressero voto favorevole alla adozione della citata delibera n. 49/2014.
Osserva correttamente la parte attorea che il vincolo giuridico derivante dall’ obbligazione (di pagamento del corrispettivo) contratta nei confronti della Fe.Ed.Ar. srl, sarebbe gravato, come per legge, sul sig. Pe. se vi fosse stata opposizione al decreto ingiuntivo in modo da impedire allo stesso di divenire definitivo con traslazione dei costi sul bilancio pubblico.
Infatti
nell’ordinamento degli enti locali le obbligazioni contratte per acquisto di beni e servizi senza atto di impegno contabile registrato sul competente capitolo di bilancio ovvero senza attestazione di copertura finanziaria non vincolano l’Amministrazione, bensì intercorrono tra il terzo e l’amministratore o funzionario che le ha stipulate e/o ne ha consentito l’esecuzione (art. 23 D.L. n. 66/1989, riprodotto nell’ art. 37 D.Lgs. 77/1995 e nell’art. 191 D.Lgs. n. 267/2000), né vi è una parte “riconoscibile” o “riconosciuta” da parte dell’Ente che avrebbe potuto sanare l’assenza dell’atto di impegno con esperibilità da parte del privato di un’azione di indebito arricchimento antecedentemente non consentita (cfr. Sez. I Centr. 27.03.2008 n. 7966).
Va, pertanto, dichiarato danno ingiusto il pagamento –a titolo di debito fuori bilancio- delle somme richieste per prestazioni non collegate all’esercizio di funzioni o servizi di competenza dell’ente e delle somme cui non corrisponda un “arricchimento” dell’ente ai sensi dell’art. 2041 c.c..
Il danno erariale, sotto il profilo dell’efficienza causale, va attribuito all’odierno convenuto in quanto autore della condotta del tutto difforme dalla normativa vigente.
Il sig. Au.Pe. deve, pertanto, essere condannato al pagamento, in favore del Comune di Montescudaio, della somma sopra indicata, della somma di € 7.640,34, oltre rivalutazione monetaria fino alla data di pubblicazione della presente pronuncia, e con gli interessi legali sulla somma così rivalutata decorrenti dalla decisione sino al soddisfo.

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: Danno erariale per la giunta che avvia una lite temeraria.
L'opposizione al decreto monitorio, privo degli elementi essenziali per essere accolto, costituisce lite temeraria i cui costi supplementari sopportati dall'amministrazione possono essere posti a carico dell'organo collegiale che ne deliberi la resistenza in giudizio. A fronte di un caso tipico di lite temeraria, dettagliatamente dimostrata dalla Procura e successivamente dal collegio contabile, sono stati condannati per danno erariale sia il sindaco che gli altri componenti della Giunta comunale.

Tali sono le conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, con la sentenza 11.05.2017 n. 107 .
La vicenda
A causa dei mancati pagamenti per alcuni lavori effettuati, l'impresa notificava al Comune un provvedimento monitorio nel quale si ingiungeva il pagamento che, oltre della parte capitale, comprendeva anche gli interessi moratori per ritardato pagamento nonché le spese dello stesso decreto monitorio. Avverso il citato decreto ingiuntivo proponeva, tuttavia, ricorso il Comune con delibera della giunta comunale.
Il Tribunale respingeva l'opposizione e condannava il Comune alle ulteriori spese di giudizio. La Procura rinviava, pertanto, a giudizio l'intera Giunta per rispondere del danno erariale causato al Comune a fronte delle maggiori spese corrisposte e quantificate pari all'importo complessivamente pagato con sola detrazione della quota del capitale in ogni caso dovuta all'impresa.
La difesa dei convenuti
I convenuti, oltre alla richiesta di prescrizione, si difendono evidenziando come non si trattasse di lite temeraria, tanto che sul punto nulla veniva evidenziato dal Tribunale, inoltre non vi era violazione di nessuna delle norme imperative tali da generare una tipizzata responsabilità erariale.
La sentenza del collegio contabile
Avuto riguardo alla prescrizione sostenuta dai convenuti, evidenzia il Collegio contabile come la stessa coincida con l'effettiva diminuzione patrimoniale del Comune, realizzatasi solo al momento del pagamento disposto a seguito della citata sentenza e non con la data della deliberazione che aveva disposto la resistenza in giudizio al decreto ingiuntivo. Nel merito domanda di risarcimento del danno a titolo di responsabilità amministrativa per lite temeraria è fondata, per le seguenti ragioni:
   • dall'esame degli atti emerge come il finanziamento dei citati lavori avrebbe dovuto essere disposto con mutuo contratto con la Cassa Depositi e Prestiti, ma il Comune, non avendo trasmesso la documentazione necessaria nei termini, non riceveva alcun finanziamento dall'istituto;
   • con successiva nota il Comune inviava la documentazione all'Istituto ma questi rispondeva in modo negativo in quanto trattandosi di nuovi lavori vi era assenza del provvedimento di devoluzione del mutuo richiesto;
   • mentre il Comune provvedeva alla richiesta del citato finanziamento la ditta terminava i lavori e a seguito della richiesta del pagamento, il Consiglio comunale negava la proposta di finanziamento con risorse a carico del bilancio comunale.
Effettuata la citata ricostruzione, appare evidente la responsabilità dell'intero organo esecutivo nel proporre opposizione al citato decreto ingiuntivo, con ovvia soccombenza in giudizio e aggravio di spese per l'ente. Il danno patito dall'ente, come quantificato dalla Procura, deve essere ripartito in parti uguali tra i convenuti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.05.2017).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Danno erariale per il responsabile finanziario che ritarda i pagamenti ai fornitori.
Condanna a carico del responsabile finanziario che ha ritardato il pagamento delle fatture emesse dalla società creditrice, debitamente vistate e provviste di fondi a destinazione vincolata, derivanti da mutuo Cassa depositi e prestiti.

È questo l'esito della sentenza 10.04.2017 n. 69 della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Lazio, scaturita dopo che la sezione di controllo aveva inviato alla Procura informativa di danno arrecato a un Comune per maggiori somme corrisposte a una società rispetto al valore dei lavori che erano stati commissionati e regolarmente eseguiti.
La vicenda
Il caso è riferibile a un affidamento di lavori per il rifacimento delle strade urbane ed extraurbane per un importo complessivo contrattuale di 368.782 euro oltre Iva, per il quale la società non ha ricevuto il pagamento tempestivo di alcune fatture, nonostante gli esiti favorevoli del contenzioso in tutti i gradi di giudizio.
Solo a seguito della conclusione del lungo procedimento giudiziale, l'appaltatore ha visto soddisfatte le proprie ragioni. Oggetto del giudizio sono i maggiori oneri derivanti dal contenzioso (interessi legali e spese di lite) che l'amministrazione ha liquidato alla società. Le somme aggiuntive rappresentano infatti un danno per l'ente rispetto al costo dei lavori commissionati ed eseguiti.
Il danno
In particolare, le somme sono state riconosciute a seguito di atto transattivo nel quale le parti si sono accordate per la definizione delle spettanze con pagamento, di 56.387,39 euro, pari alla metà delle somme dovute a titolo di interessi, oltre 6.901,58 euro per spese legali, per complessivi 63.288,97 euro. Questo importo (al quale va aggiunto quello di mille euro pagati dal Comune quale compenso del commissario ad acta), seppure inferiore a quello costituente il credito della ditta a titolo di interessi e spese, costituisce pur sempre un danno erariale, in quanto ha comportato una lievitazione dei costi complessivi delle opere senza giustificazione alcuna.
La colpa
I costi dei lavori erano finanziati da fondi a destinazione vincolata, derivanti da mutuo della Cdp, le cui somme erano state incassate dal Comune in tempo utile per la liquidazione delle fatture. I giudici ricostruiscono che per tutte le fatture pagate in ritardo (tranne che per una), la causa del ritardo risiede nel mancato utilizzo delle somme incassate dal Comune dalla Cdp a fronte delle fatture, somme che sono state versate, invece, in tesoreria senza vincolo di destinazione, nel contesto della ormai cronica situazione di deficit dell'ente, esistente sin dal 2009 e sfociata nel 2011 nella dichiarazione di dissesto.
Conseguentemente, l'imputabilità del danno sofferto dal Comune è addossabile al responsabile finanziario, il quale ha determinato la dispersione delle risorse, la loro distrazione a fini diversi da quelli per i quali erano state erogate, e, nel contesto più generale di cronica indisponibilità di cassa, l'insolvenza delle fatture per lungo tempo. Gli elementi di colpa a carico del responsabile finanziario sarebbero riconducibili, secondo i giudici, alla necessaria conoscenza della disciplina dell'utilizzo delle somme a destinazione vincolata, del tutto incompatibile con il loro utilizzo per fin diversi.
La deliberazione ribadisce la necessità di procedere al tempestivo pagamento delle fatture, in particolar modo se relative a spese finanziate con entrate a destinazione vincolata già incassate e per le quali è stata riscontrata dal responsabile del procedimento la correttezza della prestazione e la sussistenza dei presupposti di legge per la liquidazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 04.05.2017).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGOLa fattispecie del dolo, nell’ambito della responsabilità amministrativa patrimoniale, è definita, rispetto all’ambito della colpa grave, per l’assenza di ogni errore (l’errore non giustificabile è il nucleo della colpa grave) e per la presenza, invece, di una coscienza dell’illecito.
Dunque, la coscienza e volontà dell’illecito, cioè la consapevolezza del fatto che il proprio comportamento costituisce una trasgressione alle norme di legge e non è assistito da alcuna causa di giustificazione, rileva di per sé ai fini dell’assorbimento dell’illecito erariale nell’illecito doloso, senza che sia necessario, come lo è in altre sedi (come quella penale) accertare altri ulteriori elementi al fine di verificare se sia maturata o meno una determinata o specifica figura di reato.
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Il Responsabile finanziario è responsabile del danno erariale causato all'Ente per l'utilizzo di somme a destinazione vincolata (mutuo) ad altri fini (maggiori costi sopportati dal Comune per ritardati pagamenti a valere su fondi ricevuti con destinazione vincolata, ma utilizzati per altri scopi).
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In sostanza, la tesi accusatoria individua nel comportamento del Ma. il nesso causale per aver determinato l’insorgere del titolo per le maggiori somme spettanti alla società per interessi, per spese legali e del commissario ad acta, in quanto spese ricollegabili alla mancata tempestiva soddisfazione delle fondate pretese creditorie della società esecutrice dei lavori.
Sostiene che tali somme egli avrebbe dovuto tempestivamente liquidare, in quanto fondi a destinazione vincolata, che egli doveva obbligatoriamente destinare al pagamento tempestivo delle fatture, quale Responsabile del Dipartimento Finanziario, e, a maggior ragione, quale soggetto che aveva attestato la copertura finanziaria dei lavori proprio in ragione delle disponibilità derivanti dal mutuo contratto ad hoc ed esistenti in cassa, mentre le some risultano versate in tesoreria, e poi destiate ad altre spese, senza che sia stato rispettato il loro vincolo di destinazione.
...
4.2 I fatti come sopra esposti sono direttamente rilevanti ai fini della definizione del titolo dell’addebito al Ma., che il Collegio ritiene correttamente inquadrabile nella fattispecie del dolo.
Tale figura, nell’ambito della responsabilità amministrativa patrimoniale, è, infatti, definita, rispetto all’ambito della colpa grave, per l’assenza di ogni errore (l’errore non giustificabile è il nucleo della colpa grave) e per la presenza, invece, di una coscienza dell’illecito; dunque, la coscienza e volontà dell’illecito, cioè la consapevolezza del fatto che il proprio comportamento costituisce una trasgressione alle norme di legge e non è assistito da alcuna causa di giustificazione, rileva di per sé ai fini dell’assorbimento dell’illecito erariale nell’illecito doloso, senza che sia necessario, come lo è in altre sedi (come quella penale) accertare altri ulteriori elementi al fine di verificare se sia maturata o meno una determinata o specifica figura di reato.
Una tale consapevolezza è certa nella posizione del Ma. per tutte le modalità di commissione dell’illecito sopra evidenziate, ed è all’uopo sufficiente richiamare la disciplina dell’utilizzo delle somme a destinazione vincolata, del tutto incompatibile con l’utilizzo delle stesse ad altri fini, ed inserire tale illegittima deviazione di risorse nell’ambito della gestione del Ma. nel 2009 (quando, come si è detto, egli era, se non compartecipe delle cause, quantomeno sicuramente, nella sua qualità, del tutto a conoscenza dello stato di insolvenza dell’ente) per concluderne che egli aveva piena consapevolezza, sia della violazione, che delle conseguenze dannose che nel tempo ne sarebbero derivate al Comune debitore (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, sentenza 10.04.2017 n. 69).

APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il risarcimento del danno erariale “da distrazione”.
Sussiste il danno erariale da distrazione quando una amministrazione comunale, beneficiaria di finanziamenti pubblici a destinazione vincolata, utilizza gli stessi per scopi differenti rispetto a quelli posti a base della richiesta di finanziamento, in particolare per la realizzazione di opere diverse, anche se aventi finalità istituzionali.
Il superficiale controllo, sebbene periodico, effettuato dagli enti finanziatori, che abbia contribuito ad agevolare i comportamenti amministrativi illeciti, determina un concorso di responsabilità.

Il Sindaco, l’Assessore all’urbanistica e il responsabile dell’area lavori pubblici di un Comune avevano chiesto un finanziamento al Ministero dell’ambiente e alla Regione Toscana al fine di effettuare opere di consolidamento e ricostruzione di muri di contenimento nel centro storico del paese, a seguito di dissesto idrogeologico. A tale scopo avevano presentato al Ministero e alla Regione un progetto preliminare delle opere da realizzarsi. Ottenuto il finanziamento, lo stesso era utilizzato per la costruzione di un parcheggio multipiano, in totale difformità rispetto al progetto preliminare posto a base della richiesta.
La Corte dei conti ha condannato i trasgressori al risarcimento del danno cd. “da distrazione”, con conseguente restituzione delle somme finanziate, non accogliendo le difese dei convenuti, i quali sostenevano comunque la sussistenza di una finalità istituzionale nella costruzione del parcheggio.
Tuttavia, considerato che parte delle opere realizzate avevano anche una funzione di contenimento idrogeologico e che l’omesso controllo (accertato in via incidentale) da parte del Ministero e della Regione sulla regolare esecuzione delle opere aveva agevolato la condotta illecita, i magistrati contabili hanno decurtato l’obbligazione risarcitoria dei responsabili (Corte dei Conti, Sez. giurisdiz Toscana, sentenza 31.01.2013 n. 35 - commento tratto da http://drasd.unipmn.it).
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MASSIMA
L’insieme delle argomentazioni di cui trattasi, premessa la presenza o l’assenza di implicazioni di natura penale non rilevanti in questa sede (se non come imput alla presente indagine di responsabilità amministrativa contabile) indica sicuramente la sussistenza di un livello di colpa azionabile.
Al riguardo
la giurisprudenza di questa Corte si è più volte occupata dell’utilizzazione dei pubblici finanziamenti non conforme alle destinazioni impresse dalla legge o dall’amministrazione concedente, ritenendo che la fattispecie all’esame costituisca ipotesi di danno erariale (c.d. da distrazione).
Detta giurisprudenza costantemente è stata confermata anche in tempi recenti (Sez. III, 06.05.2009, n. 171 - Sez. III, 23.03.2009, n. 106) per cui il danno è stato considerato proprio quello di avere distratto i fondi dall’utilizzazione dei progetti presentati all’amministrazione (cfr. altresì la copiosa giurisprudenza di primo grado indicata in atto di citazione).
La medesima giurisprudenza ha peraltro evidenziato che il carattere illecito della distrazione di fondi a destinazione vincolata non è escluso dal fatto che i fondi stessi siano stati utilizzati per altre finalità istituzionali, potendosi, in tal caso, solo tenersi conto degli eventuali vantaggi in sede di quantificazione del danno (Sez. III, 12.10.2004, n. 542).
Peraltro la distrazione delle pubbliche finanze dai fini impressi dalla legge è espressamente punita anche dal codice penale (artt. 316-bis e 316-ter).
In sintesi
la procedura di finanziamento, come rilevato, lascia alcuni margini di discrezionalità all’amministrazione richiedente nell’indicare i luoghi e le soluzioni tecniche con cui eliminare i problemi connessi al rischio idrogeologico ma una volta indicati e prescelti ogni modifica è inibita all’amministrazione ed in ogni caso deve essere portata a conoscenza del Ministero che la deve valutare nuovamente come conforme all’interesse generale e specifico della tutela del territorio, revocando in caso contrario il finanziamento.
Peraltro anche le comunicazioni periodiche che il Comune inviava al Ministero per informarlo sull’andamento dei lavori (All. 1, sub. 12, nota dep. cit.) si limitavano a comunicare laconicamente gli importi erogati a stato di avanzamento dei lavori senza alcun ulteriore dettaglio.
La palese non conformità a norma di tali comportamenti amministrativi doveva essere rilevata dalla struttura ministeriale (come dalla struttura regionale per la parte di propria competenza) il cui silenzio è stato invece superato solo da una indagine penale, partita per irregolarità riscontrate nelle gare di affidamento dei lavori finanziati con gli importi in contestazione.
In altri termini il Collegio ritiene che
gli omessi controlli periodici demandati ex lege al Ministero dell’Ambiente ed alla Regione Toscana abbiano agevolato i comportamenti amministrativi di cui trattasi, incidendo anche sul volume del riflesso economico degli stessi.
Per quanto sopra, in conformità all’indirizzo giurisprudenziale già seguito da questa Sezione (Sent. n. 330 del 15.06.2012), dall’importo complessivo del danno erariale contestato vanno detratte le quote teoricamente ascrivibili al comportamento di soggetti non citati in giudizio ma la cui responsabilità va accertata in via incidentale (e, quindi, senza effetto di giudicato), al solo fine di consentire al Collegio di parametrare la condanna degli odierni citati in base al loro effettivo contributo causale, tenuto conto che il danno non può farsi risalire alla loro esclusiva responsabilità.
Tale quota può esser indicata in via equitativa nel 50% del danno azionabile la cui determinazione, come già anticipato in parte narrativa, ha richiesto l’adozione di una consulenza tecnica d’ufficio il cui deliberato è stato recepito da questo Collegio nei termini che seguono.
3. Danno erariale
In primo luogo mentre non paiono condivisibili (per tutte le argomentazioni soprasvolte) le eccezioni difensive che ipotizzano la non attualità del danno in quanto il Ministero dell’Ambiente potrebbe pur sempre attivarsi per recuperare gli importi nei confronti del Comune di Campagnatico oppure l’inesistenza dello stesso per l’ipotizzata “legittimità” della spesa, la richiesta di valutazione della utilitas è stata invece (parzialmente) accolta dal Collegio.
La materia, ovviamente, per il tecnicismo della stessa ha necessitato il ricorso ad un consulente esterno al quale sono stati posti due distinti quesiti volti ad appurare il valore delle opere realizzate e la quota parte delle stesse cui possa attribuirsi una azione di “contenimento del rischio idrogeologico”.
L’elaborato consegnato del perito, corredato da una ampia ed esaustiva documentazione, dopo aver ripercorso le fasi storiche del finanziamento, dalla richiesta alla utilizzazione, ha valorizzato la quota utile di fini della salvaguardia del territorio nei seguenti termini:
   A) finanziamento ministeriale:
utilizzato per € 1.079.002,67 (al netto del saldo disponibile di cassa pari ad € 90.997,33 potenzialmente a disposizione del Ministero dell’Ambiente e non oggetto della presente azione risarcitoria) di cui € 125.000,00 con valenza ambientale ed un danno differenziale di € 954.002,67;
   B) finanziamento regionale:
utilizzato per € 141.900,00 di cui € 105.000,00 con valenza ambientale ed un danno differenziale di € 36.900,00.
Come già riportato, il Collegio condivide la tesi del CTU (pagg. 64-67 dell’atto peritale) per la quale, diversamente da quanto richiesto dai Consulenti di parte, l’utilitas da detrarre postula un effetto “ambientale” dell’opera principale (struttura adibita a futuro parcheggio auto e terrazza calpestabile realizzata a contatto con mura pericolanti) nei fatti piuttosto contenuto mentre l’opera minore (muro di contenimento lungo la viabilità) per la maggior parte può dirsi di concreto aiuto all’ambiente.
In altri e definitivi termini le opere pubbliche (per inciso oggi del tutto incomplete e inutilizzabili nonché sotto sequestro per motivi di ordine penale) sono state sì parzialmente realizzate ma con denaro erogato e percepito con vincolo di destinazione all’interno di una procedura “rigida”, nei fatti superata da una progettazione esecutiva non solo difforme dalla preliminare ma neppure ritualmente approvata dalla Amministrazione centrale.
Sul punto poi il Consulente (pag. 56) indica anche violazioni in ordine alla violazione della normativa coinvolgente il Genio civile di Grosseto, situazione paradossale trattandosi ovviamente di opere in cemento armato.
A parte le considerazioni di cui sopra, come detto il 50% dal danno può attribuirsi a soggetti non evocati in giudizio, residua l’importo di € 477.001,33 a favore del Ministero dell’Ambiente ed € 18.450,00 a favore della Regione Toscana.
Ciò premesso a tutte le parte citate in giudizio possono essere ascritte censure a titolo di colpa grave, sia pure differentemente riscontrata nei seguenti termini.
4. Ripartizione danno erariale
   A) El.PE. in qualità di
Sindaco ha adottato gli atti fondamentali delle procedure di richiesta ed utilizzazione del finanziamento che, considerate le dimensioni del Comune di Campagnatico e l’entità delle opere realizzate, non può ritenersi un atto di mera ordinaria amministrazione.
A prescindere dalle ipotetiche implicazioni penali, sul piano prettamente amministrativo risultano essere stati posti in essere comportamenti non in linea con una doverosa corretta gestione amministrazione di denaro pubblico per cui la quota maggiore del danno, individuabile nel 60% dell’importo ascrivibile, deve essere addebitato al medesimo (€ 477.001,33 x 60% = 286.200,79 a favore del Ministero ed € 36.900,00 x 60% = 22.140,00 a favore della Regione) per un totale di € 308.340,79
   B) Lu.GR. come
Vice-sindaco Assessore all’Urbanistica ha partecipato alla adozione del progetto esecutivo accettandone colpevolmente i contenuti che non potevano e dovevano a lui sfuggire in virtù della natura del proprio Assessorato.
Per inciso la deliberazione è stata assunta da una Giunta, composta di soli tre soggetti, di cui uno era anche assente per cui il provvedimento doveva e poteva essere idoneamente attenzionato.
Al riguardo deve essere disattesa l’eccezione per cui essendo le opere concretamente avviate anche parzialmente diverse da quelle indicate nella progettazione, ne sarebbe esclusa la responsabilità.
In realtà la progettazione esecutiva fin dall’inizio contrastava con il solo progetto sottoposto al Ministero dell’Ambiente, quello preliminare ed allora tale eccezione può solo essere parzialmente accolta, ai fini della limitazione percentuale del danno ascrivibile.
Per quanto sopra, sempre a titolo di colpa grave, il convenuto può essere chiamato a rispondere del 20% del danno (€ 477.001,33 x 20% = 95.400,27 a favore del Ministero ed € 36.900,00 x 60% = 7.380,00 a favore della Regione) per un totale di € 102.780,27.
   C) Em.BA. in quanto
Responsabile della Area LL.PP. non solo ha dato i previsti pareri sulla delibera di adozione del progetto esecutivo ma ha altresì svolto le funzioni di Direttore lavori e Responsabile unico del procedimento (RUP) dell’opera finanziata per cui non poteva non conoscere nel dettaglio le opere in via di realizzazione.
Per quanto sopra, sempre a titolo di colpa grave, il convenuto può essere chiamato a rispondere del 20% del danno (€ 477.001,33 x 20% = 95.400,27 a favore del Ministero ed € 36.900,00 x 60% = 7.380,00 a favore della Regione) per un totale di € 102.780,27.
Alla somma per cui è condanna, trattandosi di debito di valore conseguente alla valutazione economica di parte del manufatto pubblico in contestazione obbligazione originariamente pecuniaria, vanno aggiunti la rivalutazione monetaria e gli interessi secondo i criteri che seguono:
   - la rivalutazione va calcolata secondo l’indice ISTAT dei prezzi al consumo per le famiglie ed operai (FOI), a decorrere dal fatto illecito che trattandosi di un unicum va indicato nella data dell’ultima erogazione da parte del Ministero (15.06.2006), fino alla pubblicazione della presente sentenza;
   - gli interessi legali vanno calcolati dalla stessa data sulla somma originaria rivalutata anno dopo anno, cioè con riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la predetta somma si incrementa nominalmente in base agli indici ci rivalutazione monetaria (Cass. Sez. II n. 18028/2010 – Sez. III n. 4587/2009 – Sez. III n. 5671/2010 – SS.UU. 1712/2005), fino al concreto soddisfo.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono altresì dovuti, sulla somma come sopra incrementata, gli interessi nella misura del saggio legale fino all’effettivo pagamento.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno, quindi, poste a carico in quota percentuale delle parti convenute condannate;
PER QUESTI MOTIVI
la Sezione giurisdizionale della Regione Toscana della Corte dei conti, definitivamente pronunciando sul giudizio n. 57901/REL, in parziale conformità delle conclusioni del Pubblico ministero
CONDANNA
   A) El.PE. all’importo complessivo di € 308.340,79 (60% del totale) di cui 286.200,79 a favore del Ministero dell’Ambiente ed 22.140,00 a favore della Regione Toscana;
   B) Lu.GR. all’importo complessivo di € 102.780,27 (20% del totale) di cui 95.400,27 a favore del Ministero dell’Ambiente ed 7.380,00 a favore della Regione Toscana;
   C) Em.BA. all’importo complessivo di € 102.780,27 (20% del totale) di cui 95.400,27 a favore del Ministero dell’Ambiente ed 7.380,00 a favore della Regione Toscana;
somme tutte cui vanno aggiunti gli interessi legali e la rivalutazione monetarie secondo il criterio di calcolo indicato in motivazione.
Segue la condanna al pagamento delle spese processuali che, fino alla presente decisione, sono percentualmente liquidate in € 2182,90 (Euro duemilacentottantadue/90).
Dispone infine il pagamento delle spese peritali, quantificate in € 4.331,17 per rimborsi a piè di lista omnicomprensivi e € 19.678,00 oltre IVA di legge per onorari e spese (in totale € 28.145,55) a carico delle parti condannate nelle rispettive quote di competenza, dedotti gli eventuali acconti medio-tempore corrisposti.

GIURISPRUDENZA

APPALTI: Esclusione dalla gara per gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del concorrente.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del concorrente – Art. 80, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 50 del 2016 – Presupposti - Individuazione
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 –che consente alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza di “gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità”– innovando rispetto al previgente assetto normativo, prevede che l’esclusione del concorrente è condizionata al fatto che la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che tra i “gravi illeciti professionali” rientrano le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero che hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione. Il dato assiologico che emerge appare incentrarsi sulla circostanza che, per effetto degli indicati fattori o di ulteriori elementi valutativi, emerga a carico dell’operatore economico un quadro tale da rendere dubbia la sua affidabilità.
La ratio della norma de qua risiede dunque nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale.
Ha aggiunto il Tar che persiste in capo alla Stazione appaltante un coefficiente di discrezionalità, il cui esercizio –ed il cui correlato sindacato in sede giurisdizionale- comporta la esatta riconduzione della fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito professionale) a quella concretamente palesatasi nella singola gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di un diaframma di discrezionalità in sede applicativa –il quale attiene non all’individuazione delle fattispecie espulsive, che senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una elencazione da considerare tassativa, bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti giuridici indeterminati– affiora, pur in mancanza di una formulazione della norma di segno univoco come quella contenuta nel previgente Codice appalti (laddove si discorreva di “motivata valutazione”), da quanto statuito a proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”, “gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad individuare a fini meramente esemplificativi (TAR Valle d’Aosta, sentenza 23.06.2017 n. 36 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
La censura non può essere condivisa
In diritto deve osservarsi che
l’art. 80, comma 5, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016, recante il codice dei contratti pubblici, consente alle stazioni appaltanti di escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di contratti pubblici in presenza di «gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità», con la precisazione, ai fini che qui interessano, che in tali ipotesi rientrano, tra l’altro, «significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata».
La citata disposizione codicistica, innovando rispetto al previgente assetto normativo, prevede che l’esclusione del concorrente è condizionata al fatto che la stazione appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o affidabilità.

Tra questi rientrano:
le significative carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza, informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto svolgimento della procedura di selezione.
Il dato assiologico che emerge appare incentrarsi sulla circostanza che, per effetto degli indicati fattori o di ulteriori elementi valutativi, emerga a carico dell’operatore economico un quadro tale da rendere dubbia la sua affidabilità.
La ratio della norma de qua risiede dunque nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e professionale
Orbene, nel caso di specie, non solo non viene in rilievo un profilo immediatamente correlato al momento esecutivo di un pregresso rapporto contrattuale in termini di specifico inadempimento al complesso di obbligazioni dallo stesso scaturente; ma deve anche rilevarsi come la censurata carenza di requisito alla partecipazione, pur astrattamente non sottratto in quanto tale ad un più ampio giudizio di inadempimento mediato o di rimbalzo, in concreto non possa in alcun modo qualificarsi in tali termini.
...
Né infine può, secondo la traiettoria ermeneutica proposta dal ricorrente, riconnettersi al precedente dictum giudiziale un effetto di automatismo espulsivo ai presenti fini: deve al riguardo ribadirsi che anche in siffatta evenienza
persiste in capo alla Stazione appaltante un coefficiente di discrezionalità, il cui esercizio –ed il cui correlato sindacato in sede giurisdizionale- comporta la esatta riconduzione della fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito professionale) a quella concretamente palesatasi nella singola gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di un diaframma di discrezionalità in sede applicativa –il quale attiene non alla individuazione delle fattispecie espulsive, che senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti generali, secondo una elencazione da considerare tassativa, bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di concetti giuridici indeterminati- affiora, pur in mancanza di una formulazione della norma di segno univoco come quella contenuta nel previgente Codice Appalti (laddove si discorreva di “motivata valutazione”), da quanto statuito a proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”, “gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad individuare a fini meramente esemplificativi.
Ne consegue, anche per questa via ed alla luce dei rilievi di cui sopra, la correttezza della valutazione qui in esame, ove si consideri che l’intervenuto giudicato non espleta la propria efficacia accertativo-preclusiva su di un specifico fatto di inadempimento in sede propriamente posto in diretta relazione causale con la conseguente risoluzione del rapporto contrattuale, ma, come prima detto, sulla diversa dimensione di una carenza di requisito partecipativo che solo indirettamente e di rimbalzo ha comportato, non ex se ma in via derivata e mediata, l’incidenza su di un momento esecutivo-prestazionale peraltro connotato da comprovata e non contestata conformità tutti gli obblighi contrattualmente assunti.

ATTI AMMINISTRATIVI: Accesso ai documenti adottati in seduta riservata.
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Accesso ai documenti – Diritto – Atti adottati in seduta riservata – Diniego – Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di accesso agli atti riguardanti l’istante, opposto sul rilievo che erano stati adottati in seduta riservata da un Comune, ove non sia prevista diversa disposizione nel regolamento comunale (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che tra i casi di segreto espressamente previsti dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse ed i voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle loro funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito alla condotta della persona oggetto dell’attività di indagine da parte del consiglio comunale, in quanto è il richiedente l’accesso. Né d’altro canto l’attività d’indagine del consiglio comunale, volta a far valere una responsabilità politica, ha le stesse garanzie delle indagini penali della polizia e della magistratura (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 22.06.2017 n. 1409 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Il ricorrente, ex dipendente comunale, ha proposto ricorso principale contro la mancata risposta alla richiesta di accesso agli atti della commissione d’indagine istituita dal Consiglio comunale sulla sua nomina a dirigente dell’ente.
Il ricorrente evidenzia che le relative deliberazioni comunali sono state pubblicate sul sito dell’ente ma che la relazione della commissione d’indagine, unitamente al verbale della deliberazione, risultavano omessi in quanto “trattasi di seduta segreta”.
Uguale silenzio è stato mantenuto sulla richiesta motivata di ostensione anche della “Interrogazione urgente presentata in Consiglio Comunale all’indomani dell’articolo pubblicato sul Giornale di Vimercate del 15/03/2016, a pag. 43, dal titolo: “una dipendente del Comune: “ho dato il decreto di nomina a dirigente di De Fi. al Sindaco”.
Contro i suddetti dinieghi taciti ha proposto i seguenti motivi di ricorso: violazione e falsa applicazione degli artt. 22 e ss. l. 241/1990; violazione e falsa applicazione dell’art. 3 d.p.r. 184/2006; violazione e falsa applicazione dell’art. 97 della costituzione.
2. Con ricorso per motivi aggiunti il ricorrente ha impugnato l’esplicito rigetto alle istanze di accesso, motivate con riferimento al fatto che trattasi di atti adottati in seduta segreta, l’articolo 50 dello Statuto del Comune di Carnate nonché degli articoli 16 e 52 del Regolamento sul funzionamento e l’organizzazione del consiglio comunale di Carnate, che prevedono la segretezza delle sedute, in quanto ai sensi dell’art. 24, comma 7, l. 241/1990 “… deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici”.
La difesa del Comune ha chiesto la reiezione del ricorso.
Alla camera di consiglio del 20.06.2017 la causa è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.
2. I ricorso sono parzialmente fondati.
La costante giurisprudenza, condivisa da questo Collegio, afferma che qualora l’accesso ai documenti amministrativi sia motivato dalla cura o la difesa di propri interessi giuridici, esso prevale sull’esigenza di riservatezza dei terzi (Consiglio di Stato, VI, 05.03.2015, n. 1113; IV, 10.03.2014, n. 1134).
A ciò si aggiunge che dalla lettura delle norme regolamentari comunali non si ricava in via diretta che gli atti della seduta segreta siano automaticamente sottratti all’accesso, atteso che è stabilita soltanto la non pubblicità della seduta. Tali norme infatti, relative al funzionamento del consiglio, trovano il loro fondamento nell’art. 38, c. 7, del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale “Quando lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Il regolamento determina i poteri delle commissioni e ne disciplina l'organizzazione e le forme di pubblicità dei lavori”.
Se la fonte regolamentare locale è la fonte primaria in merito alla forma di pubblicità delle sedute, grazie alla delega contenuta nell’art. 38, c. 7, citato, non vale altrettanto per l’accesso agli atti.
L’art. 22, c. 3, della legge 241/1990 stabilisce che tutti i documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6, riservando così alla legge la disciplina della segretezza documentale.
A sua volta l’art. 24 prevede che l’accesso è escluso nei casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente previsti dalla legge e dal regolamento governativo di cui al comma 6 mentre all’amministrazione compete, ai sensi del comma 2, di individuare gli atti coperti da segreto, secondo le norme di legge che lo prevedono.
Tra i casi di segreto espressamente previsti dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse ed i voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle loro funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito alla condotta della persona oggetto dell’attività di indagine da parte del consiglio comunale, in quanto è il richiedente l’accesso. Né d’altro canto l’attività d’indagine del consiglio comunale, volta a far valere una responsabilità politica, ha le stesse garanzie delle indagini penali della polizia e della magistratura.
Neppure eventuali testimonianze di impiegati comunali possono essere secretate in quanto attinenti ad attività amministrativa. Infatti il segreto d’ufficio, cioè l’obbligo di non comunicare all’esterno dell’amministrazione notizie o informazioni di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni, ovvero che riguardino l’attività amministrativa in corso di svolgimento o già conclusa, non può prevalere sul diritto d’accesso ai sensi dell’art. 28 della L. 241/1990.
A ciò si aggiunge che l’art. 24 della legge n. 241 del 1990 garantisce comunque l’accesso a quegli atti la cui conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri interessi giuridici (comma 7).

In definitiva quindi i ricorsi sono fondati per quanto attiene ai documenti richiesti.
Va invece respinta con riferimento alle norme dello Statuto e del regolamento consiliare, in quanto riferite alla pubblicità delle sedute e non all’accesso agli atti.

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Ripetizione emolumenti non dovuti al netto di tutte le ritenute fiscali e oneri previdenziali.
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Pubblico impiego privatizzato – Stipendi – Ripetizione emolumenti non dovuti - Su base lorda – Illegittimità.
E’ illegittimo il recupero, da parte dell’Amministrazione, di somme indebitamente erogate ad un dipendente su base lorda, anziché al netto di tutte le ritenute fiscali e oneri previdenziali (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che costituisce principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa (sez. IV, 03.11.2015, n. 5010; id., sez. III, 21.01.2015, n. 198) che l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire detto recupero al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di ripetere le somme al lordo delle predette ritenute, allorché, come di regola accade, le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Anche la Corte di Cassazione (sez. I, 04.09.2014, n. 18674) ha affermato analogo principio. In particolare, ha chiarito che nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per eccesso; per cui il medesimo datore di lavoro, salvi i rapporti con il fisco, può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 22.06.2017 n. 858 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
RILEVATO QUANTO DI SEGUITO ESPOSTO.
Il ricorso è palesemente fondato, tanto da consentirsene la definizione con sentenza in forma semplificata.
Costituisce, infatti, come si usa dire jus receptum (cioè diritto vivente, consolidato e agevolmente conoscibile) nell’esperienza del Consiglio di Stato che l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire detto recupero al netto delle ritenute fiscali, previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di ripetere le somme al lordo delle predette ritenute, allorché, come di regola accade, le stesse non siano mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Di seguito si richiama solo una parte della cospicua giurisprudenza che un qualsiasi funzionario e dirigente di media cultura, preparazione e diligenza dovrebbe conoscere: Cons. St. sez. II, parere su ric. straord., n. 991, adunanza 05.04.2017; Cons. Stato Sez. IV, 03.11.2015, n. 5010; Cons. Stato, sez. III, 21.01.2015 n. 198; Cons. Stato, sez. IV, 12.02.2015, n. 750; Cons. Stato, sez. IV, 20.09.2012, n. 5043; Cons. Stato, sez. III, 04.07.2011, nr. 3984 e n. 3982; id., sez. VI, 02.03.2009 nr. 1164, solo per citarne alcune.
Nello stesso senso si atteggia l’orientamento dei Tribunali Amministrativi, secondo i quali
la richiesta di restituzione dei compensi illegittimamente percepiti non può che avere a oggetto le somme ricevute in eccesso (e cioè, effettivamente entrate nella sfera patrimoniale del dipendente medesimo), non potendosi pretendere la ripetizione di somme calcolate al lordo delle ritenute fiscali, le quali non sono mai entrate nella disponibilità materiale e giuridica del prestatore di lavoro.
Anche qui il Collegio si limita a ricordare, per dare un aiuto a quegli stessi funzionari e dirigenti dell’amministrazione finanziaria di cui si è già fatto cenno
: TAR Toscana, sez. I, 25.01.2017, n. 199; TAR Lazio Roma Sez. I-bis, 24/03/2016, n. 3753; TAR Bologna, sez. I, 04.06.2015, n. 525; TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, n. 614/2013; TAR Umbria, sez. I, 05.12.2013, n. 559).
RICORDATO INOLTRE QUANTO SOTTO RIPORTATO.
Nella medesima direzione contraria alle difese dell’amministrazione si colloca, ancora, l’orientamento della Corte di Cassazione, evidenziante come
nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per eccesso; per cui il medesimo datore di lavoro, salvi i rapporti con il fisco, può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente: Cass. Civ., sez. I, 04.09.2014, n. 18674; id., Sez. Lav., 02.02.2012, n. 1464; idem, sez. lavoro, 11.01.2006 n. 239; idem, sez. lavoro, 26.02.2002 n. 2844.
A conforto indiretto, ove ve ne fosse bisogno per convincere i più riottosi e incalliti, del suddetto orientamento è il convincimento del Giudice ordinario il quale, a proposito della speculare tematica delle modalità di calcolo degli accessori dovuti al lavoratore pubblico, ha evidenziato come appare consolidata la giurisprudenza anche amministrativa (Ad. Plen. 05.06.2012, n.18), nel ribadire la piena legittimità delle modalità di calcolo degli accessori del credito del dipendente pubblico riportate nell'alveo dell'art. 1224 c.c. ritenendo che possa ritenersi produttivo di interessi e soggetto ai meccanismi di attualizzazione del credito solo il denaro che viene posto a disposizione del creditore e che effettivamente ne incrementi il patrimonio, e non quello corrispondente alle ritenute alla fonte, operate dal sostituto d'imposta attraverso rapporto di delegazione ex lege, che non sarebbe mai entrato nella disponibilità del dipendente (Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., 28/10/2016, n. 2190).
OSSERVATO, INOLTRE, QUANTO SOTTO RIPORTATO.
A quanto esposto non può opporsi l’orientamento contrario espresso in materia dall'Agenzia delle entrate con infiniti atti interpretativi di varia denominazione (note, risoluzioni, determinazioni, circolari, ecc.: fra le tante v. quelle richiamate, sopra, dall’Avvocatura dello Stato, oppure la nota del 23.05.2013, richiamata dal citato parere di quest’anno della II sez. del CdS) con le quali la medesima Agenzia si è pervicacemente (ma inspiegabilmente) espressa per la legittimità della richiesta di recupero dell’indebito al lordo delle ritenute di legge, sulla base di quanto disposto dall’art. 10, comma 1, lett. d-bis) del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), il quale statuisce la deducibilità dal reddito complessivo del contribuente di tutte le somme restituite in quanto indebitamente percepite e non le modalità concrete con cui detto recupero deve aver luogo.
Si tratta di un richiamo improvvido e temerario, perché con esso, da una norma di garanzia per il privato che esplica i suoi effetti nel rapporto tra contribuente erroneamente gravato di in peso tributario non dovuto e l’amministrazione finanziaria, si intende ricavare un principio vessatorio per il medesimo privato nei suoi rapporti con il datore di lavoro, costringendo quest’ultimo a ripetere quanto effettivamente pagato aumentato di oneri fiscali astrattamente dovuti dal lavoratore ma mai entrati nella sua sfera patrimoniale.
Come invece precisato dalla giurisprudenza innanzi riportata,
ciò che rileva nella fattispecie non è il rapporto intercorrente tra l’interessato e l’Agenzia fiscale -regolato dal succitato art. 10, comma 1, lett. d-bis) del TUIR- ma quello fra il ricorrente e l’Amministrazione di servizio, nell’ambito del quale la seconda versa al primo gli emolumenti al netto delle ritenute fiscali (nonché previdenziali e assistenziali); con la conseguenza che non risulta né logico, né equo, né lecito chiedere all’interessato un adempimento che può essere posto in essere direttamente dall’Amministrazione stessa senza gravare sul soggetto interessato in maniera non coerente con i fini del dovuto recupero delle somme erogate a titolo di imposte e contributi.
Il richiamo effettuato dall’Amministrazione al TUIR, dunque, non risulta adeguato a superare il consolidato orientamento giurisprudenziale più volte espresso dalle varie giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, in base al quale, come in precedenza esposto,
la ripetizione dell'indebito nei confronti del dipendente non può non avere ad oggetto le sole somme effettivamente “pagate” (come recita l’art. 2033 c.c.) a quest'ultimo e da lui effettivamente percepite in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del dipendente (Cons. di Stato, Sez. VI, 02.03.2009, n. 1164).
D’altra parte, i ricordati e concordi insegnamenti non avrebbero ragion d’essere soltanto ove l’amministrazione finanziaria –le cui palesemente errate direttive hanno determinato anche il presente contenzioso, essendo evidente che nessun pubblico dipendente si azzarderebbe (come pur potrebbe e dovrebbe) a disapplicare una direttiva della stessa amministrazione fiscale per ovvi timori di incorrere in responsabilità contabile– leggesse con un minimo di capacità e diligenza le norme codicistiche, peraltro già sopra richiamate.
L’art. 2033 cod. civ., sull’indebito oggettivo, stabilisce che chi ha eseguito un “pagamento” non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha “pagato”. La nozione di pagamento si correla a quelal di ricevimento (art. 1463, comma 1, cod. civ.) ed entrambe individuano un comportamento materiale costituente la modalità principe di estinzione in via satisfattiva dell’obbligazione pecuniaria. Pagamento e ricevimento, costituenti la medesima azione vista dalla parte rispettivamente del debitore e del creditore hanno per oggetto un bene materiale che la terminologia del codice, descrittiva di una società antica ma dai rapporti socio-economici fondamentali sempre attuali, individua nella “moneta” (artt. 1277 e seg. Cod. civ.), cioè in un preciso e determinato oggetto concreto avente valore di scambio.
Se è dunque, secondo la disciplina codicistica, la concreta materialità di ciò che si è pagato e, correlativamente, ricevuto a segnare le reciproche posizioni di debitore e creditore (oltre quelli che non a caso si chiamano “accessori”), non possono certo valere ad alterare il principio di materialità e concretezza dei pagamenti fatti e ricevuti un titolo di debito-credito astratto che indichi valori diversi.
Ancor più semplicemente,
se il datore di lavoro è debitore di cento, ma tale debito si riduce a cinquanta per effetto del c.d. cuneo fiscale, il lavoratore che abbia percepito erroneamente (ad esempio per una duplicazione di pagamenti) cinquanta, non è certo tenuto a restituire l’importo del suo credito lavorativo astratto, cioè cento.
Si tratta di concetti elementari e di assoluto buon senso, a fronte dei quali non possono valere gli inconcepibili richiami fatti dall’amministrazione finanziaria e per essa dall’amministrazione resistente, a specifiche norme tributarie di garanzia per il contribuente, che si vorrebbe tramutare in norme illogiche, inique e vessatorie, riecheggianti antichi ma defunti istituti come quello del “solve e repete” (prima paghi ciò che non devi e poi chiedi la restituzione).
AGGIUNTI I SEGUENTI ULTERIORI RILIEVI.
Risultano, perciò, privi di ogni rilevanza i richiami fatti dall’amministrazione resistente a comunicazioni, note, dispacci, circolari, direttive, chiarimenti, ecc. emanati dall’Agenzia delle Entrate nella materia qui di interesse, tutti illegittimi per i motivi innanzi ricordati.
E’ infatti altrettanto risaputo (“Jus receptum”) che le disposizioni contenute in circolari o altri atti di analogo contenuto e finalità interpretativi/esplicativi non possono condizionare il giudice nell'interpretazione delle norme che l’atto stesso intende spiegare.
Le circolari amministrative, infatti, in quanto atti di indirizzo interpretativo-illustrativo-applicativo, non sono vincolanti per i soggetti estranei all'Amministrazione: ed anche per gli organi ed uffici della stessa amministrazione emanante esse sono vincolanti, ma solo se legittime, potendo, altrimenti essere disapplicate qualora il funzionario chiamato a darvi applicazione ne accerti la portata contra legem.

Nei predetti limiti –derivanti dai canoni fondamentali di gerarchia delle fonti e di separazione dei Poteri- gli atti di tal natura sono atti diretti agli organi e uffici periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore normativo o provvedimentale o comunque vincolante per i soggetti estranei all'Amministrazione. Soccorre a tal proposito l’ormai diffusa teoria della disapplicazione, la quale tende a mitigare l’onere di impugnare espressamente e ritualmente innanzi al TAR la determinazione esplicativo-precettiva.
Una circolare amministrativa (o altro atto analogo) contra legem può essere, infatti, disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito dell'impugnazione dell'atto che ne faccia applicazione.

Anche qui l’orientamento giurisprudenziale è sostanzialmente univoco e se ne riportano di seguito solo alcuni estratti da fungere quale elemento di stimolo e di studio per i dirigenti e funzionari dell’Agenzia delle Entrate: TAR Umbria, 06/05/2014, n. 248; TAR Lazio, Roma, sez. I, 07/02/2014, n. 1507; TAR,Puglia, Lecce, sez. I, 10/10/2012, n. 1653; Cons. Stato, sez. VI, 13/09/2012, n. 4859).
CONSIDERATO IN CONCLUSIONE.
Il ricorso va accolto e le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
Il Collegio ravvisa nel comportamento dell’Agenzia delle Entrate che continua ad ignorare i richiamati, concordi insegnamenti giurisprudenziali elementi di grave negligenza ed imperizia, che continuano ad alimentare un inutile contenzioso dal prevedibile esito negativo per la parte pubblica, con i conseguenti oneri economici per le finanze pubbliche connessi alla necessaria condanna alle spese (art. 26 c.p.a.) come nel caso di specie.
Il Collegio manda pertanto alla Segreteria del TAR perché invii copia della presente sentenza alla Procura regionale della Corte dei Conti, al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri, al Sig. Ministro dell’Economia
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ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl ricorrente, in quanto proprietario di un immobile adiacente a quello della società controinteressata, ha chiesto di poter accedere alla documentazione relativa ai titoli edilizi e paesaggistici “richiesti, denegati e concessi” concernenti “l’intervento inerente il cambio di destinazione d’uso da lastrico solare a terrazzo praticabile (roof garden) con realizzazione di torrino ascensore ed installazione di pergolato presso l’albergo denominato ...”.
Ritiene il Collegio che in capo al ricorrente, in ragione del divisato presupposto della vicinitas, deve riconoscersi la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, prevede quale presupposto per la legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa domanda.
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... per l'accertamento dell’illegittimo silenzio/inadempimento perfezionatosi sull’istanza di accesso inoltrata al Comune di Vico Equense a mezzo PEC in data 30.08.2016;
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Preliminarmente devono essere respinte le eccezioni di inammissibilità del ricorso perché proposto, secondo la prospettazione dei resistenti, ai sensi dell’art. 117 c.p.a. (ricorso avverso il silenzio inadempimento) e non ai sensi dell’art. 116 c.p.a. (accesso ai documenti amministrativi).
Deve, infatti, osservarsi che ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a. il giudice ha l’obbligo di qualificare l’azione proposta in base ai suoi elementi sostanziali.
Nella fattispecie, l’azione proposta è volta ad accertare il diritto del ricorrente (e il conseguente obbligo del Comune) di accedere alla documentazione richiesta con l’istanza del 30.08.2016 e sulla quale si è formato un provvedimento tacito di rigetto tempestivamente impugnato (il ricorso è stato notificato ai resistenti in data 19.10.2016). E’ evidente, quindi, che la domanda giudiziale (sebbene proposta dal ricorrente ai sensi dell’art. 117 c.p.a.) ha tutti i requisiti di forma e sostanza per essere qualificata come azione ai sensi dell’art. 116 c.p.a. volta all’annullamento del provvedimento tacito di rigetto dell’istanza di accesso e all’accertamento del diritto di ottenere la documentazione richiesta (con conseguente obbligo del Comune di esibirla).
Ciò premesso, il ricorso è fondato.
Il ricorrente in quanto proprietario di un immobile adiacente a quello della società controinteressata ha chiesto di poter accedere alla documentazione relativa ai titoli edilizi e paesaggistici “richiesti, denegati e concessi” concernenti “l’intervento inerente il cambio di destinazione d’uso da lastrico solare a terrazzo praticabile (roof garden) con realizzazione di torrino ascensore ed installazione di pergolato presso l’albergo denominato “Le An.” sito alla via ... n. ...”.
Ritiene il Collegio che in capo al ricorrente, in ragione del divisato presupposto della vicinitas, deve riconoscersi la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, prevede quale presupposto per la legittimazione all'azione e l'accoglimento della relativa domanda.
Deve, inoltre, osservarsi che -contrariamente a quanto eccepito dal Comune resistente- la domanda di accesso è tutt’altro che generica in quanto individua o comunque consente di individuare agevolmente (cfr. D.P.R. 184/2006) gli atti richiesti che riguardano i titoli rilasciati per uno specifico intervento edilizio realizzato dalla controinteressata. Del resto lo stesso Comune con la nota inoltrata per conoscenza al ricorrente in data 24.05.2017 (e da quest’ultimo depositata) ha chiesto alla società controinteressata di evidenziare eventuali motivi di opposizione all’accesso agli atti in mancanza dei quali “procederà ad evadere” la richiesta; nonostante tale intendimento il Comune non risulta allo stato avere ancora adempiuto.
Quanto precede basta per concedere ingresso alla pretesa qui fatta valere, nella precisazione che siffatta decisione in nulla è condizionata da valutazioni circa la fondatezza delle eventuali pretese alla cui tutela l'acquisizione della documentazione è strumentale posto che, per costante giurisprudenza, il diritto di accesso è autonomo rispetto alla posizione giuridica posta a base della relativa istanza (cfr., per tutte, Tar Campania, questa sezione sesta, 11.03.2010, n. 1373).
In definitiva, alla luce di quanto fin qui argomentato, il ricorso deve essere accolto con conseguente accertamento del diritto all’ostensione, per effetto del quale l’amministrazione intimata dovrà consentire l’accesso, secondo le modalità indicate in dispositivo (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3382 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl potere di autotutela è un potere discrezionale attribuito alle amministrazioni, che presuppone sia l'illegittimità dell'atto amministrativo annullando, sia la sussistenza di ragioni di interesse pubblico all'annullamento, entro un termine ragionevole.
La norma di cui all'art. 21-nonies L. n. 241/1990 prevede, dunque, che al fine di procedere all'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo la P.A. necessita di un triplice ordine di presupposti: che l'atto sia illegittimo; che sussistano ragioni di interesse pubblico che ne giustifichino l'annullamento e che il tutto avvenga entro un termine ragionevole.
Nell’adozione dell’atto, inoltre, occorre tener conto degli interessi del destinatario; l’Amministrazione è infatti chiamata a svolgere un bilanciamento tra gli opposti interessi prima di decretare l’annullamento di un atto in autotutela. Di tutti questi elementi è necessario dare conto in motivazione.
In particolare, con riguardo all’annullamento di titoli edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d'ufficio di un titolo edilizio devono rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell'articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241, consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati.
I presupposti dell'esercizio dell’autotutela dei titoli edilizi sono quindi costituiti dall'illegittimità originaria del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla loro rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.
E’ noto che l'esercizio del potere di autotutela è espressione di rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti.
L'ambito della motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati; nonché dell'eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi).
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Per quanto riguarda poi la disciplina dell’annullamento di ufficio anche questa risulta illegittimamente applicata dal Comune.
L’art. 21-nonies della legge 241/1990, nella formulazione ratione temporis applicabile, dispone infatti che “Il provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il potere di autotutela è un potere discrezionale attribuito alle amministrazioni, che presuppone sia l'illegittimità dell'atto amministrativo annullando, sia la sussistenza di ragioni di interesse pubblico all'annullamento, entro un termine ragionevole (Cons. Stato Sez. IV, 05.05.2016, n. 1808).
La norma di cui all'art. 21-nonies L. n. 241/1990 prevede dunque che al fine di procedere all'annullamento d'ufficio di un atto amministrativo la P.A. necessita di un triplice ordine di presupposti: che l'atto sia illegittimo; che sussistano ragioni di interesse pubblico che ne giustifichino l'annullamento e che il tutto avvenga entro un termine ragionevole. Nell’adozione dell’atto, inoltre, occorre tener conto degli interessi del destinatario; l’Amministrazione è infatti chiamata a svolgere un bilanciamento tra gli opposti interessi prima di decretare l’annullamento di un atto in autotutela. Di tutti questi elementi è necessario dare conto in motivazione (Cons. Stato Sez. III, 10.05.2017, n. 2169).
In particolare, con riguardo all’annullamento di titoli edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d'ufficio di un titolo edilizio devono rispondere ai requisiti di legittimità codificati nell'articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241, consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, comparato con i contrapposti interessi dei privati (Consiglio di Stato, sez. VI, 29/01/2016, n. 351).
I presupposti dell'esercizio dell’autotutela dei titoli edilizi sono quindi costituiti dall'illegittimità originaria del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed attuale alla loro rimozione (diverso dal mero ripristino della legalità), tenuto conto anche delle posizioni giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari. E’ noto che l'esercizio del potere di autotutela è espressione di rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati presupposti. L'ambito della motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei privati; nonché dell'eventuale negligenza o della malafede del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati attivi) (TAR Napoli, sez. VIII, 04/11/2015, n. 5117, sez, VI n. 3552/2016).
Nella fattispecie all’esame di questo giudice non emerge che l’Amministrazione abbia posto a fondamento della sua scelta alcuna argomentazione in merito all’interesse pubblico che si intende tutelare e alcuna ponderazione degli interessi coinvolti se non quella, peraltro errata, della non intervenuta decorrenza del termine assegnato alla Soprintendenza per pronunciarsi sulla autorizzazione paesaggistica n. 46 del 31/12/2009 rilasciata dal Comune e inoltrata all’Ente statale il 04.01.2010.
L’illegittimità dell’operato dell’amministrazione locale emerge ancor di più se si tiene conto che l’Amministrazione ha deciso di agire in autotutela dopo circa 3 anni dal rilascio del titolo, termine troppo lungo che imponeva una particolare istruttoria sia in merito all’affidamento ingenerato nei ricorrenti per il decorso del tempo che con riguardo alle ragioni di pubblico interesse.
Oltre al provvedimento assunto in autotutela n. 16014/2014, conseguentemente deve essere annullata anche l’ordinanza di demolizione n. 128/2014 assunta sulla base proprio del disposto annullamento in autotutela.
L’art. 27, comma 2, del d.P.R. 380/2001, richiamato nella detta ordinanza di demolizione prevede che “Il dirigente o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o adottate, a vincolo di inedificabilità, ……nonché in tutti i casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi…..”. Tale norma non può ritenersi applicabile alla presente fattispecie in quanto le opere contestate non risultano realizzate abusivamente, ma in forza del permesso di costruire n. 23/2011.
Conclusivamente il ricorso va accolto con il conseguente assorbimento delle ulteriori censure formulate e per l’effetto vanno annullati gli atti impugnati (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3378 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo comproprietario interessato, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Altresì, cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale, contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può anche comportare la sanzione della acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto dipende dalle singole fattispecie: il proprietario incolpevole della singola particella sarà tenuto a non frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non potrà essere riferita al proprietario incolpevole la previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla demolizione.

