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AGGIORNAMENTO AL 30.06.2017 (ore 23,59) |
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Parco Adda Nord, Terzi: emerse irregolarità, atti
trasmessi a Procura e Corte Conti. |
Presunte irregolarità nell’attività di gestione del
Parco Adda Nord sono emerse dai controlli avviati da
Regione Lombardia ai sensi della Legge regionale
17/2014 che disciplina il sistema regionale dei
controlli interni. Gli atti sono stati trasmessi
alle autorità competenti: Procura della Repubblica,
Corte dei Conti, Autorità nazionale anticorruzione e
Inps.
A darne notizia, nel corso di una conferenza stampa
convocata a Palazzo Pirelli, l’assessore regionale
all’Ambiente, Energia e Sviluppo sostenibile Claudia
Terzi.
L’AVVIO DELL’ISPEZIONE – “In seguito a
segnalazioni da parte di alcuni componenti del
comitato di gestione del Parco, pervenute agli
uffici dell’assessore all’Ambiente, Energia e
Sviluppo sostenibile in merito a presunti
comportamenti di dubbia legittimità posti in essere
nell’ambito dell’attività dell’ente Parco Adda Nord
– sottolinea Terzi, la direzione di funzione
specialistica sistema dei controlli della presidenza
regionale, in collaborazione con la Direzione
generale Ambiente, ha avviato una verifica ispettiva
sull’Ente. L’attività di ispezione –precisa
l’assessore– si è svolta anche in contraddittorio
con l’ente gestore del Parco, e ha abbracciato un
lasso di tempo che va dal mese di ottobre 2016 al
21.06.2017”.
IL RUOLO DELL’ARAC – “Tale attività di
verifica ispettiva –prosegue l’assessore– ha
beneficiato anche della partecipazione dell’Arac,
l’Agenzia regionale anticorruzione, attraverso la
collaborazione di due suoi componenti: la dottoressa
Giovanna Ceribelli e il dottor Sergio Arcuri. Un
passo importante nell’ambito dell’attività di
controllo voluta dal presidente Maroni con la
creazione di un’apposita agenzia regionale dedicata
alla verifica del rispetto della legalità”.
L’ESITO DEGLI ACCERTAMENTI – “Gli
accertamenti svolti –spiega la titolare lombarda
all’Ambiente– avrebbero rilevato, in particolare,
accanto a presunte irregolarità nell’ambito di
specifici procedimenti amministrativi, l’esistenza
di una cattiva gestione della cosa pubblica come, ad
esempio, nell’ambito della tutela della concorrenza
nell’affidamento delle commesse pubbliche”.
MANCATA ATTUAZIONE ATTIVITÀ PROMOZIONE – Tra le
varie contestazioni, figura anche la mancata
attuazione dell’attività di promozione ambientale
tramite un call center dedicato, prevista in
seguito all’erogazione da parte di Regione Lombardia
al Parco Adda Nord, di fondi europei per un importo
pari a 37.000 euro.
TRASMISSIONE DEGLI ATTI – “Alla luce di
quanto emerso dall’ispezione regionale –sottolinea
Terzi– si è deciso di trasmettere gli atti
conclusivi della verifica alle autorità inquirenti.
Degli esiti della verifica verrà informata anche
l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), in
ragione delle possibili violazioni della disciplina
in tema di appalti e di trasparenza rilevate, nonché
ulteriori autorità pubbliche a vario titolo
interessate per materia (Inps, Autorità di gestione
Por Fesr 20017-2013, Autorità di audit fondi Ue), in
considerazione della varietà delle violazioni emerse”.
INTERVENTI REGIONALI – “L’amministrazione
regionale –conclude Terzi– ha già in corso
approfondimenti volti a valutare l’opportunità di
puntuali interventi di modifica normativa, per
quanto di propria competenza, al fine di ovviare
alle principali criticità emerse” (27.06.2017
- link a https://claudiaterzi.wordpress.com). |
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Elezioni amministrative e nuovo Sindaco:
okkio ad
esautorare "sic et simpliciter" il previgente
responsabile dell'UTC!! |
PUBBLICO IMPIEGO: Se
cambia il Primo cittadino, l’incarico dirigenziale non può
essere revocato
(08.05.2017 - link a www.altalex.com).
La Corte accoglie il ricorso del funzionario di un comune
(privo di figure dirigenziali) al quale era stata attribuita
la posizione apicale di Responsabile del settore tecnico
lavori pubblici, incarico successivamente non confermato in
occasione del rinnovo della nomina del Sindaco e proprio
contro questa mancata riconferma ricorre il lavoratore.
I giudici ricordano che, sulla base di quanto stabilito da
numerosa giurisprudenza costituzionale, il dirigente
illegittimamente rimosso –cioè per cause non derivanti da
accertamento di risultati negativi o a seguito di
procedimenti disciplinari– va reintegrato nell’incarico per
il tempo residuo di durata, ed i medesimi principi, dicono i
giudici, vanno affermati con riguardo alle posizioni
organizzative.
Nel caso di specie il dipendente non era stato riconfermato
esclusivamente per il sopraggiunto insediamento del nuovo
organo investito del potere di nomina, violando così anche i
principi costituzionali della continuità dell’azione
amministrativa e del buon andamento dell’azione
amministrativa stessa.
Pertanto i giudici accolgono il ricorso e cassano la
sentenza dettando il seguente principio di diritto cui la
Corte del rinvio dovrà attenersi: “La revoca degli
incarichi di posizioni organizzative nell’ambito degli enti
locali può essere disposta sulla base degli specifici
presupposti indicati dall’art. 9, comma 3, del ccnl
31.03.1999, ed è illegittima se comunicata in considerazione
del mero mutamento dell’organo investito del potere di
nomina” (commento tratto da www.aranagenzia.it).
---------------
La revoca degli incarichi di posizioni organizzative
nell'ambito degli enti locali può essere disposta sulla base
degli specifici presupposti indicati dall'art. 9, comma 3,
del c.c.n.l. 31.03.1999 ed è illegittima se comunicata in
considerazione del mero mutamento dell'organo investito del
potere di nomina.
La illegittimità dell'interruzione dello svolgimento degli
incarichi dirigenziali determina —in linea generale- il
diritto alla reintegrazione negli incarichi stessi.
---------------
La Corte d'appello di Salerno, in riforma della sentenza del
Tribunale di Nocera Inferiore, ha respinto -con sentenza
depositata il 29.03.2010- la domanda proposta da Lu.Fa.,
dipendente con qualifica di funzionario D6 del Comune di
Castel San Giorgio, per la reintegrazione nella posizione
apicale di Responsabile del settore tecnico lavori pubblici
- ufficio espropri del Comune, incarico conferito con
decreto del Commissario prefettizio n. 1349 del 27.01.2005
(a cui era stata aggiunta, con decreto n. 4278 del
23.03.2005, la responsabilità del servizio manutentivo degli
immobili comunali) e di cui era stata comunicata la mancata
conferma (con contestuale attribuzione di altro incarico),
con decreto n. 6025 del 28.04.2005, in occasione del rinnovo
della nomina del Sindaco.
La Corte di appello ha ritenuto -anche sulla scorta dei
principi elaborati dal giudice di legittimità in materia di
attribuzione di incarichi dirigenziali nell'ambito del
personale privatizzato della pubblica amministrazione- che i
criteri di temporaneità di detti incarichi (come sanciti,
nell'ambito degli enti locali, dall'art. 109 del D.Lgs. n.
267 del 2000) e di inapplicabilità dell'art. 2103 c.c. (come
previsto dall'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001) escludono
la configurabilità di un diritto soggettivo alla
conservazione dell'incarico affidato, senza alcun profilo di
contrasto con l'art. 15 del c.c.n.l. comparto enti locali
che si limita ad esplicitare la modalità di attribuzione
delle posizioni organizzative negli enti privi di personale
con qualifica dirigenziale.
La Corte ha, conseguentemente, respinto le consequenziali
domande di condanna di natura retributiva e risarcitoria.
...
1. Con il primo ed il secondo motivo il
ricorrente denuncia violazione degli artt. 50, 109, 110 del
D.Lgs. n. 267 del 2000, dell'art. 15 del c.c.n.l. comparto
Enti Locali, dell'art. 13 del Regolamento di organizzazione
degli uffici e servizi del Comune di Castel San Giorgio,
dell'ad,. 20 dello Statuto del medesimo Comune nonché vizio
di motivazione (in relazione all'art. 360, primo comma, nn.
3 e 5, c.p.c.), avendo, la Corte territoriale, trascurato
che (al di là della contraddizione contenuta nel decreto n.
6025 del 2005 in ordine alla durata a tempo determinato o
meno degli incarichi dirigenziali) l'art. 109 del D.Lgs. n.
267 del 2000 non prevede la cessazione degli incarichi
dirigenziali in occasione della scadenza del mandato del
Sindaco.
In particolare, con il secondo motivo, il ricorrente rileva
che il Fa., in quanto titolare di posizione organizzativa
quale dipendente a tempo indeterminato di categoria D, vanta
il diritto ad ottenere funzioni dirigenziali le quali
spettano, in un Comune privo di qualifica dirigenziale, al
Responsabile del settore, in forza dell'art. 109 del D.Lgs.
n. 267 del 2000 (secondo cui le funzioni dirigenziali
possono essere attribuite, nei Comuni privi di qualifiche
dirigenziali, ai Responsabili degli uffici), dell'art. 15
del c.c.n.l. di settore (in base al quale i Responsabili
delle strutture apicali sono titolari delle posizioni
organizzative), dell'art. 13 del Regolamento di
organizzazione degli uffici e servizi del Comune di Castel
San Giorgio (che stabilisce che la funzione dirigenziale è
esercitata dai Responsabili di settore).
2. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia
violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché del principio
di disponibilità delle prove nonché vizio di motivazione (in
relazione all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.)
avendo, la Corte territoriale, attribuito al decreto n. 6025
del 28.04.2005 un significato contrastante con il suo testo
letterale, avulso dal precedente decreto n. 1349 del
27.01.2005, emergendo chiaramente sia la natura
indeterminata del conferimento della posizione organizzativa
sia l'automatismo contrattuale che collega le funzioni
dirigenziali alla titolarità di posizione organizzativa.
3. Con il quarto motivo il ricorrente denunzia
violazione e falsa applicazione dell'art. 109 del D.Lgs. n.
267 del 2000 nonché vizio di motivazione (in relazione
all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c.) dovendo
ritenersi illegittimo il decreto n. 6025 del 28.4.2005 di
mancato conferimento dell'incarico in quanto sprovvisto di
motivazione e, comunque, dotato di motivazione
contraddittoria (richiamando due norme, l'art. 109 e l'art.
110 del D.Lgs. n. 267 del 2000, incompatibili tra loro).
...
5. I motivi dal primo al quarto possono esaminarsi
congiuntamente, vista la loro connessione, e sono fondati.
Il ricorrente ha trascritto stralcio del Regolamento di
organizzazione degli uffici e dei servizi del Comune di
Caste! San Giorgio, ove è previsto (art. 13) che
-trattandosi di ente privo di personale con qualifica
dirigenziale- la funzione dirigenziale è esercitata dai
responsabili di settore.
In ordine agli incarichi dirigenziali, il
giudice delle leggi ha affermato
-dichiarando la illegittimità costituzionale dell'art. 3,
comma 7, della L. n. 145 del 2002 che disponeva la
cessazione degli incarichi di funzione dirigenziale generale
decorsi 60 giorni dall'entrata in vigore della legge stessa-
che il principio di continuità dell'azione
amministrativa è strettamente correlato a quello del buon
andamento dell'azione stessa, criterio che comporta -per i
dirigenti- una valutazione fondata sui risultati da
perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice
politico (sentenza
n. 103/2007).
La previsione di un'anticipata cessazione
ex lege dell'incarico dirigenziale deresponsabilizza
il dirigente dall'assunzione dei risultati amministrativi e
rende arbitraria l'adozione di poteri di rimozione
causalmente giustificabili soltanto nell'ottica della
rispondenza ad un pubblico superiore interesse e non certo
alla circostanza transeunte del mutamento dell'organo
investito del potere di nomina.
La revoca delle funzioni legittimamente conferite ai
dirigenti può, dunque, essere conseguenza soltanto di una
accertata responsabilità dirigenziale, in presenza di
determinati presupposti e all'esito di un procedimento di
garanzia puntualmente disciplinato.
La successiva giurisprudenza costituzionale ha ribadito e
precisato che i meccanismi di decadenza
automatica, "ove riferiti a figure dirigenziali non
apicali, ovvero a titolari di uffici amministrativi per la
cui scelta l'ordinamento non attribuisce, in ragione delle
loro funzioni, rilievo esclusivo o prevalente al criterio
della personale adesione del nominato agli orientamenti
politici del titolare dell'organo che nomina, si pongono in
contrasto con l'art. 97 Cost., in quanto pregiudicano la
continuità dell'azione amministrativa, introducono in
quest'ultima un elemento di parzialità, sottraggono al
soggetto dichiarato decaduto dall'incarico le garanzie del
giusto procedimento e svincolano la rimozione del dirigente
dall'accertamento oggettivo dei risultati conseguiti"
(sentenze n. 34 del 2010, n. 351 e n. 161 del 2008, n. 104 e
n. 103 del 2007).
Sulla scorta di tale pronuncia, questa Corte ha recentemente
affermato che il dirigente generale
illegittimamente rimosso va reintegrato nell'incarico per il
tempo residuo di durata, senza che rilevi l'indisponibilità
del posto a seguito della riforma organizzativa
dell'amministrazione
(sentenza n. 3210/2016).
Medesimi principi vanno affermati con
riguardo alle posizioni organizzative, avendo riguardo
all'art. 15 del c.c.n.l. comparto Enti locali 2002-2005 (che
-negli enti privi di personale con qualifica dirigenziale-
individua nei Responsabili delle strutture apicali i
titolari delle posizioni organizzative) nonché all'art. 9,
comma 3, del c.c.n.l. comparto Enti locali (che prevede che
gli incarichi di posizioni organizzative possono essere
revocati prima della scadenza con atto scritto e motivato,
in relazione a intervenuti mutamenti organizzativi o in
conseguenza di specifico accertamento di risultati
negativi).
Invero, la revoca degli incarichi di
posizioni organizzative (incarichi che, di norma, hanno
durata non superiore a cinque anni) viene ricollegata, dalle
disposizioni contrattuali di settore, solamente alla
presenza di determinati presupposti correlati alla modifica
della struttura organizzativa dell'ente ovvero ad una
valutazione negativa del risultato raggiunto, e non può
essere disposta a seguito del mero rinnovo delle cariche
politiche. Queste disposizioni perseguono quel principio di
continuità dell'azione amministrativa sottolineato dal
giudice delle leggi che impediscono l'intervento di profili
di arbitrarietà nell'adozione dei poteri di rimozione di
questi incarichi, poteri causalmente giustificabili soltanto
nell'ottica del buon andamento dell'azione amministrativa e
non certo ricollegabili alla circostanza transeunte del
mutamento dell'organo investito del potere di nomina.
La Corte del merito non ha proceduto ad una corretta
applicazione delle disposizioni legislative e negoziali
(art. 109 D.Lgs. n. 276 del 2000, art. 9 c.c.n.l. comparto
Enti locali 31.03.1999) che prevede, nell'ambito degli enti
locali, la revoca degli incarichi dirigenziali per
determinati casi (correlati a profili disciplinari o al
mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati) tra i
quali non è compreso il mutamento dell'organo investito del
potere di nomina.
In assenza di previsione legislativa o negoziale di tale
tenore e considerata, in ogni caso, la giurisprudenza
costituzionale che ritiene disposizioni di tal fatta
contrarie al principio di continuità dell'azione
amministrativa, il decreto n. 6025 del 28.04.2005 adottato
dal Sindaco del Comune di Castel San Giorgio è illegittimo
in quanto motivato esclusivamente sulla base della decadenza
"ope legis" degli incarichi dirigenziali a seguito
del rinnovo delle cariche politiche.
La Corte del merito, concentrandosi sul profilo di
temporaneità degli incarichi dirigenziali, non si è avveduta
che la comunicazione di mancata conferma degli incarichi
conferiti precedentemente al Fa. era basata, non già sulla
scadenza dell'incarico bensì esclusivamente sul sopraggiunto
insediamento del nuovo organo investito del potere di
nomina.
Può dunque esprimersi il seguente principio di diritto al
quale dovrà attenersi il giudice di rinvio:
la revoca degli incarichi di posizioni organizzative
nell'ambito degli enti locali può essere disposta sulla base
degli specifici presupposti indicati dall'art. 9, comma 3,
del c.c.n.l. 31.03.1999 ed è illegittima se comunicata in
considerazione del mero mutamento dell'organo investito del
potere di nomina.
La illegittimità dell'interruzione dello svolgimento degli
incarichi dirigenziali determina —in linea generale- il
diritto alla reintegrazione negli incarichi stessi.
Peraltro, il Fa. risulta essere andato in pensione in data
31.12.2005 (come indicato a pag. 6 della sentenza della
Corte del merito) e, quindi, in accoglimento del quinto
motivo di ricorso, consegue il diritto al risarcimento del
danno per il periodo corrispondente alla privazione degli
incarichi dirigenziali (sino alla data del pensionamento),
pregiudizio da commisurare alle indennità apicali non
percepite.
...
7.- In sintesi, il ricorso deve essere accolto, per le
ragioni dianzi esposte, mentre la censura relativa alle
spese di lite contenuta nel quinto motivo va dichiarata
inammissibile. La sentenza impugnata deve essere, quindi,
cassata, con rinvio, anche per le spese del presente
giudizio di cassazione, alla Corte d'appello di Salerno in
diversa composizione, che si atterrà, nell'ulteriore esame
del merito della controversia, a tutti i principi su
affermati (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 18.04.2017 n. 9728). |
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Continuano imperterriti gli interrogativi in ordine
all'«elemosina
di Stato»,
ergo l'«incentivo
funzioni tecniche»: |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
1. Il legislatore del 2016 ha risolto le questioni di
diritto transitorio scegliendo l’opzione dell’ultrattività,
consentendo, così, che il regime previgente continui ad
operare in relazione “alle procedure e ai contratti per i
quali i bandi o avvisi siano stati pubblicati prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 2016”.
Ne
deriva che l’istituto previsto dall’art. 113 non è
applicabile alle procedure bandite prima della data di
entrata in vigore del nuovo “Codice”; non può inoltre aversi
ripartizione del fondo agli aventi diritto se non dopo
l’adozione del regolamento di cui al comma 3 dell’art. 113.
2. La Sezione non può che rinviare a quanto disposto dal
comma 3 dell’articolo in esame in ordine al fatto che le
modalità e i criteri di ripartizione sono stabiliti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
3. La
disposizione in esame non sembra delimitare in senso
escludente l’incentivabilità di dette funzioni in ragione
dell’oggetto del contratto; tale interpretazione è ormai
avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede
consultiva che, da un lato, ammette che
gli incentivi siano da riconoscere anche per gli appalti di
servizi e forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari
degli stessi non possano comprendersi coloro che svolgono
attività relative alla progettazione e al coordinamento
della sicurezza.
---------------
Il Sindaco del Comune di Besana in Brianza (MB) ha formulato
una richiesta di parere in merito al regolamento per la
ripartizione del fondo di cui all’art. 113 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
In particolare, il rappresentante dell’Ente, dovendo
procedere alla redazione del regolamento di cui all'art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016, chiede un parere in merito ai
seguenti aspetti.
- “In primo luogo, sorge il dubbio in merito alla
possibilità di riconoscere al personale dipendente gli
incentivi per le opere effettivamente portate a termine nei
periodi da1 19.08.2014 al 18.04.2016 (periodo di vigenza del
citato art. 93, comma 7-bis, Divo 163/2006) e dal 19.04.2016
alla data di approvazione del predisponendo regolamento;
- In secondo luogo, qualora si configuri la possibilità di
procedere alla liquidazione; si devono stabilire le modalità
con le quali effettuare la ripartizione delle somme
destinate-agli incentivi;
- In terzo luogo, in merito alla tipologia delle attività
alle quali applicare il regolamento in parola si chiede se
le attività di manutenzione possano o meno essere
ricomprese.
Per quanto riguarda il primo ed il secondo punto, ci risulta
di difficile comprensione il
parere 07.09.2016 n. 353
reso dalla Corte dei Conti sezione regionale di
Controllo per il Veneto. Sinteticamente, la Corte rispondeva
affermando che non è possibile adottare un regolamento
avente efficacia retroattiva in quanto ciò è illegittimo a
meno di espressa disposizione di legge, ma che è invece
possibile accantonare delle somme per la successiva
liquidazione, concludendo che ove poi il regolamento
successivamente adottato dall'ente dovesse individuare una
percentuale inferiore a quella già stabilita dall'ente, la
parte dell'accantonamento non utilizzata concorrerà alla
determinazione del risultato di amministrazione.
A prima vista, la seconda risposta pare in contraddizione
con la prima, a meno di voler sviluppare la risposta nel
modo seguente:
• non è più possibile adottare un regolamento che disciplini
la fattispecie sulla base delle previsioni dì cui all'art. 93,
comma 7-bis, D.Lvo 163/2006, a seguito della sua abrogazione
da parte del successivo D.Lvo 50/2016;
• è invece possibile e anzi doveroso adottare un nuovo
regolamento in ossequio al D.Lvo 50/2016;
• le somme accantonate per opere effettivamente portate a
termine nel periodo dal 19.08.2014 alla data di adozione del
nuovo regolamento andranno ripartite e liquidate secondo i
criteri ivi previsti, informati al D.Lvo 50/2016.
Alternativamente, si chiede se è possibile ripartire e
liquidare le somme accantonate e calcolate tenendo conto dei
limiti massimi imposti dalla normativa vigente nel tempo
utilizzando i criteri di riparto previsti nel previgente
regolamento, e questo per le opere effettivamente realizzate
nel periodo dal 19.08.2014 alla data di adozione del nuovo
regolamento.
Per quanto riguarda il terzo punto, il 3° comma dell'art. 113
del D.Lvo 50/2016 testualmente recita: l'ottanta per cento
delle risorse finanziarie del fondo costituito ai sensi del
comma 2 è ripartito per ciascuna opera o lavoro, servizio,
fornitura con le modalità previste in sede di contrattazione
decentrata....
Precedentemente, il comma 7-ter dell'art. 93 D.Lvo 163/2006,
ora abrogato, prevedeva che il fondo per la ripartizione
degli incentivi di che trattasi doveva essere costituito
escludendo le attività manutentive. Tale precisazione non
compare nel disposto dell'art. 113 D.Lvo 50/2016.
Pertanto si chiede se, nel silenzio della nuova normativa,
si deve ritenere abrogata l'esclusione delle attività di
manutenzione o se, come ritiene la Corte dei Conti sezione
regionale di controllo per la Sardegna con
parere 18.10.2016 n. 122, deve ritenersi tutt'ora esclusa dalla
ripartizione delle risorse del fondo l'attività di
manutenzione sia ordinaria sia straordinaria”.
...
3. I quesiti posti dal Comune istante sono tre, tutti
riguardanti l’interpretazione dell’art. 113 del d.lgs. n. 50
del 2016.
L’articolo 113 del nuovo Codice dei contratti pubblici
approvato con decreto legislativo 18.04.2016, n. 50
introduce nuove forme di “Incentivi per funzioni tecniche”.
La nuova normativa del Codice dei contratti pubblici,
sostitutiva della precedente, ha abolito gli incentivi alla
progettazione previsti dal previgente articolo 93, comma
7-ter, del decreto legislativo n. 163 del 2006 e
ha introdotto nuove forme di incentivazione per le funzioni
tecniche svolte dai dipendenti pubblici esclusivamente per
le attività di programmazione della spesa per investimenti,
per la verifica preventiva dei progetti di predisposizione e
di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei
contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento,
di direzione dei lavori ovvero direzione dell'esecuzione e
di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico ove necessario per
consentire l'esecuzione del contratto nel rispetto dei
documenti a base di gara, del progetto, dei tempi e costi
prestabiliti.
Detto articolo recita testualmente:
“1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione
dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla
vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle
verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e
alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della
sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del
decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni
professionali e specialistiche necessari per la redazione di
un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione.
L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore
stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non
conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del
fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti
da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione anche per il progressivo uso di
metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione
elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture,
di implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento
informatico, con particolare riferimento alle metodologie e
strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle
risorse può essere utilizzata per l'attivazione presso le
amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di
orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di
alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici
previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le
Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica
di committenza nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di
altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della
centrale unica di committenza, una quota parte, non
superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma
2.”
Al riguardo si rileva che, l’articolo 1, comma 1, lettera rr),
della legge delega 28.01. 2016, n. 11, ha previsto i
seguenti criteri: “al fine di incentivare l'efficienza e
l'efficacia nel perseguimento della realizzazione e
dell'esecuzione a regola d'arte, nei tempi previsti dal
progetto e senza alcun ricorso a varianti in corso d'opera,
è destinata una somma non superiore al 2 per cento
dell'importo posto a base di gara per le attività tecniche
svolte dai dipendenti pubblici relativamente alla
programmazione della spesa per investimenti, alla
predisposizione e controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di direzione dei lavori e
ai collaudi, con particolare riferimento al profilo dei
tempi e dei costi, escludendo l'applicazione degli incentivi
alla progettazione”.
Sulla materia si è espressa la Sezione delle Autonomie con
la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, affermando che “gli
incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113,
comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l.
n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”.
3.1 Il primo quesito verte sulla possibilità di riconoscere
al personale dipendente gli incentivi per le opere
effettivamente portate a termine nel periodi dal 19.08.2014 al 18.04.2016 e nel periodo dal 19.04.2016 alla
data di approvazione del regolamento di cui all’art. 113 d.lgs. n. 50 del 2016.
3.1.1 La risposta al quesito necessita, innanzitutto, di
chiarire un primo elemento temporale, relativo all’entrata
in vigore dell’istituto incentivante di cui all’art. 113
citato nell’ambito della complessiva disciplina introdotta
con il d.lgs. n. 50 del 2016.
In via generale l’introduzione di un nuovo assetto
normativo, quale quello contenuto nel d.lgs. n. 50 del 2016,
determina conseguenze in ordine all’avvicendamento temporale
del medesimo rispetto alla disciplina precedente.
Tali conseguenze possono trovare, almeno in astratto,
tre
possibili e differenti regolazioni: a) la normativa
anteriore continua ad applicarsi ai rapporti sorti prima
dell’entrata in vigore del nuovo atto normativo (principio
di ultrattività); b) la nuova normativa si applica anche ai
rapporti pendenti (principio di retroattività); c)
previsione di una regolazione autonoma provvisoria.
In mancanza di un’esplicita regolazione del regime
transitorio, soccorrono il principio del divieto di
retroattività (art. 11 delle preleggi: “la legge non dispone
che per l’avvenire”), che impedisce di ascrivere entro
l’ambito operativo di una disposizione legislativa nuova una
situazione sostanziale sorta prima, e, per quanto riguarda
le fattispecie sostanziali che constano di una sequenza di
atti, il principio del tempus regit actum, che impone di
giudicare ogni atto della procedura soggetto al regime
normativo vigente al momento della sua adozione.
Il legislatore del 2016 si è fatto carico delle questioni di
diritto transitorio e le ha risolte scegliendo l’opzione
dell’ultrattività, consentendo, così, che il regime
previgente continui ad operare in relazione “alle procedure
e ai contratti per i quali i bandi o avvisi siano stati
pubblicati prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del
2016”. Ai sensi dell’art. 216, comma 1, infatti, le
disposizioni introdotte dal d.lgs. n.50 del 2016 si
applicano solo alle procedure bandite dopo la data
dell’entrata in vigore del nuovo “Codice”, fatto salve le
disposizioni speciali e testuali di diverso tenore.
Non ricorrendo tale ultima eventualità in relazione
all’istituto dell’incentivo di cui all’art. 113, la
disciplina intertemporale del medesimo non può che
rinvenirsi nella
regola posta in termini generali dall’art. 216, comma 1, del
d.lgs. n. 50 del 2016. Là dove, infatti, quest’ultima
previsione si riferisce “al presente Codice”,
si deve intendere che essa comprenda entro il proprio ambito
applicativo tutte le disposizioni del decreto legislativo
n. 50 del 2016.
Se il legislatore avesse voluto escludere dall’ambito
applicativo del regime transitorio la norma di cui all’art.
113, lo avrebbe dovuto esplicitare, come ha fatto per le
previsioni riportate nei commi dell’art. 216 successivi al
primo e come espressamente stabilito, quale criterio
esegetico generale della disciplina transitoria, nella
clausola di apertura del primo comma.
A fronte di una espressa regola intertemporale contenuta
nell’art. 216 e in difetto di univoci indici che rivelino
una chiara volontà di escludere dall’operatività del
principio di ultrattività le norme contenute nell’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016, ogni opzione ermeneutica che
giunga alla conclusione di applicare a queste ultime il
principio della retroattività o, comunque, la regola del
tempus regit actum si rivela priva di fondamento positivo,
e, pertanto, foriera di incertezze interpretative e di
confusione applicativa.
Ne deriva che l’istituto previsto dall’art. 113 non è
applicabile alle procedure bandite prima della data di
entrata in vigore del nuovo “Codice”.
3.1.2 L’ulteriore corollario del primo quesito è relativo
all’applicabilità dell’incentivo disciplinato dall’art. 113
del d.lgs. n. 50 del 2016 nel periodo successivo all’entrata
in vigore del nuovo Codice dei contratti pubblici ma
antecedente all’introduzione del regolamento ivi richiamato.
Sul punto si è in parte pronunciata la Sezione Veneto con
parere 07.09.2016 n. 353, affermando che
l’adozione del
regolamento è “una condizione essenziale ai fini del
legittimo riparto tra gli aventi diritto delle risorse
accantonate sul fondo.
Ciò, evidentemente, perché esso è destinato ad individuare
le modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla
percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo
fissato dalla legge”.
Ne deriva che non può aversi ripartizione del fondo agli
aventi diritto se non dopo l’adozione del regolamento di cui
al comma 3 dell’art. 113. Fermo restando che la ripartizione
è effettuata, come già sopra osservato, in relazione ad
attività riferite a procedure bandite a partire dalla data
di entrata in vigore del nuovo “Codice” e utilizzando le
somme accantonate nel quadro economico riguardante la
singola opera.
3.2 Il secondo quesito verte sulle modalità con le quali
effettuare la ripartizione delle somme destinate agli
incentivi.
Al riguardo la Sezione non può che rinviare a quanto
disposto dal comma 3 dell’articolo in esame in ordine al
fatto che le modalità e i criteri di ripartizione sono
stabiliti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale, sulla base di apposito regolamento adottato
dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti.
3.3 Il terzo quesito verte sulla “tipologia delle attività
alle quali applicare il regolamento in parola”, chiedendo,
in particolare, “se le attività di manutenzione possano o
meno essere ricomprese”.
In primo luogo la Sezione rileva la tassatività –che deriva,
a tacer d’altro, dall’uso dell’avverbio “esclusivamente”-
dell’elenco delle varie funzioni svolte all’interno delle
fasi procedimentali che connotano gli affidamenti di
contratti pubblici (programmazione, progettazione, procedura
selettiva, stipulazione ed esecuzione). Con la conseguenza
che possono beneficiare dell’incentivo esclusivamente i
funzionari che hanno svolto i compiti espressamente indicati
al comma 2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del
2016 e che l’incentivo è causalmente collegato allo
svolgimento delle attività ivi indicate.
Segnatamente gli incentivi per funzioni tecniche previsti
dall’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono
essere corrisposti solo in presenza di una delle attività
espressamente considerate dalla disposizione richiamata
(così Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18;
Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il
Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di
controllo per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in
senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in
ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il
procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime.
L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni
riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi
ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle
“verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui
il compenso
incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del decreto
legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto i lavori,
ma anche i servizi e le forniture rientranti nell’ambito di
applicazione del Codice dei contratti pubblici ed ha al
contempo dato atto del fatto che tale interpretazione è
ormai avvalorata dalla giurisprudenza della Corte in sede
consultiva (cfr. Sezione di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333), che,
da un lato ammette che gli incentivi siano da
riconoscere anche per gli appalti di servizi e forniture e,
dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi non
possano comprendersi coloro che svolgono attività relative
alla progettazione e al coordinamento della sicurezza
(cfr. anche la
deliberazione 13.05.2016 n. 18
della medesima Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del
d.lgs. n. 50 del 2016, in collegato disposto all’allegato I
(al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2, lett. ll, n. 1
per definire la nozione di “lavori”),
l’estromissione dei
contratti di manutenzione ordinaria e straordinaria
dall’ambito di applicabilità del Codice dei contratti
pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende
espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I
l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo
stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che,
a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere
a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività
di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce
espressamente le attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies
dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione
di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione
della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore
imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica
utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo
3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale
esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di
appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la
ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi,
senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei
contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del
d.lgs. n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità delle funzioni
indicate nell’art. 113.
Al riguardo si è già rilevato che la Sezione delle autonomie
ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i
servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice
dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017,
n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in
vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi del quale gli
appalti di servizi e forniture sono stati espressamente
citati nel comma 1 dell’art. 113. Si aggiunge che il comma 2
del medesimo articolo è stato sostituito, prevedendo in modo
espresso che il medesimo comma si applichi agli appalti
relativi a servizi o forniture, limitando, tuttavia, tale
eventualità al caso di nomina del direttore dell'esecuzione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 12.06.2017 n. 191). |
INCENTIVO FUNZIONI PUBBLICHE:
1.
L’elenco delle
attività incentivabili di cui all’art. 113, comma 2, come
fatto palese dalla lettera della legge con l’utilizzo
dell’avverbio “esclusivamente”, deve ritenersi tassativo e
non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che gli incentivi in parola possono essere
corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno
svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione
di legge sopra richiamata all’interno delle fasi
procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti
pubblici (programmazione, progettazione, procedura
selettiva, stipulazione ed esecuzione).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in
senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in
ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il
procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime.
L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni
riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi
ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle
“verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle
autonomie ha accolto
l’assunto secondo cui il compenso incentivante di cui
all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del
2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le
forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice
dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto
che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla
giurisprudenza della Corte in sede consultiva, che,
da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere
anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro,
che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi
coloro che svolgono attività relative alla progettazione e
al coordinamento della sicurezza.
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del
decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto
all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2,
lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”),
l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e
straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei
contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende
espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I
l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo
stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che,
a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere
a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività
di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce
espressamente le attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies
dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione
di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione
della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore
imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica
utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo
3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale
esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di
appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la
ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi,
senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei
contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del
decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità
delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo si è già rilevato che la Sezione delle autonomie
ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i
servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice
dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017,
n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in
vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi
del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati
espressamente citati nel
comma 1 dell’art. 113.
---------------
2. Si chiede se gli incentivi per le
attività di cui all’art. 113, comma 2, possono essere
riconosciuti anche rispetto a contratti per l’affidamento
dei quali non si sia proceduto allo svolgimento di una gara
(come nel caso di affidamento diretto ai sensi dell’art. 36,
comma 2, lettera a), del decreto-legislativo n. 50/2016),
oppure debbano essere esclusi rispetto ai contratti al di
sotto di una soglia minima di importo o a bassa complessità.
La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la
determinazione del fondo destinato a finanziare gli
incentivi, fa espresso riferimento all’“importo dei lavori
(servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a
ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte
rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una
gara.
Si deve pertanto concludere che gli incentivi in questione
possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività
riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che,
secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa
richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati
previo espletamento di una procedura comparativa.
Si segnala peraltro che il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56,
in vigore dal 20.05.2017, nel riformulare l’art. 113,
comma 2, del codice dei contratti, ha stabilito che “la
disposizione di cui al presente comma si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell’esecuzione”.
---------------
3. Si chiede, infine, quale sia la disciplina normativa in
materia di incentivi applicabile per le attività avviate in
vigenza del decreto legislativo n. 163/2006 e ancora in
corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici con il decreto
legislativo n. 50/2016.
Non essendo rintracciabili espresse disposizioni che
escludano la disciplina degli “incentivi tecnici” di cui
all’art. 113 del nuovo codice dal regime intertemporale
sopra riferito si deve pertanto ritenere che quest’ultima
possa essere applicata esclusivamente alle attività
riferibili a contratti banditi successivamente al 19.04.2015.
Rimangono di conseguenza incentivabili secondo la disciplina
previgente le attività riferite a contratti banditi
antecedentemente a tale data, quantunque ancora in corso di
svolgimento
---------------
Con la nota sopra citata il Presidente della Provincia di
Mantova formula una richiesta di parere riguardante la
corretta interpretazione della disciplina degli incentivi
per funzioni tecniche introdotta dall’art. 113 del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50 (c.d. nuovo codice degli
appalti), formulando i seguenti quesiti:
1. Se sia possibile riconoscere gli incentivi per funzioni
tecniche per le prestazioni indicate dall’art. 113, comma 2,
riferite ad appalti aventi ad oggetto lavori di manutenzione
ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi,
considerato che la nuova disposizione non esclude
espressamente le attività manutentive e che alla luce degli
orientamenti ermeneutici espressi in materia dalle Sezioni
regionali di controllo, la stessa riconosce gli incentivi
anche agli appalti di servizi e forniture.
2. Se l'incentivazione sia applicabile anche agli appalti
per il cui affidamento non si proceda mediante svolgimento
di una gara (com'è il caso dell'affidamento diretto ex art.
36, comma 2, lettera a), del decreto legislativo n. 50/2016),
oppure se la regolamentazione interna da adottare ai sensi
dell’art. 113, comma 3, debba escludere dall'ambito di
applicazione dell'incentivo i contratti al di sotto di una
soglia minima di importo o di complessità.
3. Quale normativa in tema di incentivi debba applicarsi
alle prestazioni in corso di svolgimento nel periodo
transitorio di passaggio dall’abrogato decreto legislativo
n. 163/2006 al decreto legislativo n. 50/2016.
...
I quesiti formulati con la presente richiesta di parere
richiedono di stabilire la corretta interpretazione
dell’art. 113 del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50 in
materia di incentivi per funzioni tecniche che si riporta di
seguito:
“1. Gli oneri inerenti alla progettazione, alla direzione
dei lavori ovvero al direttore dell'esecuzione, alla
vigilanza, ai collaudi tecnici e amministrativi ovvero alle
verifiche di conformità, al collaudo statico, agli studi e
alle ricerche connessi, alla progettazione dei piani di
sicurezza e di coordinamento e al coordinamento della
sicurezza in fase di esecuzione quando previsti ai sensi del
decreto legislativo 09.04.2008 n. 81, alle prestazioni
professionali e specialistiche necessari per la redazione di
un progetto esecutivo completo in ogni dettaglio fanno
carico agli stanziamenti previsti per la realizzazione dei
singoli lavori negli stati di previsione della spesa o nei
bilanci delle stazioni appaltanti.
2. A valere sugli stanziamenti di cui al comma 1 le
amministrazioni pubbliche destinano a un apposito fondo
risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per cento
modulate sull'importo dei lavori posti a base di gara per le
funzioni tecniche svolte dai dipendenti pubblici
esclusivamente per le attività di programmazione della spesa
per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell'esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico ove
necessario per consentire l'esecuzione del contratto nel
rispetto dei documenti a base di gara, del progetto, dei
tempi e costi prestabiliti.
3. L'ottanta per cento delle risorse finanziarie del fondo
costituito ai sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna
opera o lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata
integrativa del personale, sulla base di apposito
regolamento adottato dalle amministrazioni secondo i
rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico del
procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni tecniche
indicate al comma 2 nonché tra i loro collaboratori. Gli
importi sono comprensivi anche degli oneri previdenziali e
assistenziali a carico dell'amministrazione.
L'amministrazione aggiudicatrice o l'ente aggiudicatore
stabilisce i criteri e le modalità per la riduzione delle
risorse finanziarie connesse alla singola opera o lavoro a
fronte di eventuali incrementi dei tempi o dei costi non
conformi alle norme del presente decreto. La corresponsione
dell'incentivo è disposta dal dirigente o dal responsabile
di servizio preposto alla struttura competente, previo
accertamento delle specifiche attività svolte dai predetti
dipendenti. Gli incentivi complessivamente corrisposti nel
corso dell'anno al singolo dipendente, anche da diverse
amministrazioni, non possono superare l'importo del 50 per
cento del trattamento economico complessivo annuo lordo. Le
quote parti dell'incentivo corrispondenti a prestazioni non
svolte dai medesimi dipendenti, in quanto affidate a
personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, ovvero prive del predetto accertamento,
incrementano la quota del fondo di cui al comma 2. Il
presente comma non si applica al personale con qualifica
dirigenziale.
4. Il restante 20 per cento delle risorse finanziarie del
fondo di cui al comma 2 ad esclusione di risorse derivanti
da finanziamenti europei o da altri finanziamenti a
destinazione vincolata è destinato all'acquisto da parte
dell'ente di beni, strumentazioni e tecnologie funzionali a
progetti di innovazione anche per il progressivo uso di
metodi e strumenti elettronici specifici di modellazione
elettronica informativa per l'edilizia e le infrastrutture,
di implementazione delle banche dati per il controllo e il
miglioramento della capacità di spesa e di efficientamento
informatico, con particolare riferimento alle metodologie e
strumentazioni elettroniche per i controlli. Una parte delle
risorse può essere utilizzato per l'attivazione presso le
amministrazioni aggiudicatrici di tirocini formativi e di
orientamento di cui all'articolo 18 della legge 24.06.1997, n. 196 o per lo svolgimento di dottorati di ricerca di
alta qualificazione nel settore dei contratti pubblici
previa sottoscrizione di apposite convenzioni con le
Università e gli istituti scolastici superiori.
5. Per i compiti svolti dal personale di una centrale unica
di committenza nell'espletamento di procedure di
acquisizione di lavori, servizi e forniture per conto di
altri enti, può essere riconosciuta, su richiesta della
centrale unica di committenza, una quota parte, non
superiore ad un quarto, dell'incentivo previsto dal comma
2.”
2. Con il
primo quesito si chiede se possano essere
riconosciuti incentivi per le funzioni tecniche previste
dalla disposizione sopra richiamata riferite ad appalti
aventi ad oggetto lavori di manutenzione
ordinaria/straordinaria oppure servizi manutentivi.
Si deve rilevare, in primo luogo, che l’elenco delle
attività incentivabili di cui all’art. 113, comma 2, come
fatto palese dalla lettera della legge con l’utilizzo
dell’avverbio “esclusivamente”, deve ritenersi tassativo e
non suscettibile di interpretazione analogica.
Ne viene che gli incentivi in parola possono essere
corrisposti solo ed esclusivamente ai funzionari che hanno
svolto le funzioni espressamente indicate dalla disposizione
di legge sopra richiamata all’interno delle fasi
procedimentali che connotano gli affidamenti di contratti
pubblici (programmazione, progettazione, procedura
selettiva, stipulazione ed esecuzione).
L’interpretazione riferita trova del resto conferma nella
giurisprudenza contabile, concorde nell’escludere
incentivabilità di funzioni o attività diverse da quelle
considerate dall’art. 113, comma 2, del decreto legislativo
n. 50/2016 (Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18;
Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di controllo per il
Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134; Sezione regionale di
controllo per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
La disposizione in esame non sembra, invece, delimitare in
senso escludente l’incentivabilità di dette funzioni in
ragione dell’oggetto del contratto a cui è finalizzato il
procedimento nell’ambito del quale si svolgono le medesime.
L’art. 113, infatti, utilizza a più riprese espressioni
riferibili alle procedure di affidamento di contratti aventi
ad oggetto servizi e forniture quali i richiami alle
“verifiche di conformità”.
La stessa Sezione delle
autonomie, con
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto
l’assunto secondo cui il compenso incentivante di cui
all’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n. 50 del
2016 riguarda non soltanto i lavori, ma anche i servizi e le
forniture rientranti nell’ambito di applicazione del Codice
dei contratti pubblici ed ha al contempo dato atto del fatto
che tale interpretazione è ormai avvalorata dalla
giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr. Sezione
di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333), che,
da un lato ammette che gli incentivi siano da riconoscere
anche per gli appalti di servizi e forniture e, dall’altro,
che tra i beneficiari degli stessi non possano comprendersi
coloro che svolgono attività relative alla progettazione e
al coordinamento della sicurezza (cfr. anche la
deliberazione 13.05.2016 n. 18 della medesima
Sezione).
Né può farsi discendere dalla formulazione dell’art. 3 del
decreto legislativo n. 50 del 2016, in collegato disposto
all’allegato I (al quale fa rinvio l’articolo 3, comma 2,
lett. ll, n. 1 per definire la nozione di “lavori”),
l’estromissione dei contratti di manutenzione ordinaria e
straordinaria dall’ambito di applicabilità del Codice dei
contratti pubblici.
Da un lato, l’articolo 3, comma 2, lett. nn) ricomprende
espressamente fra i “lavori” di cui all’allegato I
l’attività di manutenzione di opere in quanto tale. Lo
stesso Allegato I è organizzato per specifiche attività che,
a seconda del complessivo lavoro affidato, possono assurgere
a tipiche attività manutentive o meno. Si pensi all’attività
di tinteggiatura di cui al punto 45.44 dell’Allegato I.
Si aggiunge che il Codice dei contratti pubblici definisce
espressamente le attività di manutenzione ordinaria e
straordinaria nelle lettere oo-quater e oo-quinquies
dell’articolo 3, comma 2, lettere che seguono la definizione
di “appalti pubblici di lavori” e precedono la delimitazione
della nozione di “appalti pubblici di servizi”.
Dall’altro lato, il contenuto residuale che il legislatore
imprime alla nozione di “servizi”, considerata la tecnica
utilizzata per la definizione della medesima nell’articolo
3, comma 2, lett. ss e lett. vv, comporta che l’eventuale
esclusione dei contratti manutentivi dalla nozione di
appalti di lavori abbia quale unica conseguenza la
ricomprensione dei medesimi fra gli appalti dei servizi,
senza che ciò possa incidere sulla riconduzione dei
contratti di manutenzione nell’ambito di applicabilità del
decreto legislativo n. 50 del 2016 e sull’incentivabilità
delle funzioni indicate nell’art. 113.
Al riguardo si è già rilevato che la Sezione delle autonomie
ritiene incentivabili non soltanto i lavori, ma anche i
servizi e le forniture.
Da ultimo non può non richiamarsi il correttivo al Codice
dei contratti pubblici (decreto legislativo 19.04.2017,
n. 56, pubblicato nella G.U. in data 05.05.2017 e in
vigore a partire dal 20.05.2017), ai sensi
del quale gli appalti di servizi e forniture sono stati
espressamente citati nel
comma 1 dell’art. 113.