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Rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione circa le ragioni della sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
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In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
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Prive di pregio si appalesano le censure di carattere formale-procedimentale, in disparte l’irrilevanza delle stesse a fronte di un provvedimento di natura vincolata a contenuto conforme rispetto ai dettami di legge (art. 21-octies, II co., L. 241/1990).
Ed, invero, per giurisprudenza pacifica (cfr. da ultimo TAR Venezia, sez. I, 20/11/2015, n. 1240), la mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo comproprietario interessato, ai fini della successiva acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Del pari va ribadito il principio di diritto per cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale, contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui mancato adempimento può anche comportare la sanzione della acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto dipende dalle singole fattispecie: il proprietario incolpevole della singola particella sarà tenuto a non frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non potrà essere riferita al proprietario incolpevole la previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla demolizione.
Sul piano procedimentale –in disparte la corretta attivazione del meccanismo informativo-partecipativo ed i già svolti rilievi in punto di vizi formali non invalidanti– va ribadito l’assunto (cfr., da ultimo, TAR Napoli, sez. IV, 27/03/2017, n. 1668) per cui rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea generale, una specifica motivazione circa le ragioni della sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico, concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento.
Nel caso di specie, in particolare, le descritte opere risultano eseguite in assenza di atti abilitativi per costruire, ricadenti in zona P.I. , comportandone trasformazione urbanistica edilizia del territorio tanto da indurre il Comune di Capri a disporre la sanzione demolitoria prevista dall'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001. Oltre a ciò, le opere "abusive" risultano realizzate in violazione degli obblighi stabiliti dalle disposizioni del Titolo I, Parte Terza del Dlgs 22/01/2004 n. 42. Infine, le stesse opere risultano ricadere in zona classificata a rischio sismico di classe III dal 28/11/2002 ai sensi della L. 64/1974 e della L.R. 9/83 e pertanto sanzionate in applicazione del decreto legislativo n. 42/2004 n. 42, violando, tra l'altro, l'articolo 146 della stessa norma s.m.i..
Ne discende altresì l’infondatezza della censura relativa al mancato parere della Commissione edilizia, atteso che in sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere edilizie abusive su area vincolata non è necessario acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal momento che l'ordine di ripristino discende direttamente dall'applicazione della disciplina edilizia e non costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio (in termini TAR Napoli, sez. VI, 20/02/2017, n. 996) (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici, avendo rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza e immobile principale, quanto che la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico e che vengano in rilievo manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio.
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Infine e nel merito, non colgono nel segno le censure di merito volte ad evidenziare la mancata considerazione della vetustà delle opere in questione e la loro prevalente natura pertinenziale.
Di contro s’osserva, da un lato, che è del tutto irrilevante che alcuni manufatti siano già da tempo esistenti, atteso che –ed al fuori da vicende condonistiche legate all’epoca di realizzazione degli abusi- possono essere oggetto di demolizioni anche quelle opere abusive che comportino un aumento del volume dell'immobile preesistente; dall’altro lato i manufatti realizzati non possono essere considerate pertinenze, e quindi non soggette all'ordinanza di demolizione, avendo la giurisprudenza amministrativa chiarito che le opere, come nel caso di specie, aventi carattere di stabilità ed aventi un'utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere considerate una mera pertinenza, costituiscono un'opera esterna per la cui costruzione occorre il permesso di costruire, non potendo fruire di regimi semplificati allorquando le loro dimensioni sono di entità tali da arrecare una visibile alterazione all'edificio, come nel caso che ci occupa.
Più in generale, deve ricordarsi come la nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici, avendo rilievo determinante non tanto il legame materiale tra pertinenza e immobile principale, quanto che la prima non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con l'edificio principale, così da non incidere sul carico urbanistico e che vengano in rilievo manufatti di dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio, con la conseguenza che nel caso di specie, in ragione del dato qualitativo-quantitativo, non potrà riconoscersi siffatto carattere alle opere de quibus (TAR Campania-Napoli, Sez. VI, sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere in ordine alla competenza, a seguito del primo correttivo al Codice dei contratti pubblici, ad adottare gli atti di attuazione del sistema di qualificazione del contraente generale.
1. Oggetto del parere
Il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha chiesto al Consiglio di Stato un parere in ordine alla portata degli artt. 197 e 199 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).
Il quesito ha ad oggetto la competenza, a seguito del decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 (Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016, n. 50), ad adottare gli atti di attuazione del sistema di qualificazione del contraente generale: in particolare, il dubbio è sorto in quanto dalla lettura del citato articolo 197 sembra che la competenza sia dell’ANAC mediante l’adozione di linee guida, mentre dalla lettura del citato articolo 199 sembra che la competenza sia del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti mediante l’adozione di un decreto.
Si è trattato, pertanto, di stabilire se sia estensibile anche al sistema di qualificazione del contraente generale l’art. 83, coma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, come modificato dal decreto correttivo, nella parte in cui, recependo i rilievi prospettati dal Consiglio di Stato, con il parere 01.04.2016, n. 855, prevede che il sistema generale di qualificazione degli operatori economici debba avvenire mediante decreto ministeriale in ragione della natura “intrinsecamente normativa” del suo contenuto.
2. La risposta del Consiglio di Stato
Nel fornire la risposta al quesito nel parere è stata ricostruita la normativa che nel tempo si è succeduta in relazione al sistema di qualificazione degli operatori economici e del contraente generale.
Alla luce della ricostruzione effettuata la Commissione Speciale ha ritenuto che la volontà del legislatore sia stata quella di “estendere” anche al contraente generale la modifica che ha riguardato le disposizioni generali di qualificazione.
A tale conclusione, il Consiglio di Stato è pervenuto all’esito dell’analisi del dato letterale e della ragione sistematica dell’intervento correttivo.
Sul piano letterale, il legislatore ha modificato espressamente il regime transitorio di cui agli artt. 199 e 216, comma 27-bis, relativi al contraente generale, mediante un espresso richiamo al decreto di cui al secondo comma dell’art. 83. La mancata modifica anche dell’art. 197, per quanto si tratti della norma che pone la disciplina a regime, non può avere valenza determinante, proprio in ragione del fatto che la stessa non è stata oggetto di modifiche.
Sul piano della ragione sistematica, il legislatore del 2016 ha effettuato una chiara opzione a favore del sistema “unitario” che eviti differenziazioni di regime del sistema qualificazione dipendenti dalla presenza di un qualsiasi operatore economico ovvero di un contraente generale. In questo senso depone l’attribuzione alle SOA dei compiti di attestazione che nel precedente sistema erano affidati, per il solo contraente generale, ad un decreto ministeriale.
Deve, pertanto, presumersi che il legislatore del 2017 abbia inteso continuare lungo questo percorso unitario, estendendo anche al contraente generale la modifica che ha riguardato la natura delle fonti di regolazione. Del resto, si sottolinea nel parere, è la valenza intrinsecamente normativa dell’atto che giustifica la sua veste regolamentare. Ed è indubbio che tale valenza l’atto l’abbia anche quando esso trovi applicazione nell’ambito della disciplina del contraente generale.
3. Misure da adottare
In relazione al sistema di qualificazione nel parere sono stati segnalati alcuni errori materiali, conseguenza di un mancato coordinamento normativo che possono essere corretti con un avviso di rettifica.
In particolare, tale avviso dovrà sostituire i riferimenti alle linee guida contenuti nell’art. 83, comma 2, e nell’art. 216 con il riferimento al “decreto di cui all’art. 83, comma 2”.
In relazione al sistema di qualificazione del contraente generale, che è l’oggetto specifico del parere, la Commissione speciale ha sottolineato come la misura più idonea per ridare coerenza al sistema sia rimessa al legislatore. In questo caso, infatti, la difficoltà del ricorso al mero avviso di rettifica deriva dal fatto che non è sufficiente una mera sostituzione delle espressioni “linee guida” con “decreto di cui al secondo comma dell’art. 83”.
Ciò in quanto, il sistema di qualificazione rimane comunque affidato ad una pluralità di atti (linee guida e decreti regolamentari) che presentano un contenuto eterogeneo. E’ dunque necessaria una modifica sostanziale della norma (Consiglio di Stato, Comm. spec., parere 21.06.2017 n. 1479 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla distanza da osservare nel costruire un barbecue a confine.
Per l’art. 890 c.c. chi presso il confine vuole fabbricare forni o camini, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza.
Tale articolo va quindi letto nel senso di considerare le cose espressamente elencate come gravate da una presunzione assoluta di nocività o pericolosità.
Il rispetto della distanza prevista dall’art. 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche i forni, è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino.
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La Corte territoriale ha posto a fondamento della sua decisione le risultanze della consulenza tecnica di ufficio secondo le quali il barbecue in questione avrebbe dovuto essere collocato a non meno di 5-6 metri dalla proprietà del resistente (distanza che la corte territoriale ha affermato essere persino troppo modesta) e che il predetto manufatto invece era stato posto molto vicino alle finestre dell'abitazione privata di An.Ma., che risultavano "soprastanti per poche decine di centimetri", mentre la casa era situata "in posizione soprastante la piccola area esterna ove il sig. Ca.In. ha collocato il suo barbecue" e ha aggiunto che "le fotografie in atti sono più eloquenti di ogni scritto sull'argomento e il rinvio alla loro diretta visione potrebbe bastare quale motivazione della pronuncia giudiziale".
La Corte di appello ha qualificato il barbecue un forno e ha dato atto che il Tribunale, accogliendo la domanda ex art. 890 c.c. dell'attore aveva rilevato che era costituito da un manufatto in muratura il cui comignolo si trovava ad una distanza minima da meno di un metro a due metri circa da alcune finestre del soprastante appartamento dell'attore.
Per l'art. 890 c.c. chi presso il confine vuole fabbricare forni o camini, per i quali può sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e sicurezza.
Tale articolo va quindi letto nel senso di considerare le cose espressamente elencate come gravate da una presunzione assoluta di nocività o pericolosità.
Il rispetto della distanza prevista dall'art. 890 c.c., nella cui regolamentazione rientrano anche i forni
(tale essendo qualificato dalla Corte di appello il manufatto), è collegato ad una presunzione assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata ove la parte interessata al mantenimento del manufatto dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno del fondo vicino (Cass. 22/10/2009 n. 22389; Cass. 06/03/2002 n. 3199).
Va precisato che
la presunzione che deve essere superata non è una presunzione di danno, ma una presunzione di pericolo che si produca il danna e prescinde dall'accertamento in concreto del danno, dovendo invece essere valutata in concreto la pericolosità del forno ancorché non in attività.
Ne discende quale necessaria conseguenza, l'irrilevanza di un accertamento svolto con il forno in funzione essendo invece sufficiente la potenzialità dell'esalazione nociva o molesta, potenzialità che è stata appunto accertata dal CTU A nulla rileva che l'apertura più vicina fosse una luce od una veduta e che si aprisse all'esterno del seminterrato, dovendosi tenere conto del complessivo mancato rispetto delle distanze come accertata in concreto dalla Corte di appello sulla base della CTU e in base alla posizione del forno rispetto all'immobile del resistente.
Il motivo deve pertanto essere rigettato.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell'art. 115 c.p.c. e sostiene che la Corte di appello ha erroneamente applicato la nozione del notorio ritenendo di comune esperienza la nocività delle immissioni provocate dal barbecue senza avere valutato in concreto la effettiva nocività e pericolosità del manufatto, amovibile in quanto soltanto appoggiato al suolo.
2.1. La Corte di appello ha rilevato che per il comune buon senso e per le nozioni di comune esperienza il carbone di legna è nocivo.
Il motivo è infondato perché
rientra ormai nella comune esperienza che dalla bruciatura del carbone di legna (come rilevato dalla Corte di appello) si sviluppa una sostanza cancerogena; già nel 2010 l'Agenzia Internazionale per la ricerca sul cancro ha inserito il fumo di legna tra i possibili agenti cancerogeni; va aggiunto che anche su quotidiani a larga tiratura è stata evidenziata la nocività dei fumi da barbecue (v. ad es. il quotidiano La Stampa 08/08/2012 inserto salute) (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 20.06.2017 n. 15246 - massima tratta da https://renatodisa.com).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATA: Si possono installare antenne per radioamatori su tetti condominiali senza titolo edilizio.
LE antenne come quella di cui si è dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
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A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma 2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento locale possa considerare un’attività costruttiva in modo differente rispetto ai principi generali posti dalla norma di legge citata.
Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione dell’antenna.
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L’impugnazione è relativa ad un atto con cui il comune di Genova ha ingiunto all’interessato la rimozione dell’antenna per radioamatore installata sulla copertura dell’immobile condominiale ubicato in via ... 19. Il bene si eleva per circa undici metri.
In relazione alle censure proposte il collegio deve premettere una considerazione generale e assorbente in ordine alla situazione soggettiva dedotta: risulta infatti dall’esame della prevalente giurisprudenza in argomento (tar Lazio, Latina, 2011/861, tar Abruzzo, Pescara, 2009, n. 207, tar Piemonte, 2002, n. 2156) che le antenne come quella di cui si è dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
La tesi è poi corroborata e non già smentita dalla giurisprudenza citata dalla difesa comunale, posto che le pronunce allegate presuppongono l’intervento autorizzativo della p.a. solo nel caso in cui l’impianto riguardi un sito paesisticamente rilevante, cosa che l’atto in questione non allega si sia verificato.
Ne deriva che, al di là delle censure dedotte, il provvedimento è carente nel presupposto che lo fonda, posto che esso non specifica la ragione per cui in una zona paesisticamente non significativa sarebbe necessario munirsi di un titolo edilizio per installare un’antenna da radioamatore.
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma 2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento locale possa considerare un’attività costruttiva in modo differente rispetto ai principi generali posti dalla norma di legge citata. Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione dell’antenna.
Il ricorso è pertanto fondato e va accolto, conseguendo da ciò la condanna del comune soccombente alle spese di lite sostenute dall’interessato, oneri che vengono liquidati equamente date la natura della controversia e la lontananza nel tempo dei fatti per cui è lite (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 20.06.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA: Giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di risarcimento del danno asseritamente risentito per aver fatto affidamento sulla legittimità di provvedimenti urbanistici ed edilizi successivamente annullati dal Tar.
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Giurisdizione – Risarcimento danni - Affidamento sul legittimità di provvedimenti urbanistici ed edilizi successivamente annullati dal Tar – Controversia – Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la domanda di risarcimento del danno asseritamente risentito per aver fatto affidamento sulla legittimità di provvedimenti urbanistici ed edilizi successivamente annullati dal Tar; la domanda giudiziale non attiene, infatti, ad atti e provvedimenti già adottati in materia, e neppure all’esercizio del potere amministrativo, espletatosi con l’approvazione del piano di lottizzazione e con il rilascio delle concessioni edilizie, ma all’attitudine del pregresso esercizio del potere amministrativo -sfociato nei provvedimenti illegittimi- a determinare come conseguenza causale l’insorgenza di un incolpevole affidamento nella permanenza della situazione di vantaggio ottenuta (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che la questione ricade nella giurisdizione del giudice ordinario perché involge l’apprezzamento del comportamento tenuto dalla pubblica amministrazione (cfr. Cass. civ., s.u., ord., 04.09.2015, n. 17586; id. 22.01.2015, n. 1162; id. 03.05.2013, n. 10305; id. 23.03.2011, n. 6594) (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 19.06.2017 n. 211 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Giustificazione della non anomalia dell'offerta di gara pubblica.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte anomale – Giustificazioni – Oggetto - Individuazione.
Ai sensi dell’art. 97, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, le giustificazioni rese dall’offerente nell’ambito del giudizio di anomalia della propria offerta devono riguardare elementi che concernono l’offerta stessa, tra cui l’economia del processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione; le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i lavori; l’originalità dei lavori, delle forniture o dei servizi proposti (1).
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   (1) Il Tar ha ritenuto inidonee a giustificare il notevole ribasso offerto dalla ricorrente le giustificazioni che si basano su elementi aleatori e futuri estranei all’offerta stessa, quali gli eventuali introiti che sarebbe possibile ricavare dalla vendita di un terreno ovvero dalla vendita di appartamenti da costruire sul terreno medesimo (TAR Umbria, sentenza 16.06.2017 n. 457 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. Viene all’esame del Collegio la legittimità degli atti riguardanti la procedura di gara per l’affidamento “dei lavori di realizzazione della Piazza dell’Archeologia con parte del corrispettivo costituito da trasferimento dell’immobile”, da effettuarsi presso il Comune di Città di Castello.
2. Con il primo motivo di ricorso, la società ricorrente sostiene che in sede di valutazione dell’anomalia della propria offerta, la stazione appaltante avrebbe errato nel ritenere insufficienti ed incongruenti le giustificazioni prodotte in ordine agli introiti derivanti dalla vendita del terreno che costituisce parte del corrispettivo, ovvero in relazione agli appartamenti che sarebbe possibile costruire e poi vendere su detto terreno.
2.1. Il motivo è infondato e va respinto.
2.2. Osserva infatti il Collegio che
ai sensi dell’art. 97 del d.lgs. n. 50/2016, le giustificazioni rese dall’offerente nell’ambito del giudizio di anomalia della propria offerta, devono riguardare elementi che concernono l’offerta stessa, tra cui: l’economia del processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione; le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i lavori; infine, l’originalità dei lavori, delle forniture o dei servizi proposti.
2.3. Contrariamente al suesposto dato normativo, la società ricorrente ha invece tentato di giustificare il notevole ribasso offerto, facendo affidamento su elementi aleatori e futuri estranei all’offerta stessa, quali gli eventuali introiti che sarebbe possibile ricavare dalla vendita del terreno facente parte della remunerazione della ditta aggiudicataria, ovvero dalla vendita di appartamenti da costruire sul terreno medesimo.
2.4. Appare pertanto corretta la valutazione effettuata dalla stazione appaltante, secondo cui deve ritenersi “infondata l’impostazione dell’impresa che ritiene di poter coprire costi derivanti dall’esecuzione del contratto mediante utili conseguibili eventualmente solo in un tempo successivo per mezzo di un negozio giuridico differente”.

EDILIZIA PRIVATA: Manufatto abusivo - Ingiunzione alla demolizione - Rigetto della richiesta di revoca o sospensione - Condanna definitiva - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Valutazione effettuata dall'amministrazione comunale - Criteri.
In materia urbanistica, la situazione particolare che viene a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale, sottraendo l'opera abusiva la suo normale destino, che è la demolizione, presuppone che la valutazione effettuata dall'amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il quale va precisamente individuato, dando atto delle specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi escludere che possano assumere rilievo determinazioni di carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o fondate su valutazioni di carattere generale (Sez. 3, n. 25824 del 22/05/2013, Mursia; V. anche Sez. 3, n. 9864 del 17/02/2016, Corleone e altro).
Immobile abusivo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico - Condono edilizio ex legge 326/2003 - Provvedimento di sanatoria - Amministrazione comunale - Presupposti per l'emissione - Giurisprudenza.
La realizzazione, in area assoggettata a vincolo paesaggistico, di nuove costruzioni in assenza di permesso di costruire non è suscettibile di sanatoria (v. da ultimo, Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, nonché ex. pi. Sez. 3, n. 35222 del 11/04/2007, Manfredi e altro; Sez. 3, n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi; Sez. 4, n. 12577 del 12/01/2005, Ricci) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 15.06.2017 n. 30170 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla non sanabilità di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona agricola mediante livellamento del terreno e successivo riporto di ghiaia.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività agricola.
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Con gli atti impugnati il Comune di Crespano del Grappa ha denegato (18/19.05.2000, n. 2499) la sanatoria e il nulla osta paesistico di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona agricola mediante livellamento del terreno e successivo riporto di ghiaia, e di un muro di recinzione e contenimento a confine con il fondo adiacente del vicino, situato a livello inferiore.
L’autorizzazione 24.11.1990 per l’esecuzione di recinzione metallica su pali in ferro e per il “livellamento della depressione presente nel terreno agricolo"........... “al fine di realizzare un miglioramento fondiario del terreno” medesimo, non può evidentemente coprire la realizzazione di un muro di contenimento per proteggere il fondo confinante dal deflusso dell’acqua piovana e dal franamento del materiale ghiaioso (abusivamente riportato), né lo spianamento del terreno agricolo e la sua copertura con un materiale ghiaioso per realizzarvi un parcheggio, trattandosi di opere ben diverse da quelle autorizzate.
Un muro lungo 52 m e di altezza 2.40 (giustamente misurata dal piano di campagna esterno, perché i limiti di altezza, ed anche il vincolo paesaggistico di zona sono imposti a tutela dell’interesse pubblico e del contesto ambientale e non del fondo di sedime dell’abuso) è cosa ben diversa dalla recinzione metallica su pali (es. TAR Campania 677/2017; TAR Bologna I sez., 1003/2014); senza contare che l’art. 88 della NTA allora vigenti consentiva in zona agricola solo la recinzione delle aree di pertinenza dei fabbricati, in nessun caso di altezza superiore ai 2 m, quindi non vi era alcuna possibilità di sanatoria per mancanza della doppia conformità.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività agricola (cfr. TAR Veneto II, n. 5244/2010, Tar Campania VIII, n. 1397/2016, TAR Val D’Aosta I sez., n. 55/2016).
Anche per questo abuso, dunque, la sanatoria non poteva che essere de negata per mancanza della doppia conformità.
Tanto premesso sulle caratteristiche del muro di contenimento, è evidente che il diniego del nulla osta paesaggistico è adeguatamente motivato con l’affermazione che il muro “per posizione e tipologia interrompe i coni visuali di pregio ambientale” (cfr. Tar Toscana III 1238/2012 sui limiti dell’onere motivazionale del diniego di autorizzazione paesaggistica).
Dunque, tutti i motivi sono infondati.
Il ricorso è respinto (TAR Veneto, Sez. II, sentenza 15.06.2017 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Esclusione dalla gara per l’affidamento in concessione di un servizio per omesso versamento del contributo all’Anac.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per omesso versamento del contributo all’Anac – Gara per l’affidamento in concessione di un servizio – Non comporta l’esclusione.
L’omesso versamento, da parte del concorrente di una gara pubblica per l’affidamento in concessione di un servizio, del contributo all’Anac, previsto dall’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266, non comporta l’esclusione dalla procedura, non essendo il cit. comma 67 dell’art. 1 applicabile alla concessione di servizi (1).

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   (1) Ha chiarito il Tar che l’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266 pone il versamento del contributo all’Anac come condizione di ammissibilità dell’offerta unicamente per gli appalti di opere pubbliche. Ne consegue che, in difetto di espressa previsione di legge, tale previsione non può estendersi alle concessioni di servizi, perché una simile estensione risulterebbe incompatibile con il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla gara previsto dall’art. 83, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
Ad avviso del Tribunale, inoltre, l’estensione alle concessioni di servizi della causa di esclusione dagli appalti pubblici consistente nel mancato versamento del contributo all’Anac si porrebbe in contrasto anche con il principio generalissimo che non consente l’applicazione di una norma eccezionale fuori dai casi da essa espressamente contemplati.
Il Tar ha quindi concluso che in base all’ora vista pronuncia dei giudici comunitari, il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza ostano all’esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, dell’obbligo di pagamento di un contributo (nel caso di specie: il contributo all’Anac) che non risulti espressamente dai documenti di gara o da norme di legge, bensì da una loro interpretazione (non condivisibile, per quanto sopra detto): infatti, in tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità non ostano a che si consenta al citato operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere a tale obbligo entro un termine fissatogli dall’amministrazione aggiudicatrice (TAR Veneto, Sez. I, sentenza 15.06.2017 n. 563 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
- Considerato, in particolare, che nel merito le censure della ricorrente si incentrano, a ben guardare, tutte sulla stessa questione, cioè sul mancato versamento nella gara de qua, da parte della S.. S.r.l., del contributo all’Autorità di Vigilanza (ora all’A.N.A.C.) di cui all’art. 1, comma 67, della l. n. 266/2005;
- Considerato, tuttavia, che come già accennato in sede cautelare, l
’art. 1, comma 67, della l. n. 266 cit. non è applicabile alla fattispecie all’esame, avente ad oggetto una concessione di servizi, poiché la disposizione in parola pone il versamento del ridetto contributo come condizione di ammissibilità dell’offerta unicamente per gli appalti di opere pubbliche: la succitata condizione di ammissibilità non può, in difetto di espressa previsione di legge, estendersi alle concessioni di servizi, perché una simile estensione risulterebbe incompatibile con il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla gara (v. art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016 ed in passato art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006);
- Osservato, inoltre, che
l’estensione alle concessioni di servizi della causa di esclusione dagli appalti pubblici consistente nel mancato versamento del contributo all’A.N.A.C. si porrebbe in contrasto, oltre che con la lettera della legge, con il principio generalissimo che non consente l’applicazione di una norma eccezionale fuori dai casi da essa espressamente contemplati;
- Considerato, ancora, che
anche ove si volesse sostenere la doverosità del versamento del contributo nel caso di specie e che, pertanto, la S. S.r.l. fosse tenuta a versarlo, ne deriverebbe non già l’esclusione di detta società per il mancato versamento del contributo, ma soltanto la fissazione alla società stessa di un termine per regolarizzare la propria posizione (così il recentissimo arresto della Corte Giust. UE, 02.06.2016, n. 27);
- Considerato, infatti, che, in base all’ora vista pronuncia dei giudici comunitari,
il principio di parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza ostano all’esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, dell’obbligo di pagamento di un contributo (nel caso di specie: il contributo all’AVCP) che (come nella vicenda qui in esame) non risulti espressamente dai documenti di gara o da norme di legge, bensì da una loro interpretazione (non condivisibile, per quanto sopra detto): infatti, in tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità non ostano a che si consenta al citato operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere a tale obbligo entro un termine fissatogli dall’amministrazione aggiudicatrice;
- Ritenuto in definitiva, alla luce di quanto si è esposto, di dover dichiarare il ricorso manifestamente infondato ai sensi dell’art. 74 c.p.a..

EDILIZIA PRIVATACome è noto, soltanto con l’entrata in vigore dell’articolo 10 della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) è stato novellato l’articolo 31 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, mediante l’introduzione dell’obbligo generalizzato di munirsi della licenza edilizia per tutte le trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite nell’intero territorio comunale. In precedenza, tale obbligo aveva invece una portata limitata, in quanto il richiamato articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
Dalla suddetta disposizione deriva che, per le costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della novella del 1967, la licenza edilizia non fosse richiesta, salvo che l’opera ricadesse nel centro abitato o nelle zone di espansione, e salvo inoltre –secondo l’orientamento fatto proprio recentemente dalla Sezione– il caso in cui l’obbligo di munirsi del titolo edilizio fosse comunque previsto dai regolamenti edilizi comunali.
La giurisprudenza ha, inoltre, ripetutamente affermato che “l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione delle opere della cui demolizione di tratta e sulla legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e non sulla P.A.”.
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Ritiene il Collegio che, con riferimento alle opere realizzate prima del 1967, l’applicazione di quest’ultimo principio comporti, ai fini del riparto dell’onere della prova, che spetta all’interessato dimostrare che l’edificio sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della novella che ha generalizzato l’obbligo di munirsi del titolo edilizio, e che tuttavia, una volta che la parte abbia dato questa prova, sia onere del Comune dimostrare che, nonostante l’epoca di realizzazione, l’edificazione richiedesse comunque il rilascio del titolo edilizio.
Ciò sia in quanto l’esistenza di una delle condizioni comportanti comunque la necessità della licenza costituisce un fatto impeditivo del dispiegarsi della situazione soggettiva allegata dal privato, sia per ragioni di prossimità della prova, atteso che, a distanza di molti anni, può risultare estremamente difficile per l’interessato acquisire la documentazione necessaria a dimostrare –in negativo– che la costruzione, all’epoca della sua realizzazione, non ricadesse in alcuna delle situazioni che avrebbero richiesto il previo rilascio del titolo edilizio.
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1. Con la proposizione del ricorso introduttivo del presente giudizio, la signora An.Ca.Da. ha impugnato l’ordinanza del Comune di Mandello del Lario in data 30.12.2015, con la quale le è stata ordinata la rimessione in pristino delle opere realizzate in difformità dal “Nulla Osta esecuzione opere edilizie” n. 1749 del 26.02.1962, con conseguente riconduzione dell’unità abitativa posta al quarto piano – sottotetto del fabbricato in Via ... 16/H alla destinazione di “ripostiglio”.
2. La ricorrente allega di aver acquistato nel 2011, mediante la stipulazione di un contratto di compravendita, la mansarda oggetto del provvedimento repressivo comunale. L’unità immobiliare, secondo quanto pure evidenziato dalla parte, sarebbe stata realizzata, con le stesse caratteristiche con le quali si presenta oggi, nel 1963, allorché fu costruito il fabbricato nel quale si colloca, e da allora sarebbe stata sempre destinata ad uso abitativo. L’esistenza della mansarda sarebbe peraltro nota da tempo all’Amministrazione, in quanto indicata nella relazione e certificato di collaudo delle opere in cemento armato del 1963, presente agli atti del Comune.
...
7. Il ricorso è fondato, dovendo trovare accoglimento il terzo motivo articolato dalla ricorrente, per le ragioni che di seguito si espongono.
8. Il provvedimento impugnato ha ordinato il ripristino della destinazione a ripostiglio della mansarda di proprietà della ricorrente, sulla base del riscontro della difformità della destinazione d’uso impressa all’immobile rispetto a quanto previsto dal nulla osta rilasciato nel 1962 per la costruzione dell’edificio ove è posto l’appartamento. La medesima ordinanza fa, inoltre, riferimento alla circostanza che l’unità abitativa non è indicata nel certificato di abitabilità, che si riferisce alle unità fino al terzo piano (mentre l’appartamento della ricorrente, come detto, si pone al quarto piano, costituito dal sottotetto).
9. Al riguardo, deve tenersi presente che come è noto, soltanto con l’entrata in vigore dell’articolo 10 della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) è stato novellato l’articolo 31 della legge urbanistica 17.08.1942, n. 1150, mediante l’introduzione dell’obbligo generalizzato di munirsi della licenza edilizia per tutte le trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite nell’intero territorio comunale. In precedenza, tale obbligo aveva invece una portata limitata, in quanto il richiamato articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
9.1 Dalla suddetta disposizione deriva che, per le costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della novella del 1967, la licenza edilizia non fosse richiesta, salvo che l’opera ricadesse nel centro abitato o nelle zone di espansione, e salvo inoltre –secondo l’orientamento fatto proprio recentemente dalla Sezione– il caso in cui l’obbligo di munirsi del titolo edilizio fosse comunque previsto dai regolamenti edilizi comunali (per quest’ultimo profilo v. Cons. Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n. 3899; Id., Sez. IV, 21.10.2008, n. 5141; TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 09.01.2017, n. 37).
9.2 La giurisprudenza ha, inoltre, ripetutamente affermato che “l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione delle opere della cui demolizione di tratta e sulla legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e non sulla P.A.” (in questo senso, ex multis: Cons. Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Ritiene il Collegio che, con riferimento alle opere realizzate prima del 1967, l’applicazione di quest’ultimo principio comporti, ai fini del riparto dell’onere della prova, che spetta all’interessato dimostrare che l’edificio sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della novella che ha generalizzato l’obbligo di munirsi del titolo edilizio, e che tuttavia, una volta che la parte abbia dato questa prova, sia onere del Comune dimostrare che, nonostante l’epoca di realizzazione, l’edificazione richiedesse comunque il rilascio del titolo edilizio. Ciò sia in quanto l’esistenza di una delle condizioni comportanti comunque la necessità della licenza costituisce un fatto impeditivo del dispiegarsi della situazione soggettiva allegata dal privato, sia per ragioni di prossimità della prova, atteso che, a distanza di molti anni, può risultare estremamente difficile per l’interessato acquisire la documentazione necessaria a dimostrare –in negativo– che la costruzione, all’epoca della sua realizzazione, non ricadesse in alcuna delle situazioni che avrebbero richiesto il previo rilascio del titolo edilizio.
10. Facendo applicazione di questi principi nel caso oggetto del presente giudizio, deve riscontrarsi che il fabbricato in cui è posta l’unità abitativa della ricorrente risulta essere stato realizzato nel 1963, come emerge dalla circostanza che in quell’anno furono emessi non solo il collaudo dei cementi armati (doc. 8 della ricorrente), ma anche il permesso di abitabilità (doc. 9 della ricorrente).
La signora Da. ha inoltre affermato che l’unità abitativa di sua proprietà, posta nel sottotetto, è stata realizzata con le attuali caratteristiche sin dal momento della costruzione dell’edificio, e a comprova di questa circostanza ha richiamato la relazione e certificato di collaudo delle opere in cemento armato del 1963, ove si legge che “Il sottotetto è accessibile mediante scala: nello stesso sottotetto sono stati ricavati due piccoli appartamenti in falda di tetto” (v. ancora il doc. 8 della ricorrente).
Sulla scorta di questi elementi di fatto, deve ritenersi effettivamente dimostrato che la destinazione del sottotetto a residenza sia avvenuta in epoca precedente al 1967. Circostanza, questa, peraltro non contestata dall’Amministrazione, né nel provvedimento impugnato, né in giudizio.
11. A fronte di questo dato, il Comune aveva perciò l’onere, secondo quanto sopra si è detto, di accertare –dandone conto nella motivazione dell’ordinanza di demolizione– che, nonostante l’epoca di realizzazione, le opere fossero soggette al rilascio del titolo edilizio.
11.1 Ciò, tuttavia, non emerge dalla lettura del provvedimento impugnato, il quale si limita a riscontrare la difformità del locale sottotetto rispetto al nulla osta rilasciato per l’edificazione dell’intero fabbricato nel 1962. La circostanza che sia stato emesso un “nulla osta” per l’esecuzione dell’intervento edificatorio non dimostra però, di per sé, che il previo rilascio del titolo fosse condizione necessaria per l’edificazione. E, d’altro canto, ove il titolo non fosse stato indispensabile, dovrebbe pure ritenersi irrilevante la circostanza che, nella realizzazione dell’intervento, l’allora proprietario si sia discostato dal nulla osta rilasciatogli.
11.2 Deve poi rilevarsi che, soltanto in giudizio, il Comune ha sostenuto, nelle proprie difese, che il fabbricato nel quale è situato il sottotetto si troverebbe “nel nucleo abitato consolidato del Comune” (v. memoria comunale in data 11.04.2016, p. 7). Secondo la prospettazione dell’Amministrazione, ciò si desumerebbe:
- dalla perimetrazione del centro edificato operata ai sensi della legge n. 865 del 1971, risultante dal Piano Regolatore Generale, la quale evidenzierebbe come l’abitato sia largamente sviluppato intorno all’edificio (doc. 5 del Comune);
- dalla fotografia tratta da Google Maps datata settembre 2010, che permetterebbe di riscontrare l’edificazione in epoca risalente dei fabbricati circostanti (doc. 14 del Comune).
I suddetti elementi, come anticipato, non risultano tuttavia essere stati fatti oggetto dell’istruttoria procedimentale e, comunque, non sono idonei a dimostrare la precisa circostanza che, nel 1963, l’area su cui sorge il fabbricato facesse parte del centro abitato.
11.3 Sotto altro profilo, non è dirimente, al fine di sorreggere la legittimità dell’ordinanza di demolizione, la circostanza che l’area entro la quale ricade l’immobile sia soggetta a vincolo paesaggistico.
Secondo l’Amministrazione, da questo dato dovrebbe discendere la necessarietà del provvedimento adottato, essendo stata disattesa l’autorizzazione rilasciata dalla Soprintendenza in relazione al progetto del 1962.
Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che dalle motivazioni dell’ordinanza emerge che il profilo di difformità riscontrato rispetto all’autorizzazione paesaggistica attiene solo al numero e alle dimensioni delle finestre, ossia a profili che di per sé avrebbero potuto giustificare unicamente un provvedimento diretto a disporre la regolarizzazione delle aperture, ma non anche il ripristino della destinazione del sottotetto a ripostiglio. E ciò in quanto il mero utilizzo del locale sottotetto per finalità abitative, e la realizzazione di opere interne atte a realizzare la predetta destinazione, non incidono, di per se stessi, sull’aspetto esteriore dell’edificio, e sono quindi irrilevanti, come tali, dal punto di vista paesaggistico.
12. In definitiva, il provvedimento impugnato risulta affetto dai dedotti vizi di difetto di istruttoria e di motivazione, sotto i profili illustrati.
Il ricorso va quindi accolto, con assorbimento delle rimanenti censure, e va disposto, per l’effetto, l’annullamento del provvedimento impugnato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Ai fini della legittimità di un provvedimento non è necessario che la motivazione contenga un’analitica confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione della propria volontà o del proprio giudizio.
Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative.

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9. Il ricorso è infondato.
10. Non può, anzitutto, trovare accoglimento il primo motivo, con il quale la ricorrente allega la violazione delle garanzie di partecipazione procedimentale, a causa dell’omessa valutazione delle osservazioni presentate dopo la ricezione della comunicazione di avvio del procedimento.
10.1 Al riguardo, deve richiamarsi l’unanime orientamento giurisprudenziale secondo il quale “ai fini della legittimità di un provvedimento non è necessario che la motivazione contenga un’analitica confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione della propria volontà o del proprio giudizio” (così Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2014, n. 4928). Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una esternazione motivazionale che renda, nella sostanza, percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione amministrativa alle deduzioni partecipative (Cons. Stato, Sez. V, 13.02.2017, n. 603, che conferma TAR Lazio, Sez. II Ter, 07.10.2015, n. 11504).
10.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, il provvedimento impugnato ha bensì evidenziato che la parte interessata avesse presentato “deduzione e documenti”, ma li ha ritenuti “non rilevanti ai fini del presente procedimento”.
Tale affermazione deve ritenersi sufficiente, posto che le ragioni per le quali l’Amministrazione non ha accolto quanto prospettato dall’interessata sono evincibili dalle ampie motivazioni del provvedimento amministrativo, che si contrappongono agli argomenti sostenuti nelle osservazioni della parte, in questo senso risultati non idonei a sorreggere un diverso esito del procedimento.
10.3 E invero, la parte aveva sostenuto, anzitutto, che dal tenore della comunicazione di avvio del procedimento, ove si afferma che il permesso di costruire n. 45 del 2012 era stato rilasciato “per tali opere”, dovesse ricavarsi che, secondo lo stesso Comune, l’intervento accertato in occasione del sopralluogo fosse conforme al predetto titolo edilizio.
Tale osservazione è stata implicitamente confutata dall’Amministrazione, la quale –chiarendo l’affermazione contenuta nella comunicazione di avvio del procedimento cui si era riferita la società– ha evidenziato che le opere non corrispondessero affatto a quelle oggetto del precedente permesso di costruire (che infatti aveva ad oggetto un intervento del tutto diverso, consistenti soltanto in una recinzione). In questo senso le opere sono state dichiarate “difformi” dal precedente titolo edilizio.
Una volta rilevata la mancanza di corrispondenza dell’intervento rispetto all’oggetto del permesso di costruire (circostanza, peraltro, obiettivamente riscontrabile), era irrilevante che il Comune confutasse gli argomenti spesi dalla parte per sostenere che il titolo edilizio non fosse decaduto.
Infine, la ricostruzione del Comune in ordine alla disciplina urbanistica applicabile all’area costituisce un’implicita confutazione della diversa prospettazione operata, sul punto, dalla società con la presentazione delle osservazioni.
10.4 Il motivo va, perciò, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non richiede la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, al quale va garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo.
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11. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale la parte lamenta la mancanza di corrispondenza, quanto all’individuazione dell’illecito edilizio, tra la comunicazione di avvio del procedimento e l’ordinanza di rimessione in pristino, oltre che la genericità di quest’ultima nell’indicare le opere come meramente difformi dal permesso di costruire.
11.1 La ricorrente insiste, anzitutto, sulla circostanza che –a suo avviso– dalla comunicazione di avvio del procedimento si evincerebbe che le opere fossero state ritenute conformi al permesso di costruire, per cui la loro abusività veniva fatta dipendere soltanto dalla ritenuta decadenza dello stesso titolo edilizio. Nel provvedimento conclusivo, invece, si afferma la difformità delle opere dal permesso di costruire, benché decaduto.
Secondo la parte, la differente impostazione dell’ordinanza di demolizione rispetto alla comunicazione di avvio del procedimento avrebbe, perciò, frustrato le garanzie di partecipazione procedimentale.
11.2 La prospettazione della parte non può essere condivisa.
Al riguardo, va anzitutto evidenziato che, secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di demolizione di opere edilizie abusive non richiede neppure la previa comunicazione di avvio del procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti apporti partecipativi del destinatario, al quale va garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo (Cons. Stato, Sez. V, 07.06.2015, n. 3051). E, nel caso oggetto del presente giudizio, il rilevamento dello stato dei luoghi non è oggetto di contestazione.
11.3 Peraltro, l’Amministrazione ha effettivamente inviato all’interessata la comunicazione dell’avvio di un procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, evidenziando –secondo quanto sopra riportato– che le opere fossero state realizzate in assenza di titolo abilitativo. La ricorrente è stata così messa pienamente in grado di partecipare al procedimento, presentando le proprie osservazioni, al fine di dimostrare il carattere non illecito delle opere.
La circostanza, poi, che il tenore del provvedimento finale non corrisponda esattamente, per qualche profilo, alla comunicazione di avvio del procedimento non potrebbe in ogni caso costituire, di per sé, una lesione delle prerogative di partecipazione procedimentale dell’interessato. E ciò in quanto l’Amministrazione –nei procedimenti a iniziativa d’ufficio– è tenuta soltanto a rendere noto l’avvio dell’iter, ma non anche a comunicare lo schema finale del provvedimento che intende adottare. Tanto più quando avviene che, come nel caso di specie, il diverso tenore del provvedimento conclusivo dipenda proprio dalla necessità di chiarire profili (la corrispondenza o meno delle opere rispetto al precedente permesso di costruire) posti all’attenzione dell’Amministrazione dall’apporto partecipativo dell’interessato.
11.4 La parte lamentata poi la genericità dell’ordinanza di demolizione, nella parte in cui accerta la difformità delle opere rispetto al titolo, senza precisare se si tratti di difformità totale o parziale, e senza considerare che, secondo la tesi della parte, dovrebbe trovare applicazione analogica, pur in assenza della realizzazione di volumi edilizi, l’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, che imporrebbe di considerare irrilevante tale difformità.
La censura non può essere accolta.
Con l’uso del termine “difformità” l’amministrazione ha inteso affermare che le opere non fossero sorrette dal precedente permesso di costruire. Come detto, infatti, il titolo edilizio rilasciato nel 2012 si riferiva a una recinzione, mentre le opere sanzionate dal provvedimento impugnato consistono in una asfaltatura diretta ad allargare l’accesso carrabile e nella realizzazione di uno spazio adibito a parcheggio.
Ciò posto, deve tenersi presente che l’assenza di titolo e la totale difformità rispetto a questo sono del tutto assimilate quanto al trattamento sanzionatorio, per cui non è giuridicamente rilevante stabilire se si versi nell’una o nell’altra ipotesi. Conseguentemente, è pure irrilevante una eventuale improprietà terminologica del provvedimento su questo punto. E’, invece, radicalmente escluso che il tenore dell’ordinanza impugnata potesse ingenerare alcun dubbio circa la possibilità di ricondurre le opere alla fattispecie della mera difformità parziale dal permesso di costruire, tenuto conto degli atti del procedimento e della circostanza che sin dal verbale di sopralluogo era stata rilevato che le opere non fossero sorrette da alcun titolo. Nessuno spazio poteva trovare, quindi, l’applicazione analogica dell’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, ipotizzata dalla ricorrente, al fine di pervenire alla qualificazione delle “difformità” come irrilevanti.
11.5 Il motivo va, quindi, rigettato (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La possibilità di procedere ad interventi ricadenti nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’ non opera in modo incondizionato, ma resta pur sempre subordinata (in base al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380, cit.) al rispetto “[delle] prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque [al] rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)”.
La conformità urbanistica costituisce dunque un presupposto per l’esecuzione degli interventi di attività edilizia libera, e non una conseguenza della mera astratta riconducibilità dell’opera, in base alle sue caratteristiche tipologiche, nell’elencazione contenuta all’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001.

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12. Con il terzo motivo, infine, la ricorrente sostiene –in estrema sintesi– la conformità urbanistica delle opere.
La prospettazione della parte, tuttavia, non convince.
12.1 Sotto un primo profilo, la società allega che le opere consisterebbero nella mera pavimentazione dell’area e sarebbero, quindi, riconducibili nell’ambito dell’attività edilizia libera, ai sensi dell’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001. Secondo la parte, dall’applicazione di quest’ultima disposizione deriverebbe la possibilità di realizzare tali opere in qualunque porzione del territorio comunale, a prescindere dalla destinazione urbanistica. Conseguentemente, il Comune non avrebbe dovuto ordinare la rimessione in pristino, ma soltanto comminare la sanzione pecuniaria, per l’omessa comunicazione dell’intervento, secondo quanto prescritto dalla disciplina vigente al tempo della realizzazione dell’intervento.
Rileva il Collegio che –come ben evidenziato dalla difesa comunale– la medesima questione attinente all’interpretazione dell’articolo 6, sopra richiamato, è già stata affrontata in una pronuncia del Consiglio di Stato, peraltro relativa a un caso del tutto analogo a quello oggetto del presente giudizio. Si trattava infatti parimenti di opere di pavimentazione realizzate nel territorio del medesimo Comune di Seregno, in area destinata a standard d’uso pubblico (in quel caso “S/SA – massa boscata”).
E in quel precedente si è ritenuto –affermando un principio che il Collegio condivide e fa proprio– che “la possibilità di procedere ad interventi ricadenti nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’ non opera in modo incondizionato, ma resta pur sempre subordinata (in base al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380, cit.) al rispetto “[delle] prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali, e comunque [al] rispetto delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)” (Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n. 3667).
La conformità urbanistica costituisce dunque un presupposto per l’esecuzione degli interventi di attività edilizia libera, e non una conseguenza della mera astratta riconducibilità dell’opera, in base alle sue caratteristiche tipologiche, nell’elencazione contenuta all’articolo 6 del d.P.R. n. 380 del 2001 (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Risarcimento danni per revoca di aggiudicazione conseguente a informativa antimafia poi annullata giudizialmente se prima della revoca dell'aggiudicazione è intervenuta la cessione di ramo di azienda.
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Risarcimento danni – Contratti della Pubblica amministrazione – Aggiudicazione – Revoca Conseguente ad informativa antimafia – Annullamento in sede giurisdizionale – Istanza risarcitoria - Intervenuta cessione d’azienda - Difetto di legittimazione della società cedente.
E’ inammissibile per difetto di legittimazione attiva, la domanda di risarcimento dei danni subiti per effetto dell'informativa antimafia e della conseguente revoca dell'aggiudicazione dell'appalto di lavori, successivamente annullati in sede giurisdizionale, ove –prima della revoca dell’aggiudicazione– sia intervenuta cessione del ramo d’azienda.
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   (1) Ha chiarito il Tar che la cessione dell’azienda, infatti, comporta (ai sensi dell’art. 2558, comma 1, cod. civ.) il trasferimento al cessionario dei rapporti contrattuali relativi all’azienda e, soprattutto, di ogni credito verso terzi relativo all’azienda stessa, per effetto di quanto previsto dall’art. 2559, comma 1, cod. civ., secondo cui “La cessione dei crediti relativi all'azienda ceduta, anche in mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha effetto, nei confronti dei terzi, dal momento dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese”.
Regime giuridico che opera senz’altro anche in relazione ai crediti da fatto illecito, come chiarito dalla Corte di cassazione (sez. III, 31.07.2012, n. 13692) secondo cui “Tra i crediti che, nel caso di cessione d'azienda, si trasferiscono automaticamente al cessionario rientrano anche quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno dell'impresa cedente, a nulla rilevando che gli stessi consistano nella lesione di interessi legittimi pretensivi od oppositivi per condotta illegittima della p.a.” (TAR Sardegna, sentenza 14.06.2017 n. 403 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla rilevanza penale, o meno, dell'omessa esposizione del cd. cartello di cantiere.
La violazione dell'obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, è tuttora punita dall'art. 44, lett. a) del d.P.R. 06.06.2011, n. 380, se commessa dal titolare del permesso a costruire, dal committente, dal costruttore o dal direttore dei lavori.
Ciò in quanto sussiste continuità normativa tra l'art. 4, comma 4, dell'abrogata legge 28.02.1985, n. 47, e la nuova fattispecie contemplata dall'art. 27, comma 4, del citato d.P.R. 380 del 2011.
Tant'è che integra il reato anche l'esposizione, in maniera non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti presente all'interno del cantiere.
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1. Il ricorso è fondato.
2. Lo stesso provvedimento impugnato ha dato atto del contrario insegnamento di legittimità in merito alla rilevanza penale dell'omessa esposizione del cd. cartello di cantiere, qualora detta prescrizione sia prevista dal provvedimento sindacale (come si evince in specie dal richiamo, contenuto nel capo d'imputazione, alla prescrizione contenuta nel permesso di costruire n. 4 del 2011).
In proposito, infatti, la violazione dell'obbligo di esporre il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo, qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo medesimo, è tuttora punita dall'art. 44, lett. a) del d.P.R. 06.06.2011, n. 380, se commessa dal titolare del permesso a costruire, dal committente, dal costruttore o dal direttore dei lavori (Sez. 3, n. 29730 del 04/06/2013, Stroppini, Rv. 255836; anche più recentemente, ad es. Sez. 3, n. 13963 del 29/01/2016, Carotenuto ed altri; Sez. 3, n. 10713 del 16/01/2015, Zanussi ed altri).
Ciò in quanto sussiste continuità normativa tra l'art. 4, comma 4, dell'abrogata legge 28.02.1985, n. 47, e la nuova fattispecie contemplata dall'art. 27, comma 4, del citato d.P.R. 380 del 2011 (Sez. 3, n. 46832 del 15/10/2009, Thabet e altro, Rv. 245613; quanto alla previsione normativa iniziale, Sez. U, n. 7978 del 29/05/1992, Aramini e altro, Rv. 191176).
Tant'è che integra il reato anche l'esposizione, in maniera non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti presente all'interno del cantiere (Sez. 3, n. 40118 del 22/05/2012, Zago e altri, Rv. 253673).
2.1. In particolare, quanto al contestato rilievo penale (v. provvedimento impugnato, pag. 2) delle sole norme violatrici delle prescrizioni concernenti la trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, a suo tempo fu posto l'accento, nel contesto normativo in allora rappresentato dalla legge n. 47 del 1985, sull'art. 4 della stessa.
Detta norma, intitolata "vigilanza sull'attività urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne la rispondenza alle norme di legge e di regolamento alle prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità esecutive fissate nella concessione o nell'autorizzazione", prevedeva, all'ultimo comma, che gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria dessero immediata comunicazione all'autorità giudiziaria, al presidente della giunta regionale ed al sindaco ove nei luoghi di realizzazione delle opere non fosse esibita la concessione ovvero non fosse stato apposto il prescritto cartello, "ovvero in tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia".
In tal modo testualmente consentendo di desumere, in particolare, come anche la sola violazione dell'obbligo di apposizione del cartello fosse appunto considerata dal legislatore come ipotesi di presunta violazione urbanistico-edilizia e, come tale, di particolare rilevanza ai suindicati fini.
A riprova era stato altresì notato come la sistemazione del prescritto cartello, contenente gli estremi della concessione edilizia e degli autori dell'attività costruttiva presso il cantiere, consentisse una vigilanza rapida, precisa ed efficiente dell'attività, rispondendo allo scopo di permettere ad ogni cittadino di verificare se i lavori fossero o meno stati autorizzati dall'autorità competente. Di qui, dunque, la riconducibilità della condotta omissiva in questione all'interno dell'allora precetto dell'art. 20, lett. a), della legge 47 del 1985, in relazione alla inosservanza delle norme di cui alla stessa legge.
Né tali conclusioni potevano mutare ove si abbia riguardo alla sopravvenuta normativa rappresentata dal d.P.R. n. 380 del 2001, posto che l'art. 27, comma 4, del d.P.R. stesso) ha riprodotto la previsione del previgente art. 4 cit. relativa alla immediata comunicazione agli enti competenti da parte degli ufficiali ed agenti di p.g. della mancata apposizione del cartello così come di "tutti gli altri casi di presunta violazione urbanistico-edilizia", restando quindi confermata l'appartenenza della violazione in questione alla attività edilizio-urbanistica e, dunque, la sanzionabilità della stessa all'interno delle ipotesi di cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. cit., così acquistando rilievo determinante la previsione di essa all'interno dei regolamenti edilizi o della concessione (cfr., in motivazione, n. 10713 del 2015 cit.).
La sentenza impugnata, che ha disatteso siffatto consolidato insegnamento in ordine alla riconducibilità dell'apposizione del cartello al campo delle violazioni in materia urbanistica ed edilizia, va pertanto annullata, con rinvio per nuovo giudizio -a norma dell'art. 623, lett. d), cod. proc. pen.- al competente Tribunale di Asti (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 13.06.2017 n. 29213).

AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulla responsabilità dell’inquinamento riguardante l’area “ex polveriera Montedison”.
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Inquinamento – Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei luoghi – Soggetto obbligato – Individuazione – Criterio.
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un rigoroso accertamento anche in caso di vicende societarie complesse (1).
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   (1) Ha ricordato il Tar che la Direttiva 2004/35/CE all’art. 2 definisce come “operatore”, cui si connette la responsabilità per danno ambientale (cfr. 2° e 18° Considerando) “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini dell’internalizzazione dei costi ambientali), nel caso all’esame del Tribunale sono del tutto assenti un’analisi e un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante (Tar Lazio, sez. II-bis, 21.03.2016, n. 3441), tenuto conto della complessa articolazione, anche nel tempo, del Gruppo Montedison.
Ha aggiunto il Tar che l'inquadramento della contaminazione come situazione permanente non esime dall’individuazione del soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi procedurali.
Il Tar ha infine ricordato che nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250, d.lgs. 03.04.2006, n. 152), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253, d.lgs. n. 152 del 2006) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 1326 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
V.2) Così sinteticamente ricostruito il contenuto essenziale del provvedimento il Collegio osserva che l’istruttoria operata dal Comune, che si riverbera nell’articolato motivazionale, si presenta carente e non supportata da circostanze attuali.
L’attività istruttoria svolta dal Comune si fonda, infatti, da un lato, su elementi antecedenti all’ordinanza n. 76/2004, oggetto di annullamento, dall’altro su circostanze subprocedimentali successive dalle quali non trapela, in generale, alcuna attività volta ad individuare il soggetto responsabile dell’inquinamento e, nello specifico, alcun accertamento conducente e conclusivo per ritenere tale la ricorrente. Anzi, dall’attività compiuta parrebbe emergere l’intenzione del Comune di eseguire in proprio le opere di bonifica, per il tramite della propria società Ta. STU s.p.a.
Va ancora evidenziato che gli ultimi atti compiuti risalgono agli anni 2006/2007.
Da allora –per quasi dieci anni– non risulta, né dall’atto impugnato né dalla produzione documentale versata in atti, che il Comune abbia svolto alcuna attività di indagine ulteriore. Neppure si dà conto della permanente esistenza in vita della società Ta. STU spa (soggetto obbligato alla bonifica, unitamente al Comune, secondo l’ordinanza n. 76/2004), dell’avvenuta presentazione del progetto definitivo da parte di tale società né di ulteriori elementi rilevanti occorsi in tale lungo lasso di tempo.
Va osservato, innanzi tutto, che non risulta che la ricorrente sia mai stata proprietaria dell’area (ceduta al Comune nel 2002) né, tanto meno, che abbia svolto alcun tipo di attività sui terreni in questione.
Ciò posto, l’individuazione del soggetto responsabile è avvenuta sulla base di una indimostrata successione della ricorrente “a titolo universale” dal soggetto che, fino agli anni ’70, ha svolto l’attività inquinante.
Deve rammentarsi che il Comune nel 2002 ha acquistato l’area in questione dalla società Co.In.Im. srl, avente causa della società In.Ed. srl, già “Se.Im.Mo. spa” (per effetto del trasferimento della proprietà nel 1999) la quale a sua volta ne era divenuta proprietaria per conferimento (ciò è quanto si ricava dal contratto di compravendita tra il Comune e la società Co. srl).
Il Comune, nei propri atti difensivi, fa riferimento –a sostegno dell’assunto circa la successione di Ed. spa– ad una visura camerale relativa a Mo. srl da cui risultano, a partire dal 1999, i trasferimenti d’azienda, le fusioni, le scissioni e i subentri coinvolgenti le seguenti società: Ge.Ge.Im. srl, Im.Gr. srl, Società Im.As. spa, Ac. srl, Ce. srl, ICI Im.Co.In. srl, Ed.Tr.Se. srl, e, infine, con atto di fusione per incorporazione nell’aprile 2012, Ed.spa.
A fronte di tale complessità dei rapporti societari, sopra sinteticamente evidenziati (con indicazioni peraltro difformi tra quanto riportato nel provvedimento impugnato e quanto risulta dal documento prodotto in giudizio), che prendono l’avvio da una precisa società del più articolato “Gruppo Mo.”, l’individuazione di Ed. spa quale successore “a titolo universale”, che sarebbe, secondo l’atto impugnato, “soggetto giuridico succeduto a Mo. spa, Co.In.Im. srl e Mo. srl”, appare affermazione indimostrata, priva di alcuna evidenza documentale, né in sede procedimentale né in sede processuale.
Invero né è stata dimostrata –in modo rigoroso– l’effettiva qualificazione di avente causa della ricorrente dal soggetto responsabile dell’inquinamento (e quindi di successore a titolo universale), essendosi il Comune limitato ad una sommaria descrizione delle presunte successioni societarie di un gruppo che, in realtà, nel corso di oltre un cinquantennio, risulta essere stato oggetto di modificazioni complesse e articolate, composto da molteplici società svolgenti attività tra loro differenti. Né è stata dimostrata la responsabilità dell’inquinamento dell’area in questione da parte del ritenuto avente causa della ricorrente, considerato che, come già rilevato, l’individuazione nella società Co. srl del soggetto responsabile, effettuata con l’ordinanza n. 76/2004 (fondata sul titolo contrattuale), è stata ritenuta da questo Tribunale non corretta e non risulta che, in sede di nuovo procedimento, siano stati effettuati accertamenti ai fini dell’individuazione di una responsabilità ad altro titolo della predetta società, asserita dante causa della ricorrente.
La Direttiva 2004/35/CE all’art. 2 definisce come “operatore”, cui si connette la responsabilità per danno ambientale (cfr. 2° e 18° Considerando) qualsiasi persona fisica o giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o controlla un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini dell’internalizzazione dei costi ambientali),
nel caso di specie sono del tutto assenti un’analisi e un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante (cfr. in termini Tar Lazio–Roma sez. II-bis 21.03.2016, n. 3441), tenuto conto della complessa articolazione, anche nel tempo, del Gruppo Mo..
L'inquadramento della contaminazione come situazione permanente, cui fa riferimento il Comune nel provvedimento impugnato, non esime dall’individuazione del soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi procedurali.
Le norme di cui agli artt. 242 e segg. del d.lgs. n. 152/2006 vanno interpretate nel senso che l'obbligo di adottare le misure dirette a fronteggiare la situazione di inquinamento incombe su colui che di tale situazione sia responsabile per avervi dato causa (cfr. Corte di Giustizia sentenza 04.03.2015, n. C-534/15, Fipa Group).
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica, cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un rigoroso accertamento (Tar Milano sez. IV 13.10.2016, n. 1860; Consiglio di Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509).
Nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art. 250), che potrà poi rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei medesimi interventi (art. 253) (cfr. Cons. Stato sez. V 09.07.2015 n. 3449; Ad. Plen. n. 21/2013).
Tale disciplina rende priva di rilevanza la questione posta dalla ricorrente circa la permanenza dell’efficacia dell’ordinanza n. 76/2004 nella parte in cui il Comune imponeva a sé stesso gli obblighi di bonifica. A questi l’Amministrazione è tenuta comunque, nell’ipotesi sopra indicata, in forza di legge.
Sotto altro profilo, ma concorrente ai fini della fondatezza del lamentato vizio di carenza istruttoria, va rilevato che l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato circa “l’accertata contaminazione del sito” si fonda, tenuto conto della documentazione offerta, sulla relazione di ARPA di cui si è preso atto nella conferenza di servizi del 16.04.2006 che, tuttavia, ha evidenziato che “i valori analitici riscontrati nei campioni prelevati in contraddittorio corrispondono a quelli rilevati dal laboratorio di parte e non si riscontrano superamenti ai valori limite stabiliti dal DM 471/1999 per i siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale”.
Nel corso del lungo periodo intercorso tra quegli accertamenti e il provvedimento impugnato non risulta che siano stati compiuti ulteriori analisi, anche alla luce della normativa sopravvenuta.
Per le ragioni che precedono il ricorso per motivi aggiunti, in relazione ai profili esaminati e assorbite le ulteriori censure, merita accoglimento e per l’effetto va disposto l’annullamento dell’ordinanza del 30.03.2016.

EDILIZIA PRIVATALe caratteristiche proprie della copertura di cui si tratta costituiscono una conferma che quest’ultima ha le funzioni e la destinazione propria di una vera e propria terrazza, funzioni queste ultime del tutto differenti da quelle che contraddistinguono un lastrico solare, destinato com’è a costituire esclusivamente un tetto, privo un’utilizzazione da parte dei dimoranti nell’immobile.
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In presenza di un utilizzo protratto della copertura come terrazzo, l’avvenuta realizzazione di una ringhiera protettiva costituisce un intervento per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico.
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2.2 Altrettanto legittima è la realizzazione del terrazzo.
2.3 Sul punto è necessario premettere che i coniugi Ni. hanno ottenuto la sanatoria, con provvedimento del nr. 75/88, di un bagno con ripostiglio in ampliamento sulla corte posta sul retro dell’edificio di loro proprietà.
2.4 Parte ricorrente afferma di aver collocato delle ringhiere sul lastrico solare riferito ai manufatti oggetto di sanatoria e, ciò, in considerazione del fatto che lo stesso lastrico solare sarebbe stato da sempre utilizzato come terrazzo, pertinente all’abitazione.
2.5 Le affermazioni dei ricorrenti risultano confermate dai documenti allegati al ricorso, nell’ambito dei quali è possibile evincere che la copertura sovrastante gli ambienti condonati si trova a livello delle porte finestre di un locale adibito a “sala”, esplicando così le funzioni tipiche di una terrazza o di un balcone prospiciente le aperture della stessa unità abitativa.
Detta circostanza, desumibile dalla documentazione fotografica, unitamente alle caratteristiche proprie della copertura di cui si tratta, costituisce una conferma che quest’ultima ha le funzioni e la destinazione propria di una vera e propria terrazza, funzioni queste ultime del tutto differenti da quelle che contraddistinguono un lastrico solare, destinato com’è a costituire esclusivamente un tetto, privo un’utilizzazione da parte dei dimoranti nell’immobile (sulla diversità di funzioni tra lastrico e terrazza si veda anche TAR Sicilia Catania Sez. I, 10/11/2008, n. 2068).
2.6 In presenza di un utilizzo protratto della copertura come terrazzo, non assume carattere dirimente nemmeno l’avvenuta installazione delle ringhiere da parte dei ricorrenti e, ciò, considerando che secondo un costante orientamento giurisprudenziale l’avvenuta realizzazione di una ringhiera protettiva costituisce un intervento per il quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire; “infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile non determinano una significativa trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale da non comportare un aumento del carico urbanistico (TAR Campania Salerno Sez. II, 27.06.2014, n. 1139)”.
Le censure di cui al secondo e al terzo motivo sono, pertanto, fondate (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva.

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2.7 Vanno respinte, al contrario, le ulteriori censure proposte.
2.8 E’ infondato, in particolare, il primo motivo con il quale si sostiene l’esistenza di un eccesso di potere per carenza di motivazione, in quanto la demolizione sarebbe stata disposta dopo venti anni dalla realizzazione delle opere di cui si tratta.
2.9 Costituisce orientamento maggioritario, fatto proprio anche da questo Tribunale, quello in base al quale l'ordine di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso (Cons. Stato Sez. VI, 23.10.2015, n. 4880).
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di una situazione di fatto abusiva (Cons. Stato Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: La sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
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3.3 Altrettanto infondato è il quarto motivo, diretto a sostenere la legittimità dell’innalzamento del fabbricato.
3.4 Non solo i ricorrenti non hanno contestato né l’innalzamento né la modifica della pendenza del tetto, ma va evidenziato come dette variazioni non sono mai state oggetto di richiesta di un provvedimento abilitativo o di una variante alla concessione originaria, circostanza quest’ultima che conferma il carattere abusivo degli stessi manufatti.
3.5 Nemmeno risulta dimostrato che l’eventuale demolizione della tettoia sarebbe di pregiudizio per la parte conforme.
3.6 Si consideri come costituisca orientamento consolidato che la sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità (TAR Campania Napoli Sez. IV, 24.04.2017, n. 2217 e TAR Campania Salerno Sez. I, 02.03.2016, n. 485, TAR Molise Campobasso Sez. I, 08.04.2016, n. 171) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E’ noto che l’ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non richiede la comunicazione di avvio del procedimento, riconducibile ad esercizio di potere vincolato e che, ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al provvedimento successivo e relativo all’esecuzione dell’ordinanza gravata.
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3.7 E’ noto, altresì, che l’ordinanza di demolizione costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non richiede la comunicazione di avvio del procedimento, riconducibile ad esercizio di potere vincolato (Cons. Stato Sez. VI, 15.09.2015, n. 4293) e che, ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al provvedimento successivo e relativo all’esecuzione dell’ordinanza gravata (TAR Campania sez. IV del 06.10.2016, n. 4574 e Cons. Stato Sez. IV, 23.01.2012, n. 282) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ESPROPRIAZIONE: Giurisdizione giudice ordinario sull'accertamento tecnico preventivo finalizzato ad operazioni di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità – Accertamento tecnico preventivo – Finalizzato ad operazioni di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio – Controversia – giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il ricorso volto all’accertamento tecnico preventivo in vista di operazioni di occupazione d'urgenza collegate, ma non finalizzate, ad un provvedimento di espropriazione; ed infatti, l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria, con la conseguenza che il Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione (1).
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   (1) Il Tar ha richiamato il recente arresto delle Sezioni unite della cassazione (ord., 09.02.2011, n. 3167) secondo cui le controversie concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49, d.P.R. 08.06.2001, n. 327, non avendo ad oggetto atti o provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla materia espropriativa vera e propria, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo (Tar Umbria 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti o comportamenti in materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in occasione dell’occupazione temporanea del proprio fondo, asseritamente in carenza di potere (TRGA Trentino Alto Adige-Trento, sentenza 13.06.2017 n. 198 - link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
7. Ancor prima di procedere all’esame delle eccezioni processuali sollevate dall’amministrazione resistente con la memoria depositata in data 31.05.2017, giova rammentare che, secondo la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, Sez. II, 29.03.2016, n. 3846), «l’esperibilità dell’accertamento tecnico preventivo nell’ambito del processo amministrativo -prima riconosciuta in via giurisprudenziale nel solco di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni concernenti i mezzi probatori sperimentabili nel processo amministrativo, alla stregua dei principi del giusto processo, del diritto di difesa e di conservazione dei valori giuridici- trova espresso riconoscimento nell’art. 53, comma 5, del c.p.a., laddove espande espressamente l’esperibilità dei mezzi di prova nel processo amministrativo a tutti quelli previsti dal codice del processo civile con formula che esclude soltanto l’interrogatorio formale ed il giuramento. La ratio dell’accertamento tecnico preventivo, regolato dall’art. 696 c.p.c., è quella di ovviare al pericolo della dispersione della prova prima che la parte interessata attivi un giudizio di merito ovvero definisca con un accordo un procedimento contenzioso già iniziato. Presupposto essenziale di tale strumento di acquisizione della prova è la sussistenza di un’urgenza concreta di far verificare, ante causam, lo stato dei luoghi, ovvero la qualità o la condizione di una cosa, in chiara correlazione con un’esigenza di tipo cautelare che è resa evidente dall’incipit della norma».
8. Si deve poi evidenziare che
l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria (Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5769), con l’ulteriore conseguenza che il Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione.
9. Passando all’eccezione di difetto di giurisdizione di questo Tribunale, il Collegio ritiene che la stessa debba essere accolta.
Come ha puntualizzato il Giudice regolatore della giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., ord. 09.02.2011, n. 3167),
le controversie come quella per cui è causa, concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49 del D.P.R. n. 327/2001, non avendo ad oggetto atti o provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla materia espropriativa vera e propria, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo (TAR Umbria Perugia, Sez. I, 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti o comportamenti in materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in occasione dell’ occupazione temporanea del proprio fondo, asseritamente in carenza di potere.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie in esame è sufficiente evidenziare che:
   A) l’occupazione di cui trattasi -che avrebbe cagionato i danni lamentati, per il suo protrarsi oltre il termine previsto- è stata disposta con la determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008 ai sensi dell’art. 28 della legge provinciale n. 6/1993 (disposizione questa che, come quella dell’art. 49 del D.P.R. n. 327/2001, risponde alla sola finalità di disciplinare l’occupazione temporanea dell’area interessata);
   B) la società ricorrente non lamenta alcun vizio della predetta determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008, né della successiva determinazione dirigenziale n. 706 del 23.11.2016, limitandosi a richiedere il risarcimento dei danni derivanti dalla pretesa occupazione abusiva dell’area successivamente al 31.05.2009 e dall’allagamento dell’area di sua proprietà, con conseguente richiesta di ripristino dello stato dei luoghi.

APPALTI Sulla sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo e sulla natura sanzionatoria della condanna alle spese di cui all'art. 26, c. 2 c.p.a..
Sul criterio della c.d. doppia riparametrazione per le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa.
In tema di chiarezza e sinteticità degli atti amministrativi di cui all'art. 3, c. 2, c.p.a. il limite dimensionale degli atti giudiziari può essere superato ottenendo l'autorizzazione preventiva ex art. 6 del decreto del Segretariato generale della giustizia amministrativa del 22.12.2016, recante "Disciplina dei criteri di redazione e dei limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti difensivi nel processo amministrativo".
In assenza di tale autorizzazione, la parte dell'atto eccedente i limiti non è esaminabile.
Inoltre, l'art. 26, c. 2, c.p.a. dispone che "Il giudice condanna d'ufficio la parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio. Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si applica l'articolo 15 delle norme di attuazione".
Tale norma si lega a quanto sancito dall'art. 26, c. 1, c.p.a., secondo cui "Quando emette una decisione, il giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del c.p.c., tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'art. 3, c. 2".
E' pacifica la natura sanzionatoria della misura pecuniaria in esame, che tipizza uno dei casi di temerarietà del giudizio e che prescinde da una specifica domanda nonché dalla prova del danno subito, ed il cui gettito, commisurato a predeterminati limiti edittali, è destinato al bilancio della giustizia amministrativa, atteso che lo scopo della norma è quello di tutelare la rarità della risorsa giudiziaria, un bene non suscettibile di usi sovralimentati o distorti, soprattutto a presidio dei casi in cui il suo uso è davvero necessario
Nel sistema degli appalti pubblici nessuna norma di carattere generale impone, per le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa, l'obbligo della stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex specialis, mediante il criterio della c.d. doppia riparametrazione atteso che nelle gare da aggiudicarsi con detto criterio la riparametrazione ha la funzione di ristabilire l'equilibrio fra i diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti per la valutazione dell'offerta solo se e secondo quanto voluto e disposto dalla stazione appaltante con il bando, con la conseguenza che l'operazione di riparametrazione deve essere espressamente prevista dalla legge di gara per poter essere applicata e non può tradursi in una modalità di apprezzamento delle offerte facoltativamente introdotta dalla commissione giudicatrice.
Infatti, la discrezionalità che pacificamente compete alla stazione appaltante nella scelta, alla luce delle esigenze del caso concreto, dei criteri da valorizzare ai fini della comparazione delle offerte, come pure nella determinazione della misura della loro valorizzazione, non può non rivestire un ruolo decisivo anche sul punto della c.d. riparametrazione che, avendo la funzione di preservare l'equilibro fra i diversi elementi stabiliti nel caso concreto per la valutazione dell'offerta (e perciò di assicurare la completa attuazione della volontà espressa al riguardo dalla stazione appaltante), non può che dipendere dalla stessa volontà e rientrare quindi già per sua natura nel dominio del potere di disposizione ex ante della stessa Amministrazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 12.06.2017 n. 2852 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATA: All’Adunanza plenaria la questione della perdurante efficacia delle proposte di vincolo ante d.lgs. 42 del 2004 e non seguite dal provvedimento ministeriale di notevole interesse pubblico.
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Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004  –  Efficacia – Mancata conclusione del procedimento – Deferimento all’Adunanza plenaria
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Va rimessa all’Adunanza plenaria la questione se, a mente del combinato disposto degli articoli 140, 141 e 157, co. 2, d.lgs. 22.01.2004, n. 42 –come modificati dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63– le proposte di vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata conclusione del relativo procedimento con l’adozione del decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole interesse pubblico, cessino di avere effetto. (1)
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(1) I.- Con una articolata motivazione, la quarta sezione del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria la questione della perdurante efficacia delle proposte di vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004, non seguite dal decreto ministeriale di conclusione del procedimento di dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di appello proposto da una società –interessata al rilascio di un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le disposizioni della presente Parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria di tutela durava fino alla approvazione del vincolo, senza indicazione di termine di efficacia della misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs. n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi, segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per le aree e gli immobili oggetto della proposta di dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co. 1” (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari, possessori o detentori dei beni che “non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata dalla competente commissione prima della data di entrata in vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche in assenza della approvazione mediante l’adozione della dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti considerazioni:
   a) alla data di entrata in vigore del Codice di cui al d.lgs. 22.01.2004 n. 42, ha continuato a trovare applicazione la medesima disciplina prevista dall’art. 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939 n. 1497 (trasfuso nell’art. 140 del d.lgs. 29.10.1999 n. 490), secondo la quale, relativamente alle cd. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati ... e la durata della misura cautelativa o anticipatoria dura fino all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
   b) l’art. 157, co. 2, d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere che “le disposizioni della presente parte si applicano anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulate la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”, non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo, termini perentori per il perfezionamento della procedura o forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs. 26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto una espressa decadenza per le proposte non approvate dal Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò consegue che le forme di decadenza successivamente introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo formulate antecedentemente alla entrata in vigore del Codice;
   c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157, comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”, poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare le statuizione di primo grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1, d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs. n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co. 2, del Codice che, al contrario la confermerebbe.
II.- La rimessione.
Con l’ordinanza in esame la quarta sezione, dopo aver disatteso alcune questioni preliminari, ricostruisce i due orientamenti che si fronteggiano sul tema, richiamando al riguardo anche le argomentazioni addotte dalla giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (
Cons. Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663 e 21.03.2005 n. 1121 che si richiamano ai principi espressi da Corte cost., 23.07.1997 n. 262
; Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem 17.02.2010 n. 16476; TAR Venezia 29.04.2015, n. 473):
   d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi procedimenti non si siano conclusi (nel rispetto dei termini di cui alla Tabella A, allegata al D.M. 13.06.1994 n. 495), non risentono delle modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. n. 63/2008, di modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per l’amministrazione, di emanare il provvedimento di dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, co. 1 del Codice.
Tale affermazioni si fonda sul sistema di tutela introdotto dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata adozione del provvedimento di vincolo nel termine di conclusione del procedimento a tal fine previsto non comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che, applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della proposta, diviene definitivo con l’adozione della dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997 cit.);
   e) il legislatore del 2008, a fronte dell’introduzione della perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale, non ha invece modificato l’art. 157, co. 2, del Codice, né questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn. 157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle proposte formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 42/2004;
   f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con il principio del “tempus regit actum”;
   g) la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo una interpretazione costituzionalmente orientata, con finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si avrebbe una indiscriminata e generalizzata decadenza di tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di decadenza previsti dall’art. 141 del d.lgs. n. 42/2004;
   h) la logica sottesa alla scelta di non considerare prive di effetti le proposte di vincolo a seguito di norme sostanziali e procedimentali (sopravvenute alla loro emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la stessa che ha condotto la Corte costituzionale (cfr.
sentenza n. 57 del 2015, in Foro it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza plenaria (cfr. sentenza n. 6 del 2015, in Foro it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e in Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di MUCIO, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che estende misure decadenziali a fatti storici anteriori dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie, come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della domanda risarcitoria);
   i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello Stato nei confronti della proprietà privata e della libertà di iniziativa economica alla stregua dei parametri europei atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il paesaggio come valore primario costituzionale (ma riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa, pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo della violazione del principio generale della proporzionalità (cfr. negli esatti termini
Corte di giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13, Cruciano Siragusa).
Secondo un più recente orientamento, maturato in seno alla VI sezione del Consiglio di Stato (
Cons. Stato, VI, 16.11.2016 n. 4746; TAR Puglia–Bari, III, 08.03.2012, n. 521 e TAR Venezia, II, 08.04.2005, n. 1393
), anche per le proposte di vincolo approvate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 varrebbe il regime decadenziale previsto dall’art. 141, qualora non sopravvenga, nel termine di legge, il provvedimento ministeriale conclusivo del relativo procedimento.
Ciò in quanto:
   j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte di vincolo presupporrebbe l’esistenza di un genus di proposte assistite da un regime speciale e rafforzato privo tuttavia di base normativa; né una tale specialità potrebbe desumersi dal peculiare pregio paesaggistico dei beni tutelati da tali peculiari proposte di vincolo poiché una tale caratteristica sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal punto di vista del tenore letterale, una tale differenziazione nel regime giuridico delle proposte di vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni, elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo per intervenuta decadenza;
   k) il quadro normativo operante è stato profondamente modificato con gli interventi di cui ai decreti legislativi nn. 157/2006 e 63/2008, di modo che oggi la cessazione di efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento (a differenza di quanto previsto dal quadro normativo vigente all’epoca della sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale), costituisce la “regola”, a fronte della quale sempre meno si giustifica, con il passare del tempo, una “eccezione” relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore al 2004;
   l) all’estensione della nuova disciplina anche alle mere proposte di vincolo non osterebbe la mancata modifica dell’art. 157, comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in quanto appare dubbio sostenere la violazione del principio di irretroattività della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici consolidati; sia in quanto tra due possibili interpretazioni della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del legislatore, appare preferibile una interpretazione che tenda ad “uniformare” il sistema, in luogo di una interpretazione che produca differenti applicazioni dei poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque, possibili disparità di trattamento.
III.- Per completezza si segnala:
   m) circa l’interpretazione dell'articolo 2, ultimo comma, della legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso nell’articolo 140 del D.lgs. 29.10.1999, n. 490) secondo il quale, relativamente alle c.d. bellezze di insieme, la tutela dei valori paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae sino all’approvazione del vincolo- al fine di impedire che il lasso di tempo necessario per l'approvazione definitiva degli elenchi possa rendere possibili manomissioni incontrollate dei beni immobili ricompresi nell'elenco delle bellezze d'insieme e quindi compromettere il paesaggio, valore tutelato dall'art. 9 Cost. - Cons. Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3; Sez. IV, 19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n. 714; idem 25.01.1990, n. 139; Sez. VI, 21.03.2005, n. 1121; Sez. V, 11.10.2005, n. 5484; Tar Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
   n) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione alla titolarità ed all’ esercizio dei poteri di tutela, controllo e gestione dei beni culturali e paesaggistici, Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, in Foro it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
   o) sulla importanza del paesaggio in sede di pianificazione del territorio, Corte cost., 24.07.2013, n. 238; 18.07.2013, n. 211 e 24.07.2012, n. 207, in Foro it., 2013, I, 3025, con nota di ROMBOLI, cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e giurisprudenza;
   p) sul carattere “trasversale” della materia della tutela e valorizzazione dei beni culturali, Corte cost., 17.07.2013, n. 194, in Foro it., 2013, I, 2733
(Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 12.06.2017 n. 2838 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: I portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso agli atti amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo, per tali, le situazioni giuridiche soggettive che presentino un collegamento diretto ed attuale con gli atti cui la richiesta si riferisce.
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Nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale.
Inoltre: “E' da escludere che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»”.
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato".
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n. 241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione”
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In sede di accesso agli atti non è dato pretendere che l’istante indichi specifici dati (quali il numero di protocollo e la data di formazione di un atto) di atti e documenti non in suo possesso.
“L'esigenza di una puntuale indicazione degli estremi degli atti oggetto della domanda di accesso deve intendersi in modo flessibile e non formalistico, non occorrendo dunque l'indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto), ma potendosi ritenere l'onere assolto con l'indicazione dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, sì da mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda”.
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Il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato nei seguenti limiti, sussistendo il concreto interesse della ricorrente al riconoscimento in suo favore del diritto di accesso a tutti gli atti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui all’oggetto, con particolare riferimento a quelli posti a fondamento della delibera di CME con cui è stata decisa la revoca dell’assegnazione ad -OMISSIS- della medesima esecuzione dei lavori.
Ed invero, il contratto di appalto è stato stipulato dal consorzio CME nell’interesse e per conto della deducente consorziata designata, che è stata la materiale esecutrice dei lavori sino alla sua estromissione.
Sussiste dunque la legittimazione di -OMISSIS- all’accesso a tutti i documenti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui all’oggetto, con particolare riferimento a quelli prodromici alla revoca dei lavori di esecuzione dell’appalto.
E’ stato, in proposito, costantemente affermato dalla giurisprudenza amministrativa che i portatori di un interesse specifico hanno diritto di accesso agli atti amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo, per tali, le situazioni giuridiche soggettive che presentino un collegamento diretto ed attuale con gli atti cui la richiesta si riferisce.
Il collegio richiama, sul punto, il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa in base al quale: “nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.04.2015, n. 2096).
Inoltre: “E' da escludere che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato, sez. V, 17.03.2015, n. 1370).
Il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato” (Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 714).
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 22.12.2014, n. 6352).
Ne consegue, dunque, la possibilità dell’ostensione da parte della ricorrente anche di atti di natura privatistica, purché connessi all’esercizio della potestà autoritativa dell’amministrazione.
La legittimazione di -OMISSIS- all’accesso ai documenti richiesti si appalesa nel caso di specie in maniera ancor più evidente, posto che il consorzio CME ha disposto la revoca dell’assegnazione dell’appalto sulla base di presunti inadempimenti connessi con l’esecuzione del medesimo, cosicché è interesse della deducente prendere visione ed estrarre copia di tutti i documenti inerenti l’esecuzione dei lavori al fine di dimostrare, in sede giudiziale, la correttezza del proprio operato.
Riguardo all’asserzione avversaria secondo la quale il contenuto dell’istanza di -OMISSIS- non consentirebbe di individuare l’oggetto della stessa, gli atti di cui è stato richiesto l’accesso sono precisamente individuabili in relazione allo specifico appalto cui si riferiscono, espressamente indicato nella pertinente istanza («Intervento di ristrutturazione edilizia (OP 1.03 e OP 1.07) di cui al contratto d’appalto stipulato con l’Azienda Lombarda Edilizia Residenziale Milano (ALER MILANO), REP. 80/2008 – Q.re Molise/Calvairate – Lotto C – Fabbr. 8 – Via Tomei n. 2 e Piazza Insubria 1. Finanziamento “Contratti di Quartiere II” D.G.R. VII/13861 del 29/07/2003 – D.G.R. VII/14845 del 31/10/2003 CUP: I46I05000050007 – CIG. 02952331F»).
Inoltre, per insegnamento giurisprudenziale consolidato, in sede di accesso agli atti non è dato pretendere che l’istante indichi specifici dati (quali il numero di protocollo e la data di formazione di un atto) di atti e documenti non in suo possesso.
L'esigenza di una puntuale indicazione degli estremi degli atti oggetto della domanda di accesso deve intendersi in modo flessibile e non formalistico, non occorrendo dunque l'indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto), ma potendosi ritenere l'onere assolto con l'indicazione dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, sì da mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la portata ed il contenuto della domanda” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 28; TAR Lazio, Roma, sez. III., 17.01.2012, n. 487).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va accolto e, per l’effetto, va annullato il provvedimento impugnato e va disposta la condanna dell’Amministrazione al riconoscimento in favore della società ricorrente del diritto di accesso a tutti gli atti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui all’oggetto, con particolare riferimento a quelli posti a fondamento della delibera di CME con cui è stata decisa la revoca dell’assegnazione ad -OMISSIS- della medesima esecuzione dei lavori (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 12.06.2017 n. 1311 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

AMBIENTE-ECOLOGIANon è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti.
Nella fattispecie, il rapporto di coniugio non attribuisce il dovere di impedire che il coniuge reati e certamente non costituisce il coniuge custode o responsabile delle azioni dell'altro. Sicché tale rapporto non espande gli obblighi che (non) gravano sul proprietario dell'area.

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1.1 coniugi Gi.An. e Vi.Pa. ricorrono per l'annullamento della sentenza del 18/12/2015 del Tribunale di Brindisi che li ha condannati alla pena, condizionalmente sospesa, di 2.100,00 euro di ammenda per il reato di cui agli artt. 110, cod. pen., 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, loro ascritto per aver, senza autorizzazione, raccolto, smaltito e stoccato rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da pezzi di fili elettrici, terra e roccia da scavo, rifiuti legnosi, rifiuti ferrosi, plastica e gomma. Il fatto è contestato come accertato in Ceglie Messapica il 19/02/2014.
1.1. Con il primo motivo, deducendo che il (solo) An., titolare di impresa esercente attività edile, aveva momentaneamente depositato alcuni materiali ed attrezzature della propria ditta e che i cumuli di pietre erano null'altro che il prodotto di lavori agricoli di spietramento del terreno (circostanze oggetto della testimonianza resa dal figlio Ma., del tutto negletta), eccepiscono l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 192, cod. proc. pen., e 256, d.lgs. n. 152 del 2006 nonché vizio di motivazione contraddittoria ed illogica in ordine alla definizione di rifiuto dei beni sopra indicati e omessa valutazione di elementi di prova favorevoli all'imputato.
1.2. Con il secondo motivo eccepiscono, con riferimento alla posizione della Pa., la violazione del principio di colpevolezza e di responsabilità personale essendo la condanna basata sul presupposto della comproprietà del fondo e della 'culpa in vigilando'.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, non è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art. 256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015, Cucinella, Rv. 266030; Sez. 3, n. 40528 del 10/06/2014, Cantoni, Rv. 260754; Sez. 3, n. 49327 del 12/11/2013, Merlet, Rv. 257294).
5.2. Il rapporto di coniugio non attribuisce il dovere di impedire che il coniuge reati e certamente non costituisce il coniuge custode o responsabile delle azioni dell'altro. Sicché tale rapporto non espande gli obblighi che (non) gravano sul proprietario dell'area.
5.3. Ne consegue che, essendo queste le uniche ragioni della condanna della Pa., nei suoi confronti la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio per non aver commesso il fatto (Corte di cassazione, Sez. III penale, sentenza 09.06.2017 n. 28704).

EDILIZIA PRIVATALa disposizione di cui all'art. 9, secondo comma, del DM del 02.04.1968, n. 1444 (nella parte in cui prevede che gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri dalle pareti finestrate) deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente:
   - gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare);
   - le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali);
   - le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni;
   - gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio”.
E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
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Deve ritenersi non condivisibile la tesi dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice civile.
Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM 1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica.
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1. Il ricorso va accolto, risultando fondati sia il primo che il secondo motivo.
1.1 In primo luogo è necessario premettere che costituisce circostanza incontestata che il manufatto è posizionato ad una distanza inferiore ai tre metri rispetto al muro perimetrale della villetta, così come risulta ad una distanza inferiore ai dieci metri rispetto alla parete finestrata del fabbricato sul fondo confinante di proprietà del Sig. Lo.Ju..
1.2 Ciò premesso è evidente che l’autorizzazione edilizia diretta a permettere la realizzazione del ripostiglio è stata adottata in violazione dell’art. 9, secondo comma, del DM del 02.04.1968, n. 1444, nella parte in cui prevede che gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri dalle pareti finestrate.
1.3 Detta distanza deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
1.4 Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente: - gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il volume che si vuol distanziare); - le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le lesene, i risalti verticali); - le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni; - gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio (Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5108, Cons. Stato Sez. V, 13.03.2014, n. 1272 Cass. civ. Sez. II, 24.11.1995, n. 12163)”.
1.5 E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed altro.
1.6 Deve ritenersi non condivisibile la tesi dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice civile.
1.7 Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM 1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (per tutti si veda TAR Emilia Romagna-Bologna Sez. I, 08.07.2016, n. 693, Cons. Stato Sez. IV, 29.02.2016, n. 856 Cons. Stato Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731 e Cass. civ. Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953).
1.8 L’autorizzazione di cui si tratta è stata adottata anche in violazione dell’art. 873 del codice civile nella parte in cui prevede che le costruzioni tra fondi finitimi devono essere tenute ad una distanza non inferiore a tre metri, disposizione quest’ultima suscettibile di essere derogata solo prevedendo una distanza superiore.
2. In conclusione il ricorso è fondato e va accolto, con conseguente annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 98 del 04.04.2002 (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2017 n. 785 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIl comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi per gruppi di edifici che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10 metri.
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario”.
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume dei fabbricati presi in considerazione attraverso la proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli edifici frontistanti.
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E’ fondata la prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la stessa non trova applicazione all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M..

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Nel merito sia il comune di Grosseto che la controinteressata osservano:
   1) che l’impugnata variante avrebbe la consistenza di piano particolareggiato dotato di previsioni planivolumetriche per ciascun isolato e, come tale, ben avrebbe potuto contenere previsioni derogatorie rispetto all’obbligo di distanza di 10 metri fra pareti finestrate in forza della previsione di cui alla seconda parte del comma 1 dell’art. 9 del D.M. 1444 del 1968.
   2) che essendo l’edificio oggetto dell’impugnato permesso confinante con un passaggio pubblico previsto dalla variante esso non era tenuto al rispetto delle distanze legali in forza della previsione di cui all’art. 879 c.c.
Entrambe le deduzioni difensive sono prive di fondamento.
Il comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi per gruppi di edifici che siano oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10 metri (TAR Brescia 730/2011).
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio unitario” (Corte Cost. 24/02/2017 n. 41).
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume dei fabbricati presi in considerazione attraverso la proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli edifici frontistanti.
Nel caso di specie la tavole della variante riferite alla zona omogenea B2 (isolato 29, lotto 3 nel quale sono compresi gli edifici di cui al ricorso – doc. 6 del fascicolo dell’amministrazione) contengono una rappresentazione “solo in pianta” dei fabbricati esistenti al momento della loro redazione e l’indicazione astratta dei volumi realizzabili in ampliamento, la cui collocazione, tuttavia, non è graficamente sviluppata attraverso una rappresentazione planovolumetrica.
Non risulta, quindi, raggiunto il livello di dettaglio progettuale previsto dal comma 2 dell’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 ai fini della derogabilità degli obblighi di distanza previsti dai commi precedenti.
E’ altresì fondata la prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la stessa, secondo un costante orientamenti giurisprudenziale che il Collegio condivide, non trova applicazione all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M. (TAR Palermo, sez. III, 17/10/2012, n. 2049; TAR Genova (Liguria) sez. I 20.07.2011 n. 1148; TAR Brescia, sez. I 03.07.2008 n. 788).
Alla luce di quanto sopra specificato occorre quindi concludere nel senso che la impugnata variante del comparto C.1 di Marina di Grosseto è illegittima in parte qua (con specifico riferimento ai lotti in cui insistono le proprietà dei ricorrenti e della controinteressata) nel punto in cui consente la realizzazione di interventi di ricostruzione con maggiore volumetria ad una distanza inferiore a quella prevista dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968, posto che tale tipologia di interventi, essendo inquadrabile nella categoria della nuova costruzione, deve rispettare gli obblighi di distanza legale (Cass. 20/08/2015 n. 17043).
Parimenti illegittimo (per derivazione) deve ritenersi l’impugnato permesso di costruire rilasciato in sua attuazione.
Il ricorso deve, quindi, essere accolto in relazione alla domanda di annullamento dei predetti atti, mentre è inammissibile con riferimento alla domanda di condanna della controinteressata alla demolizione del manufatti illegittimamente autorizzato posto che la stessa esula dalla giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di atti e comportamenti della p.a. afferenti il governo del territorio (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 08.06.2017 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Sulla possibilità, o meno, di accede ad un parere legale del comune cui è succeduto il preavviso di diniego del richiesto permesso di costruire.
Le ragioni poste alla base del diniego di accesso al parere legale, fondate sulla sua natura di “documento interno riservato, prodromico anche ad una eventuale difesa in giudizio”, per quanto stringate, risultano puntuali e satisfattive.
Difatti, va dapprima sottolineato come il predetto parere legale non sia stato affatto richiamato esplicitamente nel provvedimento adottato dall’Amministrazione, comunque dotato di una specifica ed esaustiva motivazione, che ha posto in grado la ricorrente di percepire le ragioni del diniego tanto da indurla a ritirare la richiesta originaria; da ciò si deduce, quantomeno in via presuntiva, l’intenzione degli Uffici comunali di tenere riservato il parere legale e non utilizzarlo per rafforzare l’apparato motivazionale posto alla base del preavviso di diniego del permesso di costruire. L’assenza negli atti del procedimento di un diretto riferimento al parere rende molto dubbia la sua natura di atto endoprocedimentale e quindi la sua valenza istruttoria.
Inoltre, nell’impugnato diniego si specifica che il parere risulta essere un documento interno riservato, finalizzato anche ad una eventuale difesa in giudizio del Comune, con ciò chiarendosi le effettive intenzioni che hanno indotto l’Amministrazione all’acquisizione del predetto parere.
Del resto, il principio della riservatezza della consulenza legale, che dovrebbe garantire all’Amministrazione la possibilità di predisporre la propria strategia difensiva, in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto, può considerarsi quanto meno potenziale, si pone non come eccezione alla regola dell’accesso, e dunque, di stretta interpretazione, bensì come disciplina rispondente ai valori sottesi all’art. 24 Cost., in modo da evitare che l’accesso sia adoperato in modo strumentale e tale da offrire indebiti vantaggi ad una delle parti in giudizio.
Quindi il parere legale deve essere osteso soltanto laddove abbia con certezza una funzione endoprocedimentale e istruttoria, perché correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato, mentre se lo stesso è reso allo scopo di definire una strategia difensiva, anche in vista di una lite potenziale, ben può essere ritenuto inaccessibile dall’Amministrazione.

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2. Passando all’esame del merito del ricorso, lo stesso è infondato.
3. Con le due censure di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittimità del diniego comunale in ragione della ampiezza del diritto di accesso e della necessaria interpretazione restrittiva dei casi di sua esclusione, unitamente alla circostanza che il richiesto parere legale sarebbe stato riversato nel procedimento amministrativo e, senza alcuna effettiva motivazione, sarebbe stato sottratto all’accesso.
3.1. Le doglianze sono complessivamente infondate.
Appare opportuno premettere che non risultano affatto dimostrate –se non in modo apodittico e generico– la concretezza e l’attualità dell’interesse all’accesso, visto che il procedimento cui si riferisce il parere legale si è concluso per scelta autonoma della stessa ricorrente attraverso la rinuncia, dopo la comunicazione del preavviso di rigetto trasmessa dal Comune, all’originario intervento edilizio, per il quale era stato richiesto un permesso di costruire; la successiva presentazione di una s.c.i.a. per la realizzazione di un intervento avente differenti caratteristiche quali-quantitative non appare idonea a riattivare il pregresso e oramai concluso procedimento edilizio avviato con la richiesta di permesso di costruire, considerata l’alternatività tra gli stessi.
3.2. In ogni caso, le ragioni poste alla base del diniego di accesso al parere legale, fondate sulla sua natura di “documento interno riservato, prodromico anche ad una eventuale difesa in giudizio”, per quanto stringate, risultano puntuali e satisfattive, anche alla luce delle peculiarità del caso di specie.
Difatti, va dapprima sottolineato come il predetto parere legale non sia stato affatto richiamato esplicitamente nel provvedimento adottato dall’Amministrazione, comunque dotato di una specifica ed esaustiva motivazione, che ha posto in grado la ricorrente di percepire le ragioni del diniego tanto da indurla a ritirare la richiesta originaria (cfr. all. 2 al ricorso); da ciò si deduce, quantomeno in via presuntiva, l’intenzione degli Uffici comunali di tenere riservato il parere legale e non utilizzarlo per rafforzare l’apparato motivazionale posto alla base del preavviso di diniego del permesso di costruire. L’assenza negli atti del procedimento di un diretto riferimento al parere rende molto dubbia la sua natura di atto endoprocedimentale e quindi la sua valenza istruttoria (sull’accessibilità dei soli pareri posti alla base del provvedimento finale, laddove costituiscano parte integrante della motivazione: Consiglio di Stato, V, 23.06.2011, n. 3812; TAR Lombardia, Milano, II, 18.11.2011, n. 2788).
Inoltre, nell’impugnato diniego si specifica che il parere risulta essere un documento interno riservato, finalizzato anche ad una eventuale difesa in giudizio del Comune, con ciò chiarendosi le effettive intenzioni che hanno indotto l’Amministrazione all’acquisizione del predetto parere.
Del resto, il principio della riservatezza della consulenza legale, che dovrebbe garantire all’Amministrazione la possibilità di predisporre la propria strategia difensiva, in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto, può considerarsi quanto meno potenziale, si pone non come eccezione alla regola dell’accesso, e dunque, di stretta interpretazione, bensì come disciplina rispondente ai valori sottesi all’art. 24 Cost., in modo da evitare che l’accesso sia adoperato in modo strumentale e tale da offrire indebiti vantaggi ad una delle parti in giudizio (cfr. Consiglio di Stato, IV, 18.10.2016, n. 4338).
Quindi il parere legale deve essere osteso soltanto laddove abbia con certezza una funzione endoprocedimentale e istruttoria, perché correlato ad un procedimento amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso collegato, mentre se lo stesso è reso allo scopo di definire una strategia difensiva, anche in vista di una lite potenziale, ben può essere ritenuto inaccessibile dall’Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV, 18.10.2016, n. 4338).
Nella fattispecie di cui al presente contenzioso, pertanto, appare giustificato il diniego di accesso al parere legale opposto dal Comune alla società ricorrente.
3.3. Di conseguenza, le suesposte censure non sono meritevoli di accoglimento.
4. In conclusione, il ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 07.06.2017 n. 1293 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di esame della istanza di accertamento di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico, per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento di conformità (ovvero del condono straordinario). La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n. 10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza, in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla giurisdizione ordinaria».
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7.1. Contrariamente a quanto è stato dedotto dalle interessate, in sede di esame della istanza di accertamento di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico, per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n. 10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. IV, 25.11.2008, n. 5811; Sez. V, 11.03.2001, n. 1507), in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla giurisdizione ordinaria».
Pertanto, il Comune non poteva che attribuire rilevanza alla opposizione del signor Fu., che nel corso del procedimento ha fornito una documentazione tale da far ritenere ragionevole la sussistenza della sua legittimazione ad opporsi anche all’accertamento di conformità.
Poiché il provvedimento impugnato non doveva risolvere il conflitto venutosi a verificare tra le ricorrenti ed il signor Fu., ma doveva unicamente prendere atto della opposizione di quest’ultimo, adeguatamente motivata, il contestato diniego risulta adeguatamente istruito e motivato (e non si può nella presente sede giurisdizionale effettuare l’indagine sulla effettiva titolarità del bene, dovendosi unicamente verificare se l’atto impugnato sia legittimo) (TAR Calabria-Reggio Calabria, sentenza 05.06.2017 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Ostensione dell’offerta nella parte in cui contiene informazioni che costituiscano segreti tecnici o commerciali.
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Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione relativa – Art. 53, comma 5, lett. a, d.lgs. n. 50 del 2016 - Informazioni che costituiscano segreti tecnici o commerciali – Condizione.
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione relativa – Art. 53, comma 5, lett. a, d.lgs. n. 50 del 2016 – Limiti – Prevalenza della difesa in giudizio – Decorso del termine per impugnare l’aggiudicazione – Irrilevanza ex se.
L’art. 53, comma 5, lett. a), d.lgs. 18.04.2016, n. 50 –che disciplina i casi di esclusione “relativa” all’accesso ai documenti di gara– non fa riferimento all’offerta nel suo complesso, che in linea di principio è accessibile, ma soltanto alla parte di essa che contiene informazioni che costituiscano segreti tecnici o commerciali, parti che devono essere indicate, motivate e comprovate da una espressa dichiarazione dell’offerente, contenuta nell’offerta stessa (1).
Il divieto di accesso ai documenti di gara, previsto dalla lett. a) del comma 5 dell’art. 53, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, non è assoluto, essendo infatti consentito, dal successivo comma 6, l’accesso al concorrente che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri interessi in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito della quale viene formulata la richiesta di accesso, senza che tale possibilità venga meno a seguito del decorso del termine utile per intraprendere azioni giurisdizionali volte alla contestazione dell’esito della procedura di gara avanti il Tar competente (2).
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   (1) Ha chiarito il Tar che tale dichiarazione costituisce un onere per l’offerente che voglia mantenere riservate e sottratte all’accesso tali parti dell’offerta. Peraltro tale manifestazione di volontà è comunque suscettiva di autonomo e discrezionale apprezzamento da parte della stazione appaltante sotto il profilo della validità e pertinenza delle ragioni prospettate a sostegno dell’opposto diniego.
   (2) Ad avviso del Tar la tutela impugnatoria ai fini caducatori (soggetta allo stringente termine decadenziale dimezzato) non esaurisce lo spettro di forme di difese in giudizio del concorrente non aggiudicatario, ben potendo, anche nella stessa sede giurisdizional-amministrativa, azionare l’autonoma e concorrente tutela risarcitoria nel più ampio spatium temporis ivi previsto.
Ha aggiunto il tribunale che costituendo la previsione normativa de qua un’eccezione all’eccezione di esclusione (relativa) e di conseguente ripristinando il principio generale espresso dal primo comma dell’art. 53, d.lgs. 18.04.2016, n. 50 (in linea con un univoco trend normativo volto ad ampliare in termini quali-quantitativi il valore della trasparenza amministrativa sia con riguardo alla generale azione della Pubblica amministrazione, sia nello specifico settore dei contratti pubblici), della stessa deve esser data un’opzione ermeneutica non restrittivo-limitativa, ma al contrario ampliativo-estensiva, nel senso appunto di ricondurre al concetto di “difesa in giudizio” degli interessi del concorrente, in relazione alla procedura di affidamento del contratto nell’ambito del quale viene formulata la richiesta di accesso, come comprensiva di ogni forma di tutela delle proprie posizioni giuridiche.
In altri termini, se l’accesso è diritto dell’interessato ammesso in via generale dalla norma della l. 07.08.1990, n. 241, le compressioni di cui ai commi 2 e 5 dell’art. 53 del Codice rappresentano norme speciali e, comunque, eccezionali, da interpretarsi in modo restrittivo (attenendosi a quanto tassativamente ed espressamente contenuto in esse); mentre le deroghe a tali eccezioni, contenute nel comma 6 di tale ultima disposizione, consentendo una riespansione e riaffermazione del diritto generalmente riconosciuto nel nostro ordinamento di accedere agli atti, possono ben essere considerate “eccezioni all’eccezione” e, dunque, nuovamente regola (TAR Valle d’Aosta, sentenza 05.06.2017 n. 34 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAPur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto.
Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.
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Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
Ed invero, in relazione ai primi due motivi di ricorso, concernenti l’assunta carenza di motivazione e la violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, deve richiamarsi il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, per il quale: “Pur nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto). Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto. Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato sulla predetta istanza come rifiuto della stessa” (cfr., fra le tante, TAR Campania, sez. III, 22.08.2016, n. 4088) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: E' del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm.
La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola.

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Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
...
Riguardo, invece, al terzo motivo di diritto, l’opera di asfaltatura è stata realizzata su area agricola.
In proposito, riguardo ad altre fattispecie analoghe a quella in questione la realizzazione di un parcheggio scoperto è stata riconosciuta assolutamente fuori dalle ipotesi di legittima utilizzazione che il proprietario poteva fare del proprio terreno ed è stato, in particolare, affermato che: “E' del tutto inconciliabile con la finalità agricola, e non può essere ammissibile, la realizzazione in area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di circa 50 cm. La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce un intervento di permanente trasformazione edilizia e urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona agricola” (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 10.03.2016, n. 1397; 07.11.2016, n. 5116) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. 24.03.1989, n. 122 i proprietari di immobili possono realizzare, nei locali siti al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti.
Peraltro condizione essenziale per l'applicazione della succitata normativa è che si tratti di parcheggi «pertinenziali», nel senso che devono essere al servizio di singole unità immobiliari e fruibili solo da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari, che si può inverare nella «residenza» e può pure presupporre una relazione di pertinenzialità materiale tale, cioè, da evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il fabbricato principale e l'area asservita.