3. Con il
secondo quesito formulato con la presente
richiesta di parere si chiede se gli incentivi per le
attività di cui all’art. 113, comma 2, possono essere
riconosciuti anche rispetto a contratti per l’affidamento
dei quali non si sia proceduto allo svolgimento di una gara
(come nel caso di affidamento diretto ai sensi dell’art. 36,
comma 2, lettera a), del decreto-legislativo n. 50/2016),
oppure debbano essere esclusi rispetto ai contratti al di
sotto di una soglia minima di importo o a bassa complessità.
La lettera della legge che, nel dettare i criteri per la
determinazione del fondo destinato a finanziare gli
incentivi, fa espresso riferimento all’“importo dei lavori
(servizi e forniture) posti a base di gara”, induce a
ritenere incentivabili le sole funzioni tecniche svolte
rispetto a contratti affidati mediante lo svolgimento di una
gara.
Si deve pertanto concludere che gli incentivi in questione
possano essere riconosciuti esclusivamente per le attività
riferibili a contratti di lavori, servizi o forniture che,
secondo la legge (comprese le direttive ANAC dalla stessa
richiamate) o il regolamento dell’ente, siano stati affidati
previo espletamento di una procedura comparativa.
Si segnala peraltro che il decreto legislativo 19.04.2017, n. 56, pubblicato nella G.U. in data
05.05.2017 e
in vigore dal 20.05.2017, nel riformulare l’art. 113,
comma 2, del codice dei contratti, ha stabilito che “la
disposizione di cui al presente comma si applica agli
appalti relativi a servizi o forniture nel caso in cui è
nominato il direttore dell’esecuzione”.
4.
Si chiede, infine, quale sia la disciplina normativa in
materia di incentivi applicabile per le attività avviate in
vigenza del decreto legislativo n. 163/2006 e ancora in
corso di svolgimento alla data di entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici con il decreto
legislativo n. 50/2016.
La risposta all’ultimo quesito formulato dall’ente istante
può essere fornita sulla base dell’art. 216, comma 1, dello
stesso decreto legislativo n. 50/2016 che, nell’affrontare
la questione del diritto transitorio conseguente
all’introduzione dello stesso, stabilisce che “fatto salvo
quanto previsto nel presente articolo ovvero nelle singole
disposizioni di cui al presente codice, lo stesso si applica
alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi
con cui si indice la procedura di scelta del contraente
siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata
in vigore nonché, in caso di contratti senza pubblicazione
di bandi o di avvisi, alle procedure e ai contratti in
relazione ai quali, alla data di entrata in vigore del
presente codice, non siano ancora stati inviati gli inviti a
presentare le offerte”.
Non essendo rintracciabili espresse disposizioni che
escludano la disciplina degli “incentivi tecnici” di cui
all’art. 113 del nuovo codice dal regime intertemporale
sopra riferito si deve pertanto ritenere che quest’ultima
possa essere applicata esclusivamente alle attività
riferibili a contratti banditi successivamente al 19.04.2015.
Rimangono di conseguenza incentivabili secondo la disciplina
previgente le attività riferite a contratti banditi
antecedentemente a tale data, quantunque ancora in corso di
svolgimento
(Corte dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 190). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: 1.-
Gli
incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113,
comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l.
n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”; ciò sulla base di
un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la
peculiarità di tali incentivi.
Per converso, come rilevato in detta sede, va invece
ribadito che, nella riscrittura della materia ad opera del
nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente
salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla
progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo
diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti, come rilevato
dalla Sezione delle autonomie, per le spese di
progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di
vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le
verifiche di conformità, i collaudi statici, gli
studi e le
ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e
di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, del decreto
legislativo n. 50 del 2016.
Con riferimento a tali emolumenti, resta dunque fermo il
principio di diritto già affermato dalle Sezioni riunite
della Corte dei conti le quali, avevano individuato e tipicizzato, come criterio generale di
esclusione dal limite di spesa posto allora dall’art. 9,
comma 2-bis, del decreto legge n. 78 del 2010 (disposizione
“sostanzialmente sovrapponibile”, secondo la Sezione delle
autonomie, a quella vigente), tutti quei compensi per
prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti
qualificati, tra cui l’incentivo per la progettazione
stabilito, nel quadro normativo ratione temporis vigente,
dall’art. 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163
del 2006.
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2.- Il
quesito attiene alla disciplina specifica del fondo, in
punto di alimentazione e di gestione, e non alla dazione
delle somme ai beneficiari finali, aspetto questo che resta
estraneo al quesito così formulato e che viene analizzato in
altre pronunce di questa Corte. In tale ottica, deve essere in primis evidenziata l’irretroattività della fonte
regolamentare ivi disciplinata, sulla scorta di quanto già
deciso da questa Corte.
In particolare, tale profilo della questione si inquadra
nell’ambito della problematica, di per sé più ampia, della
irretroattività dei provvedimenti amministrativi.
Il
principio della irretroattività degli atti –in linea
generale immanente all’ordinamento giuridico, ma costituzionalizzato solo con riferimento all’irretroattività
della legge penale (art. 25, primo comma, Cost.)–
costituisce di per sé corollario dei più generali principi
della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti
dallo stesso prodotti, nonché del principio della certezza
delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento
legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la
retroattività dell’atto sia prevista dalla legge (atteso che
la copertura costituzionale della irretroattività è appunto
prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica
“naturale” dell’atto stesso (es. annullamento che, de iure,
produce effetto ex tunc).
D’altro canto, per gli atti a contenuto normativo –come
appunto i regolamenti– la regola della naturale
irretroattività è affermata dal combinato disposto degli
artt. 3, comma 2, 4, comma 1, e 11, comma 1, delle
Disposizioni preliminari al Codice civile (cc.dd. Preleggi),
disposizioni aventi rango primario, secondo le quali il
regolamento, anche emanato da autorità diverse dal governo,
non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge
e, nella specie, al divieto di retroattività, stabilito dal
successivo art. 11 per il complesso degli atti normativi;
quest’ultima disposizione è dunque derogabile solo per il
tramite di una norma di legge equiordinata che abiliti
l’atto a produrre un tale effetto retroattivo (ad esclusione
dell’ambito oggetto di disciplina ad opera della legge
penale, per la quale la Costituzione, come s’è detto, pone
un divieto assoluto); nella specie, nella rilevata mancanza
di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad
attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo,
il regolamento medesimo, in ossequio all’art. 11 delle
cc.dd. preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Ciò posto, si deve al contempo ricordare, in punto di
modalità di alimentazione del fondo medesimo, che il
predetto
parere 07.09.2016 n. 353 della Sezione regionale di controllo per
il Veneto ha ritenuto che, nelle more della
determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale
entro la quale destinare le risorse e dei criteri di
assegnazione, è corretto accantonare le risorse medesime in
misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia
provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver
approvato il regolamento suddetto: ciò sulla base della
previsione, contenuta nell’art. 113, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo n. 50 del 2016, della destinazione ad un
fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse
finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli
lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico
del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le ivi
previste “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il
restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e
l’innovazione tecnologica.
In particolare, mentre l’“accantonamento ad apposito fondo”
di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento, modulate sull'importo dei lavori posti a base di
gara”, è direttamente stabilito dal
secondo comma dell’art.
113, la ripartizione tra i dipendenti dell’ente viene
regolata nel comma successivo, il quale stabilisce che essa
deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (pro
futuro), perché il regolamento –e solo il regolamento, nella
sistematica della legge– è destinato ad individuare le
modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla
percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo
fissato dalla legge.
In quella pronuncia, sulla base della struttura
dell’enunciato normativo, s’è ritenuto altresì che
il
semplice accantonamento delle risorse, in attesa della
disciplina regolamentare, può tuttavia essere disposto
dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è
possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché,
ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art.
113, secondo comma, del predetto decreto.
In tal caso, ove poi il regolamento successivamente adottato
dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a
quella già applicata dall’ente medesimo, la parte
dell’accantonamento non utilizzata verrebbe a concorrere
alla determinazione del risultato di amministrazione. Nel
caso inverso, ovvero nel caso di accantonamento di una somma
inferiore a quella poi prevista nel regolamento, il mancato
accantonamento costituirebbe invece nella sostanza
“economia” dell’anno, concorrente alla determinazione del
risultato di amministrazione, e come tale dovrebbe essere
considerata; in altre parole, il fondo verrà comunque
costituito con la sola dotazione iniziale frutto del
prudenziale accantonamento dell’ente, fino all’entrata in
vigore del regolamento, fermo restando la ripartizione delle
somme solo successivamente a tale momento, conformemente
alla disciplina regolamentare medio termine approvata e
comunque nel rispetto della normativa vigente.
Va sottolineato che tale accantonamento, tuttavia, viene
disposto non sulla base del regolamento approvato
successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una
scelta prudenziale dell’ente effettuata, nei limiti di
legge, ex ante.
---------------
3.- Sulla
base del tenore letterale del menzionato art. 113 dlgs
50/2016 –il quale
riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di
programmazione della spesa per investimenti, per la verifica
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti
pubblici, di responsabile unico del procedimento, di
direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico”-
l’avverbio
“esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del
legislatore di riconoscere il compenso incentivante
limitatamente alle attività espressamente previste, ove
effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché
l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi
tassativa.
Dunque sotto questo specifico profilo, ossia sotto il
profilo della individuazione dei limiti entro i quali le
attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una
specifica remunerazione, la disciplina degli incentivi,
derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della
retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e
non suscettibile di estensione analogica.
Il punto, così correttamente ricostruita la ratio della
disposizione, diviene dunque non tanto quello
dell’individuazione di un meccanismo di approvigionamento,
effettivamente adottato dall’ente, quale presupposto per
l’erogazione dell’incentivo –nella specie, come da richiesta
del comune, il ricorso a Consip o Mepa, autonomamente di per
sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza,
secondo la specifica disciplina della procedura di e-procurement concretamente applicata, di una delle attività
incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come
svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa
per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta
all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse
possibili evenienze.
Peraltro, al riguardo non sfugga nemmeno come la
disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede
l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia
una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale
requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n.
50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse nel
fondo e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Al riguardo, l’ente, nel valutare concretamente le attività
incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo
nelle diverse evenienze, deve altresì considerare
correttamente il quadro normativo, sistematicamente
considerato, che prevede che per i compiti svolti dal
personale di una centrale unica di committenza,
nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori,
servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere
riconosciuta, su richiesta della centrale unica di
committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto,
dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto, spetta all’ente la valutazione
nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di
attività effettivamente incentivate in forza della ricordata
disposizione normativa.
---------------
4.-
In primo luogo questa Sezione ritiene tassativo l’elenco delle attività
incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può
che confermare che gli incentivi per funzioni tecniche
riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al
comma
2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016; e
ciò perché il suddetto emolumento, in virtù del principio di
onnicomprensività del trattamento economico, può essere
corrisposto solo in presenza di una espressa previsione
legislativa.
Sicché,
va confermato
che gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art.
113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere
corrisposti, di per sé, solo in presenza di una delle
attività espressamente considerate dalla disposizione
richiamata.
Inoltre decisivo al riguardo risulta il fatto che la Sezione
delle autonomie ha accolto l’assunto secondo cui
il
compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del
decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto
lavori, ma anche servizi e forniture ed ha al contempo dato
atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata
dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva che, da un lato ammette che gli incentivi
siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e
forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi
non possano comprendersi coloro che svolgono attività
relative alla progettazione e al coordinamento della
sicurezza.
Tale è dunque il quadro delle attività incentivabili, la cui
individuazione, indipendentemente dallo specifico oggetto
del contratto pubblico messo a gara, in concreto spetta,
come s’è detto, all’Amministrazione, nel rispetto delle
indicazioni desumibili dalla pregressa giurisprudenza di
questa Corte.
---------------
5.- Va rilevato che il quadro normativo
prevede una sfera di discrezionalità normativa degli enti
locali, che devono comunque muoversi nell’ambito dei
principi e delle regole stabilite dalle vigenti prescrizioni
legislative. Al riguardo giova rilevare che
il decreto
legislativo n. 50 del 2006, in linea generale, prevede la
misura massima delle risorse destinabili al fondo e la
necessaria modulazione delle stesse in relazione all'importo
dei lavori o delle procedure di acquisizione di beni e
servizi concretamente espletate.
In tale contesto, spetta all’ente locale esercitare
correttamente la propria discrezionalità, che potrà anche
essere orientata dalle soglie indicate dall’art. 21 del
medesimo decreto legislativo per la programmazione biennale
per forniture e servizi e triennale per lavori, purché
nell’ambito di una disciplina coerente e conforme alle
specifiche previsioni stabilite dai commi 2, 3 e 4 del
decreto legislativo n. 50 del 2016.
Spetta al Comune richiedente, sulla base dei principi
così espressi, valutare attentamente le singole fattispecie
al fine di addivenire ad una corretta autodeterminazione
nell’esercizio del proprio potere, anche regolamentare, in
materia, nel rispetto del quadro legislativo vigente.
---------------
1.- Il Sindaco del Comune di Bollate (MI) –dando atto delle difficoltà
riscontrate dagli enti locali nell’interpretazione dell’art.
113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 e nella
predisposizione dei regolamenti ivi previsti– pone alla
Sezione i seguenti cinque quesiti:
a) se le somme previste dall’art. 113 siano da considerare
afferenti al Fondo delle risorse decentrate (e soggiacenti
alla relativa disciplina) oppure no;
b) se il regolamento attuativo previsto dal terzo comma di
detta disposizione (il quale prevede che “l'ottanta per
cento delle risorse finanziarie del fondo costituito ai
sensi del comma 2 è ripartito, per ciascuna opera o lavoro,
servizio, fornitura con le modalità e i criteri previsti in
sede di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra il
responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra
i loro collaboratori”) possa disciplinare anche la
ripartizione e la liquidazione delle somme accantonate,
secondo i criteri stabiliti dalla Sezione regionale di
controllo per il Veneto di questa Corte nella deliberazione
n. 353/2016/PAR, con riferimento agli appalti di lavori,
servizi e forniture espletati fra l’entrata in vigore del
decreto legislativo n. 50 del 2016 e la data di approvazione
del regolamento, ad esempio con la previsione
dell’accantonamento, retroattivamente stabilito, di una
percentuale inferiore al due per cento, in linea con quella
prevista nell’approvato regolamento, anche in relazione a
detti appalti;
c) se sia legittimo comprendere fra gli acquisti oggetto
degli incentivi anche le adesioni alle convenzioni Consip e
gli acquisti tramite Mepa, “anche solo per alcune delle
attività previste dall’art. 113, secondo comma”, del
predetto decreto legislativo;
d) se sia legittimo –sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. nn), di detto decreto legislativo, che considera anche la
“manutenzione di opere”– riconoscere l’incentivo “anche per
le manutenzioni ordinarie e straordinarie” (ciò a fronte di
pareri nel senso della soluzione negativa delle Sezioni
regionali di controllo per l’Emilia Romagna e per la Puglia, rispettivamente
parere 07.12.2016 n. 118 e
parere 24.01.2017 n. 5, conosciuti e
richiamati dall’ente istante);
e) se “le soglie per l’applicazione dell’incentivo possono
essere liberamente disciplinate all’interno del regolamento”
o se invece “devono prendere come riferimento le soglie
indicate dall’art. 21 [del medesimo decreto legislativo] per
la programmazione biennale per forniture e servizi e
triennale per lavori”.
...
4.- In via preliminare, la Sezione precisa che le decisioni
relative alla scelta del contenuto dell’approvando
regolamento, in quanto connesse all’attività di normazione
interna dell’ente, spettano agli enti coinvolti, che ne
assumono la relativa responsabilità.
In particolare, in materia occorre ribadire quanto già
affermato dalla
deliberazione 13.05.2016 n. 18
della Sezione delle Autonomie, secondo cui
la soluzione delle
questioni poste alla Corte dei conti, in ragione della
propria attività consultiva, «non può che rimanere definita
in un ambito di stretto principio, non potendo la Corte in
questa sede addentrarsi in aspetti di dettaglio della
disciplina, che attengono (…) alla potestà regolamentare
riconosciuta in capo agli enti locali»; ciò «anche in
considerazione di quanto precisato nella delibera n. 3/2014/QMIG,
in merito al fatto che “ausilio consultivo per quanto
possibile deve essere reso senza che esso costituisca
un’interferenza con le funzioni requirenti e giurisdizionali
e ponendo attenzione ad evitare che di fatto si traduca in
un’intrusione nei processi decisionali degli enti
territoriali”».
Chiarito, dunque, che
la Corte non può interferire con la potestà regolamentare
spettante all’ente locale, nei termini prima esposti,
si può procedere all’esame, nel merito, dei singoli quesiti
posti.
5.- Ciò presupposto, con il
primo quesito l’ente chiede se
le somme previste dall’art. 113 siano da considerare
afferenti al Fondo delle risorse decentrate (e soggiacenti
alla relativa disciplina), oppure no.
Al riguardo basti rilevare che la Sezione delle autonomie di
questa Corte, con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha
affermato, nell’esercizio della propria funzione
nomofilattica, il principio di diritto secondo cui “(g)li
incentivi per funzioni tecniche di cui all’articolo 113,
comma 2, d.lgs. n. 50/2016 sono da includere nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’articolo 1, comma 236, l.
n. 208/2015 (legge di stabilità 2016)”; ciò sulla base di
un’ermeneusi del dato normativo che ha evidenziato la
peculiarità di tali incentivi. Alla motivazione di tale
decisione si fa, in questa sede, espresso rinvio.
Per converso, come rilevato in detta sede, va invece
ribadito che, nella riscrittura della materia ad opera del
nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente
salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla
progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo
diverso dalla ripartizione del fondo.
Infatti, come rilevato
dalla Sezione delle autonomie, per le spese di
progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione, di
vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le
verifiche di conformità, i collaudi statici, gli
studi e le
ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e
di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, del decreto
legislativo n. 50 del 2016.
Con riferimento a tali emolumenti, resta dunque fermo il
principio di diritto già affermato dalle Sezioni riunite
della Corte dei conti le quali, con la
deliberazione 04.10.2011 n. 51,
avevano individuato e tipicizzato, come criterio generale di
esclusione dal limite di spesa posto allora dall’art. 9,
comma 2-bis, del decreto legge n. 78 del 2010 (disposizione
“sostanzialmente sovrapponibile”, secondo la Sezione delle
autonomie, a quella vigente), tutti quei compensi per
prestazioni professionali specialistiche offerte da soggetti
qualificati, tra cui l’incentivo per la progettazione
stabilito, nel quadro normativo ratione temporis vigente,
dall’art. 93, comma 7-ter, del decreto legislativo n. 163
del 2006.
6.- Con il
secondo quesito, l’ente chiede se il regolamento
attuativo previsto dal terzo comma di detta disposizione –il
quale prevede che “l'ottanta per cento delle risorse
finanziarie del fondo costituito ai sensi del comma 2 è
ripartito, per ciascuna opera o lavoro, servizio, fornitura
con le modalità e i criteri previsti in sede di
contrattazione decentrata integrativa del personale, sulla
base di apposito regolamento adottato dalle amministrazioni
secondo i rispettivi ordinamenti, tra il responsabile unico
del procedimento e i soggetti che svolgono le funzioni
tecniche indicate al comma 2 nonché tra i loro
collaboratori”– possa disciplinare anche la ripartizione e
la liquidazione delle somme accantonate, secondo i criteri
stabiliti dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto
di questa Corte nella Veneto
parere 07.09.2016 n. 353, con
riferimento agli appalti di lavori, servizi e
forniture
espletati fra l’entrata in vigore del decreto legislativo n.
50 del 2016 e la data di approvazione del regolamento, ad
esempio con la previsione dell’accantonamento,
retroattivamente stabilito, di una percentuale inferiore al
due per cento, in linea con quella prevista nell’approvato
regolamento, anche in relazione a detti appalti.
Al riguardo, deve essere preliminarmente evidenziato che
il
quesito attiene alla disciplina specifica del fondo, in
punto di alimentazione e di gestione, e non alla dazione
delle somme ai beneficiari finali, aspetto questo che resta
estraneo al quesito così formulato e che viene analizzato in
altre pronunce di questa Corte. In tale ottica, deve essere
in primis evidenziata l’irretroattività della fonte
regolamentare ivi disciplinata, sulla scorta di quanto già
deciso da questa Corte (v. Sezione regionale di controllo
per la Regione Veneto,
parere 07.09.2016 n. 353).
In particolare, tale profilo della questione si inquadra
nell’ambito della problematica, di per sé più ampia, della
irretroattività dei provvedimenti amministrativi.
Il
principio della irretroattività degli atti –in linea
generale immanente all’ordinamento giuridico, ma costituzionalizzato solo con riferimento all’irretroattività
della legge penale (art. 25, primo comma, Cost.)–
costituisce di per sé corollario dei più generali principi
della necessaria simultaneità tra fatto (atto) ed effetti
dallo stesso prodotti, nonché del principio della certezza
delle situazioni giuridiche e della tutela dell’affidamento
legittimo, con la sola eccezione dei casi in cui la
retroattività dell’atto sia prevista dalla legge (atteso che
la copertura costituzionale della irretroattività è appunto
prevista solo per la legge penale) o sia una caratteristica
“naturale” dell’atto stesso (es. annullamento che, de iure,
produce effetto ex tunc).
D’altro canto, per gli atti a contenuto normativo –come
appunto i regolamenti– la regola della naturale
irretroattività è affermata dal combinato disposto degli
artt. 3, comma 2, 4, comma 1, e 11, comma 1, delle
Disposizioni preliminari al Codice civile (cc.dd. Preleggi),
disposizioni aventi rango primario, secondo le quali il
regolamento, anche emanato da autorità diverse dal governo,
non può contenere norme contrarie alle disposizioni di legge
e, nella specie, al divieto di retroattività, stabilito dal
successivo art. 11 per il complesso degli atti normativi;
quest’ultima disposizione è dunque derogabile solo per il
tramite di una norma di legge equiordinata che abiliti
l’atto a produrre un tale effetto retroattivo (ad esclusione
dell’ambito oggetto di disciplina ad opera della legge
penale, per la quale la Costituzione, come s’è detto, pone
un divieto assoluto); nella specie, nella rilevata mancanza
di una norma che autorizzi l’amministrazione comunale ad
attribuire al regolamento in questione effetto retroattivo,
il regolamento medesimo, in ossequio all’art. 11 delle
cc.dd. preleggi, non potrà che disporre per l’avvenire.
Ciò posto, si deve al contempo ricordare, in punto di
modalità di alimentazione del fondo medesimo, che il
predetto
parere 07.09.2016 n. 353 della Sezione regionale di controllo per
il Veneto ha ritenuto che, nelle more della
determinazione, nell’apposito regolamento, della percentuale
entro la quale destinare le risorse e dei criteri di
assegnazione, è corretto accantonare le risorse medesime in
misura del 2% dell’importo a base di gara, senza tuttavia
provvedere alla ripartizione tra i beneficiari prima di aver
approvato il regolamento suddetto: ciò sulla base della
previsione, contenuta nell’art. 113, commi 2, 3 e 4, del
decreto legislativo n. 50 del 2016, della destinazione ad un
fondo apposito, in misura non superiore al 2%, delle risorse
finanziarie stanziate per la realizzazione dei singoli
lavori, di cui l’80% da ripartire tra il responsabile unico
del procedimento ed i soggetti che abbiamo svolto le ivi
previste “funzioni tecniche” ed i loro collaboratori, ed il
restante 20% da impiegare per l’acquisito di beni,
strumentazioni e tecnologie funzionali al miglioramento e
l’innovazione tecnologica.
In particolare, mentre l’“accantonamento ad apposito fondo”
di “risorse finanziarie in misura non superiore al 2 per
cento, modulate sull'importo dei lavori posti a base di
gara”, è direttamente stabilito dal
secondo comma dell’art.
113, la ripartizione tra i dipendenti dell’ente viene
regolata nel comma successivo, il quale stabilisce che essa
deve avvenire “con le modalità ed i criteri previsti in sede
di contrattazione decentrata integrativa del personale,
sulla base di apposito regolamento adottato dalle
amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti”.
L’adozione del regolamento, dunque, continua ad essere una
condizione essenziale ai fini del legittimo riparto tra gli
aventi diritto delle risorse accantonate sul fondo (pro
futuro), perché il regolamento –e solo il regolamento, nella
sistematica della legge– è destinato ad individuare le
modalità ed i criteri della ripartizione, oltre alla
percentuale, che comunque non può superare il tetto massimo
fissato dalla legge.
In quella pronuncia, sulla base della struttura
dell’enunciato normativo, s’è ritenuto altresì che
il
semplice accantonamento delle risorse, in attesa della
disciplina regolamentare, può tuttavia essere disposto
dall’ente, su un capitolo o capitoli sui quali non è
possibile assumere impegni ed effettuare pagamenti, purché,
ovviamente, entro i limiti percentuali fissati dall’art.
113, secondo comma, del predetto decreto.
In tal caso, ove poi il regolamento successivamente adottato
dall’ente dovesse individuare una percentuale inferiore a
quella già applicata dall’ente medesimo, la parte
dell’accantonamento non utilizzata verrebbe a concorrere
alla determinazione del risultato di amministrazione. Nel
caso inverso, ovvero nel caso di accantonamento di una somma
inferiore a quella poi prevista nel regolamento, il mancato
accantonamento costituirebbe invece nella sostanza
“economia” dell’anno, concorrente alla determinazione del
risultato di amministrazione, e come tale dovrebbe essere
considerata; in altre parole, il fondo verrà comunque
costituito con la sola dotazione iniziale frutto del
prudenziale accantonamento dell’ente, fino all’entrata in
vigore del regolamento, fermo restando la ripartizione delle
somme solo successivamente a tale momento, conformemente
alla disciplina regolamentare medio termine approvata e
comunque nel rispetto della normativa vigente.
Va sottolineato che tale accantonamento, tuttavia, viene
disposto non sulla base del regolamento approvato
successivamente, che non è retroattivo, ma sulla base di una
scelta prudenziale dell’ente effettuata, nei limiti di
legge, ex ante.
7.- Con il
terzo quesito, il Comune chiede se sia legittimo
comprendere fra gli acquisti oggetto degli incentivi anche
le adesioni alle convenzioni Consip e gli acquisti tramite
Mepa, “anche solo per alcune delle attività previste
dall’art. 113, secondo comma”, del predetto decreto
legislativo.
Il quesito, per come formulato, risulta invero mal posto.
Come la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito sulla
base del tenore letterale del menzionato art. 113 –il quale
riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di
programmazione della spesa per investimenti, per la verifica
preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo
delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti
pubblici, di responsabile unico del procedimento, di
direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di
collaudo tecnico amministrativo ovvero di verifica di
conformità, di collaudatore statico”- l’avverbio
“esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del
legislatore di riconoscere il compenso incentivante
limitatamente alle attività espressamente previste, ove
effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché
l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi
tassativa (così Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18, laddove, in via incidentale, sottolinea
che la nuova disposizione ha abolito “gli incentivi alla
progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter,
introducendo nuove forme di incentivazione per funzioni
tecniche (…) svolte dai dipendenti esclusivamente per le
attività di programmazione della spesa per investimenti e
per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale,
per le attività tecnico-burocratiche, prima non
incentivate”; Sezione regionale di controllo per la Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134;
Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
Dunque sotto questo specifico profilo, ossia sotto il
profilo della individuazione dei limiti entro i quali le
attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una
specifica remunerazione, la disciplina degli incentivi,
derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della
retribuzione, è da considerarsi di stretta interpretazione e
non suscettibile di estensione analogica.
Il punto, così correttamente ricostruita la ratio della
disposizione, diviene dunque non tanto quello
dell’individuazione di un meccanismo di approvigionamento,
effettivamente adottato dall’ente, quale presupposto per
l’erogazione dell’incentivo –nella specie, come da richiesta
del comune, il ricorso a Consip o Mepa, autonomamente di per
sé considerato–, ma quello dell’effettiva occorrenza,
secondo la specifica disciplina della procedura di
e-procurement concretamente applicata, di una delle attività
incentivate, nel caso di specie concretamente accertata come
svolta (vale a dire attività di programmazione della spesa
per investimenti, di verifica preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero di direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico). Spetta
all’ente tale valutazione, in concreto, nelle diverse
possibili evenienze.
Peraltro, al riguardo non sfugga nemmeno come la
disposizione presupponga esplicitamente –laddove richiede
l’accantonamento in un apposito fondo di “risorse
finanziarie in misura non superiore al 2 per cento modulate
sull'importo dei lavori posti a base di gara”– che vi sia
una “gara”, sia pure semplificata; in mancanza di tale
requisito, l’art. 113, comma 2, del decreto legislativo n.
50 del 2016 non prevede l’accantonamento delle risorse nel
fondo e, conseguentemente, la relativa distribuzione.
Al riguardo, l’ente, nel valutare concretamente le attività
incentivate e le modalità di rimodulazione dell’incentivo
nelle diverse evenienze, deve altresì considerare
correttamente il quadro normativo, sistematicamente
considerato, che prevede che per i compiti svolti dal
personale di una centrale unica di committenza,
nell'espletamento di procedure di acquisizione di lavori,
servizi e forniture per conto di altri enti, possa essere
riconosciuta, su richiesta della centrale unica di
committenza, una quota parte, non superiore ad un quarto,
dell'incentivo (art. 113, comma 5).
Ciò posto, spetta all’ente la valutazione
nelle specifiche evenienze dell’occorrenza, in concreto, di
attività effettivamente incentivate in forza della ricordata
disposizione normativa.
8.- Con il
quarto quesito, l’ente chiede se sia legittimo
–sulla base dell’art. 3, comma 1, lett. nn), di detto
decreto legislativo, che considera anche la “manutenzione di
opere”– riconoscere l’incentivo “anche per le manutenzioni
ordinarie e straordinarie” (ciò a fronte di pareri nel senso
della soluzione negativa delle Sezioni regionali di
controllo per l’Emilia Romagna e per la Puglia,
rispettivamente
parere 07.12.2016 n. 118 e
parere 24.01.2017 n. 5, conosciuti e
richiamati dall’ente istante).
Al riguardo, questa Sezione deve rilevare che il quesito,
anche in tal caso, risulta posto in termini che non tengono
conto della sostanza delle questioni evocate.
In primo luogo questa Sezione, come già rilevato in
precedenza, ritiene tassativo l’elenco delle attività
incentivabili dalla normativa in esame e, quindi, non può
che confermare che gli incentivi per funzioni tecniche
riguardano, in via esclusiva, le attività indicate al
comma
2 dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 2016; e
ciò perché il suddetto emolumento, in virtù del principio di
onnicomprensività del trattamento economico, può essere
corrisposto solo in presenza di una espressa previsione
legislativa.
In definitiva, alla luce di quanto riportato,
va confermato
che gli incentivi per funzioni tecniche previsti dall’art.
113 del decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere
corrisposti, di per sé, solo in presenza di una delle
attività espressamente considerate dalla disposizione
richiamata (così Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18; Sezione regionale di controllo per la
Puglia,
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione regionale di
controllo per il Veneto,
parere 02.03.2017 n. 134;
Sezione regionale di controllo per la Regione siciliana,
parere 30.03.2017 n. 71).
Inoltre decisivo al riguardo risulta il fatto che la Sezione
delle autonomie, nella già richiamata
deliberazione 06.04.2017 n. 7, ha accolto l’assunto secondo cui
il
compenso incentivante di cui all’art. 113, comma 2, del
decreto legislativo n. 50 del 2016 riguarda non soltanto
lavori, ma anche servizi e forniture ed ha al contempo dato
atto del fatto che tale interpretazione è ormai avvalorata
dalla giurisprudenza della Corte in sede consultiva (cfr.
Sezione di controllo Lombardia,
parere 16.11.2016 n. 333) che, da un lato ammette che gli incentivi
siano da riconoscere anche per gli appalti di servizi e
forniture e, dall’altro, che tra i beneficiari degli stessi
non possano comprendersi coloro che svolgono attività
relative alla progettazione e al coordinamento della
sicurezza (cfr. anche la
deliberazione 13.05.2016 n. 18
della medesima Sezione).
Tale è dunque il quadro delle attività incentivabili, la cui
individuazione, indipendentemente dallo specifico oggetto
del contratto pubblico messo a gara, in concreto spetta,
come s’è detto, all’Amministrazione, nel rispetto delle
indicazioni desumibili dalla pregressa giurisprudenza di
questa Corte.
9.- Con il
quinto quesito, l’ente chiede infine se “le
soglie per l’applicazione dell’incentivo possono essere
liberamente disciplinate all’interno del regolamento” o se
invece “devono prendere come riferimento le soglie indicate
dall’art. 21 [del medesimo decreto legislativo] per la
programmazione biennale per forniture e servizi e triennale
per lavori”.
In realtà, al riguardo va rilevato che il quadro normativo
prevede una sfera di discrezionalità normativa degli enti
locali, che devono comunque muoversi nell’ambito dei
principi e delle regole stabilite dalle vigenti prescrizioni
legislative. Al riguardo giova rilevare che
il decreto
legislativo n. 50 del 2006, in linea generale, prevede la
misura massima delle risorse destinabili al fondo e la
necessaria modulazione delle stesse in relazione all'importo
dei lavori o delle procedure di acquisizione di beni e
servizi concretamente espletate.
In tale contesto, spetta all’ente locale esercitare
correttamente la propria discrezionalità, che potrà anche
essere orientata dalle soglie indicate dall’art. 21 del
medesimo decreto legislativo per la programmazione biennale
per forniture e servizi e triennale per lavori, purché
nell’ambito di una disciplina coerente e conforme alle
specifiche previsioni stabilite dai commi 2, 3 e 4 del
decreto legislativo n. 50 del 2016.
10.- Spetta al Comune richiedente, sulla base dei principi
così espressi, valutare attentamente le singole fattispecie
al fine di addivenire ad una corretta autodeterminazione
nell’esercizio del proprio potere, anche regolamentare, in
materia, nel rispetto del quadro legislativo vigente (Corte
dei Conti, Sez. controllo Lombardia,
parere 09.06.2017 n. 185). |
EDILIZIA PRIVATA:
Gli incentivi per le funzioni
tecniche di cui all’art. 113, comma 2 del d.lgs. 50/2016
sono da includersi nel tetto dei trattamenti accessori di
cui all’art. 1, comma 236, l. n. 208/2015 (legge di stabilità
2016) in quanto il compenso incentivante previsto dalla
nuova disciplina non è sovrapponibile all’incentivo per la
progettazione di cui all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n.
163/2006, oggi abrogato.
---------------
Con la nota indicata in epigrafe il Sindaco del Comune di
Moncalieri (TO), dopo aver richiamato il principio di
diritto enunciato dalla Sezione delle Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, secondo cui “gli
incentivi per le funzioni tecniche di cui all’art. 113,
comma 2, del d.lgs. 50/2016 sono da includersi nel tetto dei
trattamenti accessori di cui all’art. 1, comma 236, l. n.
208/2015 (legge di stabilità 2016)” e dopo aver evidenziato
che la precedente deliberazione della Sezione delle
Autonomie n. 16 del 2009 aveva, invece, escluso dal calcolo
della spese di personale, ai fini del limite di cui all’art.
557 legge 296/2006, gli incentivi di progettazione previsti
dal previgente codice dei contratti pubblici (art. 93 d.lgs.
163/2006), chiede a questa Sezione di chiarire la portata
applicativa della deliberazione della Sezione delle
Autonomie con particolare riferimento alla possibilità di
individuare, fra i vari tipi di incentivi alle funzioni
tecniche, delle voci che si sottrarrebbero al principio di
diritto enunciato da ultimo e, dunque, al limite del salario
accessorio di cui all’art. 1, co. 236, della legge n.
208/2015.
Il Comune di Moncalieri formula, infatti, il seguente
quesito:
-
“se tutte le somme destinate ad incentivare le funzioni
tecniche ai sensi dell’art. 113 dlgs 50/2016 siano da
considerare comprese nel limite del salario accessorio ai
fini dell’applicazione dell’art. 1, comma 236, della legge n.
208/2015 (legge di stabilità 2016) e siano da considerare
incluse nella spesa di personale ai fini dell’applicazione
del comma 557 della legge 296/2006 oppure se debba essere
operata una distinzione, nell’ambito degli incentivi per le
funzioni tecniche disciplinati dall’art. 113 dlgs 50/2016,
tra gli incentivi relativi a prestazioni professionali
tipiche, acquisibili all’esterno della P.A. e qualificabili
come spesa di investimento (appalti di lavori e incentivi
per es. per la direzione lavori) e incentivi di altro tipo
(controllo delle procedure di bando e di esecuzione e in
particolare incentivi per gli appalti di forniture e
servizi), che risultino privi degli elementi indicati dalla
deliberazione
13.11.2009 n. 16 Sezioni Autonomie”.
...
Il quesito posto dall’ente locale attiene all’applicabilità,
ai compensi destinati a remunerare le funzioni tecniche di
cui all’art. 113, co. 2, d.lgs. 50/2016, del nuovo tetto al
salario accessorio introdotto dall’art. 1, comma 236, della
legge n. 208/2015. Su tale questione, in considerazione
della sua portata generale e dell’esistenza di un
preesistente intervento delle Sezioni Riunite (deliberazione
04.10.2011 n. 51), si è recentemente pronunciata la Sezione delle
Autonomie con la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, che
lo stesso Comune istante cita ampiamente nella formulazione
del proprio quesito.
La Sezione delle Autonomie, nella richiamata deliberazione,
ha, infatti, evidenziato che “la questione di massima
oggetto di esame è incentrata sull’esclusione o meno dal
tetto di spesa per il salario accessorio dei dipendenti
pubblici –già previsto dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l.
n. 78/2010 e reiterato dall’art. 1, comma 236, della legge
n. 208/2015– dei compensi destinati a remunerare le
funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2,
d.lgs. n. 50/2016. La questione, come sopra accennato, era
stata risolta in senso positivo dalla deliberazione delle
Sezioni riunite in sede di controllo n. 51/2011, con
riferimento, però, all’incentivo per la progettazione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006”.
La Sezione delle Autonomie ha, in proposito, preliminarmente
rilevato “la sostanziale sovrapponibilità del provvedimento
di limitazione alla crescita delle risorse destinate al
trattamento accessorio del personale adottato con l’art. 9,
comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, rispetto alla previsione
della legge di stabilità 2016”, evidenziando come “gli
aspetti innovativi della nuova formulazione –essenzialmente
riferiti al richiamo alle perduranti esigenze di finanza
pubblica, alla prevista attuazione dei decreti legislativi
attuativi della riforma della pubblica amministrazione, alla
considerazione anche del personale assumibile e all’assenza
di una previsione intesa a consolidare nel tempo le
decurtazioni al trattamento accessorio– non incidono sulla
struttura del vincolo di spesa, come già evidenziato da
questa Sezione" (deliberazione
07.12.2016 n. 34).
La
norma si sostanzia in un vincolo alla crescita dei fondi
integrativi rispetto ad una annualità di riferimento e
nell’automatica riduzione del fondo in misura proporzionale
alla contrazione del personale in servizio. Le Sezioni
riunite, chiamate a pronunciarsi sulla soggezione di taluni
compensi ai tetti di spesa per i trattamenti accessori posti
dall’art. 9, comma 2-bis, del d.l. n. 78/2010, hanno
ritenuto la norma di stretta interpretazione, tenuto conto
dell’effetto di proliferazione della spesa per il personale
determinato dalla contrattazione integrativa, i cui
meccanismi hanno finito per vanificare l’efficacia delle
altre misure di contenimento della spesa (tra cui i vincoli assunzionali).
In tale contesto, l’Organo nomofilattico ha
individuato quale criterio discretivo la circostanza che
determinati compensi siano remunerativi di “prestazioni
tipiche di soggetti individuati e individuabili” le quali
“potrebbero essere acquisite anche attraverso il ricorso a
personale estraneo all’amministrazione pubblica con
possibili costi aggiuntivi”. Sussistendo queste condizioni,
gli incentivi per la progettazione di cui all’art. 93, comma
7-ter, d.lgs. n. 163/2006, sono stati esclusi dall’ambito
applicativo dell’art. 9, comma 2-bis, andando a compensare
prestazioni professionali afferenti ad “attività
sostanzialmente finalizzata ad investimenti”.
Peraltro, tale
orientamento si riporta alle affermazioni di questa Sezione
(deliberazione
13.11.2009 n. 16) che, ai fini del
computo delle voci di spesa da ridurre a norma dell’art. 1,
commi 557 e 562, l. 27.12.2006, n. 296, aveva escluso
gli incentivi per la progettazione interna di cui al
previgente codice degli appalti a motivo della loro
riconosciuta natura “di spese di investimento, attinenti
alla gestione in conto capitale, iscritte nel titolo II
della spesa, e finanziate nell’ambito dei fondi stanziati
per la realizzazione di un’opera pubblica, e non di spese di
funzionamento”.
Quanto allo specifico quesito se, ai fini del computo del
tetto di spesa, debbano o meno computarsi gli incentivi per
le funzioni tecniche svolte ai sensi dell’art. 113, comma 2,
del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 50/2016),
la Sezione delle Autonomie ha espressamente escluso che il
compenso incentivante previsto dalla nuova disciplina sia
“sovrapponibile all’incentivo per la progettazione di cui
all’art. 93, comma 7-ter, d.lgs. n. 163/2006, oggi
abrogato”.
Secondo la
deliberazione 06.04.2017 n. 7, infatti,
“nei nuovi incentivi non ricorrono gli elementi che
consentano di qualificare la relativa spesa come finalizzata
ad investimenti; il fatto che tali emolumenti siano
erogabili, con carattere di generalità, anche per gli
appalti di servizi e forniture comporta che gli stessi si
configurino, in maniera inequivocabile, come spese di
funzionamento e, dunque, come spese correnti (e di
personale). Nel caso di specie, non si ravvisano poi, gli
ulteriori presupposti delineati dalle Sezioni riunite
(nella richiamata
deliberazione 04.10.2011 n. 51),
per escludere gli incentivi
di cui trattasi dal limite del tetto di spesa per i
trattamenti accessori del personale dipendente in quanto
essi non vanno a remunerare “prestazioni professionali
tipiche di soggetti individuati e individuabili” acquisibili
anche attraverso il ricorso a personale esterno alla P.A.,
come risulta anche dal chiaro disposto dell’art. 113, comma
3, d.lgs. n. 50/2016.
La citata norma, infatti –nel
disporre che la ripartizione della parte più consistente
delle risorse (l’80%) debba avvenire “per ciascuna opera o
lavoro, servizio, fornitura con le modalità e i criteri
previsti in sede di contrattazione decentrata integrativa
del personale, sulla base di apposito regolamento adottato
dalle amministrazioni secondo i rispettivi ordinamenti, tra
il responsabile unico del procedimento e i soggetti che
svolgono le funzioni tecniche indicate al comma 2 nonché tra
i loro collaboratori” e che “gli importi sono comprensivi
anche degli oneri previdenziali e assistenziali a carico
dell’amministrazione”– appare indicativa della diversa
connotazione degli incentivi in parola.
È infatti evidente
l’intento del legislatore di ampliare il novero dei
beneficiari degli incentivi in esame, individuati nei
profili, tecnici e non, del personale pubblico coinvolto
nelle diverse fasi del procedimento di spesa, dalla
programmazione (che nel nuovo codice dei contratti pubblici,
all’art. 21, è resa obbligatoria anche per l’acquisto di
beni e servizi) all’esecuzione del contratto. Al contempo,
la citata disposizione richiama gli istituti della
contrattazione decentrata, il che può essere inteso come una
sottolineatura dell’applicazione dei limiti di spesa alle
risorse decentrate”.
La Sezione, pertanto, non può che conformare il proprio
parere a quanto già stabilito dalla Sezione delle Autonomie,
la quale, nella deliberazione richiamata, ha inoltre
ribadito che “nella riscrittura della materia ad opera del
nuovo codice degli appalti, risultano assolutamente
salvaguardati i beneficiari dei pregressi incentivi alla
progettazione i quali sono oggi remunerati con un meccanismo
diverso dalla ripartizione del fondo. Infatti, per le spese
di progettazione, di direzione dei lavori o dell’esecuzione,
di vigilanza, per i collaudi tecnici e amministrativi, le
verifiche di conformità, i collaudi statici, gli studi e le
ricerche connessi, la progettazione dei piani di sicurezza e
di coordinamento e il coordinamento della sicurezza in fase
di esecuzione ove previsti dalla legge, si provvede con gli
stanziamenti previsti per la realizzazione dei singoli
lavori, a norma dell’art. 113, comma 1, d.lgs. n. 50/2016.
In tal senso, deve essere apprezzato l’intento
chiarificatore del legislatore delegato” (Corte dei Conti,
Sez. controllo Piemonte,
parere
09.06.2017 n. 113). |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE:
Agli incentivi per funzioni tecniche serve un tetto su
misura nel fondo accessorio.
L’inclusione dei compensi per le funzioni tecniche nel tetto
del fondo per la contrattazione decentrata solleva numerosi
problemi operativi: alcuni possono essere risolti in via
interpretativa, per altri è necessario un intervento
legislativo.
La posizione della Corte dei conti
Per tutte le amministrazioni, in premessa, è necessario che
queste somme siano inserite nel fondo delle risorse
decentrate e che siano calcolate in modo preciso. La
deliberazione 06.04.2017 n. 7 della sezione autonomie della Corte dei Conti (si veda il Quotidiano degli enti locali e della
Pa del 13.04.2017), con argomentazioni che devono essere
giudicate come ineccepibili soprattutto rispetto ai principi
affermati dalla
deliberazione 04.10.2011 n. 51 delle sezioni
riunite di controllo della magistratura contabile, ha
stabilito che non ci sono più le condizioni per cui la
incentivazione delle funzioni tecniche debba essere esclusa
dal tetto del fondo per la contrattazione decentrata.
Il primo problema è che in questo modo si inseriscono nel
tetto del fondo delle somme relative ad attività che ne
erano escluse. Sembra abbastanza agevole sostenere, in virtù
del principio di carattere generale della omogeneità dei
dati messi a confronto, che si possa convenzionalmente
intervenire sul fondo del 2015 e su quello del 2016, che
rispettivamente sono attualmente e sulla base dell'emanando
schema di decreto legislativo attuativo della riforma del
testo unico del pubblico impiego, il tetto massimo del fondo
di questo e dei prossimi anni.