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Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
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Il Collegio condivide integralmente tale orientamento, risultando, pertanto, infondato pure il terzo motivo di gravame, anche in considerazione dell’insussistenza del vincolo giuridico-pertinenziale.
Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. 24.03.1989, n. 122 i proprietari di immobili possono realizzare, nei locali siti al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi vigenti; peraltro condizione essenziale per l'applicazione della succitata normativa è che si tratti di parcheggi «pertinenziali», nel senso che devono essere al servizio di singole unità immobiliari e fruibili solo da chi si trova in un determinato rapporto con tali unità immobiliari, che si può inverare nella «residenza» e può pure presupporre una relazione di pertinenzialità materiale tale, cioè, da evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il fabbricato principale e l'area asservita” (Cons. Stato, sez. IV, 23.05.2016, n. 2116).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIAllo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente di conferma, in grado, come tale, di costituire un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione.
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A questo proposito, va ricordata la costante giurisprudenza elaborata in tema di atto di conferma.
Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la cui adozione sia stata preceduta da un riesame della situazione che aveva condotto al precedente provvedimento, giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata, può dare luogo a un atto propriamente di conferma, in grado, come tale, di costituire un provvedimento diverso dal precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato, sez. IV, 14.04.2014, n. 1805; sez. IV, 12.02.2015, n.758; sez. IV, 29.02.2016, n. 812) (Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 30.05.2017 n. 2564 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATALa giurisprudenza è monolitica nell’affermare che il Comune in sede di istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio non è chiamato a svolgere accertamenti complessi, dovendo limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo legittimante, posto che l’autorizzazione viene emanata facendo comunque salvi i diritti dei terzi.
Dall’accertamento dell’esistenza di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi dello ius aedificandi o della piena disponibilità dei beni oggetto dell’intervento consegue per l’amministrazione il dovere di adottare i provvedimenti volti al ripristino della legalità violata. La verifica dell'esistenza di un idoneo titolo sul bene oggetto della richiesta avviene mediante attività che non è diretta a risolvere i conflitti tra i privati ma ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
Del resto secondo condivisa giurisprudenza “l’Amministrazione non può agire in spregio dei principi che tutelano la proprietà privata nei confronti dell’azione amministrativa: principi che sono sanciti dalla Costituzione, ma ormai presidiati anche da un consistente corpus giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo; e che hanno anche un impatto sui profili sostanziali del governo e della gestione del territorio.
Ragionare diversamente significherebbe non salvaguardare, bensì pregiudicare i principi di buon andamento e del giusto procedimento, dovendosi aver riguardo alle fondamentali garanzie della proprietà. Ed anche il principio di conservazione degli atti si rivela recessivo nella specie, mancando il presupposto fondamentale della legittimazione, neppure sanato a posteriori.
E parimenti recessivo si rivela -in concreto- il principio dell’affidamento”.
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Tali principi ancor più valgono con riferimento alla denuncia/segnalazione di inizio attività, che è un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, uno strumento di massima semplificazione quale manifestazione di autonomia privata con cui l'interessato certifica la sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto allegati a presupposto del legittimo esercizio dell'attività segnalata alla P.A.
Presupposto indefettibile perché una DIA/SCIA possa essere produttiva di effetti è la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, in presenza di una dichiarazione inesatta o incompleta all'Amministrazione spetta comunque il potere di inibire l'attività dichiarata.
La Sezione in recente pronuncia ha richiamato, condividendolo, l’orientamento consolidato della giurisprudenza per cui “non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.
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8.2. – Da quanto appena evidenziato consegue che i provvedimenti adottati dal Comune ed oggetto di gravame assumono i caratteri dell’atto dovuto.
La denunziata violazione delle regole e dei principi che governano l’esercizio del potere di autotutela ed il connesso principio dell’affidamento del privato, non appare meritevole di positiva delibazione.
Sia i precedenti proprietari nell’istanza di accertamento di conformità, che la ricorrente nella SCIA hanno, infatti, dichiarato l’assenza della lesione dei diritti dei terzi.
Tali dichiarazioni sono risultate non rispondenti ai contenuti della produzione documentale.
In simili casi anche l’attuale formulazione dell’art. 19 L. 241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della liberalizzazione, al comma 6-bis L. 241/1990, consente al Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori, prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle leggi regionali».
La giurisprudenza è monolitica nell’affermare che il Comune in sede di istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio non è chiamato a svolgere accertamenti complessi, dovendo limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo legittimante, posto che l’autorizzazione viene emanata facendo comunque salvi i diritti dei terzi (ex multis Cons. Stato, sez. IV, sent, 5587 del 09.12.2015 e apre n. 4571 del 12.12.2011).
Dall’accertamento dell’esistenza di eventuali fattori limitativi, preclusivi o estintivi dello ius aedificandi o della piena disponibilità dei beni oggetto dell’intervento consegue per l’amministrazione il dovere di adottare i provvedimenti volti al ripristino della legalità violata. La verifica dell'esistenza di un idoneo titolo sul bene oggetto della richiesta avviene mediante attività che non è diretta a risolvere i conflitti tra i privati ma ad accertare il requisito della legittimazione soggettiva del richiedente (TAR Sicilia, sez. III, sent. 100 del 13.01.2017).
Del resto secondo condivisa giurisprudenza “l’Amministrazione non può agire in spregio dei principi che tutelano la proprietà privata nei confronti dell’azione amministrativa: principi che sono sanciti dalla Costituzione, ma ormai presidiati anche da un consistente corpus giurisprudenziale della Corte europea dei diritti dell’uomo; e che hanno anche un impatto sui profili sostanziali del governo e della gestione del territorio.
Ragionare diversamente significherebbe non salvaguardare, bensì pregiudicare i principi di buon andamento e del giusto procedimento, dovendosi aver riguardo alle fondamentali garanzie della proprietà. Ed anche il principio di conservazione degli atti si rivela recessivo nella specie, mancando il presupposto fondamentale della legittimazione, neppure sanato a posteriori.
E parimenti recessivo si rivela -in concreto- il principio dell’affidamento
” (TAR Lazio, sez. II-bis, sent. 1141 del 02.02.2012).
8.3. - Tali principi ancor più valgono con riferimento alla denuncia/segnalazione di inizio attività, che è un atto soggettivamente ed oggettivamente privato, uno strumento di massima semplificazione quale manifestazione di autonomia privata con cui l'interessato certifica la sussistenza dei presupposti in fatto ed in diritto allegati a presupposto del legittimo esercizio dell'attività segnalata alla P.A.
Presupposto indefettibile perché una DIA/SCIA possa essere produttiva di effetti è la completezza e la veridicità delle dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, in presenza di una dichiarazione inesatta o incompleta all'Amministrazione spetta comunque il potere di inibire l'attività dichiarata.
La Sezione in recente pronuncia (TAR Bari, sent. 96/2017) ha richiamato, condividendolo, l’orientamento consolidato della giurisprudenza per cui “non sono evocabili i principi a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine dei presupposti per concludere favorevolmente il procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio, dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame), non necessita, peraltro, di un'espressa e specifica motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo nell'interesse della collettività al rispetto della disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, sez. V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato (si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente, stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al Comune, dovuto proprio a fatto del privato
” (ex multis, da ultimo, TAR Bari, sez. III, sent. 222 del 09.03.2017, TAR Campania, sez. IV, sent. 5726, del 13.12.2016).
9. - Dalle considerazioni che precedono discende anche il rigetto delle censure articolate avverso la successiva ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto deve ritenersi provvedimento consequenziale rigidamente vincolato. L'interesse pubblico al ripristino dello stato dei luoghi è, infatti, ‘in re ipsa’.
Né può ritenersi legittimamente invocata l’applicazione dell’art. 38 d.p.r. 380/2001. E’ sufficiente in proposito rilevare che la peculiarità dell’art. 38 è giustificata essenzialmente dalla necessità di tutela dell’affidamento del soggetto che ha edificato in conformità ad un titolo rivelatosi poi illegittimo. Ma si è già diffusamente argomentato sull’insussistenza, nella vicenda per cui è causa, di alcun legittimo affidamento tutelabile in capo alla ricorrente.
10. – In base alle considerazioni esposte il ricorso va rigettato (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 30.05.2017 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Impugnazione immediata dell’ammissione di altro concorrente o unitamente all'aggiudicazione.
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Processo amministrativo – Rito appalti – Rito superaccelerato – Impugnazione immediata ammissione di altro concorrente – Presupposto – Individuazione – Mancata pubblicità ex art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione dell’ammissione unitamente all’aggiudicazione.
L'onere di immediata impugnazione del provvedimento di ammissione ad una gara d'appalto ai sensi dell’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. risulta esigibile solo a fronte della contestuale operatività della disposizione che consente l’immediata conoscenza di tale ammissione da parte delle imprese partecipanti e, segnatamente, dell’art. 29, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (pubblicazione sul profilo del committente nella sezione “Amministrazione trasparente”), in mancanza della quale tale ammissione deve essere impugnata unitamente all’aggiudicazione (1).
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   (1) Ha chiarito il Tar che in difetto del contestuale funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere di immediata impugnazione -che devono, perciò, intendersi legate da un vincolo funzionale inscindibile- la relativa prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile, per la mancanza del presupposto logico della sua operatività e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che garantisca la tempestiva informazione degli interessati circa il contenuto del provvedimento da gravare nel ristretto termine di decadenza ivi stabilito.
Una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito superaccelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., trova applicazione il costante orientamento giurisprudenziale, formatosi prima dell’entrata in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici, che nega valenza procedimentale autonoma all’atto di ammissione alla gara e che ne ammette l’impugnazione solo unitamente al provvedimento di aggiudicazione (TAR Campania-Napoli, Sez. I, sentenza 29.05.2017 n. 2843 - commento tratto da  link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAAi fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile. L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum", superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione in ipotesi di contestazione, resta fermo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui "l'iscrizione di una strada nell'elenco formato dalla P.A. delle vie gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa della pretesa della P.A. La stessa iscrizione pone in essere una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico, superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto di godimento da parte della collettività.".
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L'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può derivare, oltre che dalla volontà del proprietario e dal mutamento della situazione dei luoghi, con conseguente inserimento della stessa nella rete viaria cittadina, anche da un immemorabile uso pubblico, inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica, di esercitare il diritto di uso della strada.
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7. Passando ai motivi del presente appello, si rileva che con il primo motivo il Consorzio sostiene che, costituendo il Consorzio stradale permanente degli utenti della rete viaria del centro turistico di Marsia, il Comune di Tagliacozzo avrebbe violato la disposizione dell’art. 14 della legge n. 126/1958, la quale prevedrebbe la costituzione di un consorzio stradale obbligatorio per la manutenzione soltanto delle strade vicinali pubbliche e non invece di quelle pubbliche.
Anche in questo caso si può prescindere dall’eccezione di inammissibilità per novità della censura, stante la sua infondatezza.
Infatti nella proposta di deliberazione del Consiglio comunale n. 26/P del 14.09.2009, è espressamente affermato che “La disciplina dei consorzi stradali obbligatori si applica a tutte le strade private aperte al pubblico transito, a prescindere che si tratti di strade vicinali o meno; le strade del centro turistico di Marsia, a prescindere da chi sia il proprietario, sono sicuramente aperte al pubblico transito; ciò è previsto, tra l’altro, dall’art. 7 del verbale di conciliazione sottoscritto innanzi al Commissario Regionale agli Usi Civici dell’Aquila in data 19.07.1968, Cron. N. 136 (e ribadito, nello stesso senso, nel verbale di conciliazione in data 01.04.1971, n. 171: “Le strade, i piazzali, i larghi destinati all’uso collettivo sono soggetti all’uso pubblico di circolazione, a norma delle leggi in materia, salvi gli oneri della società Marsia e suoi aventi causa per la costruzione, sistemazione e manutenzione delle strade”), ed è stato di recente confermato dalla sentenza del TAR dell’Aquila n. 232 del 2003 (divenuta definitiva per non essere stata impugnata da alcuno); pertanto, anche per esse trovano applicazione le disposizioni del d.lgs. n. 1446/1918 e dell’art. 14 della legge n. 126/1958”.
Inoltre, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1515), ai fini della qualificazione di una strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di carattere generale, anche per il collegamento con la pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile. L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum", superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza di un diritto di uso o di godimento della strada da parte della collettività.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione in ipotesi di contestazione, resta fermo l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. Unite, 07.11.1994, n. 9206) secondo cui "l'iscrizione di una strada nell'elenco formato dalla P.A. delle vie gravate da uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa della pretesa della P.A. La stessa iscrizione pone in essere una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico, superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto di godimento da parte della collettività.".
8. Inoltre, questa Sezione (sentenza 22.12.2014, n. 6197), confermando la sentenza n. 230 del 2003 del TAR per l’Abruzzo, ha definitivamente accertato la presenza di un immemorabile uso pubblico delle strade e delle piazze ricadenti all’interno del centro turistico di Marsia.
Ciò conferma risolutivamente che sussistevano i presupposti affinché, ai sensi dell’art. 14 L. n. 126/1958, fosse costituito dal Comunità di Tagliacozzo il consorzio stradale permanente degli utenti della rete viaria del centro turistico di Marsia.
Come già ricordato, l'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può derivare, oltre che dalla volontà del proprietario e dal mutamento della situazione dei luoghi, con conseguente inserimento della stessa nella rete viaria cittadina, anche da un immemorabile uso pubblico, inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica, di esercitare il diritto di uso della strada.
In ogni caso, si rileva che nella proposta di deliberazione del Consiglio comunale n. 26/P del 14.09.2009, è espressamente affermato (pag. 4) che “Nessuna delle strade ricomprese nel comprensorio del centro turistico di Marsia può essere classificata come “strada comunale” ai sensi della vigente normativa, per cui tutte queste strade rientrano nella definizione di “strade private” soggette ad uso pubblico, e come tale soggette alla competenza del Consorzio stradale che si intende costituire”.
Tali rilievi sono sufficienti a dimostrare la legittimità degli atti impugnati sotto il profilo denunciato, restando salve altre ed ulteriori questioni di diritto proprietario che non sono comunque di competenza di questo plesso giurisdizionale (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2017 n. 2531 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAi sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163, sono esclusi dalle procedure di gara per i contratti pubblici quanti “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti”.
Costituisce ius receputm che la regolarità contributiva postulata dalla trascritta norma deve sussistere fin dalla presentazione dell’offerta e permanere per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando irrilevanti eventuali adempimenti tardivi dell’obbligazione contributiva.
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 04/05/2012, n. 8, non è superato dall’articolo 31 (Semplificazioni in materia di DURC), comma 8, del D.L. 21/06/2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni dalla L. 09/08/2013, n. 98, sull’invito alla regolarizzazione, a norma del quale, ai fini della verifica per il rilascio del DURC, «in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento del documento già rilasciato, invitano l'interessato […] a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità».
Ciò è stato recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, con le sentenza 29/02/2016, n. 5 e 6, con le quali si è chiarito che anche dopo detto art. 31 non sono consentite regolarizzazioni postume delle posizioni previdenziali, perché l’impresa dev’essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante: sicché rimane irrilevante l’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, posto che l’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24/10/2007 e ora recepito dall’art. 31 predetto, opera solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del Codice dei contratti pubblici ai fini della partecipazione alla gara d’appalto.
Nessun argomento contrario può trarsi, poi, dall’art. 4 del D.M. 30/01/2015, recante norme di “Semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC)”.
Come rilevato dalla citata Adunanza Plenaria n. 6 del 2016: “Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la disciplina dell'affidamento degli appalti pubblici non consente la regolarizzazione postuma della irregolarità contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia delle fonti normative non permette ad una norma regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione incompatibile con la disciplina di rango legislativo”.
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Può, pertanto, procedersi ad esaminare nel merito i due motivi di gravame che risultano infondati.
In punto di diritto occorre premettere che, ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 12/04/2006, n. 163 (applicabile ratione temporis), sono esclusi dalle procedure di gara per i contratti pubblici quanti “hanno commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle norme in materia di contributi previdenziali e assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello Stato in cui sono stabiliti”.
Costituisce ius receputm che la regolarità contributiva postulata dalla trascritta norma deve sussistere fin dalla presentazione dell’offerta e permanere per tutta la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante, restando irrilevanti eventuali adempimenti tardivi dell’obbligazione contributiva (cfr. da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 29/04/2016, n. 1650; Sez. III, 09/03/2016, n. 955).
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 04/05/2012, n. 8, non è superato dall’articolo 31 (Semplificazioni in materia di DURC), comma 8, del D.L. 21/06/2013, n. 69 (Disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con modificazioni dalla L. 09/08/2013, n. 98, sull’invito alla regolarizzazione, a norma del quale, ai fini della verifica per il rilascio del DURC, «in caso di mancanza dei requisiti per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento del documento già rilasciato, invitano l'interessato […] a regolarizzare la propria posizione entro un termine non superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le cause della irregolarità».
Ciò è stato recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio di Stato, con le sentenza 29/02/2016, n. 5 e 6, con le quali si è chiarito che anche dopo detto art. 31 non sono consentite regolarizzazioni postume delle posizioni previdenziali, perché l’impresa dev’essere in regola con l’assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato per la durata della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la stazione appaltante: sicché rimane irrilevante l’eventuale adempimento tardivo dell’obbligazione contributiva, posto che l’invito alla regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già previsto dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24/10/2007 e ora recepito dall’art. 31 predetto, opera solo nei rapporti tra impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla stazione appaltante per la verifica della veridicità dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del Codice dei contratti pubblici ai fini della partecipazione alla gara d’appalto.
Nessun argomento contrario può trarsi, poi, dall’art. 4 del D.M. 30/01/2015, recante norme di “Semplificazione in materia di documento unico di regolarità contributiva (DURC)”.
Come rilevato dalla citata Adunanza Plenaria n. 6 del 2016: “Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la disciplina dell'affidamento degli appalti pubblici non consente la regolarizzazione postuma della irregolarità contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia delle fonti normative non permette ad una norma regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione incompatibile con la disciplina di rango legislativo
”.
I principi di diritto poc’anzi espressi si attagliano perfettamente alla fattispecie controversa, nella quale le stazioni appaltanti, in sede di verifica dell’autodichiarazione resa dal concorrente, hanno appurato l’esistenza di un’irregolarità contributiva a carico della R.C.B.
Al riguardo giova puntualizzare che nessuna rilevanza può avere il fatto che l’autocertificazione risalga al settembre 2012 e la verifica sia stata compiuta nel 2014, in quanto, come sopra osservato, la regolarità contributiva deve sussistere continuativamente dal momento della presentazione della domanda di partecipazione sino alla conclusione del rapporto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2017 n. 2529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Dall’esclusione dalla gara consegue automaticamente l’escussione della cauzione provvisoria, senza che all’uopo possano rilevare gli stati soggettivi del concorrente in ordine alle circostanze che hanno determinato il provvedimento espulsivo, ricollegandosi la detta escussione soltanto alla mancata prova del possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati con la presentazione dell'offerta e al conseguente provvedimento di esclusione.
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Ritiene, infine, il Collegio, in linea con un consolidato orientamento giurisprudenziale, che dall’esclusione dalla gara consegua automaticamente l’escussione della cauzione provvisoria, senza che all’uopo possano rilevare gli stati soggettivi del concorrente in ordine alle circostanze che hanno determinato il provvedimento espulsivo, ricollegandosi la detta escussione soltanto alla mancata prova del possesso dei requisiti di partecipazione dichiarati con la presentazione dell'offerta e al conseguente provvedimento di esclusione (cfr, fra le tante, Cons. Stato, Sez. V, 15/03/2017, n. 1172; 13/06/2016, n. 2531; 01/10/2015 n. 4587; 28/04/2014, n. 2201; 16/04/2013, n. 2114; Sez. IV, 19/11/2015, n. 5280).
La reiezione delle censure sin qui esaminate consente di prescindere dall’affrontare le restanti doglianze prospettate, potendo l’impugnata sentenza reggersi sui capi risultati immuni da vizi.
L’appello va, in definitiva, respinto (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 29.05.2017 n. 2529 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAL’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento della sua istanza.
La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’, cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il contraddittorio da instaurare consente di valutare già in sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e che non proponga dunque ricorso.
L’art. 10-bis non si applica invece quando sia proposta una istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.
In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di effettuare una ulteriore valutazione della situazione di fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a sorpresa’.
Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità della precedente valutazione, non occorre dunque una ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato: l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione prevista dall’art. 10-bis, se intende respingerla perché ritiene immodificabile la precedente valutazione.

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13. Col quarto motivo, è lamentato che le determinazioni di ‘riesame negativo’ della Soprintendenza sarebbero illegittime, perché –in violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990, nel frattempo entrato in vigore– la Soprintendenza non avrebbe comunicato preventivamente le ragioni di rigetto della istanza.
L’appellante ha richiamato molteplici precedenti giurisprudenziali, riguardanti la ratio dell’art. 10-bis e il suo ambito di applicazione.
Ritiene la Sezione che anche tale censura è infondata, per le seguenti considerazioni.
13.1. In primo luogo, il successivo atto negativo della Soprintendenza va considerato meramente confermativo del precedente parere.
Infatti, la Soprintendenza –con una nota sostanzialmente ‘di cortesia’- ancora una volta ha dato atto dell’esistenza del vincolo disposto dal decreto ministeriale del 24.09.1947, negando la possibilità di esercitare una discrezionalità contrastante con le esigenze di tutela poste a sua base, ribadendo il contenuto del precedente parere negativo e considerando ‘illecita’ una sanatoria che avrebbe consentito il mantenimento delle ‘alterazioni ambientali’.
13.2. Peraltro, le censure proposte non risultano fondate e vanno respinte.
L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento della sua istanza.
La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’, cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il contraddittorio da instaurare consente di valutare già in sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e che non proponga dunque ricorso.
L’art. 10-bis non si applica invece quando sia proposta una istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.
In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di effettuare una ulteriore valutazione della situazione di fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a sorpresa’.
Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità della precedente valutazione, non occorre dunque una ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato: l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione prevista dall’art. 10-bis, se intende respingerla perché ritiene immodificabile la precedente valutazione.
14. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 26.05.2017 n. 2507 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVILa comunicazione dei motivi ostativi di cui all’art. 10-bis, L. n. 241/1990, è priva di immediata lesività, attesa la funzione che le è propria, di consentire alla parte di partecipare attivamente al procedimento, ed in ipotesi, di far pervenire l'autorità competente anche ad una diversa determinazione rispetto a quanto rappresentato nella sede dell'interlocuzione procedimentale, essendo pertanto inammissibile la sua autonoma impugnazione.
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Il presente ricorso va dichiarato inammissibile.
Per giurisprudenza pacifica, la comunicazione dei motivi ostativi di cui all’art. 10-bis, L. n. 241/1990, è infatti priva di immediata lesività, attesa la funzione che le è propria, di consentire alla parte di partecipare attivamente al procedimento, ed in ipotesi, di far pervenire l'autorità competente anche ad una diversa determinazione rispetto a quanto rappresentato nella sede dell'interlocuzione procedimentale, essendo pertanto inammissibile la sua autonoma impugnazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 01.07.2015 n. 1515, TAR Roma, Lazio, Sez. II, 14.06.2016 n. 6788, Sez. III, 12.04.2012, n. 3359) (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 26.05.2017 n. 1188 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Accesso alle offerte di gara e azione incidentale avverso il diniego del ricorrente e del controinteressato.
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Processo amministrativo – Accesso ai documenti – Azione ex art. 116, comma 2, c.p.a. – soggetto legittimato – Controinteressato – Esclusione.
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica amministrazione – Differimento dopo l’aggiudicazione – Art. 53, comma 2, d.lgs. n. 50 del 2016 – Interpretazione – Differimento del solo contenuto delle offerte – Documentazione amministrativa – E’ immediatamente accessibile.
La facoltà di azionare la tutela in materia di accesso ai documenti anche in pendenza di giudizio ex art. 116, comma 2, c.p.a., attesa la finalità istruttoria di tale strumento processuale, può essere riconosciuta solo alla parte ricorrente nel giudizio principale e non anche al controinteressato, stante la natura strumentale rispetto ad un’azione già incardinata, ferma restando, ovviamente la possibilità di proporre un autonomo processo di accesso.
L'art. 53, comma 2, lett. c), d.lgs. 18.04.2016, n. 50, secondo cui l'accesso in relazione alle offerte è differito fino al momento dell’aggiudicazione, deve essere interpretato nel senso che tale norma si riferisce solamente al contenuto delle offerte, essendo posta a presidio della segretezza delle offerte tecnico-economiche, ma non impedisce l’accesso alla documentazione amministrativa, relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti, essendo peraltro la conoscenza di tale documentazione elemento imprescindibile per l’esercizio del diritto di difesa in relazione al nuovo sistema delineato dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti dell’impugnazione immediata delle ammissioni e delle esclusioni (1).
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   (1) Tar Lazio, sez. III, 28.03.2017, n. 3971.
Il Tar ha anche ricordato l’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il quale detta i principi generali sulla trasparenza e impone la pubblicità di tutti gli atti delle procedure di affidamento sul sito delle stazioni appaltanti, nella sezione amministrazione trasparente, e inoltre sulla piattaforma digitale ANAC e sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, nonché il comma 3 dell’art. 76 (nel testo ante correttivo attualmente vigente) che, in aggiunta alle pubblicazioni previste dall’art. 29, stabilisce che debba essere dato “avviso ai concorrenti, mediante PEC o strumento analogo negli altri Stati membri, del provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti”; laddove per “atti” si devono intendere, i verbali di gara relativi alla fase di ammissione dei concorrenti e la documentazione amministrativa di cui si è detto sopra utile al fine della verificazione della sussistenza dei requisiti soggettivi dei concorrenti (
TAR Veneto, Sez. I, ordinanza 26.05.2017 n. 512 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Nel merito,
il diniego di accesso alla documentazione amministrativa opposto all’Impresa di Costruzioni Ga.Ro. è illegittimo, non essendo condivisibile l’assunto dell’Amministrazione secondo cui l’accesso alla documentazione amministrativa, ai sensi dell’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016, è differito fino al momento dell’aggiudicazione;
Infatti,
tale ultima norma si riferisce solamente al contenuto delle offerte, ed è chiaramente posta a presidio della segretezza delle offerte tecnico-economiche, ma non impedisce l’accesso alla documentazione amministrativa contenuta normalmente nella busta A, relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti, essendo peraltro la conoscenza di tale documentazione elemento imprescindibile per l’esercizio del diritto di difesa in relazione al nuovo sistema delineato dall’art. 120, comma 2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti dell’impugnazione immediata delle ammissioni e delle esclusioni;
Giova considerare, inoltre, non solo l’art. 29 del D.lgs. 50/2016, il quale detta i principi generali sulla trasparenza e impone la pubblicità di tutti gli atti delle procedure di affidamento sul sito delle stazioni appaltanti, nella sezione amministrazione trasparente, e inoltre sulla piattaforma digitale ANAC e sul sito del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma anche il comma 3 dell’art. 76 (nel testo ante correttivo attualmente vigente) che in aggiunta alle pubblicazioni previste dall’art. 29, stabilisce che debba essere dato “avviso ai concorrenti, mediante PEC o strumento analogo negli altri Stati membri, del provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi, economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato dove sono disponibili i relativi atti”; laddove per “atti” si devono intendere, i verbali di gara relativi alla fase di ammissione dei concorrenti e la documentazione amministrativa di cui si è detto sopra utile al fine della verificazione della sussistenza dei requisiti soggettivi dei concorrenti;
Ed invero,
è proprio il nuovo regime diversificato di impugnazione previsto dal citato art. 120, comma 2-bis, del cpa, introdotto nel 2016, che impone una tale interpretazione, nel senso cioè che l’operatore economico possa accedere alla documentazione amministrativa e ai verbali di gara relativi alla fase di ammissione dei concorrenti, già nella fase iniziale della procedura selettiva (senza attendere cioè quella finale di aggiudicazione, come era previsto nel vecchio regime di cui al D.lgs. n. 163 del 2006) e che il differimento previsto dall’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016 sia ormai limitato alle buste della proposta che contengono le offerte tecniche e economiche (cfr. in tal senso, TAR Lazio, sez. III, n. 3971 del 28.03.2017);
D’altro canto,
non sussiste alcuna esigenza di differimento delle richieste di accesso a tale documentazione amministrativa una volta conclusa la fase delle ammissioni e delle esclusioni, né verrebbe violata alcuna esigenza di riservatezza essendo noto il contenuta della busta contenente la documentazione amministrativa una volta aperta la stessa, né, quindi, potrebbe in alcun modo configurarsi alcuna violazione da parte dei pubblici ufficiali rilevante ai sensi dell’art. 326 c.p., richiamato dal comma 4 dell’art. 53 del D.lgs. 50/2016;
Pertanto, l’istanza avanzata dalla Ga.Ro. deve essere accolta e deve essere ordinato all’Amministrazione resistente di consentire alla stessa l’accesso alla documentazione amministrativa richiesta relativa alla Fr. e ai verbali di gara, entro il termine di 15 giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente ordinanza ovvero dalla notifica, se antecedente.

EDILIZIA PRIVATARegolamento unico edilizio, norma salva.
Non sono state accolte dalla Consulta, con la
sentenza 26.05.2017 n. 125, le questioni di legittimità costituzionali, sollevate dalla regione Puglia e dalla provincia autonoma di Trento, che hanno promosso due distinti ricorsi, iscritti rispettivamente ai numeri 5 e 9 del registro 2015, lamentando l'incostituzionalità dell'art. 17-bis (Regolamento unico edilizio) del dl 133/2014 (Misure urgenti per l'apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164/2014.
La norma impugnata aggiunge il comma 1-sexies all'art. 4 del dpr n. 380/2001, stabilendo che in sede di Conferenza unificata il governo, le regioni e le autonomie locali stipulano accordi o intese per l'adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo e che «tali accordi costituiscono livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale».
La regione sosteneva che la disposizione fosse in contrasto con l'art. 117, commi 2, 3 6, della Costituzione perché la disciplina in questione, nelle materie «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e «tutela della concorrenza», rientrerebbe nella competenza statale esclusiva, ma la norma non andrebbe a individuare una prestazione da erogare, definendo poi i livelli strutturali e qualitativi necessari per soddisfare i diritti. La potestà regolamentare spetterebbe allo stato solo nelle materie di legislazione esclusiva: in questo caso, l'ausilio dello schema di regolamento-tipo integrerebbe gli estremi di una fonte regolamentare, invasiva della potestà riconosciuta alle regioni, sottolineava la difesa.
Secondo la Corte, la legge non ha perso la propria competenza attribuendo a un atto sub-legislativo il compito di disciplinare una materia affidata al legislatore statale che, infatti, detta tutti gli estremi necessari per raggiungere l'uniformità nazionale in un ambito di interesse. La scelta di rinviare ad altri atti l'identificazione delle specifiche caratteristiche è possibile, come confermano precedenti sentenze della Consulta. Lo schema di regolamento-tipo è privo dei contenuti propri delle fonti regolamentari e ha solo la funzione di raccordo e coordinamento meramente tecnico e redazionale. Fra l'altro, dopo l'intesa, gli enti locali, adeguandosi al tipo stabilito in Conferenza, potranno fare interventi in linea con le peculiarità territoriali grazie all'esercizio delle potestà regolamentari loro attribuite in materia edilizia.
Invece la provincia asseriva che la norma violasse l'art. 117, comma secondo, lettere e) e m), della Costituzione, ledendo la potestà legislativa primaria e la potestà amministrativa in materia di «urbanistica e piani regolatori» delle province autonome. Ma la norma è inapplicabile alle province autonome perché impedita dalla clausola di salvaguardia richiamata dall'art. 43-bis del dl. n. 133/2014 che prevede che «le norme trovino applicazione nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e con le relative norme di attuazione» (articolo ItaliaOggi del 27.05.2017).

EDILIZIA PRIVATA: La Corte costituzionale riconduce lo schema di regolamento edilizio-tipo adottato in sede di conferenza unificata Stato–Regioni–Enti locali tra i principi fondamentali del governo del territorio.
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Regolamento edilizio tipo – Accordo in sede di Conferenza unificata – Questione infondata di costituzionalità.
E’ infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 17-bis del decreto-legge 12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica, l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa delle attività produttive), convertito, con modificazioni, dalla legge 11.11.2014, n. 164, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo, terzo e sesto comma, della Costituzione nella parte in cui afferma «[i]l Governo, le regioni e le autonomie locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, concludono in sede di Conferenza unificata accordi ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 28.08.1997, n. 281, o intese ai sensi dell’articolo 8 della legge 05.06.2003, n. 131, per l’adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al fine di semplificare e uniformare le norme e gli adempimenti. Ai sensi dell’articolo 117, secondo comma, lettere e) e m), della Costituzione, tali accordi costituiscono livello essenziale delle prestazioni, concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Il regolamento edilizio-tipo, che indica i requisiti prestazionali degli edifici, con particolare riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico, è adottato dai comuni nei termini fissati dai suddetti accordi, comunque entro i termini previsti dall’articolo 2 della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni». (1)
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(1) I.- Con la sentenza n. 125 del 2017, la Corte costituzionale ha ritenuto infondate, in riferimento agli artt. 117, commi secondo, terzo e sesto, della Costituzione, le questioni di legittimità costituzionale di cui alla massima sollevate dalla Regione Puglia e quelle analoghe proposte dalla Provincia autonoma di Trento in relazione però alle norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali.
La Regione Puglia, in particolare, aveva impugnato la norma di legge lamentando in particolare che:
   a)   la disciplina in esame non rientrerebbe nelle materie «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e «tutela della concorrenza», di competenza statale esclusiva (art. 117, secondo comma, lettere e) e m). La disposizione in esame infatti non individuerebbe una prestazione da erogare, di cui è necessario definire i livelli strutturali e qualitativi capaci di soddisfare i diritti civili e sociali tutelati dalla Costituzione, ma disciplinerebbe una funzione normativa concernente le modalità di adozione e i contenuti del regolamento edilizio-tipo;
   b)   l’intervento legislativo de quo ricadrebbe, invece, nella materia di competenza concorrente «governo del territorio», in riferimento alla quale è attribuito al legislatore statale il potere di dettare i principi fondamentali della materia in forma di legge e non di regolamento, come accaduto nel caso di specie. Ne discenderebbe, secondo la ricorrente, non solo la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., ma anche del sesto comma dello stesso articolo, il quale stabilisce che la potestà regolamentare spetta allo Stato soltanto nelle materie di legislazione esclusiva.
II.- La Corte costituzionale, ha ritenuto le questioni non fondate sulla scorta delle seguenti considerazioni:
   c)   pur condividendo la doglianza regionale circa la impossibilità di ricondurre la disciplina in questione alle materie di competenza statale esclusiva dei «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» e della «tutela della concorrenza», tenuto altresì conto della irrilevanza della auto-qualificazione legislativa, la Corte osserva tuttavia che la norma in questione ha posto un criterio procedurale, di natura concertativa, finalizzato a semplificare la struttura dei regolamenti edilizi, anche attraverso la predisposizione di definizioni uniformi sull’intero territorio nazionale.
La decisione di ricorrere a uno schema “tipo”, riflettendo tale esigenza unitaria e non frazionabile, viene pertanto annoverata a pieno titolo tra i principi fondamentali del governo del territorio e quindi legittimamente ricompresa nella competenza statale esclusiva, senza tuttavia pregiudicare la possibilità, per le singole regioni, di operare nell’ambito dello schema e di svolgere una funzione di raccordo con gli enti locali operanti sul loro territorio;
   d)   è da escludersi che legge statale si sia spogliata della propria competenza, attribuendo ad un atto sub-legislativo il compito di disciplinare una materia che l’art. 117, terzo comma, Cost. affida al legislatore. La disposizione censurata, infatti, non contiene una autorizzazione “in bianco”, non omettendo di indicare i soggetti interessati, l’obiettivo da perseguire, il metodo e gli adempimenti procedurali necessari a unificare e coordinare la struttura e il lessico dei regolamenti edilizi locali;
   e)   è ben possibile che il legislatore rinvii ad atti integrativi e ad essi affidi «il compito di individuare le specifiche caratteristiche della fattispecie tecnica […] le quali necessitano di applicazione uniforme in tutto il territorio nazionale» e «mal si conciliano con il diretto contenuto di un atto legislativo» (
Corte cost. sentenza n. 11 del 2014). Poiché se è ovvio che tali atti, «qualora autonomamente presi, non possono assurgere al rango di normativa interposta, altra è la conclusione cui deve giungersi ove essi vengano strettamente ad integrare, in settori squisitamente tecnici, la normativa primaria che ad essi rinvia» (Corte cost. sentenza n. 11 del 2014);
   f)   la disciplina statale che rimette a decreti ministeriali l’approvazione di talune norme tecniche per le costruzioni costituisce «chiara espressione di un principio fondamentale» (
Corte cost. sentenze n. 282 del 2016 e n. 254 del 2010; nello stesso senso, sentenza n. 41 del 2017);
   g)   è da escludersi che lo schema di regolamento-tipo integrerebbe gli estremi di una fonte regolamentare statale, invasiva della potestà riconosciuta alle regioni nelle materie di legislazione concorrente. Il regolamento tipo non ha alcun contenuto innovativo della disciplina dell’edilizia ma svolge una funzione di raccordo e coordinamento meramente tecnico e redazionale, venendo a completare il principio (fondamentale) contenuto nella disposizione legislativa sicché ben potrebbe essere adottato in una materia di legislazione concorrente in quanto, come già precisato, «[l]’art. 117, sesto comma, Cost. […] preclude allo Stato, nelle materie di legislazione concorrente, non già l’adozione di qualsivoglia atto sub-legislativo, […] bensì dei soli regolamenti, che sono fonti del diritto, costitutive di un determinato assetto dell’ordinamento» (
Corte cost. sentenza n. 284 del 2016);
   h)   all’intesa potrà seguire il recepimento regionale e l’esercizio del potere regolamentare da parte degli enti locali. Questi, nell’adempiere al necessario obbligo di adeguamento delle proprie fonti normative al “tipo” concertato in Conferenza unificata e recepito dalle singole Regioni, godranno di un ragionevole spazio per intervenire con riferimenti normativi idonei a riflettere le peculiarità territoriali e urbanistiche del singolo comune, tramite l’esercizio delle potestà regolamentari loro attribuite in materia edilizia (art. 117, sesto comma, Cost.; artt. 2, comma 4, e 4 del citato TUEL).
Ad una soluzione identica, anche se tramite un percorso argomentativo in parte diverso, la Corte perviene in riferimento al ricorso proposto dalla Provincia autonoma di Trento.
III.- Sui rapporti tra Stato e Regioni in materia di Governo del territorio, e sulla individuazione dei principi fondamentali all’interno del t.u. ed. si vedano:
   i)   
Corte cost., sentenza 13.04.2017, n. 84 oggetto della NEWS US del 10.05.2017 ed i richiami di giurisprudenza e di dottrina ivi segnalati;
   j)   
Corte cost., sentenza 09.03.2016, n. 49 in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, con nota di STRAZZA; Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di VIPIANA PERPETUA, secondo cui «È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell’art. 117, 3º comma, cost., l’art. 84-bis, 2º comma, lett. b), l.reg. Toscana 03.01.2005 n. 1, che stabilisce la possibilità per l’amministrazione di esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla presentazione della Scia, in un numero più ampio di ipotesi rispetto alla previsione statale; nell’ambito della materia concorrente del «governo del territorio», i titoli abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di inizio attività (Dia) e per la segnalazione certificata di inizio attività (Scia), che si inseriscono in una fattispecie, il cui effetto è pur sempre quello di legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi; tale fattispecie ha una struttura complessa e non si esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la segnalazione, ma si sviluppa in due fasi ulteriori: una prima, di ordinaria attività di controllo dell’amministrazione; una seconda, in cui può esercitarsi l’autotutela amministrativa; anche le condizioni e le modalità di esercizio dell’intervento della p.a., una volta che siano esauriti i termini prescritti dalla normativa statale, devono considerarsi il necessario completamento della disciplina dei titoli abitativi, poiché l’individuazione della loro consistenza e della loro efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza rispetto alle verifiche effettuate dall’amministrazione successivamente alla maturazione degli stessi; la disciplina di questa fase ulteriore è, dunque, parte integrante del titolo abilitativo e costituisce un tutt’uno inscindibile; il suo perno è costituito da un istituto di portata generale -quello dell’autotutela- che si colloca allo snodo delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo e il suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento del privato, dall’altra; ne deriva che la disciplina de qua costituisce espressione di un principio fondamentale della materia «governo del territorio»; la normativa regionale, nell’attribuire all’amministrazione un potere di intervento, lungi dall’adottare disposizioni di dettaglio, ha introdotto una disciplina sostitutiva dei principi fondamentali dettati dal legislatore statale, toccando i punti nevralgici del sistema elaborato nella legge sul procedimento amministrativo e con tutti i rischi per la certezza e l’unitarietà dello stesso»;
   k)   
Corte cost., 12.04.2013, n. 64 in Foro it., 2014, I, 2299 secondo cui «È incostituzionale l’art. 1, 1º e 2º comma, l.reg. Veneto 24.02.2012 n. 9, nella parte in cui prevede che, nell’ambito degli interventi edilizi nelle zone classificate sismiche, è esclusa, anche con riguardo ai procedimenti in corso, la necessità del previo rilascio delle autorizzazioni del competente ufficio tecnico regionale per i «progetti» e le «opere di modesta complessità strutturale», privi di rilevanza per la pubblica incolumità, individuati dalla giunta regionale in base ad una procedura nella quale è prevista l’obbligatoria assunzione di un semplice parere da parte della commissione sismica regionale» (Corte Costituzionale, sentenza 26.05.2017 n. 125 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVIL’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi è inteso dalla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo una concezione sostanziale/funzionale, nel senso che esso è da intendersi rispettato quando l’atto reca l’esternazione del percorso logico-giuridico seguito dall’amministrazione per giungere alla decisione adottata e il destinatario è in grado di comprendere le ragioni di quest’ultimo e, conseguentemente, di utilmente accedere alla tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione.
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11. La prima censura è infondata.
Deve premettersi che l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi è inteso dalla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo una concezione sostanziale/funzionale, nel senso che esso è da intendersi rispettato quando l’atto reca l’esternazione del percorso logico-giuridico seguito dall’amministrazione per giungere alla decisione adottata e il destinatario è in grado di comprendere le ragioni di quest’ultimo e, conseguentemente, di utilmente accedere alla tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione (da ultimo: Cons. Stato, III, 23.11.2015, nn. 5311 e 5312; IV, 21.04.2015, n. 2011; V, 24.11.2016, n. 4959, 23.09.2015, n. 4443, 28.07.2015, n. 3702, 14.04.2015, n. 1875, 24.03.2014, n. 1420; VI, 06.12.2016, n. 5150).
Con riferimento al caso di specie può rilevarsi che nel verbale della seduta del 22.07.2015 della commissione giudicatrice le ragioni dell’esclusione sono espresse attraverso il richiamo alla previsione di cui al punto 1.4. del disciplinare di gara, secondo cui le proposte formulate dagli offerenti devono «adeguarsi alle quantità e alle tipologie dei corpi illuminanti previste nel progetto preliminare approvato», mentre «non verranno tenute in considerazione proposte di modifica delle tipologie richiamate».
Ciò è, ad avviso della Sezione, sufficiente a fare comprendere in modo compiuto le ragioni del provvedimento lesivo per l’interessato e a controdedurre sul punto in sede giurisdizionale, il che trova conferma proprio nell’introduzione della controversia in trattazione (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 25.05.2017 n. 2457 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

ATTI AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATAIl risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, per ciò che riguarda l'ammissibilità della domanda, giurisprudenza consolidata ritiene non sufficiente il mero annullamento del provvedimento lesivo, essendo necessario sia fornita la prova sia del danno subito, sia dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa dell'Amministrazione, configurabili quando l'adozione dell'atto illegittimo è avvenuta in violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, quali desumibili sia dai principi costituzionali d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento, quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
Essa è quindi connessa alla particolare dimensione della responsabilità dell'Amministrazione per lesione di interessi legittimi, identificabili con quelli al c.d. giusto procedimento, il quale richiede competenza, attenzione, celerità ed efficacia, necessari parametri di valutazione dell'azione amministrativa.

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... per la riforma della sentenza 01.06.2015 n. 851 del TAR Toscana, Sez. II, resa tra le parti, concernente condanna al risarcimento del danno a seguito di illegittimo diniego di autorizzazione per la realizzazione impianto fotovoltaico;
...
L’appello della Provincia di Grosseto è fondato, in particolare dove lamenta la mancata prova della sussistenza dei presupposti soggettivi dell’illecito.
Oggetto del ricorso di primo grado e della conseguente sentenza è la domanda di risarcimento dei danni asseritamente subiti da An.Me. derivante dal diniego opposto dall’Amministrazione provinciale alla richiesta di autorizzazione per realizzazione di impianto fotovoltaico e del ritardo che ne è seguito, causa il primitivo diniego poi annullato dal giudice.
La stessa sentenza di prime cure spiega che il mancato rilascio dell’autorizzazione unica è derivato dall’esito negativo della conferenza dei servizi del 19.10.2010, motivato dal parere di non conformità del progetto con il piano territoriale di coordinamento vigente, perché tale impianto non sarebbe stato localizzato in campi chiusi ma in un’area visibile da media distanza, perché localizzata nelle prime propaggini di un versante collinare adiacente un’area pianeggiante e quindi in base a valutazioni sui valori ambientali coinvolti e di conseguenza eminentemente discrezionale.
Non va sottaciuto infatti che tale diniego era scaturito da varie considerazioni, non ultimo che il Comune di Castiglione della Pescaia, interessato dalla Me. il 24.06.2010 per l’approvazione del programma aziendale pluriennale di miglioramento agricolo ambientale (P.A.P.M.A.A.) necessario per realizzare l’impianto, non si era pronunciato e lo ha poi fatto con rilevante ritardo il 20.03.2012, il che costituisce una grave responsabilità; ma va anche rilevato che l’autorizzazione non era atto vincolato da emanarsi a seguito di meri accertamenti, ma che richiedeva valutazioni sulla qualità dell’unità morfologica territoriale (U.M.T.) cui i fondi dell’interessata appartengono.
La sentenza che ha annullato il diniego cita l’area interessata come area collinare dovevano valorizzate le risorse storico-naturali, vanno promosse opere di miglioramento dell’ambiente dello spazio rurale, limitati degli erosivi derivanti dalla presenza di vigneti specializzati; tali indirizzi, dettati dal Piano territoriale di coordinamento provinciale, non potevano però essere considerati come incompatibili in assoluto con la realizzazione dell’impianto energetico da fonte rinnovabile; nemmeno il piano territoriale prevedeva preclusioni generalizzate per questi, se non criteri di ammissibilità coerenti con i valori identitari di ogni unità morfologica, per perseguire la tutela degli ambiti di rilevante pregio naturalistico e paesaggistico e verificare in concreto l’impatto dell’impianto, nel bilanciamento degli interessi contrapposti e tenendo conto che vi erano unità morfologiche più vulnerabili di quelle interessata, né che l’intervento riguardasse la produzione di energia eolica, ben più invasiva [in coerenza con TAR Toscana, II, 25.06.2007, n. 939].
Perciò fondamentale è stata la successiva approvazione del P.A.P.M.A.A. da parte del Comune, intervenuta con deplorevole ritardo, ma comunque senza domande di risarcimento: ritardo di cui non può rispondere una diversa amministrazione. In ogni caso è importante che anche tale ultimo atto presupposto aveva carattere di discrezionalità.
Si deve da un lato preliminarmente considerare che per il risarcimento del danno derivante da procedimento amministrativo illegittimo, per ciò che riguarda l'ammissibilità della domanda, giurisprudenza consolidata ritiene non sufficiente il mero annullamento del provvedimento lesivo, essendo necessario sia fornita la prova sia del danno subito, sia dell'elemento soggettivo del dolo o della colpa dell'Amministrazione, configurabili quando l'adozione dell'atto illegittimo è avvenuta in violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa, quali desumibili sia dai principi costituzionali d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento, quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza. Essa è quindi connessa alla particolare dimensione della responsabilità dell'Amministrazione per lesione di interessi legittimi, identificabili con quelli al c.d. giusto procedimento, il quale richiede competenza, attenzione, celerità ed efficacia, necessari parametri di valutazione dell'azione amministrativa (Cons. Stato, V, 08.04.2014 n. 1644).
Nella specie, la sentenza non ha mosso considerazioni sulle colpe ipoteticamente ascrivibili alla Provincia di Grosseto; ma passando in esame il suo comportamento, esso non pare caratterizzato da violazione di regole su trasparenza o celerità, né di quelle costituzionali a presidio dei principi di imparzialità e buon andamento.
L’Amministrazione ha avuto una particolare attenzione nei confronti della tutela paesaggistica, attenzione mancata nel passato e sanzionata dal Tribunale amministrativo della Toscana proprio in tema di energie alternative e non può ignorarsi che la Provincia si trovava di fronte ad una fattispecie latamente discrezionale in cui le attenzioni sono particolarmente dovute e ciò senza l’ausilio dell’approvazione del P.A.P.M.A.A., carenza che rendeva l’azione amministrativa di un sostegno istruttorio di grande rilievo.
Inoltre la Provincia era tenuta ad un’istruttoria coinvolgente altre amministrazioni. Sicché le cause potevano essere ascritte agli uffici provinciali. Tra dette altre amministrazioni coinvolte vi era il Comune (peraltro non intimato). La circostanza della presenza di un’ingiustificato ritardo nel pronunciarsi sul P.A.P.M.A.A., passaggio necessario per la Provincia al fine di esprimersi compiutamente, non necessariamente può dunque essere riferita alla Provincia medesima.
Per le ragioni suesposte l’appello va accolto con conseguente riforma della sentenza impugnata (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 24.05.2017 n. 2446 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICAL'annullamento della destinazione urbanistica di un'area -rectius: dell'atto che la dispone-, in conseguenza dell'efficacia retroattiva della pronuncia caducatoria, comporta la riviviscenza della pregressa disciplina urbanistica di tale area.
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7. In conclusione, stante la fondatezza della seconda censura dedotta col ricorso principale e vista la fondatezza del corrispondente profilo di illegittimità derivata, dedotto con i primi e con i secondi motivi aggiunti, il ricorso stesso ed i motivi aggiunti devono essere accolti, restando assorbite le censure non esaminate.
Per l’effetto va annullato, oltre all’impugnato diniego, il regolamento urbanistico in parte qua, con conseguente riviviscenza, quanto alla proprietà della ricorrente, della disciplina urbanistica dettata dal previgente piano regolatore generale.
Invero, la caducazione della variante urbanistica determina la reviviscenza delle previsioni di piano precedenti, modificate dalla variante poi annullata (Cons. Stato, V, 22.02.2007, n. 954; idem, IV, 06.05.2004, n. 2800; TAR Lombardia, Milano, II, 02.12.2011, n. 3084; TAR Toscana, I, 10.12.2009, n. 3267; TAR Lazio, Roma, II, 02.11.2000, n. 8874; TAR Friuli Venezia Giulia, I, 29.07.2014, n. 423: “l'annullamento della destinazione urbanistica di un'area -rectius: dell'atto che la dispone-, in conseguenza dell'efficacia retroattiva della pronuncia caducatoria, comporta la riviviscenza della pregressa disciplina urbanistica di tale area").
Pertanto, per effetto dell’annullamento del regolamento urbanistico o di una sua variante il terreno avrà quella medesima destinazione che avrebbe avuto se tale ultimo atto non fosse mai venuto ad esistenza (Cons. Stato, IV, 28.01.2002, n. 456) (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 23.05.2017 n. 725 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTICommissione di gara, presidenza non al Rup. Regola applicabile subito.
Il Rup (Responsabile unico del procedimento) non può essere nominato presidente della commissione giudicatrice; la regola è applicabile anche adesso e non occorre attendere l'istituzione dell'albo Anac dei commissari di gara.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Latina, Sez. I, con la
sentenza 23.05.2017 n. 325 che esamina alcuni profili inerenti il ruolo del Rup nelle commissioni giudicatrici.
Nel caso esaminato dai giudici il Rup era stato nominato presidente della commissione di gara e aveva anche svolto la funzione di componente di un'altra commissione di gara per l'affidamento di un analogo servizio presso un diverso comune (gara vinta da un partecipante alla gara oggetto di esame da parte del Tar).
Rispetto a tali censure i giudici hanno accolto il ricorso affermando che il Rup non può essere membro della commissione; benché la compatibilità tra le due funzioni sia stata di recente affermata in giurisprudenza. Per i giudici laziali ciò si desume dal confronto tra la previsione del soppresso articolo 84, dlgs 12.04.2006, n. 163 secondo cui «i commissari diversi dal presidente non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta» e la formulazione dell'articolo 77, comma 4, dlgs. 19.04.2016, n. 50 secondo cui «i commissari non devono aver svolto né possono svolgere alcun'altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente al contratto del cui affidamento si tratta».
Per il Tar la mancata esclusione del presidente dalla regola prevista dall'articolo 77 implica chiaramente che il Rup non possa essere componente della commissione nemmeno quale presidente. Ciò comporta il superamento della giurisprudenza formatasi sotto il codice De Lise e, ha sottolineato il Tar, l'applicazione immediata dell'art. 77, comma 4, che di fatto vieta la nomina del Rup, come nel caso esaminato, a presidente della commissione anche in assenza dell'istituzione dell'albo dei commissari previsto dall'articolo 77, comma 3, del codice, norma «formulata in termini generali e pertanto immediatamente efficace».
Da notare, però, che il decreto correttivo rimette a una valutazione specifica la possibilità di nomina del Rup a commissario di gara (articolo ItaliaOggi del 02.06.2017).

EDILIZIA PRIVATA: La recente giurisprudenza amministrativa, evidenziando che le cc.dd. “pergotende” non possono essere considerate “opere precarie” ex art. 3, comma 1, lett. e), del T.U. dell’Edilizia, perché non si connotano per una temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio, comunque duraturo, ha approfondito la questione della necessità o meno del previo rilascio del titolo abilitativo per la loro realizzazione, osservando come una struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare una tenda retrattile in tessuto come quella in questione, non integri, in primo luogo, gli effetti di “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio” propri degli “interventi di nuova costruzione” ex artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno del locale; considerata in tale contesto, la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non vale a configurare una “nuova costruzione”, attese la sua realizzazione in tessuto e la sua natura retrattile, che, escludendo elementi di fissità e stabilità nella copertura, priva di qualsiasi tamponatura laterale, fanno sì che non possa parlarsi di uno spazio chiuso e della creazione di nuova superficie o nuovo volume.

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Con il ricorso in epigrafe la Br. s.r.l., società esercente attività di somministrazione di alimenti e bevande nel locale commerciale di via ... 2/4, ha dedotto di aver chiesto ed ottenuto da Roma Capitale, con determinazione dirigenziale prot CI/235212/2014, per l’area pertinenziale esterna al suo locale, la concessione per l’occupazione di suolo pubblico con tenda autoportante, tavoli, sedie e fioriere, secondo i progetti depositati a supporto dell’istanza, ma di aver successivamente ricevuto, proprio in relazione alla suddetta struttura (realizzata in alluminio, poggiante su 6 pali alloggiati in 6 vasi, sostenuta da un sistema di assemblaggio laterale di staffe inox e fusioni in alluminio e non fissata sul muro perimetrale del fabbricato), avviso di apertura del procedimento amministrativo per realizzazione di opere abusive e l’ordinanza n. 1057/2016 di rimozione dell’installazione.
In merito a tale ultimo provvedimento, la Br. s.r.l. ha, quindi, lamentato l’errata rappresentazione da parte dell’Amministrazione, del manufatto in questione, che non era stato considerato negli elementi decisivi ai fini del suo corretto inquadramento, costituiti, appunto, dalla copertura retrattile e dalla funzione di semplice sostegno della tenda svolta dalla struttura in alluminio leggero, la cui apposizione doveva considerarsi assolutamente irrilevante dal punto di vista urbanistico - edilizio, ferma restando la necessità per l’occupazione del suolo pubblico della specifica concessione.
Tali censure sono fondate e meritevoli di accoglimento.
La recente giurisprudenza amministrativa, (cfr. Cons. St., Sez. VI, 17.04.2016 n. 1619), evidenziando che le cc.dd. “pergotende” non possono essere considerate “opere precarie” ex art. 3, comma 1, lett. e), del T.U. dell’Edilizia, perché non si connotano per una temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio, comunque duraturo, ha approfondito la questione della necessità o meno del previo rilascio del titolo abilitativo per la loro realizzazione, osservando come una struttura in alluminio anodizzato destinata ad ospitare una tenda retrattile in tessuto come quella in questione, non integri, in primo luogo, gli effetti di “trasformazione edilizia e urbanistica del territorio” propri degli “interventi di nuova costruzione” ex artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una migliore fruizione dello spazio esterno del locale; considerata in tale contesto, la struttura in alluminio anodizzato si qualifica in termini di mero elemento accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non vale a configurare una “nuova costruzione”, attese la sua realizzazione in tessuto e la sua natura retrattile, che, escludendo elementi di fissità e stabilità nella copertura, priva di qualsiasi tamponatura laterale, fanno sì che non possa parlarsi di uno spazio chiuso e della creazione di nuova superficie o nuovo volume.
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la fattispecie della ristrutturazione edilizia, richiamata, invece, erroneamente nella determinazione impugnata.
Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n. 380/2001, tale tipologia di intervento edilizio fa riferimento ad “interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”, i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”.
Orbene, la disposizione, così come declinata dal legislatore, richiede comunque che le opere realizzate abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da poter “trasformare l’organismo edilizio”, condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi costitutivi di esso.
Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla consistenza di tale intervento ed alla circostanza che l’immobile accanto al quale essa è collocata è un fabbricato in muratura, sulla cui originaria identità e conformazione l’opera nuova non può certamente incidere.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte deve, pertanto, ritenersi che la struttura realizzata dalla ricorrente non necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire, giacché la tenda retrattile che essa è unicamente destinata a servire si risolve, in ultima analisi, in un mero elemento di arredo dello spazio pertinenziale su cui insiste, legittimamente occupato dalla ricorrente in virtù di concessione di occupazione di suolo pubblico.
Tale interpretazione delle strutture in parola appare, in verità, essere stata già condivisa dall’Amministrazione di Roma Capitale nella circolare del 09.03.2012, nella quale, alla lettera i) del punto 3.2 si specifica che, tra le attività di edilizia libera (A.E.L.), sono ricomprese “tende autoportanti, tende in aggetto, ombrelloni, pedane e fioriere al servizio degli esercizi commerciali e di ristorazione ubicate su suolo pubblico, ferma restando l’acquisizione della specifica autorizzazione amministrativa secondo quanto previsto dalle deliberazioni di Roma Capitale in materia di occupazione suolo pubblico e naturalmente esclusa la loro chiusura sui lati perimetrali”.
In conclusione, il ricorso deve essere, dunque, accolto, con annullamento dell’atto impugnato ed assorbimento di ogni altra doglianza (TAR Lazio-Roma, Sez. II, sentenza 22.05.2017 n. 6054 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Offerta anomala, non c'è audizione. Tar Lazio su procedure di verifica.
Non deve essere più convocato in audizione il concorrente di una gara di appalto che ha presentato un'offerta dichiarata anomala; i termini per presentare le giustificazioni non sono perentori e la verifica va condotta sul complesso dell'offerta.
Lo ha precisato il Tar Lazio-Roma, Sez. III-quater, con la sentenza 19.05.2017 n. 5979 nella quale si discuteva delle modalità di svolgimento della procedura di verifica delle offerte anomale.
Un primo punto sollevato riguardava la necessità o meno di convocare in audizione il concorrente anomalo; veniva contestata la violazione di legge per omessa convocazione della ricorrente, in audizione, nell'ambito del giudizio di anomalia. Sul punto, i giudici osservano come, in seguito all'entrata in vigore del nuovo codice degli appalti (decreto legislativo n. 50 del 2016) quest'obbligo procedimentale, precedentemente previsto, al ricorrere di determinati presupposti, dall'art. 88, comma 4, dell'abrogato dlgs 163/2006, non sia più altrimenti contemplato in seno all'art. 97 del nuovo codice.
Rispetto all'effetto derivante dal tardivo riscontro alle richieste di giustificazione dell'offerta nella sentenza ribadisce che nelle gare pubbliche la mancata o anche la sola tardiva produzione delle giustificazioni dell'offerta e degli eventuali chiarimenti non possono comportare l'automatica esclusione dell'offerta sospettata di anomalia e che i termini a tal fine previsti non sono perentori, ma sollecitatori, avendo lo scopo di contemperare gli interessi del concorrente a giustificare l'offerta e quelli dell'amministrazione alla rapida conclusione del procedimento di gara.
Sul tema delle modalità di svolgimento delle verifiche di anomalia il Tar laziale ha affermato che nelle gare pubbliche di appalto il giudizio d'insostenibilità e anomalia dell'offerta del concorrente deve essere complessivo, nel senso di tener conto di tutti gli elementi favorevoli o negativi, tanto da poter giungere a ritenere credibili voci di prezzo eccessivamente basse perché accompagnate da altre voci sulle quali sono possibili e realizzabili risparmi, al fine di giungere ad una compensazione che lasci l'offerta affidabile e seria a prescindere dalla gestione interna dell'impresa offerente (articolo ItaliaOggi del 26.05.2017).

APPALTILe mere questioni formali non escludono l'impresa.
Non si può escludere l'impresa dall'appalto solo perché nell'offerta manca l'impegno del fideiussore per l'esecuzione del contratto previsto dal bando di gara: scatta infatti il soccorso istruttorio a pagamento in favore dell'azienda partecipante. E il merito è anche del decreto correttivo al codice dei contratti pubblici che mostra come la legislazione in materia si evolva nel senso di evitare l'estromissione dalla procedura a evidenza pubblica per mere omissioni formali.

È quanto emerge dalla sentenza 19.05.2017 n. 1125, pubblicata dalla IV Sez. del TAR Lombardia-Milano.
Par condicio
Accolto il ricorso della società che si candida a gestire i servizi di manutenzione e riparazione di un termovalorizzatore, nell'ambito della gara a procedura aperta bandita da un organismo di diritto pubblico che opera nel settore della gestione ambientale.
È vero: nell'offerta dell'impresa esclusa manca l'impegno del fideiussore a rilasciare la garanzia prevista dall'articolo 103 del decreto legislativo 50/2016 in caso di aggiudicazione dell'appalto. Ma l'azienda può pagare la sanzione pecuniaria e ottenere così un termine per mettersi in regola: deve infatti escludersi la violazione della par condicio per i partecipanti all'appalto perché l'omissione non incide sull'offerta tecnica o economica e dunque sull'attribuzione dei punteggi che decreta la vittoria nella gara.
Lo stesso nuovo testo dell'articolo 83, comma 9, del decreto legislativo 50/2016, introdotto dal dlgs correttivo 56/2017, indica che il legislatore guarda con favore all'ampliamento del ricorso al soccorso istruttorio (articolo ItaliaOggi del 31.05.2017).
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MASSIMA
2. Il ricorso è fondato, per le ragioni che seguono.
La società istante è stata esclusa dalla procedura per la mancanza del requisito di cui all’art. 15 del disciplinare di gara, il quale –in conformità alla previsione dell’art. 93, comma 8, del D.Lgs. 50/2016– impone che l’offerta contenente la cauzione provvisoria del 2% dell’importo dell’appalto sia corredata, a pena di esclusione, dall’impegno di un fideiussore a rilasciare la garanzia per l’esecuzione del contratto, di cui all’art. 103 del D.Lgs. 50/2016, qualora l’offerente risultasse aggiudicatario.
In effetti, nel caso di specie, l’offerta della ricorrente non riporta tale impegno; tuttavia, come sostenuto nel gravame,
tale omissione non comporta l’automatica esclusione dell’offerta, bensì l’onere per la stazione appaltante di attivare il procedimento di soccorso istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, secondo periodo, del D.Lgs. 50/2016 (c.d. soccorso istruttorio a pagamento).
Infatti, la norma dell’art. 93, comma 8, che pure contiene l’inciso “a pena di esclusione”, deve essere letta alla luce dell’ulteriore disposizione dell’art. 83, comma 9, che prevede (nel testo applicabile ratione temporis alla presente fattispecie) il soccorso istruttorio con pagamento di una sanzione pecuniaria, in caso di incompletezza, di mancanza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi della domanda, “con esclusione di quelli afferenti all’offerta tecnica ed economica”.
Nel caso di specie, l’impegno di un terzo –vale a dire il fideiussore– al rilascio della garanzia per l’esecuzione del contratto non costituisce certamente un elemento dell’offerta tecnica o economica, bensì un differente elemento della domanda di partecipazione, riguardante il regime delle cauzioni da rilasciarsi da parte degli operatori, ma non incide sul concreto contenuto dell’offerta tecnica o economica da valutarsi da parte della stazione appaltante ai fini dell’attribuzione del punteggio ai partecipanti alla procedura di gara.
La possibilità di regolarizzare la mancanza del succitato elemento (vale a dire l’impegno al rilascio della garanzia definitiva), non viola quindi il principio della “par condicio” dei concorrenti ed è anzi volta ad evitare l’esclusione per difetto di un elemento meramente formale.
Le conclusioni alle quali lo scrivente Collegio giunge con l’attuale pronuncia trovano conferma nella giurisprudenza formatasi nella vigenza del pregresso codice dei contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006), il cui articolo 75, comma 8, ricalcava l’attuale art. 93, comma 8 (cfr. sul punto, TAR Liguria, sez. II, 17.10.2016, n. 1023).
Parimenti, le medesime conclusioni sono confermate dalla circostanza che l’evoluzione legislativa è nel senso dell’ampliamento degli spazi del soccorso istruttorio, per evitare l’esclusione dalle pubbliche gare per omissioni meramente formali e prive di sostanziale rilevanza (cfr. il nuovo testo dell’art. 83, comma 9, così come introdotto dal D.Lgs. 56/2017 di correzione del D.Lgs. 50/2016).
Per effetto dell’accoglimento del presente gravame, deve essere annullato il provvedimento di esclusione, con conseguente onere di Ac. Spa di avviare il soccorso istruttorio.