Le nuove regole
Ma ciò non è comunque sufficiente: le nuove regole sulla
incentivazione delle funzioni tecniche comprendono anche gli
appalti di servizi e forniture, mentre in precedenza era
prevista solamente la incentivazione dei lavori pubblici.
Essendo invariato il tetto delle risorse che possono essere
destinate a queste incentivazioni, cioè il 2% dell'importo
posto a base di gara, è assai probabile che si supereranno
le somme previste a questo titolo nel 2015. Il che si
realizzerà sicuramente nella gran parte delle realtà,
nonostante il “decreto correttivo” limita la erogazione di
questi compensi nel caso di forniture e servizi alla
presenza del direttore della esecuzione, il che determina
che in molti casi non si erogherà questo compenso.
Ed ancora, nonostante le amministrazioni si stanno
dimostrando molto restie a prevedere somme rilevanti per
questa incentivazione nel caso di appalti di forniture e
servizi, perché la erogazione di questi compensi determina
seccamente un aumento dei costi a carico dei bilanci degli
enti o, in numerosi casi, a carico degli utenti. Anche con
riferimento a questo elemento si ritiene che, sulla scorta
dei principi dettati dalle deliberazioni della magistratura
contabile, sia possibile determinare in questo l'anno zero
di tali costi a cui fare riferimento come tetto invalicabile
per il futuro, visto che esso è il primo in cui la norma è a
regime.
Un tetto per il fondo
Di difficile soluzione senza un intervento legislativo è il
possibile impatto con effetti stravolgenti di queste somme
sul fondo.
Siamo in presenza comunque di somme di grande rilievo: cosa
accade in un comune in un anno in cui si fanno molti e/o
molto rilevanti appalti di forniture e servizi e, quindi,
queste somme aumentano? Si deve tagliare la erogazione degli
altri istituti del fondo? E se il fondo ha un elevato grado
di rigidità, cosa avviene, visto che certo non si possono
tagliare compensi che hanno un carattere fisso (progressioni
economiche, comparto, eccetera) o sono legati allo
svolgimento di attività essenziali (turno, reperibilità)?
La soluzione, ma occorre un’indicazione legislativa, è che
si crei uno specifico tetto all'interno del fondo, per cui
queste somme non incidano sul complesso, ma vadano
confrontate con il dato omogeneo ovvero che il legislatore
stabilisca che queste somme vanno al di fuori del tetto del
fondo per la contrattazione decentrata, come si riteneva
comunemente fino a qualche settimana fa, cioè fino alla
deliberazione 06.04.2017 n. 7
della sezione autonomie della Corte
dei conti (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
22.05.2017). |
Ma anche un recente nuovo (interessante) arresto circa il
defunto "incentivo alla progettazione":
nisba se manca il regolamento interno!! |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
Niente incentivi alla progettazione se manca il
regolamento.
Innovativa la posizione assunta dalla Corte di cassazione
che, con la sentenza n. 13937/2017, non solo fornisce una
diversa interpretazione alla propria precedente pronuncia
(Cassazione, Sezione Lavoro, 19.07.2004 n. 13384), ma
precisa i seguenti presupposti per la legittima erogazione
degli incentivi tecnici:
a) l'attribuzione dell'incentivo deve essere prevista e regolata
dalla contrattazione collettiva decentrata;
b) il potere regolamentare della amministrazione, è limitato alla
specificazione dei criteri di ripartizione i cui criteri di
ripartizione devono coincidere con i criteri previsti dalla
contrattazione collettiva decentrata;
c) l'attività di progettazione può essere “premiata” dalla
contrattazione collettiva decentrata con l'attribuzione
degli incentivi se, e solo se, si risolva in una «effettiva
utilità per l'amministrazione come attività propedeutica
alla realizzazione dell'opera pubblica», quale può
essere l'approvazione di un progetto esecutivo dell'opera
pubblica;
d) a fronte della riserva alla contrattazione collettiva (articolo
45 del Dlgs n. 165 del 2001), in mancanza dell'accordo
decentrato è inibito al giudice ordinario procedere a
liquidare l'incentivo in via equitativa.
Le precedenti indicazioni
In merito all'interpretazione sul diritto soggettivo del
dipendente pubblico che effettui attività di progettazione,
si era spesa la Corte dei conti, Sezione delle Autonomie
(deliberazione n. 7/2009) la quale aveva avuto modo di
precisare quanto segue: «la Suprema Corte ha ritenuto che
il diritto all'incentivo di cui si sta trattando,
costituisce un vero e proprio diritto soggettivo di natura
retributiva (Cass. Sez. Lav., sent. n. 13384 del 19.07.2004)
che inerisce al rapporto di lavoro in corso, nel cui ambito
va individuato l'obbligo per l'Amministrazione di adempiere,
a prescindere dalle condizioni e dai presupposti per rendere
concreta l'erogazione del compenso», precisando
successivamente come «dal compimento dell'attività nasce
il diritto al compenso». Tali indicazioni della
nomofilachia contabile hanno da quel momento assunto un
risultato intangibile per le Corti territoriali.
Nel caso sottoposto all'attenzione della Suprema Corte anche
il ricorrente, cui la Corte di appello aveva negato
l'incentivo per mancata contrattazione dei criteri e in
assenza del relativo regolamento da parte
dell'amministrazione, precisa come si sia in presenza di un
vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva
spettante ai dipendenti, a nulla rilevando che detti diritti
risultino indeterminati quantitativamente fino alla
specificazione con regolamento delle modalità di
ripartizione del fondo.
L'interpretazione autentica
Gli Ermellini non condividono tale interpretazione,
nonostante le indicazioni della giurisprudenza contabile,
precisando, diversamente da quanto opina il ricorrente, come
i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 13384
del 2004 non offrono alcun supporto alle sue prospettazioni
difensive atteso che la necessità del regolamento per il
diritto agli incentivi è stata affermata anche nella citata
sentenza del 2004, la quale aveva modo di precisare come in
assenza di regolamento, essa non abbia affatto riconosciuto
il diritto all'incentivo, ma solo il risarcimento del danno
per inottemperanza all'obbligo di adozione del Regolamento
da parte della amministrazione.
Nel caso di specie, inoltre, il ricorrente non fornisce
alcuna prova circa l'esistenza di clausole della
contrattazione collettiva integrativa disciplinanti la
materia dell'incentivo, cui l'amministrazione avrebbe dovuto
adeguarsi in sede regolamentare. Infine, in merito a una
possibile liquidazione in via equitativa dell'incentivo da
parte del giudice adito reclamato dal ricorrente, secondo i
giudici di Palazzo Cavour, va escluso che, in difetto di
disposizioni di fonte pattizia collettiva, il giudice
avrebbe potuto liquidare in via equitativa il compenso
retributivo accessorio domandato, ostandovi il principio di
riserva alla contrattazione collettiva espresso nel comma 1
dell'articolo 49 del Dlgs n. 165 del 2001, riaffermato nel
comma 1 dell'articolo 45 del Dlgs n. 165 del 2001 (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 15.06.2017).
---------------
MASSIMA
1. Con la sentenza depositata il 01.02.2011, la Corte
d'Appello di L'Aquila, per quanto oggi rileva, in
accoglimento dell'appello incidentale proposto dal Consorzio
di Bonifica Sud - Bacino Moro Sangro Sinello e Trigno -, nei
confronti della sentenza del Tribunale di Vasto, ha respinto
la domanda proposta da Gi.Ce. volta alla condanna
del Consorzio al pagamento della somma di € 60.506,84 a
titolo di incentivo per la progettazione ex art. 18 della L.
n. 109 del 1994, in relazione alle attività espletate dal
1985 al 2001.
2. La statuizione è fondata sulle argomentazioni
motivazionali che seguono: l'art. 18 della legge n. 109 del
1990 rinvia la "ripartizione tra il responsabile unico
del procedimento e gli incaricati della redazione del
progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei
lavori, del collaudo nonché tra i loro collaboratori",
della quota percentuale (1,55) dell'importo posto a base di
gara di un'opera o di un lavoro, alle modalità ed ai criteri
previsti dalla contrattazione collettiva decentrata ed
assunti in un regolamento adottato dall'Amministrazione.
Ha rilevato che tanto la contrattazione collettiva
decentrata quanto il Regolamento del Consorzio erano
intervenuti in epoca successiva all'arco temporale cui era
riferita la rivendicazione economica. Ha ritenuto
inammissibile, perché proposta solo in grado di appello, la
domanda risarcitoria fondata sull'inadempimento del
Consorzio e sull'indebito arricchimento da questi
conseguito.
...
Esame dei motivi
12. Il primo motivo è infondato, pur dovendo correggersi
la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell'art.
384 c.p.c., nei termini di seguito esposti, essendo il
dispositivo conforme a diritto.
13. Reputa il Collegio indispensabile la ricostruzione, che
difetta nella sentenza impugnata, della disposizione
contenuta nell'art. 18 della legge 11.02.1994 n. 109 in
quanto, nell'arco temporale al quale è riferita la domanda
di pagamento dell'incentivo, tale disposizione è stata
oggetto di numerosi interventi del legislatore che ne hanno
riformulato il testo, riformandone l'ambito di operatività
oggettiva e soggettiva, i presupposti condizionanti
l'insorgenza del diritto, le modalità ed i criteri per la
sua liquidazione e le regole di contabilità.
14. L'iniziale formulazione dell'art. 18 della L.
11.02.1994, n. 109 così disponeva: "(Incentivi per la
progettazione).
1. In sede di contrattazione collettiva decentrata, ai sensi
del decreto legislativo 03.02.1993, n. 29, e successive
modificazioni, e in un quadro di trattamento
complessivamente omogeneo delle diverse categorie
interessate, può essere individuata una quota non superiore
all'1 per cento del costo preventivato di un'opera o di un
lavoro, da destinare alla costituzione di un fondo interno e
da ripartire tra il personale dell'ufficio tecnico
dell'amministrazione aggiudicatrice, qualora esso abbia
redatto direttamente il progetto esecutivo della medesima
opera o lavoro.
2. Le somme occorrenti ai fini di cui al comma 1 sono
prelevate sulle quote degli stanziamenti annuali riservate a
spese di progettazione ai sensi dell'articolo 16, comma 8,
ed assegnate ad apposito capitolo dello stato di previsione
della spesa o ad apposita voce del bilancio delle
amministrazioni aggiudicatrici".
15. Successivamente il D.L. 03.04.1995 n. 101, convertito
con modificazioni dalla L. 02.06.1995 n. 216 ha modificato il
richiamato art. 18 della L. n. 109 del 1994 nei termini che
seguono: "1. In sede di contrattazione collettiva
decentrata, ai sensi del decreto legislativo 03.02.1993, n.
29, e successive modificazioni, è ripartita la quota dell'1
per cento del costo preventivato di un'opera o di un lavoro,
da destinare alla costituzione di un fondo interno e da
ripartire tra il personale dell'ufficio tecnico
dell'amministrazione aggiudicatrice, qualora esso abbia
redatto direttamente il progetto per l'appalto della
medesima opera o lavoro, e il coordinatore unico di cui
all'articolo 7 il responsabile del procedimento e i loro
collaboratori."
Il decreto legge innanzi richiamato ha anche fatto espresso
riferimento a progetti di cui era riscontrato il "perdurare
dell'interesse pubblico alla realizzazione dell'opera".
16. A seguito dell'entrata in vigore della legge 15.05.1997
n. 127 (l'art. 16, c. 3),
l'art. 18 è stato così riformulato "1. L'1 per cento del
costo preventivato di un'opera o
di un lavoro ovvero il 50 per cento della tariffa
professionale relativa a un atto di
pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva sono
destinati alla costituzione di
un fondo interno da ripartire tra il personale degli uffici
tecnici dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare
dell'atto di pianificazione, qualora essi abbiano redatto
direttamente i progetti o i piani, il coordinatore unico di
cui all'articolo 7, il
responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis.
Il fondo di cui al comma 1
è ripartito per ogni singola opera o atto di pianificazione,
sulla base di un regolamento
dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di
pianificazione".
17. La legge 16.06.1998 n. 191 (art. 2, c. 18) ha apportato
ulteriori innovazioni
all'art. 18 che per effetto delle modifiche recita: "L'1 per
cento del costo preventivato
di un'opera o di un lavoro ovvero il 50 per cento della
tariffa professionale relativa a
un atto di pianificazione generale, particolareggiata o
esecutiva sono destinati alla
costituzione di un fondo interno da ripartire tra il
personale degli uffici tecnici
dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di
pianificazione, qualora essi
abbiano redatto direttamente i progetti o i piani, il
coordinatore unico di cui all'articolo
7, il responsabile del procedimento e i loro collaboratori.
1-bis. Il fondo di cui al
comma 1 è ripartito per ogni singola opera o atto di
pianificazione, sulla base di un
regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare
dell'atto di pianificazione,
nel quale vengono indicati i criteri di ripartizione che
tengano conto delle
responsabilità professionali assunte dagli autori dei
progetti e dei piani, nonché dagli
incaricati della direzione dei lavori e del collaudo in
corso d'opera".
18. Infine, per quanto rileva temporalmente nella vicenda in
esame, la legge 17.05.1999 n. 140 ha disposto con l'art. 13,
c. 4, la modifica dell'art. 18, commi 1 e 1-bis che, per
effetto delle modifiche così recita: "Una somma non
superiore all' 1,5 per cento dell'importo posto a base di
gara di un'opera o di un lavoro, a valere direttamente sugli
stanziamenti di cui all'articolo 16, comma 7, è ripartita,
per ogni singola opera o lavoro, con le modalità ed i
criteri previsti in sede di contrattazione decentrata ed
assunti in un regolamento adottato dall'amministrazione, tra
il responsabile unico del procedimento e gli incaricati
della redazione del progetto, del piano della sicurezza,
della direzione dei lavori, del collaudo nonché tra i loro
collaboratori. La percentuale effettiva, nel limite massimo
dell'1,5 per cento, è stabilita dal regolamento in rapporto
all'entità e alla complessità dell'opera da realizzare. La
ripartizione tiene conto delle responsabilità professionali
connesse alle specifiche prestazioni da svolgere Le quote
parti della predetta somma corrispondenti a prestazioni che
non sono svolte dai predetti dipendenti, in quanto affidate
a personale esterno all'organico dell'amministrazione
medesima, costituiscono economie. I commi quarto e quinto
dell'articolo 62 del regolamento approvato con regio decreto
23.10.1925, n. 2537, sono abrogati. I soggetti di cui
all'articolo 2, comma 2, lettera b), possono adottare con
proprio provvedimento analoghi criteri.
2. Il 30 per cento della tariffa professionale relativa alla
redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è
ripartito, con le modalità ed i criteri previsti nel
regolamento di cui al comma 1, tra i dipendenti
dell'amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto".
19. In continuità con i principi già affermati da questa
Corte nella sentenza n. 8344 del 2011, deve ritenersi che
l'art. 18, nella formulazione originaria ed in quella
derivata dalle modifiche apportate dal D.L. n. 101 del 1995,
convertito con modificazioni dalla L. n. 216 del 1995 ha
attribuito alla contrattazione collettiva, decentrata, la
possibilità, di individuare la quota della percentuale del
costo preventivato di un'opera o di un lavoro da destinare
alla costituzione del Fondo interno da ripartire tra i
soggetti individuati dalla norma. Tanto in sintonia con
l'art. 49 del D.Lgs. n. 29 del 1993, che aveva demandato
alla contrattazione collettiva la regolamentazione del
trattamento retributivo, fondamentale ed accessorio, dei
pubblici dipendenti con rapporto di lavoro privatizzato. La
norma, infatti si era limitata a porre i limiti legali all'
intervento della contrattazione collettiva decentrata.
20. A seguito delle modifiche apportate dall'art. 16, c. 3,
della L. n. 127 del 1997, la individuazione dei criteri di
ripartizione del Fondo, destinato al pagamento
dell'incentivo, è stata attribuita alla potestà
regolamentare della Amministrazione aggiudicatrice o
titolare dell'atto di pianificazione, nel rispetto della
normativa primaria, regola, questa, confermata dalle
modifiche introdotte dall' art. 2, c. 18, della L. n. 191
del 1998, che ha dettato più precisi criteri per l'esercizio
della potestà regolamentare (responsabilità professionali
degli autori dei progetti e dei piani e degli incaricati
della direzione dei lavoro e dei collaudi in corso d'opera),
mentre la riformulazione dell'art. 18 della legge n. 109 del
1994 ad opera dell'art. 13, c. 4, della L. n. 144 del 1999,
ha previsto che la potestà regolamentare
dell'amministrazione aggiudicatrice debba in sostanza
compendiarsi nel recepimento dei criteri di ripartizione
stabiliti dalla contrattazione collettiva decentrata.
21. L'evoluzione del quadro normativo consente, in
conclusione di affermare, che l'attribuzione dell'incentivo
deve essere prevista e regolata dalla contrattazione
collettiva decentrata, che il potere regolamentare della
Amministrazione, introdotto dalla L. n. 127 del 1997 è
limitato alla specificazione dei criteri di ripartizione,
che tale specificazione, a far tempo dall'entrata in vigore
dell'art. 13, c. 4, della L. n. 140 del 1999, deve coincidere
con i criteri previsti dalla contrattazione collettiva
decentrata.
22. L'esame del dato testuale contenuto nelle formulazioni
dell'art. 18 della L. n. 109 del 1994 via via succedetesi
nel tempo, consente inoltre di affermare, in conformità ai
principi affermati da questa Corte territoriale nelle
sentenze n. 11022/2016, n. 16736 del 2013 e n. 8344 del 2011
che l'attività di progettazione può essere "premiata"
dalla contrattazione collettiva decentrata con
l'attribuzione degli incentivi dell'art. 18 se e solo se si
risolva in un'"effettiva utilità per l'amministrazione
come attività propedeutica alla realizzazione dell'opera
pubblica", quale può essere l'approvazione di un
progetto esecutivo dell'opera pubblica.
23. Le prospettazioni difensive formulate dal ricorrente nel
motivo in esame, e che invocando la sentenza di questa Corte
n. 13384 del 2004, muovono dall'assunto secondo cui la norma
di cui all'art. 18 citato, affermerebbe un vero e proprio
diritto soggettivo di natura retributiva spettante ai
dipendenti, a nulla rilevando che detti diritti risultino
indeterminati quantitativamente fino alla specificazione con
regolamento delle modalità di ripartizione del fondo,
svalutano i dati normativi richiamati nei punti da 13 a 18
di questa sentenza.
24. Come già rilevato nei punti da 19 a 22 di questa
sentenza, il dato letterale e sistematico
delle diverse formulazioni dell'art. 18 che si sono
succedute nel tempo, attesta che l'incentivo può essere
attribuito se previsto dalla contrattazione collettiva
decentrata e se sia stato adottato l'atto regolamentare
della Amministrazione aggiudicatrice volto alla precisazione
dei criteri di dettaglio per la ripartizione delle risorse
finanziarie confluite nel Fondo e solo a condizione che
l'attività di progettazione sia arrivata in una fase
avanzata, perché sono intervenuti un progetto esecutivo
approvato ed un'opera da realizzare.
25. Siffatti presupposti non ricorrono nella fattispecie
dedotta in giudizio atteso che non è stata oggetto di alcuna
censura l'affermazione della Corte territoriale secondo cui
il regolamento è stato adottato solo in data 27.06.2007 e
considerato che mai il Giuliani ha allegato l'esistenza di
clausole della contrattazione collettiva integrativa
disciplinanti la materia dell'incentivo previsto dall'art.
18 della L. n. 109 del 1994, come successivamente
modificata.
26. Deve, infine, affermarsi che diversamente da quanto
opina il ricorrente, i principi affermati
da questa Corte nella sentenza n. 13384 del 2004 non offrono
alcun supporto alle sue prospettazioni difensive atteso che,
come già osservato da questa Corte nella Ordinanza n. 3779
del 2012, la necessità del regolamento per il diritto agli
incentivi è stata affermata anche nella sentenza del 2004,
la quale in assenza di regolamento, non ha affatto
riconosciuto il diritto all'incentivo, ma solo il
risarcimento del danno per inottemperanza all'obbligo di
adozione del Regolamento da parte della Amministrazione
aggiudicatrice.
27. Deve, poi, escludersi che in difetto di disposizioni di
fonte pattizia collettiva, il giudice avrebbe potuto
liquidare in via equitativa il compenso retributivo
accessorio domandato, ostandovi il principio di riserva alla
contrattazione collettiva espresso nel richiamato c. 1
dell'art. 49 del D.Lgs. n. 165 del 2001, riaffermato nel c. 1
dell'art. 45 del D.Lgs. n. 165 del 2001.
28. Va, infine, rilevato, che il vizio in esame è
inammissibile nella parte in cui è denunciata la violazione
dell'art. 2126 c.c. in quanto, in difformità da quanto
prescritto dall'art. 366, primo comma, n. 3 c.p.c., il
ricorrente non ha svolto alcuna argomentazione volta a
dimostrare in qual modo la sentenza abbia violato la
disposizione codicistica ovvero l'interpretazione datane
dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. 24298/2016,
87/2016, 3010/2012, 5353/2007; Ord. 187/2014, 16308/2013) (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 05.06.2017 n. 13937). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE: Per il diritto all'incentivo
è indispensabile
la predisposizione di un regolamento per determinarne le
modalità di erogazione, perché così la legge prescrive.
Invero la necessità del regolamento per il diritto agli
incentivi è stata affermata anche da questa Corte perché,
nella fattispecie trattata, in assenza di regolamento
non è stato affatto riconosciuto il diritto all'incentivo,
ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza
all'obbligo imposto dalla legge.
----------------
Sono invece manifestamente fondati i primi tre motivi
in cui si contesta il diritto all'incentivo di cui all'art.
19 della legge 109/1994.
Ed infatti, per il diritto all'incentivo, era indispensabile
la predisposizione di un regolamento per determinarne le
modalità di erogazione, perché così la legge prescrive, e
nella specie il regolamento di cui alla delibera n. 1401 del
2003 era stato annullato. Né era passibile di sostituzione
con accordi di sorta.
Invero la necessità del regolamento per il diritto agli
incentivi è stata affermata anche da questa Corte con la
sentenza indicata dai Giudici di merito a supporto della
decisione, perché, in quel caso, in assenza di regolamento,
non è stato affatto riconosciuto il diritto all'incentivo,
ma solo il risarcimento del danno per inottemperanza
all'obbligo imposto dalla legge.
E' stato infatti affermato (Cass. n. 13384 del 19/07/2004)
che "Il disposto dei commi primo e primo-bis dell'art. 18
della legge n. 109 D.L. 1994 (nel testo vigente a seguito
delle modifiche di cui alla legge n. 127 del 1997 e prima
delle modificazioni successivamente introdotte dalla legge
n. 144 del 1999) nel prevedere l'obbligo delle
amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di
pianificazione di costituire un fondo interno e di
ripartirlo tra il personale dei loro uffici tecnici, nonché
di emanare un regolamento per le relative modalità di
erogazione, correlava tali obblighi ai rapporti di lavoro in
corso attribuendo a detti dipendenti un vero e proprio
diritto soggettivo di natura retributiva, alla cui
configurabilità non era d'ostacolo la necessità di una
successiva determinazione nel quantum, dovendosi, del resto,
da un lato escludere che l'emanazione del regolamento
(peraltro non subordinata dal suddetto disposto alla
determinazione di criteri e modalità nella contrattazione
decentrata) potesse configurarsi come condizione di
esistenza di detto diritto, atteso che altrimenti si sarebbe
dovuta qualificare come condizione meramente potestativa e
perciò invalida, e, dall'altro, ritenere irrilevante
l'assenza di un termine per detta emanazione, in quanto
l'inerenza dell'obbligo ad un rapporto contrattuale
comportava per le amministrazioni il rispetto dei principi
di correttezza e buona fede e, quindi, il dovere di
procedere all'emanazione in tempi ragionevoli".
Sulla base di tali principi la S.C., dando atto che non
costituiva oggetto di impugnazione la statuizione del
giudice di merito sull'applicabilità alla vicenda giudicata
del sopra citato disposto normativo, ha riconosciuto fondata
la pretesa di un lavoratore dell'ANAS al "risarcimento
dei danni" a titolo di responsabilità ex art. 1218 cod.
civ., per la mancata corresponsione del premio incentivante
a seguito dell'omessa costituzione del fondo
(Corte di Cassazione, Sez. VI civile,
ordinanza 09.03.2012 n. 3779). |
INCENTIVO PROGETTAZIONE:
In assenza di regolamento, non si ha diritto al
riconoscimento dell'incentivo ma solo il risarcimento del
danno per inottemperanza all'obbligo di adozione del
Regolamento da parte della Amministrazione aggiudicatrice.
Il disposto dei commi 1 e 1-bis dell'art. 18
della legge n. 109 del 1994 (nel testo vigente a seguito
delle modifiche di cui alla legge n. 127 del 1997 e prima
delle modificazioni successivamente introdotte dalla legge
n. 144 del 1999) nel prevedere l'obbligo delle
amministrazioni aggiudicatarie o titolari di atti di
pianificazione di costituire un fondo interno e di
ripartirlo tra il personale dei loro uffici tecnici, nonché
di emanare un regolamento per le relative modalità di
erogazione, correlava tali obblighi ai rapporti di lavoro in
corso attribuendo a detti dipendenti un vero e proprio
diritto soggettivo di natura retributiva, alla cui
configurabilità non era d'ostacolo la necessità di una
successiva determinazione nel "quantum", dovendosi, del
resto, da un lato escludere che l'emanazione del
regolamento (peraltro non subordinata dal suddetto disposto
alla determinazione di criteri e modalità nella
contrattazione decentrata) potesse configurarsi come
condizione di esistenza di detto diritto, atteso che
altrimenti si sarebbe dovuta qualificare come condizione
meramente potestativa e perciò invalida, e, dall'altro,
ritenere irrilevante l'assenza di un termine per detta
emanazione, in quanto l'inerenza dell'obbligo ad un rapporto
contrattuale comportava per le amministrazioni il rispetto
dei principi di correttezza e buona fede e, quindi, il
dovere di procedere all'emanazione in tempi ragionevoli
(sulla base di tali principi la S.C., dando atto che non
costituiva oggetto di impugnazione la statuizione del
giudice di merito sull'applicabilità alla vicenda giudicata
del sopra citato disposto normativo, ha riconosciuto fondata
la pretesa di un lavoratore dell'A.N.A.S. al risarcimento
dei danni a titolo di responsabilità "ex" art. 1218 c.c.,
per la mancata corresponsione del premio incentivante a
seguito dell'omessa costituzione del fondo, escludendo che
-in ragione della loro applicabilità per un preciso ambito
temporale- potesse integrare causa di non imputabilità
dell'inadempimento dell'obbligo di costituzione la
successione di varie modifiche al testo dell'art. 18 legge
n. 109 del 1994).
---------------
La norma di cui al comma 1-bis dell'art. 18 della legge n.
109 del 1994, aggiunto dall'art. 6, comma tredicesimo, della
legge n. 127 del 1997 (e, quindi, vigente anteriormente alla
modifica dello stesso art. 18 disposta dall'art. 13, comma
quarto, della legge n. 144 del 1999) imponeva alle
Amministrazioni che ne erano destinatarie l'obbligo di
emanare un regolamento per la determinazione delle modalità
di erogazione del fondo interno previsto dal comma primo,
senza che l'emanazione fosse subordinata alla preventiva
determinazione di criteri e modalità fissati dalla
contrattazione decentrata (essendo stato il riferimento a
tale contrattazione reintrodotto soltanto con la legge n.
144 del 1999).
---------------
Il primo motivo
di ricorso è infondato per le seguenti considerazioni.
La ricorrente non censura la sentenza impugnata nella parte
in cui ha ritenuto che alla fattispecie in esame non possa
applicarsi il disposto dell'art. 13, comma 4, della legge
17.05.1999 n. 144 (recante la formulazione attualmente
vigente dell'art. 18 della legge 109/1994), perché norma
priva di efficacia retroattiva e quindi non applicabile al
periodo di tempo (27.01.1994/16.07.1998) in cui si sarebbe
verificata la lesione per la quale il Ra. ha chiesto il
risarcimento del danno. Neppure è oggetto di specifica
censura il parametro legislativo di riferimento, individuato
dalla Corte torinese "ratione temporis" nella
versione del menzionato art. 18 legge 109/1994 introdotta
dall'art. 6, comma 13, della legge 15.05.1997 n. 127.
Quest'ultima norma così dispone. Comma 1: "L'1 per cento
del costo preventivato di un'opera o di un lavoro ovvero il
50 per cento della tariffa professionale relativa a un atto
di pianificazione generale, particolareggiata o esecutiva,
sono destinati alla costituzione di un fondo interno da
ripartire tra il personale degli uffici tecnici
dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare dell'atto di
pianificazione, qualora essi abbiano redatto direttamente i
progetti o i piani, il coordinatore unico di cui all'art. 7,
il responsabile del procedimento e i loro collaboratori".
Comma 1-bis: "Il fondo di cui al comma 1 è ripartito per
ogni singola opera o atto di pianificazione sulla base di un
regolamento dell'amministrazione aggiudicatrice o titolare
dell'atto di pianificazione".
Dalla norma sopra trascritta si ricava:
a) l'obbligo dell'amministrazione di costituire un fondo interno
destinandovi l'1 per cento del costo preventivato dell'opera
da realizzare o il 50 per cento della tariffa professionale
relativa ad un atto di pianificazione;
b) l'obbligo di ripartire detto fondo tra il personale degli uffici
tecnici dell'amministrazione;
c) l'obbligo di emanare un regolamento per determinare le modalità
di erogazione del fondo.
Nella versione in esame della norma, applicabile ratione
temporis alla fattispecie in esame, l'emanazione del
regolamento non è subordinata alla preventiva determinazione
di criteri e modalità fissati dalla contrattazione
decentrata. Tale riferimento alla contrattazione decentrata
verrà reintrodotto solo con la legge 17.05.1999 n. 144, non
applicabile alla fattispecie in esame.
Dalla norma di legge sopra trascritta si ricava altresì che
tutti i predetti obblighi dell'amministrazione sono previsti
in relazione a rapporti di lavoro in corso con i propri
dipendenti; essi pertanto trovano la loro correlazione in un
vero e proprio diritto soggettivo di natura retributiva
spettante ai dipendenti specificamente indicati nella norma.
A nulla rileva che i predetti diritti siano
quantitativamente indeterminati fino alla specificazione con
regolamento delle modalità di ripartizione del fondo:
infatti non osta all'esistenza del diritto retributivo del
lavoratore la necessità di una successiva determinazione del
quantum.
D'altro canto l'emanazione del regolamento non può essere
configurata come condizione di esistenza del diritto, poiché
una siffatta condizione null'altro sarebbe che una
condizione meramente potestativa, da ritenersi invalida a
norma dell'art. 1355 c.c.. Neppure può essere rilevante in
senso contrario che la legge non ponga un termine
all'amministrazione per l'emanazione del regolamento:
l'inerenza dell'obbligo in questione ad un rapporto
contrattuale comporta infatti per l'amministrazione il
rispetto dei principi di correttezza (art. 1175 c.c.) e
buona fede (art. 1375 c.c.), per cui l'ANAS era comunque
tenuta ad emanare il regolamento entro termini ragionevoli.
Non avendo a ciò provveduto, l'ente si è reso certamente
inadempiente nei confronti dei dipendenti aventi diritto
alla liquidazione del fondo ed è tenuto a risarcire loro i
danni subiti, ai sensi dell'art. 1218 c.c. , non avendo il
debitore né allegato né provato l'impossibilità di tale
adempimento per cause a lui non imputabili. Non
costituiscono motivo di oggettiva impossibilità, infatti, le
varie modifiche legislative al testo dell'art. 18 cit.,
atteso che, non avendo le innovazioni effetti retroattivi,
ogni versione della norma aveva un suo preciso ambito di
applicazione temporale.
In definitiva la responsabilità dell'ANAS nei confronti del
Ra. non può essere messa in dubbio, avuto anche riguardo
alla natura di ente pubblico economico assunta dall'azienda
a partire dal 19.08.1995 ed alla conseguente
contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti.
La sentenza impugnata, pertanto, nella parte in cui afferma
la responsabilità dell'ANAS, deve trovare piena conferma,
sia pure con le doverose precisazioni in diritto sopra
specificate (Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 19.07.2004 n. 13384). |
|
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"Campo
minato" quello dell'incarico al legale: |
APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: Sussiste
l'onere d’immediata impugnazione del bando di gara pubblica
per contestare clausole di loro impeditive dell'ammissione
dell'interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini
della partecipazione, di oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero
che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i
concorrenti la partecipazione alla gara.
In siffatti casi già la pubblicazione del bando genera una
lesione della situazione giuridica per chi intenderebbe
partecipare alla competizione ma non può farlo a causa della
barriera all’ingresso a quello specifico mercato provocata
da clausole del bando per lui insuperabili perché
immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o
sproporzionate per eccesso; il che comporta per lui un
arresto procedimentale perché gli si rendono inconfigurabili
successivi atti applicativi utili.
----------------
Il motivo, ritiene qui il Collegio, è infondato.
Vanno condivise le giuste considerazioni della sentenza di
prime cure sull’onere di immediata impugnazione del bando di
gara, che opera allorché –come nel caso presente- le
clausole della lex specialis prevedano requisiti di
partecipazione ex se ostativi all'ammissione
dell'interessato, vale a dire autonomamente ed
immediatamente escludenti.
La giurisprudenza da tempo assume che sussiste l'onere
d’immediata impugnazione del bando di gara pubblica per
contestare clausole di loro impeditive dell'ammissione
dell'interessato alla gara, o anche solo impositive, ai fini
della partecipazione, di oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati per eccesso
rispetto ai contenuti della procedura concorsuale, ovvero
che rendano ingiustificatamente più difficoltosa per i
concorrenti la partecipazione alla gara. In siffatti casi
già la pubblicazione del bando genera una lesione della
situazione giuridica per chi intenderebbe partecipare alla
competizione ma non può farlo a causa della barriera
all’ingresso a quello specifico mercato provocata da
clausole del bando per lui insuperabili perché
immediatamente escludenti o che assume irragionevoli o
sproporzionate per eccesso; il che comporta per lui un
arresto procedimentale perché gli si rendono inconfigurabili
successivi atti applicativi utili (da ultimo Cons. Stato, V,
16.01.2015, n. 92; V, 20.11.2015, n. 5296; V, 06.06.2016 n.
2359).
Nella specie, una tale preclusione all’accesso alla contesa
è costituita, per un avvocato –vale a dire, per un esercente
la professione cui è per legge riservato il tipo giuridico
della prestazione in gara di consulenza legale e che dunque
è per ciò solo legittimato ad ambire all’aggiudicazione-
dalla richiesta del requisito di un fatturato globale di
ingenti entità, corrispondenti a non meno di € 20.000.000,
iva esclusa, per consulenze strategico-organizzative e un
fatturato per servizi legali nel diritto amministrativo non
inferiore a €. 2.000.000,00, iva esclusa, di cui almeno €.
1.000.000,00 conseguiti per prestazioni di assistenza e di
consulenza stragiudiziale legale in materia di contratti
pubblici all’interno di tre esercizi finanziari ed un
oggetto di gara.
Sulla base di siffatti livelli economici –di dimensioni tali
da superare una proporzione che sia indice di qualità
professionale- la sommatoria delle pregresse prestazioni
richieste restringe effettivamente la platea dei concorrenti
a un numero limitatissimo: sicché l’effetto di sbarramento
del mercato con conseguente onere di immediata impugnazione
diviene palese; la presentazione della domanda di
partecipazione avrebbe avuto solo un carattere formale e
dunque non necessario a radicare il bisogno di giustizia
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 26.06.2017 n. 3110 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Sulla
illegittimità di un appalto di servizi legali indetto da un
Comune secondo il criterio del prezzo più basso e sulle
modalità con cui l’amministrazione comunale ha determinato
l’importo dell’appalto.
Il D.Lgs. n. 50/2016 e, prima ancora, la direttiva
2014/24/UE, ha segnato una netta preferenza per
l’applicazione di criteri di aggiudicazione che si fondino
su un complessivo apprezzamento del miglior rapporto
qualità/prezzo, relegando il tradizionale criterio del
prezzo più basso ad ipotesi tassativamente individuate.
Conseguentemente, il criterio di aggiudicazione fondato sul
rapporto qualità/prezzo costituisce un principio immanente
al sistema che consente l’applicazione del prezzo più basso
solo nei casi espressamente previsti.
---------------
In tale prospettiva,
il criterio qualità/prezzo è certamente
più agevolmente coniugabile (rispetto al criterio del
massimo ribasso) con il disposto dell’art. 2233, 2° comma,
cod. civ., che –nel disciplinare il contratto d’opera
intellettuale, cui è pur sempre riconducibile l’attività
legale– dispone che “in ogni caso la misura del compenso
deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro
della professione”.
Le considerazioni innanzi svolte dimostrano
le ragioni dell’illegittimità
della scelta dell’amministrazione comunale di procedere con
il criterio del prezzo più basso, atteso che esso non è
compatibile con le disposizioni dell’art. 95 del codice
–come si è detto, per più motivi applicabile all’appalto per
cui è causa– poiché il legislatore ne ha reso possibile
l’applicazione solo in presenza di prestazioni ripetitive
ovvero standardizzate, connotati questi che certo non
possono ritenersi propri della attività legale che si
caratterizza, invece, proprio per la peculiarità e
specificità di ciascuna questione, sia essa contenziosa o
stragiudiziale.
---------------
I servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del
Codice, quale quello in esame, sono comunque soggetti ai “principi
di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità,
tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” ex art. 4
Codice.
L’applicazione dei principi di trasparenza e di pubblicità
richiedono che ogni potenziale offerente sia messo in
condizione di essere a conoscenza di tutte le informazioni
necessarie all’appalto in modo tale da consentire un’offerta
completa ed adeguata.
Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha omesso del
tutto l’applicazione di questi principi.
Infatti, nessuna motivazione è stata data in ordine alla
congruità del compenso posto a base di gara, e non è stata
effettuata alcuna istruttoria per determinare i parametri,
quali la tipologia o quantità del contenzioso anche
prendendo in considerazione gli anni precedenti, idonei per
determinare il prezzo posto a base di gara e per permettere
un’offerta consapevole.
Infatti, l’impossibilità di predeterminare il numero e gli
importi dei procedimenti contenziosi, nonché la qualità e
quantità dell’attività stragiudiziale, preclude qualsiasi
serio apprezzamento della congruità dell’importo a base
d’asta che, almeno teoricamente, l’amministrazione avrebbe
potuto confortare ove avesse fornito dati statistici desunti
dall’attività svolta negli anni precedenti.
---------------
FATTO
I ricorrenti hanno impugnato gli atti con cui il comune di
Racale ha indetto una gara, per l’affidamento della gestione
del contenzioso e del supporto giuridico-legale ai vari
uffici, e la successiva aggiudicazione provvisoria.
I ricorrenti hanno dedotto i seguenti motivi:
1. Violazione art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001; eccesso di
potere per falsa applicazione del d.lgs. 50/2016; eccesso di
potere per carenza di istruttoria.
2. Violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. 50/2016;
eccesso di potere per irragionevolezza e illogicità
manifeste.
3. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 95 e 83 del
d.lgs. 50/2016; eccesso di potere per illogicità e
irragionevolezza manifeste; carenza di istruttoria.
4. Violazione di legge; violazione d.lgs. 50/2016 e, in
particolare, degli artt. 3 e 95, comma 2; violazione del
d.m. 55/2014; violazione dell’art. 2233, comma 2, c.c.;
violazione dei principi i tema di appalto a corpo e di
indeterminatezza dell’oggetto.
5. Falsa ed erronea interpretazione ed applicazione degli
artt. 17, 4, 60 e 95, del d.lgs. 50/2016; violazione dei
principi generali in materia di organizzazione e struttura
dei servizi comunali, anche di cui al d.lgs. 267/2000;
violazione degli artt. 18, 19 e 23 della l. 247/2012;
violazione dei principi generali in tema di obbligo di
svolgimento del concorso pubblico; falsa ed erronea
interpretazione ed applicazione degli artt. 7, comma 6,
6-bis, 6-ter e 6-quater del d.lgs. 165/2001, dell’art. 110,
comma 6, del d.lgs. 267/2000, dell’art. 2222 e ss. c.c. e
dell’art., comma 56, della l. 244/2007, in considerazione
anche del d.l. 112/2008; assoluta carenza motivazionale;
violazione di legge; sviamento di potere.
Sostengono i ricorrenti:
- che la prestazione professionale prevista dal bando non
rientra nell’ambito di applicazione del d.lgs. 50/2016, ma
deve ritenersi regolata dagli artt. 7 e 8 del d.lgs.
165/2001;
- che la prestazione di rappresentanza legale non rientra
nell’ambito dell’appalto;
che comunque, anche a voler ammettere l’appalto di servizi
legali, non è possibile affidare questi servizi con il
criterio del massimo ribasso e senza idonei criteri di
selezione;
- che, in ragione dell’importo a base d’asta, l’affidamento
del servizio, essendo sottosoglia, risulta disciplinato
dall’art. 95 del Codice che ammette il criterio del minor
prezzo solo per i servizi con caratteristiche standardizzate
o le cui condizioni sono definite dal mercato; che non sono
stati indicati idonei criteri di selezione;
- che sussiste una carenza di istruttoria in ordine alla
determinazione dell’importo del prezzo base su cui operare
il ribasso;
- che si tratta di un contratto a misura e non a corpo;
- che il prezzo previsto è violativo dell’art. 2233, comma
2, c.c.;
- che, in ragione delle modalità di svolgimento del servizio
richiesto, si è, in sostanza, acquisita senza concorso la
disponibilità di prestazioni professionali assimilabili a
quelle del lavoro dipendente;
- che ciò integra una ulteriore illegittimità sotto il
profilo dell’incompatibilità con il regime proprio
dell’attività dell’avvocato esercente la libera professione.
I ricorrenti hanno poi chiesto il rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia sulla questione se la direttiva
2014/24/UE osti a una disciplina nazionale che preveda la
possibilità di indire una procedura a evidenza pubblica per
l’affidamento di un appalto di servizi legali.
Il Comune, con memoria del 16.01.2017, ha eccepito
l’inammissibilità del ricorso collettivo per la
disomogeneità delle posizioni sostanziali vantate dai
ricorrenti, nonché per difetto di legittimazione a ricorrere
in capo alle varie categorie di ricorrenti, e l’irricevibilità
del ricorso.
Nel merito ha rilevato:
- che con l’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti
non si può più applicare l’art. 7, comma 6, d.lgs. 165/2001;
- che il nuovo codice chiarisce che lo svolgimento di
attività giuridico-legale in favore delle amministrazioni
configura un appalto di servizi;
- che le amministrazioni possono scegliere di avviare una
vera e propria procedura di gara;
- che nessuna norma preclude l’utilizzo del criterio del
massimo ribasso;
- che l’art. 95 del codice non può applicarsi al caso in
esame posto che è uno dei servizi per i quali trovano
applicazione solo gli artt. 140, 142, 143 e 144;
- che nessuna disposizione impone alla stazione appaltante
di prevedere speciali criteri di qualificazione;
- che alla procedura hanno partecipato 17 professionisti con
la conseguenza che il prezzo determinato non può ritenersi
incongruo;
- che le tariffe professionali sono state abrogate; che il
Comune non ha assunto alcun nuovo dipendente.
Con
ordinanza 19.01.2017 n. 21 è stata accolta la
richiesta misura cautelare.
Le parti hanno depositato ulteriori memorie.
Alla pubblica udienza del 29.03.2017 il ricorso è stato
trattenuto in decisione.
DIRITTO
...
2. Nel merito.
2.1. Infondato è il motivo di ricorso con cui si contesta
l’applicazione alla tipologia di servizi in questione della
disciplina del d.lgs. 50/2016.
Il nuovo codice dei contratti, che, per quanto qui
interessa, ha fedelmente recepito le direttive comunitarie,
ha mantenuto i servizi legali tra gli appalti elencati
nell’allegato IX, cui si applica il regime “alleggerito”
ex artt. 140 e ss., mentre all’art. 17 sono elencati tra gli
appalti esclusi dall’applicazione del codice quelli di
servizi concernenti cinque tipologie di servizi legali tra
cui, per quanto qui interessa, quelli di “rappresentanza
legale di un cliente da parte di un avvocato ai sensi
dell'articolo 1 della legge 09.02.1982, n. 31, e successive
modificazioni”.
Nel caso di specie, è pacifico che
il bando aveva ad oggetto
sia l’affidamento relativo all’attività contenziosa,
rientrante nel citato art. 17, sia l’affidamento di attività
stragiudiziale rientrante negli appalti di servizi di cui al
citato allegato IX.
Quest’ultima, soprattutto quando ha carattere generale, deve
essere affidata nel rispetto delle previsioni del codice dei
contratti.
Nel caso in esame non è possibile apprezzare se risulti
prevalente l’attività contenziosa (il cui affidamento
è sottratto al codice dei contratti) o quella
stragiudiziale (da affidare nel rispetto del codice dei
contratti e delle altre norme dell’ordinamento applicabili)
e, a ben vedere, non è neanche necessario tale accertamento
poiché l’amministrazione ha inteso operare un unico
affidamento sia per il contenzioso sia per l’attività
stragiudiziale, di talché una siffatta scelta non poteva che
comportare la necessità della procedura ad evidenza
pubblica, quale che fosse l’estensione e il “peso”
delle attività stragiudiziali, pena, altrimenti, la
violazione delle norme che ne regolano l’affidamento.
Peraltro, la ordinaria sottrazione dell’affidamento del
contenzioso alle procedure del codice dei contratti non
preclude certo all’amministrazione di far ricorso ad esse
per propria scelta, non risultando rinvenibile un divieto in
tal senso.
Va da sé che la decisione di operare un unico affidamento
–sia del contenzioso sia dell’attività stragiudiziale–
impone, come innanzi già esposto, il rispetto delle norme
del codice dei contratti pubblici e delle altre disposizioni
dell’ordinamento.
Di qui l’insussistenza dei presupposti per una rimessione
della questione alla Corte di Giustizia.
2.2. Ciò premesso, al fine di individuare, per quanto in
questa sede necessario, le disposizioni applicabili
all’affidamento dei servizi legali, occorre rammentare che,
oltre agli artt. 140, 142, 143 e 144, trova applicazione
all’appalto de quo anche l’art. 95 d.lgs. 50/2016
–concernente i criteri di aggiudicazione- come rilevato da
una condivisibile giurisprudenza, “in virtù
dell'esplicito rinvio operato, per tutti gli appalti dei
settori speciali, dall'art. 133, I comma, dello stesso
Codice (applicabile anche ai servizi specifici di cui
all'Allegato IX, per effetto della previsione dell'art. 114,
I comma, il quale estende in via generale l'applicabilità
della disciplina del Titolo VI - Capo I del Codice, ivi
compreso l'art. 133 e le norme da quest'ultimo richiamate,
anche ai servizi elencati nell'Allegato IX e menzionati
nell'art. 140, I comma)” (Tar Calabria, Reggio Calabria,
sez. I, 30.11.2016, n. 1186).