EDILIZIA PRIVATA: Reati di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione - Natura permanente dei reati - Violazione della normativa antisimica - Individuazione della cessazione della permanenza - Artt. 64, 65, 71, 72, 93, 94, 95 e 101 dlgs n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In materia antisismica, i reati di omessa denuncia dei lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza preventiva autorizzazione scritta dell'ufficio competente hanno natura di reati permanenti, la cui consumazione si protrae sino a quando il responsabile non presenta la relativa denuncia con l'allegata documentazione, non completa l'opera, ovvero, non ricorrendo alcuna delle precedenti condizioni, sino alla data della sentenza di condanna di primo grado (Corte di cassazione, Sezione III penale, 20/01/2016, n. 2209; idem Sezione III penale, 14/01/2016, n. 1145).
Atteso che la lesione dell'interesse protetto dalla norma, ravvisabile nell'apprestamento degli strumenti necessari alla amministrazione competente per potere effettivamente ed efficacemente esercitare i propri compiti in tema di vigilanza sulla regolarità tecnica di ogni costruzione eseguita in zona sismica, permane sin tanto che tale controllo non viene consentito ovvero, una volta completata la realizzazione dell'opera, esso risulta oramai sostanzialmente non più utile.
Opere edilizie in zona sismica - Acquisizione delle autorizzazioni in materia antisismica - Necessità - Individuazione di un errore scusabile in capo all'agente - Integrazione degli elementi soggettivi ed oggettivi.
La realizzazione in zona sismica, di un ballatoio aggettante esterno e la sostituzione e dislocazione di parte di una scala interna, in assenza delle prescritte comunicazioni e autorizzazioni integra l'elemento materiale della contravvenzione in materia antisismica, mentre, ai fini della integrazione dell'elemento soggettivo è sufficiente accertare l'avvenuta consapevole violazione della norma legislativa prescrittiva, in assenza di fattori che avrebbero potuto legittimare l'individuazione di un errore scusabile in capo all'agente, per giustificare quanto meno la colposità della condotta (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 18.05.2017 n. 24574 - link a www.ambientediritto.it).

EDILIZIA PRIVATA: Reati paesaggistici e reati urbanistici - Disciplina difforme e differenziata - Effetti - Successivo provvedimento di compatibilità paesaggistica - Condono ambientale - Art. 181 dlgs n. 42/2004.
Sanatoria urbanistica e violazione paesaggistica - Artt. 36 e 44, comma 1, lettera e), dPR n. 380/2001 - Giurisprudenza.

La concessione rilasciata a seguito di accertamento di conformità ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001 estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti dal dlgs, n. 42 del 2004, che sono soggetti ad una disciplina difforme e differenziata, legittimamente e costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del territorio sotto il profilo edilizio.
Né ha rilievo la circostanza che la ricorrente avesse anche conseguito un provvedimento di compatibilità paesaggistica posto che la circostanza di avere ottenuto detto provvedimento non determina di per sé la non punibilità dei reati in materia ambientale e paesaggistica, in quanto compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del cosiddetto condono ambientale (Corte di cassazione, Sezione III penale, 06/04/2016, n. 13730) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 16.05.2017 n. 24111 - link a www.ambientediritto.it).

APPALTIAggiudicazione mancata, scatta il risarcimento. Danno per mancato profitto.
In caso di mancata aggiudicazione, ritenuta illegittima, al concorrente spetta il risarcimento del danno per lucro cessante individuato come mancato profitto e come «danno curriculare».

Lo ha chiarito l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza 12.05.2017 n. 2 che ha approfondito il tema della quantificazione del danno nel caso di mancata aggiudicazione del contratto.
In particolare la sentenza ha chiarito che il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l'interesse cosiddetto positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l'impresa avrebbe ricavato dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno cosiddetto curriculare (cioè il pregiudizio subìto dall'impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell'immagine professionale per non poter indicare in esso l'avvenuta esecuzione dell'appalto).
Dal punto di vista dell'onere della prova, spetta, in ogni caso, all'impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell'utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell'appalto. Questo perché, dice il collegio, nell'azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell'azione di annullamento di cui all'articolo 64, commi 1 e 3, del codice di procedura amministrativa; inoltre la valutazione equitativa, ai sensi dell'art. 1226 del codice civile, è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità, o di estrema difficoltà, di una precisa prova sull'ammontare del danno.
Il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell'aggiudicazione impugnata e di certezza dell'aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa. In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l'impresa abbia riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per altri lavori acquisiti o acquisibili da altri committenti (articolo ItaliaOggi del 19.05.2017).
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50. In conclusione, l’Adunanza plenaria enuncia i seguenti principi di diritto:
   1. Dal giudicato amministrativo, quando riconosce la fondatezza della pretesa sostanziale, esaurendo ogni margine di discrezionalità nel successivo esercizio del potere, nasce ex lege, in capo all’amministrazione, un’obbligazione, il cui oggetto consiste nel concedere “in natura” il bene della vita di cui è stata riconosciuta la spettanza.
   2. L’impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica dell’obbligazione nascente dal giudicato –che dà vita in capo all’amministrazione ad una responsabilità assoggettabile al regime della responsabilità di natura contrattuale, che l’art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone peraltro ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina civilistica– non estingue l’obbligazione, ma la converte, ex lege, in una diversa obbligazione, di natura risarcitoria, avente ad oggetto l’equivalente monetario del bene della vita riconosciuto dal giudicato in sostituzione della esecuzione in forma specifica; l’insorgenza di tale obbligazione può essere esclusa solo dalla insussistenza originaria o dal venir meno del nesso di causalità, oltre che dell’antigiuridicità della condotta.
   3. In base agli articoli 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparato, con la conseguenza che la domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell’altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall’ambito della giurisdizione amministrativa.
   4.
Nel caso di mancata aggiudicazione, il danno conseguente al lucro cessante si identifica con l’interesse c.d. positivo, che ricomprende sia il mancato profitto (che l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare (ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a causa del mancato arricchimento del curriculum e dell’immagine professionale per non poter indicare in esso l’avvenuta esecuzione dell’appalto).
Spetta, in ogni caso, all’impresa danneggiata offrire, senza poter ricorrere a criteri forfettari, la prova rigorosa dell’utile che in concreto avrebbe conseguito, qualora fosse risultata aggiudicataria dell’appalto, poiché nell’azione di responsabilità per danni il principio dispositivo opera con pienezza e non è temperato dal metodo acquisitivo proprio dell’azione di annullamento (ex art. 64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod. civ., è ammessa soltanto in presenza di situazione di impossibilità -o di estrema difficoltà- di una precisa prova sull’ammontare del danno.

   5.
Il mancato utile spetta nella misura integrale, in caso di annullamento dell’aggiudicazione impugnata e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, solo se questo dimostri di non aver utilizzato o potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, in quanto tenuti a disposizione in vista della commessa.
In difetto di tale dimostrazione, può presumersi che l’impresa abbia riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per altri lavori, a titolo di aliunde perceptum vel percipiendum.

APPALTIAvvalimento infragruppo, il contratto è da produrre. Gare: per la disponibilità dei requisiti.
Anche nell'avvalimento infragruppo è necessaria la produzione del contratto con il quale si mettono a disposizione i requisiti; il principio vale anche nei settori speciali.

È quanto ha precisato il TAR Lazio-Roma, III Sez., con la sentenza 09.05.2017 n. 5545 rispetto ad una fattispecie di avvalimento infragruppo, per una gara di appalto successiva all'entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs 50/2016).
I giudici hanno messo in evidenza la discontinuità del nuovo codice rispetto al codice De Lise del 2006, segnalando che in base all'articolo 49, comma 2, lett. g), del vecchio codice era previsto che per le imprese appartenenti al medesimo gruppo, in luogo del contratto di avvalimento si potesse presentare una dichiarazione sostitutiva attestante il legame giuridico ed economico esistente nel gruppo, dal quale fare discendere gli obblighi di messa a disposizione dei requisiti oggetto di avvalimento per tutta la durata del contratto.
Ebbene, dicono i giudici laziali, «nessuna norma di analogo tenore trova oggi collocazione nel nuovo codice degli appalti pubblici»; quindi si applica sempre il generale obbligo di allegare il relativo contratto.
La norma del vecchio codice, dicono i giudici, non era peraltro «espressione di un particolare principio eurounitario di primaria rilevanza o cogente», il che avrebbe potuto portare a sostenere la diretta applicazione, né, ancora, i giudici ritengono che sia possibile desumere una eccezione per i cosiddetti «settori speciali» (acqua, energia e trasporti) con riferimento al comma 2 dell'art. 89 del nuovo codice. Il rinvio al comma 1 della stessa norma non consente di ammettere una deroga all'obbligo di stipulare e produrre in gara un contratto scritto di avvalimento.
La sentenza ha precisato, in particolare, che occorre depositare la dichiarazione dell'ausiliaria, «adempimento certamente non derogabile, non essendo altrimenti ipotizzabile altro documento idoneo a comprovare il rapporto di avvalimento e costituendo la suddetta dichiarazione da sempre la prova principale del rapporto di avvalimento, anche nel regime previgente» (articolo ItaliaOggi del 12.05.2017).
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19.5.
Com’è noto, senza sostanziali differenze tra nuovo e vecchio Codice, l’istituto in questione (avvalimento), di derivazione comunitaria, consente che un imprenditore possa comprovare alla stazione appaltante il possesso dei necessari requisiti economici, finanziari, tecnici e organizzativi –nonché di attestazione della certificazione SOA– a fini di partecipazione ad una gara, facendo riferimento alle capacità di altro soggetto (ausiliario), che assume contrattualmente con lo stesso –impegnandosi nei confronti della stazione appaltante– una responsabilità solidale.
I caratteri e le finalità di fondo dell’istituto (per come delineati dall’articolo 47 della direttiva 2004/18/CE) sono stati da ultimo sostanzialmente confermati dall’articolo 63 della direttiva 2014/24/UE (cui corrispondono le analoghe previsioni dell’articolo 38, paragrafo 2 della direttiva 2014/23/UE in tema di concessioni e dell’articolo 79 della direttiva 2014/25/UE in tema di cc.dd. ‘settori speciali’), recepito nel nostro ordinamento dall’art. 89 d.lgs. n. 50 del 2016.
L’avvalimento, pertanto, può riguardare anche, come accaduto nella specie, un requisito di capacità tecnica, relativo ad una determinata esperienza tecnico-professionale maturata nella installazione di una specifica tipologia di macchine radiogene e, in casi di questo genere, deve ritenersi che “
l’impresa ausiliaria deve assumere l’impegno di mettere a disposizione dell’impresa ausiliata le proprie risorse e il proprio apparato organizzativo, in termini di mezzi, personale e di ogni altro elemento aziendale qualificante (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, VI, 31.07.2014, n. 4056; V, 22.01.2015, n. 257, 27.01.2014, n. 412, 04.11.2014, n. 5446, 23.05.2011, n. 3066 e 12.06.2009, n. 3762; III, 07.04.2014, n. 1636 e 11.07.2014, n. 3599; IV, 09.02.2015, n. 662). (…..) Nella situazione in esame, la società appellata richiama i requisiti di capacità tecnica ed economica, riferiti al fatturato ed ai contratti pregressi della ditta ausiliaria, ma non richiama in alcun modo la messa a disposizione –da parte di quest’ultima– della propria struttura organizzativa...” (è quanto si legge in Cons. Stato, sez. VI, 15.05.2015, n. 2486).
Il Collegio ritiene che, anche nel caso in esame, il requisito esperienziale di cui al punto III.1.3., lett. a), del bando non sia un mero requisito immateriale o “cartolare” ma che, al contrario, comporti l’effettiva prestazione di risorse, personale e mezzi, da parte della He..
In effetti la specifica esperienza tecnico-professionale delineata dalla clausola serve a garantire alla stazione appaltante la effettiva e concreta capacità della concorrente di svolgere adeguatamente le prestazioni contrattuali assunte, con particolare riguardo alla installazione delle macchine radiogene del tipo voluto dal bando e, più nel dettaglio dal Capitolato Speciale d’Appalto.
Seguendo, in altri termini, la differenziazione tipologica invalsa in tema di avvalimento, quello che viene in considerazione nella specie appare avvicinarsi, quanto meno per il profilo attinente alla installazione dei macchinari dedotti in appalto, ad un avvalimento di tipo “operativo” piuttosto che di mera “garanzia” (figura che, viceversa, ricorre in caso di messa a disposizione di un requisito patrimoniale o del solo fatturato, ad integrazione di una solidità finanziaria altrimenti non adeguata in capo alla concorrente ausiliata).
Pertanto, seguendo quanto recentemente affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 04.11.2016, n. 23 laddove si richiama adesivamente (par. 3.4.) l’opinione secondo cui “
il contratto di avvalimento (qualificabile come contratto atipico) presenta tratti propri: i) del contratto di mandato di cui agli articoli 1703 e seguenti del codice civile, ii) dell’appalto di servizi, nonché iii) aspetti di garanzia atipica nei rapporti fra l’impresa ausiliaria e l’amministrazione aggiudicatrice per ciò che riguarda l’assolvimento delle prestazioni dedotte in contratto”, deve ritenersi che, nella specie, ai fini dell’integrazione del requisito in capo alla concorrente, nel contratto di avvalimento debbano necessariamente ricorrere elementi propri anche dell’appalto di servizi (prestazione di mezzi e risorse), che appaiono prevalenti rispetto agli aspetti di “mera garanzia patrimoniale”.

INCARICHI PROFESSIONALINotai, limiti al falso ideologico. Esclusione se l'omessa attestazione non provoca nullità. La prima presa di posizione della Cassazione sul collegamento con i lavori edilizi.
Il falso ideologico, a carico di un notaio, non è configurabile se l'omessa attestazione non incide sul contenuto dell'atto in modo da determinarne la nullità in base alla legge.

È questa la prima presa di posizione della Corte di Cassazione, Sez. V penale, in tema di falso ideologico e lavori edilizi (sentenza 08.05.2017 n. 22200).
In particolare secondo la Cassazione non commette falso ideologico il notaio che, in un atto pubblico da lui rogato, non attesta l'avvenuta «realizzazione di interventi edilizi c.d. “minori”, in quanto insuscettibili di determinare la nullità dell'atto traslativo, per l'epoca della costruzione dell'immobile e per la consistenza delle opere realizzate».
L'imputazione riguardava l'«attestazione da parte del notaio rogante, nell'atto pubblico stipulato per la compravendita di un fabbricato, oggetto di opere edili che avevano comportato il cambio di destinazione d'uso di una loggia e di un magazzino, e l'ampliamento planovolumetrico, che le opere realizzate in epoca successiva ai titoli legittimanti non richiedessero provvedimenti abilitativi; circostanza non rispondente al vero (secondo l'accusa), in quanto l'immobile era stato trasformato e modificato abusivamente in data antecedente alla vendita, della quale erano a conoscenza tutte le parti».
Con riferimento alla fattispecie concreta, la sentenza ha affermato che il notaio aveva l'obbligo di rogare l'atto, non ricorrendo alcuna proibizione alla sua stipulazione. Tale proibizione si configura, soltanto, nell'ipotesi in cui esista un vizio che dia luogo ad una nullità assoluta dell'atto. In relazione all'abusivismo edilizio la nullità assoluta dell'atto di compravendita si realizza soltanto nell'ipotesi in cui, in base alla normativa in materia, sia prevista la sua «incommerciabilità».
Nella fattispecie esaminata, invece, «è stata esclusa l'applicabilità delle norme sull'incommerciabilità degli atti traslativi aventi ad oggetto immobili abusivi», trattandosi di bene commerciabile in quanto costruito «prima del 17.03.1985» e sottoposto, successivamente a tale data, soltanto ad interventi edili c.d. «minori». Quindi, l'atto pubblico di compravendita non era «proibito dalla legge», poiché non affetto dal vizio di nullità (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato.
2. Giova premettere che correttamente la sentenza impugnata ha riqualificato il fatto contestato nel rato di falso ideologico, e non già materiale, in atto pubblico.
È altresì pacificamente emerso che le parti venditrici, la parte acquirente ed il Notaio rogante erano consapevoli della realizzazione di alcuni interventi edilizi illegittimi, pur tuttavia non richiamati nell'atto di compravendita stipulato. Al riguardo, va rammentato che
il falso ideologico per omissione è integrato dalla condotta che, incidendo sul significato di un enunciato dichiarativo o constatativo, produca un'attestazione non conforme ai fatti; tuttavia, l'omissione è configurabile soltanto se sussista un relativo obbligo giuridico di rappresentazione di alcuni fatti, sicché, in caso di omessa rappresentazione, l'atto pubblico assuma il significato di attestazione della loro inesistenza (cd. attestazione implicita) (in tal senso, Sez. 1, n. 46966 del 17/11/2004, Narducci, Rv. 231183: "La falsità ideologica di un atto può derivare anche dall'omissione o dalla incompletezza dei dati in esso illustrati, quando il contesto espositivo sia tale che la parzialità dell'informazione si risolve nella mendace negazione dell'esistenza di un fatto").
Tanto premesso, la sentenza impugnata appare immune da censure.
Nel caso in esame, infatti, è stata esclusa l'applicabilità delle norme sull'incommerciabilità degli atti traslativi aventi ad oggetto immobili abusivi, trattandosi di immobile realizzato prima del 17.03.1985 (e, addirittura, del 01.09.1967, data di entrata in vigore della c.d. "legge-ponte"), dies a quo per l'applicabilità dell'art. 46, comma 1, d.P.R. 380/2001, e di interventi edilizi c.d. "minori", non rientranti nelle previsioni di cui all'artt. 46, comma 5-bis (in relazione all'art. 22, comma 3) d.P.R. 380/2001.
Non ricorrendo un'ipotesi di nullità dell'atto, pertanto, e sul presupposto che l'art. 27 della l. 89 del 1913 (c.d. legge notarile) prevede che "Il notaro è obbligato a prestare il suo ministero ogni volta che ne è richiesto", è stato affermato che il Notaio rogante non avesse il divieto di stipulare l'atto di compravendita in oggetto, e non avesse neppure l'obbligo di dichiarare l'esistenza degli interventi edilizi "minori" realizzati, in quanto non incidenti sul regime di commerciabilità del bene.
L'art. 28 della legge notarile sancisce, infatti, che "Il notaro non può ricevere atti (...) se essi sono espressamente proibiti dalla legge (...)".
Sicché, nel caso in esame, trattandosi di bene commerciabile, in quanto costruito prima del marzo 1985 ed oggetto di interventi edilizi c.d. "minori", l'atto pubblico di compravendita non era "proibito dalla legge", in quanto non affetto dal vizio della nullità sancito dall'art. 46 d.P.R. 380/2001.
In tal senso si è, altresì, espressa la giurisprudenza civile di questa Corte, secondo cui, in tema di responsabilità disciplinare dei notai, il divieto, imposto dall'articolo 28, comma primo, n. 1, della legge 16.02.1913, n. 89, sanzionato con la sospensione a norma dell'art. 138, comma secondo, di ricevere atti "espressamente proibiti dalla legge" attiene ad ogni vizio che dia luogo ad una nullità assoluta dell'atto, con esclusione, quindi, dei vizi che comportano l'annullabilità o l'inefficacia dell'atto (ovvero la stessa nullità relativa) ed è sufficiente che la nullità risulti in modo inequivoco (Cass. Civ., Sez. 3, n. 11128 del 11/11/1997, Rv. 509864)
Del resto, lo stesso art. 2700 c.c., richiamato dal ricorrente, nel delimitare il regime di efficacia dell'atto pubblico, sancisce che questo "fa piena prova, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonché delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti".
Ebbene, oltre alla prova della provenienza del documento, l'efficacia probatoria dell'atto pubblico si estende alle dichiarazioni e ai fatti avvenuti in presenza del pubblico ufficiale; ma tale efficacia riguarda soltanto le dichiarazioni e i fatti rilevanti ai fini della formazione dell'atto pubblico.
In altri termini,
l'omessa esposizione di un fatto assume il significato della negazione della sua esistenza soltanto quando la sua rilevanza ne avrebbe imposto la manifestazione; al contrario, non ricorre la c.d. attestazione implicita, allorquando, come nel caso di specie, non sussista l'obbligo di attestare la realizzazione di interventi edilizi c.d. "minori", in quanto insuscettibili di determinare la nullità dell'atto traslativo, per l'epoca della costruzione dell'immobile e per la consistenza delle opere realizzate.

EDILIZIA PRIVATALa sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi, anche di infissi o di serrande, rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31, lett. a), della l. 05.08.1978, n. 457, vigente all’epoca della contestazione dell’abuso ed (anche) oggi ai sensi dell'art. 3, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disposizione ultima secondo la quale tale intervento costituisce attività libera e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con materiali diversi.
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5. – Anche il secondo motivo di ricorso, nella sequenza proposta nell’atto introduttivo del presente giudizio, si presenta fondato.
Con il secondo motivo di ricorso, infatti, si sostiene correttamente che la sostituzione dell’infisso costituirebbe intervento di “manutenzione ordinaria”, di talché si presenta illegittima la sanzione demolitoria inflitta dal Comune.
Sul punto va rammentato, in aderenza ad una diffusa giurisprudenza, che la sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi, anche di infissi o di serrande, rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31, lett. a), della l. 05.08.1978, n. 457, vigente all’epoca della contestazione dell’abuso ed (anche) oggi ai sensi dell'art. 3, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disposizione ultima secondo la quale tale intervento costituisce attività libera e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con materiali diversi (cfr. TAR Piemonte, Sez. I, 12.04.2010 n. 1761; TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 18.10.2005 n. 16667 e TAR Lazio, Sez. II, 09.05.2005 n. 3438) (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: In ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento.
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7. - Quanto alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento repressivo sanzionatorio (ai sensi ai sensi dell’art. 7 l. 241/1990) che ha dato luogo all’ordinanza qui gravata, trova applicazione il costante insegnamento giurisprudenziale a mente del quale in ragione del contenuto rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI, 24.09.2010 n. 7129).
Ne deriva che, come la terza, anche la quarta censura non si presta ad essere accolta (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

COMPETENZE GESTIONALI: La competenza ad adottare atti di gestione in materia edilizia, compresi quelli repressivo-sanzionatori, è stata trasferita dalla legge ai dirigenti soltanto con l’entrata in vigore della l. 191/1998, vale a dire a far data dal 05.07.1998.
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6. – Con la terza censura dedotta il ricorrente sostiene la incompetenza del Sindaco ad adottare il provvedimento repressivo in materia edilizia qui impugnato, ma la censura non coglie nel segno.
Sul punto va invero considerato che in materia di riparto di competenza tra organi politici e organi della gestione negli Enti locali per la adozione di provvedimenti amministrativi si è assistito alla seguente evoluzione:
   - con l'originaria stesura dell'art. 51, terzo comma, della legge 08.06.1990, n. 142, venne previsto che ai dirigenti spettassero tutti i compiti, compresa la adozione di atti che impegnassero l'amministrazione verso l'esterno ma che non fossero espressamente riservati dalla legge o dallo statuto agli organi di governo, indicandosi in particolare, con richiamo alle modalità stabilite dallo statuto, la presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la responsabilità sulle procedure d'appalto e di concorso, la stipulazione dei contratti;
   - con la modifica apportata dall'art. 6 della l. 15.05.1997, n. 127 la elencazione dei compiti attribuiti ai dirigenti ha subito un ampliamento, aggiungendosi, a quelli previsti dal cennato originario terzo comma, gli atti di gestione finanziaria, ivi compresa l'assunzione di impegni di spese (lett. d), gli atti di amministrazione e gestione del personale (lett. e), i provvedimenti di assentimento di cui alla sopra citata lett. [f], le attestazioni, certificazioni, comunicazioni, diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni altro atto costituente manifestazione di giudizio e di conoscenza (lett. g), gli atti ad essi attribuiti dallo statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal sindaco (lett. h);
   - con l'art. 45 d.lgs. 31.03.1998, n. 80 è stato previsto che, a decorrere dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto (e cioè dal 23.04.1998), le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui all'art. 3, secondo comma, del d.lgs. 03.02.1993, n. 29, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti;
   - con l'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191, è stata inserita, dopo la lett. [f] del sopra citato e modificato art. 51 della l. n. 142/1990, la seguente lett. [f-bis]: “tutti i provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e regionale in materia di prevenzione e repressione dell'abusivismo edilizio e paesaggistico–ambientale”.
L'esplicito ampliamento normativo, subìto per due volte, della elencazione dei compiti originariamente spettanti ai dirigenti, conduce alla conclusione che quanto indicato, limitatamente alle commissioni, alle procedure e ai contratti, dall'iniziale stesura dell'art. 51, non fosse meramente esemplificativo. Una ipotesi del genere colliderebbe infatti con la considerazione in base alla quale il legislatore avrebbe emesso per tre volte norme sostanzialmente inutili (precisando dapprima taluni compiti nella originaria stesura dell'art. 51, ampliandoli poi con la legge n. 127 del 1997, ampliandoli ulteriormente con la legge n. 191 del 1998).
Va pertanto concluso, per quanto qui occorre, che il progressivo ampliamento delle competenze dei dirigenti sia avvenuto, di volta in volta, in concomitanza con la entrata in vigore delle varie norme sopra esaminate.
E va conseguentemente detto che le enunciazioni, di ampio significato, contenute nell'art. 51, terzo comma, cit. ("spettano ai dirigenti tutti i compiti...") e nell'art. 45 cit. ("le disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti ... si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti"), sono state intese dal medesimo legislatore che le ha introdotte, e (cfr. in particolare l'originario art. 51 e l'art. 6, comma 2 cit.) nel momento stesso in cui sono state poste, nel senso di enunciazioni di principio, abbisognevoli di specificazioni necessarie; non utili quindi, ex se, a conferire senz'altro poteri dirigenziali sul punto.
Può concludersi pertanto che la competenza ad adottare atti di gestione in materia edilizia, compresi quelli repressivo-sanzionatori, sia stata trasferita dalla legge ai dirigenti soltanto con l’entrata in vigore della l. 191/1998, vale a dire a far data dal 05.07.1998 e quindi in epoca successiva alla data di adozione del provvedimento qui impugnato (TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater, sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROFESSIONALICosti di sicurezza esclusi per le opere di tipo intellettuale. Consiglio di Stato. Appalti pubblici.
Novità per le prestazioni di natura intellettuale a pubbliche amministrazioni, negli appalti di servizi soggetti alla disciplina delle opere pubbliche (Dlgs 50/2016): il Consiglio di Stato esclude che per esse vi siano costi di sicurezza da indicare.

La sentenza 08.05.2017 n. 2098, relativa alla fornitura e manutenzione di software ad una società pubblica della provincia autonoma di Bolzano, decide il caso di un fornitore che aveva indicato la cifra «zero» per i costi di sicurezza, che il disciplinare di gara imponeva fossero chiariti.
Per i giudici, quando la fornitura riguarda un servizio di natura intellettuale, costi di sicurezza non sono configurabili e, in conseguenza, non si può escludere il concorrente per asserita violazione dell’articolo 87, comma 4, del Dlgs 163/2006 (oggi articolo 50, Dlgs 50/2016, Codice appalti), dovendosi valutare in concreto se la dichiarazione relativa all’offerta economica sia congrua. Il confine tra forniture di servizi di natura intellettuale ed altri tipi di servizi assume rilievo con l’evolversi delle professioni verso strutture imprenditoriali, articolate in organismi complessi, destinati ad operare non solo presso la sede professionale ma anche presso l’utente, anche in forme societarie complesse.
Le recenti modifiche al Dlgs 50/2016 (Dlgs 19.04.2017 n. 56, pubblicato il 5 maggio e in vigore dal 20 maggio) accentuano (articolo 50) la differenza degli appalti di servizi di natura intellettuale rispetto ad altri servizi, esonerando i primi, per la loro matrice personale, dalle clausole sociali che garantiscono generica stabilità occupazionale.
Restano di difficile definizione le figure in cui i costi di sicurezza non sono applicabili: la fornitura di pc con assistenza tecnica on-site, quindi con personale in loco, non è stata ritenuta prestazione intellettuale (Tar Bologna, sentenza 268/2015), nemmeno se vi è garanzia post vendita (Consiglio di Stato, 1798/2015); consulenza e brokeraggio assicurativo per una Regione non espongono a rischi o pericoli (Consiglio di Stato, 1051/2016; Tribunale amministrativo di Bolzano, 143/2017); il servizio di call center, ritenuto di natura intellettuale (Tar Bologna, 564/2016). Per i tecnici, la redazione di un piano di rischi idrogeologici con sopralluoghi e rilievi espone a rischi specifici (Consiglio di Stato, 3139/2016), come progettazione lavori, demolizione e ricostruzione di una scuola con sopralluoghi, rilievi e misurazioni (Tar Veneto, 182/2017).
Altre volte i servizi di ingegneria a supporto di una struttura tecnica di un’azienda ospedaliera sono stati ritenuti prevalentemente intellettuali, privi di rischi specifici perché si esprimono in attività di controllo e supervisione dei lavori, senza partecipazione attiva ai cantieri (Tar Napoli, 4150/2016); solo professionale è anche l’attività degli interpreti e traduttori (assistenza linguistica negli asili nido della provincia di Trento), anche se l’attività è prestata in scuole (Consiglio di Stato, 223/2017).
In sintesi, analizzando i costi aziendali emerge il ridursi delle prestazioni meramente intellettuali, che si riducono all’ideazione delle soluzioni, senza necessità di verifiche e collaudi
(articolo Il Sole 24 Ore del 10.05.2017).

APPALTI - ATTI AMMINISTRATIVI: Nella fattispecie, l’istanza di accesso è assolutamente generica e indeterminata, facendo riferimento a “tutta la corrispondenza interna fra DL, RUP, ufficio affari legali M.M. e Consiglio di Amministrazione”.
Deve, dunque, ricevere applicazione la costante giurisprudenza sull’inesistenza in capo all’istante del concreto interesse all’accesso in tutti i casi in cui lo stesso miri ad un controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione, inammissibile ai sensi dell’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990.
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Ai sensi dell'art. 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale.
Inoltre “E' da escludere che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»”.
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato”.
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione”.
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Il collegio ritiene che il ricorso sia fondato solo in parte, sussistendo il concreto interesse della ricorrente all’accesso esclusivamente riguardo al verbale del CdA di MM che concerne la sua posizione con riferimento alla risoluzione del contratto in questione.
Ed invero, riguardo alla porzione dell’istanza concernente la copia della corrispondenza privata interna intercorsa tra la DL e il RUP, la DL e la DT, la DT e la progettazione, nonostante l’astratta configurabilità della possibilità dell’ostensione anche di atti di natura privatistica, purché connessi all’esercizio della potestà autoritativa dell’amministrazione, nella fattispecie in questione l’istanza è assolutamente generica e indeterminata, facendo riferimento a “tutta la corrispondenza interna fra DL, RUP, ufficio affari legali M.M. e Consiglio di Amministrazione”. Deve, dunque, ricevere applicazione la costante giurisprudenza sull’inesistenza in capo all’istante del concreto interesse all’accesso in tutti i casi in cui lo stesso miri ad un controllo generalizzato dell’operato dell’amministrazione, inammissibile ai sensi dell’art. 24, comma 3, della legge n. 241/1990 (cfr., fra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 68).
Riguardo alla documentazione detenuta da ANAC, l’accesso è stato legittimamente negato da MM in virtù del differimento già dalla stessa Autorità disposto con nota del 12.12.2016 su analoga istanza di accesso presentatagli dalla odierna ricorrente, poiché ai sensi del Regolamento concernente l’accesso ai documenti formati o detenuti stabilmente dall’Autorità, l’accesso è differito a una data successiva all’adozione della delibera conclusiva del Consiglio, che non è ancora intervenuta.
Riguardo, invece, al verbale del Consiglio di Amministrazione di MM, il Collegio ritiene che sia rinvenibile l’interesse della ricorrente all’ostensione del medesimo, anche se non specificato nell’istanza, atteso che nel provvedimento di risoluzione si fa menzione di un’autorizzazione alla risoluzione medesima da parte del Consiglio di Amministrazione, risultando, dunque, lo stesso facilmente individuabile.
Il Collegio richiama, in proposito, il costante orientamento della giurisprudenza amministrativa in base al quale: “Ai sensi dell'art. 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello della necessaria sussistenza di un interesse differenziato, concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente collegamento con la tutela giurisdizionale di una determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla documentazione privata d'interesse amministrativo, soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato, sez. V, 27.04.2015, n. 2096).
Inoltre “E' da escludere che la titolarità del diritto d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante», che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato, sez. V, 17.03.2015, n. 1370).
Il diritto di accesso non è stato configurato dal legislatore con carattere meramente strumentale rispetto alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato” (Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 714).
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons. Stato, sez. III, 22.12.2014, n. 6352).
Ne consegue, dunque, la possibilità dell’ostensione anche di atti di natura privatistica, purché connessi all’esercizio della potestà autoritativa dell’amministrazione (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 05.05.2017 n. 1035 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: I lavori di adeguamento su struttura socio-riabilitativa per portatori di disabilità, da parte di una IPAB, rientrano per definizione all’interno delle “… opere pubbliche o di interesse generale”, di cui all'art. 17, co. 3, lett. c) TUE. Trattasi infatti di struttura volta alla cura di persone con gravi disabilità, e mirante ad assicurare loro assistenza continuativa, anche dopo la morte dei relativi familiari.
Sicché, la fattispecie è esente dal versamento del contributo di costruzione ai sensi dell’art. 17, co. 3, lett. c), TUE. Invero, il contributo di costruzione, non è dovuto: “… per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici” ove “Per integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso di due requisiti, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere soggettivo. Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio della norma è innanzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità. Il legislatore ha, quindi, inteso evitare l'imposizione di oneri concessori al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse; imposizione che sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento. In tale prospettiva, è stato chiarito dalla giurisprudenza -con riferimento al requisito soggettivo- che per “enti istituzionalmente competenti" debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché l'opera sia realizzata per conto di un ente pubblico”.

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1. La ricorrente –iscritta nell’elenco delle IPAB operanti all’interno della Regione– ha ottenuto permesso di costruire al fine di eseguire lavori di adeguamento del proprio immobile a struttura socio-riabilitativa, versando il relativo contributo concessorio.
Avvedutasi della possibilità di fruire dell’esenzione stabilita dall’art. 17, co. 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001 (TUE), essa ha diffidato il Comune di Castro a trasformare il permesso di costruire da oneroso in gratuito, restituendo conseguentemente le somme indebitamente percepite dall’ente a titolo di oneri concessori.
Tale diffida è stata formalmente disattesa dal Comune con nota prot. n. 7141/15.
Avverso tale nota, e ai relativi provvedimenti presupposti, la ricorrente è insorta, deducendone l’illegittimità sulla base dei seguenti motivi di gravame: violazione dell’art. 17, co. 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001; eccesso di potere per errore.
All’udienza del 19.04.2017 il ricorso è stato trattenuto in decisione.
...
4. Nel merito, con i vari motivi di gravame, deduce la ricorrente la violazione, ad opera del Comune, della previsione di cui all’art. 17, co. 3, lett. c), TUE, avuto riguardo sia alla sua soggettività di diritto pubblico, sia alla natura di interesse generale delle opere realizzate dalla ricorrente.
Gli assunti sono fondati.
4.2. Ai sensi dell’art. 17, co. 3, lett. c), TUE, il contributo di costruzione, non è dovuto: “… per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Così individuata la previsione normativa di riferimento, occorre ora indagarne la portata.
4.3. Sul punto, osserva il Collegio che, per condivisa giurisprudenza amministrativa, “Per integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso di due requisiti, l'uno di carattere oggettivo e l'altro di carattere soggettivo. Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio della norma è innanzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità. Il legislatore ha, quindi, inteso evitare l'imposizione di oneri concessori al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse; imposizione che sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento. In tale prospettiva, è stato chiarito dalla giurisprudenza -con riferimento al requisito soggettivo- che per “enti istituzionalmente competenti" debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché l'opera sia realizzata per conto di un ente pubblico” (TAR Lombardia, II, 03.11.2016, n. 2011. Cfr. altresì la copiosa giurisprudenza ivi citata).
5. Ciò premesso, e venendo ora al caso in esame, rileva il Collegio che, per quel che attiene al requisito soggettivo, già la denominazione giuridica della ricorrente –i.e: Istituzione pubblica di assistenza e beneficenza (IPAB)– ne tradisce la sua natura pubblicistica, peraltro assai risalente nel tempo, essendo le IPAB originariamente disciplinate dalla legge 17.07.1890, n. 6972.
Inoltre, ai sensi dell’art. 1 d.lgs. n. 207/2001, si è previsto “il riordino delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”, la qual cosa costituisce ulteriore indice della sua natura pubblicistica.
La natura pubblicistica della ricorrente è poi confermata dalla L.R. n. 15/2004, la quale in coerenza con la citata normativa statale ha dettato previsioni per il riordino delle IPAB già esistenti in ambito regionale, tra le quali risulta inclusa la ricorrente –il cui statuto è stato approvato in data 10.07.1923 (cfr. doc. n. 11 del fascicolo di parte ricorrente)– come da nota Regione Puglia n. 635/2013 (cfr. n. 35 del relativo Allegato contenente indicazione di tutte le IPAB regionali – Doc. n. 15).
Da ultimo, vi è in atti nota n. 32 del 18.02.2010 con la quale la Regione, visto il piano di risanamento elaborato dalla ricorrente, ha autorizzato quest’ultima a conservare la soggettività giuridica pubblica in atto, nelle more della sua trasformazione in Azienda pubblica di servizi alla persona (ASP), ai sensi del d.lgs. n. 207/2001.
Alla luce di tali elementi, è evidente la natura pubblicistica della ricorrente, e l’assenza del fine di lucro della stessa, sicché deve senz’altro ritenersi integrato il requisito soggettivo richiesto dalla cennata previsione di cui all’art. 1,7 co. 3, lett. c) TUE.
6. Per quel che attiene al requisito oggettivo, peraltro mai contestato dal Comune, rileva il Collegio che l’opera realizzata dalla ricorrente –realizzazione di una struttura socio-riabilitativa per portatori di disabilità– rientra per definizione all’interno delle “… opere pubbliche o di interesse generale”, di cui al cennato art. 17, co. 3, lett. c) TUE. Trattasi infatti di struttura volta alla cura di persone con gravi disabilità, e mirante ad assicurare loro assistenza continuativa, anche dopo la morte dei relativi familiari.
7. Per tali ragioni, reputa il Collegio la sussistenza di entrambi i requisiti normativamente previsti ai fini dell’esenzione del contributo in esame.
Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la condanna del Comune di Castro alla restituzione, in favore della ricorrente, di tutte le somme versate da quest’ultima al Comune a titolo di oneri concessori relativi al p.d.c. 18.12.2012, n. 7274.
Trattandosi di indebito oggettivo, e in assenza di indici di mala fede da parte del Comune, il relativo importo andrà maggiorato di rivalutazione monetaria e interessi legali sulla somma via via rivalutata, dal 09.02.2016 –data di notifica del presente ricorso, e dies a quo di decorrenza della mora (art. 2033 c.c.)– al soddisfo (TAR Puglia-Lecce, Sez. I, sentenza 04.05.2017 n. 671 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIAppalti, essenziale la sicurezza. Esclusa l'impresa che non indica i costi anti-infortuni. Il Tar Campania: non attivabile il soccorso istruttorio per un obbligo previsto dalla legge.
Il soccorso istruttorio non salva dall'esclusione dalla gara l'impresa che nell'offerta economica manca di indicare i costi di sicurezza interna. Con il nuovo codice dei contratti pubblici, infatti, l'obbligo scaturisce direttamente dalla legge, che indica come elemento economico essenziale gli oneri sostenuti dell'azienda per tutelare la salute dei lavoratori: l'estromissione della società inadempiente dalla gara scatta dunque al di là delle previsioni ad hoc contenute nello stesso bando emesso dall'ente.

È quanto emerge dalla
sentenza 03.05.2017 n. 2358, pubblicata dalla III Sez. del TAR Campania-Napoli.
Parla chiaro l'articolo 95, comma 10, del decreto legislativo 50/2016: «Nell'offerta economica l'operatore deve indicare i propri costi aziendali concernenti l'adempimento delle disposizioni in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro». Resta fuori, quindi, dalla procedura a evidenza pubblica la società che puntava a gestire la raccolta dei rifiuti urbani in un comune del Napoletano.
È escluso che l'impresa candidata possa ottenere il termine di dieci giorni per mettersi in regola previsto dall'articolo 83, nono comma, del decreto legislativo 50/2016: il soccorso istruttorio, infatti, si può ottenere soltanto per sanare le carenze formali del documento di gara unico europeo, mentre la partecipante alla procedura pubblica che non espone i costi necessari agli adempimenti per la sicurezza sui luoghi di lavoro viene meno a un obbligo imposto dalla legge che integra di per sé gli atti di gara. Non conta allora se il bando, il disciplinare oppure lo stesso modello di offerta economica predisposto dalla stazione appaltante prevedano la dichiarazione separata degli oneri sostenuti per tutelare la salute dei dipendenti.
Già prima del decreto legislativo 50/2016 la giurisprudenza di legittimità è intervenuta sull'esclusione dalla gara l'impresa che in sede di offerta economica non ha indicato gli oneri necessari a evitare gli infortuni, anche se un incombente del genere non risulta richiesto dal bando. E ha chiarito che si tratta di un precetto imperativo per qualsiasi tipo di procedura pubblica, quale che sia la posta in palio: lavori, servizi o forniture.
Deve ritenersi che il principio secondo cui ogni impresa che partecipa a un appalto pubblico deve indicare gli oneri di sicurezza aziendali è un obbligo che integra «dall'esterno» la legge di gara. Se non si adegua, dunque, l'azienda resta fuori dalla procedura benché il bando non preveda l'estromissione ad hoc, il tutto in base al principio di «tassatività attenuata» delle cause di esclusione dalle gare, sancito dall'articolo 46 del codice dei contratti pubblici. Il Consiglio di stato con la sentenza 5873/2015, pubblicata dalla quinta sezione, dà continuità all'orientamento di giurisprudenza espresso dall'adunanza plenaria di Palazzo Spada.
Resta da motivare perché in caso di mancata indicazione degli oneri di sicurezza aziendali non sono legittimamente esercitabili i poteri attinenti al soccorso istruttorio: nella specie, anche si dovesse ritenere che il bando abbia escluso l'obbligo delle imprese di indicare i costi di sicurezza aziendale in sede di offerta, la legge di gara risulta comunque impugnata sul punto da un'impresa partecipante (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).

APPALTI: Non si possono imporre iscritti a particolari ordini.
Annullata. Va posta nel nulla l'aggiudicazione dell'appalto se si scopre che la lettera d'invito impone alla società partecipante di avere un dipendente iscritto a uno specifico ordine professionale, titolato ai lavori messi a gara, mentre l'impresa vincitrice ha solo un consulente con quei requisiti, per quanto legato all'azienda da un contratto in esclusiva.
E ciò perché non si può disattendere il requisito indicato nella lettera d'invito agli operatori economici: l'amministrazione ha infatti interesse a che il professionista sia a diretta disposizione dell'aggiudicataria.
È quanto emerge dalla sentenza 28.04.2017 n. 150, pubblicata dalla I Sez. del TAR Molise.
Potere e intensità
Accolto il ricorso dello studio professionale associato, che fa bloccare la gara vinta dal competitor per il piano di assestamento forestale del comune: per realizzarlo, infatti, ci vuole un agronomo, mentre il titolare dell'aggiudicataria è un geologo e solo il consulente esterno ha il requisito indicato.
Ai fini dell'appalto il rapporto di lavoro subordinato non può essere equiparato alla prestazione d'opera per le evidenti differenze fra gli istituti ex articoli 2094 c.c. e 2222 c.c.: nel primo caso risulta evidente la maggiore intensità del potere che il creditore vanta nel pretendere l'esecuzione della prestazione dal professionista.
Senza dimenticare che un'eventuale equiparazione delle due figure è contraria alla par condicio fra i partecipanti alla procedura: penalizza chi sostiene i costi dell'assunzione e paga i contributi rispetto all'altro che con la consulenza risparmia (articolo ItaliaOggi del 31.05.2017).

APPALTIGiustificare i prezzi corregge l'anomalia. Valutazione congruità offerte in gara.
È illegittima l'esclusione per anomalia dell'offerta laddove l'offerente abbia documentato gli scostamenti tra prezzi indicati in offerta e prezzi indicati in sede di giustificazione.

Lo ha precisato il TAR Lombardia-Milano, I Sez., con la sentenza 27.04.2017 n. 963 analizzando la disciplina della verifica della congruità delle offerte.
In particolare, i giudici hanno affermato che nelle gare pubbliche la valutazione della congruità dell'offerta, pur essendo espressione di discrezionalità cosiddetta tecnica della stazione appaltante è tuttavia suscettibile di sindacato esterno da parte del giudice amministrativo nei profili dell'eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti, e contraddittorietà; diversamente, il provvedimento che valuta un'offerta non anomala non abbisogna di una motivazione analitica, essendo sufficiente anche un rinvio alle argomentazioni e giustificazioni della parte che l'ha formulata, quello che la ritiene anomala, deve essere invece puntualmente motivato.
Ciò premesso, era accaduto che gli importi dell'analisi dei prezzi delle lavorazioni più significative indicati dall'offerente in sede di giustificazione non coincidessero con i prezzi inseriti in sede di offerta; inoltre, non erano stati dimostrati i fattori e le circostanze che avevano prodotto tali scostamenti. Da qui l'esclusione per anomalia da parte della stazione appaltante che però i giudici ritengono illegittima in quanto l'impresa aveva documentato gli scostamenti tra i prezzi indicati in sede di offerta e i prezzi indicati in sede di giustificazione.
Nella fattispecie esaminata dal Tar, la ricorrente non aveva sostanzialmente modificato la ripartizione delle voci, riducendone alcune ed aumentandone altre, per riuscire a giustificare il prezzo complessivamente offerto né quello relativo a singole voci, essendosi invece limitata a dimostrare la loro congruità, sostenendo a tal fine che i valori indicati in sede di gara erano addirittura eccedenti rispetto ai costi che la stessa avrebbe sostenuto nell'esecuzione dell'appalto di che trattasi, potendo infatti anche essere ulteriormente ribassati, rimanendo tuttavia idonei a coprire le spese, e ad assicurare un utile di impresa (articolo ItaliaOggi del 05.05.2017).
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MASSIMA
I.1) In via preliminare, osserva il Collegio che,
nelle gare pubbliche, la valutazione della congruità dell'offerta, pur essendo espressione di discrezionalità c.d. tecnica della stazione appaltante, è tuttavia suscettibile di sindacato esterno da parte del giudice amministrativo nei profili dell'eccesso di potere per manifesta irragionevolezza, erronea valutazione dei presupposti, e contraddittorietà (C.S., Sez. V, 29.04.2016, n. 1652).
Inoltre, per giurisprudenza pacifica,
mentre il provvedimento che valuta un’offerta non anomala non abbisogna di una motivazione analitica, essendo sufficiente anche un rinvio alle argomentazioni e giustificazioni della parte che l’ha formulata, quello che la ritiene anomala, deve essere invece puntualmente motivato (TAR Campania, Napoli, Sez. III, 10.10.2013, n. 4532).
In particolare,
il giudizio negativo sul piano dell'attendibilità deve riguardare voci che, per la loro incidenza complessiva, rendano l'intera operazione economica non plausibile, e per l'effetto, non suscettibile di accettazione da parte della stazione appaltante (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 16.12.2015 n. 14142), con irrilevanza di eventuali singole voci di scostamento, non avendo ad oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze dell'offerta economica (TAR Umbria, Sez. I, 14.03.2015 n. 114, C.S., Sez. IV, 26.02.2015, n. 963), quanto invece la dimostrazione della complessiva inaffidabilità dell’offerta, e dunque la sua inidoneità a garantire la serietà nell'esecuzione del contratto (TAR Lazio, Roma, Sez. I, 02.12.2016, n. 12066, TAR Puglia, Bari, Sez. I, 23.02.2017, n. 184, TAR Campania, Napoli, Sez. IV, 06.10.2016, n. 4619, C.S. Sez. V, 13.09.2016, n. 3855).
...
II) In aggiunta a quanto precede, di per sé risolutivo ai fini dell’accoglimento del ricorso, ritiene il Collegio che le motivazioni addotte nel citato verbale n. 2/2016, oltreché insufficienti, siano altresì errate.
Come sopra evidenziato, secondo detto provvedimento, l’offerta della ricorrente andava esclusa, sostanzialmente, poiché le giustificazioni fornite, e riferite a 8 voci, “non coincidono per difetto con i prezzi inseriti nella lista delle lavorazioni e fornitura” (v. punto n. 1).
II.1) Osserva il Collegio che,
in linea generale, nella fase del controllo dell’anomalia, non è effettivamente possibile un’indiscriminata ed arbitraria modifica postuma della composizione dell’offerta economica, con il solo limite del rispetto del saldo complessivo, ponendosi ciò in contrasto con le esigenze conoscitive, da parte della stazione appaltante, della struttura dei costi, finendo altrimenti per snaturarsi completamente la funzione ed i caratteri del subprocedimento di anomalia (C.S., Sez. III, 15.04.2016 n. 1533, C.S., Sez. III, 10.03.2016 n. 962).
E’ tuttavia consentito al concorrente di dimostrare, in sede di verifica di anomalia, che determinate voci di prezzo erano eccessivamente basse, mentre altre, per converso, erano sopravvalutate, pervenendo così ad un rimaneggiamento, volto a documentare per alcune di esse un risparmio idoneo a compensare il maggior costo di altre, incidendo finanche anche sull'utile esposto (TAR Lazio, Roma, Sez. II, 26.09.2016, n. 9927), al fine di giungere ad una compensazione tra sottostime e sovrastime, che lasci l’offerta affidabile e seria (C.S., Sez. V, 06.08.2015 n. 3859, TAR Veneto, Sez. I, 12.10.2015, n. 1033).
II.2) Con riferimento alla fattispecie per cui è causa, in via preliminare, osserva il Collegio che le compensazioni operate dalla ricorrente sono di modesto importo, limitandosi a circa Euro 9.000,00, e riferite a sole 8 voci su 23, dubitandosi pertanto che le stesse fossero idonee a stravolgere l’impianto complessivo dell’offerta.
Inoltre, il Collegio evidenzia che, malgrado la stessa ricorrente abbia affermato di aver effettuato, mediante le proprie giustificazioni, una “compensazione” tra le voci di costo oggetto di verifica, in realtà, più semplicemente, si è limitata a dare conto della composizione della propria offerta, cercando inoltre di dimostrare che la stessa era addirittura complessivamente eccedente rispetto ai costi da sostenersi nell’esecuzione dell’appalto. Infatti, poiché le giustificazioni sono risultate superiori ai prezzi offerti per un importo irrisorio (voci art. 9E e 11E, Euro 36,36), essendo invece inferiori di quasi 9000 Euro, deve concludersi che la ricorrente non ha sostanzialmente effettuato tanto una compensazione, in aumento ed in diminuzione, delle voci di costo indicate in sede di offerta, avendo al contrario cercato di dimostrare che le stesse erano in realtà sovrastimate rispetto ai costi effettivamente necessari.
Conseguentemente, malgrado la non coincidenza tra i valori delle voci di costo indicate nelle giustificazioni, e quelli offerti in gara, erroneamente assunta dal provvedimento impugnato quale causa di esclusione della ricorrente, ed a prescindere dalla loro entità quantitativa, la stazione appaltante avrebbe dovuto pronunciarsi sulla congruità dell’offerta, alla luce delle risultanze del procedimento di anomalia.
L’indirizzo giurisprudenziale, implicitamente posto a fondamento del provvedimento impugnato, e che il Collegio condivide, secondo cui
il concorrente sottoposto a verifica di anomalia non può fornire giustificazioni tali da integrare un’operazione di “finanza creativa”, modificando, in aumento o in diminuzione, le voci di costo (TAR Lazio, Roma, Sez. II 26.09.2016 n. 9927, TAR Lombardia, Milano, Sez. IV, 01.06.2015, n. 1287, C.S., Sez. VI, 07.02.2012 n. 636), non è infatti applicabile alla fattispecie, essendosi formato in una casistica in cui il rimaneggiamento delle voci è finalizzato a mantenere fermo l’importo finale, al solo scopo di “far quadrare i conti”, ossia di assicurare che il prezzo complessivo offerto resti immutato, per superare le contestazioni sollevate dalla stazione appaltante su alcune voci di costo.
Come detto, nella fattispecie per cui è causa, la ricorrente non ha invece sostanzialmente modificato la ripartizione delle voci, riducendone alcune ed aumentandone altre, per riuscire a giustificare il prezzo complessivamente offerto, né quello relativo a singole voci, essendosi invece limitata a dimostrare la loro congruità, sostenendo a tal fine che i valori indicati in sede di gara erano addirittura eccedenti rispetto ai costi che la stessa avrebbe sostenuto nell’esecuzione dell’appalto di che trattasi, potendo infatti anche essere ulteriormente ribassati, rimanendo tuttavia idonei a coprire le spese, ed ad assicurare un utile di impresa.
Paradossalmente, se la ricorrente si fosse limitata a formulare le proprie giustificazioni per un importo identico a quello offerto in gara, la stazione appaltante si sarebbe pronunciata sulla loro congruità. Poiché invece nel caso di specie, mediante dette giustificazioni, la ricorrente ha sostanzialmente inteso comprovare non solo che il prezzo offerto in gara era congruo, ma anche che il medesimo era addirittura eccedente ai costi effettivi, del tutto irragionevolmente, la Commissione ha invece ritenuto che l’offerta andasse esclusa, sic et simpliciter.

PATRIMONIODemanio senza automatismi. Addio al rinnovo delle concessioni senza selezione. APPALTI/ Una sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia.
Addio rinnovo automatico delle concessioni demaniali in essere anche dopo il decreto legge enti locali 113/2016, il tutto in ossequio alla sentenza C-458/14 della Corte Ue che ha dichiarato illegittimo l'affidamento a privati delle spiagge italiane, prorogato al 31.12.2020 senza «una imparziale e trasparente procedura di selezione dei potenziali candidati».
E ciò perché l'articolo 24, c. 3-septies, del dl 113/2016 introduce in pratica una moratoria sulle concessioni esistenti ma senza un termine finale certo.

Così la sentenza 27.04.2017 n. 959 del TAR Lombardia-Milano, Sez. I.
La controversia nasce dalla procedura a evidenza pubblica bandita dal comune per la gestione di uno stabilimento balneare. I giudici di Lussemburgo hanno già bocciato la norma di cui all'articolo 1, comma 18, del decreto legge 194/2009 che prorogava le autorizzazioni demaniali per gestire attività turistiche e ricreative in riva al mare e ai laghi. Ma dopo la sentenza Ue nel dl 113/2016 è stata introdotta una norma secondo cui i rapporti pendenti conservano validità fino a quanto la materia non sarà regolata dallo stato nazionale secondo i principi eurounitari di libera concorrenza.
E anche voler condividere l'interpretazione della società ricorrente secondo cui la proroga prevista all'articolo, comma 3-septies, del dl 113/2016 debba trovare applicazione con riferimento alle concessioni non solo di beni demaniali ma anche di beni appartenenti al patrimonio indisponibile, queste norme devono essere disapplicate per contrasto con il diritto Ue (articolo ItaliaOggi del 31.05.2017).
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MASSIMA
9.1 Prima di esaminare le censure, occorre delineare il quadro normativo la cui applicazione al caso di specie è oggetto della presente controversia.
9.2 L’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come modificato dall'articolo 1, comma 1, della legge 26.02.2010, n. 25, in sede di conversione e, successivamente, dall'articolo 34-duodecies, comma 1, del D.L. 18.10.2012, n. 179, dall'articolo 1, comma 547, della Legge 24.12.2012, n. 228 e, da ultimo, dall'articolo 1, comma 291, della Legge 27.12.2013, n. 147, dispone che: “ferma restando la disciplina relativa all'attribuzione di beni a regioni ed enti locali in base alla legge 05.05.2009, n. 42, nonché alle rispettive norme di attuazione, nelle more del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi, lacuali e fluviali con finalità turistico-ricreative, ad uso pesca, acquacoltura ed attività produttive ad essa connesse, e sportive, nonché quelli destinati a porti turistici, approdi e punti di ormeggio dedicati alla nautica da diporto, da realizzarsi, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento di tali concessioni, sulla base di intesa in sede di Conferenza Stato-regioni ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 05.06.2003, n. 131, che è conclusa nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell'esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti, nonché in funzione del superamento del diritto di insistenza di cui all'articolo 37, secondo comma, secondo periodo, del codice della navigazione, [che è soppresso dalla data di entrata in vigore del presente decreto], il termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto e in scadenza entro il 31.12.2015 è prorogato fino al 31.12.2020, fatte salve le disposizioni di cui all'articolo 03, comma 4-bis, del decreto-legge 05.10.1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 04.12.1993, n. 494. All'articolo 37, secondo comma, del codice della navigazione, il secondo periodo è soppresso”.
9.3 La conformità al diritto comunitario di questa norma è stata oggetto di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, disposto con sentenza di questo Tribunale n. 2401/2014 e con ordinanza del Tar Sardegna n. 224/2015.
La Corte, con sentenza del 14.07.2016, ha affermato che:
   1) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12.12.2006, relativa ai servizi nel mercato interno, deve essere interpretato nel senso che osta a una misura nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati.
   2) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che consente una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentano un interesse transfrontaliero certo.

9.4 A seguito della decisione della Corte di Giustizia, il legislatore italiano, con legge n. 160 del 07.08.2016, ha introdotto, in sede di conversione al d.l. n. 113/2016, all’art. 24, il comma 3-septies, ai sensi del quale: “nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea, per garantire certezza alle situazioni giuridiche in atto e assicurare l'interesse pubblico all'ordinata gestione del demanio senza soluzione di continuità, conservano validità i rapporti già instaurati e pendenti in base all'articolo 1, comma 18, del decreto-legge 30.12.2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26.02.2010, n. 25”.
10.1 Così delineato il quadro normativo, si può procedere con l’esame delle doglianze formulate dalla ricorrente.
10.2 Anche a volere condividere la linea interpretativa prospettata dalla ricorrente, secondo cui la proroga prevista all’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009 ed all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n. 113/2016 debba trovare applicazione con riferimento alle concessioni non solo di beni demaniali ma anche di beni appartenenti al patrimonio indisponibile, queste norme devono essere disapplicate per contrasto con il diritto comunitario, così come interpretato dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza sopra richiamata.
Per costante giurisprudenza, al pari di regolamenti e direttive, anche le pronunce della Corte di Giustizia della Comunità europea hanno, difatti, efficacia diretta nell'ordinamento interno degli stati membri, vincolando sia le amministrazioni che i giudici nazionali alla disapplicazione delle norme interne con esse configgenti (Cfr. C. Cost., 19.04.1985, n. 113 che ha affermato l’immediata applicabilità delle statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia; Cons. giust. amm. Sicilia, sez. giurisd., 16.05.2016, n. 139).
10.3 La presente controversia ha ad oggetto il contratto in forza del quale il Comune di Como ha attribuito alla ricorrente il diritto utilizzare il compendio denominato “lido di Villa Olmo”, appartenente al patrimonio indisponibile, quale lido e stabilimento balneare, dietro versamento di un canone periodico e senza alcun corrispettivo a carico dell’amministrazione.
Tale contratto presenta i caratteri della concessione, ai sensi del diritto dell’Unione, essendo il rischio d’impresa a carico della società Villa Olmo s.n.c.
La concessione rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 12 della direttiva 2006/123 in quanto:
   - deve essere qualificata quale autorizzazione, ai sensi delle disposizioni della direttiva, in quanto atto formale che il prestatore deve ottenere dall’autorità nazionale al fine di potere esercitare l’attività economica;
   - il numero di autorizzazioni disponibili per l’attività in questione è indubbiamente limitato per via della scarsità delle risorse naturali, quali sono, in generale, le rive del lago di Como, suscettibili di sfruttamento economico solo in numero limitato, e quale è, in particolare, il compendio in questione, in considerazione delle sue peculiarità (in relazione alla sua ubicazione ed alla sua storia);
   - la concessione d’uso del bene in questione non rientra nella categoria delle concessioni di servizi, escluse dall’ambito di applicazione della direttiva 2006/123 e rientranti in quello della direttiva 2014/23, per le ragioni affermate dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 14.07.2016 (punti 44-48) ed estensibili anche al caso di specie.
10.4 L’art. 12, c. 1, della direttiva 2006/123, dispone che, qualora il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali o delle capacità tecniche utilizzabili, il rilascio delle autorizzazioni deve essere soggetto ad una procedura di selezione tra i candidati potenziali, che presenti garanzie di imparzialità e di trasparenza e preveda, in particolare, un'adeguata pubblicità dell'avvio della procedura e del suo svolgimento e completamento.
10.5 Come affermato dalla Corte di Giustizia ai punti 50 e ss. della sentenza sopra richiamata, “una normativa nazionale, come quella di cui ai procedimenti principali, che prevede una proroga ex lege della data di scadenza delle autorizzazioni equivale a un loro rinnovo automatico, che è escluso dai termini stessi dell’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2006/123.
Inoltre, la proroga automatica di autorizzazioni relative allo sfruttamento economico del demanio marittimo e lacuale non consente di organizzare una procedura di selezione come descritta al punto 49 della presente sentenza
”.
La Corte ha poi affermato che,
pur se l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva 2006/123 prevede espressamente che gli Stati membri possano tener conto, nello stabilire le regole della procedura di selezione, di considerazioni legate a motivi imperativi d’interesse generale, “è previsto che si tenga conto di tali considerazioni solo al momento di stabilire le regole della procedura di selezione dei candidati potenziali e fatto salvo, in particolare, l’articolo 12, paragrafo 1, di tale direttiva.
Pertanto l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva in questione non può essere interpretato nel senso che consente di giustificare una proroga automatica di autorizzazioni allorché, al momento della concessione iniziale delle autorizzazioni suddette, non è stata organizzata alcuna procedura di selezione ai sensi del paragrafo 1 di tale articolo
”.

Inoltre, “
una giustificazione fondata sul principio della tutela del legittimo affidamento richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione”.
La previsione di cui all’art. all’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, contrasta quindi con l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123.
10.6 Un identico contrasto deve ritenersi sussistente con riferimento alla previsione di cui all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n. 113/2016.
Con tale norma, il legislatore -nel prevedere la conservazione della validità dei rapporti già instaurati e pendenti in base all'articolo 1, comma 18, del decreto-legge 30.12.2009, n. 194, convertito, con modificazioni, dalla legge 26.02.2010, n. 25 “nelle more della revisione e del riordino della materia in conformità ai principi di derivazione europea”– ha, difatti, sostanzialmente reintrodotto un rinnovo automatico delle autorizzazioni concesse, oltretutto senza la previsione di un termine finale certo, che impedisce lo svolgimento di procedure comparative, eludendo così, al pari dell’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, il dettato della direttiva 2006/123 e le indicazioni date dalla Corte di Giustizia.
10.7
Poiché le norme invocate dalla ricorrente si pongono in contrasto con il diritto comunitario, esse devono essere disapplicate. A ciò consegue la piena legittimità della decisione del Comune di Como di non considerare efficace la concessione in questione e di procedere alla pubblicazione del bando per l’assegnazione del compendio immobiliare.

APPALTILe stazioni appaltanti hanno il potere di fissare nella lex specialis parametri di capacità tecnica dei partecipanti e requisiti soggettivi specifici di partecipazione attraverso l'esercizio di un'ampia discrezionalità, fatti salvi i limiti imposti dai principi di ragionevolezza e proporzionalità, i quali consentono il sindacato giurisdizionale sull'idoneità ed adeguatezza delle clausole del bando rispetto alla tipologia e all'oggetto dello specifico appalto.
In definitiva, in sede di predisposizione della lex specialis di gara d'appalto, l'Amministrazione è legittimata ad introdurre disposizioni atte a limitare la platea dei concorrenti onde consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, specie per ciò che attiene al possesso di requisiti di capacità tecnica e finanziaria, tutte le volte in cui tale scelta non sia eccessivamente quanto irragionevolmente limitativa della concorrenza, in quanto correttamente esercitata attraverso la previsione di requisiti pertinenti e congrui rispetto allo scopo perseguito.

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14. La ricorrente ha, infine, dedotto, in via subordinata, l’illegittimità, per eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà, dell’art. 9 dell’avviso d’asta nella parte in cui prevede, a pena di esclusione, tra i requisiti di partecipazione, “un’esperienza professionale di almeno tre anni nell’ambito della conduzione di impianti sportivi o di pubblici esercizi”.
A suo avviso, avendo il Comune individuato l’uso per il quale il bene è dato in concessione nella “gestione di uno stabilimento balneare, quale attività principale, oltre ad attività di somministrazione di alimenti e bevande accessorie alle suddette attività” (art. 2 dell’avviso d’asta) e avendo richiesto ai concorrenti il possesso del requisito dell’iscrizione alla competente camera di commercio “per le specifiche attività oggetto della concessione”, sarebbe illegittimo richiedere, a dimostrazione della capacità tecnica, una generica esperienza professionale nell’ambito della conduzione di ogni tipo di impianto sportivo o di pubblico esercizio e non esigere, invece, una specifica esperienza nella conduzione degli stabilimenti balneari.
La conduzione di uno stabilimento balneare, con due piscine, necessiterebbe di specifiche competenze e capacità che spaziano dall’assistenza ai bagnanti, alla manutenzione degli impianti natatori, alla gestione degli attracchi per l’ormeggio delle imbarcazioni, alla balneabilità o meno dello specchio lacuale, alla tutela dell’ambiente lacustre.
15. La censura è infondata.
Per costante giurisprudenza "le stazioni appaltanti hanno il potere di fissare nella lex specialis parametri di capacità tecnica dei partecipanti e requisiti soggettivi specifici di partecipazione attraverso l'esercizio di un'ampia discrezionalità, fatti salvi i limiti imposti dai principi di ragionevolezza e proporzionalità, i quali consentono il sindacato giurisdizionale sull'idoneità ed adeguatezza delle clausole del bando rispetto alla tipologia e all'oggetto dello specifico appalto. In definitiva, in sede di predisposizione della lex specialis di gara d'appalto, l'Amministrazione è legittimata ad introdurre disposizioni atte a limitare la platea dei concorrenti onde consentire la partecipazione alla gara stessa di soggetti particolarmente qualificati, specie per ciò che attiene al possesso di requisiti di capacità tecnica e finanziaria, tutte le volte in cui tale scelta non sia eccessivamente quanto irragionevolmente limitativa della concorrenza, in quanto correttamente esercitata attraverso la previsione di requisiti pertinenti e congrui rispetto allo scopo perseguito" (TAR Campania, Napoli, sez. V, 03.05.2016 n. 2185; Cons. di St., sez. V, 23.09.2015, n. 4440; TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.09.2015, n. 11008).
Nel caso di specie, la decisione dell’amministrazione di consentire la partecipazione alla gara a soggetti iscritti alla camera di commercio per “le specifiche attività oggetto di concessione” ed aventi un’esperienza professionale nella conduzione, in generale, di impianti sportivi o anche di pubblici esercizi, anziché ai soli soggetti aventi una specifica esperienza nella conduzione di stabilimenti balneari non può ritenersi viziata per manifesta illogicità né per contraddittorietà.
La scelta dell’amministrazione è, invero, adeguata in considerazione dell’oggetto della concessione (gestione di uno stabilimento balneare ed esercizio dell’attività di somministrazione di alimenti e bevande), della tipologia di beni di cui è composto il compendio immobiliare (biglietteria, due piscine scoperte e solarium, cabine, guardaroba, docce, servizi igienici, locali deposito e sale macchine e dehor-bar) e delle destinazioni funzionali ammesse (ludico/ricreativo e bar nell’ambito del lido).
Le attività che dovranno essere svolte dal concessionario sono dunque plurime e riguardano l’attività di ristorazione, la gestione di impianti sportivi (le due piscine) e la gestione dello stabilimento balneare, attività, quest’ultima, che consta di prestazioni già ricomprese nelle prime due (come l’attività di assistenza ai bagnanti, richiamata dalla stessa ricorrente): ciò giustifica che il requisito di esperienza non sia limitato esclusivamente a quest’ultima attività.
Inoltre, consentire la partecipazione alla gara ai soli soggetti che hanno maturato la propria esperienza nella conduzione di stabilimenti balneari, e non al più ampio numero di gestori di impianti sportivi in genere, avrebbe, invece, ristretto eccessivamente ed ingiustificatamente la platea dei partecipanti, in netto contrasto con i principi del favor partecipationis e dell’apertura al mercato di settori dai quali finora sono rimasti esclusi tutti quegli operatori non affidatari di provvedimenti concessori rilasciati senza gara (
TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 27.04.2017 n. 959).

TRIBUTINotifiche a mezzo posta, un pieno di insidie. Dalle notifiche a mezzo posta degli atti tributari un pieno di insidie per i contribuenti.
Secondo una recentissima sentenza della Corte di Cassazione alle notifiche fiscali si applica infatti la disposizione contenuta nell'articolo 1335 del codice civile secondo la quale «ogni dichiarazione diretta a una determinata persona si reputa conosciuta nel momento in cui giunge all'indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell'impossibilità di averne notizia».
Se questa tesi dei giudici di legittimità (Sez. V civile) contenuta nella sentenza 26.04.2017 n. 10245, dovesse affermarsi, ne deriverebbero gravi conseguenze per i contribuenti.
In quanto si verrebbe ad affermare che la notifica è giunta a buon fine anche quando l'atto venga consegnato ad un soggetto che si trovi in loco del tutto per caso, come un conoscente del figlio del destinatario oppure, al limite, a chi si è introdotto abusivamente nella proprietà altrui. Ponendo sul destinatario l'onere della prova -difficile e quasi diabolica- di essere stato senza colpa nell'impossibilità di avere notizia della circostanza.
In ambito tributario infatti a seguito della notifica scatta un breve termine entro il quale il debitore deve contestare nelle forme di legge la pretesa del Fisco (in genere ricorrendo alla giustizia tributaria); se egli resta inerte la pretesa fiscale si «consolida», cioè si ha per definitivamente accertata.
Di qui l'enorme rilievo che assumono del diritto tributario le norme sulla notifica degli atti impositivi.
Per quanto sopra illustrato molto spesso accade che il contribuente venga a conoscenza della pretesa fiscale solo quando inizia la procedura di riscossione coattiva. E in quel momento affermi di non aver avuto notizia dell'atto di accertamento. Ma questa sua asserita ignoranza è irrilevante se l'atto impositivo è stato notificato, secondo regole e prassi che tendono ad avvantaggiare il Fisco, ad esempio consentendogli di ricorre al servizio postale; né è necessaria la prova che il contribuente abbia ricevuto materialmente l'atto impositivo, ma è sufficiente che esso sia giunto in un'area, come la buca delle lettere, ove il contribuente avrebbe potuto prenderne visione; o a mani di una persona che si può presumere gli consegni la missiva.
Legge e regolamento postale individuano poi i soggetti cui l'atto inviato per posta può essere consegnato; si tratta di un elenco piuttosto ampio, ma ove la consegna avvenga a chi non ha alcun legame con il contribuente e con il luogo della notifica, sarebbe logico ritenere che la notifica non sia andata a buon fine.
Nei rapporti di diritto civile invece il creditore non è collocato in una posizione istituzionale di vantaggio rispetto al debitore, e perciò la notifica informa soltanto il debitore di quanto da lui si pretende; ed impedisce il venir meno del diritto (per prescrizione o decadenza). Ma il debitore non ha, di regola, alcun onere di replicare alla richiesta pervenutagli. E se il creditore vorrà realizzare il suo diritto dovrà rivolgersi al giudice, avanti al quale il debitore potrà difendersi.
Dunque nei rapporti privati la applicazione dell'art. 1335 del codice civile produce effetti limitati Mentre l'applicazione del medesimo principio alla notifica degli atti tributari produce effetti negativi dirompenti per il presunto debitore. E simile applicazione estensiva dell'art. 1335 pare tradisca la funzione della norma, che è, inserita nel libro quarto (delle obbligazioni) nel capo II (dei contratti in generale) del codice civile; e quindi non è stata concepita per regolare un rapporto pubblicistico come quello tributario, che è fondato non sul consenso contrattuale, bensì sul potere impositivo dello Stato (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).

APPALTIIntegrazione documentale tramite la Pec.
Nelle gare d'appalto la richiesta di integrazione documentale ai fini del soccorso istruttorio deve essere comunicata alla ditta mediante posta elettronica certificata.

Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 26.04.2017 n. 609.
La vicenda nasce dall'esclusione di un raggruppamento temporaneo «reo» di non aver trasmesso una serie di atti richiesti dal committente pubblico. La p.a. inoltre non aveva voluto concedere la rimessione in termini, anche se era stato addotto che la domanda di ulteriore carteggio ex art. 83, comma 9, dlgs n. 50 del 2016 non era stata ricevuta e che comunque era partita da un semplice indirizzo di posta elettronica.
Il Collegio ha risolto la quaestio iuris interpretando in termini più ampi l'art. 76, comma 3, citato dlgs, il quale prescrive l'utilizzo della Pec in caso di «provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento».
L'organo giudicante vi ha fatto rientrare non solo i provvedimenti di esclusione in senso stretto, ma anche quegli atti che pongono a carico dei concorrenti degli incombenti il cui mancato rispetto comporta come sanzione l'esclusione dalla gara. In tale quadro rientra anche l'atto con il quale la stazione appaltante assegna al concorrente un termine non superiore a dieci giorni perché siano rese, integrate o completate le dichiarazioni necessarie alla partecipazione.
Infine il Tar ha ribadito che la posta elettronica ordinaria non garantisce certezza in ordine all'inoltro e al recepimento dell'atto, per cui in questo caso non poteva dirsi maturata la decadenza a carico del ricorrente (articolo ItaliaOggi Sette del 29.05.2017).
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9 – Il Collegio ritiene fondata la prima censura di cui al ricorso introduttivo del giudizio, ove parte ricorrente censura la erronea applicazione della lex specialis e delle norme vigenti in materia di comunicazioni ai concorrenti ai sensi del d.lgs. n. 50 del 2016.
L’art. 8 del Disciplinare di gara -in disparte le “comunicazioni aventi carattere generale”, per le quali prevede la sola pubblicazione sul sito START nell’area riservata alla gara- contiene per le comunicazioni aventi specifica valenza per il singolo concorrente due distinte previsioni, che devono essere tra loro armonizzate; da un lato stabilisce che le comunicazioni di valenza individuale “sono eseguite ai sensi dell’art. 76 d.lgs. 50/2016”, dall’altro lato aggiunge che le comunicazioni “comunque avvengono e si danno per eseguite mediante spedizione di messaggi alla casella di posta elettronica o alla casella di posta elettronica certificata indicata dal concorrente ai fini della procedura telematica di acquisto nella domanda di partecipazione”, con l’aggiunta dell’inserimento delle comunicazioni stesse in area riservata del sistema START.
Le due richiamate previsioni disciplinari hanno diversa portata applicativa, dal momento che l’art. 76 d.lgs. n. 50 del 2016, espressamente richiamato dall’art. 8 del Disciplinare, prevede per alcune tipologie di comunicazioni l’uso esclusivo della pec, essendo questo uno degli elementi innovativi in materia del Codice del 2016, mentre la restante previsione dell’art. 8 del Disciplinare contempla l’alternativa tra pec o posta elettronica ordinaria.
Invero il coordinamento tra i due contenuti dell’art. 8 cit. è agevole, ancorché lo stesso avrebbe potuto essere formulato in termini maggiormente perspicui; cioè
il Disciplinare di gara, nel richiamare l’art. 76 d.lgs. n. 50 del 2016, vincola la stazione appaltante all’utilizzo della pec per le comunicazioni per le quali la norma del Codice preveda tale strumento in via esclusiva, con l’effetto che l’ulteriore previsione di alternatività tra pec e posta elettronica ordinaria vale solo per le comunicazioni diverse da quelle per le quali l’art. 76 d.lgs. n. 50 del 2016 impone l’uso della pec.
Tale lettura del sistema normativo comporta, quale ulteriore passaggio esegetico, la necessità di chiarire se la comunicazione di integrazione documentale in sede di soccorso istruttorio, di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016, rientri o meno tra quelle per le quali era necessario l’utilizzo in via esclusiva della pec, ovvero se tale richiesta di integrazione sia legittimamente comunicabile anche con mezzo diverso.
Ritiene il Collegio che
la risposta al quesito passi attraverso la corretta interpretazione dell’art. 76, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016, laddove l’utilizzo della pec è imposto con riferimento al “provvedimento che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento”. L’Amministrazione resistente sembra leggere la suddetta previsione normativa come riferita ai provvedimenti di esclusione in senso stretto, avendo infatti comunicato l’esclusione della concorrente dalla gara a mezzo pec e non utilizzando la casella di posta elettronica ordinaria, pur indicata da parte ricorrente nella domanda di partecipazione alla selezione.
Ritiene tuttavia il Collegio che la suddetta previsione normativa debba essere letta in termini più ampi, sì da comprendere cioè non solo i provvedimenti di esclusione in senso stretto, ma anche quegli atti che pongono a carico dei concorrenti degli incombenti il cui mancato rispetto comporta come sanzione l’esclusione dalla gara, parlando infatti la norma di provvedimento “che determina” l’esclusione, cioè il cui esito finale può essere l’esclusione dalla gara.
In tal quadro rientra dunque anche l’atto di cui all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016, con il quale la stazione appaltante assegna al concorrente un termine non superiore a dieci giorni perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie alla partecipazione alla gara, con la precisazione che “in caso di inutile decorso del termine di regolarizzazione, il concorrente è escluso dalla gara”.
Si tratta anche in questo caso, dunque, di un atto “che determina le esclusioni dalla procedura di affidamento”, cioè dotato di forte potenzialità lesiva per il concorrente, stante la perentorietà del termine che viene assegnato per la regolarizzazione, che cade nella disciplina del combinato disposto degli artt. 83, comma 9, e 76, comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016, e di cui quindi deve essere dato avviso ai concorrenti a mezzo pec.
Nel caso di specie, invece, come già chiarito, l’atto di soccorso istruttorio è stato comunicato a mezzo posta elettronica ordinaria, che non garantisce certezza in ordine al suo inoltro e recepimento, per cui non può dirsi maturata a decadenza a carico del concorrente, risultando quindi illegittima la disposta esclusione dalla gara.

VARITumore da telefonino, è malattia professionale.
L'Inail dovrà risarcire un ex dipendente della Telecom ammalatosi di neurinoma dell'acustico, un tumore benigno ma invalidante, causato dall'utilizzo prolungato del telefono cellulare.

Lo ha deciso, in primo grado, il TRIBUNALE di Ivrea con la sentenza 21.04.2017 n. 96, che riconosce il legame tra tumore cranico e uso del cellulare.
Il lavoratore per 15 anni, dal 1995 al 2010, ha utilizzato il telefono cellulare messogli a disposizione dall'azienda, anche per 3-4 ore al giorno. Fino a quando inizia ad avvertire disturbi a un orecchio che dopo ripetuti controlli medici risultano causati da un neurinoma dell'acustico, carcinoma benigno ma che necessita di essere asportato. L'intervento avviene nel 2011: i medici rimuovono il neurinoma, ma anche il nervo acustico, con la conseguente perdita di udito dall'orecchio destro.
Un danno biologico permanente del 23%, come stabilito dal giudice del lavoro Luca Fadda, che si è basato su una consulenza tecnica d'ufficio e ha condannato l'Inail a versare al lavoratore un vitalizio da malattia professionale, quantificabile in circa 500 euro al mese. «Con il caso deciso dal tribunale di Ivrea», hanno spiegato i legali della vittima Renato Ambrosio e Stefano Bertone, «è la prima volta che, fin dall'inizio, la giustizia italiana riconosce la piena plausibilità dell'effetto oncogeno delle onde elettromagnetiche dei cellulari. Effetto già riconosciuto sin dal 2011 dalla Iarc (International agency for research on cancer) che includeva le onde dei cellulari e dei cordless fra i possibili cancerogeni».
«A oggi non c'è un rapporto causa-effetto accertato che indichi che l'uso del telefono cellulare aumenta il rischio di cancro», ha però commentato Carmine Pinto, presidente dell'Aiom, l'associazione italiana di oncologia medica». «In 20 anni la letteratura scientifica non ha prodotto evidenze certe sulla correlazione tra cellulari e cancro, ci sono diversi studi contraddittori, non esaustivi». Il punto, ricorda l'oncologo, è che i cellulari emettono campi elettromagnetici a bassa frequenza, e «su questi campi non ci sono studi completi. Non ci sono prove che anche basse frequenze riescano a influire sui neuroni tanto da provocare un cancro cerebrale».
«Anche perché», conclude, «dal momento che l'irradiamento di questo tipo di campi è molto tenue, ci vogliono 30 anni per poter valutare in maniera attendibile i possibili effetti sul cervello» (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).

URBANISTICAL'arte sposta l'ambulante.
È legittimo il piano del commercio su area pubblica di un comune che, per riqualificare l'area vicino a un importante basilica, d'accordo con la soprintendenza per i beni architettonici, ha disposto il parziale spostamento di alcuni posteggi in altre aree del territorio comunale.

Questo è il principio espresso dal Consiglio di Stato, Sez. V, con la sentenza 19.04.2017 n. 1816 in materia di spostamento di un piano di commercio ambulante su area pubblica per la tutela dei centri storici delle città d'arte.
I giudici del consiglio di stato sostengono che la difesa di un centro storico non si può limitare alla conservazione della consistenza materiale, ma deve riguardare anche la qualità dell'ambiente (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).
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4.3. Osserva inoltre il Collegio che l’illegittimità degli atti impugnati in primo grado neppure può essere affermata in base all’invocata inclusione del mercato di San Lorenzo fra i ‘mercati storici’ e fra le ‘espressioni di identità culturale e collettiva’ di cui alle Convenzioni UNESCO per la salvaguardia del c.d. patrimonio culturale immateriale e la promozione delle diversità culturali adottate a Parigi il 03.11.2003 e il 20.10.2005: per meglio dire «espressioni di identità culturale collettiva», le quali, a norma dell’art. 7-bis del Codice dei beni culturali e del paesaggio, «sono assoggettabili alle disposizioni» di tutela e valorizzazione di quel Codice soltanto «qualora siano rappresentate da testimonianze materiali e sussistano i presupposti e le condizioni per l'applicabilità dell'articolo 10», cioè per la dichiarazione di bene culturale: il che qui non ricorre (è semmai il contesto monumentale ad avere tale qualifica, a muovere dalla basilica).
Il Comune appellato bene ha obiettato che la ratio della l. 20.02.2006, n. 77 è la protezione dei siti di interesse culturale, paesaggistico e ambientale, inseriti nella «lista del patrimonio mondiale» dell'UNESCO, al fine di preservarne l’unicità in quanto elementi di rilievo mondiale del patrimonio italiano e della sua rappresentazione a livello internazionale.
Ma la sufficiente ragione giuridica dei richiamati interventi non necessita di una siffatta, aggiuntiva, qualificazione internazionale e –come indica l’art. 52 del Codice– si riferisce alla coerenza attuale del commercio con un contesto, qui particolarmente significativo, del patrimonio culturale italiano.
La ratio dell’art. 52 non è quella di una mera conservazione della situazione esistente, ma quella di una valutazione in ragione delle trasformazioni che il commercio stesso, per sua natura, può presentare. Sicché non può ritenersi che l’operatività della norma debba limitarsi nella pura e semplice cristallizzazione (in modo –per così dire– ‘statico’) delle caratteristiche dei luoghi, specie quando per le dinamiche commerciali vengano a presentarsi evidenti e gravi profili di conseguito degrado, contrari alla conservazione dei valori da tutelare.
Al contrario, la salvaguardia dei siti in questione comporta interventi orientati al decoro urbano, cioè a preservare attivamente le caratteristiche essenziali dei luoghi.
Come già la giurisprudenza di questa Sezione ha precisato in un rilevante caso di postazioni di commercio ambulante nel centro storico di Roma, “
il decoro urbano non è una materia o un’attività ma una finalità immateriale dell’azione amministrativa, che corrisponde al valore insito in un apprezzabile livello di qualità complessiva della tenuta degli spazi pubblici, armonico e coerente con il contesto storico, perseguita mediante la selezione delle apposizioni materiali (es. dehor) e delle utilizzazioni, specie commerciali (art. 52 del Codice) ma non solo. A seconda del profilo e dello strumento, può essere frutto vuoi di tutela (e valorizzazione) del patrimonio culturale, vuoi di disciplina urbanistica o del commercio, vuoi della politiche comunali di concessioni di suolo pubblico: comunque in ragione delle competenze di legge” (Cons. Stato, V, 23.08.2016, n. 3861).
Un siffatto obiettivo può dalle amministrazioni competenti essere perseguito anche con riguardo alle trasformazioni negative che nel tempo subisce la dinamica, pur solo merceologica, del commercio ambulante, ove –ferme naturalmente le trasformazioni tecniche compatibili- giunga al punto da divenire incongrua con le concrete caratteristiche storico-artistiche e con la dignità culturale dei luoghi.
La previsione risponde a una finalità essenziale per la salvaguardia dei centri storici e delle città d’arte: la quale, per non restare claudicante perché incentrata sulla preservazione del solo elemento materiale, deve riguardare anche la dimensione immateriale e qualitativa. In questa si iscrivono appunto, per decoro urbano, la corrispondenza tra il contesto storico-artistico e la connotazione che nei fatti assume l’attività commerciale, su cui il provvedere, analiticamente o per congrue categorie, compete al Comune ex art. 52 cit. (mentre altre misure, di stretta tutela di beni culturali, competono senz’altro al solo Ministero: cfr. artt. 20, 12, 13 e 45 del Codice).
Alla luce di tali parametri, l’operato del Comune di Firenze (e con esso degli impugnati atti della Soprintendenza) risulta congruo, coerente e non viziato dai lamentati profili di abnormità ed irragionevolezza.
Il Comune ha rilevato che il Piano di gestione adottato ai sensi della l. n. 77 del 2006 ha previsto espresse misure di tutela per le tradizionali botteghe artigiane fiorentine, nonché per i negozi storici (cioè gli esercizi commerciali “che vantano una lunga tradizione di genere merceologico venduto nello stesso negozio o dell’attività ivi esercitata, ma anche la tipicità della produzione”).
Queste altre sono misure comunali volte a coniugare la salvaguardia di luoghi storici con la preservazione di attività economiche integrate da tempo immemorabile e che mantengono la corrispondente connotazione storica. Sicché la loro preservazione, lungi dal costituire un detrimento come nei casi cennati, continua ad esprimere un elemento delle caratteristiche tradizionali dell’apprezzabilità dei luoghi e del decoro urbano da attivamente perseguire.
In coerenza con l’art. 52 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, l’amministrazione comunale ha il compito non, riduttivamente, di attestarsi a una mera rilevazione economica; ma di vagliare l’attualità di un rapporto tra la realtà effettiva delle attività commerciali e il contesto di particolare pregio. Il fatto della presenza di attività commerciali risalenti non comporta la loro automatica congruenza con quel carattere dei luoghi: al contrario, occorre considerare la compatibilità –seppur con attenzione alla normale evoluzione tecnica– delle loro mutate caratteristiche rispetto a quello stesso ambiente.
Essendo questo il proporzionato e contestuale modo in cui inquadrare da parte del Comune la preservazione di attività economiche in àmbiti di carattere storico o monumentale, è evidente che tale salvaguardia non può favorire indistintamente qualunque attività economica, cioè anche quella che (ad es., per cessioni o per recente costituzione) si trovi ad operare in un sito storico offrendo ora in vendita merci che non hanno qualitativamente a vedere con la connotazione e il pregio storico del contesto.
Pertanto
è congruo e giustificato l’operato selettivo del Comune appellato il quale, per salvaguardare le caratteristiche di pregio dei siti UNESCO e in attuazione del Piano di gestione del giugno 2006, ha disposto l’istituzione di un albo degli esercizi commerciali, artigianali e alberghieri e dei pubblici esercizi, anche per commercio su area pubblica, che svolgono attività di rilevante valore artistico, storico, ambientale e documentario.
Risulta in atti che nessuna delle attività gestite dagli appellanti sia iscritta nel richiamato Albo (e, in particolare, che non vi risulti iscritto l’esercente nei cui confronti è stata resa la sentenza di questo Consiglio di Stato, V, 23.02.2015, n. 847, richiamata dagli appellanti con memoria 05.01.2017).

APPALTIBandi di gara e formulazione delle offerte. Clausole escludenti da impugnare subito.
Le clausole di un bando di gara escludenti la partecipazione devono essere immediatamente impugnate; le altre potenzialmente lesive devono essere impugnate al momento dell'aggiudicazione definitiva.

È quanto ha affermato il Consiglio di Stato, Sez. III, con la sentenza 18.04.2017 n. 1809 relativamente all'onere di tempestiva impugnazione delle clausole di atti di gare per l'affidamento di contratti pubblici.
La sentenza si pronuncia in merito all'impugnativa della clausola del bando di gara nella quale veniva precisato il criterio di calcolo delle offerte teso a premiare l'impresa concorrente che avrebbe offerto un ribasso maggiore sulla parte di fornitura che rappresentava il più alto impegno economico per l'amministrazione. I giudici ricostruiscono in termini generali le regole sull'impugnazione precisando che l'onere di impugnare immediatamente le previsioni della legge di gara non concerne solo quelle in senso classico «escludenti», che prevedono requisiti soggetti di partecipazione, ma anche le clausole afferenti alla formulazione dell'offerta, sia sul piano tecnico che economico, laddove esse rendano impossibile la presentazione di una offerta.
La sentenza ricorda quali siano le fattispecie che devono essere immediatamente oggetto di impugnativa, fra cui: le regole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale; le previsioni che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile; le disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell'offerta; le condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente.
Pertanto, dicono i giudici, le rimanenti tipologie di clausole «asseritamente ritenute lesive devono essere impugnate insieme con l'atto di approvazione della graduatoria definitiva». È quello il momento in cui viene definita la procedura concorsuale e identificato in concreto il soggetto leso dal provvedimento, così rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva e postulano la preventiva partecipazione alla gara (articolo ItaliaOggi del 28.04.2017).
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6.11. La previsione del disciplinare di gara infatti, proprio per il tenore della censura e indipendentemente dall’esito della gara, appariva immediatamente lesiva per la ricorrente, che proprio in base alla sua stessa prospettazione sarebbe stata costretta dalla legge di gara a formulare una offerta asseritamente illogica sul piano della convenienza economica oltre che, come deduce l’appellante (p. 20 del ricorso), asseritamente irragionevole e illogica, per la stessa stazione appaltante, anche rispetto al dichiarato intento di configurare a lotto unico indivisibile.
6.12. Occorre al riguardo rammentare, infatti, che
l’onere di impugnare immediatamente le previsioni della legge di gara non concerne solo quelle in senso classico “escludenti”, che prevedono requisiti soggetti di partecipazione (Ad. plen., 29.01.2003, n. 1), ma anche le clausole afferenti alla formulazione dell’offerta, sia sul piano tecnico che economico, laddove esse rendano (realmente) impossibile la presentazione di una offerta (v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 11.10.2016, n. 4180).
6.13.
La più recente giurisprudenza segue ormai fermamente tale linea interpretativa (Cons. St., sez. III, 02.02.2015, n. 491) e, nel tentativo di enucleare le ipotesi in cui tale evenienza può verificarsi, ha a più riprese puntualizzato che, tra le altre, tali sono:
   a)
le regole impositive, ai fini della partecipazione, di oneri manifestamente incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai contenuti della procedura concorsuale (v., in particolare, Cons. St., sez. IV, 07.11.2012, n. 5671);
   b)
le previsioni che rendano la partecipazione incongruamente difficoltosa o addirittura impossibile (così, del resto, la già citata pronuncia n. 1 del 29.01.2003 dell’Adunanza plenaria);
   c)
le disposizioni abnormi o irragionevoli che rendano impossibile il calcolo di convenienza tecnica ed economica ai fini della partecipazione alla gara ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli dei termini per la presentazione dell’offerta (cfr. Cons. St., sez. V, 24.02.2003, n. 980);
   d)
le condizioni negoziali che rendano il rapporto contrattuale eccessivamente oneroso e obiettivamente non conveniente (cfr. Cons. St., sez. V, 21.11.2011 n. 6135);
   e)
l’imposizione di obblighi contra ius (come, ad esempio, la cauzione definitiva pari all’intero importo dell’appalto: Cons. St., sez. II, 19.02.2003, n. 2222);
   f)
le gravi carenze nell’indicazione di dati essenziali per la formulazione dell’offerta (quelli relativi, exempli gratia, al numero, alle qualifiche, alle mansioni, ai livelli retributivi e all’anzianità del personale destinato ad essere assorbiti dall’aggiudicatario) ovvero la presenza di formule matematiche del tutto errate (come quelle per cui tutte le offerte conseguono comunque il punteggio di “0” punti);
   g)
gli atti di gara del tutto mancanti della prescritta indicazione nel bando di gara dei costi della sicurezza “non soggetti a ribasso (cfr. Cons. St., sez. III, 03.10.2011 n. 5421).
6.14.
Le rimanenti tipologie di clausole asseritamente ritenute lesive devono essere impugnate insieme con l’atto di approvazione della graduatoria definitiva, che definisce la procedura concorsuale ed identifica in concreto il soggetto leso dal provvedimento, rendendo attuale e concreta la lesione della situazione soggettiva (Cons. Stato, sez. V, 27.10.2014, n. 5282) e postulano la preventiva partecipazione alla gara.
6.15. Non occorre aggiungere altro per comprendere che l’odierna appellante avrebbe dovuto impugnare immediatamente, come il primo giudice ha rilevato in limine litis, la previsione qui contestata che rendeva, a suo dire, ragionevolmente impossibile la formulazione di un’offerta economica seria, ponderata, logica e coerente con il principio del prezzo complessivamente più basso.
6.16. Il non avere l’appellante stessa contestato specificamente il pur sintetico rilievo del TAR rende il motivo qui disaminato inammissibile per difetto di interesse, restando precluso al Collegio l’esame di esso nel merito.
7. In conclusione, per i motivi esposti, l’appello deve in parte dichiarato inammissibile e in parte deve essere respinto, secondo le ragioni sopra esposte, con piena conferma della sentenza impugnata.

APPALTIAggiudicazione provvisoria. Si può censurare solo se è illogica.
Il ritiro di una aggiudicazione provvisoria è censurabile davanti al giudice amministrativo soltanto in caso di manifesta illogicità o irrazionalità della scelta compiuta dalla stazione appaltante.

È quanto ha precisato il TAR Lombardia-Milano, Sez. IV, con la sentenza 18.04.2017 n. 900 che tratta degli effetti del ritiro, da parte di una stazione appaltante, una aggiudicazione provvisoria.
I giudici hanno ricostruito il quadro normativo vigente con riguardo all'articolo 33 del decreto 50/2016 che ha sostituito l'aggiudicazione provvisoria con la proposta di aggiudicazione, facendo seguito agli orientamenti giurisprudenziali formatisi sull'atto di aggiudicazione provvisoria che avevano circoscritto gli effetti di questa prima fase del procedimento di aggiudicazione del contratto.
I giudici hanno ricordato come anche in passato, prima del decreto 50, le sentenze avevano chiarito che l'aggiudicazione provvisoria, facendo nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso, non assume le caratteristiche di un provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura, un'efficacia destinata ad essere superata.
Da questo il Tar fa discendere che, ai fini del ritiro dell'aggiudicazione provvisoria, non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento né un particolare onere motivazionale. Infatti, la possibilità che all'aggiudicazione provvisoria della gara d'appalto non segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio. Diversamente, dopo l'aggiudicazione definitiva e prima della stipula del contratto, la revoca è pur sempre possibile, salvo un particolare e più aggravato onere motivazionale.
Pertanto il ritiro dell'aggiudicazione provvisoria può essere censurato, oltre che per violazione della norma di legge eventualmente invocata dalla stazione appaltante a fondamento della sua decisione, solo in caso di manifesta illogicità o irrazionalità della scelta amministrativa compiuta (articolo ItaliaOggi del 21.04.2017).
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3.1. Ebbene, il Collegio deve anzitutto rammentare che, con l’entrata in vigore del nuovo codice, l’aggiudicazione provvisoria è stata sostituita dalla “proposta di aggiudicazione”, di cui all’art. 33 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50: non di meno, in prima approssimazione, si possono richiamare gli orientamenti giurisprudenziali formatisi sull’atto di aggiudicazione provvisoria, cui si riferiva il previgente codice degli appalti.
3.2. Ciò vale anzitutto per la tesi, del tutto condivisibile, per cui
l’aggiudicazione provvisoria, facendo nascere in capo all'interessato solo una mera aspettativa alla definizione positiva del procedimento stesso, non è individuabile come provvedimento conclusivo della procedura di evidenza pubblica, avendo, per sua natura, un’efficacia destinata ad essere superata: per cui, ai fini della suo ritiro non vi è obbligo di avviso di avvio del procedimento (così, da ultimo C.d.S., III, 05.10.2016, n. 4107).
Così, nelle gare pubbliche, “
la possibilità che all'aggiudicazione provvisoria della gara d'appalto non segua quella definitiva è un evento del tutto fisiologico, disciplinato dagli artt. 11, comma 11, 12 e 48, d.lgs. 12.04.2006, n. 163, inidoneo di per sé a ingenerare qualunque affidamento tutelabile con conseguente obbligo risarcitorio” (C.d.S., V, 21.04.2016, n. 1600); per lo stesso motivo, “non è richiesto un particolare onere motivazionale a sostegno della revoca del procedimento, mentre dopo l'aggiudicazione definitiva e prima della stipula del contratto, la revoca è pur sempre possibile, salvo un particolare e più aggravato onere motivazionale” (TAR Lazio, II, 05.09.2016, n. 9543).
3.3.
Ne segue che il ritiro dell’aggiudicazione provvisoria può essere censurato, oltre che per violazione della norma di legge eventualmente invocata dalla Stazione appaltante a fondamento della sua decisione, soltanto in caso di manifesta illogicità o irrazionalità della scelta amministrativa compiuta: e ciò vale anche per il caso che tale decisione trovi il proprio fondamento, come nel caso, nel bando di gara, giacché è pur sempre la stessa aspettativa transitoria a chiedere tutela.
3.4.1. Ebbene, in specie, non è in questione che l’originaria lex specialis mancasse di quel secondo allegato 3, il quale è stato poi incluso nel nuovo disciplinare tecnico.
3.4.2. È poi condivisibile che una parte di tali elementi fosse desumibili dalle restanti disposizioni contenute negli allegati originari, per cui la loro migliore esposizione nel nuovo allegato 3 da sola non avrebbe ragionevolmente giustificato la rinnovazione della procedura; ma ciò non si può affermare per le quantità di reagenti da utilizzare nel servizio.
3.5. Non bisogna dimenticare che la gara de qua era al massimo ribasso, e ciò comporta che la prestazione richiesta debba essere esattamente delineata nel suo contenuto, non potendo la Stazione appaltante svolgere, durante la selezione, un giudizio qualitativo sulle offerte presentate.
3.6. Così, prestabilendo –secondo una scelta tecnica ampiamente discrezionale e di norma incesurabile- un quantitativo di reagente da impiegare nel servizio, si impone ragionevolmente un’adeguata soglia qualitativa del servizio stesso, rilevante sia nel momento della valutazione d’anomalia (ed è infatti in quel momento che, in specie, la Stazione appaltante si è resa conto dell’incompletezza dell’offerta) sia poi, durante l’esecuzione del contratto, per verificare, in corso d’opera, il reale utilizzo dei reagenti e, così, la qualità complessiva del servizio.
3.7. È dunque legittimo che l’Amministrazione, quando abbia originariamente omesso tale elemento, possa poi includervelo, previo ritiro e reiterazione della procedura, almeno finché manchi un’aggiudicazione definitiva: l’affermazione per cui lo scopo sarebbe stato quello di ampliare il numero dei partecipanti resta una mera insinuazione.
3.8. Accertata come legittima la decisione di ritiro, ad analoga conclusione si deve pervenire per la nuova procedura di gara, di cui resta irrilevante l’esito.

AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTIMinambiente in fuorigioco sui rifiuti. Tar Lazio.
È illegittimo il silenzio inadempimento ventennale del Ministero dell'ambiente in materia di assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani.

Il TAR Lazio-Roma - Sez. II-bis, con sentenza 13.04.2017 n. 4611, ha obbligato il ministero dell'ambiente ad adottare, entro un termine massimo di 120 giorni (dall'emissione sentenza), il decreto ministeriale atteso ormai dal lontano 1997 (ovvero dall'anno dell'entrata in vigore del cosiddetto «decreto Ronchi»).
Il fatto in concreto. Il dicastero del Ministero dell'ambiente, il Ministero dello sviluppo economico e il Comune di Reggio Emilia venivano chiamati in causa da un'azienda bolognese (operante nel settore rifiuti, attiva soprattutto sul fronte della raccolta e avvio a riciclo della carta da macero) che lamentava di essere gravemente danneggiata, in termini di ingiusta sottrazione di risorse e beni al mercato privato e di elevato versamento Tari, dalla eccessiva assimilazione dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani effettuata dalle amministrazioni comunali, a causa della mancanza di una regolamentazione ministeriale (prevista dall'articolo 195 del dlgs 152/2006, e prima ancora dall'articolo 18, 2° comma, lettera d, dlgs 5/1997 c.d. decreto Ronchi).
Il Tar Lazio ha accolto il ricorso sostenendo che «il Ministero dell'ambiente, pur tenuto ad adottare la regolamentazione suddetta, risulta non aver ancora completato l'iter relativo, avendo soltanto avviato le attività propedeutiche all'adozione del decreto in questione».
Cosa che «rende illegittima l'inerzia tenuta dallo stesso» e, per questo motivo, dovrà adottare «di concerto con il ministro dello Sviluppo economico il decreto che fissi i criteri per l'assimilabilità dei rifiuti speciali ai rifiuti urbani, nel termine di giorni 120» dalla data della sentenza.
Per la metà di agosto prossimo e dopo vent'anni di attesa, il regolamento potrebbe finalmente essere emanato (articolo ItaliaOggi del 28.04.2017).

EDILIZIA PRIVATA - VARINuovo ufficio. Il garage perde la sosta vietata.
Chi trasforma il garage in attività commerciale non può mantenere il cartello di divieto di sosta regolarmente autorizzato dal comune per consentire l'accesso e lo stazionamento dei veicoli all'interno del locale. Neppure se occasionalmente nello stesso manufatto vengono ricoverati dei motorini o delle biciclette.

Lo dice il TAR Toscana, Sez. III, con la sentenza 12.04.2017 n. 560.
Un cittadino ha trasformato una autorimessa in ufficio mantenendo attiva la vecchia concessione comunale per l'esercizio di un passo carraio. Contro la conseguente revoca della licenza attivata a seguito di un controllo della polizia municipale l'interessato ha proposto senza successo ricorso al Tribunale amministrativo locale.
Ai sensi del codice stradale il passo carrabile deve consentire l'accesso a un'area laterale idonea allo stazionamento e alla sosta dei veicoli. Quindi se un locale è utilizzato per fini commerciali diversi non risulta possibile attivare o mantenere un passo carrabile. Neppure se nelle ore serali gli stessi locali ad uso ufficio sono utilizzati per il rimessaggio occasionale di motorini o di velocipedi da parte degli operatori (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Sulla pergotenda.
La struttura costituita da due pali poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in pvc, ancorata al sovrastante balcone e munita di copertura rigida a riparo del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di tamponature verticali e della facile rimovibilità della copertura orizzontale: la stessa va pertanto qualificata come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.

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Il primo gruppo di censure è infondato.
È noto e condivisibile il consolidato orientamento della giurisprudenza sulle cosiddette pergotende (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 11.04.2014, n. 1777).
Per la giurisprudenza richiamata, la struttura costituita da due pali poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in pvc, ancorata al sovrastante balcone e munita di copertura rigida a riparo del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un aumento del volume e della superficie coperta, né la creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di tamponature verticali e della facile rimovibilità della copertura orizzontale: la stessa va pertanto qualificata come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione temporanea dello spazio esterno all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Diversamente, peraltro, deve essere valutato l’intervento realizzato dalla ricorrente, essendo stato accertato che, oltre alla pergotenda, identificabile nella struttura di sostegno della copertura ritraibile e nella copertura stessa, si è verificata la tamponatura dei tre lati originariamente aperti con policarbonato trasparente, oltre alla realizzazione di porte di accesso laterali.

Dall’esame complessivo dell’opera risulta insussistente il presupposto ravvisato dalla giurisprudenza amministrativa, oltre che dalla richiamata circolare di Roma Capitale, per la qualificazione della stessa come edilizia libera, perché le chiusure verticali e la presenza di porte di accesso, seppure in materiale leggero e facilmente amovibile, impediscono di considerare la stessa come un arredo esterno, funzionale alla fruizione temporanea del terrazzo, essendo, al contrario, riconoscibile una vera e propria opera di ristrutturazione edilizia, in quanto rivolta a modificare l’appartamento mediante la trasformazione del terrazzo in un ambiente tendenzialmente chiuso.
Ne derivano l’infondatezza delle censure e, nei limiti del dedotto, la legittimità dell’ordine di ripristino (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 11.04.2017 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego.
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1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in fatto.
2.– L’appello non è fondato.
3.– Con un primo motivo si afferma l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha avrebbe dichiarato l’inefficacia dell’ordine di demolizione a seguito della presentazione, da parte degli appellanti, in data 25.02.2003, di una domanda di accertamento di conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede che, in presenza di interventi, quali quelli di nuova costruzione, eseguita in assenza di un permesso di costruire, l’amministrazione deve ordinare la demolizione.
L’art. 36 dello stesso decreto che in presenza, tra l’altro, di tali abusi è possibile «ottenere il permesso in sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dello stesso, sia al momento della presentazione della domanda».
Il due procedimenti sono diversi e separati. La giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento che si condivide, ha affermato, infatti, che «l'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla legittimità della previa ordinanza di demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego» (Cons. Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466) (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto.
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1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in fatto.
2.– L’appello non è fondato.
...
4.– Con un secondo motivo si afferma l’erroneità della sentenza nella parte in cui non avrebbe ritenuto illegittimi gli atti impugnati per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento e per la mancata indicazione del responsabile del procedimento.
Il motivo non è fondato.
L’art. 7 della legge n. 241 del 1990 prevede che l’avvio del procedimento è comunicato, tra gli altri, ai soggetti «nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti». L’art. 8 dispone che con tale comunicazione deve essere indicato anche il nome del responsabile del procedimento.
L’art. 21-octies, secondo comma, secondo inciso, della stessa legge prevede che: «Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
Parte della giurisprudenza amministrativa, con orientamento che la Sezione condivide, assume che venendo in rilievo elementi conoscitivi nella disponibilità del privato, spetta a quest’ultimo indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che la parte ha adempiuto a questo onere l’amministrazione «sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato». La tesi opposta porrebbe a carico della p.a. una probatio diabolica «quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento» (Cons. Stato, sez. VI, 04.04.2015, n. 1060; Id., VI, 29.07.2008, n. 3786; id., V, 18.04.2012, n. 2257).
Nel settore dell’edilizia la giurisprudenza di questo Consiglio ha già avuto modo di affermare che: «l’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi del destinatario dell'atto» (Cons. Stato, sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
La parte non ha inoltre indicato alcun elemento probatorio rilevante atto a dimostrare, ai sensi dell’art. 21-ocites della legge n. 241 del 1990, che se avesse partecipazione al procedimento avrebbe inciso sul contenuto della determinazione finale (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAI presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente motivazione allorché la caducazione intervenga ad una notevole distanza di tempo.
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L’infedele prospettazione dello stato dei luoghi incide certamente sull’onere motivazionale dell’Amministrazione relativo alla comparazione tra interesse pubblico e privato e all’affidamento riposto dal richiedente sul mantenimento del manufatto, non potendo l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’Amministrazione procedente, (errore) determinato dallo stesso soggetto richiedente, ma pur sempre a condizione che l’Amministrazione descriva puntualmente l’infedele rappresentazione dei luoghi e motivi adeguatamente in ordine all’incidenza sostanziale della difformità tra quanto dichiarato e quanto esistente in ordine alla legittimità del titolo edilizio.
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7.2 - Il ricorso si palesa, invece, fondato in relazione al contestuale annullamento del pdc in variante.
Ed invero, secondo i principi giurisprudenziali enucleati dal Consiglio di Stato, poi sostanzialmente confluiti nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 (nel testo ratione temporis applicabile ovvero quello antecedente alle novelle del 2014 e 2015), “i presupposti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente motivazione allorché la caducazione intervenga ad una notevole distanza di tempo (cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 27/11/2010 n. 8291; Sez. IV, n. 2885 del 2016; Sez. IV, n. 2908 del 2016)” - così, da ultimo, Consiglio di stato, sez. IV, sent. 25/01/2017 n. 293.
Dunque, l’illegittimità originaria del provvedimento (che, in disparte il caso di vizi meramente procedurali, in materia urbanistica si traduce nel contrasto del titolo con gli strumenti urbanistici e la normativa edilizia vigenti) è pur sempre un indefettibile presupposto per l’annullamento in autotutela, che –nel caso di specie– difetta o del quale, comunque, il Comune ha omesso di dare conto nell’atto gravato.
L’infedele prospettazione dello stato dei luoghi, in altri termini, incide certamente sull’onere motivazionale dell’Amministrazione relativo alla comparazione tra interesse pubblico e privato e all’affidamento riposto dal richiedente sul mantenimento del manufatto, non potendo l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore dell’Amministrazione procedente (ex multis, Consiglio di Stato, IV, 24.12.2008, n. 6554; Consiglio di Stato, V, 08.11.2012, n. 5691; TAR Puglia, Lecce, III, 21.02.2005, n. 686, TAR Campania, Napoli, VIII, 19.05.2015, n. 2791), (errore) determinato dallo stesso soggetto richiedente, ma pur sempre a condizione che l’Amministrazione descriva puntualmente l’infedele rappresentazione dei luoghi e motivi adeguatamente in ordine all’incidenza sostanziale della difformità tra quanto dichiarato e quanto esistente in ordine alla legittimità del titolo edilizio.
Per quanto innanzi detto, l’atto gravato –limitatamente al disposto annullamento del pdc in variante n. 167/2008- va annullato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell’Amministrazione (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 10.04.2017 n. 380 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Paletti al rito superveloce. Tar Puglia.
Il Comune non può pretendere l'applicazione del rito superaccelerato al ricorso di chi impugna l'aggiudicazione dell'appalto se non ha pubblicato l'elenco delle aziende ammesse alla procedura nella sezione ad hoc «amministrazione trasparente» prevista dal decreto legislativo 33/2013. È dunque tempestivo l'atto introduttivo del giudizio depositato dall'impresa esclusa entro 30 giorni dalla Pec con cui la stazione appaltante rende noto l'affidamento dei lavori insieme con l'elenco delle aziende che hanno partecipato all'iter.

È quanto emerge dalla
sentenza 05.04.2017 n. 340, pubblicata dalla III Sez. del TAR Puglia-Bari.
Principio di effettività
Infondata l'eccezione di irricevibilità per tardività sollevata dal Comune benché la graduatoria della gara sia stata pubblicata il 9 agosto scorso mentre risulta notificato soltanto il 16 novembre il ricorso proposto contro la mancata esclusione dell'Ati aggiudicataria. Il punto è che la graduatoria compare nell'albo pretorio della provincia, in quanto profilo committente della stazione appaltante, ma non nella sezione amministrazione trasparente come richiede l'articolo 29 del nuovo codice degli appalti pubblici, che richiama il decreto trasparenza sull'attività delle pubbliche amministrazioni: è la stessa difesa dell'ente locale ad ammetterlo durante la discussione.
E d'altronde neanche il bando di gara risulta più chiaro: si limita a rinviare al sito Internet della stazione unica appaltante che nella sezione «bandi e gare» contiene solo regolamenti e moduli. Il tutto mentre la giurisprudenza delle Corte Ue condanna per violazione del principio di effettività le leggi nazionali che richiedono ricorsi sprint senza che la parte privata abbia una completa conoscenza degli atti. Il ricorso dell'azienda è rigettato nel merito ma le spese di giudizio sono comunque compensate per la novità della questione (articolo ItaliaOggi del 12.05.2017).

PUBBLICO IMPIEGOPot Entrate, il Tar è incompetente.
Sulla legittimità delle posizioni organizzative temporali (Pot) dell'Agenzia delle entrate è competente il giudice del lavoro.