L’art. 95 codice dei contratti pubblici, prevede che “salve
le disposizioni legislative, regolamentari o amministrative
relative al prezzo di determinate forniture o alla
remunerazione di servizi specifici, le stazioni appaltanti,
nel rispetto dei principi di trasparenza, di non
discriminazione e di parità di trattamento, procedono
all'aggiudicazione degli appalti e all'affidamento dei
concorsi di progettazione e dei concorsi di idee, sulla base
del criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa
individuata sulla base del miglior rapporto qualità/prezzo o
sulla base dell'elemento prezzo o del costo, seguendo un
criterio di comparazione costo/efficacia quale il costo del
ciclo di vita, conformemente all'articolo 96” (comma 2).
Per il comma 4 “Può essere utilizzato il criterio del
minor prezzo:
a) per i lavori di importo pari o inferiore a
1.000.000 di euro, tenuto conto che la rispondenza ai
requisiti di qualità è garantita dall'obbligo che la
procedura di gara avvenga sulla base del progetto esecutivo;
b) per i servizi e le forniture con caratteristiche
standardizzate o le cui condizioni sono definite dal
mercato;
c) per i servizi e le forniture di importo
inferiore alla soglia di cui all'articolo 35, caratterizzati
da elevata ripetitività, fatta eccezione per quelli di
notevole contenuto tecnologico o che hanno un carattere
innovativo”.
Il D.Lgs. n. 50/2016 e, prima ancora, la direttiva
2014/24/UE, ha segnato una netta preferenza per
l’applicazione di criteri di aggiudicazione che si fondino
su un complessivo apprezzamento del miglior rapporto
qualità/prezzo, relegando il tradizionale criterio del
prezzo più basso ad ipotesi tassativamente individuate.
Conseguentemente, il criterio di aggiudicazione fondato sul
rapporto qualità/prezzo costituisce un principio immanente
al sistema che consente l’applicazione del prezzo più basso
solo nei casi espressamente previsti.
In tale prospettiva, il criterio qualità/prezzo è certamente
più agevolmente coniugabile (rispetto al criterio del
massimo ribasso) con il disposto dell’art. 2233, 2° comma,
cod. civ., che –nel disciplinare il contratto d’opera
intellettuale, cui è pur sempre riconducibile l’attività
legale– dispone che “in ogni caso la misura del compenso
deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro
della professione”.
Le considerazioni innanzi svolte dimostrano –conformemente
alle deduzioni ricorsuali- le ragioni dell’illegittimità
della scelta dell’amministrazione comunale di procedere con
il criterio del prezzo più basso, atteso che esso non è
compatibile con le disposizioni dell’art. 95 del codice
–come si è detto, per più motivi applicabile all’appalto per
cui è causa– poiché il legislatore ne ha reso possibile
l’applicazione solo in presenza di prestazioni ripetitive
ovvero standardizzate, connotati questi che certo non
possono ritenersi propri della attività legale che si
caratterizza, invece, proprio per la peculiarità e
specificità di ciascuna questione, sia essa contenziosa o
stragiudiziale.
2.3. È inoltre fondato il motivo con cui si contestano le
modalità con cui l’amministrazione comunale ha determinato
l’importo dell’appalto.
I servizi esclusi dall’ambito oggettivo di applicazione del
Codice, quale quello in esame, sono comunque soggetti ai “principi
di economicità, efficacia, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità,
tutela dell’ambiente ed efficienza energetica” ex art. 4
Codice.
L’applicazione dei principi di trasparenza e di pubblicità
richiedono che ogni potenziale offerente sia messo in
condizione di essere a conoscenza di tutte le informazioni
necessarie all’appalto in modo tale da consentire un’offerta
completa ed adeguata.
Nel caso in esame, l’amministrazione comunale ha omesso del
tutto l’applicazione di questi principi.
Infatti, nessuna motivazione è stata data in ordine alla
congruità del compenso posto a base di gara, e non è stata
effettuata alcuna istruttoria per determinare i parametri,
quali la tipologia o quantità del contenzioso anche
prendendo in considerazione gli anni precedenti, idonei per
determinare il prezzo posto a base di gara e per permettere
un’offerta consapevole.
Infatti, l’impossibilità di predeterminare il numero e gli
importi dei procedimenti contenziosi, nonché la qualità e
quantità dell’attività stragiudiziale, preclude qualsiasi
serio apprezzamento della congruità dell’importo a base
d’asta che, almeno teoricamente, l’amministrazione avrebbe
potuto confortare ove avesse fornito dati statistici desunti
dall’attività svolta negli anni precedenti.
3 In conclusione, il ricorso, previa dichiarazione di
inammissibilità dello stesso per difetto di legittimazione
attiva nei confronti dell’Ordine degli Avvocati, va accolto,
nei termini innanzi indicati, con assorbimento delle censure
non esaminate
(TAR Puglia-Lecce, Sez. II,
sentenza 31.05.2017 n. 875 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Illegittima la scelta fiduciaria del legale
esterno.
Con la
deliberazione 26.04.2017 n. 75
(Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 -
Comune di Faenza (Ra). A seguito dell'entrata in vigore del
d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio
legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi,
affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del
citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di
operatori qualificati articolati in settori di
competenza. Criticità: mancato inserimento degli incarichi di
patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di
un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e
omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere
l'incarico all'interno dell'ente; conferimento di un elevato
numero di patrocini in relazione al numero di legali in
forza all'Ufficio legale interno; ricorso all'affidamento
diretto; ricorso alla transazione senza previa acquisizione
del parere da parte dell'Organo di revisione contabile)
la Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna, vaglia
l'operato di un Comune sotto il profilo dell'organizzazione
e del funzionamento dell'ufficio legale, ponendo in rilievo
una serie di criticità sia nella gestione dei servizi legali
e di patrocinio, sia nella scelta dei professionisti esterni
incaricati (si veda anche il Quotidiano degli enti locali e
della Pa del 03.05.2017).
Le censure della Corte
Dopo un'accurata analisi delle procedure dell'ente locale, i
giudici contabili formulano le seguenti censure:
a) mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel documento
unico di programmazione o in altro atto di programmazione;
b) mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a
disciplinare l'affidamento dei patrocini legali e omesso
accertamento dell'impossibilità di svolgerli all'interno
dell'ente;
c) conferimento di un elevato numero di patrocini e di incarichi
esterni, anche in relazione al numero dei legali in forza
all'ufficio interno;
d) ricorso ingiustificato all'affidamento diretto degli incarichi,
in contrasto con la giurisprudenza consolidata della
magistratura contabile.
Tali conclusioni presuppongono una chiave di lettura
estremamente rigorosa, che si può rintracciare nel percorso
logico seguito dal collegio nell'affrontare la questione.
La disciplina sugli incarichi
La Sezione osserva che la disciplina da applicarsi agli
incarichi di patrocinio legale deve essere rivista alla luce
del Dlgs 18.04.2016 n. 50 (codice dei contratti), per il
fatto che quest'ultimo, in aderenza ai principi del diritto
comunitario, accoglie una nozione molto ampia dell'appalto
di servizi, entro cui non può che rientrare ogni incarico di
patrocinio legale.
Di conseguenza, l'affidamento di tali incarichi deve perciò
avvenire nel rispetto dei principi di economicità,
efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di trattamento,
trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
Questo assunto non era stato finora espresso in termini così
chiari dato che la giurisprudenza contabile, a partire dalla
deliberazione 03.04.2009 n. 19
della Sezione Basilicata, ha per anni considerato l'incarico
di patrocinio legale come un contratto d'opera intellettuale
regolato dall'articolo 2230 del codice civile, e nel
contempo non disciplinato al pari di un incarico esterno ex
articolo 7, comma 6 e seguenti, del Dlgs 165/2001, in quanto
conferito per adempimenti obbligatori ex lege.
Il cambio di rotta
Questo orientamento ha talora favorito la prassi di
scegliere legali esterni secondo ragioni di carattere
fiduciario, prassi che oggi non può trovare giustificazione,
se non in casi isolati.
La Sezione Emilia Romagna rileva sul punto che ove ricorrano
«ragioni di urgenza, dettagliatamente motivate e non
derivanti da un'inerzia dell'ente conferente, tali da non
consentire l'espletamento di una procedura comparativa, le
amministrazioni possono prevedere che si proceda
all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un
criterio di rotazione».
In vista di tale evenienza, la Pa deve comunque istituire
elenchi di operatori qualificati, in modo che l'affidatario
venga individuato tra gli avvocati iscritti in detti
elenchi.
Si tratta, in ogni caso, della classica eccezione che
conferma la regola, da identificarsi nella necessità di
avviare una procedura comparativa per la scelta del legale
esterno.
A conferma di ciò, il collegio evoca la recente
sentenza 06.02.2017 n. 334
con cui il Tar Sicilia-Palermo, Sezione III, nel trattare
l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del
nuovo codice dei contratti, ha rimarcato come per tale
appalto «debba essere assicurata la massima
partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo
idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di
partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla
selezione per la scelta del contraente».
Il collegio accoglie queste indicazioni, ritenendo che esse
rappresentino un passaggio obbligato per assicurare il
corretto utilizzo delle risorse pubbliche, con l'effetto che
deve ritenersi precluso agli enti locali qualsiasi margine
di discrezionalità in materia
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 08.05.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI:
Anche il patrocinio legale «singolo» è un appalto
di servizi.
Anche il singolo incarico di patrocinio legale deve essere
inquadrato come appalto di servizi, soggetto ai principi di
imparzialità, pubblicità e concorrenza, ed è vietato
procedere all'affidamento diretto sulla base del carattere
fiduciario della scelta.
Con la
deliberazione 26.04.2017 n. 73
(Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015
- Comune di Ravenna (FC). A seguito dell'entrata in vigore
del d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di
patrocinio legale dev'essere inquadrato come appalto di
servizi, affidato nel rispetto dei principi di cui all'art.
4 del citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di
operatori qualificati articolati in settori di competenza.
Criticità: ricorso a domiciliazioni legali; violazione dei
principi sul rimborso delle spese legali),
deliberazione 26.04.2017 n. 74
(Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 -
Comune di Cesena (FC). A seguito dell'entrata in vigore del
d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio
legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi,
affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del
citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di
operatori qualificati articolati in settori di
competenza.Criticità: mancato inserimento degli incarichi di
patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di
un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e
omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere
l'incarico all'interno dell'ente; ricorso all'affidamento
diretto; mancata previa valutazione di congruità del
preventivo; avventato ricorso a domiciliazioni legali) e
deliberazione 26.04.2017 n. 75
(Relazione sui servizi legali attribuiti nel 2015 -
Comune di Faenza (Ra). A seguito dell'entrata in vigore del
d.lgs. n. 50/2016, anche il singolo incarico di patrocinio
legale dev'essere inquadrato come appalto di servizi,
affidato nel rispetto dei principi di cui all'art. 4 del
citato d.lgs. E' legittima la redazione di elenchi di
operatori qualificati articolati in settori di
competenza. Criticità: mancato inserimento degli incarichi di
patrocinio in un atto di programmazione; mancata adozione di
un regolamento a disciplinare l'affidamento dei patrocini e
omesso accertamento dell'impossibilità di svolgere
l'incarico all'interno dell'ente; conferimento di un elevato
numero di patrocini in relazione al numero di legali in
forza all'Ufficio legale interno; ricorso all'affidamento
diretto; ricorso alla transazione senza previa acquisizione
del parere da parte dell'Organo di revisione contabile)
-relative alle relazioni sui servizi legali di alcuni
capoluogo di provincia- la Sezione regionale di controllo
della Corte dei Conti per l'Emilia Romagna chiarisce le
corrette modalità per l'affidamento degli incarichi legali.
Tali indicazioni si aggiungono così a quelle proposte dall'Anac
con lo schema di atto di regolamento sull'affidamento dei
servizi legali, sottoposto a consultazione nei giorni
scorsi. L'analisi dei magistrati parte dalla considerazione
che con l'entrata in vigore del Dlgs 50/2016, anche il
singolo incarico di patrocinio legale appare dover essere
inquadrato come appalto di servizi, soggetto
all'applicazione del codice di contratti pubblici.
Ciò, sulla base del disposto di cui all'articolo 17, che
considera come contratto escluso la rappresentanza legale di
un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento
giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la
consulenza legale fornita in preparazione di detto
procedimento. L'applicazione, anche al singolo patrocinio,
della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma
dunque l'impossibilità di considerare la scelta
dell'avvocato esterno all'ente come connotata da carattere
fiduciario.
L’elenco di operatori qualificati
Per la scelta del professionista, l'ente potrebbe avvalersi
di un elenco di operatori qualificati, da individuare con
procedura trasparente e aperta, oggetto di adeguata
pubblicità, dalla quale selezionare, su una base non
discriminatoria, gli operatori che saranno invitati a
presentare offerta. Quanto sopra deve avvenire sulla base di
un principio di rotazione, applicato tenendo conto
dell'importanza della causa e del compenso prevedibile.
È altresì utile precisare che detti elenchi di operatori
qualificati possono essere articolati in diversi settori di
competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un
numero massimo di iscritti. In quest'ultimo punto i giudici
contabili si discostano dall' Anac che sembra invece
ammettere la previsione di un numero massimo di iscritti.
Quando l’affidamento diretto
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza,
dettagliatamente giustificate e non derivanti da un'inerzia
dell'ente conferente, tali da non consentire l'espletamento
di una procedura comparativa, le amministrazioni possono
prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli
incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano
stati istituiti elenchi di operatori qualificati,
l'affidatario dev'essere individuato tra gli avvocati
iscritti in detti elenchi).
Inserimento nel Dup
L'adozione di criteri di buon andamento e corretta gestione
delle risorse pubbliche impone poi l'inserimento nel Dup, o
in altro atto di programmazione, degli incarichi di
patrocinio, la cui regolamentazione deve essere in ogni caso
prevista dall'ente. Secondo i magistrati l'affidamento degli
incarichi di patrocinio dovrebbe avvenire, in via
preferenziale, in favore degli avvocati interni all'ente.
Per questo, occorrerebbe procedimentalizzare l'accertamento,
preliminare rispetto all'affidamento di ciascun incarico,
dell'effettiva impossibilità per i legali dipendenti
dall'ente di assumere l'incarico.
In mancanza di una disciplina specifica, è comunque onere
dell'ente accertare, volta per volta, prima di affidare gli
incarichi di patrocinio all'esterno, l'impossibilità da
parte dei componenti dell'ufficio legale a svolgere tale
incarico, allo scopo di evitare una spesa inutile e, quindi,
un possibile danno all'erario. Un accertamento di tale tipo
è da considerarsi presupposto necessario per l'affidamento
legittimo all'esterno di un patrocinio ed è indispensabile
anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi
come appalti di servizi.
La mera indicazione, nella deliberazione di giunta «preso
atto della impossibilità da parte dell'avvocatura comunale
di assumere la difesa per effetto del pensionamento del Capo
Servizio contenzioso» non è infatti sufficiente ad
integrare detto accertamento. La presenza di un ufficio
legale interno all'ente cui sia istituzionalmente demandata
la competenza in materia di difesa in giudizio ed assistenza
giuridica, implica che l'affidamento delle summenzionate
attività a un soggetto esterno debba rappresentare
un'eccezione rispetto ad un ordinario assetto delle
attribuzioni.
Fra le criticità evidenziate, in tema di domiciliazione
legale, i giudici contabili asseriscono che in questo caso
l'intuitus personae non è di particolare rilevanza,
pertanto la scelta dell'affidatario non può ragionevolmente
fondarsi sull'aspetto prettamente fiduciario, ma deve
orientarsi sul costo più basso ottenibile tramite una
procedura comparativa. Risulta infatti meno rilevante,
grazie all'utilizzo della pec, la funzione di interlocuzione
diretta con le cancellerie da parte dei legali della
circoscrizione.
Il parere dell'organo di revisione sulle
delibere di giunta
Infine, la Corte affronta il tema del parere dell'organo di
revisione sulle delibere di giunta aventi ad oggetto
transazioni. Pur riconoscendo che la giurisprudenza
prevalente esclude il parere dell'organo di revisione
contabile sulle transazioni di competenza dell'organo
esecutivo, i magistrati ritengono comunque utile segnalare
l'opportunità, da parte dell'ente pubblico, di chiedere un
parere all'organo di revisione anche in riferimento a
transazioni non di competenza del consiglio, ove le stesse
siano di particolare rilievo, o relative a controversie di
notevole entità (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 03.05.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
INCARICHI PROFESSIONALI:
Criticità rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente,
di incarichi legali.
L’affidamento diretto di incarichi di
patrocinio legale, operati dall’ente, si pone in contrasto
con la giurisprudenza consolidata di questa Corte, che
esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in via
fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i
principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
---------------
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di
programmazione gli incarichi di patrocinio che
prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di
riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni
in un atto di programmazione, pur non rientrando nel
contenuto necessario del DUP,
come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1,
risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di
corretta gestione delle risorse pubbliche.
---------------
Pur costituendo la transazione uno strumento che si presta
ad abusi, la giurisprudenza della Corte dei conti è ormai
consolidata nel ritenere pienamente ammissibile il ricorso a
tale strumento, ove risulti conveniente per
l’Amministrazione, anche in riferimento a fattispecie
rispetto alle quali non sia legislativamente previsto il
tentativo obbligatorio di mediazione.
Occorre tuttavia la massima prudenza da parte dell’ente,
nonché una dettagliata motivazione che dia conto del
percorso logico seguito per giungere alla definizione
transattiva della controversia, anche sulla base di un
giudizio prognostico circa l’esito del contenzioso.
La deliberazione di Giunta di
autorizzazione alla conclusione della transazione, nella
fattispecie, non ha conseguito (richiesto) il parere
dell’Organo di revisione.
La Sezione è a conoscenza dei precedenti
giurisprudenziali che hanno ritenuto obbligatoria
l’acquisizione di detto parere solo nel caso in cui
costituisca atto di un procedimento che deve concludersi con
una delibera del Consiglio.
Si ritiene comunque utile segnalare
l’opportunità, da parte dell’ente pubblico, di chiedere un
parere all’Organo di revisione anche in riferimento a
transazioni non di competenza del Consiglio, ove le stesse
siano di particolare rilievo, o relative a controversie di
notevole entità.
Ovviamente in detti casi, qualora
non siano state previamente ampliate in via regolamentare le
funzioni dei revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 6, del
tuel (ampliamento che è rimesso alla discrezionale potestà
dell’ente locale, ma che sarebbe utile) non vi è l’obbligo
da parte dell’Organo di controllo interno di rendere il
parere.
---------------
testo
deliberazione
A partire dalla
deliberazione 03.04.2009 n. 19, della Sezione
regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era progressivamente
consolidata nel considerare il singolo incarico di
patrocinio legale come non integrante un appalto di servizi,
bensì un contratto d’opera intellettuale, regolato dall’art.
2230 del codice civile.
In ogni caso, la magistratura contabile già
riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non
riconducibile direttamente agli incarichi professionali
esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del
d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti
obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi,
qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non
potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto,
dovendo essere attribuito a seguito di procedura
comparativa, aperta a tutti i possibili interessati.
Ciò, allo scopo di consentire il rispetto dei principi di
imparzialità, e trasparenza (in tal senso, da ultimo, questa
Sezione, in sede di giudizio di parificazione del rendiconto
generale della Regione Emilia-Romagna per l’esercizio
finanziario 2015, approvato con deliberazione n.
66/2016/PARI, del 15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina
applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo
patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce
dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs.
18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo
incarico di patrocinio legale appare dover essere inquadrato
come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui
all’art. 17
(recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto
e concessione di servizi”), che
considera come contratto escluso la rappresentanza legale di
un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento
giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la
consulenza legale fornita in preparazione di detto
procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche
tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca
direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una
nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal
nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto
previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo,
l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei
principi di economicità, efficacia, trasparenza,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio
della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma
l’orientamento consolidato di questa Corte in merito
all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato
esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti
pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una
ricognizione interna finalizzata ad accertare
l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere
l’incarico (così,
da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n.
66/2016).
Con la recente
sentenza 06.02.2017 n. 334, il TAR
Sicilia–Palermo, Sez. III, nel giudicare
l'affidamento di un appalto di servizi legali alla luce del
nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato come per
esso debba essere assicurata la massima partecipazione
mediante una procedura di tipo comparativo idonea a
permettere a tutti gli aventi diritto di partecipare, in
condizioni di parità e uguaglianza, alla selezione per la
scelta del contraente. Tali indicazioni sono pienamente
condivisibili, consentendo, inoltre, di assicurare il
migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con il
Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG
45/2016/AP, ha evidenziato, operando una
specificazione condivisa da questa Sezione, che
nell'affidamento di un patrocinio legale le
amministrazioni possono attuare i principi di cui all’art. 4
del codice dei contratti pubblici applicando sistemi di
qualificazione, ovvero la redazione di un elenco di
operatori qualificati, mediante una procedura trasparente e
aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla quale
selezionare, su una base non discriminatoria, gli operatori
che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un
principio di rotazione, applicato tenendo conto, nella
individuazione della “rosa” dei soggetti selezionati,
dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È
altresì utile precisare che detti elenchi di operatori
qualificati possono essere articolati in diversi settori di
competenza e che non sarebbe comunque legittimo prevedere un
numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di
urgenza, dettagliatamente motivate e non derivanti da
un'inerzia dell'Ente conferente, tali da non consentire
l’espletamento di una procedura comparativa, le
amministrazioni possono prevedere che si proceda
all'affidamento diretto degli incarichi, sulla base di un
criterio di rotazione (ove siano stati istituiti elenchi di
operatori qualificati, l’affidatario dev’essere individuato
tra gli avvocati iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che
entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si
riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che
possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi
esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di
patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un
appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid
pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al
semplice patrocinio legale”
(C. conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente
giurisprudenza amministrativa, per la quale era
configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento
non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico
dell’amministrazione, ma si configuri come modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca”
(ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II,
sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato, la distinzione tra
affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto
di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui
all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di
collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica
amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere
presente che è tuttora possibile affidare a un legale un
incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del
t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno
studio, una ricerca o, più frequentemente, un
parere legale.
Ad esso si applicano tutti i presupposti di legittimità
degli incarichi professionali esterni individuati da questa
giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al
conferimento degli incarichi professionali esterni, si
rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di
spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e
ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità
e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari
2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede
nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con
deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso, si segnalano i seguenti
specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame
delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e
dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente
all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel
documento unico di programmazione o in altro atto di
programmazione
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro
atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che
prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di
riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni
in un atto di programmazione, pur non rientrando nel
contenuto necessario del DUP,
come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1,
risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di
corretta gestione delle risorse pubbliche.
Mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a
disciplinare l’affidamento dei patrocini legali e omesso
accertamento dell’impossibilità di svolgerli all’interno
dell’ente
L’ente
in analisi ha considerato gli incarichi di
patrocinio legale come esclusi dalla disciplina che ha
dettato per l’affidamento degli incarichi professionali
esterni. Tuttavia, non ha regolamentato in alcun modo
l’affidamento di patrocini legali all’esterno: una normativa
finalizzata a disciplinare la materia sarebbe in realtà
opportuna e dovrebbe tra l’altro prevedere che l’affidamento
degli incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale,
in favore degli avvocati interni all’ente.
Essa dovrebbe, inoltre, procedimentalizzare
l’accertamento, preliminare rispetto all’affidamento di
ciascun incarico, dell’effettiva impossibilità per i legali
dipendenti dall’ente di assumere l’incarico. In mancanza di
una disciplina specifica, è comunque onere dell’ente
accertare, volta per volta, prima di affidare gli incarichi
di patrocinio all’esterno, l’impossibilità da parte dei
componenti dell’ufficio legale a svolgere gli stessi, allo
scopo di evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile
danno all’erario.
Un accertamento di tale tipo è da
considerarsi presupposto necessario per l’affidamento
legittimo all’esterno di un incarico di patrocinio ed è
indispensabile anche alla luce della nuova configurazione di
tali incarichi come appalti di servizi. La mera indicazione,
nella deliberazione di Giunta “preso atto della
impossibilità da parte dell’avvocatura comunale di assumere
la difesa per effetto del pensionamento del Capo Servizio
contenzioso” non è sufficiente a integrare detto
accertamento, soprattutto se si considera che solo 5
patrocini sono stati affidati nel corso dell’anno
all’Ufficio legale.
Conferimento di un elevato numero di patrocini e di
incarichi esterni, anche in relazione al numero dei legali
in forza all’Ufficio interno
La presenza di un ufficio legale interno
all’ente cui sia istituzionalmente demandata la competenza
in materia di difesa in giudizio ed assistenza giuridica,
implica che l’affidamento delle summenzionate attività a un
soggetto esterno debba rappresentare un’eccezione rispetto
ad un ordinario assetto delle attribuzioni e, anche in
ragione del principio di buon andamento ed economicità dell’agere
pubblico, debba rispondere ad un criterio di stretta
necessità congruamente motivata.
Si ritiene che il Comune debba valutare l’opportunità di
effettuare uno studio, allo scopo di verificare la
possibilità di economicizzare la propria azione, utilizzando
meglio i propri legali.
Ricorso all’affidamento diretto
L’affidamento diretto di incarichi di
patrocinio legale, operati dall’ente in analisi, si pone in
contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte,
che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in
via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i
principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
Ricorso alla transazione
Pur costituendo la transazione uno
strumento che si presta ad abusi, la giurisprudenza della
Corte dei conti è ormai consolidata nel ritenere pienamente
ammissibile il ricorso a tale strumento, ove risulti
conveniente per l’Amministrazione, anche in riferimento a
fattispecie rispetto alle quali non sia legislativamente
previsto il tentativo obbligatorio di mediazione.
Occorre tuttavia la massima prudenza da parte dell’ente,
nonché una dettagliata motivazione che dia conto del
percorso logico seguito per giungere alla definizione
transattiva della controversia, anche sulla base di un
giudizio prognostico circa l’esito del contenzioso.
La deliberazione di Giunta di
autorizzazione alla conclusione della transazione
descritta nella parte in fatto della presente deliberazione,
reca il parere dell’avvocatura interna, che è integrato nel
parere di regolarità tecnica. Tuttavia, non
è stato richiesto il parere dell’Organo di revisione.
La Sezione è a conoscenza dei precedenti
giurisprudenziali che hanno ritenuto obbligatoria
l’acquisizione di detto parere solo nel caso in cui
costituisca atto di un procedimento che deve concludersi con
una delibera del Consiglio
(Sez. regionale di controllo per il Piemonte,
parere 26.09.2013 n. 345 e Sez. regionale di
controllo per la Puglia,
parere 28.11.2013
n. 181), pertanto tale mancata richiesta non
sembra viziare l’atto.
Si ritiene comunque utile segnalare
l’opportunità, da parte dell’ente pubblico, di chiedere un
parere all’Organo di revisione anche in riferimento a
transazioni non di competenza del Consiglio, ove le stesse
siano di particolare rilievo, o relative a controversie di
notevole entità.
Ovviamente in detti casi, qualora non siano
state previamente ampliate in via regolamentare le funzioni
dei revisori, ai sensi dell’art. 239, comma 6, del tuel
(ampliamento che è rimesso alla discrezionale potestà
dell’ente locale, ma che sarebbe utile) non vi è l’obbligo
da parte dell’Organo di controllo interno di rendere il
parere (Corte dei
Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deliberazione 26.04.2017 n. 75). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Criticità
rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di
incarichi legali.
L’affidamento diretto di un incarico di
patrocinio legale,
operato dall’ente, si pone in
contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte,
che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in
via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i
principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
-------------
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro atto di
programmazione gli incarichi di patrocinio che
prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di
riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di
programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario
del DUP,
come puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1,
risponderebbe ad un criterio di buon
andamento e di corretta gestione delle risorse pubbliche.
-------------
L’ente, prima di procedere all’affidamento dell’incarico non
ha accertato la congruità del preventivo, il quale, a tal
fine, dovrebbe essere adeguatamente dettagliato anche sulla
base degli eventuali scostamenti dai valori medi tabellari
di cui al D.M. n. 55/2014.
A tal fine in ragione del principio di buon andamento ed
economicità dell’azione pubblica, sarebbe
altresì opportuno che i preventivi accolti presentassero
decurtazioni rispetto al richiamato valore medio.
Detta valutazione è necessaria per
garantire un’attenta e prudente gestione della spesa
pubblica e deve avere ad oggetto anche il rapporto tra il
preventivo e l’importanza, nonché la delicatezza della
causa. Il responsabile del procedimento, successivamente,
ogni anno deve chiedere al legale di confermare o meno il
preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto
l’impegno originario, in modo da assicurare la copertura
della spesa.
---------------
testo deliberazione
A partire dalla
deliberazione 03.04.2009 n. 19,
della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era
progressivamente consolidata nel considerare il singolo
incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto
di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale,
regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso, la magistratura contabile già
riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non
riconducibile direttamente agli incarichi professionali
esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del
d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti
obbligatori per legge (mancando, pertanto, in tali ipotesi,
qualsiasi facoltà discrezionale dell’amministrazione), non
potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto,
dovendo essere attribuito a seguito di procedura
comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò,
allo scopo di consentire il rispetto dei principi di
imparzialità e trasparenza
(in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di
giudizio di parificazione del rendiconto generale della
Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015,
approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del
15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina
applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo
patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce
dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs.
18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo
incarico di patrocinio legale sembra dover essere inquadrato
come appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui
all’art. 17
(recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto
e concessione di servizi”), che
considera come contratto escluso la rappresentanza legale di
un cliente da parte di un avvocato in un procedimento
giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la
consulenza legale fornita in preparazione di detto
procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche
tenuto conto di come l’art. 17 richiamato recepisca
direttive dell’Unione europea che, com’è noto, accoglie una
nozione di appalto molto più ampia di quella rinvenibile dal
nostro codice civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto
previsto dall’art. 4 del citato decreto legislativo,
l’affidamento dello stesso deve avvenire nel rispetto dei
principi di economicità, efficacia, trasparenza,
imparzialità, parità di trattamento, trasparenza,
proporzionalità e pubblicità .
L’applicazione anche al singolo patrocinio
della disciplina del codice dei contratti pubblici conferma
l’orientamento consolidato di questa Corte in merito
all’impossibilità di considerare la scelta dell’avvocato
esterno all’ente come connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti
pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una
ricognizione interna finalizzata ad accertare
l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere
l’incarico (così,
da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n.
66/2016).
Con la recente
sentenza 06.02.2017 n. 334,
il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, nel
giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla
luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato
come per esso debba essere assicurata la massima
partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo
idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di
partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla
selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni
sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di
assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con
Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG
45/2016/AP,
ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da
questa Sezione, che nell'affidamento di un
patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i
principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici
applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di
un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura
trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla
quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli
operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di
rotazione, applicato tenendo conto, nella individuazione
della “rosa” dei soggetti selezionati,
dell'importanza della causa e del compenso prevedibile. È
altresì utile precisare che detti elenchi di operatori
qualificati possono essere articolati in diversi settori di
competenza, e che non sarebbe comunque legittimo prevedere
un numero massimo di iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza,
dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia
dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento
di una procedura comparativa, le amministrazioni possono
prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli
incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano
stati istituiti elenchi di operatori qualificati,
l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati
iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che entrasse in vigore il
nuovo codice dei contratti pubblici si riteneva, nell’ambito
dei rapporti di collaborazione che possono intercorrere tra
enti pubblici e legali ad essi esterni, che oltre
all’affidamento di un singolo incarico di patrocinio legale,
fosse possibile l’affidamento di un appalto di servizi, che
tuttavia richiedeva “un quid pluris per prestazione o
modalità organizzativa rispetto al semplice patrocinio
legale” (C.
conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente
giurisprudenza amministrativa, per la quale era
configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento
non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico
dell’amministrazione, ma si configuri come modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca”
(ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II,
sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato, la distinzione tra
affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto
di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui
all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di
collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica
amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere
presente che è tuttora possibile affidare a un legale un
incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del
t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno
studio, una ricerca o, più frequentemente, un parere legale.
A esso si applicano tutti i presupposti di legittimità degli
incarichi professionali esterni individuati da questa
giurisprudenza (per un approfondimento dei vincoli posti al
conferimento degli incarichi professionali esterni, si
rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio degli atti di
spesa relativi a collaborazioni, consulenze, studi e
ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità
e rappresentanza, posti in essere negli esercizi finanziari
2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede
nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con
deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso, si segnalano i seguenti
specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame
delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e
dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente
all’esterno.
Mancato inserimento degli incarichi di patrocinio nel
documento unico di programmazione o in altro atto di
programmazione
L’ente non ha inserito nel DUP o in altro
atto di programmazione gli incarichi di patrocinio che
prevedibilmente sarebbero stati conferiti nell’anno di
riferimento, specificandone tipologie e costi.
L’inclusione delle summenzionate previsioni in un atto di
programmazione, pur non rientrando nel contenuto necessario
del DUP, come
puntualizzato dal d.lgs. n. 118/2011, allegato n. 4/1,
risponderebbe ad un criterio di buon andamento e di
corretta gestione delle risorse pubbliche.
Mancata adozione di norme regolamentari finalizzate a
disciplinare l’affidamento dei patrocini legali ed omesso
accertamento dell’impossibilità di svolgere l’incarico
all’interno dell’ente
Il Comune
di Cesena ha considerato gli incarichi di
patrocinio legale come esclusi dalla disciplina che ha
dettato per l’affidamento degli incarichi professionali
esterni. Tuttavia, non ha regolamentato l’affidamento di
patrocini legali all’esterno: una normativa finalizzata a
disciplinare la materia sarebbe in realtà opportuna e
dovrebbe tra l’altro prevedere che l’affidamento degli
incarichi di patrocinio avvenga, in via preferenziale, in
favore degli avvocati interni all’ente. Essa dovrebbe,
inoltre, procedimentalizzare l’accertamento, preliminare
rispetto all’affidamento di ciascun incarico, dell’effettiva
impossibilità per i legali dipendenti dall’ente di assumere
l’incarico .
In mancanza di una disciplina specifica,
sarebbe stato comunque onere dell’ente accertare, volta per
volta, prima di affidare gli incarichi di patrocinio
all’esterno, l’impossibilità da parte dei componenti
dell’ufficio legale a svolgere gli stessi, allo scopo di
evitare una spesa inutile e, quindi, un possibile danno
all’erario. Un accertamento di tale tipo sarebbe da
considerarsi presupposto necessario per l’affidamento
legittimo all’esterno di un incarico di patrocinio, anche
qualora si considerasse la scelta del libero professionista
esterna come a carattere fiduciario, ed è indispensabile
anche alla luce della nuova configurazione di tali incarichi
come appalti di servizi.
Ricorso all’affidamento diretto
L’affidamento diretto di un incarico di
patrocinio legale,
operato dall’ente in analisi, si pone in
contrasto con la giurisprudenza consolidata di questa Corte,
che esclude la possibilità di effettuare l’affidamento in
via fiduciaria di tali incarichi.
La mancanza di una procedura comparativa, infatti, viola i
principi di imparzialità, pubblicità e concorrenza.
Mancanza di una previa valutazione di congruità del
preventivo
L’ente, prima di procedere all’affidamento
dell’incarico non ha accertato la congruità del preventivo,
il quale, a tal fine, dovrebbe essere adeguatamente
dettagliato anche sulla base degli eventuali scostamenti dai
valori medi tabellari di cui al D.M. n. 55/2014.
A tal fine in ragione del principio di buon andamento ed
economicità dell’azione pubblica, sarebbe
altresì opportuno che i preventivi accolti presentassero
decurtazioni rispetto al richiamato valore medio.
Detta valutazione è necessaria per
garantire un’attenta e prudente gestione della spesa
pubblica e deve avere ad oggetto anche il rapporto tra il
preventivo e l’importanza, nonché la delicatezza della
causa. Il responsabile del procedimento, successivamente,
ogni anno deve chiedere al legale di confermare o meno il
preventivo di spesa sulla scorta del quale è stato assunto
l’impegno originario, in modo da assicurare la copertura
della spesa.
Peraltro, il generale principio di economicità dell’azione
amministrativa è ora esplicitamente richiamato dall’art. 4
del d.lgs. n. 50/2016.
Ricorso a domiciliazioni legali
Pur avendo l’ente fatto ricorso ad una sola domiciliazione
legale, peraltro per un importo ragionevole, è utile
evidenziare che, poiché la domiciliazione è un incarico in
cui il requisito dell’intuitus personae non è di
particolare rilevanza, la scelta dell’affidatario non può
ragionevolmente fondarsi sull’aspetto prettamente
fiduciario, ma deve orientarsi su un altro criterio di
selezione, in particolare il costo più basso ottenibile
tramite una procedura comparativa.
Non è poi da sottovalutare che, in ragione del fatto che le
comunicazioni da parte delle cancellerie dei tribunali a
mezzo di posta elettronica certificata possono intervenire
presso i difensori legali su tutto il territorio nazionale,
la funzione di interlocuzione diretta con le cancellerie da
parte dei legali della circoscrizione risulta meno
rilevante. Pertanto, l’ente è invitato, per il futuro, a
valutare con la massima attenzione la convenienza di
ricorrere a domiciliazioni legali.
A seguito di istruttoria è pertanto emerso come il Comune di
Cesena abbia proceduto all’affidamento diretto all’esterno
degli incarichi di patrocinio legale, peraltro senza di
volta in volta avere previamente accertato l’impossibilità,
da parte dell’ufficio interno, a svolgere detti incarichi.
Non ci si può esimere dal rilevare, inoltre, come nell’anno
2015 un unico avvocato sia risultato affidatario diretto di
due incarichi di patrocinio su cinque, dell’unico incarico
di domiciliazione e sia stato selezionato a seguito di
comparazione di curricula per uno dei due appalti di
servizi legali; ciò, per un importo totale pari ad euro
45.948,14. Lo stesso avvocato, inoltre, nei due anni
precedenti, quindi tra il 2013 e il 2014, è stato
affidatario di ulteriori 5 incarichi di patrocinio legale e
di 3 appalti di servizi legali, per un importo totale di
euro 86.467,65
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deliberazione 26.04.2017 n. 74). |
CONSIGLIERI COMUNALI - INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO
IMPIEGO: Criticità
rilevate nell'affidamento, all'esterno dell'ente, di
incarichi legali e sul rimborso delle spese legali ad
amministratori e dipendenti.
Il rimborso delle spese legali in favore
dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per
non avere commesso il fatto nell’ambito di un procedimento
connesso con l’espletamento del servizio, deriva dal
principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma
anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui
non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti
svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto
indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per
la fedele esecuzione del suo compito.
Il rimborso in favore dei dipendenti degli
enti locali è attualmente disciplinato dall’art. 12 del CCNL
del 12.12.2002 per l’area della dirigenza, e dall’art. 28
del CCNL del 14.09.2000, per il restante personale; dette
norme lo subordinano alle circostanze che i fatti o gli atti
siano direttamente connessi all’espletamento del servizio e
all’adempimento dei compiti d’ufficio, all’insussistenza del
conflitto d’interessi e all’assenza di dolo o di colpa
grave.
Solo recentemente il legislatore statale ha
riconosciuto, con
l’art. 7-bis del d.l. 19.06.2015, n. 78, convertito con
modificazioni dalla legge 06.08.2015, n. 125,
detto diritto anche in favore degli
amministratori locali; ciò, “nel caso di conclusione del
procedimento con sentenza di assoluzione o di emanazione di
un provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti
requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente
amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni
esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di
dolo o colpa grave”.
L’assenza di conflitto d’interessi
con l’ente, condicio sine qua non della risarcibilità delle
spese in argomento, richiede in generale l’accertamento che
i beneficiari del rimborso non abbiano tenuto comportamenti
contrari ai doveri d’ufficio.
Solo le pronunce di assoluzione
motivate per insussistenza del fatto o perché l’imputato non
lo ha commesso, consentono di escludere in radice il
conflitto d’interessi. Qualora, invece, siano motivate ai
sensi del comma 2, dell’art. 530, del c.p.p., che ricorre
qualora “manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova
che il fatto sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il
fatto costituisce reato o che il reato è stato commesso da
persona imputabile”, occorrerà altresì verificare l’assenza
del conflitto d’interessi con l’ente pubblico; sarà pertanto
onere dell’ente, prima di rimborsare le spese legali,
effettuare un accertamento interno che, qualora venga aperto
un fascicolo disciplinare, sarà coincidente con le
risultanze di quest’ultimo.
Nello specifico, invece, il Comune ha deliberato il rimborso
delle spese legali sulla mera base di un provvedimento di
archiviazione che si è limitato ad escludere la sussistenza
degli elementi costitutivi del delitto, nonché di un
ulteriore provvedimento di archiviazione relativo a un
procedimento penale connesso al primo, il quale ha
dichiarato l’estinzione del reato per intervenuta remissione
di querela nei confronti di un dipendente e l’infondatezza
della notizia di reato rispetto ad altro dipendente.
Tali circostanze, in assenza di un
accertamento interno, non escludono che i comportamenti in
argomento possano essere stati contrari a doveri d’ufficio.
---------------
testo
deliberazione
A partire dalla
deliberazione 03.04.2009 n. 19,
della Sezione regionale di controllo per la Basilicata,
la giurisprudenza di questa Corte si era
progressivamente consolidata nel considerare il singolo
incarico di patrocinio legale come non integrante un appalto
di servizi, bensì un contratto d’opera intellettuale,
regolato dall’art. 2230 del codice civile.
In ogni caso, la magistratura contabile già
riteneva che detta tipologia d’incarico, pur non
riconducibile direttamente agli incarichi professionali
esterni disciplinati dall’art. 7, comma 6 e seguenti del
d.lgs. n. 165/2001, poiché conferito per adempimenti
obbligatori per legge
(mancando, pertanto, in tali ipotesi, qualsiasi facoltà
discrezionale dell’amministrazione), non
potesse comunque essere oggetto di affidamento diretto,
dovendo essere attribuito a seguito di procedura
comparativa, aperta a tutti i possibili interessati. Ciò,
allo scopo di consentire il rispetto dei principi di
imparzialità e trasparenza
(in tal senso, da ultimo, questa Sezione, in sede di
giudizio di parificazione del rendiconto generale della
Regione Emilia-Romagna per l’esercizio finanziario 2015,
approvato con deliberazione n. 66/2016/PARI, del
15.07.2016).
La ricostruzione della disciplina
applicabile agli incarichi aventi a oggetto un singolo
patrocinio legale dev’essere, tuttavia, rivista, alla luce
dell’entrata in vigore, il 19.04.2016, del d.lgs.
18.04.2016, n. 50.
A decorrere da tale data anche il singolo incarico di
patrocinio legale appare dover essere inquadrato come
appalto di servizi; ciò, sulla base del disposto di cui
all’art. 17
(recante “Esclusioni specifiche per contratti di appalto
e concessione di servizi”), che
considera come contratto escluso la rappresentanza legale di
un cliente, da parte di un avvocato, in un procedimento
giudiziario dinanzi a organi giurisdizionali, nonché la
consulenza legale fornita in preparazione di detto
procedimento.
Tale interpretazione pare preferibile anche tenuto conto di
come l’art. 17 richiamato recepisca direttive dell’Unione
europea che, com’è noto, accoglie una nozione di appalto
molto più ampia di quella rinvenibile dal nostro codice
civile. In ogni caso, nel rispetto di quanto previsto
dall’art. 4 del citato decreto legislativo, l’affidamento
dello stesso deve avvenire nel rispetto dei principi di
economicità, efficacia, trasparenza, imparzialità, parità di
trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.
L’applicazione anche al singolo patrocinio della disciplina
del codice dei contratti pubblici conferma l’orientamento
consolidato di questa Corte in merito all’impossibilità di
considerare la scelta dell’avvocato esterno all’ente come
connotata da carattere fiduciario.
Anche dopo l’emanazione del nuovo codice dei contratti
pubblici, l’ente deve preliminarmente operare una
ricognizione interna finalizzata ad accertare
l’impossibilità, da parte del personale, a svolgere
l’incarico (così,
da ultima, questa Sezione con la citata deliberazione n.
66/2016).
Con la recente
sentenza 06.02.2017 n. 334,
il TAR Sicilia–Palermo, Sez. III, nel
giudicare l'affidamento di un appalto di servizi legali alla
luce del nuovo codice dei contratti pubblici, ha rimarcato
come per esso debba essere assicurata la massima
partecipazione mediante una procedura di tipo comparativo
idonea a permettere a tutti gli aventi diritto di
partecipare, in condizioni di parità e uguaglianza, alla
selezione per la scelta del contraente. Tali indicazioni
sono pienamente condivisibili, consentendo, inoltre, di
assicurare il migliore utilizzo delle risorse pubbliche.
Sulle richiamate novità normative l'Anac, con
Parere sulla Normativa 09.11.2016 n. 1158 - rif. AG
45/2016/AP,
ha evidenziato, operando una specificazione condivisa da
questa Sezione, che nell'affidamento di un
patrocinio legale le amministrazioni possono attuare i
principi di cui all’art. 4 del codice dei contratti pubblici
applicando sistemi di qualificazione, ovvero la redazione di
un elenco di operatori qualificati, mediante una procedura
trasparente e aperta, oggetto di adeguata pubblicità, dalla
quale selezionare, su una base non discriminatoria, gli
operatori che saranno invitati a presentare offerta.
Quanto sopra deve avvenire sulla base di un principio di
rotazione, applicato tenendo conto, nell’individuazione
della rosa dei soggetti selezionati, dell'importanza della
causa e del compenso prevedibile. È altresì utile precisare
che detti elenchi di operatori qualificati possono essere
articolati in diversi settori di competenza, e che non
sarebbe comunque legittimo prevedere un numero massimo di
iscritti.