Con queste motivazioni il TAR Lazio-Roma ha respinto il ricorso presentato da Dirpubblica invitando l'associazione a riassumere la causa davanti alla giurisdizione competente entro tre mesi dalla data della sentenza 30.03.207 n. 4049.
Per il Tar Lazio con gli atti impugnati da Dirpubblica, l'Agenzia delle entrate ha attribuito mere responsabilità gestionali. Per queste ragioni il collegio ritiene, conformandosi a giurisprudenza consolidata, che la questione di selezione interna per titoli tra pubblici dipendente avviata per attribuzione temporanea di mansioni superiori, appartenga alla giurisdizione del giudice ordinario, in quanto non incide sulla posizione di ruolo dei concorrenti, che rimane immutata.
Non c'è insomma per il giudice amministrativo un mutamento di profilo professionale ma solo di una implementazione di compiti per cui il giudice adito dovrà essere quello del lavoro (articolo ItaliaOggi dell'01.04.2017).
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MASSIMA
Il complesso gravame tende a revocare in dubbio la legittimità, amministrativa e costituzionale, delle disposizioni con le quali le Agenzie fiscali hanno provveduto ad assegnare -in via temporanea, da ultimo fino al 30.09.2017, e comunque nelle more dell’espletamento del concorso pubblico per la copertura dei posti dirigenziali vacanti (concorso non ancora indetto)- incarichi ai propri funzionari privi di livello dirigenziale consistenti nella delega alla firma di atti tributari e relative funzioni che non siano quelle riservate esclusivamente per legge ai dirigenti, con attribuzione ai medesimi di posizioni organizzative speciali e senza previa indizione del concorso pubblico.
In questi termini perimetrata la causa petendi, il ricorso deve ritenersi inammissibile per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.
Ed invero, il ricorso in esame in quanto volto a contestare l’attribuzione delle posizioni organizzative speciali strumentali al conferimento delle deleghe di firma di atti tributari con relative funzioni presupposte integra una vicenda che rientra nella giurisdizione del Giudice Ordinario.
Come già ha avuto modo di rilevare questo Tribunale con riguardo ad una vicenda parzialmente simile decisa inter partes con sentenza n. 11005/2016, nel caso di specie vengono in considerazione atti ricompresi tra le determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs. n.165 del 2001 di fronte ai quali sussistono posizioni di diritti soggettivi.
Tanto si evince dalla circostanza che con gli atti impugnati l’Agenzia delle Entrate ha attribuito mere “responsabilità gestionali connesse all’esercizio delle deleghe” con attribuzione di “posizioni organizzative temporanee” e relativo trattamento economico, da conferirsi ad interim previa procedura selettiva interna, con valutazione comparata dei curricula degli interessati e colloquio di approfondimento, che non implica una “progressione verticale” rientrante nella materia dei concorsi pubblici.
Più in particolare, vengono all’esame nell’odierna controversia atti con i quali si intende conferire una posizione organizzativa sulla base di deleghe all’esercizio di funzioni gestionali; il concetto di procedura concorsuale —riservata, ai sensi dell'art. 63, comma 4, d.lgS. n. 165 del 2001, alla giurisdizione del Giudice Amministrativo— evoca una procedura caratterizzata dalla valutazione dei candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria: ne sono escluse, pertanto, non solo le assunzioni che non sono basate su di una logica selettiva, ma soprattutto le procedure che si sostanziano (come nella fattispecie) in una mera verifica di idoneità di determinati soggetti, già inseriti nell'ambito dell'Amministrazione di riferimento.
Il Collegio ritiene, sulla scorta di una consolidata giurisprudenza (v. Tar Campobasso, sez. I, 16/07/2013, n. 487; in termini: TAR Puglia–Lecce n. 290 del 16.02.2016; Tar Lazio, sez. III, n. 11005/2016; ordinanza Tar Lazio, sez. II, n. 3702/2016 del 07.07.2016) che
appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la selezione interna per titoli fra pubblici dipendenti avviata non per la nomina a un posto o per la progressione verticale o per la promozione in un'area organizzativa diversa, bensì per l'attribuzione temporanea di superiori mansioni (quale appare profilarsi nella fattispecie), sicché essa non consiste in un concorso pubblico propriamente inteso né in un concorso interno per la progressione verticale, non incidendo sulla posizione di ruolo dei concorrenti, che rimane immutata.
Va soggiunto, che al vaglio di questo TAR non sono stati sottoposti atti c.d. di macro-organizzazione, ossia volti a ridefinire le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, trattandosi piuttosto di atti volti a sopperire a temporanee esigenze funzionali degli uffici mediante Linee guida preordinate alla individuazione dei funzionari interni alla struttura cui attribuire, in via provvisoria e per assicurare la continuità dell’azione amministrativa, talune responsabilità gestionali da conferire secondo criteri organizzativi propri del datore di lavoro privato.
I provvedimenti oggetto di gravame, pertanto, non sono idonei a derogare alla regola che vuole la giurisdizione ordinaria estesa ad ogni aspetto del rapporto di lavoro contrattualizzato.
A conferma di tanto, occorre soggiungere che la ricorrente, sia nell’atto introduttivo che nei motivi aggiunti, ha più volte precisato a motivo dell’asserita illegittimità degli atti impugnati l’assenza della procedura concorsuale che l’intimata Amministrazione avrebbe dovuto indire; unica materia che, ai sensi dell’art. 63, comma 4°, del decreto legislativo n. 165 del 2001, sarebbe residuata alla giurisdizione di questo TAR.
L’inapplicabilità di tale ultima disposizione è confermata dal fatto che il conferimento delle deleghe alla firma di atti tributari e delle pedisseque posizioni organizzative speciali ad interim di cui qui si tratta, non comporta un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né determina un mutamento di area, ma comporta soltanto un’implementazione di compiti connessi all’esercizio di deleghe di funzioni riferite a uffici aventi natura dirigenziale alla quale si correla una indennità di posizione e di risultato e non anche una variazione del trattamento economico in godimento.
Dalle considerazioni che precedono ne consegue che la controversia oggi in decisione rientra nell’alveo della giurisdizione del Giudice Ordinario, in funzione di Giudice del lavoro.
Va, pertanto, declinata la giurisdizione del Giudice Amministrativo in favore di quella del Giudice Ordinario, davanti al quale il giudizio andrà riassunto, ai sensi dell’art. 11, comma II c.p.a., entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente sentenza, salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda, e ferme restando le preclusioni e le decadenze eventualmente intervenute.

APPALTI SERVIZI: Un freno all'avvalimento nella scelta del socio. Non si può applicare l'avvalimento nelle gare indette per la selezione del socio privato della società mista a cui è affidato il servizio pubblico.
Lo dice il TAR Abruzzo-L'Aquila con la sentenza 30.03.2017 n. 152.
Il principio ha come sfondo la tematica dell'utilizzo da parte del Comune del modello gestionale operativo della società mista.
Alla base di questo partenariato pubblico-privato vi è l'esigenza di creare un'organizzazione comune con un soggetto privato appositamente selezionato, al fine di dotarsi del patrimonio di esperienza, composto di conoscenze tecniche e scientifiche, maturate dal privato, il quale deve contribuire all'arricchimento del «know how» pubblico e ad alleggerire gli oneri gestionali del Comune.
Quindi, se il privato, al fine di aggiudicarsi un contratto pubblico, ha bisogno di avvalersi dell'esperienza e dei requisiti tecnico-organizzativi di un altro soggetto (c.d. ausiliario), perché non li possiede, ciò vuol dire che non sarà in condizione di fornire alcun «know how» alla pubblica amministrazione.
Né tale «know how» potrà essere apportato dall'impresa ausiliaria, la quale non è una concorrente né diventa parte del contratto di società stipulato con l'ente locale. Il collegio ha concluso dichiarando che bene ha fatto l'ente territoriale a richiedere nel bando il possesso dei requisiti di capacità, tecnica e organizzativa in capo all'aspirante socio in proprio e di non consentire la partecipazione a soggetti non singolarmente in possesso di detti requisiti (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2017).
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MASSIMA
7.- Con l’ultimo motivo di ricorso è dedotta l’illegittimità del bando di gara, nella parte in cui (punto 9.3) vieta l’istituto dell’avvalimento, in violazione dei principi comunitari in tema di favor partecipationis, nonché per violazione e falsa applicazione degli articoli 30 e 89 del d.lgs. 50/2016 e degli articoli 1 e 17 del d.lgs. n. 175/2016.
Il motivo è infondato.
7.1.- Alla luce di un’interpretazione coordinata delle disposizioni del nuovo codice dei contratti pubblici,
deve ritenersi esclusa la possibilità di applicare l’istituto dell’avvalimento alle gare, come quella in esame, indette ai sensi dell’art. 179 del d.lgs. 50/2016 nell’ambito del partenariato pubblico privato, quale quella indetta per la selezione del socio operativo della società mista affidataria del servizio pubblico.
Dal combinato disposto dell’art. 179, commi 1 e 2, del d.lgs. 80/2016 e art. 164, comma 2, del d.lgs. 50/2016, al quale rinvia l’art. 179, comma 2 citato, si desume che prevede che alle procedure di affidamento disposte nell’ambito del partenariato pubblico privato si applicano:
- “in quanto compatibili”, le disposizioni di cui alla parte I, III, V e VI e della parte II, limitatamente al titolo I;
- le disposizioni contenute nella parte I e nella parte II, del presente codice limitatamente ai “principi generali, alle esclusioni, alle modalità e alle procedure di affidamento, alle modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, ai requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, ai criteri di aggiudicazione, alle modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, ai requisiti di qualificazione degli operatori economici, ai termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, alle modalità di esecuzione” (art. 164, comma 2, del d.lgs. 50/2016, richiamato dall’art. 179, comma 2, dello stesso decreto legislativo).
Dalla lettura della norma emerge che, mentre il richiamo della parte I, III, V e VI e alla parte II, titolo I, costituisce un rinvio interno “aperto” ovvero a tutte le disposizioni in tali parti e titoli contenute, fatta salva la compatibilità delle stesse con la disciplina del partenariato pubblico privato, invece, il richiamo alla parte I e alla parte II costituisce un rinvio interno “chiuso” ovvero circoscritto ad un elenco tassativo di ipotesi.
Orbene,
l’art. 89 del d.lgs. n. 50/2016, che disciplina l’avvalimento, è collocato nella parte II, titolo III, e, ancorché tale titolo sia denominato “Procedura di affidamento”, l’istituto in questione non è annoverabile in alcuno degli ambiti disciplinari nominativamente elencati, non potendo farsi rientrare né tra le “modalità” di affidamento né tra le “procedure di affidamentostrictu sensu intese, né tra i “requisiti generali e speciali”, trattandosi di un istituto che soccorre alla carenza dei requisiti tecnici, organizzativi e finanziari da parte di un concorrente.
L’esclusione dell’avvalimento nelle gare indette per la selezione del socio privato della società mista trova conferma anche dall’esame della specifica disciplina delle società miste, contenuta nell’art. 17, comma 2, del d.lgs. 175/2016, ai sensi del quale è il socio privato che “deve possedere i requisiti di qualificazione” in relazione alle prestazioni per cui la società è stata costituita.

8.3.- D’altra parte, la decisione del Comune di Teramo di vietare l’avvalimento, è compatibile con il modello organizzativo, prescelto a monte, per la gestione del servizio pubblico di igiene ambientale e degli altri servizi e lavori accessori.
Invero,
il partenariato pubblico-privato costituisce una modalità organizzativa di tipo istituzionalizzato (termine utilizzato dalla Commissione europea nel “Libro verde” presentata il 30.04.2004), alternativa alla gestione in economia e alla completa esternalizzazione della gestione delle funzioni e dei servizi pubblici, che trova espressione nel principio di libera organizzazione, sancito dall’art. 2 della direttiva n. 2014/23/UE. Secondo tale principio “le autorità nazionali, regionali e locali possono liberamente organizzare l'esecuzione dei propri lavori o la prestazione dei propri servizi in conformità del diritto nazionale e dell'Unione” e “sono libere di decidere il modo migliore per gestire l'esecuzione dei lavori e la prestazione dei servizi per garantire in particolare un elevato livello di qualità, sicurezza e accessibilità, la parità di trattamento e la promozione dell'accesso universale e dei diritti dell'utenza nei servizi pubblici”.
Dunque,
la scelta dell’ente locale di adottare il modello organizzativo del partenariato pubblico-privato per la gestione di determinati servizi pubblici si realizza con la costituzione di una società, partecipata congiuntamente dal partner pubblico e dal partner privato.
La società mista, a differenza della esternalizzazione del servizio ad operatori economici estranei alla pubblica amministrazione, realizza una collaborazione stabile e di lunga durata tra la pubblica amministrazione ed il privato, attraverso l’istituzione di un’organizzazione comune con la “missione” di assicurare determinati servizi (e/o funzioni e/o opere) in favore della comunità locale.

Alla base della decisione della pubblica amministrazione di optare per il modello gestionale della società mista (oggi disciplinato dal d.lgs. 19.08.2016, n. 175, che ha consolidato una serie di norme contenute in frammentarie disposizioni legislative e ha codificato i principi elaborati dalla giurisprudenza) vi è, infatti, l’esigenza di creare un’organizzazione comune con un soggetto privato appositamente selezionato, al fine di dotarsi del patrimonio di esperienza, composto di conoscenze tecniche e scientifiche, maturate dal privato, il quale, con il proprio apporto organizzativo e gestionale, dovrà contribuire all’arricchimento del “Know how” pubblico, e, con il proprio apporto finanziario, ad alleggerire gli oneri economico finanziari che l’ente territoriale deve sopportare la gestione dei servizi pubblici.
Tale esigenza, nella specie, è manifestata dal Comune di Teramo all’art. 4.3 del bando, che richiede ai concorrenti di “presentare una proposta di piano industriale per la TE. Am. S.p.a., apportando il proprio Know how tecnico, gestionale, organizzativo nel settore del servizio di igiene ambientale, nonché la propria capacità tecnica manageriale per il migliore conseguimento degli obiettivi di crescita e sviluppo della società”. In particolare, il bando richiede che la proposta di piano industriale “dovrà essere indirizzata al concreto miglioramento dell’efficienza e dell’economicità aziendale, anche attraverso interventi di integrazione organizzativa/gestionale, inerenti le attività specifiche di trattamento finalizzato al recupero e/o alla valorizzazione dei rifiuti ivi compreso lo smaltimento degli stessi”.
Orbene,
se il privato, al fine di aggiudicarsi un contratto pubblico, ha la necessità di avvalersi dell’esperienza e dei requisiti tecnico-organizzativi di un altro soggetto (c.d. ausiliario nel contratto di avvalimento), perché non li possiede, non potrà evidentemente apportare alcun “Know how” alla pubblica amministrazione. Né tale “Know how” potrà essere apportato dall’impresa ausiliaria, la quale non è una concorrente né diventa parte del contratto di società stipulato con l’ente locale.
Ne deriva, alla luce delle considerazioni svolte, la legittimità, della volontà negoziale dell’ente locale, espressa nel bando di gara, di richiedere il possesso dei requisiti di capacità, tecnica e organizzativa in capo all’aspirante socio in proprio e di non consentire la partecipazione a soggetti non singolarmente in possesso di detti requisiti.

LAVORI PUBBLICIPartenariato, Cds chiede formazione doc nella p.a..
Via libera alle linee guida Anac sul partenariato pubblico privato (Ppp), ma con adeguata formazione nelle p.a..

È il contenuto principale del parere 29.03.2017 n. 775 favorevole con osservazioni (Parere sullo schema di linee guida recanti “Monitoraggio delle amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore economico nei contratti di partenariato pubblico privato”) reso ieri dal Consiglio di Stato. I giudici premettono che si tratta di linee guida che, dal punto di vista giuridico, hanno in realtà una duplice natura.
Sono non vincolanti quanto al contenuto della parte prima (analisi e allocazione dei rischi) e invece vincolanti quanto alla parte seconda (monitoraggio dell'attività dell'operatore economico). Si sottolinea come sia opportuno che le linee guida forniscano alle amministrazioni aggiudicatrici le opportune indicazioni per assicurare una adeguata selezione e formazione dei funzionari pubblici che dovranno concretamente implementare le linee guida.
Si evidenzia poi che la necessità di produrre nell'offerta un piano economico-finanziario asseverato è previsto dall'art. 183 (finanza di progetto), ma non dall'articolo 181 (Ppp) invitando l'Anac a rivedere la richiesta di asseverazione (articolo ItaliaOggi del 30.03.2017).

ENTI LOCALI - VARISono legittime benedizioni in aula.
Impartire benedizioni religiose in classe (purché al di fuori delle lezioni e «facoltative») è legittimo.

Il Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.03.2017 n. 1388, ha accolto il ricorso del ministero dell'Istruzione e ribaltato la decisione del Tar Emilia Romagna, che aveva annullato la delibera con cui un consiglio di istituto di Bologna aveva consentito lo svolgimento del rito nelle aule nel 2015.
Secondo la VI sezione di palazzo Spada le benedizioni non incidono sulla vita scolastica, «non diversamente dalle diverse attività parascolastiche che» possono essere «programmate, o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole, anche senza una formale delibera»; inoltre, «per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un'attività una valenza negativa tale da renderla vietata, o intollerabile», soltanto perché «espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima».
Del resto, la Costituzione, all'articolo 20, pone, hanno puntualizzato i magistrati amministrativi, «un divieto di trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali». All'origine della vicenda il ricorso depositato da alcuni insegnanti e genitori di un istituto bolognese e dal comitato «Scuola e costituzione», ai quali, in primo grado, il Tar aveva dato ragione, nel 2016, motivando la scelta con il fatto che la scuola non potesse essere coinvolta in un rito attinente unicamente alla sfera individuale di ciascuno.
Il Consiglio di stato, però, ha adesso capovolto il giudizio, affermando che le benedizioni non condizionano «in alcun modo lo svolgimento della didattica». Una delle docenti ricorrenti ha già annunciato che ora ci si appellerà alla Corte di giustizia europea (articolo ItaliaOggi del 28.03.2017).

APPALTI SERVIZISettori speciali, revisione prezzi alla giustizia Ue. Verificare se è legittimo non applicarla.
Verificare se sia legittima l'inapplicabilità della revisione prezzi negli appalti dei settori speciali.

È quanto ha chiesto alla Corte di giustizia europea il Consiglio di Stato, Sez. IV, con l'ordinanza 22.03.2017 n. 1297 in merito all'esclusione dell'istituto della revisione prezzi nell'ambito dei contratti aggiudicati nei cosiddetti settori speciali (energia, acqua e trasporti).
La fattispecie oggetto di esame del collegio giudicante riguardava un contratto di servizi affidato da parte della Rfi, Rete ferroviaria italiana spa, per il quale era stata avanzata una richiesta di adeguamento revisionale del corrispettivo d'appalto, respinta dalla stazione appaltante; in primo grado era stata confermata la legittimità dell'operato di Rfi mentre il Consiglio di stato ha scelto la strada del rinvio della questione alla Corte europea per valutare la conformità dell'interpretazione del giudice di prime cure.
La questione viene posta in relazione ai principi del Trattato, all'articolo 16 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e alla direttiva n. 17/2004 per sapere se l'interpretazione del diritto interno che escluda la revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai cosiddetti settori speciali, con particolare riguardo a quelli con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la stessa direttiva, ma legati a questi ultimi da un nesso di strumentalità sia legittimo.
Inoltre, i giudici hanno chiesto se la direttiva n. 17/2004 (ove si ritenga che l'esclusione della revisione dei prezzi in tutti i contratti stipulati e applicati nell'ambito dei cosiddetti settori speciali discenda direttamente da essa), sia conforme ai principi dell'Unione europea (in particolare, agli articoli 3, co. 1 Tue, 26, 56/58 e 101 TfUe, art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), «per l'ingiustizia, la sproporzionatezza, l'alterazione dell'equilibrio contrattuale e, pertanto, delle regole di un mercato efficiente».
Una questione di particolare rilievo che potrebbe avere ripercussioni sull'intero sistema semplificato che caratterizza il regime in cui operano i settori speciali (articolo ItaliaOggi del 31.03.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Casa galleggiante sul Tevere, serve il permesso di costruire. Chi vuole realizzare il sogno di avere una casa sul fiume deve ottenere il permesso di costruire perché non basta la sola concessione.
Per la Corte di Cassazione (Sez. III penale, sentenza 15.03.2017 n. 12387) i cosiddetti fiumaroli che seguono la moda della casa galleggiante, senza essersi prima messi in regola con il testo unico sull'edilizia (Dpr 380/2001) commettono il reato di abuso edilizio.
La vicenda
Partendo da questa premessa respinge il ricorso dell'imputato, un architetto-imprenditore, che aveva realizzato sul Tevere, e dunque in una zona sottoposta a vincolo paesaggistico, un edificio galleggiante di due piani, composto da otto appartamenti e vari terrazzi in forza di una concessione e di un parere tecnico della Ausl ma senza il permesso di costruire.
Secondo il proprietario della houseboat infatti, i galleggianti che stazionano sul biondo fiume della città eterna sarebbero sottratti alla disciplina urbanistica, anche quando come nel suo caso, c'era stato un cambio di destinazione da attività ricreativa ad abitazione. In subordine invocava il riconoscimento della sua buona fede, considerando le autorizzazioni già ottenute dalla pubblica amministrazione e l'oggettiva difficoltà di interpretare la legge sul punto.
La decisione
La Cassazione non è d'accordo. I via libera ricevuti, per lo più riferiti ad aspetti prettamente idraulici, avevano lasciato impregiudicata la necessità di ulteriori permessi e fatto salve altre disposizioni vigenti. Inoltre l'imputato aveva il dovere, anche “rafforzato” in virtù della sua doppia qualifica di architetto e imprenditore, di contattare gli uffici comunali per avere chiarimenti sugli atti amministrativi. Spiegazioni che intanto fornisce la Suprema corte.
Per la Cassazione le caratteristiche qualificavano la casa galleggiante come intervento di nuova costruzione (Dpr 380/2001) perché comportavano una trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. L'abitazione sul fiume rientrava tra le opere definite, a titolo di esempio dalla norma (articolo 3, comma 1, lettera e5) e in particolare, tra le «strutture o imbarcazioni utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini o simili non diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee». I giudici della terza sezione penale sottolineano che la necessità del permesso di costruire per le strutture galleggianti ancorate alle sponde del Tevere è stata riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa, in casi analoghi.
Anche i fondali subacquei, infatti, vanno considerati come suolo, in questo caso demaniale e le strutture stabilmente installate sull'acqua sono assoggettabili al testo unico sull'edilizia (articoli 3, 10 e 35). Il principio dettato dalla Cassazione non vale soltanto per chi sul fiume vuole vivere ma anche per chi crea un luogo di lavoro: ristoranti, ritrovi, depositi, magazzini, studi ecc. Per tutti c'è bisogno del permesso di costruire a meno che le strutture non siano destinate a soddisfare delle esigenze in un tempo limitato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 16.03.2017).

VARILa multa degli altri è segreta. Tar Molise.
Chi viene sanzionato per divieto di sosta può chiedere al comando di polizia locale di conoscere quanti veicoli sono stati multati in quella determinata situazione. Ma non certo di avere accesso indiscriminato ai verbali dei colleghi trasgressori.

Così il TAR Molise, Sez. I, sentenza 15.03.2017 n. 81.
Un conducente ha lasciato inavvertitamente il proprio veicolo in sosta vietata durante la sagra di Ferragosto e per questo è stato multato dai vigili. Ha poi chiesto al comune informazioni sul numero dei verbali elevati nella medesima circostanza. Nonostante la risposta del comando di polizia locale l'interessato ha proposto doglianze al collegio che ha rigettato le censure. In particolare circa la possibilità di ottenere copia integrale di tutti i verbali elevati dai vigili.
È infatti discutibile che un comune debba rilasciare informazioni di questo tipo, specifica il collegio. È sufficiente comunicare quante infrazioni sono state accertate in quella determinata situazione dal comando di polizia locale. Non rilasciare copia degli altri atti sanzionatori (articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2017).

APPALTIDitta in doppia veste, no all'esclusione automatica.
Nelle gare sotto soglia regolate dal nuovo codice dei contratti, è illegittima l'esclusione automatica della ditta in lizza sia come concorrente sia come subappaltatrice.

Lo afferma il TAR Piemonte, Sez. II, con la sentenza 08.03.2017 n. 328.
La stazione appaltante aveva estromesso la società in quanto la compresenza nello stesso soggetto del ruolo di partecipante e di subappaltatore alterava la competizione. Ciò aveva indotto la pubblica amministrazione a liberarsi della concorrente in base all'art. 80, comma 5, lett. m), del decreto legislativo 50/2016 che fa riferimento a situazioni di controllo o comunque ad offerte imputabili ad un unico centro decisionale.
Il collegio ha dato ragione al privato rilevando che la legge di gara, pur imponendo l'indicazione dei subappaltatori, non prevedeva un divieto per lo stesso soggetto di concorrere in più vesti. Né ciò è vietato dalla legge, in analogia a quanto invece disposto, ad esempio, per gli ausiliari o i componenti il raggruppamento temporaneo di imprese.
In definitiva la presenza del medesimo soggetto nell'ambito di più offerte può costituire mero sintomo di collegamento tra le offerte e di dubbia trasparenza delle stesse ma, quale mero indizio, va verificato nel contraddittorio delle parti (articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017).

APPALTI SERVIZI: Ok alla consegna anticipata del servizio.
Legittima la consegna anticipata del servizio anche se il contratto d'appalto non è ancora efficace. Possibile? Sì, se il servizio risulta essenziale e il Comune ad esempio è alle prese con la necessità liberare dalla neve le strade cittadine: in casi di urgenza è l'articolo 32, comma 13, del nuovo codice dei contratti pubblici che consente alla stazione appaltante di stringere i tempi.

È quanto emerge dalla sentenza 07.03.2017 n. 209, pubblicata dalla II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Interesse pubblico
Non conta che il provvedimento dell'amministrazione sia adottato in pendenza del periodo di stand still, la classica clausola dei contratti che impedisce alle parti di avere rapporti con terzi mentre è in corso l'accordo fra loro.
Fa un buco nell'acqua il consorzio agrario che contesta l'esecuzione anticipata decisa dal Comune per lo sgombero della neve e il trattamento antigelo sul territorio.
È vero: l'esecuzione può avere inizio soltanto quando il contratto risulta efficace, ma la stazione appaltante può ottenere la consegna del servizio prima del tempo per evitare pericoli a persone o cose.
Altrettanto vale quando si tratta di tutelare l'igiene e la salute pubblica ma anche per il patrimonio storico, artistico e culturale dell'area. Insomma: la stazione appaltante ha diritto alla prestazione immediata quando un ulteriore ritardo può danneggiare l'interesse pubblico sotteso alla gara, compresa l'ipotesi in cui l'amministrazione rischia di perdere finanziamenti europei.
E in ogni caso l'aggiudicazione inefficace della gara è tutt'altro che inesistente: risulta solo sospesa (articolo ItaliaOggi Sette del 18.04.2017).
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MASSIMA
6. Con i motivi aggiunti parte ricorrente contesta la consegna anticipata del servizio in via d’urgenza, lamentando innanzitutto, con il primo di detti motivi, che con tale consegna anticipata sarebbe stata pretermessa la fase delle verifiche, al cui esito è condizionata l’efficacia dell’aggiudicazione (come si è già detto nel paragrafo 2).
Il Collegio ancora una volta tralascia le argomentazioni che attengono a presunte irregolarità inficianti le gare svoltesi nei precedenti anni, che non possono trovare ingresso nel presente giudizio, non essendo state tempestivamente denunciate con ricorso innanzi al TAR.
Ciò premesso, si osserva che
la consegna anticipata dell’appalto è prevista dal d.lgs. n. 50/2016. L’art. 32 prevede, al comma 13, che l'esecuzione del contratto può avere inizio solo dopo che lo stesso è divenuto efficace, salvo che, in casi di urgenza, la stazione appaltante ne chieda l'esecuzione anticipata, nei modi e alle condizioni previste al comma 8.
Il comma 8 prevede che «Nel caso di servizi e forniture, se si è dato avvio all'esecuzione del contratto in via d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per le prestazioni espletate su ordine del direttore dell'esecuzione. L'esecuzione d'urgenza di cui al presente comma è ammessa esclusivamente nelle ipotesi di eventi oggettivamente imprevedibili, per ovviare a situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l'igiene e la salute pubblica, ovvero per il patrimonio, storico, artistico, culturale ovvero nei casi in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara determinerebbe un grave danno all'interesse pubblico che è destinata a soddisfare, ivi compresa la perdita di finanziamenti comunitari».
Il successivo comma 9 dispone che il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall'invio dell'ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione; il comma 10 prevede alcune eccezioni alla predetta regola, tra le quali quella di cui alla lettera b): «nel caso di un appalto basato su un accordo quadro di cui all'articolo 54, nel caso di appalti specifici basati su un sistema dinamico di acquisizione di cui all'articolo 55, nel caso di acquisto effettuato attraverso il mercato elettronico e nel caso di affidamenti effettuati ai sensi dell'articolo 36, comma 2, lettere a) e b).».

Orbene, a fronte della natura essenziale del servizio di cui trattasi era necessario assicurarne lo svolgimento durante la stagione invernale, sicché non si ravvisano profili di illegittimità, essendo certamente rispondente all’interesse pubblico lo svolgimento del servizio medesimo ed essendo altresì possibile e anche probabile, in caso di mancata esecuzione, il verificarsi di pregiudizi anche rilevanti all’incolumità delle persone e all’integrità dei beni.
Si precisa che
nel caso in esame è legittima anche l’esecuzione anticipata durante il periodo di stand still, secondo le disposizioni su riportate, trattandosi di affidamento ai sensi dell’art. 36/2 lett. b.

EDILIZIA PRIVATA: Non sono sanabili opere edilizi abusive realizzate su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state edificate senza titolo, dunque abusivamente. È altrettanto pacifico che si tratta di opere che necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
   - da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia stata presentata);
   - dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento privato in un’area nella quale sono previsti soltanto interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti: questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe, evidenziando che “la normativa urbanistica statale e regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti che pongono in essere trasformazioni permanenti del territorio e che a nessun proprietario è precluso, in ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei piani regolatori” .
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... per l'annullamento dell'ordinanza n. 440 del 23.11.2016 con la quale il Dirigente del Comune di Nichelino (TO) ha ordinato la demolizione delle opere edilizie realizzate all'interno del lotto di terreno sito in Nichelino (TO), Via ..., censito al Catasto Terreni al foglio 22, mappale 173, ed il ripristino dello stato dei luoghi, nonché di ogni altro atto ad essa presupposto, consequenziale o connesso.
...
1) Con il provvedimento in epigrafe il Dirigente dell’Area tecnica del Comune di Nichelino ha ordinato la demolizione di opere edilizie abusive realizzate dal sig. Ott.Ce. -di etnia sinti- su un terreno di sua proprietà, in assenza di permesso di costruire e in contrasto con la disciplina urbanistica vigente nel predetto Comune, consistenti in un “fabbricato di civile abitazione ad un piano fuori terra costituito da muratura perimetrale in blocchi di laterizi intonacati fondati su un basamento in calcestruzzo…”, nonché in un “cancello carraio e pedonale per l’accesso al lotto…” e in “manufatti vari posti in adiacenza al fabbricato principale…”.
2) Di tale provvedimento l’interessato ha chiesto l’annullamento deducendo:
   - che le opere in questione, per quanto abusive, sono comunque conformi alla disciplina urbanistica, in quanto ricadono in area disciplinata da un piano particolareggiato finalizzato a interventi di edilizia residenziale pubblica in favore della popolazione nomade;
   - che dunque il ricorrente potrebbe chiedere al Comune un permesso in sanatoria;
   - che nell’immobile vivono il ricorrente e il suo nucleo familiare, i cui componenti presentano anche numerosi problemi di salute;
   - che il provvedimento impugnato, infine, viola l’art. 8 della CEDU e il principio di proporzionalità, in quanto non tiene conto delle condizioni personali del ricorrente e della sua famiglia, aventi risorse economiche limitate e comprovati problemi di salute.
...
5) Il ricorso è infondato.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state edificate senza titolo, dunque abusivamente. È altrettanto pacifico che si tratta di opere che necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa in un piano particolareggiato destinato a interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
   - da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia stata presentata);
   - dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento privato in un’area nella quale sono previsti soltanto interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti: questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe, evidenziando che “la normativa urbanistica statale e regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti che pongono in essere trasformazioni permanenti del territorio e che a nessun proprietario è precluso, in ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei piani regolatori” (cfr. TAR Piemonte, sez. II, n. 1223 del 05.10.2016, che richiama le precedenti n. 358/2016 e n. 551/2015).
6) In relazione a quanto sopra il ricorso deve essere respinto (TAR Piemonte, Sez. II, sentenza 03.03.2017 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione soppalco: quando occorre il permesso di costruire.
In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, sarà necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.

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... per la riforma della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sezione I-quater 30.11.2011 n. 9401, resa fra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso per annullamento della determinazione dirigenziale 29.09.2006 n.1803 di Roma Capitale, di demolizione in quanto abusive di opere realizzate senza permesso di costruire all’interno di un’unità immobiliare sita a Roma, in via ... n. 17;
...
I ricorrenti appellanti hanno impugnato in primo grado il provvedimento indicato in epigrafe, con il quale hanno ricevuto ingiunzione a demolire, in quanto realizzate senza permesso di costruire, una serie di opere realizzate all’interno di un immobile di proprietà -sito a Roma, via ... 17, e distinto al catasto al f. 622, part. 300 sub. 501- costituite da una struttura di putrelle in ferro orizzontali e verticali, disposte in modo da formare un soppalco a forma di “L” della superficie di circa 24,80 mq all’interno di un locale più ampio.
L’area soppalcata al piano superiore consiste di un solaio in muratura con due finestre, posto ad altezza variabile da un soffitto irregolare, da metri 2,30 a metri 1.55 circa; la struttura del soppalco poggia invece per circa 20 mq su una pedana in muratura di circa 0,40 metri di altezza, ha un distacco di metri 1,88 e un’altezza interna praticabile di circa 1,45 metri; per la parte restante di circa 4,80 mq poggia sul piano di calpestio ed ha un distacco di 2,10 metri.
L’area sottostante il soppalco è poi priva di finestre, con nuove tramezzature ed attacchi per impianti idrici ed elettrici (v. doc. 1 in primo grado ricorrenti appellanti, ordinanza impugnata).
Con la sentenza indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso, ritenendo in sintesi estrema che l’intervento fosse effettivamente soggetto a permesso di costruire, mai ottenuto né richiesto.
Contro tale sentenza, i ricorrenti in primo grado propongono appello, affidato a due motivi:
   - con il primo di essi, deducono propriamente eccesso di potere per carenza di presupposti e mancanza di motivazione. Premettono in fatto che, a loro dire, da un lato per l’opera in questione sarebbe stato pendente un procedimento di condono edilizio, su istanza dei precedenti proprietari, certi Salvi; dall’altro, che per una porzione dello stesso immobile sarebbe stata emessa un’analoga ordinanza, annullata dal TAR del Lazio con sentenza 30.01.2007 n. 636.
Ciò premesso, sostengono che l’intervento, in quanto soppalco non praticabile, non sarebbe soggetto a permesso di costruire, contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di primo grado. Ciò sarebbe stato in qualche modo riconosciuto dall’Autorità giudiziaria penale, che ne avrebbe disposto il dissequestro;
   - con il secondo motivo, deducono violazione degli artt. 33 e 37 T.U. 06.06.2001 n.380, perché il Giudice di primo grado non avrebbe valutato la presentazione da parte loro di una denuncia di inizio attività – DIA a sanatoria, che in ogni caso avrebbe dovuto far venir meno l’abuso.
...
1. Il primo motivo di appello è fondato ed assorbente, nei termini che seguono.
2. In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio, non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
3. In linea di principio, sarà necessario il permesso di costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in prospettiva ulteriore carico urbanistico: così per tutte C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Si rientrerà invece nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il soppalco sia tale da non incrementare la superficie dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.
4. Quest’ultima è l’ipotesi che si verifica nel caso di specie, in cui, come detto in narrativa, lo spazio realizzato con il soppalco è un vano chiuso, senza finestre o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona sostanza, di un ripostiglio.
5. Quanto sopra è sufficiente per affermare l’illegittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata, che va annullata, in riforma della sentenza di primo grado, perché fondata, in sintesi, su un presupposto non corretto.
6. Va invece assorbito il secondo motivo, che si fonda sul rapporto fra l’ordinanza impugnata ed un fatto ulteriore, la presentazione in un momento successivo della DIA. E’ evidente infatti che, annullata l’ordinanza stessa, la possibilità che rispetto alla demolizione da essa ordinata si sia prodotta una sanatoria è priva di rilievo.
Spetterà invece all’amministrazione, nel prosieguo della propria attività, valutare se l’opera compiuta integri un diverso e minore tipo di abuso, e in caso affermativo se esso sia stato sanato dalla DIA in questione. Ciò però rientra nel futuro esercizio di poteri amministrativi, sui quali il Giudice non può pronunciare (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 02.03.2017 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTILa revoca di una aggiudicazione non rientra tra le ipotesi di esclusione dell’art. 80, comma V, dlgs 50/2016, poiché non costituisce automaticamente un grave illecito professionale, tale da rendere dubbia la affidabilità, né integra l’ipotesi di significative carenze nell’esecuzione di un precedente appalto.
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Il verbale della commissione di gara costituisce un atto pubblico che è assistito da fede privilegiata, facendo prova sino a querela di falso di quanto in esso attestato; una volta che il verbale venga "chiuso", cioè confermato e sottoscritto, esso diviene pertanto intangibile anche per gli stessi componenti della Commissione, nel senso che il potere che con la verbalizzazione è stato esercitato è venuto meno, cioè si è consumato.
Può peraltro ammettersi che, nel caso in cui il verbale sia inficiato da errori materiali, sia consentito operare le opportune rettifiche, ma deve trattarsi di vero e proprio errore materiale, cioè di una inesattezza percepibile ictu oculi dal contesto dell'atto e tale da non determinare alcuna incertezza in ordine alla individuazione di quanto effettivamente rappresentato e avvenuto.
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1) Il presente ricorso è proposto avverso gli atti della gara per l’affidamento del servizio di ristorazione scolastica della scuola materna ed elementare per il triennio 2016/2019, del Comune di Campiglione Fenile.
Il Collegio, anche dopo l’esame più approfondito, rispetto a quello della fase cautelare, non ravvisa elementi per discostarsi dalla decisione interinale, per le ragioni di seguito rappresentate.
2) Il primo motivo verte sulla violazione dell’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs. 50/2016, per la mancata dichiarazione nella domanda di ammissione al punto h), da parte della G. di una precedente revoca dell’aggiudicazione del servizio presso il Comune di Sciolze, per l’omissione nella dichiarazione di reati riferibili al legale rappresentante rilevanti sotto il profilo dell’affidabilità morale e professionale.
La censura è infondata in fatto, in quanto nella domanda di ammissione l’Amministratore unico della G. ha dichiarato che l’affidamento per il servizio di refezione scolastica era stato revocato dalla Centrale Unica di Committenza - capofila Comune di Chivasso, per asserite false dichiarazioni rese dalla Sig. Ka.Pi. amministratore unico della società sino al 01.07.2016 e che il provvedimento era però stato impugnato avanti il Tar Lazio.
Sempre secondo parte ricorrente la revoca avrebbe dovuto comportare l’esclusione dalla gara, in quanto il fatto integra l’ipotesi di grave illecito professionale, tale da rendere dubbia la integrità e affidabilità di cui all’art. 80, comma V, d.lgs. 50/2016.
Anche questo rilievo non può essere condiviso, poiché la revoca di una aggiudicazione non rientra tra le ipotesi di esclusione dell’art. 80, comma V, poiché non costituisce automaticamente un grave illecito professionale, tale da rendere dubbia la affidabilità, né integra l’ipotesi di significative carenze nell’esecuzione di un precedente appalto.
Nel caso di specie la revoca non ha riguardato l’esecuzione di un contratto, ma l’omissione di dichiarazioni rese dal precedente amministratore, mentre in questa sede la G. non solo ha dichiarato l’intervenuta revoca, ma anche le ragioni della stessa, indicando altresì il reato contestato all’ex amministratore, nonché gli atti societari successivi con cui la società si è dissociata dalle condotte contestate.
...
E’ fondata anche la censura nella parte in cui osserva che la formulazione dell’offerta non potesse indurre a ritenere che vi fosse una “donazione” delle attrezzature a fine contratto, poiché nell’offerta la G. si limita a dichiarare la “fornitura a proprie spese” di tutta una serie di strumenti (dai frigoriferi ai piccoli elettrodomestici), che indica la volontà di sostituzione gratuita degli esistenti, ma senza alcun riferimento alla fase conclusiva del contratto e alla volontà di trasferire in proprietà i beni alla stazione appaltante.
Il chiarimento reso in sede di apertura delle offerte, nella seduta del 18.08.2016, si è sostanziato in una dichiarazione integrativa dell’offerta originale, attraverso cui è stata introdotta una nuova proposta, in palese violazione al principio della immodificabilità dell’offerta.
Né può valere la dichiarazione postuma della commissione: in base ai principi generali in materia e secondo pacifica giurisprudenza, il verbale della commissione costituisce un atto pubblico che è assistito da fede privilegiata, facendo prova sino a querela di falso di quanto in esso attestato; una volta che il verbale venga "chiuso", cioè confermato e sottoscritto, esso diviene pertanto intangibile anche per gli stessi componenti della Commissione, nel senso che il potere che con la verbalizzazione è stato esercitato è venuto meno, cioè si è consumato (TAR Campania Napoli, sez. II, 21.05.2009, n. 2831; TAR Toscana Firenze, sez. I, 21.03.2006 , n. 977; TAR Firenze, sez. II, 22.06.2010, n. 2031).
Può peraltro ammettersi che, nel caso in cui il verbale sia inficiato da errori materiali, sia consentito operare le opportune rettifiche, ma deve trattarsi di vero e proprio errore materiale, cioè di una inesattezza percepibile ictu oculi dal contesto dell'atto e tale da non determinare alcuna incertezza in ordine alla individuazione di quanto effettivamente rappresentato e avvenuto (TAR Lazio Latina, sez. I, 10.01.2008, n. 28)
Tale ipotesi non si è però verificata nel caso in esame, atteso che la commissione ha integrato con una dichiarazione successiva il proprio giudizio, modificando quanto attestato nel precedente verbale, "letto, confermato e sottoscritto" dai commissari.
In ogni caso, anche a voler considerare valida la dichiarazione, la commissione ha confermato di aver inteso la formula “fornitura a proprie spese” come espressione di volontà di trasferire la proprietà delle attrezzature al termine dell’appalto, confermando che ha assegnato un punteggio per un criterio non previsto dalla lex specialis e per un impegno non espressamente e inequivocabilmente assunto dall’offerente.
Ne consegue il punteggio massimo di 10 punti per la voce migliorie del centro di cottura, non poteva essere assegnato, poiché alla voce “fornitura a proprie spese” come intesa dalla commissione, cioè trasferimento della proprietà delle attrezzature al termine del contratto, non poteva essere assegnato punteggio
(TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 28.02.2017 n. 289 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo restando tra l'altro il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l'opposto principio dell'interesse dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca- delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche).
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La sanzione dell'ordine di demolizione, prevista dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non potendo la tutela del territorio essere rinviata indefinitamente.
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione dell'istanza di condono in rapporto alla condanna giudiziale- che
per neutralizzare l'ordine di demolizione non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie, siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
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4.1. In ragione della loro stretta connessione, i motivi di impugnazione possono essere esaminati congiuntamente.
In proposito,
è invero principio del tutto consolidato che l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti assolutamente incompatibile con atti amministrativi della competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo restando tra l'altro il potere-dovere del giudice dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio) (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al contrario, l'opposto principio dell'interesse dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca- delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche) (Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini e altro, Rv. 267024).
4.2. Ciò posto, dallo stesso contenuto del ricorso emerge che la procedura di sanatoria pende da circa venti anni, senza alcun apprezzabile risultato.
Né appare seriamente sostenibile, dati siffatti precedenti ed anche al di là delle comunque non impegnative dichiarazioni del tecnico comunale (al riguardo, nel provvedimento impugnato si dà invece espressamente atto che proprio dalle parole del funzionario pubblico poteva addirittura desumersi che alcuna rapida definizione delle pratiche edilizie era prevista), che essa possa concludersi in tempi ragionevolmente pronosticabili.
Infatti
la sanzione dell'ordine di demolizione, prevista dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non potendo la tutela del territorio essere rinviata indefinitamente (Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv. 253050).
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione dell'istanza di condono in rapporto alla condanna giudiziale- che
per neutralizzare l'ordine di demolizione non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie, siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
4.3. In ragione di ciò, non vi è alcuna possibilità, pertanto, di confrontare l'ordine di demolizione con provvedimenti di segno diverso, tali da metterne in dubbio la perdurante piena efficacia.
4.4. Al riguardo, e con particolare attenzione al secondo motivo di ricorso, è poi appena il caso di aggiungere che -ferme le svolte considerazioni- non rileva il fatto dell'inutile pendenza ventennale della procedura amministrativa di sanatoria (tra l'altro, finora, ad evidente esclusivo vantaggio del privato che ha goduto del bene), atteso che, a fronte delle innegabili inefficienze di pubbliche autorità, si pone in ogni caso l'obbligo di porre in esecuzione un ordine di demolizione, nascente da una sentenza irrevocabile di condanna.
5. I motivi di censura appaiono quindi manifestamente infondati nella loro integralità, e ne va dichiarata l'inammissibilità (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2017 n. 8887).

EDILIZIA PRIVATAL'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
Una lettura sistematica della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone.
Anche perché è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore
, in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena; resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen.; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza.
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L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione da parte del pubblico ministero, a spese del condannato, sussistendo incompatibilità solo nel caso in cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera, l'esistenza di interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato.
Oltre a ciò,
il giudice, nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio della sospensione della pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale subordinazione è ostativa l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del comune, poiché anche questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto abusivamente costruito.
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4. I ricorsi sono inammissibili.
4.1. In relazione al primo profilo di censura, ed in ragione della particolare struttura semplificata del presente provvedimento, è del tutto opportuno e sufficiente ricordare che
è già stata anche ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per mancata previsione di un termine di prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le caratteristiche di detta sanzione amministrativa —che assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso; configura un obbligo di fare per ragioni di tutela del territorio; non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con il bene, anche se non è l'autore dell'abuso— non consentono di ritenerla "pena" nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da escludere sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di cui all'art. 117 Cost. (Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977).
Sì che va ribadito che
l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28 della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (ad es. Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Fornnisano, Rv. 264736).
4.2. La Corte infine richiama ed integralmente condivide Sez. 3, n. 9949 del 20/01/2016, Di Scala -allo stato non massimata- che appunto conclude nel senso che
la demolizione del manufatto abusivo, anche se disposta dal giudice penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata altrimenti eseguita, ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un obbligo di fare, imposto per ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive ed ha carattere reale, producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il bene, indipendentemente dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso. Per tali sue caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena» nel senso individuato dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen..
In ogni caso, ivi è comunque ribadito che l'art. 31 Testo Unico dell'edilizia disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere abusive, adottata dall'autorità amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione d'ufficio; in caso di inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva al patrimonio del Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare non venga dichiarata l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il comma 9 del medesimo art. 31 prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la sentenza di condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una lettura sistematica della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura amministrativa, e la dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento penale, della demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è che, pur integrando un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, nel senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice penale anche qualora sia stata già disposta dall'autorità amministrativa, l'ordine 'giudiziale' di demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel contenuto (l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione) 'amministrativo', ed è eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Pertanto,
se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla demolizione sono disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga revocata in dubbio la natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza che ricorra la pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è visto, la demolizione può essere disposta immediatamente, senza neppure l'individuazione dei responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione giudiziale' -identica nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in ragione dell'organo che la dispone. Anche perché è pacifico che l'ordine 'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da parte del giudice penale allorquando divenga incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso tenore (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non mutuando il carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella irretrattabilità, ed è impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del reato e/o della pena (ad esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez. 3, n. 7228 del 02/12/2010, dep. 2011, D'Avino, Rv. 249309); resta eseguibile, qualora sia stato impartito con la sentenza di applicazione della pena su richiesta, anche nel caso di estinzione del reato conseguente al decorso del termine di cui all'art. 445, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 3, n. 18533 del 23/03/2011, Abbate, Rv. 250291); non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta all'irrevocabilità della sentenza (cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv. 249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa, adottabile parallelamente al procedimento amministrativo, la cui emissione è demandata (anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di responsabilità penale, al fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del procedimento di esecuzione della demolizione.
4.3. In relazione all'ulteriore, e sostanzialmente connesso, profilo di censura, la giurisprudenza del tutto consolidata della Corte è altresì nel senso che
l'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio disponibile del Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione emesso dal giudice con la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione da parte del pubblico ministero, a spese del condannato, sussistendo incompatibilità solo nel caso in cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera, l'esistenza di interessi pubblici al mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a quello del ripristino dell'assetto urbanistico violato (ex plurimis, Sez. 3, n. 42698 del 07/07/2015, Marche, Rv. 265495; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007, dep. 2008, Mancini, Rv. 238803; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004, Sposato, Rv. 230652; Sez. 3, n. 3489 del 03/11/2000, Mosca, Rv. 217999).
Oltre a ciò, è stato ricordato anche dal Procuratore generale che
il giudice, nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio della sospensione della pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale ordine ha la funzione di eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale subordinazione è ostativa l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del comune, poiché anche questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto abusivamente costruito (Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258517) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 23.02.2017 n. 8882).

EDILIZIA PRIVATA: La realizzazione di un abbaino è da qualificarsi quale "nuova costruzione".
Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre si verte in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima, quando la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, in particolare, comporti aumento della volumetria.
Nella specie, la Corte di Appello ha constatato che gli abbaini hanno determinato un aumento di volumetria del fabbricato di parte convenuta e, conseguentemente, ha esattamente concluso che essi costituiscono nuova costruzione.
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RITENUTO IN FATTO
1. — In accoglimento delle domande proposte da Fr.Ir. nei confronti di Se.Wa., Se.Lu. e Fr.Br., il Tribunale di Bolzano condannò i convenuti all'arretramento —fino alla distanza legale— di due abbaini edificati dai medesimi nel loro immobile e di un'antenna televisiva ivi installata, nonché al risarcimento del danno; accertò inoltre il confine tra i fondi delle parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
...
2. — Col secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e la falsa applicazione di norme di diritto, nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per avere la Corte territoriale qualificato gli abbaini come "nuove costruzioni" in contrasto con la previsione dell'art. 52 del regolamento di esecuzione alla legge urbanistica provinciale di Bolzano e per avere erroneamente ritenuto che gli abbaini determinavano un aumento di volumetria del piano sottostante al sottotetto.
Le doglianze non possono trovare accoglimento.
Il primo profilo, relativo al regolamento provinciale risulta nuovo e, perciò, inammissibile, non avendo peraltro parte ricorrente dedotto —come era suo onere— di aver posto la questione a fondamento di apposito motivo di appello.
Il secondo profilo è infondato.
Invero, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo cui, nell'ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura, mentre si verte in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in tema di distanze vigente al momento della medesima, quando la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio e, in particolare, comporti aumento della volumetria (Cass., Sez. Un., n. 21578 del 2011).
Nella specie, la Corte di Appello ha constatato che gli abbaini hanno determinato un aumento di volumetria del fabbricato di parte convenuta (p. 19 sentenza impugnata) e, conseguentemente, ha esattamente concluso che essi costituiscono nuova costruzione.
La motivazione del giudizio di fatto circa la sussistenza di aumento di volumetria è esente da vizi logici e giuridici e rimane, pertanto, non sindacabile in sede di legittimità (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 17.02.2017 n. 4255).

CONSIGLIERI COMUNALILa critica al politico che fa scattare il reato di diffamazione. Offesa all'onore di consiglieri comunali. La scriminante dell'esercizio del diritto di critica politica.
Era stato condannato in primo e secondo grado del reato di diffamazione aggravata e al risarcimento dei danni un per avere offeso l'onore di tre consiglieri comunali, facendo affiggere per le strade principali di un Comune dei manifesti in cui detti consiglieri erano indicati come responsabili della sottrazione di 560 mila euro dal bilancio comunale per motivazioni addotte dai "cinque cavalieri della tavola ... rotonda" quali "problemi personali che possono essere compresi, ma non possono essere soddisfatti dall'amministrazione comunale ...".
La Corte di Cassazione, se da un lato ha annullato la sentenza agli effetti penali per intervenuta prescrizione del reato dall'altro ha, invece, confermato gli effetti civili della condanna in quanto non ha riconosciuto la sussistenza della scriminante dell'esercizio del diritto di critica politica.
In particolare, la Corte, ha richiamato la giurisprudenza a tenore della quale l'esercizio di tale diritto può rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come fondamento per l'esposizione a critica del personaggio stesso: dunque, la critica politica -che nell'ambito della polemica fra contrapposti schieramenti può anche tradursi in valutazioni e commenti tipicamente "di parte", ossia non obiettivi- deve pur sempre fondarsi sull'attribuzione di fatti veri, in quanto nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti non vera.
Alla luce di tali principi, la Suprema Corte ha evidenziato come nella vicenda in esame la Corte distrettuale ha dato conto della falsa attribuzione alle persone offese di una condotta scorretta, ricostruendo il significato offensivo delle espressioni riportate nei manifesti non già singolarmente considerate, ma collocate nel «complesso dell'informazione rappresentato dal testo»: in tale corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo significato del fatto comunicativo, il riferimento alla "sottrazione" della cospicua somma dal bilancio comunale è posto in correlazione, nei manifesti fatti affiggere dall'imputato nelle strade principali del Comune, a "problemi personali" dei consiglieri comunali, a loro volta indicati come "cavalieri della tavola ... rotonda".
Nei termini indicati, conclude la Corte, "la deduzione difensiva circa la riferibilità del contenuto dei manifesti ad un'operazione di storno di bilancio dà corpo, al più, ad un'interpretazione soggettiva di detto significato, laddove la sua valenza lesiva della reputazione delle persone offese fondata su una prospettazione dei fatti non vera è stata congruamente argomentata valorizzando il collegamento testuale della sottrazione all'esigenza di far fronte a "problemi personali" dei consiglieri comunali, rappresentati come partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita, all'evidenza, da risorse pubbliche" (commento tratto da www.ilquotidianodellapa.it).
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MASSIMA
In premessa, la Corte rileva che, considerato il periodo di sospensione del corso della prescrizione e non risultando il ricorso inammissibile, la fattispecie estintiva del reato risulta perfezionata in data 02/12/2013.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali per essere il reato estinto per prescrizione, mentre il ricorso deve essere esaminato, a norma dell'art. 578 cod. proc. pen., ai soli effetti civili.
Esso non è fondato.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente, essendo entrambi volti al riconoscimento della sussistenza della
scriminate dell'esercizio del diritto di critica politica.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare,
l'esercizio di tale diritto può rendere non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come fondamento per l'esposizione a critica del personaggio stesso (Sez. 5, n. 14459 del 02/02/2011 - dep. 11/04/2011, Contrisciani, Rv. 249935; Sez. 5, n. 24087 del 13/01/2004 - dep. 26/05/2004, Boldrini, Rv. 228900): dunque, la critica politica -che nell'ambito della polemica fra contrapposti schieramenti può anche tradursi in valutazioni e commenti tipicamente "di parte", ossia non obiettivi- deve pur sempre fondarsi sull'attribuzione di fatti veri, in quanto nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di discredito per la persona che ne sia investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione dei fatti non vera (Sez. 5, n. 7419 del 03/12/2009 - dep. 24/02/2010, Cacciapuoti, Rv. 246096).
La Corte distrettuale ha dato conto della falsa attribuzione alle persone offese di una condotta scorretta, ricostruendo il significato offensivo delle espressioni riportate nei manifesti non già singolarmente considerate, ma collocate nel «complesso dell'informazione rappresentato dal testo»: in tale corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo significato del fatto comunicativo, il riferimento alla "sottrazione" della cospicua somma dal bilancio comunale è posto in correlazione, nei manifesti fatti affiggere dall'imputato nelle strade principali del Comune, a "problemi personali" dei consiglieri comunali, a loro volta indicati come "cavalieri della tavola ... rotonda".
Nei termini indicati, la deduzione difensiva circa la riferibilità del contenuto dei manifesti ad un'operazione di storno di bilancio dà corpo, al più, ad un'interpretazione soggettiva di detto significato, laddove la sua valenza lesiva della reputazione delle persone offese fondata su una prospettazione dei fatti non vera è stata congruamente argomentata valorizzando il collegamento testuale della sottrazione all'esigenza di far fronte a "problemi personali" dei consiglieri comunali, rappresentati come partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita, all'evidenza, da risorse pubbliche.
Prive di pregio sono le ulteriori deduzioni circa il riferimento della sentenza impugnata ai lettori dei manifesti, ossia la cittadinanza comunale, riferimento, questo, congruamente volto a dar conto della valutazione delle espressioni di cui all'imputazione sulla base di un criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la frase offensiva è stata diffusa (cfr. Sez. 5, n. 19070 del 27/03/2015 - dep. 07/05/2015, Foti, Rv. 263711; Sez. 5, n. 11632 del 14/02/2008 - dep. 14/03/2008, Tessarolo, Rv. 239479).
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali per essere il reato è estinto per prescrizione, mentre, agli effetti civili, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di parte civile liquidate come da dispositivo (Corte di Cassazione, Sez. V penale, sentenza 10.02.2017 n. 6332).

APPALTICommissione di gara illegittima se tra i componenti c’è un rapporto gerarchico.
Riveste una particolare importanza la sentenza 06.02.2017 n. 108 del TAR Marche in relazione ad alcune precisazioni in tema di composizione della commissione di gara negli appalti da aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa.
In particolare per quanto attiene ad un preciso profilo di incompatibilità –non di consueta considerazione da parte dei giudici– determinato dal fatto che un commissario era, a sua volta, anche superiore gerarchico di altro componente. Circostanza che, secondo il giudice, incideva sulla libera determinazione del componente «subordinato».
Le incompatibilità
Il nuovo codice degli appalti ha ampliato, dal punto di vista soggettivo con il comma 4 dell'articolo 77, le ipotesi di incompatibilità ritenendo –a differenza del comma 4 dell'articolo 84 del pregresso codice– che anche il presidente di commissione, se risulta essere stato interessato dalla redazione degli atti di gara (in qualità di Rup) e/o dal contratto della cui aggiudicazione si tratta, non possa far parte della commissione né, appunto, presiederla. Circostanza questa, in ogni caso, destinata a venir meno con la prevista modifica –a opera del decreto correttivo del codice- del comma 3 dell'articolo 77 che imporrà la nomina esterna del presidente della commissione direttamente dall'Albo dei commissari.
Raramente, nella giurisprudenza è venuta in considerazione una diversa –possibile– tipologia di incompatibilità determinata dal fatto che un commissario, operando nel servizio di altro componente della commissione responsabile del servizio, potesse essere considerato come soggetto potenzialmente «condizionato» dal fatto di essere subordinato ad altro componente e quindi «influenzabile» nelle proprie libere scelte per una sorta di timore reverenziale (metus reverentialis) nei confronti del superiore.
È questa la decisione del giudice marchigiano che ha ritenuto persuasiva la censura del ricorrente di incompatibilità – tra le altre - tra 2, dei tre, commissari perché tra questi insisteva «un rapporto di dipendenza gerarchica».
La decisione
Secondo il giudice, «per un principio generale dell'ordinamento di settore, ma applicabile naturalmente anche ai concorsi pubblici, ogni commissario deve essere libero di svolgere in autonomia le proprie valutazioni, il che sarebbe fortemente ostacolato dal fatto che uno dei membri possa esercitare, anche inconsciamente, una qualche “pressione” su uno o più degli altri componenti».
E uno «dei casi in cui tale “pressione” può manifestarsi si verifica proprio quando fra i commissari vi sono rapporti di dipendenza gerarchica».
Tra l'altro, il vizio deve ritenersi a valenza invalidante «ex se, a prescindere quindi dal fatto che in concreto non sia fornita la prova di uno sviamento di potere».
Si tratta di una decisione non completamente condivisibile che rischia di incidere anche sulle normali dinamiche di nomina delle commissioni di gara, spesso –anche per carenza di organico– composte da soggetti presenti nello stesso servizio interessato dall'appalto (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 23.02.2017).
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MASSIMA
1. La cooperativa ricorrente ha preso parte alla procedura ad evidenza pubblica indetta dalla Centrale Unica di Committenza (C.U.C.) istituita presso l’Unione Montana Alta Valle del Metauro per conto del Comune di Urbania, avente ad oggetto l’affidamento del servizio di gestione dell’asilo nido comunale per il periodo 1/9/2016-31/7/2018.
Alla gara hanno preso parte solo “La So.” e “Eu.As.” e quest’ultima è risultata collocata al primo posto della graduatoria finale con punti 86/100, mentre la ricorrente ha conseguito punti 74,07/100. Prima di decretare l’aggiudicazione, la C.U.C. ha sottoposto l’offerta di “Eu.” a verifica di congruità.
2. Con il ricorso introduttivo “La So.” (gestore uscente del servizio) censura il complessivo operato della C.U.C. e del Comune di Urbania per i seguenti motivi:
   - il RUP designato dalla C.U.C. è diverso da quello indicato nella determina di indizione della gara;
   - la commissione è stata nominata dalla C.U.C. e non dalla stazione appaltante (ossia dal Comune di Urbania);
   - la commissione di gara non era composta da membri esperti del settore;
   - fra due dei commissari sussiste un rapporto di dipendenza gerarchica;
   - il presidente della commissione ha svolto anche le funzioni di RUP, in violazione dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016, nonché del successivo comma 7;
   - i punteggi attribuiti dalla commissione alle due offerte risultano illogici e immotivati (e ciò anche in conseguenza dell’assenza di specifica competenza in materia in capo ai commissari);
   - la valutazione della congruità dell’offerta della controinteressata è stata svolta dal solo RUP e non dalla commissione nel suo plenum;
   - la valutazione di congruità, peraltro, non è stata in realtà compiuta, essendosi il RUP limitato a verificare i certificati del casellario giudiziale depositati dall’aggiudicataria;
   - è altresì illegittima l’esecuzione anticipata del servizio disposta dal Comune, e ciò in quanto il ritardo nella conclusione della gara è ascrivibile unicamente alla stazione appaltante ed alla C.U.C.
La ricorrente ha proposto altresì la domanda di subentro (e in via subordinata di risarcimento per equivalente monetario del danno da mancata aggiudicazione) e la domanda risarcitoria per i danni derivanti dalla consegna anticipata del servizio alla controinteressata.
...
8. Ciò detto, vanno accolte le censure inerenti le modalità di nomina del RUP e della commissione di gara, le quali, come si dirà meglio infra, hanno valenza assorbente.
Nel merito, si osserva quanto segue.
8.1.
Il fatto che la presente gara sia stata bandita in epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016 ha certamente provocato qualche incertezza circa le disposizioni da applicare al riguardo, e ciò anche alla luce del parere reso dal Consiglio di Stato sulle Linee guida predisposte dall’ANAC in materia di nomina del RUP (vedasi il parere della Commissione Speciale n. 1767/2016). Ciò peraltro non giustifica l’operato della C.U.C..
8.2. Va infatti considerato che, anche volendo applicare, ai sensi dell’art. 77, comma 12, D.Lgs. n. 50/2016, le disposizioni interne alla C.U.C., la nomina del RUP e della commissione sono illegittime. In effetti, la convenzione stipulata nel 2015 per l’istituzione e l’implementazione della C.U.C. operante presso l’Unione Montana Alta Valle del Metauro prevede che il RUP sia nominato dal Comune interessato e che la commissione di gara sia formalmente nominata dalla C.U.C. ma su designazione del Comune interessato (art. 3, comma 4, e art. 4 della Convenzione).
Anche l’art. 31, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016 prevede che il RUP sia designato dalla stazione appaltante.
E, del resto, con la determinazione comunale n. 51/2016 il RUP era stato già nominato.
8.3. L’art. 31, comma 14, del D.Lgs. n. 50/2016 (secondo cui “Le centrali di committenza e le aggregazioni di stazioni appaltanti designano un RUP per le attività di propria competenza con i compiti e le funzioni determinate dalla specificità e complessità dei processi di acquisizione gestiti direttamente”) disciplina una fattispecie peculiare e non applicabile nella specie, visto che l’appalto per cui è causa non presenta né particolari difficoltà tecnico-amministrative né un importo economicamente rilevante (si tratta, infatti, di un servizio routinario erogato ormai da molti anni e oggetto, alla scadenza dei vari contratti, di periodico rinnovo all’esito di gara ad evidenza pubblica).
8.4.
Tenuto conto dei compiti particolarmente delicati che il D.Lgs. n. 50/2016 attribuisce al RUP, nonché dell’essenza stessa della figura (si noti, in particolare, l’aggettivo “unico”), in uno stesso procedimento non possono coesistere due RUP e, comunque, l’eventuale secondo RUP, ai sensi del citato art. 31, comma 14, è chiamato a svolgere solo le specifiche attività per cui è stato nominato.
8.5. Quanto alla nomina della commissione, nella specie il Comune di Urbania non risulta aver designato formalmente alcuno dei tre componenti, per cui è stata violata la predetta convenzione istitutiva della C.U.C.
A questo proposito va evidenziato che l’art. 3, comma 6, della convenzione, a differenza di quanto opinato dalla difesa delle amministrazioni resistenti, non pone alcuna eccezione con riguardo alle gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, essendo anche in quel caso prevista la designazione da parte del Comune interessato.
8.6. E’ parzialmente fondata anche la censura relativa alla competenza tecnica dei commissari chiamati a far parte della commissione di gara.
In effetti, mentre è legittima la presenza del segretario generale del Comune di Urbania (sia per le sue indubbie competenze in materia di procedure ad evidenza pubblica, sia perché lo stesso risulta aver diretto ormai da qualche anno il Settore Sociale-Educativo dello stesso Comune resistente), non altrettanto può dirsi per gli altri due commissari.
Questo sotto due profili: quanto al geom. Di., non è stato provato che lo stesso possegga specifiche competenze professionali riguardo al servizio oggetto dell’appalto; quanto al geom. Co., in aggiunta alle precedenti considerazioni rileva il fatto che il medesimo è in rapporto di subordinazione gerarchica con il geom. Di. (tale circostanza, affermata in ricorso, non è stata infatti smentita dalle amministrazioni intimate).
Per un principio generale dell’ordinamento di settore, ma applicabile naturalmente anche ai concorsi pubblici, ogni commissario deve essere libero di svolgere in autonomia le proprie valutazioni, il che sarebbe fortemente ostacolato dal fatto che uno dei membri possa esercitare, anche inconsciamente, una qualche “pressione” su uno o più degli altri componenti. Uno dei casi in cui tale “pressione” può manifestarsi si verifica proprio quando fra i commissari vi sono rapporti di dipendenza gerarchica. Il vizio ha valenza invalidante ex se, a prescindere quindi dal fatto che in concreto non sia fornita la prova di uno sviamento di potere.
9. In vista della riedizione della gara, il Tribunale ritiene altresì di osservare che la censura relativa all’incompatibilità in cui versava il presidente della commissione ai sensi dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016 va ritenuta infondata alla luce delle Linee guida adottate dall’ANAC in data 26.10.2016.
Come è noto, e pur a fronte di un dettato normativo più restrittivo rispetto alla formulazione del previgente art. 84, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, in sede di parere il Consiglio di Stato aveva censurato l’originaria formulazione delle Linee guida (vedasi il punto “Pag. 3, par. 1.2., terzo periodo” del parere, in cui la Commissione Speciale ha evidenziato che “…la disposizione che in tal modo viene interpretata (e in maniera estremamente restrittiva) è in larga parte coincidente con l’articolo 84, comma 4, del previgente ‘Codice’ in relazione al quale la giurisprudenza di questo Consiglio aveva tenuto un approccio interpretativo di minor rigore, escludendo forme di automatica incompatibilità a carico del RUP, quali quelle che le linee-guida in esame intendono reintrodurre (sul punto ex multis: Cons. Stato, V, n. 1565/2015). Pertanto, non sembra condivisibile che le linee-guida costituiscano lo strumento per revocare in dubbio (e in via amministrativa) le acquisizioni giurisprudenziali…”).
L’ANAC si è adeguata al rilievo, tanto che nella stesura definitiva le Linee guida (punto 2.2., ultimo periodo) stabiliscono che “Il ruolo di RUP è, di regola, incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4, del Codice), ferme restando le acquisizioni giurisprudenziali in materia di possibile coincidenza”.
Peraltro, non potendosi escludere futuri révirement giurisprudenziali, è consigliabile che in sede di ripetizione della procedura il Comune e la C.U.C. chiariscano nettamente le rispettive competenze circa l’approvazione dei vari atti di gara, visto che l’incompatibilità non sussiste laddove, ad esempio, il RUP non abbia in alcun modo cooperato nella stesura del capitolato tecnico o del bando.
10. Le censure inerenti l’omessa/errata valutazione dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria sono assorbite, sia perché la ricorrente non ha graduato i motivi di ricorso, sia perché –come meglio si preciserà infra– nella specie il Tribunale non è oggettivamente in grado di valutare allo stato (ammesso che a ciò sia legittimato ex officio) la maggiore satisfattività per la ricorrente dell’accoglimento di una piuttosto che di un’altra censura.
11. In conclusione, la domanda impugnatoria va accolta, con conseguente annullamento dell’aggiudicazione definitiva e dell’affidamento del servizio in via d’urgenza disposto in favore della controinteressata.
Questo secondo provvedimento non ha infatti valenza autonoma, dovendosi dare quasi per scontato che in tanto il servizio è stato affidato a “Eurotrend” in quanto la stessa era risultata aggiudicataria provvisoria. In ogni altro caso, infatti (deserzione della gara, annullamento in autotutela del bando, ritardo nella conclusione della procedura, etc.), il servizio sarebbe stato certamente affidato in proroga al precedente gestore, ossia alla cooperativa ricorrente.
12. A questo punto il problema si sposta alla verifica della corretta modalità di esecuzione della presente sentenza.
12.1. Si deve premettere che dall’accoglimento delle censure formulate dalla ricorrente (le quali, come detto, non sono state graduate) non deriverebbe in nessun caso l’accertamento della spettanza dell’aggiudicazione, visto che:
   - l’accoglimento delle doglianze relative alle modalità di nomina del RUP e della commissione ed alla competenza dei commissari ha quale effetto l’obbligo per la C.U.C. di ripetere la gara (visto che le offerte sono ormai note e non è quindi più assicurabile la genuinità del giudizio, nemmeno se questo fosse affidato ad altra commissione);
   - dall’accoglimento delle censure inerenti la omessa/errata valutazione dell’anomalia e l’oggettiva insostenibilità dell’offerta di “Eurotrend” sarebbe invece disceso l’obbligo per la stazione appaltante di procedere alla (ri)valutazione dell’anomalia, anche alla luce delle doglianze svolte dalla ricorrente. Per giurisprudenza costante, infatti, in prima battuta la valutazione de qua compete alla stazione appaltante, il giudice essendo chiamato solo a stabilire se tale valutazione è stata preceduta da adeguata istruttoria e se essa risponde ai consueti canoni di adeguatezza e logicità.
12.2. Diverso è il discorso per quanto concerne l’annullamento dell’affidamento in via d’urgenza del servizio, perché in questo caso l’effetto della sentenza potrebbe esplicarsi in pieno, essendo solo due le ditte partecipanti alla gara e non essendo stato rappresentato alcun problema di ammissibilità di una o di entrambe le offerte (per cui, allo stato, non vi è pericolo che il servizio possa essere svolto da un operatore che non possiede i requisiti morali e tecnici).
Peraltro, come il Tribunale ha già statuito per due volte in sede cautelare, la valutazione circa l’ottimale gestione di questa fase interinale non può che essere rimessa al Comune di Urbania, e ciò anche alla luce del fatto che la ricorrente ha sul punto formulato la domanda risarcitoria (per cui i danni patrimoniali subiti di cui si chiede il ristoro –in sé di importo non particolarmente rilevante- sarebbero elisi in toto in caso di accoglimento della domanda stessa).
Al riguardo il Tribunale, richiamando analogicamente l’art. 122 cod. proc. amm. (e ciò in quanto nella specie il contratto non è stato ancora formalmente stipulato), non ritiene di poter decretare la cessazione immediata della gestione del servizio da parte della controinteressata, soprattutto in ragione della particolare natura dell’utenza e dell’indiscutibile esigenza di continuità gestionale.
12.3. In accoglimento della presente sentenza, pertanto, il Comune di Urbania dovrà ripetere in tempi ragionevolmente contenuti la procedura di gara, attenendosi ai principi di diritto dianzi esposti.
Per la trattazione della domanda risarcitoria va invece fissata l’udienza pubblica dell’08.11.2017 (TAR Marche, sentenza 06.02.2017 n. 108 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: Permesso a costruire per le verande, libertà alle pergotende.
La realizzazione di una veranda su balconi, terrazzi, attici o giardini richiede il permesso di costruire in quanto, dal punto di vista edilizio, determina un aumento della volumetria dell'edificio, perché è caratterizzata da ampie superfici vetrate, che all'occorrenza si aprono tramite finestre scorrevoli o a libro.
La pergotenda rappresenta, invece, un elemento di migliore fruizione dello spazio esterno, stabile e duraturo. Tenuto conto della sua consistenza, delle caratteristiche costruttive e della funzione, una pergotenda non costituisce un'opera edilizia soggetta al previo rilascio del titolo abilitativo e rientra all'interno della categoria delle attività di edilizia libera.

Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 25.01.2017 n. 306 si è espresso riguardo alla definizione di pergolati, verande, gazebo e pergotende. E in particolare riprende per la prima volta la definizione di veranda data dal regolamento edilizio tipo, cioè «locale o spazio coperto avente le caratteristiche di loggiato, balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati da superfici vetrate o con elementi trasparenti e impermeabili, parzialmente o totalmente apribili».
Il fatto in sintesi. Tizia presentava ricorso al Tar contro l'ordinanza di demolizione di una copertura e chiusura perimetrale di un pergolato con teli plastificati, fissati alla struttura. Il sistema utilizzato per fissare i teli è quello degli occhielli e chiavetta, con un riquadro di materiale plastico come finestra nella parte centrale, perché copertura e chiusura perimetrale sono state realizzate in assenza di titolo abilitativo. Il Tar ha respinto il ricorso, ma il Consiglio di stato lo ha accolto, classificando il manufatto come una pergotenda, non assoggettata al rilascio di un titolo edilizio.
Il Consiglio di stato ha cercato di chiarire la materia con delle definizioni, pur ammettendo che «in relazione ad alcune opere di limitata consistenza e di limitato impatto sul territorio (come pergolati, gazebo, tettoie, pensiline e pergotende) non è sempre agevole individuare il limite entro il quale esse possono farsi rientrare nel regime dell'edilizia libera o per cui è richiesta una comunicazione o permesso di costruire» (articolo ItaliaOggi del 28.04.2017).

APPALTI: Sull'illegittimità del provvedimento con il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara, senza aver dato prima alle imprese partecipanti l'avviso dell'inizio del procedimento di autotutela.
- "
l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, oltre a riprendere orientamenti già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso come immanente nel sistema, è norma di carattere processuale e pertanto, in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005, e tuttavia, con riferimento alla mancata comunicazione di avvio, la disposizione in parola non può comunque, anche per fattispecie anteriori, essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope exceptionis" da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì l'onere di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso";
- "
con la presentazione della domanda di partecipazione alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata, per cui, ove l'amministrazione che ha bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è illegittimo, per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara, senza aver dato alle imprese partecipanti previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela";
- "
l'annullamento in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il provvedimento deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da rimuovere, non potendo l'autotutela essere finalizzata al mero ripristino della legalità violata, ma dovendo la medesima essere il risultato di un'attività istruttoria adeguata che dia conto della valutazione dell'interesse pubblico e di quello del privato che ha riposto affidamento nella conservazione dell'atto".
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MASSIMA
2. Il motivo è fondato.
2.1. Va rilevato che, con la domanda proposta in prime cure, An.Fe., chiedeva accertarsi l'illiceità del comportamento del Comune di Arcene -che aveva annullato in via di autotutela per motivi formali, con la delibera n. 435 del 18.11.1994, la procedura concorsuale per l'assegnazione della licenza di autonoleggio da rimessa per autobus- e condannarsi l'ente al risarcimento dei danni subiti.
A seguito dell'espletamento dei tre gradi del giudizio, il Fe. provvedeva alla riassunzione della causa ex art. 392 cod. proc. civ. in seguito alla pronuncia di questa Corte n. 3666/2006, con la quale -sul presupposto che la delibera n. 435 del 18.11.1994 integrasse un atto di annullamento in via di autotutela della procedura concorsuale per l'assegnazione della predetta licenza- la causa veniva rinviata al giudice di merito per la verifica della legittimità di detto provvedimento, "sotto il profilo della necessità della comunicazione dell'avvio del procedimento" ex art. 7 della legge n. 241 del 1990, e sotto quello della natura discrezionale e non vincolata del provvedimento di autotutela, che comporta, pertanto, "una valutazione comparativa tra l'interesse pubblico alla rimozione della illegittimità e l'interesse privato alla conservazione dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto effetti e suscitato legittime aspettative".
2.2. Ebbene, sotto il primo profilo, va osservato che la Corte di Appello ha ancorato il rigetto del gravame, in sede di rinvio, sulla giurisprudenza amministrativa -precedente l'entrata in vigore della legge n. 241 del 1990, ed applicabile ratione temporis- secondo la quale l'obbligo della comunicazione di avvio del procedimento amministrativo sussiste solo quando, in relazione alle ragioni che giustificano l'adozione del provvedimento, e a qualsiasi altro possibile profilo, la comunicazione stessa apporti una qualche utilità all'azione amministrativa, affinché questa, sul piano del merito e della legittimità, riceva arricchimento dalla partecipazione del destinatario del provvedimento. Nei casi in cui, invece, anche con la partecipazione del privato il provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, viene meno l'obbligo della comunicazione di cui trattasi (C. St. 7056/2005).
Di più, la Corte territoriale ha fatto, altresì, applicazione dell'art. 21-octies della legge n. 15 del 2005, sebbene entrato in vigore dopo i fatti per cui è causa e l'instaurazione del giudizio di primo grado, avvenuta nel 1994, affermando che "la validità dell'indirizzo giurisprudenziale" succitato era stata "pienamente confermato (sic) dalla norma di cui all'art. 21-octies della legge n. 240 (sic) del 1990, introdotta dalla legge n. 15 del 2005".
Tale disposizione -al secondo comma- stabilisce, infatti, che "Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell'avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".
E sarebbe "incontestabile", secondo la Corte di merito, che "nel caso in esame non si sarebbe potuto pervenire ad un provvedimento diverso rispetto all'annullamento per autotutela della procedura di assegnazione della licenza di autonoleggio da autorimessa di autobus, anche a fronte della eventuale partecipazione del Fe.. E ciò per un duplice ordine di ragioni:
   a) in considerazione del fatto che la mancata eliminazione dell'illegittimità del procedimento di assegnazione della licenza (approvazione della Giunta Regionale in data 27.07.1994, ossia dopo la pubblicazione del bando di gara, e mancato rispetto degli obblighi di pubblicità previsti dall'art. 13 del Regolamento Comunale) costituirebbe violazione dell'interesse pubblico al ripristino della legalità;
   b) al fine di evitare ricorsi di terzi controinteressati, nel caso di omesso annullamento
".
2.2.1. Orbene, è bensì vero che -secondo l'orientamento di una parte della giurisprudenza amministrativa- l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990 -oltre a riprendere orientamenti già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso come immanente nel sistema- è norma di carattere processuale e pertanto, in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005.
E tuttavia, la medesima giurisprudenza ha avuto cura di precisare che, con riferimento alla mancata comunicazione di avvio, la disposizione in parola non può comunque, anche per fattispecie anteriori, essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope exceptionis" da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì l'onere di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso (cfr. C. St. 3048/2013).
Nel caso di specie, la Corte territoriale ha, per contro, applicato la disposizione in parola in assenza dell'eccezione suddetta - la cui proposizione non si rileva in alcun modo dall'impugnata sentenza, e senza dare conto, nella decisione impugnata, dell'eventuale esistenza di specifici e concreti elementi di prova (richiesi anche dalla giurisprudenza precedente la legge n. 15 del 2005, che ha introdotto l'art. 21-octies) in ipotesi forniti dall'amministrazione sul piano della conformazione concreta dell'oggetto del provvedimento, al di là del generico ed astratto interesse al ripristino della legalità, circa il fatto che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, anche nel caso in cui il Fe. fosse stato invitato a partecipare al procedimento.
2.2.2. In mancanza di tali indispensabili precisazioni, non desumibili dalla decisione di appello, non possono che trovare applicazione, pertanto, nel caso di specie, i principi enunciati dalla giurisprudenza amministrativa con specifico riferimento alla fattispecie, ricorrente nel caso concreto, di annullamento di ufficio di una gara. Si è, per vero, affermato -al riguardo- che la presentazione della domanda di partecipazione alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata.
Di conseguenza,
ove la medesima amministrazione che ha bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è illegittimo, per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara dopo che erano state espletate le formalità di apertura delle offerte ed essa aveva avuto conoscenza delle ditte partecipanti, senza aver dato a queste ultime previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela (cfr. C. St. 17/2009).
Nel caso concreto, per contro, la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione di tali principi, e soprattutto di quanto statuito dalla decisione n. 3666/2006 di questa Corte, secondo la quale il giudice di rinvio avrebbe dovuto verificare la legittimità della delibera di annullamento della procedura concorsuale "sotto il profilo della necessità della comunicazione dell'avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7 della legge 07.08.1990, n. 241".
La Corte di Appello si è, difatti, limitata ad affermare che "anche a fronte dell'eventuale partecipazione del Fe. alla procedura" il provvedimento di annullamento in via di autotutela non avrebbe potuto essere diverso, facendo riferimento -non a specifiche ragioni inerenti la concreta determinazione del provvedimento, sul piano del dispiegamento della funzione amministrativa di autotutela- bensì operando un generico riferimento ad astratte esigenze di ripristino della legalità e ad ipotetiche, quanto improbabili, azioni di terzi.
2.3. Ma egualmente carente, sul piano del rispetto delle statuizioni contenute nella decisione rescindente di questa Corte n. 3666/2006, si palesa l'impugnata sentenza quanto al profilo della natura discrezionale e non vincolata del provvedimento di autotutela, che in quanto tale comporta, secondo quanto affermato nella predetta decisione di legittimità, "una valutazione comparativa tra l'interesse pubblico alla rimozione della illegittimità e l'interesse privato alla conservazione dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto effetti e suscitato legittime aspettative".
2.3.1.
E' del tutto pacifico, infatti, che l'annullamento in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il provvedimento deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da rimuovere. L'autotutela non può essere, invero, finalizzata al mero ripristino della legalità violata, dovendo essere il risultato di un'attività istruttoria adeguata, che dia conto della valutazione dell'interesse pubblico e di quello del privato che ha riposto affidamento nella conservazione dell'atto (cfr., ex plurimis, C. St. 1265/2014; 2940/2014; 1798/2016).
2.3.2. Per converso, nel caso di specie, il Comune di Arcene -con comunicazione del 15.05.1993, trascritta nel ricorso (p. 3)- si limitò a sospendere -non a denegare- la licenza di autonoleggio da rimessa per autobus (accordando al Fe. solo quella di autonoleggio da rimessa di autovetture), in attesa dell'approvazione regionale.
Sopravvenuta, quindi, tale approvazione con provvedimento n. 55279 del 27.07.1994, il Fe. sollecitava per due volte (in data 18.10.1994 ed in data 17.11.1994) il Comune al rilascio della predetta licenza. Con delibera n. 435 del 18.11.1994 l'ente pubblico comunicava, invece, il rigetto dell'istanza per le ragioni formali dianzi dette. Ciò posto, è evidente che la Corte territoriale, in sede di rinvio, avrebbe dovuto -in ottemperanza a quanto disposto da questa Corte nella sentenza n. 3666/2006 ed in applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza amministrativa succitata- accertare quale interesse pubblico specifico e concreto, al di là di quello, insufficiente a giustificare l'annullamento di un atto amministrativo in via di autotutela, del ripristino della legalità, fosse stato -in ipotesi- posto dall'amministrazione comunale a fondamento dell'annullamento in questione.
La Corte di merito avrebbe dovuto, inoltre, operare -come stabilito da questa Corte- una valutazione comparativa "tra l'interesse pubblico alla rimozione della illegittimità e l'interesse privato alla conservazione dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto effetti e suscitato legittime aspettative".
Per converso, il giudice di rinvio non ha in alcun modo evidenziato la sussistenza di un interesse specifico e concreto alla rimozione dell'atto in capo all'amministrazione, diverso da quelle generale ed astratto al ripristino della legalità, né si è curata di accertare se l'annullamento della procedura concorsuale, solo sospesa nelle more dell'approvazione regionale, e disposto quando detta approvazione era stata ormai concessa, avesse fatto venire meno effetti già prodotti da tale atto o leso legittime aspettative del privato, come statuito dalla sentenza di questa Corte n. 3666/2006.
2.3. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, la censura deve essere accolta.
3. L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione dell'impugnata sentenza, con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in diversa composizione, che dovrà procedere a nuovo esame della controversia facendo applicazione dei seguenti principi di diritto:
- "
l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, oltre a riprendere orientamenti già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso come immanente nel sistema, è norma di carattere processuale e pertanto, in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o già definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005, e tuttavia, con riferimento alla mancata comunicazione di avvio, la disposizione in parola non può comunque, anche per fattispecie anteriori, essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope exceptionis" da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì l'onere di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso";
- "
con la presentazione della domanda di partecipazione alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una posizione differenziata e qualificata, per cui, ove l'amministrazione che ha bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è illegittimo, per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara, senza aver dato alle imprese partecipanti previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela";
- "
l'annullamento in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il provvedimento deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da rimuovere, non potendo l'autotutela essere finalizzata al mero ripristino della legalità violata, ma dovendo la medesima essere il risultato di un'attività istruttoria adeguata che dia conto della valutazione dell'interesse pubblico e di quello del privato che ha riposto affidamento nella conservazione dell'atto" (Corte di Cassazione, Sez. I civile, sentenza 11.01.2017 n. 511).

APPALTI: Nelle gare il passato non conta. Sentenza del tribunale amministrativo di Lecce.
Grazie al nuovo codice dei contratti pubblici l'impresa non può essere esclusa da una gara d'appalto solo perché in passato è scattata la risoluzione di un analogo contratto in cui è parte ad opera di un'altra amministrazione. A patto, però, che la società abbia impugnato la precedente decisione del comune: a differenza di quanto accadeva con le vecchie norme, infatti, la controversia sub iudice non integra «i gravi requisiti professionali» che possono determinare l'estromissione dalla procedura a evidenza pubblica. E ciò anche se l'azienda si è vista rigettare dal giudice l'istanza cautelare che aveva proposto nell'ambito della controversia instaurata davanti al tribunale delle imprese.

Emerge dalla
sentenza 22.12.2016 n. 1935 dalla III Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Accolto il ricorso proposto dalla società igiene ambientale esclusa dalla stazione unica appaltante dalla procedura negoziata per l'affidamento del servizio di raccolta rifiuti nel comune: è annullata l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto all'impresa controinteressata.
Il punto è che un'amministrazione locale di un'altra regione ha già sciolto un altro contratto relativo alla gestione dei rifiuti rilevando «gravi carenze» nell'esecuzione dell'appalto. Ma ciò non basta a legittimare l'esclusione perché l'articolo 80, quinto comma lettera c) del decreto legislativo 50/2016 ha innovato la disciplina previgente di cui all'articolo 38, primo comma lettera f) del decreto legislativo 163/06: oggi l'estromissione scatta solo se l'azienda esclusa non si rivolge al giudice contro la risoluzione del contratto precedente o la sussistenza dei gravi motivi professionali risulta «confermata a seguito di un giudizio».
E dunque risulta irrilevante anche il no all'istanza cautelare pronunciata dal tribunale delle imprese. Né si può disapplicare il nuovo codice dei contratti per una presunta contrarietà alla direttiva 2014/24/Ue, che pure è stata recepita dal decreto legislativo 50/2016: deve escludersi la normativa eurounitaria sia self executing perché non ha un carattere completo e dettagliato. Spese di giudizio interamente compensate per la novità del caso (articolo ItaliaOggi Sette del 24.04.2017).

EDILIZIA PRIVATALa questione concernente la determinazione dell’an e del quantum del contributo di costruzione comporta l’esplicazione, da parte dell’Amministrazione, di un’attività priva di profili di discrezionalità e attinente a posizioni giuridiche di diritto soggettivo.
Conseguentemente, sono radicalmente inconfigurabili i vizi di difetto di istruttoria e di motivazione.
E ciò in quanto le operazioni di corretta quantificazione della misura del contributo “si esauriscono in una mera operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero dall'amministrazione con norme di natura regolamentare e, quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti criteri generali, contestare l'erroneità della quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di fatto o di diritto”.
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Nell’ordinamento giuridico vige la regola generale dell’onerosità del permesso di costruire.
Si tratta di un principio introdotto dall’articolo 1 della legge 28.01.1977, n. 10 –in base al quale “Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi (...)”– e oggi sancito dall’articolo 11, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si conferma l’onerosità del permesso.
A fronte di tale regime generale, la disciplina primaria stabilisce una serie di ipotesi, indicate all’articolo 17 del d.P.R. n. 380 del 2001, di riduzione o di esonero dal contributo di costruzione. Tali ultime previsioni normative –secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza– sono tuttavia da ritenere “tassative e di stretta interpretazione”, proprio in quanto “derogatorie rispetto alla regola della normale onerosità del permesso” e, inoltre, perché qualificabili come esenzioni tributarie, come tali costituenti eccezioni al principio costituzionale di capacità contributiva.
Poste tali considerazioni, deve rilevarsi che –come sopra detto– l’articolo 17, comma 3, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, invocato dalla ricorrente, contempla anzitutto, quali trasformazioni edificatorie esonerate dal contributo di costruzione, “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, per integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso di due requisiti, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente.
La ratio della norma è anzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità. Il legislatore ha quindi inteso evitare “l'imposizione degli oneri concessori al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse”; imposizione che “sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento”.
In tale prospettiva, la giurisprudenza ha altresì chiarito –con riferimento al requisito soggettivo– che per “enti istituzionalmente competenti” debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché l’opera sia realizzata per conto di un ente pubblico.
In particolare, con riferimento a questa seconda ipotesi, “l’esenzione spetta soltanto qualora (come avviene nella concessione di opera pubblica e in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale utilizzato consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia operato. In altri termini, l’esenzione spetta solo se il privato abbia agito quale organo indiretto dell’amministrazione, come appunto nella concessione o nella delega”.
E l’esattezza della soluzione in base alla quale si richiede che l’opera sia realizzata direttamente da enti pubblici ovvero da soggetti che agiscono per conto di enti pubblici è confermata non soltanto “dall'endiadi: "opere pubbliche o di interesse generale", che rinvia ad una figura soggettiva pubblica, ma dal fatto che nella sola seconda parte della proposizione normativa, concernente le opere di urbanizzazione, la disposizione reca la specifica indicazione: "eseguite anche da privati". Ne esce quindi caricata di ulteriore valore semantico la locuzione: "enti istituzionalmente competenti", che non può riferirsi che ad enti pubblici o a soggetti che agiscono per conto degli stessi”.
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E’ indubitabile che l’intervento di ristrutturazione dell’Istituto di ricovero e cura costituisca un’opera di interesse generale. Non può, invece, ritenersi che l’Associazione ricorrente sia qualificabile quale “ente istituzionalmente competente”.
Si tratta, infatti, di un soggetto che non ha natura pubblica e che non ha agito per conto di una pubblica amministrazione. E la mera circostanza che l’Istituto operi in regime di accreditamento con il servizio sanitario nazionale non comporta, di per sé, l’esistenza di un rapporto organizzatorio con la pubblica amministrazione, tale da determinare la riferibilità dell’opera realizzata a un ente pubblico.
Sotto altro profilo, il Collegio ritiene altresì non dirimente, al fine di qualificare l’Associazione come “ente istituzionalmente competente”, la circostanza che si tratti di un soggetto privo di finalità lucrative.
L’assenza di scopo di lucro è, infatti, una circostanza che attiene unicamente alla funzionalità interna della persona giuridica, la quale non potrà redistribuire gli eventuali utili derivanti dall’attività svolta. Si tratta, tuttavia, di un elemento che, in sé considerato, non è sufficiente a determinare la riferibilità dell’opera a un ente pubblico, che è quanto richiesto dalla norma al fine di rendere operativa l’esenzione.
Tale conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale ha evidenziato che la natura di ONLUS del soggetto che realizza l’intervento non soddisfa il prescritto requisito soggettivo, laddove –come avviene anche nel caso oggetto del presente giudizio– le opere sono destinate a rimanere nella disponibilità del privato, e non sono vincolate neppure a vedere conservata nel tempo la loro funzione.
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Deve rilevarsi che la disposizione ex art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 richiede, ai fini dell’esenzione dal versamento del contributo di costruzione, non soltanto che si sia in presenza di un’opera di urbanizzazione, ma che questa sia altresì realizzata in attuazione di strumenti urbanistici.
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Istituto di ricovero e cura gestito dalla ricorrente è bensì astrattamente riconducibile nel novero delle opere di urbanizzazione secondaria –ai sensi dell’articolo 16, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001– in quanto rientrante tra le “attrezzature sanitarie”, ma non è stato realizzato in attuazione dello strumento urbanistico.
Invero, risulta agli atti del giudizio che l’opera ricade in Zona F2, destinata a ospitare “Servizi tecnologici e di interesse generale” e disciplinata dall’articolo 53 delle NTA del Piano delle Regole; zona ove sono localizzate “attrezzature pubbliche e/o private con funzioni di interesse generale”.
Al riguardo, la difesa comunale ha ben evidenziato che gli spazi per attrezzature pubbliche e collettive prescritti dall’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 2005 sono classificati dallo strumento urbanistico non quale Zona F2, ma come “ZONA F1 (aree di servizi di uso pubblico e interesse comune)”, soggetta alla disciplina dell’articolo 52 delle NTA del Piano delle Regole. Solo tali spazi sono, quindi, specificamente destinati a standard urbanistici.
Al contrario, le aree classificate come Zona F2 non sono state prese in considerazione dallo strumento urbanistico al fine della verifica della dotazione di aree di uso pubblico a servizio di insediamenti residenziali e non danno luogo a standard urbanistici. Si tratta, infatti, di aree che comprendono compendi immobiliari aventi varia destinazione («Ambiti per servizi tecnologici», «Complesso socio-assistenziale, sanitario, ospedaliero “La Nostra Famiglia”», «Crossodromo Bodrone», «Villa Mira»), tutti caratterizzati dal soddisfacimento di finalità di interesse generale, ma non costituenti opere che il Comune ha reputato necessarie al fine dell’urbanizzazione dell’ambito entro il quale ricadono, tanto da non averle prese in considerazione ai fini del calcolo della relativa dotazione di standard.
Si tratta, in altri termini, di compendi immobiliari rispetto ai quali lo strumento urbanistico ha sostanzialmente operato una ricognizione, qualificandoli come attrezzature con funzioni di interesse generale, ma non quali opere indispensabili per assicurare i servizi necessari alla comunità insediata.
Da ciò derivano due considerazioni.
Sotto un primo profilo, poiché l’intervento oggetto del presente giudizio non è posto a servizio dell’urbanizzazione del territorio comunale, o di una porzione di questo, esso non dà luogo a un’opera di urbanizzazione, pur rientrando nelle categorie astrattamente indicate all’articolo 16, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E invero, perché un’opera sia qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria è necessario che essa sia direttamente funzionale a un ben preciso insediamento urbano. E ciò in considerazione della circostanza che “le opere di urbanizzazione secondaria hanno tendenzialmente una dimensione comunale o infra-comunale, in quanto finalizzate a migliorare il grado di fruibilità di uno specifico e circoscritto insediamento urbano mediante la creazione da parte dell’ente locale di determinate strutture di supporto per servizi fruibili da quella comunità”.
Conseguentemente, un centro ospedaliero contemplato dallo strumento urbanistico quale attrezzatura con funzioni di interesse generale, ma non previsto quale dotazione di standard a servizio di un ambito territoriale, di per sé non è qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria.
Sotto altro, concorrente, profilo, la circostanza che –come detto– il Piano di Governo del Territorio si sia limitato a riconoscere la presenza sul territorio e l’interesse generale di una congerie assai diversificata di opere esistenti, indicandole con una medesima classificazione, senza però prenderle in considerazione quali dotazioni di servizi necessarie alla collettività, implica che tali opere debbano bensì reputarsi conformi allo strumento urbanistico, ma non attuative delle relative previsioni. Si tratta infatti di opere che non devono, ma possono essere presenti sul territorio comunale, per cui, laddove le attività che in esse si svolgono dovessero essere dismesse dai privati, non insorgerebbe l’obbligo per l’Amministrazione di assicurare in altro modo la soddisfazione delle dotazioni di servizi in favore della comunità insediata.
La validità della predetta distinzione tra opere meramente conformi, o specificamente attuative, del piano è stata, del resto, anche di recente ribadita dalla giurisprudenza, la quale ha esplicitamente affermato che la semplice riconduzione all’astratta tipologia di opera di urbanizzazione secondaria non può considerarsi sufficiente ai fini dell’esenzione del contributo, essendo necessario altresì che l’intervento sia attuativo di una specifica previsione di piano.
E, in questo senso, non può ritenersi pertinente il richiamo, operato dalla ricorrente, alla sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato 12.05.2011, n. 2870, al fine di sostenere che qualunque opera rientrante astrattamente nel novero delle opere di urbanizzazione, e realizzata in conformità allo strumento urbanistico, debba beneficiare dell’esenzione. La fattispecie decisa dal Consiglio di Stato riguardava, infatti, la costruzione di un’opera che corrispondeva a una puntuale previsione dello strumento urbanistico, il quale destinava specificamente un’area a servizi ospedalieri e sanitari.
Come detto, nel caso oggetto del presente giudizio, l’opera ricade, invece, in una zona avente una destinazione generica ad attrezzature con funzioni di interesse generale, in relazione alla quale il Comune ha operato una ricognizione di strutture esistenti, pur classificandole come di interesse generale, assicurando, per questa via, la mera compatibilità delle stesse con lo strumento urbanistico, senza però sancirne la necessità in relazione alle esigenze attinenti alle dotazioni di servizi in favore della comunità insediata.
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... per l'accertamento della non debenza del contributo di costruzione per l'esecuzione dell'intervento di ristrutturazione edilizia oggetto del permesso di costruire n. 39/2013 e per la conseguente condanna del Comune di Bosisio Parini alla restituzione delle somme versate a tale titolo dall’Associazione ricorrente, maggiorate degli interessi legali maturati dalla data della domanda giudiziale all'effettiva restituzione;
...
1. La ricorrente Associazione “La nostra famiglia” (di seguito anche: l’Associazione) è un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, avente carattere di organizzazione non lucrativa di utilità sociale (ONLUS), che gestisce, nel territorio del Comune di Bosisio Parini, l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico “Eugenio Medea” e un centro di riabilitazione, operando, per entrambe tali strutture, in regime di accreditamento con l’Azienda sanitaria della Provincia di Lecco.
2. L’Associazione ha chiesto al Comune il rilascio di un permesso di costruire per la ristrutturazione edilizia di un padiglione dell’Istituto “Eugenio Medea”.
In data 03.10.2013, l’Amministrazione ha comunicato l’emanazione del titolo edilizio, chiedendo tuttavia alla parte istante di produrre il calcolo analitico degli oneri dovuti per l’intervento, da corrispondersi prima del ritiro del permesso di costruire.
L’Associazione ha a questo punto prodotto le proprie controdeduzioni, ritenendo di non essere tenuta al versamento del contributo di costruzione.
A seguito di interlocuzioni tra le parti, la Giunta comunale, con deliberazione del 01.04.2015, n. 37, ha infine ribadito di ritenere dovuta la corresponsione degli oneri per il rilascio del titolo edilizio. L’Ufficio tecnico comunale ha quindi emesso la nota del 15.04.2015, con la quale è stato chiesto all’Associazione il versamento, a titolo di contributo di costruzione, dell’importo complessivo di euro 188.329,57; somma di cui la ricorrente ha chiesto e ottenuto la rateizzazione, riservandosi tuttavia di agire in giudizio per contestare la sussistenza dell’obbligazione.
3. L’Associazione ha quindi proposto il presente ricorso, con il quale ha chiesto a questo Giudice di accertare e dichiarare che nessun contributo è dovuto per la realizzazione dell’intervento di ristrutturazione, condannando conseguentemente il Comune alla restituzione delle somme già versate dalla ricorrente, maggiorate degli interessi legali dal giorno della domanda giudiziale, previo annullamento –occorrendo– degli atti comunali specificati in epigrafe.
...
7. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono di seguito.
8. L’Associazione sostiene di non essere tenuta al versamento degli oneri per la realizzazione dell’intervento di ristrutturazione edilizia, in base alle previsioni dell’articolo 17, comma 3, lett. c), del decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2011, n. 380; disposizione, questa, per la quale il contributo di costruzione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
La ricorrente ritiene l’intervento pienamente riconducibile entro il perimetro applicativo di entrambe fattispecie contemplate dalla previsione normativa ora richiamata. Le opere sarebbero, infatti, annoverabili tra “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti” (primo motivo di ricorso) e, comunque, costituirebbero anche “opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici” (secondo motivo).
Sotto altro profilo, la parte allega la violazione dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990, nonché il vizio di eccesso di potere per carenza di istruttoria, carenza di motivazione e contraddittorietà, poiché l’Amministrazione non avrebbe illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto di non aderire alle argomentazioni dell’Associazione in ordine al ricorrere di un’ipotesi di esonero dal versamento del contributo di costruzione (terzo motivo di ricorso).
9. Il Collegio ritiene, per ragioni di ordine logico, di dover prendere le mosse da quest’ultima censura.
9.1 La doglianza non può trovare accoglimento, per la ragione dirimente che la questione concernente la determinazione dell’an e del quantum del contributo di costruzione comporta l’esplicazione, da parte dell’Amministrazione, di un’attività priva di profili di discrezionalità (v., tra le ultime: Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2016, n. 2011) e attinente a posizioni giuridiche di diritto soggettivo (ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208). Conseguentemente, sono radicalmente inconfigurabili i vizi di difetto di istruttoria e di motivazione (Cons. Stato, Sez. IV, 10.03.2015, n. 1211).
E ciò in quanto le operazioni di corretta quantificazione della misura del contributo “si esauriscono in una mera operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero dall'amministrazione con norme di natura regolamentare e, quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti criteri generali, contestare l'erroneità della quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di fatto o di diritto” (Cons. Stato, Sez. V, 29.07. 2000, n. 4217; nello stesso senso: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 08.09.2011, n. 2189).
9.2 Il terzo motivo di ricorso va quindi respinto.
10. Può passarsi, a questo punto, alla trattazione dei primi due mezzi, con i quali –come detto– l’Associazione allega di versare in entrambe le fattispecie contemplate dall’articolo 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, e di aver pertanto diritto all’esenzione dal contributo di costruzione.
11. Al riguardo, mette conto anzitutto di ricordare che nell’ordinamento giuridico vige la regola generale dell’onerosità del permesso di costruire.
Si tratta di un principio introdotto dall’articolo 1 della legge 28.01.1977, n. 10 –in base al quale “Ogni attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi (...)”– e oggi sancito dall’articolo 11, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si conferma l’onerosità del permesso.
A fronte di tale regime generale, la disciplina primaria stabilisce una serie di ipotesi, indicate all’articolo 17 del d.P.R. n. 380 del 2001, di riduzione o di esonero dal contributo di costruzione. Tali ultime previsioni normative –secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza– sono tuttavia da ritenere “tassative e di stretta interpretazione”, proprio in quanto “derogatorie rispetto alla regola della normale onerosità del permesso” (Cons. Stato, Sez. IV, 11.02.2016, n. 595) e, inoltre, perché qualificabili come esenzioni tributarie, come tali costituenti eccezioni al principio costituzionale di capacità contributiva (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.10.2014, n. 1111).
12. Poste tali considerazioni, deve rilevarsi che –come sopra detto– l’articolo 17, comma 3, lett. c) del d.P.R. n. 380 del 2001, invocato dalla ricorrente, contempla anzitutto, quali trasformazioni edificatorie esonerate dal contributo di costruzione, “gli impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti”.
12.1 Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, per integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso di due requisiti, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo, le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente competente (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 11.01.2006, n. 51; Id. 20.10.2004, n. 6818; Id., 10.07.2000, n. 3860).
La ratio della norma –è stato inoltre rilevato– è anzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle quali la collettività possa comunque trarre una utilità (Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.). Il legislatore ha quindi inteso evitare “l'imposizione degli oneri concessori al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse”; imposizione che “sarebbe altrimenti intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe avvantaggiarsi dal loro pagamento” (così ancora Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.).
12.2 In tale prospettiva, la giurisprudenza ha altresì chiarito –con riferimento al requisito soggettivo– che per “enti istituzionalmente competenti” debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché l’opera sia realizzata per conto di un ente pubblico.
In particolare, con riferimento a questa seconda ipotesi, “l’esenzione spetta soltanto qualora (come avviene nella concessione di opera pubblica e in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale utilizzato consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia operato. (cfr. ex multis V Sez. n. 536 del 1999 e n. 1901 del 2000). In altri termini, l’esenzione spetta solo se il privato abbia agito quale organo indiretto dell’amministrazione, come appunto nella concessione o nella delega” (Cons. Stato, n. 595 del 2016, cit.).
E –come pure rilevato dalla giurisprudenza– l’esattezza della soluzione in base alla quale si richiede che l’opera sia realizzata direttamente da enti pubblici ovvero da soggetti che agiscono per conto di enti pubblici è confermata non soltanto “dall'endiadi: "opere pubbliche o di interesse generale", che rinvia ad una figura soggettiva pubblica, ma dal fatto che nella sola seconda parte della proposizione normativa, concernente le opere di urbanizzazione, la disposizione reca la specifica indicazione: "eseguite anche da privati". Ne esce quindi caricata di ulteriore valore semantico la locuzione: "enti istituzionalmente competenti", che non può riferirsi che ad enti pubblici o a soggetti che agiscono per conto degli stessi” (Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.).
12.3 Poste tali coordinate ermeneutiche, deve ritenersi che, nel caso oggetto del presente giudizio, sia riscontrabile soltanto il requisito oggettivo richiesto dalla previsione normativa, ma non anche il requisito soggettivo.
E’ infatti indubitabile che l’intervento di ristrutturazione dell’Istituto di ricovero e cura costituisca un’opera di interesse generale (anche alla luce delle previsioni di piano, delle quali si tratterà nello scrutinare il secondo motivo di ricorso).
Non può, invece, ritenersi che l’Associazione “La nostra famiglia” sia qualificabile quale “ente istituzionalmente competente”.
Si tratta, infatti, di un soggetto che non ha natura pubblica e che non ha agito per conto di una pubblica amministrazione. E la mera circostanza che l’Istituto operi in regime di accreditamento con il servizio sanitario nazionale non comporta, di per sé, l’esistenza di un rapporto organizzatorio con la pubblica amministrazione, tale da determinare la riferibilità dell’opera realizzata a un ente pubblico.
Sotto altro profilo, il Collegio ritiene altresì non dirimente, al fine di qualificare l’Associazione come “ente istituzionalmente competente”, la circostanza che si tratti di un soggetto privo di finalità lucrative.
L’assenza di scopo di lucro è, infatti, una circostanza che attiene unicamente alla funzionalità interna della persona giuridica, la quale non potrà redistribuire gli eventuali utili derivanti dall’attività svolta. Si tratta, tuttavia, di un elemento che, in sé considerato, non è sufficiente a determinare la riferibilità dell’opera a un ente pubblico, che è quanto richiesto dalla norma al fine di rendere operativa l’esenzione.
Tale conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, la quale ha evidenziato che la natura di ONLUS del soggetto che realizza l’intervento non soddisfa il prescritto requisito soggettivo, laddove –come avviene anche nel caso oggetto del presente giudizio– le opere sono destinate a rimanere nella disponibilità del privato, e non sono vincolate neppure a vedere conservata nel tempo la loro funzione (Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.).
12.4 In definitiva, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, il primo motivo di ricorso deve essere respinto.
13. E’ altresì infondato il secondo motivo, con il quale la ricorrente afferma che l’intervento rientrerebbe comunque nella seconda fattispecie contemplata dall’articolo 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto annoverabile tra le “opere di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
13.1 Al riguardo, deve rilevarsi che la disposizione normativa richiede, ai fini dell’esenzione, non soltanto che si sia in presenza di un’opera di urbanizzazione, ma che questa sia altresì realizzata in attuazione di strumenti urbanistici.
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Istituto di ricovero e cura gestito dalla ricorrente è bensì astrattamente riconducibile nel novero delle opere di urbanizzazione secondaria –ai sensi dell’articolo 16, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001– in quanto rientrante tra le “attrezzature sanitarie”, ma non è stato realizzato in attuazione dello strumento urbanistico.
13.2 In particolare, risulta agli atti del giudizio che l’opera ricade in Zona F2, destinata a ospitare “Servizi tecnologici e di interesse generale” e disciplinata dall’articolo 53 delle NTA del Piano delle Regole; zona ove sono localizzate “attrezzature pubbliche e/o private con funzioni di interesse generale”.
Al riguardo, la difesa comunale ha ben evidenziato che gli spazi per attrezzature pubbliche e collettive prescritti dall’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 2005 sono classificati dallo strumento urbanistico non quale Zona F2, ma come “ZONA F1 (aree di servizi di uso pubblico e interesse comune)”, soggetta alla disciplina dell’articolo 52 delle NTA del Piano delle Regole. Solo tali spazi sono, quindi, specificamente destinati a standard urbanistici.
Al contrario, le aree classificate come Zona F2 non sono state prese in considerazione dallo strumento urbanistico al fine della verifica della dotazione di aree di uso pubblico a servizio di insediamenti residenziali e non danno luogo a standard urbanistici. Si tratta, infatti, di aree che comprendono compendi immobiliari aventi varia destinazione («Ambiti per servizi tecnologici», «Complesso socio-assistenziale, sanitario, ospedaliero “La Nostra Famiglia”», «Crossodromo Bodrone», «Villa Mira»), tutti caratterizzati dal soddisfacimento di finalità di interesse generale, ma non costituenti opere che il Comune ha reputato necessarie al fine dell’urbanizzazione dell’ambito entro il quale ricadono, tanto da non averle prese in considerazione ai fini del calcolo della relativa dotazione di standard.
Si tratta, in altri termini, di compendi immobiliari rispetto ai quali lo strumento urbanistico ha sostanzialmente operato una ricognizione, qualificandoli come attrezzature con funzioni di interesse generale, ma non quali opere indispensabili per assicurare i servizi necessari alla comunità insediata.
Da ciò derivano due considerazioni.
13.3 Sotto un primo profilo, poiché l’intervento oggetto del presente giudizio non è posto a servizio dell’urbanizzazione del territorio comunale, o di una porzione di questo, esso non dà luogo a un’opera di urbanizzazione, pur rientrando nelle categorie astrattamente indicate all’articolo 16, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E invero, perché un’opera sia qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria è necessario che essa sia direttamente funzionale a un ben preciso insediamento urbano. E ciò in considerazione della circostanza che “le opere di urbanizzazione secondaria hanno tendenzialmente una dimensione comunale o infra-comunale, in quanto finalizzate a migliorare il grado di fruibilità di uno specifico e circoscritto insediamento urbano mediante la creazione da parte dell’ente locale di determinate strutture di supporto per servizi fruibili da quella comunità” (Cons. Stato, n. 595 del 2016, cit.).
Conseguentemente, un centro ospedaliero contemplato dallo strumento urbanistico quale attrezzatura con funzioni di interesse generale, ma non previsto quale dotazione di standard a servizio di un ambito territoriale, di per sé non è qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria.
13.4 Sotto altro, concorrente, profilo, la circostanza che –come detto– il Piano di Governo del Territorio si sia limitato a riconoscere la presenza sul territorio e l’interesse generale di una congerie assai diversificata di opere esistenti, indicandole con una medesima classificazione, senza però prenderle in considerazione quali dotazioni di servizi necessarie alla collettività, implica che tali opere debbano bensì reputarsi conformi allo strumento urbanistico, ma non attuative delle relative previsioni. Si tratta infatti di opere che non devono, ma possono essere presenti sul territorio comunale, per cui, laddove le attività che in esse si svolgono dovessero essere dismesse dai privati, non insorgerebbe l’obbligo per l’Amministrazione di assicurare in altro modo la soddisfazione delle dotazioni di servizi in favore della comunità insediata.
13.5 La validità della predetta distinzione tra opere meramente conformi, o specificamente attuative, del piano è stata, del resto, anche di recente ribadita dalla giurisprudenza, la quale ha esplicitamente affermato che la semplice riconduzione all’astratta tipologia di opera di urbanizzazione secondaria non può considerarsi sufficiente ai fini dell’esenzione del contributo, essendo necessario altresì che l’intervento sia attuativo di una specifica previsione di piano (Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2016, n. 2011; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.10.2014, n. 1111).
E, in questo senso, non può ritenersi pertinente il richiamo, operato dalla ricorrente, alla sentenza della IV Sezione del Consiglio di Stato 12.05.2011, n. 2870, al fine di sostenere che qualunque opera rientrante astrattamente nel novero delle opere di urbanizzazione, e realizzata in conformità allo strumento urbanistico, debba beneficiare dell’esenzione. La fattispecie decisa dal Consiglio di Stato riguardava, infatti, la costruzione di un’opera che corrispondeva a una puntuale previsione dello strumento urbanistico, il quale destinava specificamente un’area a servizi ospedalieri e sanitari.
Come detto, nel caso oggetto del presente giudizio, l’opera ricade, invece, in una zona avente una destinazione generica ad attrezzature con funzioni di interesse generale, in relazione alla quale il Comune ha operato una ricognizione di strutture esistenti, pur classificandole come di interesse generale, assicurando, per questa via, la mera compatibilità delle stesse con lo strumento urbanistico, senza però sancirne la necessità in relazione alle esigenze attinenti alle dotazioni di servizi in favore della comunità insediata.
13.6 Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, si conferma quindi il rigetto anche del secondo motivo di impugnazione.
14. In conclusione, l’intero ricorso deve essere respinto (TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 03.11.2016 n. 2011 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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