Qualora vi siano motivate ragioni di urgenza,
dettagliatamente motivate e non derivanti da un'inerzia
dell'Ente conferente, tali da non consentire l’espletamento
di una procedura comparativa, le amministrazioni possono
prevedere che si proceda all'affidamento diretto degli
incarichi, sulla base di un criterio di rotazione (ove siano
stati istituiti elenchi di operatori qualificati,
l’affidatario dev’essere individuato tra gli avvocati
iscritti in detti elenchi).
Si precisa, altresì, che già prima che
entrasse in vigore il nuovo codice dei contratti pubblici si
riteneva, nell’ambito dei rapporti di collaborazione che
possono intercorrere tra enti pubblici e legali ad essi
esterni, che oltre all’affidamento di un singolo incarico di
patrocinio legale, fosse possibile l’affidamento di un
appalto di servizi, che tuttavia richiedeva “un quid
pluris per prestazione o modalità organizzativa rispetto al
semplice patrocinio legale”
(C. conti, Sez. controllo Basilicata,
deliberazione 03.04.2009 n. 19).
In tal senso anche la prevalente
giurisprudenza amministrativa, per la quale era
configurabile un appalto di servizi legali quando “l’affidamento
non si esaurisca nel patrocinio legale o episodico
dell’amministrazione, ma si configuri come modalità
organizzativa di un servizio, affidato a professionisti
esterni, più complesso e articolato, che può anche
comprendere la difesa giudiziale ma in essa non si esaurisca”
(ex multis, TAR Campania–Salerno, Sez. II,
sentenza 16.05.2016 n. 1197).
Come già evidenziato, la distinzione tra
affidamento di un singolo patrocinio legale e di un appalto
di servizi sembra essere stata superata dal disposto di cui
all’art. 17, del nuovo codice dei contratti pubblici.
Da ultimo, per completare il quadro delle forme di
collaborazione che possono intercorrere tra una pubblica
amministrazione e un legale a essa esterno, occorre tenere
presente che è tuttora possibile affidare a un legale un
incarico professionale esterno di cui all’art. 7, co. 6 del
t.u. sul pubblico impiego, quindi avente ad oggetto uno
studio, una ricerca o, più frequentemente, un
parere legale. Ad esso si applicano tutti i presupposti
di legittimità degli incarichi professionali esterni
individuati da questa giurisprudenza (per un approfondimento
dei vincoli posti al conferimento degli incarichi
professionali esterni, si rimanda al capitolo 2.3 del “Monitoraggio
degli atti di spesa relativi a collaborazioni, consulenze,
studi e ricerche, relazioni pubbliche, convegni, mostre,
pubblicità e rappresentanza, posti in essere negli esercizi
finanziari 2011 e 2012 dagli enti pubblici aventi sede
nell’Emilia-Romagna”, di questa Sezione, approvato con
deliberazione 15.10.2015 n. 135).
Tanto premesso, si segnalano i seguenti
specifici profili di criticità che sono emersi dall’esame
delle risposte fornite al questionario sui servizi legali e
dai dati relativi agli incarichi affidati da codesto ente
all’esterno.
Ricorso a domiciliazioni legali
Pur apparendo l’importo complessivamente corrisposto dal
Comune di Ravenna per incarichi di domiciliazione legale
giustificato, poiché sono stati affidati 23 incarichi di
detta tipologia a fronte di una spesa complessiva lorda di
11.712,22 euro, è comunque utile ricordare che, in ragione
della circostanza che le comunicazioni da parte delle
cancellerie dei tribunali, a mezzo di posta elettronica
certificata, possono intervenire presso i difensori legali
su tutto il territorio nazionale, la funzione di
interlocuzione diretta con le cancellerie da parte dei
legali della circoscrizione risulta meno rilevante.
Pertanto, l’ente in analisi è invitato, per il futuro, a
valutare con attenzione la convenienza di ricorrere a
domiciliazioni legali.
Violazione dei principi sul rimborso delle spese legali
Il rimborso delle spese legali in favore
dei dipendenti e degli amministratori pubblici, assolti per
non avere commesso il fatto nell’ambito di un procedimento
connesso con l’espletamento del servizio, deriva dal
principio per il quale non solo nei rapporti privati, ma
anche in quelli pubblici, chi agisce per un interesse altrui
non deve sopportare nella sua sfera personale gli effetti
svantaggiosi di questa attività, bensì deve essere tenuto
indenne sia dalle spese sostenute, sia dai danni subiti per
la fedele esecuzione del suo compito
(C. conti, S.r. n. 707/1991).
Il rimborso in favore dei dipendenti degli
enti locali è attualmente disciplinato dall’art. 12 del CCNL
del 12.12.2002 per l’area della dirigenza, e dall’art. 28
del CCNL del 14.09.2000, per il restante personale; dette
norme lo subordinano alle circostanze che i fatti o gli atti
siano direttamente connessi all’espletamento del servizio e
all’adempimento dei compiti d’ufficio, all’insussistenza del
conflitto d’interessi e all’assenza di dolo o di colpa
grave.
Solo recentemente il legislatore statale ha
riconosciuto, con
l’art. 7-bis del d.l. 19.06.2015, n. 78, convertito con
modificazioni dalla legge 06.08.2015, n. 125,
detto diritto anche in favore degli amministratori
locali; ciò, “nel caso di conclusione del procedimento
con sentenza di assoluzione o di emanazione di un
provvedimento di archiviazione, in presenza dei seguenti
requisiti: a) assenza di conflitto di interessi con l'ente
amministrato; b) presenza di nesso causale tra funzioni
esercitate e fatti giuridicamente rilevanti; c) assenza di
dolo o colpa grave”.
L’assenza di conflitto d’interessi con
l’ente, condicio sine qua non della risarcibilità
delle spese in argomento, richiede in generale
l’accertamento che i beneficiari del rimborso non abbiano
tenuto comportamenti contrari ai doveri d’ufficio.
Solo le pronunce di assoluzione motivate
per insussistenza del fatto o perché l’imputato non lo ha
commesso, consentono di escludere in radice il conflitto
d’interessi. Qualora, invece, siano motivate ai sensi del
comma 2, dell’art. 530, del c.p.p., che ricorre qualora “manca,
è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto
sussiste, che l’imputato lo ha commesso, che il fatto
costituisce reato o che il reato è stato commesso da persona
imputabile”, occorrerà altresì verificare l’assenza del
conflitto d’interessi con l’ente pubblico; sarà pertanto
onere dell’ente, prima di rimborsare le spese legali,
effettuare un accertamento interno che, qualora venga aperto
un fascicolo disciplinare, sarà coincidente con le
risultanze di quest’ultimo.
Nello specifico, invece, il Comune di Ravenna ha deliberato
il rimborso delle spese legali sulla mera base di un
provvedimento di archiviazione che si è limitato ad
escludere la sussistenza degli elementi costitutivi del
delitto, nonché di un ulteriore provvedimento di
archiviazione relativo a un procedimento penale connesso al
primo, il quale ha dichiarato l’estinzione del reato per
intervenuta remissione di querela nei confronti di un
dipendente e l’infondatezza della notizia di reato rispetto
ad altro dipendente.
Tali circostanze, in assenza di un
accertamento interno, non escludono che i comportamenti in
argomento possano essere stati contrari a doveri d’ufficio
(Corte dei Conti, Sez. controllo Emilia Romagna,
deliberazione 26.04.2017 n. 73). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocati,
ribassi banditi. Il legale non può chiedere
compensi irrisori. Tar Lombardia sulle gare
per affidare la difesa in giudizio dei
comuni.
Nelle gare per affidare la difesa in
giudizio di un comune, l'avvocato non può
proporre un compenso irrisorio. Ad esempio
chiedere solo le spese vive in caso di
soccombenza, contando di vedersi riconoscere
un compenso a carico di controparte in caso
di vittoria, equivale proporre di lavorare
gratis. E questa offerta è inammissibile per
contrasto con il dm sui parametri dei
compensi forensi, che impongono compensi
proporzionati all'attività svolta.
È quanto ha deciso il TAR Lombardia-Milano,
Sez. IV, con la
sentenza
19.04.2017 n. 902, che
interviene in materia di affidamento con
gara degli incarichi giudiziali agli
avvocati. Tra l'altro, la questione in sé
tutt'altro che pacifica, anche avendo
riguardo al Codice dei contratti pubblici,
in cui gli incarichi ai legali sono inseriti
tra i contratti esclusi, e ritenendosi da
alcuni che questo implichi l'applicazione
delle regole generali, relativi a procedure
selettive, con esclusione degli incarichi
diretti su base fiduciaria.
Tornando al caso lombardo, un comune ha
iniziato una procedura negoziata per
l'affidamento del servizio di rappresentanza
legale dell'ente in un procedimento
giurisdizionale di recupero di un credito
dell'ente nei confronti della società
telefonica. La procedura di gara si è svolta
per via telematica avvalendosi di una
piattaforma regionale e il criterio di
aggiudicazione è stato quello del prezzo più
basso.
Al termine del procedura, il servizio è
stato affidato a uno studio legale. Un altro
avvocato, partecipante alla gara, ha
presentato ricorso al Tar e ha avuto torto.
I fatti rilevanti sono stati i seguenti. Il
criterio di aggiudicazione era quello del
prezzo più basso. E l'avvocato arrivato
secondo ha offerto il prezzo di euro 550,00,
molto inferiore a quello degli altri
partecipanti.
Il funzionario del comune responsabile del
procedimento (Rup) ha chiesto chiarimenti,
invitando a dettagliare l'offerta sulla base
dei compensi da richiedersi a fronte di un
ricorso per decreto ingiuntivo finalizzato
al recupero del credito
dell'amministrazione.
Alla richiesta di chiarimenti, l'avvocato
arrivato secondo ha risposto con una nota,
nella quale, quanto al compenso indicato
nell'offerta (euro 550), l'avvocato
specificava che la stessa corrispondeva
soltanto alle spese «vive» dell'attività
giurisdizionale, in quanto il vero e proprio
compenso professionale sarebbe stato
costituito dal compenso liquidato dal
giudice a proprio favore e posto a carico
della parte perdente, vista la «certezza
della vittoria processuale pronosticata».
Per l'ipotesi di sconfitta l'avvocato non
avrebbe chiesto nulla, se non di trattenere
le 550 euro di spese vive.
Il Tar ha dato torto all'avvocato, per una
serie di ragioni.
Innanzi tutto è contrario alla comune
esperienza affermare che sicuramente si
vincerà la causa, essendo noto ad ogni
operatore del diritto (giudice o avvocato),
che ogni azione giurisdizionale porta in sé
inevitabilmente un margine più o meno ampio
di incertezza.
Inoltre, anche se si vince, non sempre il
giudice liquida le spese a favore
dell'avvocato che difende la parte
vittoriosa.
L'offerta è stata, quindi, ritenuta
indeterminata e condizionata, notando che
nel caso di eventuale soccombenza, l'offerta
del ricorrente finirebbe per essere
un'offerta pari a zero.
E un'offerta pari a zero appare non
legittima in quanto, oltre che non essere
seria e affidabile, non sono emersi ragioni
particolari per le quali la prestazione del
professionista intellettuale debba essere di
fatto gratuita. D'altra parte il decreto
ministeriale sui parametri del compenso
dell'avvocato prescrive che il compenso sia
«proporzionato all'importanza dell'opera» e,
rileva il Tar, un'offerta a compenso zero
appare in evidente contrasto con tale
previsione normativa.
Il giudice ha quindi confermato l'incarico
conferito allo studio legale che ha chiesto
un compenso e ha condannato l'avvocato
arrivato secondo a pagare le spese del
giudizio al Tar.
Dunque questo legale proponeva di fare
attività a compenso zero e si trova ora a
dover pagare oltre 3 mila euro di spese di
soccombenza, da dividere in parti uguali a
favore del Comune e del collega che si è
aggiudicato l'incarico
(articolo ItaliaOggi
Sette dell'08.05.2017). |
|
|
Sono da qualificarsi come "interventi di nuova
costruzione"
[ex art. 3, comma 1,
lett. e), DPR n. 380/2001]
i lavori di riporto/livellamento di terreno di vasta
entità. |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere di scavo, sbancamento e livellamento: quando occorre
il titolo abilitativo edilizio?
Cassazione: “Solo una migliore
sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine di una
più adeguata coltivazione esula dalla norma urbanistica”
(14.05.2015 - link a www.casaeclima.com).
--------------
“Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di
questa Corte Suprema, le opere di scavo, di sbancamento e di
livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico
del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo
edilizio”.
Lo ha ricordato la Cassazione penale, Sezione III , con la
sentenza n. 17114/2015 depositata il 24 aprile.
(...continua).
---------------
MASSIMA
3. Di più agevole soluzione la questione posta dal
ricorrente in merito alla asserita inosservanza della legge
penale (art. 44, lett. c), D.P.R. 380/2001 e 181 D.Lgs.
42/2004) oggetto del secondo motivo. Anzitutto va osservato
che, una volta sgombrato il campo dalla possibilità di
escludere dalla categoria di rifiuto il materiale non
litoide contenuto nella parte dell'area adibita a piazzale,
è logico concludere che si è trattato di materiale di vario
genere adoperato (unitamente a quello consentito) per la
realizzazione di un'opera nuova diversa, però, dalla
situazione originaria del terreno e non limitata -come
preteso dalla difesa del ricorrente- all'elisione di alcuni
avvallamenti del terreno.
3.1 Come ha avuto modo di precisare la giurisprudenza di
questa Corte Suprema, le opere di scavo, di
sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad
usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul
tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a
titolo abilitativo edilizio
(Sez. 3^ 13.01.2011 n. 4916, Agostini, Rv. 262475; idem
22.02.2012 n. 29466, Batteta, Rv. 253154; idem 11.07.1991 n.
9978, Laviano e altro, Rv. 188229).
Ciò che connota l'attività di spianamento
libera da quella vincolata ad una preventiva autorizzazione
è, dunque, la finalità dell'opera, nel senso che solo una
migliore sistemazione di un terreno per uso agricolo al fine
di una più adeguata coltivazione esula dalla norma
urbanistica (in
termini Sez. 3^ 09.03.1994 n. 4722, Gianni, Rv. 198730)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 24.04.2015 n. 17114). |
EDILIZIA PRIVATA:
Opere di scavo ad uso diverso dall'agricolo, necessario il
titolo abilitativo edilizio.
Cassazione: incidono sul tessuto
urbanistico del territorio le opere di scavo, di sbancamento
e di livellamento del terreno finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli
(24.02.2015 - link a http://www.casaeclima.com).
---------------
Con la sentenza n. 4916/2015 depositata il 3 febbraio, la
terza sezione penale della Cassazione ha ribadito che “le
opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del
terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli, in
quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono
assoggettate a titolo abilitativo edilizio” (cfr., Sez.3, n.
8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed altro, Rv.242741).
(...continua).
---------------
MASSIMA
7. Il secondo ed il quarto motivo, tra loro
sostanzialmente collegati perché basati sul medesimo
presupposto, sono infondati.
Va ribadito che, come già più volte
affermato da questa Corte, le opere di scavo, di sbancamento
e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli, in quanto incidono sul tessuto urbanistico
del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo
edilizio (cfr.,
Sez. 3, n. 8064 del 02/12/2008, P.G. in proc. Dominelli ed
altro, Rv. 242741).
Nella specie, la sentenza ha correttamente argomentato,
traendone logica conferma dall'avvenuta presentazione, con
esito negativo, di richiesta di permesso a costruire un
manufatto, come si versi in presenza di lavori di scavo e di
sbancamento finalizzati ad edificazione di annesso agricolo
e dunque, appunto, di manufatto, e non, invece, ad attività
di coltivazione (la cui natura non è stata neppure
specificata dal ricorrente), stante anche la conformazione
del terreno.
Correttamente, inoltre, la sentenza impugnata ha richiamato,
con riguardo alla pretesa mancata considerazione
dell'ordinanza comunale secondo cui, come affermato in
ricorso, sarebbe stata necessaria una mera richiesta di
inizio attività, il principio di autonomia delle valutazioni
adottate in sede giurisdizionale rispetto a quelle
dell'autorità amministrativa con le sole previsioni
derogatorie tassativamente previste dalla legge (cfr.,
Sez. 3, n. 22823 del 26/02/2003, Barbieri, Rv. 225293).
Va aggiunto che, proprio in ragione della finalizzazione
dello scavo ad usi diversi da quelli agricoli, deve
ritenersi che la Corte abbia poi correttamente escluso, con
riguardo a quanto lamentato con il quarto motivo di ricorso,
l'applicabilità del disposto dell'art. 149, comma 1, lett.
b), del d.Lgs. n. 42 del 2004 che proprio l'essenziale
presupposto di attività agro-silvo-pastorale implica.
Va considerato, per di più, che anche gli
interventi inerenti l'esercizio dell'attività
agro-silvo-pastorale, laddove comportano un'alterazione
permanente dell'assetto territoriale, richiedono la
preventiva autorizzazione di legge, atteso che gli stessi
assumono, in forza di ciò, la natura di opera civile
(cfr., Sez. 3, n. 2950 del 12/11/2003, Pizzolato ed altro,
Rv. 227395) (Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 03.02.2015 n. 4916 - tratto da
www.lexambiente.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
tema di trasformazione dei suoli la giurisprudenza della
S.C. è stata sempre costante nel ritenere che, versandosi
nella materia urbanistica, le opere di scavo, di sbancamento
e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da
quelli agricoli, in quanto incidenti sul tessuto urbanistico
del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo
edilizio.
Siffatto orientamento muove dalla rilevava profonda
differenza tra la materia urbanista considerata nel suo
significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad
interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità
della materia urbanistica mirante ad una generale disciplina
dell'uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli
aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia
e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione
dell'ambiente.
E proprio per tali ragioni qualsiasi trasformazione
rilevante del terreno comporta la necessità di una
preventiva concessione urbanistica e non di una semplice
autorizzazione.
---------------
BA.Pa., imputato del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001,
art. 44, lett. b) "per avere realizzato senza concessione
opere di trasformazione edilizia de territorio, consistenti
in spianamento e riporto di terreno con stoccaggio di
attrezzature per l'attività edilizia", veniva dichiarato
colpevole del detto reato dal Tribunale di Cagliari che con
sentenza del 13.07.2010, lo condannava alla pena di giorni
venti di arresto ed Euro 10.400,00 di ammenda.
La Corte di Appello di Cagliari, a seguito di impugnazione
proposta dell'imputato, confermava la sentenza suddetta in
data 16.11.2011.
...
Il ricorso è infondato.
La Corte di appello dopo aver passato in rassegna tutti gli
elementi di prova raccolti nel corso del giudizio di primo
grado (prove dichiarative e documentali; rilievi
fotografici) ha correttamente concluso per la sussistenza
del reato in esame in relazione all'intervenuto spianamento
del terreno nonostante l'assenza di qualsivoglia
autorizzazione ritenendo che in ipotesi quale quella
sottoposta al suo esame fosse necessario il permesso di
costruire e non la semplice autorizzazione, peraltro mai
richiesta.
Nell'affermare ciò la Corte territoriale ha anche
sottolineato che, rispetto al rifacimento di una recinzione
con paletti e rete metallica lungo il confine del terreno
(recinzione a sua volta difforme rispetto all'autorizzazione
concessa e poi adeguata a seguito di controlli successivi),
lo spianamento del terreno adiacente non riguardava solo una
porzione di superficie ristretta e funzionale all'esecuzione
dei lavori di rifacimento della recinzione ma copriva la
quasi totalità del terreno ("giungendo ad interessare
gran parte del fondo ed anche le aree non confinanti con la
recinzione" - così, testualmente pag. 4 della sentenza
impugnata).
Proprio per tale ragione la Corte aveva ritenuta corretta la
decisione del primo giudice individuando nella esistenza di
lavori di scavo e spianamento ed ancora nella collocazione
di un container di grandi dimensioni oltre a materiale edile
una serie di opere incompatibili sia con la costruzione
della recinzione in quanto di gran lunga sottodimensionata,
sia con la destinazione agricola del terreno (nonostante
l'attivazione di una porzione a piccolo orto).
In tema di trasformazione dei suoli la giurisprudenza di
questa Corte è stata sempre costante nel ritenere che,
versandosi nella materia urbanistica, le opere di scavo, di
sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad
usi diversi da quelli agricoli, in quanto incidenti sul
tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a
titolo abilitativo edilizio (Cass. Sez. 3^ 02.12.2008 n.
8064, P.G. in proc. Dominelli ed altri, Rv. 242741; nello
stesso senso, Cass. Sez. 3^ 22.12.1999 n, 3107, Alliate ed
altro, Rv. 216521).
Siffatto orientamento muove dalla rilevava profonda
differenza tra la materia urbanista considerata nel suo
significato globale e la materia urbanistica circoscritta ad
interventi edilizi, dalla quale deriva la reale finalità
della materia urbanistica mirante ad una generale disciplina
dell'uso del territorio con specifico riguardo a tutti gli
aspetti conoscitivi, normativi e gestionali di salvaguardia
e di trasformazione del suolo, nonché alla protezione
dell'ambiente. E proprio per tali ragioni qualsiasi
trasformazione rilevante del terreno comporta la necessità
di una preventiva concessione urbanistica e non di una
semplice autorizzazione.
L'infondatezza del motivo refluisce sulla inaccoglibilità
anche del secondo motivo legato stavolta ad una errata
applicazione della legge urbanistica rispetto alla legge
regionale a statuto speciale che secondo quanto sostenuto
dal ricorrente escluderebbe che l'attività posta in essere
dall'imputato fosse assoggettata.
Si tratta di una censura già prospettata in grado di appello
e ritenuta infondata dalla Corte territoriale posto che in
materia di legislazione edilizia nelle regioni a statuto
speciale, pur spettando alla Regione una competenza
legislativa esclusiva in materia, la relativa legislazione
deve non solo rispettare i principi fondamentali stabiliti
dalla legislazione statale, ma deve anche essere
interpretata in modo da non collidere con i medesimi (Cass.
Sez. 3^ 25.10.2007 n. 2017, Giangrasso, Rv. 238555).
Ne deriva che l'interpretazione della norma regionale deve
essere conforme alla normativa statale per evitare il
rischio di sconfinamenti nella riserva in materia penale
della legge statale valida per l'intero territorio
nazionale..
Il richiamo alla norma regionale citata in ricorso (art. 11,
comma 1, riguardante i mutamenti di destinazione d'uso
soggetti a semplice autorizzazione) è inconferente in quanto
nel caso di specie non si trattava di mutamento di
destinazione d'uso del terreno da agricolo ad edilizio, ma
di trasformazione consistente dell'assetto territoriale di.
un fondo tale da comportare una trasformazione urbanistica
permanente, così come rettamente intesa dalla Corte (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.07.2012 n. 29466). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
qualificazione (ex art. 3 DPR n. 380/2001) dei
lavori consistenti in deposito di terreno ove insiste una
depressione naturale di vaste dimensioni.
Nel caso di specie si è in presenza di
lavori (abusivi)
consistenti “in deposito di terreno ove
insiste una depressione naturale che si sviluppa su un’area
di 11.000 mq. c.ca determinando una variazione dello stato
dei luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca
per il versante Ovest”.
Orbene, appare incontestabile che
l’intervento de quo –caratterizzato da dimensioni che non
possono certo qualificarsi di “modesta entità”, investendo
un’area di 11.000 mq. circa– ha attuato una trasformazione
urbanistica del territorio e, perciò, rappresenta un
“intervento di nuova costruzione”, assoggettato al
previo rilascio del permesso di costruire, ai sensi del
combinato disposto degli artt. 3, comma 1, lett. e), e 10
del D.P.R. n. 380/2001.
Di conseguenza, è da ritenere che il Comune –applicando la
sanzione ripristinatoria della demolizione, ai sensi
dell’art. 31 del medesimo decreto– abbia correttamente
operato.
In altri termini, va rilevato che il
provvedimento adottato si profila coerente con il
consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui:
- la trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comprende non le sole attività di edificazione,
ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e
duratura dello stato del territorio e nell’alterazione della
conformazione del suolo;
- non abbisognano del previo rilascio di un titolo
edilizio le sole costruzioni aventi intrinseche
caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, cioè
destinate dall’origine a soddisfare esigenze contingibili e
circoscritte nel tempo, mentre un titolo è sempre richiesto
ogni volta che si sia in presenza di un intervento che attui
una trasformazione del territorio, con perdurante modifica
dello stato dei luoghi.
---------------
In ragione di quanto rilevato, e
cioè della accertata riconducibilità dei lavori di cui
trattasi nell’elenco di cui all’art. 10 del D.P.R. n.
380/2001, è chiaro che gli stessi lavori non possono essere
ritenuti soggetti a mera denuncia di attività.
Come già detto, detti lavori
–considerate l’entità e la consistenza da cui sono
caratterizzati– determinano una trasformazione urbanistica
del territorio e, dunque, concretizzano un intervento di
nuova costruzione.
---------------
... per l’annullamento, previa sospensione, dell’ordinanza
del Dirigente V Settore Urbanistica n. 617 del 13.10.2003,
notificata a mezzo del servizio postale il 18.10.2003,
portante ingiunzione di ripristino dello stato dei luoghi
entro novanta giorni dalla notifica dell’atto medesimo con
comminatoria, in difetto, dell’acquisizione al patrimonio
del Comune delle opere pretesamene abusive e dell’area di
sedime, nonché di ogni altro atto coordinato o comunque
connesso, ancorché sconosciuto;
...
Attraverso il ricorso in epigrafe, notificato in data
17.12.2003 e depositato il successivo 15.01.2004, la
ricorrente impugna l’ordinanza n. 617 del 13.10.2003, con la
quale il Comune di Marino –accertata la realizzazione di
lavori in assenza di titolo abilitativo, “consistenti in
deposito di terreno ove insiste una depressione naturale che
si sviluppa su un’area di 11.000 mq. c.ca. determinando una
variazione dello stato dei luoghi da ml. 1,00 nell’area
Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per il versante Ovest”- le ha
ingiunto il ripristino del precedente stato dei luoghi.
In particolare, espone:
- che, con comunicazione del 22.03.2001, dichiarava al Comune di
Marino che avrebbe provveduto ad opere di rimodellamento e
riporto di terra su parte di un terreno di sua proprietà
(ca. 11.000 mq.), ai fini del miglioramento delle
coltivazioni e per esigenze di sicurezza;
- di aver provveduto all’esecuzione delle opere, quotidianamente
visionata dai tecnici comunali;
- che, trascorsi due anni, l’area veniva sottoposta a sequestro
penale da parte della Polizia Municipale (cfr. verbale del
22.07.2003);
- che il sequestro non veniva convalidato dall’autorità giudiziaria
“sul rilievo del non assoggettamento dell’intervento in
questione al regime della concessione edilizia, trattandosi
di semplici opere di reinterro” e, dunque, l’area veniva
dissequestrata;
- che, nonostante la vicenda sembrasse chiusa, il Comune di Marino
adottava l’ordinanza impugnata.
...
1. Il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.
1.1. Come esposto nella narrativa che precede, la ricorrente
incardina le proprie censure essenzialmente sulla
impossibilità di ricondurre le opere realizzate nell’ambito
di quelle soggette al previo rilascio del permesso di
costruire e, dunque, di quelle sanzionabili –in caso di
inosservanza delle disposizioni che regolamentano la
materia– mediante l’adozione di misure ripristinatorie.
In particolare, sostiene che l’intervento edilizio
contestato rientra tra quelli “che possono essere
eseguiti liberamente” o, al più, tra quelli assoggettati
a denuncia di inizio attività, perseguibili –in caso di
mancato rispetto della disciplina prescritta- mediante
l’applicazione della sola sanzione pecuniaria, ai sensi
dell’art. 37 del D.P.R. n. 380/2001.
1.2. Il Collegio –valutata meglio la questione- ritiene che
la ricostruzione giuridica della fattispecie prospettata
dalla ricorrente non sia condivisibile.
Nel caso di specie, si è, infatti, in
presenza di lavori
–la cui realizzazione non è affatto contestata–
consistenti “in deposito di terreno ove insiste
una depressione naturale che si sviluppa su un’area di
11.000 mq. c.ca determinando una variazione dello stato dei
luoghi da ml. 1,00 nell’area Sud-Ovest a ml. 5,00 c.ca per
il versante Ovest”.
Orbene, appare incontestabile che
l’intervento de quo –caratterizzato da dimensioni che
non possono certo qualificarsi di “modesta entità”,
investendo un’area di 11.000 mq. circa– ha attuato una
trasformazione urbanistica del territorio e, perciò,
rappresenta un “intervento di nuova costruzione”,
assoggettato al previo rilascio del permesso di costruire,
ai sensi del combinato disposto degli artt. 3, comma 1,
lett. e), e 10 del D.P.R. n. 380/2001.
Di conseguenza, è da ritenere che il Comune –applicando la
sanzione ripristinatoria della demolizione, ai sensi
dell’art. 31 del medesimo decreto– abbia correttamente
operato.
In altri termini, va rilevato che il
provvedimento adottato si profila coerente con il
consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui:
- la trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comprende non le sole attività di edificazione,
ma anche quelle consistenti nella modificazione rilevante e
duratura dello stato del territorio e nell’alterazione della
conformazione del suolo
(cfr., tra le altre,
TAR Lombardia, Milano, n. 5452/2007;
TAR Veneto, n. 449/2006;
TAR Sezione Autonoma per la Provincia di Bolzano, n.
278/2000);
- non abbisognano del previo rilascio di un titolo
edilizio le sole costruzioni aventi intrinseche
caratteristiche di precarietà strutturale e funzionale, cioè
destinate dall’origine a soddisfare esigenze contingibili e
circoscritte nel tempo, mentre un titolo è sempre richiesto
ogni volta che si sia in presenza di un intervento che attui
una trasformazione del territorio, con perdurante modifica
dello stato dei luoghi
(cfr., tra le altre, TAR Lombardia, Milano, n. 438/2008).
1.3. Al fine di supportare la natura “libera” –ossia
non soggetta ad alcun titolo abilitativo edilizio-
dell’intervento realizzato, la ricorrente invoca l’art. 6,
comma 1, lett. c), del D.P.R. n. 380/2001.
In verità, il Collegio ritiene che la richiamata
disposizione sia confermativa della prospettazione giuridica
di cui è stata data evidenza.
Tale disposizione prevede, infatti, che possono essere
eseguite senza titolo opere caratterizzate –appunto- dalla “temporaneità”,
dirette all’“attività di ricerca nel sottosuolo”.
Appare, pertanto, evidente che si tratta di una previsione
che non sconfessa ma, anzi, è pienamente in linea con
l’orientamento giurisprudenziale sopra ricordato.
Sotto il profilo sostanziale, non è, poi, possibile esimersi
dal precisare che –a differenza di quanto asserito dalla
ricorrente– le opere indicate al citato art. 6, proprio in
quanto “temporanee”, hanno un impatto sicuramente
minore sul territorio di quello dei lavori contestati nel
provvedimento impugnato, la cui connotazione permanente
appare “in re ipsa” e, comunque, non è in alcun modo
negata.
In definitiva, i lavori descritti nel provvedimento
impugnato sono ben diversi da quelli contemplati all’art. 6
in argomento né possono essere ricondotti nell’ambito di
quest’ultimi in ragione di una minore rilevanza urbanistica
ed edilizia, la quale è del tutto insussistente.
1.4. In ragione di quanto rilevato, e cioè
della già accertata riconducibilità dei lavori di cui
trattasi nell’elenco di cui all’art. 10 del D.P.R. n.
380/2001, è, altresì, chiaro che gli stessi lavori non
possono essere ritenuti soggetti a mera denuncia di
attività.
Come già detto, detti lavori –considerate
l’entità e la consistenza da cui sono caratterizzati–
determinano una trasformazione urbanistica del territorio e,
dunque, concretizzano un intervento di nuova costruzione.
Ciò trova conferma anche nell’impossibilità di identificare
gli stessi lavori –oltre che con gli interventi di cui
all’art. 3, comma 1, lett. a e d, del D.P.R. n. 380/2001-
con la tipologia di opere contemplate all’art. 3, comma 1,
lett. b e c, del medesimo D.P.R., sicuramente soggette –in
base al criterio della residualità, sancito all’art. 22,
comma 1, del medesimo D.P.R.- a mera denuncia di inizio
attività.
In termini più generali, va, poi, rilevato che
nessuna previsione normativa prevede deroghe e/o
esoneri rispetto al regime dei titoli abilitativi edilizi
sulla base di meri fini di utilizzazione agricola dei
terreni (i quali, tra l’altro, non appaiono –nel caso di
specie- adeguatamente comprovati).
1.5. Stante quanto in precedenza rappresentato, è da
rilevare che non emergono ragioni cui sia riconducibile un
diverso contenuto del provvedimento impugnato.
A ciò consegue l’inidoneità dei vizi di procedura –quale è
la denunciata violazione degli artt. 7 e ss. della legge n.
241/1990– o di forma a determinare l’annullamento del
provvedimento stesso, a norma dell’art. 21-octies della già
richiamata legge n. 241/1990, nel testo innovato dalla legge
n. 15/2005, da ricondurre nell’ambito delle norme di
carattere processuale o procedurale, le quali sono di
immediata applicazione (cfr., tra le altre, TAR Sardegna, n.
483 del 2005; TAR Campania, Napoli, n. 3780 del 2005).
2. Per le ragioni sopra illustrate, il ricorso deve essere
respinto
(TAR Lazio-Roma, Sez. I-quater,
sentenza 20.01.2009 n. 394 - tratta da
www.studiovandelli.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione
di un terrapieno - Di rilevanti dimensioni - Reato di
esecuzione di lavori in assenza di permesso di costruire -
Configurabilità - Fondamento.
Integra il reato di costruzione edilizia
abusiva la realizzazione di un terrapieno di rilevanti
dimensioni sia in ampiezza che in altezza, non potendosi
inquadrare tale intervento tra quelli per i quali non è
richiesto il permesso di costruire. (fattispecie nella quale
l'intervento eseguito presentava un'estensione pari a 3000
mq. per 2 metri di altezza).
---------------
Con sentenza del 13.12.2005, il Tribunale di Catania aveva
condannato F.C., riconosciute le attenuanti generiche, alla
pena di mesi cinque di arresto ed Euro 6.000,00 di ammenda,
pena sospesa e la confisca dell'immobile in sequestro,
avendola ritenuta colpevole del reato di cui all'art. 81
cpv. c.p., della L. 28.02.1985, n. 47, art. 20, comma 1,
lett. b), del D.Lgs. 05.02.1997, n. 22, art. 51, comma 3,
della L. 05.11.1971, n. 1986, art. 2, commi 1 e 2, art. 13,
art. 4, comma 1 e art. 14, della L. 02.02.1974, n. 64, artt.
17, 18 e 20 [come accertato in (OMISSIS) il (OMISSIS)].
Si era trattato della realizzazione di un terrapieno di
circa 3000 mq di area e dell'altezza di mt. 2,00 e della
costruzione di una recinzione in muratura con pilastri e
travi in cemento armato, senza concessione edilizia e in
violazione delle disposizioni in materia di costruzioni in
cemento armato e in zona sismica.
...
Il ricorso è manifestamente infondato.
Per quanto concerne il reato edilizio e quelli connessi, se
corrisponde a verità che la L.R. Sicilia 10.08.1985, n. 37,
art. 6 esclude dalla necessità di concessione edilizia la "recinzione
di fondi rustici", nel caso di specie trattavasi,
secondo i Giudici di merito, di un'opera ben più complessa,
comportante la realizzazione di un terrapieno di rilevanti
dimensioni sia in ampiezza che in altezza, quindi recintato
e all'interno del quale era depositato il materiale che ha
dato luogo alla contestazione di cui al D.Lgs. n. 22 del
1997, art. 51, comma 3.
Poiché siffatta opera non rientra tra quelle non subordinate
a concessione edilizia secondo la legislazione statale
(cfr., per un caso analogo, Cass. 29.09.1999 n. 11126) e
secondo l'analoga normativa regionale, le censure svolte al
riguardo appaiono manifestamente infondate (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 27.09.2007 n. 35629). |
EDILIZIA PRIVATA: Sui
lavori di sbancamento e riporto di terreno.
La trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio non comprende le sole attività di
edificazione, ma tutte quelle consistenti nella
modificazione dello stato materiale e della conformazione
del suolo per adattarlo ad un impiego diverso.
---------------
Con verbale di constatazione n. 55/87 dd. 06.04.1987 il
Servizio controllo Costruzioni del Comune di Bolzano
accertava l’esecuzione sulla p.f. 988 c.c. Gries, di
proprietà del sig. Ha., lavori di sbancamento e riporto di
terreno senza il necessario permesso edilizio, oltre ad un
cambio di coltura da bosco ad area di equitazione.
Con ordinanza n. 6/87 dd. 04.05.1987 l’Assessore
all’urbanistica ingiungeva il ripristino dello stato dei
luoghi in conformità alla destinazione prevista dal Piano
Urbanistico comunale.
...
Il ricorso è infondato.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e
falsa applicazione dell’art. 4 nn. 3 e 4 della legge
provinciale 21.01.1987 n. 4 per insussistenza del
presupposto della inottemperanza al cambio di coltura ed
eccesso di potere per travisamento, contraddittorietà in
relazione alla preesistenza dello spianamento e della
destinazione dell’area a campo di pattinaggio.
Lo spianamento con modesti sbancamenti sarebbe stato
effettuato nel 1965 dall’affittuario del suo predecessore,
che realizzò un campo di pattinaggio, successivamente
abbandonato, e nel 1987 riassettato e destinato a piccolo
campo di maneggio. Comunque l’odierno ricorrente avrebbe
proceduto a dar ottemperanza all’ordinanza nei limiti di
quanto da lui stesso operato, non ritenendo di essere
obbligato all’impianto di alberi di alto fusto abbattuti
ancora nel 1965 con autorizzazione forestale.
Orbene, come rileva la difesa del Comune di Bolzano, dal
verbale del servizio Controllo Costruzioni n. 176/1993
risulta il mancato ripristino d’uso dei terreni che in
effetti hanno continuato ad essere utilizzati come area di
equitazione. La trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio non comprende le sole attività di edificazione,
ma tutte quelle consistenti nella modificazione dello stato
materiale e della conformazione del suolo per adattarlo ad
un impiego diverso, così come ribadito dalla richiamata
sentenza del Consiglio di Stato sez. V n. 319 dd. 22.02.1991
(TRGA Trentino Alto Adige,
sentenza 30.09.2000 n. 278 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
|
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La ricostruzione (ancorché fedele, quindi quale
ristrutturazione edilizia) di un edificio,
distrutto per incendio fortuito, soggiace al
versamento del contributo di costruzione. |
EDILIZIA PRIVATA: E'
oneroso l'intervento edilizio di
ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale
andata distrutta a seguito di incendio.
L’intervento di ricostruzione, di una
porzione di edificio andata distrutta a seguito di incendio,
è stato qualificato, sia dai ricorrenti che dal comune, come
intervento di ristrutturazione edilizia.
Ciò premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 43,
primo comma, della legge della Regione Lombardia 11.03.2005,
n. 12 (Legge per il governo del territorio), gli interventi
di ristrutturazione edilizia sono espressamente assoggettati
al pagamento del contributo di costruzione, sia con
riferimento agli oneri di urbanizzazione che con riferimento
al costo di costruzione.
A fronte del chiaro dettato normativo, all’interprete sembra
sottratta la possibilità di effettuare specifiche
valutazioni atte a rilevare se il singolo intervento di
ristrutturazione abbia o meno comportato un aumento del
carico urbanistico o possa essere considerato alla stregua
di un indice di capacità contributiva.
Né a diverse conclusioni può portare la circostanza che, nel
caso specifico, l’intervento di ricostruzione è stato reso
necessario a causa dell’incendio che in precedenza aveva
distrutto il bene, atteso che l’art. 17, terzo comma, del
d.P.R. n. 380 del 2001 -nel disciplinare le ipotesi di
esenzione dall’obbligo di versamento del contributo di
costruzione- prende in considerazione, alla lett. d), anche
le cause di forma maggiore, circoscrivendo tuttavia
l’esenzione ai soli casi di interventi realizzati in
attuazione di norme o provvedimenti emanati a seguito di
pubbliche calamità.
In tale quadro, si deve anche escludere che il Comune di
Milano fosse tenuto a fornire una specifica motivazione,
posto che, come visto, nella fattispecie, l’obbligo di
versamento del contributo di costruzione discende dalla
piana applicazione della vigente normativa.
---------------
1. Con il ricorso in esame, viene impugnato il permesso di
costruire n. 2/2016 del 15.01.2016, rilasciato dal Comune di
Milano ai sigg.ri Ga.Al., Lu.Fr.Ce. e An.Pa., nella parte in
cui assoggetta l’intervento assentito al pagamento del
contributo di costruzione, per un ammontare complessivo pari
ad euro 58.514,02.
2. L’intervento oggetto dell’atto impugnato consiste nella
ricostruzione di una porzione di un edificio condominiale
sito in Milano, Via ... n. 6, andata a distrutta a seguito
di un incendio.
3. Si è costituito in giudizio, per resistere al ricorso, il
Comune di Milano.
4. La Sezione, con
ordinanza 18.03.2016 n. 328, ha accolto l’istanza
cautelare.
5. Tenutasi la pubblica udienza in data 30.03.2017, la causa
è stata trattenuta in decisione.
6. Con il primo motivo, i ricorrenti sostengono che,
nel caso di specie, non vi sarebbero i presupposti necessari
per esercitare la pretesa di pagamento del contributo di
costruzione, e ciò in quanto l’intervento oggetto del
permesso di costruire del 15.01.2016 non comporterebbe alcun
aumento del carico urbanistico (presupposto necessario per
la pretesa degli oneri di urbanizzazione) né sarebbe indice
di incremento patrimoniale (requisito necessario per la
pretesa del costo di costruzione).
7. Con il secondo motivo, viene dedotta la violazione
dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, in quanto, a dire
dei ricorrenti, proprio in considerazione della specificità
del caso in esame, il Comune avrebbe dovuto indicare, nel
provvedimento impugnato, le ragioni per le quali si è
ritenuto che l’intervento che ne costituisce oggetto abbia
determinato un aumento del carico urbanistico.
8. I due motivi sono infondati per le ragioni di seguito
esposto.
9. Come anticipato, l’intervento oggetto del permesso di
costruire impugnato consiste nella ricostruzione di una
porzione di un edificio condominiale andata distrutta a
seguito di incendio.
10. L’intervento è stato qualificato, sia dai ricorrenti che
dal Comune di Milano, come intervento di ristrutturazione
edilizia.
11. Ciò premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art.
43, primo comma, della legge della Regione Lombardia
11.03.2005, n. 12 (Legge per il governo del
territorio), gli interventi di ristrutturazione edilizia
sono espressamente assoggettati al pagamento del contributo
di costruzione, sia con riferimento agli oneri di
urbanizzazione che con riferimento al costo di costruzione.
12. A fronte del chiaro dettato normativo, all’interprete
sembra sottratta la possibilità di effettuare specifiche
valutazioni atte a rilevare se il singolo intervento di
ristrutturazione abbia o meno comportato un aumento del
carico urbanistico o possa essere considerato alla stregua
di un indice di capacità contributiva.
13. Né a diverse conclusioni può portare la circostanza che,
nel caso specifico, l’intervento di ricostruzione è stato
reso necessario a causa dell’incendio che in precedenza
aveva distrutto il bene, atteso che l’art.
17, terzo comma, del d.P.R. n. 380 del 2001 -nel
disciplinare le ipotesi di esenzione dall’obbligo di
versamento del contributo di costruzione- prende in
considerazione, alla lett. d), anche le cause di forma
maggiore, circoscrivendo tuttavia l’esenzione ai soli casi
di interventi realizzati in attuazione di norme o
provvedimenti emanati a seguito di pubbliche calamità (cfr.,
TAR Lombardia Milano, sez. II, 25.05.2016, n. 1079).
14. In tale quadro, si deve anche escludere che il Comune di
Milano fosse tenuto a fornire una specifica motivazione,
posto che, come visto, nella fattispecie, l’obbligo di
versamento del contributo di costruzione discende dalla
piana applicazione della vigente normativa.
15. Per tutte queste ragioni, il ricorso deve essere
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 12.06.2017 n. 1319 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
ricostruzione di una porzione edificio crollata a seguito di
incendio (quale ristrutturazione edilizia) sconta il
versamento del contributo di costruzione.
L'intervento in discorso è volto
unicamente alla ricostruzione del fabbricato totalmente
crollato a causa dell'incendio accidentale e non comporta
alcuna alterazione di sagoma e di superficie, né la modifica
della destinazione d'uso di cui all'originaria concessione
edilizia (e successive varianti).
Tuttavia, non coglie nel segno il primo motivo, con
cui la ricorrente ha dedotto che l’incendio verificatosi
sarebbe da annoverare tra le “pubbliche calamità”
individuate dalla lett. d) dell’art. 17, comma 3, del DPR
380/2001 come motivo di esenzione dal pagamento del
contributo di costruzione, e ciò in relazione all’ordinanza
emessa dal dirigente del settore edilizia.
Tale provvedimento, all’opposto, è stato adottato alla luce
del fatto che i fabbricati risultavano “ammalorati ed
interessati da dissesto strutturale”: il che ha prospettato
“condizioni che non consentono l’utilizzo in sicurezza delle
unità immobiliari costituenti le porzioni di capannone in
lato nord/ovest ed il lato nord/est, poste in aderenza alla
porzione di capannone all’interno del quale si è sviluppato
l’incendio”.
Si è, pertanto, disposto il “ripristino delle condizioni
minime di sicurezza delle unità immobiliari interessate
dall’incendio mediante eliminazione delle macerie e delle
parti pericolanti, con delimitazione della zona mediante
opportune opere provvisionali atte ad interdire l’accesso
alle zone pericolose”, nonché la “verifica degli impianti
elettrici e di adduzione gas, e di tutte le eventuali
diramazioni interessanti le unità immobiliari”.
Si è, quindi, trattato di un episodio grave e dannoso per
l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze
nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di
normali operazioni di messa in sicurezza; né, tantomeno,
risultano essere stati adottati piani di emergenza o
evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è
stata messa a immediato repentaglio –se non in via del tutto
potenziale– la pubblica incolumità.
Peraltro, l’infondatezza del primo
motivo è, indirettamente, avvalorata dal tenore della
seconda censura proposta, anch’essa infondata, con cui
la ricorrente ha dedotto che l’assentito intervento
integrerebbe (solo) una manutenzione straordinaria.
La Sezione ha più volte ribadito che nell’ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia sono
ricompresi anche quelli consistenti nella “demolizione e
ricostruzione parziale o totale nel rispetto della
volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”, e
ciò ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge regionale
12/2005, ai quali, inoltre, è direttamente correlata, ai
fini del calcolo del costo di costruzione, la disciplina di
cui al successivo art. 44, con eventuali riduzioni in
funzione delle modalità esecutive della ristrutturazione.
---------------
... per l'annullamento del provvedimento emesso in data
11.04.2015 dal responsabile del settore governo del
territorio del Comune di Monza -sportello unico
dell’edilizia– con cui è stato comunicato il rilascio del
permesso di costruire (a seguito di domanda presentata dalla
ricorrente in data 26.11.2014), e ciò nella parte in cui è
stato richiesto il versamento del contributo di costruzione
di importo pari a € 257.377,54; della comunicazione di
conclusione del procedimento del 13.01.2015 e della
deliberazione di Giunta comunale n. 43 del 03.11.2008, con
cui è stato approvato l’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione e del costo base di costruzione.
...
Con ricorso ritualmente proposto la società Nu.Gu. e Ra.
s.r.l. ha impugnato, chiedendone l’annullamento, il
provvedimento emesso in data 11.04.2015 dal responsabile del
settore governo del territorio del Comune di Monza
–sportello unico dell’edilizia– con cui è stato comunicato
il rilascio del permesso di costruire (a seguito di domanda
presentata dalla ricorrente in data 26.11.2014), e ciò nella
parte in cui è stato richiesto il versamento del contributo
di costruzione di importo pari a € 257.377,54, nonché la
comunicazione di conclusione del procedimento del 13.01.2015
e la deliberazione di Giunta comunale n. 43 del 03.11.2008,
con cui è stato approvato l’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione e del costo base di costruzione.
La società ricorrente ha esposto di essere “proprietaria
di una parte dell’edificio sito nel Comune di Monza, in Via
... n. 1-5”, avente “destinazione produttiva
–inserito dall'attuale PGT in Area D1 “Area per insediamenti
produttivi esistenti, di contenimento della capacità
edificatoria”– realizzato in virtù di concessione edilizia
n. 102 del 16/07/1985 rilasciata dall'Amministrazione
comunale sia alla società Nu.Gu. e Ra. s.r.l. sia al signor
Ed.Fo., a cui hanno avuto seguito due concessioni edilizie
in variante” (cfr. pag. 2).
Ha soggiunto che “in data 20/09/2012, proprio presso i
locali dell'edificio produttivo in discorso, è divampato
accidentalmente un incendio che ha comportato il crollo
della porzione di fabbricato”, il che ha reso
necessaria, da parte dell’Amministrazione, l’adozione, in
data 24.09.2012, di un’ordinanza di ripristino delle
condizioni minime di sicurezza delle unità interessate
dall’incendio “per scongiurare pericoli per la pubblica
incolumità, in considerazione della gravità dell'evento che
ha comportato l'assoluta inagibilità dei locali” (cfr.
pag. 3).
Al termine dei lavori di bonifica e rimozione dei rifiuti,
la ricorrente, “conformemente alle disposizioni
dirigenziali, ha presentato in data 26.11.2014, presso lo
Sportello Unico Edilizia del Comune di Monza, istanza di
permesso di costruire per la (ricostruzione di porzione di
fabbricato produttivo esistente della superficie coperta di
mq. 3468,96 oltre una tettoia della superficie di mq 363.68”
(cfr., ancora, pag. 3), cui è seguito il rilascio del
permesso di costruire oggetto di impugnazione nella parte
relativa alla prescritta corresponsione del costo di
costruzione.
La legittimità di tale prescrizione è stata contestata
sull’assunto che “l’intervento in discorso è volto
unicamente alla ricostruzione del fabbricato totalmente
crollato a causa dell'incendio del 20.09.2012 e non comporta
alcuna alterazione di sagoma e di superficie, né la modifica
della destinazione d'uso di cui all'originaria concessione
edilizia (e successive varianti). A ciò si aggiunga che le
realizzazioni in argomento prevedono il mantenimento della
rete fognaria esistente, con il semplice adeguamento della
stessa alla normativa attuale” (cfr. pag. 4).
A fondamento dell’impugnazione sono stati dedotti i seguenti
motivi:
- 1°) violazione degli artt. 16, comma 1 e 17, comma 3 del DPR
380/2001; eccesso di potere per travisamento dei presupposti
di fatto e di diritto, ingiustizia manifesta.
Ad avviso della ricorrente “posto che, secondo la
disciplina generale, il contributo di costruzione è
eventuale e commisurato all'incidenza degli oneri di
urbanizzazione nonché al costo di costruzione, come meglio
si vedrà in seguito, l’art. 17, comma 3, lett. d), del
D.P.R. 380/2001 lo esclude, in ogni caso, per gli interventi
da realizzare in attuazione di norme o provvedimenti emanati
a seguito di pubbliche calamità. Come precisato dalla
disposizione normativa appena richiamata, in conseguenza di
eventi calamitosi (ovverosia di eventi con effetti
disastrosi) che coinvolgono la collettività –quale è, per
l'appunto, l’incendio accidentale verificatosi presso i
locali del fabbricato produttivo, che ha condotto
l'Amministrazione ad adottare immediati provvedimenti a
tutela della sicurezza e della pubblica incolumità– i
successivi interventi effettuati e da effettuare sono, per
legge, esonerati dal carico contributivo” (cfr. pag. 5).
- 2°) violazione degli artt. 44 e 45 della legge regionale 12/2005,
degli artt. 16, 17, comma 3 e 22, comma 7 del DPR 380/2001;
eccesso di potere per travisamento dei presupposti di fatto
e di diritto, difetto d’istruttoria e illogicità manifesta.
La ricorrente ha censurato il fatto che l’Amministrazione
avrebbe chiesto il pagamento di oneri per un intervento di
ripristino di parte dell’edificio crollato, “in relazione
al quale la società proprietaria in passato ha già
provveduto alla relativa corresponsione per la sua
realizzazione” (cfr. pagg. 6–7), ignorando che il “criterio
discretivo (…) per stabilire l’assoggettabilità o meno di
una realizzazione edilizia al pagamento degli oneri di
urbanizzazione è la tipologia di intervento e i riflessi che
lo stesso ha sull’area coinvolta, in termini di
trasformazione o aggravio del carico urbanistico della
stessa” (cfr. pag. 7).
In altri termini, l’ordinamento positivo non prevedrebbe
alcun automatismo nell’applicazione degli oneri concessori,
tale principio trovando conferma negli “incisi “se
dovuti” contenuti nella disposizione di cui all’art. 44
della L.R. Lombardia n. 12/2005” oltre che nell’art. 22
del testo unico dell’edilizia, che al comma 7 ammette
l’esenzione dall’obbligo di pagamento per gli interventi
qualificabili come “manutenzione straordinaria” ai
sensi dell’art. 3 del citato testo unico, come modificato
dal D.L. 133/2014, convertito nella legge 164/2014:
fattispecie che si attaglierebbe al caso di specie (cfr.
pag. 8).
- 3°) violazione dell’art. 3 della legge 241/1990, degli artt. 41 e
43 della Costituzione e dei principi di buona
Amministrazione.
La ricorrente ha, infine, dedotto che l’impugnato
provvedimento “non contiene nemmeno l’espressa
indicazione delle operazioni di calcolo che hanno condotto
all'individuazione di quel determinato ammontare ed in
presenza delle quali la giurisprudenza ritiene adempiuto
l'onere motivazionale” (cfr. pag. 11).
Si è costituito in giudizio il Comune di Monza (01.07.2015),
eccependo, nella memoria del 20.7.2015, l’inammissibilità
del ricorso in riferimento agli ulteriori provvedimenti
impugnati in via presupposta, i quali non sarebbero lesivi
della sfera giuridica della società ricorrente; nel merito
ha opposto che “l’evento definito dal ricorrente come
"calamitoso" non è né tale né, tantomeno, "pubblico" in
quanto, come si evidenzia dagli atti di controparte, non ha
assunto proporzioni tali da coinvolgere una pluralità
indefinita di soggetti, ma è rimasto circoscritto al
capannone della ricorrente ed a quello confinante, ed è
stato fronteggiato con gli ordinari mezzi di intervento dei
VV.FT., Polizia, ecc., senza che fosse necessario far
intervenire, ad esempio, la Protezione Civile la quale,
invece, è sempre chiamata a svolgere la propria funzione
laddove vi siano eventi effettivamente riconducibili alla
pubblica calamità”, e che, comunque, la messa in
sicurezza oggetto dell’ordinanza comunale rientrerebbe
nell’ordinaria amministrazione (cfr. pag. 6); ha, inoltre,
contestato “il tentativo di controparte di qualificare
come manutenzione straordinaria l'intervento per il quale è
stata presentata dalla stessa ricorrente, domanda di
permesso di costruire” (cfr. pag. 10), che, invece,
integrerebbe una ristrutturazione edilizia; che, infine, la
ricorrente sarebbe stata “perfettamente a conoscenza
delle previsioni normative che impongono il versamento del
contributo di costruzione nei casi di rilascio di permesso
di costruire. nonché della deliberazione di Consiglio
Comunale n. 43 del 03/11/2008 di aggiornamento degli oneri
di urbanizzazione e aggiornamento del costo base di
costruzione” (cfr. pag. 14).
Con
ordinanza 27.07.2015 n. 977 la Sezione ha
ritenuto di riservarsi nel merito sulle questioni oggetto
del giudizio, concedendo “la misura cautelare
subordinatamente alla prestazione, da parte della
ricorrente, di una garanzia bancaria o assicurativa con
clausola “a prima richiesta” in favore del Comune di Monza,
per un importo pari a quello indicato nel provvedimento
impugnato”.
...
Nel merito, il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Non coglie nel segno il primo motivo, con cui la
ricorrente ha dedotto che l’incendio verificatosi in data
20.09.2012 sarebbe da annoverare tra le “pubbliche
calamità” individuate dalla lett. d) dell’art. 17, comma
3, del DPR 380/2001 come motivo di esenzione dal pagamento
del contributo di costruzione, e ciò in relazione
all’ordinanza emessa in data 24.09.2012 dal dirigente del
settore edilizia.
Tale provvedimento, all’opposto, è stato adottato alla luce
del fatto che i fabbricati risultavano “ammalorati ed
interessati da dissesto strutturale”: il che ha
prospettato “condizioni che non consentono l’utilizzo in
sicurezza delle unità immobiliari costituenti le porzioni di
capannone in lato nord/ovest ed il lato nord/est, poste in
aderenza alla porzione di capannone all’interno del quale si
è sviluppato l’incendio”.
Si è, pertanto, disposto il “ripristino delle condizioni
minime di sicurezza delle unità immobiliari interessate
dall’incendio mediante eliminazione delle macerie e delle
parti pericolanti, con delimitazione della zona mediante
opportune opere provvisionali atte ad interdire l’accesso
alle zone pericolose”, nonché la “verifica degli
impianti elettrici e di adduzione gas, e di tutte le
eventuali diramazioni interessanti le unità immobiliari”.
Si è, quindi, trattato di un episodio grave e dannoso per
l’impresa, ma non certo catastrofico, le cui conseguenze
nocive sono risultate arginabili mediante l’attuazione di
normali operazioni di messa in sicurezza; né, tantomeno,
risultano essere stati adottati piani di emergenza o
evacuazione dei residenti, a conferma del fatto che non è
stata messa a immediato repentaglio –se non in via del tutto
potenziale– la pubblica incolumità.
Peraltro, l’infondatezza del primo motivo è, indirettamente,
avvalorata dal tenore della seconda censura proposta,
anch’essa infondata, con cui la ricorrente ha dedotto che
l’assentito intervento integrerebbe (solo) una manutenzione
straordinaria.
La Sezione ha più volte ribadito (cfr., tra le tante, la
sentenza 18.05.2010, n. 1566) che nell’ambito degli
interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi
anche quelli consistenti nella “demolizione e
ricostruzione parziale o totale nel rispetto della
volumetria preesistente, fatte salve le sole innovazioni
necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica”,
e ciò ai sensi dell’art. 27, comma 1, della legge regionale
12/2005, ai quali, inoltre, è direttamente correlata, ai
fini del calcolo del costo di costruzione, la disciplina di
cui al successivo art. 44, con eventuali riduzioni in
funzione delle modalità esecutive della ristrutturazione.
Nella specie, poi, il Comune di Monza si è dato una puntuale
regolamentazione mediante l’aggiornamento degli oneri di
urbanizzazione e del costo base di costruzione, approvato
con la deliberazione di G.C. n. 43 del 03.11.2008 (impugnata
dalla società ricorrente, ma senza articolare alcuna
specifica censura), la quale ha previsto che per gli
interventi di ristrutturazione comportanti demolizione e
ricostruzione si applichino gli oneri di urbanizzazione
relativi alle nuove costruzioni (dettagliati nell’allegato
B).
Conseguentemente, l’espressione contenuta nella nota del
13.01.2015 (in cui il responsabile dello sportello unico
dell’edilizia ha fatto cenno al “calcolo dell’eventuale
contributo di costruzione”) non può essere enfatizzata
alla luce della piana applicazione della normativa primaria
e secondaria, richiamata dall’Amministrazione nella
motivazione del permesso di costruire (il che determina
l’infondatezza del terzo motivo di ricorso).
In conclusione, il ricorso va respinto (TAR Lombardia-Milano,
Sez. II,
sentenza 25.05.2016 n. 1079 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
IN EVIDENZA |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Al
fine di ravvisare il silenzio-inadempimento
dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice
presupposto dell’omessa conclusione del procedimento
amministrativo entro il termine astrattamente previsto per
il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e
dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere
sull’istanza del privato.
---------------
Il
nostro ordinamento vede con
particolare disfavore l’ottenimento di benefici originato da
dichiarazioni false.
L'’art. 75 del D.P.R. 445/2000, in tema di controllo di
veridicità delle dichiarazioni sostitutive, prevede che “Fermo
restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal
controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità
del contenuto della dichiarazione il dichiarante decade dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera”.
In base all'art. 75 predetto “la non veridicità
della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la
decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che
tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde
dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla
quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni
addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle
Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede
alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del
dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto
responsabilità”.
In materia di gare d’appalto, le dichiarazioni mendaci non
possono essere regolarizzate e, una volta che
l’amministrazione abbia conseguito la certezza della non
veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le
necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare
applicazione dell’art. 21-nonies della L. 241/1990, le cui
disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di
autotutela aventi natura tipicamente discrezionale.
Anche in materia di benefici ottenuti grazie alla
qualificazione di IAFR (impianti alimentati da fonti
rinnovabili), la previsione ex lege delle conseguenze
della dichiarazione non veritiera in termini di decadenza
automatica rende la determinazione del GSE vincolata nei
suoi contenuti, con connotazione della stessa in termini di
automaticità, per cui risulta evidente la non operatività
dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 .
---------------
In materia di segnalazione di inizio attività, l’art. 19
della L. 241/1990 statuisce che, decorso il termine di legge
per adottare provvedimenti inibitori ovvero di conformazione
(60 giorni dal ricevimento della dichiarazione),
l'amministrazione competente adotta comunque i provvedimenti
previsti dal medesimo comma 3 in presenza delle condizioni
previste dall'articolo 21-nonies (riguardante i presupposti
per l’annullamento d’ufficio).
Tale essendo la disciplina posta dell’art. 19 citato,
in tema di liberalizzazione (in senso lato) della attività
economiche, dalla disamina congiunta della disciplina
racchiusa nei commi 3 e 4, <<si evince agevolmente che
l’Amministrazione procedente può vietare (o, comunque,
interdire, conformare ovvero chiedere integrazioni
documentali), ai sensi del comma 3, in relazione
all’attività commerciale comunicata con segnalazione
certificata di attività entro il termine di sessanta giorni
dalla presentazione della stessa, mentre, successivamente al
decorso di tale termine, ai sensi del successivo comma 4,
residua in capo alla predetta Amministrazione, un analogo
potere che non può configurarsi quale autotutela in quanto
la dichiarazione del privato resta tale anche dopo il
termine di sessanta giorni e non si trasforma in
provvedimento amministrativo nei confronti del quale sarebbe
ipotizzabile un’attività di autotutela; sul punto il potere
di intervento successivo della P.A. si sostanzia nell’uso di
poteri inibitori soggetti a limiti imposti per legge, per i
quali, non a caso, la legge n. 124/1915 ha correttamente
eliminato la definizione di “autotutela”, operando un
richiamo all’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990>>;
In effetti, la vicenda di cui si discorre non è stata
originata da una SCIA, e tuttavia potrebbe rientrare nella
casistica delle dichiarazioni mendaci, per la quale il
legislatore prevede tassativamente la decadenza dei benefici
ritratti dal loro autore;
IL comma 2-bis all’art. 21-nonies, introdotto
dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 2, della L. 124/2015,
statuisce che l’amministrazione conserva il potere di
intervenire dopo la scadenza del richiamato termine per
l’annullamento d’ufficio (18 mesi) proprio nel caso in cui i
provvedimenti amministrativi siano stati “conseguiti
sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di
notorietà false o mendaci per effetto di condotte
costituenti reato”, seppur previo accertamento con sentenza
passata in giudicato.
---------------
Laddove una concessione edilizia sia
stata ottenuta in base ad una falsa rappresentazione dello
stato effettivo dei luoghi negli elaborati progettuali, al
Comune è consentito di esercitare il proprio potere di
autotutela ritirando l'atto concessorio senza necessità di esternare
alcuna particolare ragione di pubblico interesse (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. III – 07/11/2016 n. 5141 –che risulta
appellata– e la giurisprudenza citata, tra cui la pronuncia
di questo TAR 20/11/2002 e TAR Campania Napoli, sez. VI –
12/05/2016 n. 2416, ad avviso del quale in materia di
annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, quando l'operato
dell'amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o
falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica
ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va
individuato nell’aspirazione della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica, e in questi casi, si è quindi
al cospetto di un atto vincolato).
In argomento, si è pronunciato il Consiglio di Stato
rilevando che
qualificata giurisprudenza di primo grado ha affermato il principio secondo
il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli
edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in
sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione
sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione
dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa
motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica”.
Sicché, la falsità dichiarativa impedisce anche la maturazione
in capo all’autore di un affidamento meritevole di
protezione, e siffatta carenza non può non incidere (in
senso favorevole all’amministrazione) anche sulla
valutazione della ragionevolezza del termine entro il quale
dovesse intervenire il provvedimento di autotutela
(riferimento temporale cui parametrare normativamente la
tempestività dell’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio).
---------------
Secondo l’art. 6, comma 1, lett. a), della L.
241/1990, spetta al responsabile del procedimento valutare “ai
fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti
di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per
l'emanazione di provvedimento”.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato è attestata nel
senso che, prima di accordare un permesso di costruire (o
una sanatoria edilizia) l’amministrazione debba verificare
la situazione di diritto e di fatto, anche se solo nei
limiti richiesti dalla ragionevolezza e dalla comune
esperienza.
Ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 il Comune, nel
verificare l’esistenza in capo al richiedente un permesso
edilizio di un idoneo titolo di godimento sull’immobile, non
deve risolvere eventuali conflitti di interesse tra le parti
private in ordine all’assetto proprietario, ma deve
accertare soltanto il requisito della legittimazione
soggettiva di colui che richiede il permesso.
In tal senso, l’amministrazione è tenuta a svolgere
un livello minimo di istruttoria che comprende
l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a
dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento
soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico
oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio.
---------------
Evidenziato:
- che il ricorrente riferisce di essere proprietario di un
appartamento ubicato nel Comune di Castiglione delle
Stiviere in Via ... n. 9, catastalmente identificato al
foglio 16, mappale n. 220, sub. 7, 11 e 17, e confinante con
l’immobile di proprietà dei Sigg.ri Bo., a sua volta
identificato in catasto al foglio 16, mappale n. 220, sub.
5, 8 e 13;
- che, a seguito dell’istanza depositata da uno dei
controinteressati per realizzare un sopralzo della copertura
in legno dell’appartamento (in modo da creare una soffitta
non abitabile), il Comune rilasciava nel 2011 il permesso di
costruire n. 603, e nel 2015 il titolo abilitativo in
sanatoria n. 940, ritualmente impugnato dal ricorrente con
gravame r.g. 1233/2016, ad oggi pendente innanzi a questo
TAR;
- che il controinteressato, in sede di richiesta del titolo
edilizio, ha affermato di essere proprietario dell’edificio
identificato –al NCEU del Comune di Castiglione– al foglio
16, mappali 220 e 206 (cfr. dichiarazione sostitutiva del
04/04/2011 - doc. 1), quando, nell’anno 2010, il medesimo
aveva alienato all’odierno ricorrente l’appartamento
identificato al mappale 220, sub 7, 17 e 11 (cfr. doc. 2);
- che risulterebbe evidente la non rispondenza al vero della
dichiarazione rilasciata dal controinteressato al Comune di
Castiglione delle Stiviere;
- che la circostanza avrebbe tratto in errore
l’amministrazione intimata, la quale ha emesso un titolo
abilitativo in relazione ad un edificio di cui il
richiedente non aveva la piena disponibilità;
- che, in base all’attestazione non veritiera del Sig.
Gi.Bo., il Comune avrebbe indebitamente emanato un permesso
di costruire, atteso che gli artt. 10 e 17 delle NTA del
Piano delle regole del PGT vigente prevedono, per gli
immobili ricadenti in zona B3 (“Ambito residenziale
consolidato di salvaguardia ambientale”) il rispetto,
per qualsiasi edificazione o ampliamento di fabbricati
esistenti, della distanza di 5 metri dai confini e il
divieto di recupero a fini abitativi dei sottotetti;
- che la dichiarazione infedele, nell’ambito della
disciplina dettata dal D.P.R. 445/2000, precluderebbe al
dichiarante il raggiungimento dello scopo cui era
indirizzata, e provocherebbe la decadenza dall’utilitas
conseguita per effetto del mendacio;
- che, alla luce della situazione sottostante, sussisterebbe
in capo al Comune intimato l’obbligo di provvedere
sull’istanza presentata dal ricorrente in data 02/11/2016,
con la conseguente illegittimità del silenzio serbato;
- che, in aggiunta, trattandosi di attività vincolata,
sussisterebbe anche il dovere per l’amministrazione di
adottare il provvedimento di decadenza e/o annullamento in
autotutela del permesso di costruire, rilasciato al
controinteressato sulla base di una dichiarazione falsa;
- che, pertanto, essendo l’amministrazione comunale rimasta
inerte, con l’introdotto ricorso l’esponente chiede che sia
dichiarato l’obbligo di provvedere ai sensi dell’art. 31,
comma 1, del Cpa, nonché l’accertamento della fondatezza
della pretesa avanzata ai sensi dell’art. 31 comma 3 e 34,
comma 1, lett. c) Cpa, con la conseguente condanna ad
adottare il provvedimento richiesto;
- che, in subordine, il Sig. Pi. insiste affinché sia
acclarato comunque il dovere del Comune di assumere un atto
formale a riscontro dell’istanza del privato;
- che, in ogni caso, chiede di nominare, in caso di
perdurante inerzia dell’amministrazione, un Commissario
ad acta che provveda in via sostitutiva;
Considerato:
- che, ad avviso del controinteressato costituito, il
ricorrente non contesta la proprietà dell’immobile inciso
dall’intervento di sopralzo, ma solo il fatto che
quest’ultimo sia stato realizzato in violazione delle
disposizioni comunali in tema di distanze/distacchi;
- che detta questione sarebbe del tutto estranea al
contenuto della dichiarazione del 2011 invocata
dall’esponente, mentre risulterebbe del tutto veritiera per
poter compiere l’intervento, dando conto della
legittimazione richiesta;
- che il controinteressato sarebbe ancor oggi proprietario
dell’edificio rispetto al quale è stato realizzato il
sopralzo, essendosi privato di una sola porzione
dell’immobile, ossia dei mappali sub 6 (appartamento) e 10
(autorimessa), oggetto della compravendita;
- che il ricorrente, al fine di ottenere il titolo edilizio,
avrebbe affermato al Comune la sua posizione di proprietario
dell’immobile ove è stato edificato il sopralzo, a
prescindere dalla circostanza che l’intervento potesse
violare i diritti dei terzi (problematica da affrontare
negli ulteriori giudizi già instaurati);
- che, siccome il controinteressato non ha invaso la
proprietà altrui (riguardando le opere esclusivamente il
proprio perimetro di proprietà) il Sig. Pi. avrebbe
palesemente travisato la dichiarazione resa nel 2011 ai fini
del rilascio del permesso di costruire;
- che, in diritto, in presenza di un silenzio-rifiuto
sull’istanza di esercizio dei poteri in autotutela, non
sarebbe configurabile alcun obbligo giuridico di provvedere
espressamente, trattandosi di richiesta avente natura
meramente sollecitatoria;
Rilevato, sotto il profilo giuridico:
- che, al fine di ravvisare il silenzio-inadempimento
dell'amministrazione, deve essere riscontrato il duplice
presupposto dell’omessa conclusione del procedimento
amministrativo entro il termine astrattamente previsto per
il procedimento del tipo evocato con l'istanza, e
dell’inottemperanza a un preciso obbligo di provvedere
sull’istanza del privato (cfr. sentenza di questo TAR, sez. II – 23/03/2016 n. 442);
- che, ad avviso della parte ricorrente, nella fattispecie
non si controverte circa la sussistenza o meno in capo al
Sig. Bo. della legittimazione a presentare la domanda di
permesso di costruire, ma sul fatto che costui, dichiarando
falsamente di essere proprietario dell’intero edificio, ha
ottenuto un’utilità che, diversamente, non avrebbe
conseguito;
- che controparte, infatti, avrebbe attestato e
rappresentato di essere proprietaria unica dell’immobile,
senza indicare l’avvenuta cessione parziale al ricorrente,
né (conseguentemente) i limiti di proprietà dai quali
calcolare la distanza dai confini;
- che detto ordine di idee merita condivisione;
- che il nostro ordinamento vede con particolare disfavore
l’ottenimento di benefici originato da dichiarazioni false;
- che l’art. 75 del D.P.R. 445/2000, in tema di controllo di
veridicità delle dichiarazioni sostitutive, prevede che “Fermo
restando quanto previsto dall'articolo 76, qualora dal
controllo di cui all'articolo 71 emerga la non veridicità
del contenuto della dichiarazione il dichiarante decade dai
benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato
sulla base della dichiarazione non veritiera”;
- che, secondo l’indirizzo del Consiglio di Stato, sez. V –
15/03/2017 n. 1172 (che richiama sez. V – 03/02/2016 n.
404), in base all'art. 75 predetto “la non veridicità
della dichiarazione sostitutiva presentata comporta la
decadenza dai benefici eventualmente conseguiti, senza che
tale disposizione (per la cui applicazione si prescinde
dalla condizione soggettiva del dichiarante, rispetto alla
quale sono irrilevanti il complesso delle giustificazioni
addotte) lasci alcun margine di discrezionalità alle
Amministrazioni; pertanto la norma in parola non richiede
alcuna valutazione circa il dolo o la grave colpa del
dichiarante, facendo invece leva sul principio di auto
responsabilità”;
- che, in materia di gare d’appalto, le dichiarazioni
mendaci non possono essere regolarizzate e, una volta che
l’amministrazione abbia conseguito la certezza della non
veridicità di quanto dichiarato, ha il dovere di trarne le
necessarie conseguenze, senza alcuna possibilità di fare
applicazione dell’art. 21-nonies della L. 241/1990, le cui
disposizioni riguardano esclusivamente i procedimenti di
autotutela aventi natura tipicamente discrezionale (cfr. TAR
Lazio Roma, sez. II – 14/11/2016 n. 11286 e la
giurisprudenza ivi citata);
- che, anche in materia di benefici ottenuti grazie alla
qualificazione di IAFR (impianti alimentati da fonti
rinnovabili), la previsione ex lege delle conseguenze
della dichiarazione non veritiera in termini di decadenza
automatica rende la determinazione del GSE vincolata nei
suoi contenuti, con connotazione della stessa in termini di
automaticità, per cui risulta evidente la non operatività
dell’art. 21-nonies, comma 1, della L. 241/1990 (Consiglio
di Stato, sez. IV – 21/12/2015 n. 5799);
- che, in materia di segnalazione di inizio attività, l’art.
19 della L. 241/1990 statuisce che, decorso il termine di
legge per adottare provvedimenti inibitori ovvero di
conformazione (60 giorni dal ricevimento della
dichiarazione), l'amministrazione competente adotta comunque
i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3 in presenza
delle condizioni previste dall'articolo 21-nonies
(riguardante i presupposti per l’annullamento d’ufficio);
- che, secondo TAR Campania Napoli, sez. III – 26/04/2017 n.
2235, tale essendo la disciplina posta dell’art. 19 citato,
in tema di liberalizzazione (in senso lato) della attività
economiche, dalla disamina congiunta della disciplina
racchiusa nei commi 3 e 4, <<si evince agevolmente che
l’Amministrazione procedente può vietare (o, comunque,
interdire, conformare ovvero chiedere integrazioni
documentali), ai sensi del comma 3, in relazione
all’attività commerciale comunicata con segnalazione
certificata di attività entro il termine di sessanta giorni
dalla presentazione della stessa, mentre, successivamente al
decorso di tale termine, ai sensi del successivo comma 4,
residua in capo alla predetta Amministrazione, un analogo
potere che non può configurarsi quale autotutela in quanto
la dichiarazione del privato resta tale anche dopo il
termine di sessanta giorni e non si trasforma in
provvedimento amministrativo nei confronti del quale sarebbe
ipotizzabile un’attività di autotutela; sul punto il potere
di intervento successivo della P.A. si sostanzia nell’uso di
poteri inibitori soggetti a limiti imposti per legge, per i
quali, non a caso, la legge n. 124/1915 ha correttamente
eliminato la definizione di “autotutela”, operando un
richiamo all’art. 21-nonies, co. 1, L. n. 241/1990>>;
- che, in effetti, la vicenda di cui si discorre non è stata
originata da una SCIA, e tuttavia potrebbe rientrare nella
casistica delle dichiarazioni mendaci, per la quale il
legislatore prevede tassativamente la decadenza dei benefici
ritratti dal loro autore;
- che il comma 2-bis all’art. 21-nonies, introdotto
dall’art. 6, comma 1, lett. d), n. 2, della L. 124/2015,
statuisce che l’amministrazione conserva il potere di
intervenire dopo la scadenza del richiamato termine per
l’annullamento d’ufficio (18 mesi) proprio nel caso in cui i
provvedimenti amministrativi siano stati “conseguiti
sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di
dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di
notorietà false o mendaci per effetto di condotte
costituenti reato”, seppur previo accertamento con
sentenza passata in giudicato;
Rilevato:
- che, laddove una concessione edilizia sia stata ottenuta
in base ad una falsa rappresentazione dello stato effettivo
dei luoghi negli elaborati progettuali, al Comune è
consentito di esercitare il proprio potere di autotutela
ritirando l'atto concessorio senza necessità di esternare
alcuna particolare ragione di pubblico interesse (cfr. TAR
Campania Napoli, sez. III – 07/11/2016 n. 5141 –che risulta
appellata– e la giurisprudenza citata, tra cui la pronuncia
di questo TAR 20/11/2002 e TAR Campania Napoli, sez. VI –
12/05/2016 n. 2416, ad avviso del quale in materia di
annullamento d'ufficio dei titoli edilizi, quando l'operato
dell'amministrazione sia stato fuorviato dall'erronea o
falsa rappresentazione dei luoghi, non occorre una specifica
ed espressa motivazione sull'interesse pubblico, che va
individuato nell’aspirazione della collettività al rispetto
della disciplina urbanistica, e in questi casi, si è quindi
al cospetto di un atto vincolato);
- che, in argomento, si è pronunciato il Consiglio di Stato
(cfr. sez. IV – 31/08/2016 n. 3735), rilevando che
qualificata giurisprudenza di primo grado (TAR Toscana, sez.
III – 27/05/2015 n. 825), ha affermato il principio secondo
il quale “in materia di annullamento d’ufficio di titoli
edilizi (nella specie, un’attestazione di conformità in
sanatoria), nei casi in cui l’operato dell’Amministrazione
sia stato fuorviato dalla erronea o falsa rappresentazione
dei luoghi, non occorre una specifica ed espressa
motivazione sull’interesse pubblico, che va individuato
nell’interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica”;
- che la falsità dichiarativa impedisce anche la maturazione
in capo all’autore di un affidamento meritevole di
protezione, e siffatta carenza non può non incidere (in
senso favorevole all’amministrazione) anche sulla
valutazione della ragionevolezza del termine entro il quale
dovesse intervenire il provvedimento di autotutela
(riferimento temporale cui parametrare normativamente la
tempestività dell’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio – TAR Campania Salerno, sez. I – 02/03/2017 n.
411);
Tenuto conto:
- che, secondo l’art. 6, comma 1, lett. a), della L.
241/1990, spetta al responsabile del procedimento valutare “ai
fini istruttori, le condizioni di ammissibilità, i requisiti
di legittimazione ed i presupposti che siano rilevanti per
l'emanazione di provvedimento”;
- che la giurisprudenza del Consiglio di Stato (cfr. sez. IV
– 05/06/2017 n. 2648 e i precedenti citati) è attestata nel
senso che, prima di accordare un permesso di costruire (o
una sanatoria edilizia) l’amministrazione debba verificare
la situazione di diritto e di fatto, anche se solo nei
limiti richiesti dalla ragionevolezza e dalla comune
esperienza;
- che, ai sensi dell’art. 11 del D.P.R. 380/2001 il Comune,
nel verificare l’esistenza in capo al richiedente un
permesso edilizio di un idoneo titolo di godimento
sull’immobile, non deve risolvere eventuali conflitti di
interesse tra le parti private in ordine all’assetto
proprietario, ma deve accertare soltanto il requisito della
legittimazione soggettiva di colui che richiede il permesso;
- che, in tal senso, l’amministrazione è tenuta a svolgere
un livello minimo di istruttoria che comprende
l’acquisizione di tutti gli elementi sufficienti a
dimostrare la sussistenza di un qualificato collegamento
soggettivo tra chi propone l’istanza e il bene giuridico
oggetto dell’autorizzazione, senza che l’esame del titolo di
godimento operato dalla p.a. costituisca un’illegittima
intrusione in ambito privatistico, essendo finalizzato
soltanto ad assicurare un ordinato svolgimento delle
attività sottoposte al controllo autorizzatorio (TAR
Lombardia Milano, sez. II – 31/01/2017 n. 235);
- che, nel caso di specie, si denuncia che il Comune ha
trascurato di valutare (per la dichiarazione mendace o
comunque fuorviante dell’istante) la reale situazione di
fatto, ossia che la proprietà del fabbricato non era estesa
all’intero mappale 220 ma solo a una frazione di esso, con
conseguente omessa verifica delle condizioni correlate (in
particolare, il rispetto delle distanze);
- che detta omissione formale ha provocato un grave deficit
istruttorio, che ha indotto l’amministrazione a non indagare
la sussistenza di determinati presupposti, indispensabili
per il rilascio del titolo;
Ritenuto:
- che, alla luce delle considerazioni diffusamente espresse,
sussiste l’obbligo del Comune intimato di pronunciarsi
tempestivamente sulla domanda del privato ricorrente;
- che, diversamente da quanto richiesto in via principale,
non si ritiene di poter adottare il provvedimento in luogo
dell’amministrazione competente, in quanto la vicenda merita
ulteriori approfondimenti spettanti all’autorità
amministrativa e riguardanti:
a) l’effettività e la rilevanza della “falsità” o comunque
il carattere fuorviante della dichiarazione, tenuto conto
dell’avvenuta suddivisione del mappale di cui si è dato
conto;
b) l’individuazione delle norme di legge e delle regole della
pianificazione urbanistica comunale pertinenti;
c) le valutazioni sulla sussistenza di una potestà di autotutela e
sulla ricorrenza delle condizioni per esercitarla;
- che, alla luce di ciò, sussiste unicamente il presupposto
per l’accoglimento della domanda formulata in via
subordinata;
- che, in definitiva, deve essere dichiarato l’obbligo del
Comune di Castiglione delle Stiviere di provvedere
sull’istanza, secondo le seguenti scansioni temporali:
• entro il 20.06.2017, il Comune dovrà attivare il procedimento di
verifica sollecitato dal ricorrente, dando la comunicazione
di avvio al medesimo e al soggetto controinteressato;
• entro il 15.07.2017, il Comune dovrà aver completato l’attività
istruttoria;
• entro il 31.07.2017 dovrà essere emesso l’atto finale (con
trasmissione di copia di esso a questo all’interessato e a
questo TAR);
- che, in accoglimento dell’istanza di parte ricorrente, si
nomina sin da ora quale Commissario ad acta il
dirigente del Settore Sportello dell’Edilizia (Area
Pianificazione Urbana e Mobilità) del Comune di Brescia, con
facoltà di delega;
- che quest’ultimo (ove il Comune non provveda entro la
scadenza indicata del 31.07.2017) dovrà insediarsi
tempestivamente, e compiere la propria attività entro e non
oltre 60 (sessanta) giorni, per poi relazionare a questo
TAR;
- che, in caso di ulteriori ritardi anche del Commissario,
questo Tribunale, previa istanza di parte, provvederà ad
assumere i provvedimenti necessari e a segnalare l’inerzia
alle competenti autorità, anche giurisdizionali, per la
valutazione degli eventuali e concorrenti profili di
responsabilità;
- che, in conclusione, il ricorso è fondato e merita
accoglimento nei limiti sopra esposti
(TAR Lombardia-Brescia, Sez. I,
sentenza 09.06.2017 n. 765 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Mentre
le linee guida dell'ANAC si distinguono in
vincolanti e non vincolanti, va invece senz’altro
affermata la natura di meri pareri dei comunicati del
Presidente dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia
vincolante per le stazioni appaltanti, trattandosi di meri
opinamenti inerenti l’interpretazione della normativa in
tema di appalti pubblici.
Invero, non può ammettersi nel vigente quadro
costituzionale, in tal delicato settore, un generale
vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes
affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa
Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per quanto
autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
---------------
Nessuna decisiva rilevanza può
attribuirsi al comunicato del Presidente dell’ANAC
del 05.10.2016 pervicacemente invocato dalla difesa della
ricorrente.
Come noto, il Codice degli appalti pubblici
approvato con D.lgs. 50 del 2016 ha previsto per la relativa
attuazione, in completa rottura rispetto al sistema
precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente
forma e sostanza di regolamento governativo bensì una
pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui per quello
che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC.
Tali linee guida, costituendo
una novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si
distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31, comma
5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime
invero molto più frequenti e assimilabili -secondo una tesi-
alla categoria di stampo internazionalistico della c.d.
“soft law”
oppure -seconda altra opzione- alle circolari
intersoggettive interpretative con rilevanza esterna,
operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee
guida (es. art. 36, comma 7, D.lgs. 50/2016).
Senza dover affrontare tale tematica, per quel che qui
rileva va invece senz’altro affermata la
natura di meri pareri dei comunicati del Presidente
dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le
stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti
l’interpretazione della normativa in tema di appalti
pubblici.
Infatti, per quanto a norma dell’art. 213 del D.lgs. 50 del
2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati
all’ANAC sia invero penetrante ed esteso, a presidio della
più ampia legalità nell’attività contrattuale delle stazioni
appaltanti e della prevenzione della corruzione,
non può ammettersi nel vigente quadro
costituzionale, in tal delicato settore, un generale
vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes
affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa
Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per
quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
Diversamente dalle linee guida, per
la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato
e partecipato
(vedi
art. 213, comma 2, D.lgs. 50 del 2016) -nel solco
d’altronde degli stessi principi affermati dalla
giurisprudenza in tema di esercizio di poteri di tipo
normativo o regolatorio da parte di Autorità Indipendenti-
i comunicati del Presidente dell’ANAC sono
dunque pareri atipici e privi di efficacia vincolante per la
stazione appaltante e gli operatori economici.
Alla stregua delle suesposte considerazioni
nessuna rilevanza può dunque avere, ai fini del
presente giudizio, il comunicato ANAC del 05.10.2016
da cui la Regione Umbria poteva discostarsi senza dover
fornire alcuna motivazione.
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Viene all’esame del Collegio la corretta interpretazione
dell’art. 97, comma 2, lett. e), del D.lgs. 50/2016 ed in
particolare la questione se nel caso di offerte recanti
l’identico ribasso, ai fini del c.d. taglio delle ali,
devono essere conteggiati o meno tutti i ribassi, con
conseguente possibile esclusione di un numero di offerte
superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore
o minor ribasso.
Ritiene il Collegio la suindicata questione interpretativa
particolarmente problematica sicché ritiene, altresì, di
dover sospendere il giudizio sino alla pubblicazione della
decisione dell’Adunanza Plenaria a seguito della rimessione
operata dalla V Sezione del Consiglio di Stato.
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1.- Con il ricorso in epigrafe Ri.Co. s.r.l. impugna gli
atti inerenti la gara d’appalto indetta dalla Regione Umbria
ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. 50/2016 per l’affidamento
delle opere di urbanizzazione primaria per le soluzioni
abitative d’emergenza presso il Comune di Norcia in seguito
agli eventi sismici che hanno recentemente colpito anche il
territorio umbro.
Con ordinanza n. 394 del 19.09.2016 a firma del Capo
Dipartimento della Protezione civile, la Regione Umbria è
stata indicata quale soggetto attuatore delle attività
preliminari all’insediamento delle soluzioni abitative
d’emergenza, anche in parziale deroga alla vigente
disciplina in materia di appalti pubblici (art. 5 cit.
ordinanza).
Il bando è stato pubblicato sulla G.U.R.I. V Serie Speciale
Contratti Pubblici n. 151 del 30.12.2016 con importo a base
d’asta di 3.222.326,55 euro e criterio di aggiudicazione del
prezzo più basso ai sensi dell’art. 60 del D.lgs. 50 del
2016.
Alla procedura aperta hanno partecipato 265 concorrenti (tra
cui l’impresa ricorrente) e il calcolo della soglia di
anomalia sorteggiato dalla Commissione è risultato quello
previsto dalla lett. e) dell’art. 97, comma 2, del D.lgs.
50/2016 (c.d. taglio delle ali).
Nell’individuare le offerte con minor ribasso da accantonare
nella percentuale del 10% la Commissione escludeva 28
offerte in luogo delle 27, ritenendo come unica offerta le
pervenute due offerte identiche tra quelle con minor ribasso
(13,2230% proposte da Ni. s.r.l. e dall’a.t.i. Im.Ed.Ma.
s.r.l.) entrambe dunque accantonate nel taglio delle ali,
con conseguente determinazione della soglia di anomalia nel
ribasso pari a 25,699%.
Con determinazione dirigenziale n. 902 del 03.02.2017 la
gara è stata definitivamente aggiudicata in favore della
Ma.Co. s.r.l. con un ribasso del 25,695% e in data
27.02.2017 è stato stipulato il contratto il quale allo
stato attuale risulta in gran parte eseguito (in misura
dell’85% secondo quanto risultante dagli atti di causa e
rappresentato dalla difesa regionale all’udienza pubblica).
La Ri.Co., impugna il suddetto provvedimento di
aggiudicazione unitamente ai verbali di gara, deducendo il
seguente unico motivo di diritto:
- Violazione e falsa applicazione dell’art. 97 comma 2, lett. e),
del D.lgs. 50/2016 e delle “direttive” ANAC del
05.10.2016; violazione del principio di selezione della
miglior offerta in tema di gare pubbliche; eccesso di potere
per difetto di istruttoria, travisamento e sviamento:
lamenta la Ri.Co. l’erroneità del calcolo della soglia di
anomalia operato dalla stazione appaltante, poiché essa
avrebbe dovuto escludere soltanto 27 delle offerte con il
minor ribasso, ossia un numero di offerte pari al 10%
arrotondato all’unità superiore (265 x 10% = 26,5 = 27)
dovendo considerare le pervenute due offerte identiche “uti
singulis” ovvero idonee ad essere considerate
singolarmente ai fini della percentuale di offerte da
inserire nel taglio delle ali.
La Commissione e la stazione appaltante non avrebbero
correttamente applicato l’art. 92, comma secondo, lett. e),
del nuovo Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs.
50 del 2016, perpetrando nell’applicazione del criterio
previsto dall’art. 121 del d.P.R. 207/2010 abrogato per
effetto dell’art. 217, c. 1, lett. u), del citato D.lgs.
50/2016. Pertanto nel caso di offerte di ugual valore, tutte
dovrebbero essere considerate come offerte singole che vanno
a formare il limite massimo del 10%.
La Ri.Co. lamenta pertanto la lesione del proprio interesse
legittimo al conseguimento dell’aggiudicazione, dal momento
che laddove le imprese escluse fossero state 27 (anziché 28)
la soglia di anomalia sarebbe stata pari a 25,6846, si che
la propria offerta diverrebbe con certezza quella con il
minor ribasso percentuale tra le offerte non anomale. Cita a
supporto della propria tesi anche il Comunicato del
Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 secondo cui sotto la
vigenza del D.lgs. 50/2016 l’art. 121 del d.P.R. 207 del
2010 non può più essere applicato con conseguente non
applicabilità del criterio c.d. relativo ivi previsto,
dovendosi fare esclusivo riferimento al dato numerico delle
offerte e non al valore delle stesse.
Si è costituita la Regione Umbria eccependo l’infondatezza
del gravame, poiché in sintesi:
- l’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010 avrebbe carattere non già
innovativo ma di norma interpretativa dell’art. 86 comma 1,
del D.lgs. 163/2006, il cui testo coincide con l’art. 97,
comma 2, del D.lgs. 50/2016;
- la lettura fornita dal Presidente dell’ANAC nel comunicato del
05.10.2010 sarebbe del tutto errata;
- la stessa ANAC avrebbe in realtà avallato l’operato della Regione
Umbria avendo ricevuto il 20.02.2017 tutta la documentazione
di gara nell’ambito del protocollo d’intesa siglato con la
stessa Autorità di Vigilanza senza nulla eccepire in merito
al calcolo della soglia di anomalia;
- la propria assoluta mancanza di colpa in riferimento alla domanda
risarcitoria ex adverso formulata.
...
2.- Viene all’esame del Collegio la
corretta interpretazione dell’art. 97, comma 2, lett. e),
del D.lgs. 50/2016 ed in particolare la questione se nel
caso di offerte recanti l’identico ribasso, ai fini del c.d.
taglio delle ali, devono essere conteggiati o meno tutti i
ribassi, con conseguente possibile esclusione di un numero
di offerte superiore alla percentuale del 10% delle offerte
di maggiore o minor ribasso.
Trattasi di questione invero ben nota in riferimento
all’omologo disposto di cui all’art. 86, c. 1, del D.lgs.
163 del 2006 e relativa norma di attuazione contenuta
nell’art. 121 del d.P.R. 207 del 2010, in passato oggetto di
contrasti giurisprudenziali.
3. - Secondo un primo orientamento infatti,
nel caso in cui siano state presentate due o più
offerte aventi la medesima riduzione percentuale che si
trovino nella fascia delle imprese rientranti nel 10% ogni
offerta deve essere considerata individualmente (c.d.
criterio assoluto) poiché la soluzione opposta comporterebbe
il superamento del limite fissato dal legislatore nel 10% e
si porrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 86,
c. 1, del D.lgs. 163 del 2006 in assenza di ragioni
sostenibili o ispirate all’interesse pubblico
(ex multis Consiglio di Stato sez. V, 28.08.2014, n.
4429).
Al contrario, secondo un diverso orientamento
giurisprudenziale avvalorato anche dai pareri della Autorità
di Vigilanza sui contratti pubblici (cfr. parere Autorità
vigilanza contratti pubblici n. 133 del 24.07.2013; parere
Anac n. 87 del 23.04.2014), nel caso vi
siano offerte portanti lo stesso ribasso nella fascia delle
ali, devono essere conteggiati tutti i ribassi con
conseguente possibile esclusione di un numero di offerte
superiore alla percentuale del 10% delle offerte di maggiore
o minore ribasso
(cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 18.06.2001, n. 3216; id.
sez. V, 06.07.2012, n. 3953; 15.10.2009, n. 6323; id. sez.
V, 15.03.2006, n. 1373; C.G.A.S., 26.07.2006, n. 439; id.
21.07.2008, n. 608; 15.10.2009, n. 6323; TAR Liguria, sez.
II, 12.04.2006, n. 364; TAR Umbria, 11.04.2013, n. 230).
Si è infatti osservato che con il taglio delle ali la norma
persegue l’intento di eliminare in radice l’influenza che
possono avere sulla media dei ribassi, offerte
manifestamente distanti dai valori medi e il ribasso, così
individuato, ha natura oggettiva, nel senso che riporta ad
unica categoria anche più offerte quando, casualmente o
meno, esse hanno la medesima misura; pertanto l’indicazione
del 10% delle offerte da escludere dalla media non deve
essere inteso in senso soltanto numerico, ma anche in senso
logico, cosicché a determinare il valore medio in questione
concorrono offerte che, per la loro oggettiva consistenza,
siano identiche ad altra ritenuta per definizione
ininfluente o fuorviante, venendo altrimenti a mancare,
nello scarto degli estremi, la funzione correttiva
sostanziale sia del computo della media, sia del calcolo
dello scarto aritmetico medio dei ribassi percentuali, cui
l’articolo 86 del Codice fa riferimento.
I dubbi interpretativi -secondo la richiamata
giurisprudenza- dovevano comunque ritenersi superati alla
luce della norma regolamentare di cui all’articolo 121,
primo comma, del d.P.R. n. 207 del 2010, a mente del quale “Qualora
nell’effettuare il calcolo del dieci per cento di cui
all’art. 86, comma 1, del codice, siano presenti una o più
offerte di eguale valore rispetto alle offerte da
accantonare, dette offerte sono altresì da accantonare ai
fini del successivo calcolo della soglia di anomalia”.
Una volta ammesso, infatti, che il tenore letterale
dell’articolo 86, comma 1, del D.lgs. n. 163 del 2006 può
essere superato per via interpretativa per le offerte ‘a
cavallo’ delle ali, non vi sono ragioni per non
applicare lo stesso criterio alle offerte uguali che si
collocano all’interno delle ali (entro l’ala superiore o
entro l’ala inferiore, ovvero nel 10% delle offerte con
maggior ribasso o nel 10% delle offerte con minor ribasso),
criterio del c.d. “blocco unitario”.
Identificare ciascuna offerta con uno specifico ribasso
(accorpando le offerte con valori identici) consente, nella
fase del taglio delle ali, di depurare la base di calcolo
dai ribassi effettivamente marginali (definiti ex lege
nel limite del 10% superiore e inferiore di oscillazione
delle offerte). In questa prospettiva è irrilevante che i
ribassi identici siano a cavallo o all’interno delle ali,
perché si tratta comunque di valori che se considerati
distintamente limitano l’utilità dell’accantonamento e
ampliano eccessivamente la base di calcolo della media
aritmetica e dello scarto medio aritmetico, rendendo
inaffidabili i risultati.
L’articolo 121, comma 1, del d.P.R. n. 207 del 2010 aveva
dunque eliminato (secondo la prevalente giurisprudenza) ogni
dubbio interpretativo, specificando che le offerte da
accantonare sono quelle identiche, senza distinzione tra
ribassi ‘a cavallo’ o all’interno delle ali. Il che
equivale a dire che le offerte identiche devono essere
considerate, in questa fase, come un’offerta unica, mentre
nella fase successiva, calcolando la media aritmetica e lo
scarto medio aritmetico, si utilizzano tutte le offerte,
anche quelle con valori identici.
E, infatti, quando sia stato circoscritto in modo rigoroso
l’intervallo dei ribassi attendibili ai fini del calcolo
della soglia di anomalia, è ragionevole che alla definizione
delle medie partecipino tutte le offerte non accantonate.
Tale interpretazione, tra l’altro, è stata correttamente
ritenuta più garantista dell’interesse pubblico e previene
manipolazioni della gara e del suo esito ostacolando
condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali
di ribasso (ex plurimis Consiglio di Stato sez. V,
08.06.2015 n. 2813; id. sez. IV, 29.02.2016, n. 818).
3.1. - Tanto premesso va evidenziato
-come correttamente prospettato dalla difesa della Ri.Co.-
che la descritta questione è stata recentemente
nuovamente posta in discussione e rimessa, ai sensi
dell’art. 99 cod. proc. amm., all’Adunanza Plenaria
(Consiglio di Stato, sez. III,
ordinanza 13.03.2017 n. 1151).
Precisamente sono stati proposti i seguenti quesiti:
a) se nel calcolo del 10% delle offerte aventi
maggiore e/o minore ribasso, ai sensi dell’art. 86, comma 1,
del d.lgs. n. 163 del 2006, occorra computare tutte le
offerte aventi medesimo valore (e, dunque, medesimo ribasso)
singolarmente una ad una o, invece, quale unica offerta
(c.d. blocco unitario), facendo detta disposizione
riferimento, letteralmente, all’esclusione del 10% delle
offerte aventi maggiore e minore ribasso e non dei singoli
ribassi;
b) se la disposizione regolamentare dell’art. 121,
comma 1, secondo periodo, del d.P.R. n. 207 del 2010, nel
prevedere che «qualora nell’effettuare il calcolo del
dieci per cento di cui all’articolo 86, comma 1, del Codice
siano presenti una o più offerte di eguale valore rispetto
alle offerte da accantonare, dette offerte sono altresì da
accantonare ai fini del successivo calcolo della soglia di
anomalia», intenda o, comunque, presupponga che le
offerte aventi eguale valore rispetto a quelle da
accantonare siano considerate, “accantonate” e
accorpate come un’unica offerta o, invece, si limiti a
prevedere solo che debbano essere escluse (“accantonate”)
dal calcolo della soglia di anomalia le offerte che, pur non
rientrando nella quota algebrica del 10%, abbiano tuttavia
eguale valore rispetto a quelle da accantonare e cioè, per
logica necessità, a quelle situate al margine estremo delle
ali (c.d. offerte a cavallo).
3.2. - Come evidenziato dalla difesa della ricorrente
trattasi di questione inerente l’applicazione dell’art. 86,
comma 1, del D.lgs. 163/2006 e non già dell’art. 97, comma
2, lett. e), del nuovo Codice degli appalti pubblici
approvato con D.lgs. 2016 n. 50 applicabile “ratione
temporis” alla gara di che trattasi, ma nondimeno
rilevante, in considerazione della sostanziale identità
delle due norme.
Infatti a norma della prima “Nei contratti di cui al
presente codice, quando il criterio di aggiudicazione è
quello del prezzo più basso, le stazioni appaltanti valutano
la congruità delle offerte che presentano un ribasso pari o
superiore alla media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per
cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente
delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor
ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei
ribassi percentuali che superano la predetta media”.
Secondo il citato art. 97, comma 2, lett. e), del citato
D.lgs. 50/2016 “Quando il criterio di aggiudicazione è
quello del prezzo più basso la congruità delle offerte è
valutata sulle offerte che presentano un ribasso pari o
superiore ad una soglia di anomalia determinata, al fine di
non rendere predeterminabili dai candidati i parametri di
riferimento per il calcolo della soglia, procedendo al
sorteggio, in sede di gara, di uno dei seguenti metodi:
…omissis …… e) media aritmetica dei ribassi percentuali di
tutte le offerte ammesse, con esclusione del dieci per
cento, arrotondato all'unità superiore, rispettivamente
delle offerte di maggior ribasso e di quelle di minor
ribasso, incrementata dello scarto medio aritmetico dei
ribassi percentuali che superano la predetta media,
moltiplicato per un coefficiente sorteggiato dalla
commissione giudicatrice all’atto del suo insediamento tra i
seguenti valori: 0,6; 0,8; 1; 1,2; 1,4;”.
3.3. - Dovendosi dar atto della sostanziale identità di
contenuto tra le due norme (fatta eccezione per
l’applicazione del coefficiente sorteggiato dalla
Commissione) ritiene la Ri.Co. elemento decisivo
l’intervenuta abrogazione (ad opera dell’art. 217, c. 1,
lett. u), del D.lgs. 50 del 2016) dell’art. 121 del d.P.R.
207 del 2010, dal momento che il criterio c.d. relativo ai
fini del calcolo delle ali traeva il proprio presupposto da
tal innovativo disposto regolamentare.
Ritiene il Collegio la suindicata questione
interpretativa particolarmente problematica.
3.4. - Infatti, da un lato potrebbe aderirsi alla
motivata tesi della Regione che fa leva sul descritto
orientamento pretorio formatosi prima dell’entrata in vigore
del Regolamento attuativo del Codice dei Contratti pubblici
del 2006, secondo cui sulla base del citato art. 86 (e ancor
prima dell’art. 21, c. 1-bis, della legge “Merloni”
n. 109/1994 e s.m.) va dato peso al valore delle offerte e
non solo al relativo numero, considerando in modo unitario
quelle aventi il medesimo ribasso, dando la stura alla
possibile esclusione di un numero di offerte superiore alla
percentuale del dieci per cento delle offerte di maggiore o
minor ribasso.
La ragione di tale interpretazione era stata individuata
-come visto- nella prevenzione di manipolazioni della gara
frustrando altrimenti la ricerca voluta dal citato art. 86
di un indicatore ragionevole della soglia di anomalia, così
vanificando in definitiva la ricerca del miglior contraente
per la P.A.
Ne consegue, così opinando, la natura puramente
interpretativa e non già innovativa della pur abrogata
disposizione contenuta nell’art. 121 del d.P.R. 207/2010,
limitandosi a chiarire il contenuto della disposizione della
norma primaria secondo un significato affermatosi nella
prassi e ormai diventato regola di diritto vivente.
Ne sarebbe dimostrazione poi la stessa natura esecutiva ed
attuativa del Regolamento approvato con d.P.R. 207 del 2010
(Consiglio di Stato sez. affari normativi, 17.09.2007, n.
3262/2007) si da impedire in subiecta materia
l’introduzione di disposizioni praeter legem.
3.5. - Al contempo anche la tesi prospettata dalla
ricorrente non manca invero di elementi persuasivi, primo
fra tutti l’intervenuta abrogazione dell’art. 121 del d.P.R.
207/2010, norma che anche a non volerne riconoscere il
carattere innovativo aveva comunque assunto un indubbio
valore sul piano ermeneutico.
Osserva poi il Collegio come la finalità di ostacolare
condotte collusive in sede di formulazione delle percentuali
di ribasso e prevenire manipolazioni della gara sia in
realtà già a monte affrontata e disciplinata dal nuovo
Codice degli appalti pubblici approvato con D.lgs. 50/2016,
dal momento che il previsto (art. 97) innovativo meccanismo
di sorteggio tra ben 5 diversi metodi per il calcolo della
soglia di anomalia rende oltremodo difficoltosa tale
manipolazione, a beneficio della effettività del confronto
concorrenziale.
Con la conseguenza che venendo meno le ragioni di interesse
pubblico alla base di tale lettura logico-sistematica, il
criterio c.d. assoluto elaborato dalla giurisprudenza
potrebbe in quanto in ipotesi maggiormente aderente al
tenore letterale (art. 12, comma 1, disp. Prel. c.c.)
riprendere corpo (vedi sul punto le analoghe argomentazioni
del Consiglio di Stato nella citata ordinanza n. 1151 del
2017).
3.6. - D’altronde nessuna decisiva
rilevanza può attribuirsi al comunicato del
Presidente dell’ANAC del 05.10.2016 pervicacemente invocato
dalla difesa della Ri.Co..
Come noto, il Codice degli appalti pubblici
approvato con D.lgs. 50 del 2016 ha previsto per la relativa
attuazione, in completa rottura rispetto al sistema
precedente, non più un’unica fonte regolamentare avente
forma e sostanza di regolamento governativo bensì una
pluralità di atti, di natura eterogenea, tra cui per quello
che qui interessa, le linee guida approvate dall’ANAC.
Tali linee guida, costituendo una
novità assoluta nella contrattualistica pubblica, si
distinguono in vincolanti (vedi ad es. art. 31, comma
5, D.lgs. 50/2016) e non vincolanti, quest’ultime
invero molto più frequenti e assimilabili -secondo una tesi-
alla categoria di stampo internazionalistico della c.d. “soft
law”
(Consiglio di Stato parere n. 1767 del 02.08.2016)
oppure -seconda altra opzione- alle circolari
intersoggettive interpretative con rilevanza esterna,
operando il Codice appalti un rinvio formale alle linee
guida (es. art. 36, comma 7, D.lgs. 50/2016).
Senza dover affrontare tale tematica, per quel che qui
rileva va invece senz’altro affermata la
natura di meri pareri dei comunicati del Presidente
dell’ANAC, privi di qualsivoglia efficacia vincolante per le
stazioni appaltanti, trattandosi di meri opinamenti inerenti
l’interpretazione della normativa in tema di appalti
pubblici.
Infatti, per quanto a norma dell’art. 213 del D.lgs. 50 del
2016 il novero dei poteri e compiti di vigilanza affidati
all’ANAC sia invero penetrante ed esteso, a presidio della
più ampia legalità nell’attività contrattuale delle stazioni
appaltanti e della prevenzione della corruzione,
non può ammettersi nel vigente quadro
costituzionale, in tal delicato settore, un generale
vincolante potere interpretativo con effetto erga omnes
affidato ad organo monocratico di Autorità Amministrativa
Indipendente, i cui comunicati ermeneutici -per
quanto autorevoli- possono senz’altro essere disattesi.
Diversamente dalle linee guida, per
la cui formazione è previsto un percorso procedimentalizzato
e partecipato
(vedi
art. 213, comma 2, D.lgs. 50 del 2016) -nel solco
d’altronde degli stessi principi affermati dalla
giurisprudenza in tema di esercizio di poteri di tipo
normativo o regolatorio da parte di Autorità Indipendenti
(Consiglio di Stato sez. atti normativi, 06.02.2006; TAR
Lombardia Milano, 04.02.2006, n. 246)- i
comunicati del Presidente dell’ANAC sono dunque pareri
atipici e privi di efficacia vincolante per la stazione
appaltante e gli operatori economici.
3.7. - Alla stregua delle suesposte considerazioni
nessuna rilevanza può dunque avere, ai fini del
presente giudizio, il comunicato ANAC del 05.10.2016
da cui la Regione Umbria poteva discostarsi senza dover
fornire alcuna motivazione.
4. - Per i suesposti motivi ritiene il
Collegio la sussistenza di peculiari ragioni di opportunità
tali da sospendere il giudizio in attesa della decisione
dell’Adunanza Plenaria, dal momento che in considerazione
della particolare complessità della questione
-nonché dello stesso interesse pubblico al completamento dei
lavori e al contenimento della spesa pubblica stante la
responsabilità oggettiva sussistente in subiecta materia
(C.G.U.E. 30.09.2010 C - 314/09)- la
sentenza resa dall’adito Tribunale rischierebbe di risultare
“inutiliter data” ove in contrasto con le indicazioni
dell’organo nomofilattico.
4.1. - E ciò anche nella pur consapevole mancanza sia di una
previsione normativa (del tipo di quella recentemente
introdotta in via sperimentale per il solo PAT) che
autorizzi anche il Tribunale Amministrativo a deferire
direttamente la questione alla Plenaria, riferendosi come
noto l’art. 99 cod. proc. amm. al solo giudizio d’appello,
sia invero di una norma che consenta nel caso di specie la
sospensione del giudizio, non sussistendo i presupposti
tipici indicati dagli artt. 295 e 296 c.p.c. (richiamati
dall’art. 79 cod. proc. amm.) stante la stessa opposizione
manifestata dalla difesa regionale al rinvio dell’udienza.
5. – Per tutti i suesposti motivi ritiene
il Collegio di dover sospendere il giudizio sino alla
pubblicazione della decisione dell’Adunanza Plenaria a
seguito della rimessione operata dalla V Sezione del
Consiglio di Stato
(TAR Umbria,
ordinanza 31.05.2017 n. 428 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Oltre l'anno dalla mancata conclusione del
procedimento è necessaria la nuova istanza.
Con la
sentenza
28.04.2017 n. 427, la
Sez. II del TAR Puglia-Bari, ha stabilito l’irricevibilità
del ricorso notificato oltre il termine di un anno (termine
previsto dall’articolo 31 Cpa per la proposizione
dell’azione avverso il silenzio della pubblica
amministrazione) dall’astratta scadenza del termine di
conclusione del procedimento.
Il principio di diritto
Già il Consiglio di Stato ha infatti evidenziato, sul punto,
che il legislatore, al fine di attenuare il rischio che,
eliminato l’onere della diffida, il silenzio-inadempimento
potesse divenire inoppugnabile dopo il decorso del termine
(normalmente) più breve previsto per proposizione dei
ricorsi davanti al giudice amministrativo, ha ritenuto
congruo assegnare alla parte istante il termine di un anno
(dal termine assegnato all’Amministrazione per la
conclusione del procedimento) per esercitare l’azione
tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia.
Decorso tale termine la parte, se ha ancora interesse ad
ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere
alla stessa una nuova istanza ed eventualmente, se
l’Amministrazione non provvede nel termine procedimentale
assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo silenzio
inadempimento formatosi (Cons. Stato, sez. III, n.
1050/2015).
Riguardo a tale richiesta, peraltro, se rispetto ad essa non
può ravvisarsi una posizione qualificata e differenziata di
interesse legittimo della parte istante, né un obbligo di
provvedere, e quindi di rispondere a tale richiesta in capo
al Comune, l’inerzia diviene non qualificabile come
silenzio-inadempimento e il ricorso, in parte qua, non può
che essere dichiarato inammissibile.
Il caso
Nella specie, si controverteva sul se considerare
irricevibile il ricorso notificato oltre il termine di un
anno (termine previsto dall’art. 31 citata) dall’astratta
scadenza del termine di conclusione del procedimento,
nonostante l'invio, ad opera della parte istante, di una
nota inidonea a far sorgere una posizione qualifica e
differenziata di interesse legittimo, e neppure un obbligo
di provvedere in capo alla Pa.
Argomenti, spunti e considerazioni
La decisione del Tar Puglia persuade.
In primo luogo, perché decorso il termine di un anno dal
termine assegnato all’Amministrazione per la conclusione del
procedimento, se la parte istante ha ancora interesse ad
ottenere una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere
alla stessa una nuova istanza, che -per essere tale- non può
essere evidentemente troppo diversa dalla prima, nella forma
e soprattutto nella sostanza.
Inoltre, anche al di fuori dei casi di nuova istanza,
ogniqualvolta l'istanza, per come formulata, non faccia
sorgere una posizione qualifica e differenziata di interesse
legittimo, né un obbligo di provvedere in capo
all'amministrazione, l’inerzia diviene non qualificabile
come silenzio-inadempimento e quindi il ricorso, in parte
qua, non può che essere dichiarato inammissibile (articolo
Quotidiano Enti Locali & Pa del 26.05.2017).
---------------
MASSIMA
Con il gravame indicato in epigrafe, parte ricorrente ha
chiesto a questo Tribunale di dichiarare l’illegittimità del
silenzio serbato dal Comune di Molfetta, in ordine
all’istanza acquisita con il prot. n. 41626 del 15.07.2011,
nonché in ordine alle istanze riportate nella diffida ad
adempiere del 07.07.2016.
L’Amministrazione comunale si è costituita in giudizio
eccependo l’inammissibilità del ricorso per essere stato
presentato ben oltre i termini di decadenza previsti dagli
articoli 30 e 31 del codice del processo amministrativo.
Il Comune di Molfetta ha evidenziato, inoltre, che con nota
del 01.09.2011, era stato comunicato alla ricorrente, con
provvedimento espresso, che l’istanza de qua era in
attesa di essere istruita seguendo l’ordine cronologico di
presentazione, giusta disposizione di cui all’art. 34 del
Piano generale degli impianti pubblicitari e delle pubbliche
affissioni.
Alla camera di consiglio del 04.04.2017 la causa è stata
trattenuta in decisione.
Il Collegio, in via preliminare, deve esaminare l’eccezione
d’inammissibilità del ricorso sollevata dal Comune di
Molfetta.
L’eccezione è fondata e va accolta.
Il ricorso è irricevibile considerato che
lo stesso è stato inviato alla notifica il 04.10.2016 e,
dunque, oltre il termine di un anno (termine previsto
dall’art. 31 del codice del processo amministrativo per la
proposizione dell’azione avverso il silenzio della pubblica
amministrazione) dall’astratta scadenza del termine di
conclusione del procedimento di che trattasi (l’istanza
risale, infatti, al 15.07.2011).
Sul punto, il Consiglio di Stato, ha evidenziato che “Il
legislatore, infatti, al fine di attenuare il rischio che,
eliminato l’onere della diffida, il silenzio-inadempimento
potesse divenire inoppugnabile dopo il decorso del termine
(normalmente) più breve previsto per proposizione dei
ricorsi davanti al giudice amministrativo, ha ritenuto
congruo assegnare alla parte istante il termine di un anno
(dal termine assegnato all’Amministrazione per la
conclusione del procedimento) per esercitare l’azione
tendente ad accertare l’illegittimità dell’inerzia. Decorso
tale termine la parte, se ha ancora interesse ad ottenere
una pronuncia dall’Amministrazione, può rivolgere alla
stessa una nuova istanza ed eventualmente, se
l’Amministrazione non provvede nel termine procedimentale
assegnato, può impugnare tempestivamente il nuovo
silenzio-inadempimento formatosi”
(Cons. Stato, sez. III, 03.03.2015, n. 1050).
Infine, per quanto riguarda l’ulteriore richiesta contenuta
nella diffida del 07.07.2016 (sulla quale la ricorrente, con
il ricorso de quo, ha chiesto a questo Tribunale di
pronunciarsi), consistente nel comunicare quali iniziative
l’Ente comunale avesse adottato per conformarsi al rispetto
della normativa vigente in tema di autorizzazioni per
l’installazione di impianti pubblicitari, nonché, in tema di
rispetto dei canoni di buona amministrazione, del principio
costituzionale di libertà di iniziativa economica nonché,
dei principi di trasparenza, pubblicità ed imparzialità, il
Collegio si limita ad evidenziare che in
relazione a tale richiesta, come formulata, non si ravvisa
né una posizione qualifica e differenziata di interesse
legittimo della ricorrente, né un obbligo di provvedere (rectius
di rispondere a tale richiesta) in capo al Comune; in
assenza di un obbligo di provvedere in capo
all’Amministrazione, l’inerzia non è qualificabile come
silenzio-inadempimento e il ricorso, in parte qua,
non può che essere dichiarato inammissibile.
Inammissibile per la sua assoluta genericità risulta,
infine, la richiesta di condannare il Comune di Molfetta al
risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2-bis, comma 1
della legge n. 241 del 1990.
Sul punto, si evidenzia che, recentemente, il Consiglio di
Stato ha chiarito che “l'ingiustizia e
la sussistenza stessa del danno non possono, in linea di
principio, presumersi iuris tantum, in meccanica ed
esclusiva relazione al ritardo nell'adozione del
provvedimento amministrativo favorevole, ma il danneggiato
deve, ex art. 2697 c.c., provare tutti gli elementi
costitutivi della relativa domanda
(si veda ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 04.05.2011,
n. 2675)”
(Cons. Stato, sez. V, 25.03.2016, n. 1239). |
UTILITA' |
EDILIZIA PRIVATA:
RISTRUTTURAZIONI EDILIZIE: LE AGEVOLAZIONI FISCALI
(Agenzia delle Entrate, 14.06.2017). |
SICUREZZA LAVORO:
Il
D.Lgs. 09.04.2008 n. 81 -noto come Testo Unico in
materia di salute e sicurezza sul lavoro- in materia di
tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro,
integrato con circolari, accordi Stato Regioni, interpelli
ed altre fonti normative ed amministrative (aggiornato
nell'edizione maggio 2017 - tratto
da
www.ispettorato.gov.it). |
VARI:
VADEMECUM PER ACQUISTARE O AFFITTARE CASA
(C.C.I.A.A. di Milano, aprile 2017). |
SINDACATI & ARAN |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Banca dati contratti integrativi – Comunicazione a tutte le
pubbliche amministrazioni.
L’Aran e il Cnel hanno reso disponibile, attraverso una
procedura WEB, la banca dati dei contratti integrativi delle
amministrazioni pubbliche, consultabile all’indirizzo:
www.contrattintegrativipa.it.
Si tratta di una banca dati che raccoglie tutti i contratti
integrativi (o di secondo livello) stipulati dalle
amministrazioni pubbliche e dai sindacati sul territorio.
I contratti integrativi raccolti –oltre 25.000 fino ad oggi-
sono inviati da ciascuna amministrazione pubblica all’Aran
ed al Cnel mediante la procedura di trasmissione congiunta
che è attiva dal 01.10.2015.
Nella logica degli “open data”, la banca dati sarà
accessibile a tutti. I dati saranno consultabili e
scaricabili mediante “filtri di ricerca” che
consentiranno estrazioni per singola amministrazione, per
territorio di riferimento, per anno di trasmissione.
Questo strumento consentirà inoltre alle amministrazioni di
ridurre i propri oneri informativi in materia di
trasparenza. Le nuove norme introdotte con il cosiddetto
FOIA sollevano infatti le amministrazioni pubbliche
dall’obbligo di pubblicazione dei contratti integrativi
inviati alla banca dati, a partire dal prossimo 23 giugno.
In tal modo, i cittadini interessati, invece di consultare
il sito di ciascuna amministrazione, avranno a disposizione
un’unica pagina web “nazionale” nella quale saranno
consultabili (e scaricabili) tutti i contratti integrativi
acquisiti dalla banca dati.
Il nuovo strumento mette anche a disposizione di studiosi e
istituzioni di ricerca, interessati al tema delle relazioni
sindacali nella pubblica amministrazione, un importante
patrimonio informativo sul quale sarà possibile effettuare
elaborazioni e ricerche ad hoc (19.06.2017 -
link a www.aranagenzia.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Semplificate le procedure per le progressioni verticali
nel Pubblico Impiego (CGIL-FP di Bergamo,
nota 25.05.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI -
Area II della dirigenza
(ARAN, gennaio 2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI -
Personale non dirigente
(ARAN, gennaio
2017). |
SEGRETARI COMUNALI:
RACCOLTA SISTEMATICA DELLE DISPOSIZIONI CONTRATTUALI -
Segretari comunali e provinciali
(ARAN, gennaio
2017). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi -
Istituto contrattuale:
Permessi retribuiti
(ARAN, dicembre 2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi -
Istituto contrattuale:
Permessi brevi
(ARAN, dicembre 2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Raccolta sistematica degli orientamenti applicativi -
Istituto contrattuale:
Diritto allo studio
(ARAN, dicembre 2016). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
ENTI LOCALI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 30.06.2017, "Recepimento
accordo conferenza unificata moduli unificati e
standardizzati in materia di attività commerciali e
assimilate - d.lgs. n. 126/2016 e d.lgs. n. 222/2016" (decreto
D.U.O. 27.06.2017 n. 7649). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 26 del 29.06.2017, "Aggiornamento
dei bacini di utenza della rete di distribuzione carburanti
dei prodotti metano e gpl sulla rete stradale ordinaria"
(decreto
D.U.O. 22.06.2017 n. 7494). |
ENTI LOCALI:
G.U. 26.06.2017 n. 147 "Disposizioni integrative e
correttive al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175,
recante testo unico in materia di società a partecipazione
pubblica"
(D.Lgs.
16.06.2017 n. 100). |
APPALTI -
EDILIZIA PRIVATA - ENTI LOCALI - PATRIMONIO:
G.U. 23.06.2017 n. 144, suppl. ord. n. 31/L, "Testo
del decreto-legge 24.04.2017, n. 50, coordinato con la legge
di conversione 21.06.2017, n. 96, recante:
«Disposizioni urgenti in materia finanziaria, iniziative a
favore degli enti territoriali, ulteriori interventi per le
zone colpite da eventi sismici e misure per lo sviluppo»".
---------------
Di particolare interesse si leggano:
• Art. 13-quater
- Sospensione del conio di monete da 1 e 2 centesimi
• Art. 21 - Disposizioni in favore delle fusioni di comuni
• Art. 52-ter - Modifiche al codice dei contratti pubblici
• Art. 52-quater - Organizzazione dell’ANAC
• Art. 54 - Documento Unico di Regolarità Contributiva
• Art. 54-bis - Disciplina delle prestazioni occasionali.
Libretto Famiglia. Contratto di prestazione occasionale
• Art. 62 - Costruzione di impianti sportivi
• Art. 65-bis - Modifica all’articolo 3 del testo unico di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 06.06.2001,
n. 380
---------------
In Gazzetta Ufficiale la Manovrina (legge n. 96/2017).
Ok alla cessione dell'ecobonus condomini alle banche. Il
sismabonus esteso all'acquisto di case demolite e
ricostruite nelle zone a rischio 1 anche con variazione
volumetrica. Possibilità di cambiare la destinazione d’uso
di un immobile in seguito ad interventi di restauro o
risanamento (26.06.2017 - link a
www.casaeclima.com).
...
La Manovrina è legge: tutte le novità punto per punto.
Ok alla cessione dell'ecobonus condomini alle banche. Il
sismabonus esteso all'acquisto di case demolite e
ricostruite nelle zone a rischio 1 anche con variazione
volumetrica. Possibilità di cambiare la destinazione d’uso
di un immobile in seguito ad interventi di restauro o
risanamento
(15.06.2017 - link a
www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA:
G.U. 23.06.2017 n. 144, "Disposizioni recanti modifiche
al decreto legislativo 08.03.2006, n. 139, concernente le
funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili del
fuoco, nonché al decreto legislativo 13.10.2005, n. 217,
concernente l’ordinamento del personale del Corpo nazionale
dei vigili del fuoco, e altre norme per l’ottimizzazione
delle funzioni del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ai
sensi dell’articolo 8, comma l, lettera a) , della legge
07.08.2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle
amministrazioni pubbliche" (D.Lgs.
29.05.2017 n. 97).
---------------
Prevenzione incendi, dall'8 luglio sanzioni più severe per
le imprese che omettono la SCIA.
Pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legislativo di
riforma del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (26.06.2017
- link a www.casaeclima.com). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 22.06.2017, "Approvazione
del secondo bando «Criteri e procedure per concessione ai
comuni di contributi una tantum a fondo perduto per la
rimozione del cemento-amianto esistente in pubblici edifici»"
(decreto
D.S. 15.06.2017 n. 7112). |
URBANISTICA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 25 del 21.06.2017, "Disposizioni
regionali concernenti l’attuazione del piano di gestione dei
rischi di alluvione (PGRA) nel settore urbanistico e di
pianificazione dell’emergenza, ai sensi dell’art. 58 delle
norme di attuazione del piano stralcio per l’assetto
idrogeologico (PAI) del bacino del Fiume Po così come
integrate dalla variante adottata in data 07.12.2016 con
deliberazione n. 5 dal comitato istituzionale dell’autorità
di bacino del Fiume Po" (deliberazione
G.R. 19.06.2017 n. 6738). |
ENTI LOCALI - VARI: G.U.
19.06.2017 n. 140 "Modifiche al DM 13.12.2016, recante
Direttive e Calendario per le limitazioni alla circolazione
stradale fuori dai centri abitati per l’anno 2017 nei giorni
festivi e particolari, per i veicoli di massa superiore a
7,5 tonnellate"
(Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti,
decreto 27.04.2017).
---------------
Dal 19.12.2017 sarà possibile omologare e installare i
misuratori di tempo residuo dei cicli semaforici.
Tra pochi mesi sarà possibile installare sugli impianti
semaforici i dispositivi che avvisano gli utenti circa il
tempo residuo del colore attivo. Ma per aggiornare i vecchi
impianti andrà cambiato tutto il cuore del sistema. Meglio
mettere semafori nuovi. |
AMBIENTE-ECOLOGIA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 16.06.2017, "Riordino
e razionalizzazione delle disposizioni attuative della
disciplina regionale in materia di distribuzione carburanti
e sostituzione delle dd.gg.rr. 11.06.2009, n. 9590,
02.08.2013, n. 568, 23.01.2015 n. 3052, 25.09.2015, n. 4071,
26.09.2016 n. 5613" (deliberazione
G.R. 09.06.2017 n. 6698). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 14.06.2017, "Quarto
aggiornamento 2017 dell’elenco degli enti locali idonei
all’esercizio delle funzioni paesaggistiche (l.r. 12/2005,
art. 80)" (decreto
D.G. 08.06.2017 n. 6724). |
APPALTI - INCARICHI PROFESSIONALI: G.U.
13.06.2017 n. 135, "Misure per la tutela del lavoro
autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire
l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro
subordinato" (Legge
22.05.2017 n. 81).
---------------
Di particolare interesse, si legga:
• Art. 12. -
Informazioni e accesso agli appalti pubblici e ai bandi per
l’assegnazione di incarichi e appalti privati. |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2017, "Pubblicazione
ai sensi dell’articolo 5 del regolamento regionale
21.01.2000, n. 1, dei nominativi e degli estremi dei
provvedimenti di riconoscimento di tecnico competente in
acustica ambientale alla data del 31.05.2017, in attuazione
dell’articolo 2, commi 6 e 7, della legge 26.10.1995, n. 447
e della deliberazione di Giunta regionale 06.08.2012, n. IX/3935"
(comunicato
regionale 06.06.2017 n. 102). |
ENTI
LOCALI - VARI: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 24 del 12.06.2017, "Indirizzi
regionali per l’organizzazione dei controlli delle ATS sulle
case dell’acqua" (decreto
D.U.O. 05.06.2017
n. 6589). |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 23 del 09.06.2017, "Monitoraggio
degli interventi di recupero dei vani e locali seminterrati
in attuazione della legge regionale 10.03.2017, n. 7" (decreto
D.S. 05.06.2017 n. 6555). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
07.06.2017 n. 130, "Modifiche e integrazioni al decreto
legislativo 30.03.2001, n. 165, ai sensi degli articoli 16,
commi 1, lettera a), e 2, lettere b), c), d) ed e) e 17,
comma 1, lettere a), c), e), f), g), h), l), m), n), o), q),
r), s) e z), della legge 07.08.2015, n. 124, in materia di
riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche" (D.Lgs.
25.05.2017 n. 75). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: G.U.
07.06.2017 n. 130, "Modifiche al decreto legislativo
27.10.2009, n. 150, in attuazione dell’articolo 17, comma 1,
lettera r), della legge 07.08.2015, n. 124" (D.Lgs.
25.05.2017 n. 74). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
05.06.2017 n. 128, suppl. ord. n. 26, "Accordo tra il
Governo, le Regioni e gli Enti locali concernente l’adozione
di moduli unificati e standardizzati per la presentazione
delle segnalazioni, comunicazioni e istanze. Accordo, ai
sensi dell’articolo 9, comma 2, lettera c) del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281 (Repertorio atti n. 46/CU)"
(Presidenza del Consiglio dei Ministri, Conferenza
Unificata,
accordo 04.05.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: G.U.
22.05.2017 n. 117, "Criteri per la realizzazione da parte
dei comuni di sistemi di misurazione puntuale della quantità
di rifiuti conferiti al servizio pubblico o di sistemi di
gestione caratterizzati dall’utilizzo di correttivi ai
criteri di ripartizione del costo del servizio, finalizzati
ad attuare un effettivo modello di tariffa commisurata al
servizio reso a copertura integrale dei costi relativi al
servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti
assimilati" (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del
Territorio e del Mare,
decreto 20.04.2017). |
ENTI LOCALI: G.U.
24.04.2017 n. 95, suppl. ord. n. 20/L, "Disposizioni
urgenti in materia finanziaria, iniziative a favore degli
enti territoriali, ulteriori interventi per le zone colpite
da eventi sismici e misure per lo sviluppo" (D.L.
24.04.2017 n. 50). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 16 del 21.04.2017, "Indicazioni
per la presentazione a Regione Lombardia Delle istanze per
tecnico competente in acustica conseguenti all’entrata in
vigore del d.lgs. 42/2017" (comunicato
regionale 18.04.2017 n. 65). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
URBANISTICA:
D. D'Alessandro,
L’esclusione dalla
normativa sugli appalti delle convenzioni non onerose per
l’amministrazione (fra programmazione urbanistica, interesse
pubblico ed interesse privato)
(28.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa e profili generali. 2. Alla
ricerca di una nozione di causa idonea a tutelare
l’interesse pubblico e quello privato. La funzione
economico-individuale, la gratuità, l’interesse patrimoniale
del disponente, il rischio di elusioni della disciplina dei
contratti. 3. La gratuità ed i controversi limiti
dell’urbanistica consensuale. Le opere a scomputo e l’art.
20, fra natura corrispettiva degli oneri tabellari e rischio
di elusioni del codice dei contratti. 4. Le parti. Le
tensioni in ordine ai requisiti dell’esecutore 5. La
(blanda) tipizzazione. I contenuti necessari della proposta.
6. L’oggetto, come programma delle attività preordinato alla
realizzazione dell’opera, fra autotutela civilistica e
pubblicistica. 7. Il presupposto della previsione dell’opera
nell’ambito di strumenti o programmi urbanistici.
Interrogativi sull’ammissibilità di proposte di modifica e
sulla configurabilità di un obbligo di provvedere. 8. La
disciplina applicabile fra contratti attivi, accordi,
attività di diritto privato e contratti esclusi. 9. Gli
incerti confini con i contratti di sponsorizzazione. 10.
Problemi e prospettive. |
EDILIZIA PRIVATA:
D. Marrama,
Le novità in tema di SCIA
del biennio 2015-2016 (28.06.2017 - tratto da
www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Gli esordi della D.I.A. tra scenari
innovativi, lacune e difetti normativi. 2. Il nuovo art.
18-bis della legge n. 241 del 1990. 3. Le modifiche al 3°
comma dell’art. 19 della legge n. 241 del 1990. 4. SCIA ed
autotutela. 5. Il nuovo art. 19-bis della legge 241 del
1990. 6. I poteri dell’Amministrazione dopo la scadenza del
termine originario per provvedere. 7. SCIA e tutela del
terzo. |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Berti Suman,
Scia e tutela del
terzo - Le questioni aperte dopo la riforma Madia ed i
decreti attuativi SCIA1 e SCIA2 (a margine della ordinanza
Tar Toscana, Sez. III, 11.05.2017, n. 667) (16.06.2017
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it)..
----------------
SOMMARIO: 1. Premessa: il completamento della
riforma della SCIA ed i nodi ancora irrisolti – 2.
L’ordinanza Tar Toscana, sez. III, 11.05.2017, n. 667: dubbi
di costituzionalità sulla mancanza di un termine espresso
per la sollecitazione da parte del terzo dei poteri
spettanti alla p.a. – 3. La tutela del terzo e la SCIA nella
l. n. 124 del 2015 e nei decreti attuativi: il problema del
coordinamento con la nuova disciplina dell’autotutela e del
termine massimo di diciotto mesi – 4. L’evoluzione della
giurisprudenza su SCIA e tutela del terzo – 4.1 L’intervento
dell’Adunanza Plenaria n. 15/2011 e del legislatore (art.
19, comma 6-ter): il tipo di azione esperibile da parte del
terzo – 4.2 La giurisprudenza più recente: contrasti sulla
natura dei poteri spettanti alla p.a. e sul termine per la
loro sollecitazione – 5. Le questioni aperte: a) il termine
di sollecitazione; b) la sua decorrenza; c) i provvedimenti
esigibili – 6. Le lacune dell’art. 19 secondo i pareri del
Consiglio di Stato e la necessità di una disciplina di
dettaglio: prospettive de iure condito e de iure condendo. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
A. Porporato,
Il “nuovo” accesso civico “generalizzato” introdotto dal
d.lgs. 25.05.2016, n. 97 attuativo della riforma Madia e i
modelli di riferimento (14.06.2017 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Le quattro tappe del cammino
normativo della trasparenza. – 2. La quinta tappa del
cammino normativo della trasparenza: la riforma Madia e il
d.lgs. 25.05.2016, n. 97. Le novità del d.lgs. 25.05.2016,
n. 97: alcuni rilievi critici. – 3. I modelli di riferimento
della riforma Madia e del d.lgs. 25.05.2016, n. 97. – 4.
Rilievi critici conclusivi. |
ATTI AMMINISTRATIVI: A.
Gualdani,
Il tempo nell’autotutela
(14.06.2017 - tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa. 2. La disciplina del
termine nell’annullamento d’ufficio e la sempre attuale
rilevanza del criterio della “ragionevolezza”. 3. La
“conferma” della discrezionalità dell’annullamento
d’ufficio: una prova di resistenza. 4. La natura del
termine. 5. L’indispensabilità della previsione di una
disciplina del tempo anche nella revoca. |
ATTI
AMMINISTRATIVI: F.
Nicotra,
I principi di proporzionalità e ragionevolezza dell’azione
amministrativa (14.06.2017 - tratto
da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Introduzione. 2. Il principio di
ragionevolezza: 2.1. Premessa. 2.2. Genesi del principio di
ragionevolezza in diritto costituzionale. 2.3. Il
significato del canone di ragionevolezza in diritto
costituzionale. 2.4. La ragionevolezza nel diritto
amministrativo. 3. Il principio di proporzionalità: origini
e natura. 3.1. I presupposti applicativi. 4. Il rapporto tra
il principio ragionevolezza e proporzionalità. 4.1.
Ragionevolezza e proporzionalità in materia costituzionale.
4.2. Ragionevolezza e proporzionalità in diritto
amministrativo. 5. I principi di proporzionalità e
ragionevolezza nella materia degli appalti. 6.
Considerazioni conclusive. |
APPALTI:
G. A. Giuffrè,
Revirement del Consiglio di Stato sull’immediata
impugnabilità della scelta del criterio di selezione delle
offerte: le novità (sostanziali e processuali) del Codice
dei contratti giustificano il superamento dell’Adunanza
Plenaria n. 1 del 2013? (14.06.2017 -
tratto da www.federalismi.it).
---------------
A fronte dell’illegittima adozione del criterio del
massimo ribasso da parte della stazione appaltante, il
concorrente che si ritiene danneggiato dalla scelta di
siffatto criterio, deve impugnare immediatamente la
documentazione di gara nella parte in cui lo prevede, senza
attendere l’esito della gara, in quanto sono già sussistenti
tutti i necessari presupposti:
a) la posizione giuridica legittimante avente a base, quale
interesse sostanziale, la competizione secondo
meritocratiche opzioni di qualità oltre che di prezzo;
b) la lesione attuale e concreta, generata dalla previsione del
massimo ribasso in difetto dei presupposti di legge; c)
l’interesse a ricorrere in relazione all’utilità
concretamente ritraibile da una pronuncia demolitoria che
costringa la stazione appaltante all’adozione del criterio
dell’offerta economicamente più vantaggiosa, ritenuto dalle
norme del nuovo codice quale criterio “ordinario” e generale
(Consiglio di Stato,
Sez. III,
sentenza 02.05.2017 n. 2014). |
EDILIZIA PRIVATA:
F. Lorenzotti,
I regimi amministrativi
degli interventi edilizi dopo il D.Lgs. n. 222 del 2016 (06.06.2017
- tratto da www.ambientediritto.it).
----------------
Sommario: 1. Riforme e ritocchi incessanti per il
testo unico dell’edilizia. – 2. La legge delega n. 124 del
2015 avvia la revisione dei titoli abilitativi edilizi. - 3.
Il decreto legislativo n. 126 del 2016 e la revisione della
SCIA. –3.1. Un principio difficilmente attuabile
nell’edilizia: la libertà delle attività private. - 3.2. I
moduli unificati e standardizzati per la presentazione di
domande, segnalazioni e comunicazioni. - 3.3. La ricevuta
della presentazione di domande, segnalazioni e
comunicazioni. – 4. Il decreto legislativo n. 127 del 2016 e
le modificazioni al procedimento per il rilascio del
permesso di costruire. - 5. Il decreto legislativo n. 222
del 2016 e la Tabella A, sezione II, sui titoli abilitativi
edilizi. - 6. Aspettando il glossario unico dell’edilizia. -
7. L’attività edilizia libera secondo la Tabella. - 8.
L’attività edilizia delle pubbliche amministrazioni. – 9. Le
attività edilizie soggette a semplice comunicazione di
inizio lavori (CIL). - 10. La comunicazione di inizio dei
lavori asseverata (CILA). – 11. Gli interventi edilizi
realizzabili con la CILA secondo la Tabella. - 12. La
segnalazione certificata di inizio attività (SCIA). – 13.
Gli interventi edilizi realizzabili con la SCIA secondo la
Tabella. - 14. Il permesso di costruire e il procedimento
per il suo rilascio. – 15. Gli interventi realizzabili con
il permesso di costruire secondo la Tabella. – 16. La
formazione del silenzio assenso sulla domanda di permesso di
costruire. - 17. Gli interventi realizzabili per silenzio
assenso secondo la Tabella. - 18. La SCIA in alternativa al
permesso di costruire. - 19. Gli interventi subordinati alla
SCIA in alternativa al permesso di costruire secondo la
Tabella. – 20. La Tabella e gli impianti alimentati da fonti
rinnovabili. – 21. Passaggio dai titoli abilitativi edilizi
ai regimi amministrativi degli interventi edilizi. |
EDILIZIA PRIVATA:
S. Cacace,
Semplificazione
amministrativa e governo del territorio: i titoli
abilitativi e gli strumenti di semplificazione
(22.04.2017 - tratto da
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. La disciplina dei titoli abilitativi
edilizi. 2. La generalizzazione del silenzio-assenso: il
silenzio avente valore di permesso di costruire. 3. La
dichiarazione di inizio attività (D.I.A.) e la
segnalazione certificata di inizio attività (Scia). |
APPALTI:
M. Fratini e F. Iorio,
La contrattualizzazione della responsabilità precontrattuale
(De Iustitia n. 2/2017
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Trattative e
principio di buona fede: obblighi e ratio della
responsabilità precontrattuale. 3. Le forme di
responsabilità precontrattuale e la diversa entità di danno
risarcibile. 4.1. La natura giuridica della responsabilità
precontrattuale. 4.1.1. Il recente revirement della Corte di
Cassazione: la sentenza n. 14188 del 2016. 4.1.2. Segue. Le
conseguenze della contrattualizzazione della responsabilità
precontrattuale: l’ipotesi della configurabilità di una
responsabilità precontrattuale del terzo. 4.1.3. Segue. Le
conseguenze della contrattualizzazione della responsabilità
precontrattuale: la responsabilità precontrattuale della p.a..
4.1.4. Segue. Atti adottati in sede di trattative. 5.
Conclusioni. |
EDILIZIA PRIVATA: G.
Rizzi,
La disciplina della attività edilizia dopo il D.Lgs.
222/2016
(20.02.2017 - tratto da www.notairizzitrentin.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
A. La Marca,
La natura giuridica della cessione di cubatura e la tipicità
dei diritti reali (De Iustitia n. 1/2017
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. I caratteri dei diritti reali: i
principi del numerus clausus e di tipicità. 2. La cessione
di cubatura e le sue condizioni di ammissibilità. 3. La
natura giuridica dell’istituto: le teorie pubblicistiche e
le teorie privatistiche. 4. La trascrizione dei contratti
che trasferiscono, costituiscono o modificano i diritti
edificatori ai sensi dell’art. 2643, n. 2-bis, c.c.. 5.
Conclusioni. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Rapillo,
La motivazione del provvedimento amministrativo e le sorti
dell’atto plurimotivato parzialmente viziato (De
Iustitia n. 1/2017
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. La motivazione del
provvedimento amministrativo. 2.1. Profili storici. 2.2. La
struttura della motivazione.3. Le funzioni della
motivazione. 4. Le deroghe all’obbligo di motivazione. 5. I
vizi della motivazione. 5.1. Segue… la riforma del 2005. 6.
La motivazione postuma: una questione controversa. 7. Atto
plurimotivato e vizio parziale della motivazione: il
principio di conservazione degli atti. |
EDILIZIA PRIVATA:
R. Iervolino,
L’evoluzione dell’istituto della S.C.I.A. nel processo di
liberalizzazione delle attività private (De
Iustitia n. 4/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Premessa storica
dell’istituto: dalla "denuncia", alla "dichiarazione", alla
"segnalazione" di inizio attività; 3. La disciplina della
s.c.i.a. alla luce della L. n. 122 del 2010; 4. La natura
giuridica dell’istituto e la tutela dei contro interessati;
4.1. La tesi della natura pubblicistica; 4.2. La tesi della
natura privatistica; 4.3. Conseguenze pratiche: tecniche di
tutela del contro interessato; 4.4. La risposta al quesito:
Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 15/2011; 4.5. La
soluzione del Legislatore: il D.L. n. 138/2011; 5. Le
ennesime riforme dell’istituto; 5.1. Lo “Sbolcca Italia”…;
5.2. …E la Riforma Madia; 6. Considerazioni conclusive. |
APPALTI SERVIZI:
I. Siniscalchi,
L’affidamento in house dei servizi pubblici locali di
rilevanza economica. Considerazioni alla luce della sentenza
della Corte Costituzionale del 17.07.2012 n. 199 e del
Decreto Legislativo n. 50 del 18.04.2016 (De
Iustitia n. 4/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. La nozione di servizio pubblico. 2.
La disciplina dell’affidamento dei servizi pubblici locali e
la tutela della concorrenza. 3. L’art. 23-bis del D.L.
25.06.2008, n. 112. 4. Il referendum abrogativo del 12 e
13.06.2011 e l’art. 4 del D.L. 13.08.2011, n. 138. 5.
L’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza del
17.07.2012 n. 199 e l’attuale disciplina dei servizi
pubblici locali. 6. L’affidamento in house dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica. 7. Il requisito del
“controllo analogo” . 8. Il requisito della “destinazione
prevalente dell’attività”. |
EDILIZIA PRIVATA:
A. Auletta,
L’evoluzione giurisprudenziale sulle nullità urbanistiche:
brevi riflessioni circa la (possibile) incidenza sulla
vendita forzata (De Iustitia n. 3/2016
- tratto da www.deiustitia.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
E. Maino,
Il principio di trasparenza: ieri, oggi e domani: le nuove
prospettive della Foia (De Iustitia n. 3/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Il principio di trasparenza ieri. 2.
Il principio di trasparenza e il diritto di accesso: la casa
dai vetri oscurati. 3. L’accesso civico e il principio di
trasparenza oggi. 4. Foia e il ritorno alle origini. 5.
Prospettive future del principio di trasparenza. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Rubano,
I reati di falso e la portata concreta del principio di
offensività (De Iustitia n. 3/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. La portata del principio di
offensività. 2. I delitti contro la fede pubblica: cenni
evolutivi. 3. La natura monoffensiva o plurioffensiva dei
reati di falso. 4. Il concetto di falso documentale e la
rilevanza delle invalidità dell’atto. 5. Il c.d. falso
documentale consentito. 6. Il falso materiale e il falso
ideologico. 7. Le falsità in atti pubblici. 8. Le falsità in
atti privati e la loro recente abrogazione. 9. Il falso in
autorizzazioni e in concessioni. 10. Il falso grossolano,
innocuo e inutile. 11. La dichiarazione infedele di
ammissione al patrocinio a spese dello Stato. 12. La falsa
indicazione “Made in Italy”. |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO:
A. Amendola,
Il danno all’immagine della pubblica amministrazione
(De Iustitia n. 2/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Introduzione. 2. Il risarcimento del
danno non patrimoniale delle persone giuridiche. 3. Il danno
all’immagine della p.a. nella giurisprudenza della Corte di
Cassazione e della Corte dei Conti. 4. La nuova disciplina
dell’azione risarcitoria introdotta dall’art. 17, comma
30-ter, d.l. 78 del 2009. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
F. Caringella,
Brevi osservazioni sull’annullamento con effetti variabili
del provvedimento amministrativo … “verso un annullamento a
geometrie variabili?” (De Iustitia n. 2/2016
- tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. I dubbi sollevati dalla giurisprudenza
amministrativa. 2. Le geometrie variabili della tutela
demolitoria. |
APPALTI:
V. Ferrara,
Il soccorso istruttorio nelle procedure ad evidenza
pubblica: l’atavico duello tra forma e sostanza (De
Iustitia n. 1/2016 - tratto da www.deiustitia.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Il dato normativo: genesi e profili
problematici dell’istituto. 2. La giurisprudenza
contrastante: come delimitare il raggio d’azione della
stazione appaltante? 3. Le soluzioni dell’Adunanza Plenaria:
il fardello del formalismo. 4. Uno sguardo ai cugini
d’Oltralpe: l’art. 52 del Code des Marchés Publics. 5.
Conclusioni. |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
URBANISTICA:
Oggetto: Legge regionale 31/2014 per la riduzione del
consumo di suolo – Modificato il regime transitorio
(ANCE di Bergamo,
circolare 28.06.2017 n. 117). |
TRIBUTI:
Oggetto: Esenzione IMU sul “magazzino” delle imprese
edili – Dichiarazione (ANCE di Bergamo,
circolare 28.06.2017 n. 116). |
EDILIZIA PRIVATA: Oggetto:
Svolgimento di manifestazioni pubbliche - Profili di
security e di safety
(Prefettura di Bergamo,
nota 23.06.2017 n. 35618 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Albo Nazionale Gestori Ambientali: nuovi
requisiti e verifiche di idoneità per il responsabile
tecnico (ANCE di Bergamo,
circolare 23.06.2017 n. 115). |
SEGRETARI COMUNALI: Oggetto:
articolo 43, comma 2, del C.C.N.L. dei segretari comunali e
provinciali del 15.05.2001: modalità procedurali per la
formulazione delle richieste di rimborso (Ministero
dell'Interno,
nota 20.06.2017 n. 7122 di prot.).
---------------
Il Ministero dell'Interno, con circolare n. 7122 del
20.06.2017 concernente le modalità procedurali per la
formulazione delle richieste di rimborso -articolo 43, comma
2, del CCNL- dei Segretari comunali e provinciali, fornisce
indicazioni in merito. La normativa in oggetto, riserva al
segretario collocato in posizione di disponibilità, la
facoltà di conservare, in caso di incarico presso un ente di
fascia immediatamente inferiore a quella di iscrizione, la
retribuzione di posizione più alta, corrispondente alla
fascia demografica dell'ente locale di cui il segretario era
titolare al momento del collocamento di disponibilità .
In riferimento alle modalità per la formulazione delle
richieste di rimborso viene precisato che compete comunque
all'ente locale l'erogazione della retribuzione di posizione
al segretario anche per la quota posta a carico del
Ministero dell'Interno. L'importo oggetto di rimborso viene
limitato, dalla contrattazione collettiva, al differenziale
risultante dal confronto tra la retribuzione di posizione
erogata al segretario durante il periodo di disponibilità e
quella prevista per la fascia di appartenenza dell'ente
dalla contrattazione collettiva di settore.
Non costituiscono oggetto di rimborso le voci stipendiali
previste dai commi 4 e 5 dell'articolo 41 del C.C.N.L.
16.05.2001, eventualmente riconosciute dall'ente al
segretario; parimenti esclusa dal rimborso è la retribuzione
aggiuntiva per sedi convenzionate erogata dall'ente locale
al segretario in relazione al trattamento economico in
godimento ai sensi dell'articolo 45 del C.C.N.L. del
16.05.2001.
Infine si evidenzia che l'istanza di rimborso deve essere
corredata da una dichiarazione da parte dell'ente locale
attestante l'effettiva erogazione, in favore del segretario,
del differenziale (commento tratto da www.logospa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Commissioni comunali di vigilanza sui locali di
pubblico spettacolo
(Ministero dell'Interno, Comando Provinciale Vigili del
Fuoco - Bergamo,
nota 12.06.2017 n. 12673 di prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Nuovi chiarimenti ministeriali sul decreto
sottoprodotti (ANCE di Bergamo,
circolare 09.06.2017 n. 105).
------------------
Si legga anche la
nota 30.05.2017 n. 7619 di prot.
del Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento ivi
menzionata). |
AMBIENTE-ECOLOGIA -
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Circolare esplicativa per l’applicazione del
decreto ministeriale 13.10.2016, n. 264 (Ministero
dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare,
Direzione Generale per i Rifiuti e l'Inquinamento,
nota 30.05.2017 n. 7619 di prot.).
----------------
Con decreto del Ministro dell’Ambiente e della tutela del
territorio e del mare 13.10.2016, n. 264 (in Gazzetta
ufficiale del 15.02.2017, n. 38, di seguito “Regolamento” o
“Decreto”) sono stati adottati «Criteri indicativi per
agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti
per la qualifica dei residui di produzione come
sottoprodotti e non come rifiuti».
In considerazione dei molteplici quesiti pervenuti a questo
Ministero su diversi profili interpretativi ed operativi,
appare utile fornire in questa sede alcuni chiarimenti, in
modo da consentire una uniforme applicazione ed una univoca
lettura del provvedimento.
Stante l’oggettiva complessità della disciplina, di origine
interna ed europea, concernente l’utilizzazione dei
sottoprodotti, e l’assenza di prassi interpretative
lungamente consolidate, per una migliore applicazione del
Decreto si ritiene utile fornire alcuni chiarimenti
interpretativi, accompagnando la presente circolare con un
Allegato tecnico-giuridico, che deve essere considerato
parte integrante della medesima. A tale Allegato si rinvia,
dunque, sin d’ora, per l’approfondimento dei temi di seguito
affrontati. (...continua). |
PUBBLICO IMPIEGO:
OGGETTO: Riduzione del periodo di prognosi riportato nel
certificato attestante la temporanea incapacità lavorativa
per malattia (INPS,
circolare 02.05.2017 n. 79 - link a www.inps.it).
---------------
SOMMARIO: 1. Premessa - 2. Prognosi riportata nel
certificato - 3. Obblighi del lavoratore e del datore di
lavoro - 4. Provvedimenti sanzionatori. |
QUESITI & PARERI |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri, porte aperte.
Legittimo l'accesso reiterato al protocollo.
Va riconosciuto un diritto più ampio
rispetto al semplice cittadino.
È legittima la condotta di un consigliere di
minoranza che reitera nel tempo numerose
istanze di accesso al protocollo del Comune?
Secondo l'art. 22, comma 2, della legge n.
241/1990 «l'accesso ai documenti
amministrativi, attese le sue rilevanti
finalità di pubblico interesse, costituisce
principio generale dell'attività
amministrativa al fine di favorire la
partecipazione e di assicurarne
l'imparzialità e la trasparenza».
L'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000,
invece, consente ai consiglieri comunali di
accedere a «tutte le notizie e le
informazioni» in possesso dell'Ente, utili
all'espletamento del proprio mandato. Nella
fattispecie in esame, il Sindaco ha sospeso
le richieste di accesso del consigliere al
protocollo, ritenendole «formalizzate in
modo abnorme, generico, indiscriminato e
reiterato e finalizzate a strategie
ostruzionistiche comportanti aggravi
dell'attività amministrativa dell'Ente».
Tuttavia, va considerato che al consigliere
comunale, in relazione proprio al munus
rivestito, deve essere riconosciuto un
diritto più ampio rispetto a quello
esercitabile dal semplice cittadino, che si
estende oltre le competenze attribuite al
consiglio comunale, al fine della necessaria
valutazione della correttezza ed efficacia
dell'operato dell'amministrazione comunale
(cfr.: Cds n. 4525 del 05/09/2014, Cds sez. V
n. 5264/2007 che richiama Cons. stato, V sez.
21/02/1994 n. 119, Cons. stato, V sez.
26/09/2000 n. 5109, Cons. stato, V sez.
02/04/2001 n. 1893).
La giurisprudenza (cfr.
Tar Sardegna n. 29/2007 e n. 1782/2004, Tar
Lombardia, Brescia, n. 362/2005, Tar
Campania, Salerno, n. 26/2005) -superando
le precedenti decisioni contrarie e fatta
salva la necessità di non aggravare la
funzionalità amministrativa dell'Ente con
richieste emulative- è infatti, oggi
orientata nel ritenere illegittimo il
diniego opposto dall'amministrazione di
prendere visione del protocollo generale e
di quello riservato del Sindaco, comprensivo
sia della posta in arrivo che di quella in
uscita.
Del resto, i giudici del Tar
Sardegna, con la citata sentenza n. 29/2007,
hanno affermato che è consentito prendere
visione del protocollo generale senza alcuna
esclusione di oggetti e notizie riservate e
di materie coperte da segreto, posto che i
consiglieri comunali sono comunque tenuti al
segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto
legislativo n. 267/2000, mentre il Tar
Lombardia, Brescia, 01.03.2004 n. 163, ha
ritenuto non ammissibile imporre al
consigliere l'onere di specificare in
anticipo l'oggetto degli atti che intendono
visionare giacché trattasi di informazioni
di cui gli stessi possono disporre solo in
conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la
previa visione dei vari protocolli (tra cui
il protocollo informatico che rappresenta
una innovazione tecnologica consolidata, già
prevista dall'art. 17, del dlgs n. 82/2005),
è necessaria, e potrà trovare apposita
disciplina di dettaglio nel regolamento
dell'Ente, per poter individuare gli estremi
degli atti sui quali si andrà ad esercitare
l'accesso vero e proprio.
La Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi, esprimendosi sull'esercizio
di tale diritto (cfr. parere 29.11.2009),
sulla base del principio di economicità che
incombe sia sugli uffici tenuti a
provvedere, sia sui soggetti che chiedono
prestazioni amministrative, ha riconosciuto
«la possibilità per il consigliere di
avere accesso diretto al sistema informatico
interno, anche contabile, dell'ente
attraverso l'uso della password di servizio
( ) proprio al fine di evitare che le
continue richieste di accesso si trasformino
in un aggravio dell'ordinaria attività
amministrativa dell'ente locale»
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: risposta alla richiesta di parere circa la prova
dell’esistenza di un edificio costruito ante 1967
(Regione Emilia Romagna,
nota
30.05.2017 n. 402646 di prot.).
---------------
1. Viene richiesto parere in oggetto, in quanto alla
richiesta di un certificato di conformità edilizia, da parte
di un privato, per un intervento su un immobile, da
sottoporre a SCIA, di cui risulta esservi il solo
accatastamento nel 2007 e che risulta essere costruito in un
lasso di tempo tra il 1940 e il 1949, un Comune, ha
richiesto l’attestazione dell’esistenza dell’edificio di cui
sopra, prima del 1950.
Da quanto sopra descritto ed in buona sostanza si chiede se
un edificio, originariamente posto in zona agricola e
realizzato prima del 01.09.1967 e quindi prima dell’entrata
in vigore della Legge 06.08.1967, n.765 (c.d. Legge Ponte),
sia illegittimo, se privo di titolo edilizio. Si premette
che il parere richiesto viene fornito rispetto a questioni
generali che vengono considerate in astratto, escludendo
quindi valutazioni sul caso specifico, il cui apprezzamento
spetterà al Comune. (...continua). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
Interpellanze in consiglio. La minoranza può
chiedere la convocazione. Non si configura
l'uso distorto dell'art. 39, comma 2, dlgs
267/2000.
Ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto
legislativo n. 267/2000, la minoranza
consiliare può chiedere al Presidente del
consiglio comunale di convocare il
consiglio, entro 20 giorni, per discutere
interrogazioni, interpellanze, mozioni, o
ciò costituisce un uso distorto di tale
norma?
Secondo l'art. 39, comma 2, del dlgs n.
267/2000 il presidente del consiglio comunale
è tenuto a riunire il consiglio, «in un
termine non superiore ai venti giorni»,
quando lo richiedano un quinto dei
consiglieri, inserendo all'ordine del giorno
le questioni richieste. La norma sembra
configurare un obbligo del Presidente del
consiglio comunale di procedere alla
convocazione dell'organo assembleare per la
trattazione, da parte del Consiglio, delle
questioni richieste, senza alcun riferimento
alla necessaria adozione di determinazioni
da parte del consiglio stesso.
Tale diritto
di iniziativa, «...è tutelato in modo
specifico dalla legge, che prevede la
modificazione dell'ordine delle competenze
mediante intervento sostitutorio del
Prefetto (misura, questa, severa ed
eccezionale) in caso di mancata convocazione
del consiglio comunale in un termine, breve,
di venti giorni» (Tar Puglia, Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278).
L'orientamento che
vede riconosciuto e definito come «diritto,
dal legislatore, «...il potere dei
consiglieri di chiedere la convocazione del
Consiglio medesimo» è, quindi, ormai
ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia,
Lecce, Sez. I del 04.02.2004, n. 124).
In merito alla questione relativa alla sindacabilità dei motivi che determinano i
consiglieri a chiedere la convocazione
straordinaria dell'assemblea, l'orientamento
consolidato è nel senso di prevedere che al
Presidente del Consiglio spetti solo la
verifica formale della richiesta, non
potendo comunque sindacarne l'oggetto. La
giurisprudenza in materia si è, al riguardo,
da tempo espressa affermando che, in caso di
richiesta di convocazione del consiglio da
parte di un quinto dei consiglieri, «al
presidente del consiglio comunale spetta
soltanto la verifica formale che la
richiesta provenga dal prescritto numero di
soggetti legittimati, mentre non può
sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo
stesso consiglio nella sua totalità la
verifica circa la legalità della
convocazione e l'ammissibilità delle
questioni da trattare, salvo che non si
tratti di oggetto che, in quanto illecito,
impossibile o per legge manifestamente
estraneo alle competenze dell'assemblea in
nessun caso potrebbe essere posto all'ordine
del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996).
Nondimeno, spetta all'assemblea decidere in
via pregiudiziale se un dato argomento
inserito nell'ordine del giorno debba essere
discusso (questione pregiudiziale) ovvero se
se ne debba rinviare la discussione
(questione sospensiva) (Tar Puglia, Lecce,
Sez. 1, 25.07.2001, n. 4278 e sempre Tar
Puglia, Lecce, Sez. 1, 04.02.2004, n. 124). Peraltro, l'art. 43 del Tuoel
demanda alla potestà statutaria e
regolamentare dei Comuni e delle province la
disciplina delle modalità di presentazione
delle interrogazioni, delle mozioni e di
ogni altra istanza di sindacato ispettivo
proposta dai consiglieri, nonché delle
relative risposte, che devono comunque
essere fornite entro trenta giorni.
Pertanto, qualora l'intenzione dei
proponenti non sia diretta a provocare una
delibera del Consiglio comunale, bensì a
porre in essere un atto di sindacato
ispettivo, si potrebbe ipotizzare che, ai
sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto
legislativo n. 267/2000, rientri nella
competenza del Consiglio comunale, in
qualità di «organo di indirizzo e di
controllo politico-amministrativo»,
anche la trattazione di «questioni»
che, pur non rientrando nell'elencazione del
comma 2 del medesimo articolo, attengono
comunque a tale ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla
di «questioni» e non di deliberazioni
o di atti fondamentali, conforta nel
ritenere che la trattazione di argomenti non
rientranti nella previsione del citato comma
2, dell'art. 42, non debba necessariamente
essere subordinata alla successiva adozione
di provvedimenti da parte del consiglio
comunale. Quindi, la richiesta di
convocazione del consiglio ex art 39, comma
2, del decreto legislativo n. 267/2000
finalizzata all'esame degli atti di
sindacato ispettivo non configura un
utilizzo distorto della citata disposizione,
dettata dal legislatore a tutela delle
minoranze consiliari
(articolo ItaliaOggi del
26.05.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Garanzia
d'alto profilo. Commissione: attività di
governo nel mirino. Questioni di sicurezza
rientrano nel perimetro degli organismi
speciali.
Al fine di verificare l'eventuale violazione
delle norme sulla sicurezza nella
costruzione di un distributore di carburanti
nel territorio comunale, un comitato di
cittadini può chiedere la convocazione della
Commissione Garanzia e Controllo comunale?
La questione deve essere risolta facendo
riferimento alle disposizioni di legge o di
regolamento, ovvero degli statuti locali.
In linea generale, nei comuni sono operanti
commissioni obbligatorie (previste per legge
come, ad esempio, la commissione elettorale
comunale) e commissioni facoltative (come,
le cd. commissioni consiliari permanenti ex
art. 38 del Tuoel n. 267/2000); in entrambi
i casi, la rispettiva composizione ed il
funzionamento si riconducono generalmente
alla fonte normativa che le istituisce e,
quindi, alle citate previsioni statutarie e
regolamentari.
Nella fattispecie in esame, lo Statuto
comunale stabilisce solo che i presidenti
delle commissioni permanenti istituite con
finalità di controllo sono eletti tra i
rappresentanti dei gruppi consiliari di
opposizione, prevede la possibilità di
istituire commissioni di inchiesta e
consente di istituire commissioni speciali
per l'esame di problemi particolari,
demandando al Consiglio la composizione,
l'organizzazione, le competenze, i poteri e
la durata.
Il regolamento consiliare, invece,
disciplina le commissioni speciali e le
commissioni di inchiesta; inoltre, dispone
che le commissioni con funzioni di garanzia
e di controllo «effettuano verifiche
sull'attività di governo, sulla
programmazione e sulla pianificazione delle
attività, sui risultati e sugli obiettivi
raggiunti».
Orbene, le commissioni aventi funzioni di
controllo e di garanzia potrebbero
considerarsi, come ha sostenuto parte della
dottrina, una specie del medesimo genere
delle commissioni di indagine. Tale assunto
è confermato dalla circostanza che la
materia è trattata nello stesso art. 44 del
dlgs. n. 267/2000.
Tuttavia, ferma restando la tutela della
minoranza che si concretizza
nell'affidamento della presidenza della
commissione permanente ad un consigliere
dell'opposizione, una volta costituita,
l'attività istituzionale di tale commissione
segue la dinamica delle altre commissioni
permanenti, nel rispetto comunque delle
competenze amministrative demandate
previamente agli Uffici comunali.
Poiché lo Statuto e il regolamento hanno
previsto la possibilità di istituire anche
commissioni speciali con il compito di
approfondire «particolari questioni o
problemi che interessino il comune», la
fattispecie relativa alla presunta
violazione delle norme sulla sicurezza nella
costruzione di un impianto sul territorio
comunale sembra incidere in particolare
sulla competenza di tali organismi, dovendo
limitarsi l'attività della commissione
Garanzia e controllo, alle verifiche
sull'attività di governo
(articolo ItaliaOggi del
19.05.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/ Presidente
super partes. Revoca per motivi
istituzionali, non politici. I casi in cui
si può destituire il numero uno
dell'assemblea comunale.
Il consiglio comunale può attivare la
mozione di sfiducia nei confronti del suo
stesso presidente?
Al riguardo, l'articolo 38, comma 2, del
decreto legislativo n. 267/2000 rinvia il
funzionamento del consiglio comunale alla
disciplina regolamentare «nel quadro dei
principi stabiliti dallo statuto».
Circa la fattispecie in esame, assume
particolare rilievo la modalità con cui la
mozione di sfiducia, prevista dallo statuto
nei confronti del presidente del consiglio,
può conciliarsi con la disposizione
regolamentare che limita la possibilità di
un voto all'espressione di «un giudizio su
mozione presentata in merito ad
atteggiamenti del sindaco o della giunta
comunale, ovvero un giudizio sull'intero
indirizzo dell'amministrazione».
In merito
la norma regolamentare che disciplina le
adunanze affida addirittura al sindaco la
presidenza del consiglio, non contenendo
alcuna norma specifica che disciplini la
sfiducia al presidente del consiglio, mentre
è proprio lo statuto che prevede come
meramente eventuale l'elezione di un
presidente del consiglio comunale tra i
propri componenti.
Nonostante la mancanza di una disciplina
regolamentare di dettaglio, il consiglio ha
dunque utilizzato la normativa statutaria
(ritenendola sufficiente) per eleggere il
presidente del consiglio; talché, la
richiesta applicazione di ipotetiche norme
regolamentari che dovrebbero
obbligatoriamente disciplinare anche la
revoca, appare incoerente rispetto alla
pacifica accettazione della sola norma
statutaria per l'elezione del presidente del
consiglio.
Il decreto legislativo n. 267/2000, in ogni
caso, non prevede espressamente la
possibilità di revoca del presidente del
consiglio, tant'è che in carenza di una
specifica previsione statutaria, la
giurisprudenza tende ad affermarne
costantemente l'illegittimità (si veda tra
l'altro, Tar Piemonte sez. I, 04/09/2009, n.
2248).
Ferma restando, dunque, l'applicabilità
della citata disposizione statutaria che
disciplina la revoca del presidente, «la
giurisprudenza ha chiarito che la figura del
presidente del consiglio è posta a garanzia
del corretto funzionamento di detto organo e
della corretta dialettica tra maggioranza e
minoranza, per cui la revoca non può essere
causata che dal cattivo esercizio della
funzione, in quanto ne sia viziata la
neutralità e deve essere motivata, perciò,
con esclusivo riferimento a tale parametro e
non a un rapporto di fiducia» (conforme, Tar
Puglia–Lecce, sentenza n. 528/2014,
Consiglio di stato, sez. V, 26.11.2013, n. 5605)
Peraltro il Tar Piemonte, con la citata
sentenza (richiamando anche Tar Sicilia -
Catania, sez. I, 20.04.2007, n. 696; Tar
Sicilia Catania, sez. I, 18.07.2006, n.
1181), ha statuito che «lo statuto comunale,
tuttavia, può prevedere ipotesi e procedure
di revoca del presidente del consiglio
comunale, con riferimento a fattispecie che
integrino comportamenti incompatibili con il
ruolo istituzionale super partes che esso
deve costantemente disimpegnare
nell'assemblea consiliare».
Inoltre, il Tar Campania–Napoli - sez. I,
con decisione 03/05/2012 n. 2013, ribadendo
che il ruolo del presidente del consiglio
comunale è strumentale non già
all'attuazione di un indirizzo politico di
maggioranza, bensì al corretto funzionamento
dell'organo stesso e, come tale, non solo è
neutrale, ma non può restare soggetto al
mutevole atteggiamento fiduciario della
maggioranza, ha precisato che la revoca di
detta carica non può essere attivata per
motivazioni politiche, ma solo
istituzionali, quali la ripetuta e
ingiustificata omissione della convocazione
del consiglio o le ripetute violazioni dello
statuto o dei regolamenti comunali (si veda
anche, Consiglio di stato, sez. V,
18/01/2006, n. 114)
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO VIMINALE/
Il consiglio ai consiglieri.
Il vicesindaco esterno non può presiederlo.
Non si può fungere da presidente di un
collegio a cui non si appartiene.
È possibile affidare la carica di
vicepresidente del consiglio comunale al
vice sindaco, assessore esterno in un Comune
con popolazione inferiore a 15.000 abitanti?
Il vicesindaco facente funzioni può assumere
le funzioni di presidente della commissione
elettorale comunale e partecipare alle
relative operazioni?
In merito al primo quesito, ai sensi
dell'art. 64, comma 3, del Tuel n. 267/2000,
nei comuni con popolazione inferiore ai
15.000 abitanti, non vi è incompatibilità
tra la carica di consigliere comunale ed
assessore nella rispettiva giunta, mentre la
nomina di assessori esterni al consiglio fa
parte del contenuto facoltativo dello
statuto ai sensi dell'art. 47, comma 4, del
medesimo decreto legislativo.
Per quanto concerne le funzioni di
presidente del consiglio comunale, l'art.
39, comma 3, del richiamato decreto
legislativo n. 267/2000 prevede che nei comuni
sino a 15.000 abitanti le stesse sono svolte
dal sindaco, «salvo differente previsione
statutaria», mentre il comma 1, stabilisce
che le funzioni vicarie del presidente del
consiglio, quando lo statuto non dispone
diversamente, sono esercitate dal
consigliere anziano.
Pertanto, la normativa statale, anche in
carenza di specifiche disposizioni
dell'ente, individua il vicario del
presidente del consiglio.
Nella fattispecie in esame, lo statuto del
comune conferma al sindaco il potere di
presiedere il consiglio comunale e
stabilisce che, «qualora il consigliere
anziano sia assente o rinunci a presiedere
l'assemblea, la Presidenza è assunta dal
consigliere che, nella graduatoria di
anzianità occupa il posto immediatamente
successivo».
Anche il regolamento sul funzionamento del
consiglio comunale conferma la titolarità
della presidenza in capo al sindaco; la
stessa disposizione, tuttavia, stabilisce
che in caso di assenza o di impedimento del
sindaco, la presidenza è assunta dal vice
sindaco e ove questi sia assente o impedito,
dall'assessore più anziano di età.
La disposizione regolamentare si pone,
dunque, in contrasto con la norma
statutaria.
Seguendo la gerarchia delle fonti,
conformemente anche all'articolo 7 del
citato decreto legislativo n. 267/2000 che
disciplina l'adozione dei regolamenti
comunali «nel rispetto dei principi fissati
dalla legge e dallo statuto» (cfr. sentenza
Tar Lombardia, Brescia, n. 2625 del 28.12.2009 e Tar Lazio, n. 497 del 2011)
la disposizione statutaria dovrebbe essere
prevalente sulla norma regolamentare.
In ogni caso, per quanto concerne la
possibilità, nei comuni fino a 15.000
abitanti di far presiedere il consiglio
comunale, in assenza del sindaco, al vice
sindaco non consigliere comunale, il
Consiglio di stato, con il parere n. 94/96
del 21/02/1996 (richiamato dal successivo
parere n. 501 del 14/6/2001), con
riferimento all'estensione dei poteri del
vicesindaco, ha evidenziato che il
vicesindaco può sostituire il sindaco nelle
funzioni di presidente del consiglio
comunale soltanto nel caso in cui il vicario
rivesta la carica di consigliere comunale.
Nell'ipotesi in cui il vice sindaco, come
nel caso di specie, sia un assessore
esterno, questi non può presiedere il
consiglio, in quanto non può «fungere da
presidente di un collegio un soggetto che
non ne faccia parte».
La seconda questione prospettata trova
adeguata soluzione nell'orientamento del
Consiglio di stato, espresso con pareri n.
94/1996 del 21.02.1996 e n. 501/2001 del
04.06.2001, che, nella sostanza, hanno
avallato la linea interpretativa già
seguita, in materia, dal ministero
dell'interno.
In particolare l'Alto consesso, rilevando
che le funzioni del sindaco sospeso vengono
svolte dal vicesindaco in virtù dell'art.
53, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000, ha stabilito che nell'ipotesi di vicarietà, nessuna norma positiva identifica
atti riservati al titolare della carica e
vietati a chi lo sostituisce.
Tale considerazione di ordine testuale
risulta confortata da riflessioni di
carattere sistematico, poiché la
preposizione di un sostituto all'ufficio o
carica in cui si è realizzata la vacanza
implica, di regola, l'attribuzione di tutti
i poteri spettanti al titolare, con la sola
limitazione temporale connessa alla vacanza
medesima.
Se a ciò si aggiunge che l'esigenza di
continuità dell'azione amministrativa
dell'ente locale postula che in ogni momento
vi sia un soggetto giuridicamente
legittimato ad adottare tutti i
provvedimenti oggettivamente necessari
nell'interesse pubblico (riguardo la
questione precedente, infatti, l'assenza del
sindaco presidente del consiglio è supplita
dal consigliere anziano) è necessario
riconoscere al vicesindaco reggente pienezza
di poteri.
Peraltro, in merito alla specifica
fattispecie, il dpr 20.03.1967, n. 223
all'articolo 14, stabilisce che la
commissione elettorale comunale è presieduta
dal sindaco e in caso di assenza,
impedimento o cessazione dalla carica,
dall'assessore delegato o dall'assessore
anziano. Se il sindaco, infine, è sospeso
dalle funzioni di ufficiale del governo, la
commissione è presieduta dal commissario
prefettizio incaricato di esercitare tali
funzioni.
Nel caso di cui trattasi, alla luce delle
disposizioni di cui al Tuel, dunque, il vice
sindaco assumerà anche le funzioni di
presidente della commissione elettorale in
sostituzione del sindaco assente
(articolo ItaliaOggi del
05.05.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il sindaco paga lo staff. Il
rapporto è necessariamente oneroso. La
figura del consigliere politico non è
prevista dall'ordinamento.
Il sindaco di un comune può individuare e
nominare i «consiglieri politici», figure
non previste dallo statuto comunale, che
dovrebbero svolgere funzioni di supporto
all'azione amministrativa assicurando
maggiore incisività ed efficacia al governo
della comunità locale, senza alcun onere per
il comune?
L'ordinamento degli enti locali non prevede
la figura del «consigliere politico»; i
consiglieri, gli assessori ed il sindaco,
quali organi di governo degli enti locali,
sono figure tipiche individuate dalla legge.
Nel sistema disciplinato dal legislatore
costituzionale, art. 117, lettera p), lo
Stato ha legislazione esclusiva in materia
di «organi di governo e funzioni
fondamentali di comuni, province e città
metropolitane», mentre all'ente locale è
riconosciuta un'autonomia statutaria,
normativa, organizzativa ed amministrativa
nel rispetto, però, dei principi fissati dal
decreto legislativo n. 267/2000.
Ai sensi dell'art. 6 del Tuel, lo statuto
stabilisce le norme fondamentali
dell'organizzazione dell'ente e specifica le
attribuzioni degli organi.
È prevista, inoltre, la possibilità di
istituire uffici di supporto agli organi di
direzione politica ai sensi dell'art. 90 del
citato decreto legislativo che al primo
comma demanda al regolamento degli uffici e
dei servizi la possibilità di prevedere la
costituzione di uffici posti alle dirette
dipendenze del sindaco, della giunta o degli
assessori per l'esercizio delle funzioni di
indirizzo e controllo loro attribuite dalla
legge. Con riferimento a tale istituto, la
giurisprudenza contabile ha evidenziato il
carattere necessariamente oneroso del
rapporto con i soggetti incaricati di
funzioni di staff (cfr. pronuncia Src
Campania n. 155/2014/PAR).
Per quanto
concerne la possibilità che il sindaco
deleghi proprie funzioni ai consiglieri,
tali ipotesi possono ricorrere, ai sensi
dell'art. 54, comma 10, per l'esercizio
delle funzioni di ufficiale del governo nei
quartieri e nelle frazioni, e ai sensi
dell'art. 31, comma 4, in caso di
partecipazioni alle assemblee consortili
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI:
OSSERVATORIO VIMINALE/
L'accesso non ha limiti.
Gli uffici non possono sindacare le
richieste.
Vanno riviste le norme comunali che
impongono l'obbligo di motivazione.
Ai sensi dell' art. 43 del dlgs n. 267/2000,
in materia di diritto di accesso dei
consiglieri comunali, possono considerarsi
legittime le norme regolamentari che
impongono al consigliere comunale di
motivare la propria richiesta di accesso
agli atti; ovvero che affidano al sindaco il
potere di verificare che l'informazione
richiesta attenga al mandato del
consigliere; oppure che limitano il diritto
di visione degli atti quando ciò si traduca
in «un potere di inchiesta, di ispezione o
di verifica»?
Il «diritto di accesso» e il «diritto di
informazione» dei consiglieri comunali in
ordine agli atti in possesso
dell'amministrazione comunale, utili
all'espletamento del proprio mandato,
trovano la loro disciplina specifica nel
citato art. 43 del decreto legislativo n.
267/2000, che si differenzia rispetto al pur
ampio diritto di accesso riconosciuto al
cittadino dall'articolo 10 del medesimo
decreto legislativo.
Il termine «utili», contenuto nella citata
disposizione del Tuel, garantisce, infatti,
l'estensione di tale diritto di accesso a
qualsiasi atto ravvisato utile per
l'esercizio del mandato (cfr. Cds
n. 6963/2010) senza che alcuna limitazione
possa derivare dall'eventuale natura
riservata delle informazioni richieste (v.
anche Consiglio di stato, sentenza n. 4525
del 05.09.2014, che ha richiamato Cds,
sez. V, 17.09.2010, n. 6963 e 09.10.2007, n. 5264).
Anche la Commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi, con parere reso in
data 09.04.2014, ha specificato che
l'accesso del consigliere non può essere
soggetto ad alcun onere motivazionale,
giacché altrimenti sarebbe introdotta una
sorta di controllo dell'ente, attraverso i
propri uffici, sull'esercizio del mandato
del consigliere comunale. La Commissione,
infatti, considerato che il consigliere è
comunque vincolato al segreto d'ufficio, ha
ritenuto che gli unici limiti all'esercizio
del diritto di accesso dei consiglieri
comunali si rinvengano, per un verso, nel
fatto che esso non deve sostanziarsi in
richieste assolutamente generiche, ovvero
meramente emulative (fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri necessita di
attento e approfondito vaglio, al fine di
non introdurre surrettiziamente
inammissibili limitazioni al diritto
stesso), nonché, per altro verso, nel fatto
che esso debba avvenire in modo da
comportare il minor aggravio possibile per
gli uffici comunali (vedi, oltre al citato
parere del 09.04.2014, anche il
precedente plenum in data 06.04.2011,
conforme a Cds, sez. V, 04.05.2004, n.
2716, Tar Trentino-Alto Adige, Trento, sez.
I, 07.05.2009, n. 143).
Conseguentemente, gli uffici comunali e il
sindaco non hanno il potere di sindacare il
nesso intercorrente tra l'oggetto delle
richieste di informazioni avanzate da un
consigliere comunale e le modalità di
esercizio del munus da questi espletato.
Ciò, anche nel rispetto della separazione
dei poteri (artt. 4 e 14 del decreto
legislativo n. 165/2001) sancita, per gli enti
locali, dall'art. 107 del decreto
legislativo n. 267/00 secondo cui i poteri
di indirizzo e di controllo
politico-amministrativo spettano agli organi
di governo, essendo riservata ai dirigenti
la gestione amministrativa, finanziaria e
tecnica.
Peraltro, ai sensi dell'art. 42, comma 1,
del Tuel il consiglio è l'organo di
indirizzo e «di controllo
politico-amministrativo»; sicché, il
controllo del sindaco sull'operato anche dei
singoli consiglieri si porrebbe in contrasto
alla predetta normativa.
Nel caso di specie, pertanto, è opportuna la
revisione delle disposizioni che impongono
l'obbligo motivazionale a carico dei
consiglieri richiedenti l'accesso e che
affidano al sindaco il potere di verifica.
Tuttavia l'ente, attraverso l'esercizio
della propria potestà regolamentare, può
optare, tra le varie alternative possibili,
per la disciplina che, in concreto, meglio
contemperi esigenze concorrenti.
In particolare, quelle di garanzia delle
condizioni più adeguate all'espletamento del
mandato da parte dei consiglieri comunali e
quelle di salvaguardia della funzionalità
degli uffici e del normale espletamento del
servizio da parte del personale dipendente,
nonché quella di tutela della sicurezza
degli uffici, del personale e del patrimonio (articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Il gruppo cambia nome. Anche se lo statuto del
comune non lo consente. È una scelta politica da
considerarsi generalmente ammissibile.
Se le norme statutarie e regolamentari vigenti in un comune
prevedono solo la modifica della composizione dei medesimi
gruppi, è' ammissibile il cambio di denominazione dei gruppi
consiliari?
L'esistenza dei gruppi consiliari non è espressamente
prevista dalla legge, ma si desume implicitamente da quelle
disposizioni normative che contemplano diritti e prerogative
in capo ai gruppi o ai capigruppo (art. 38, comma 3, art.
39, comma 4, e art. 125 del decreto legislativo n.
267/2000).
La materia deve, comunque, essere regolata da apposite norme
statutarie e regolamentari, adottate dai singoli enti locali
nell'ambito dell'autonomia organizzativa riconosciuta,
dall'art. 38 del citato Tuel, ai consigli comunali.
I mutamenti che possono sopravvenire all'interno delle forze
politiche presenti in consiglio comunale per effetto di
dissociazioni dall'originario gruppo di appartenenza,
comportanti la costituzione di nuovi gruppi consiliari,
ovvero l'adesione a diversi gruppi esistenti, sono
ammissibili. Tuttavia, sono i singoli enti locali,
nell'ambito della propria potestà di organizzazione, i
titolari della competenza a dettare norme, statutarie e
regolamentari, nella materia.
Nel caso di specie, si tratta, tuttavia, di cambio di
denominazione di un gruppo consiliare che, in assenza di una
specifica disposizione statutaria o regolamentare, appare
comunque rientrare nelle scelte proprie delle formazioni
politiche presenti nel consiglio, che sono in genere da
ritenersi ammissibili.
Peraltro, sebbene sia lo statuto che il regolamento
dell'ente locale presentino, nella fattispecie in esame, una
certa rigidità nella formazione dei gruppi, ancorandola alla
denominazione della corrispondente lista di elezione, lo
stesso statuto comunale consente la costituzione di gruppi
non corrispondenti alle liste elettorali, purché siano
composti da almeno tre membri.
Pertanto, può ritenersi che tale valore numerico costituisca
il limite per la costituzione di gruppi con denominazioni
diverse da quelle originarie
(articolo ItaliaOggi del 31.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: NOLI (Savona) — Vincolo paesaggistico relativo
alla via Aurelia (sede stradale e fasce laterali)
(MIBACT,
nota 08.03.2017 n. 7403 di
prot.).
---------------
Si riscontra la nota prot. 20630 del 07.12.2016 con la
quale codesta Direzione, anche a seguito di uno specifico
quesito posto dall'amministrazione comunale alla competente
Soprintendenza, chiede un parere in merito alla corretta
interpretazione del vincolo in oggetto, che tutela sia il
sedime stradale dell'antica via Aurelia, sia le fasce
laterali del sedime (per una profondità costante di 100 m
dai due bordi stradali compresi tra le progressive
chilometriche espressamente indicate) nelle quali vige il
divieto assoluto di apporre cartelli stradali pubblicitari.
In particolare, il d.m. del 20.03.1956 dichiara di notevole
interesse pubblico, ai sensi della legge 29.06.1939, n.
1497, "la sede stradale della via Aurelia", nel percorso ivi
individuato. Per quanto riguarda invece le fasce laterali
del sedime (non espressamente citate nel decreto di vincolo)
nel testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del
1956, a corredo del d.m., sono pubblicati gli estratti degli
elenchi della Commissione provinciale di Savona, riferiti
alle sedute del 20.10.1953 e del 17.02.1954. (...continua). |
CORTE DEI CONTI |
CONSIGLIERI COMUNALI -
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Danno erariale per l’incarico esterno su attività gestibili
dai dipendenti dell’ente.
Il Comune che delibera l’affidamento di
un incarico esterno che si sarebbe potuto svolgere con il
proprio personale provoca un danno erariale in quanto viola,
con grave colpa, i principi di economicità, efficienza,
efficacia e ragionevolezza –sanciti dall’articolo 1 della L.
n. 241/1990 e dal Dlgs n. 165/2001- posti a fondamento del
buon andamento della Pa, di cui all’articolo 97 della
Costituzione.
---------------
La domanda risarcitoria dedotta in giudizio trae origine
dall’affidamento esterno di una prestazione d’opera
professionale -consistente nella ricerca della “attivazione
di risorse finanziarie non impositive”- in assenza dei
requisiti e delle condizioni che ne giustificassero
l’adozione, con conseguente danno corrispondente all’inutile
costo -pari ad € 40.500,00- riconosciuto alla ditta
affidataria a titolo di ingiusto corrispettivo, ed imputato
agli odierni convenuti (componenti della Giunta Municipale
che adottò la Deliberazione n. 90 del 06/10/2008) in ragione
delle responsabilità derivanti dalle funzioni e dai compiti
esercitati in concreto nella procedura di affidamento, alla
cui formazione era stato inizialmente riconosciuto il
contributo causale del Responsabile dell’Area Tecnica -ing.
Fr.Di.- il cui successivo decesso aveva comportato,
unitamente alla esclusione della imputazione di personale
responsabilità, la conseguente rideterminazione del danno,
oggi utilmente perseguibile, nella misura di € 32.400,00.
Il Collegio ritiene che la pretesa risarcitoria azionata da
Parte Pubblica sia fondata, e ciò sulle seguenti
considerazioni fattuali e giuridiche che ne determinano
l’integrale accoglimento, anche alla stregua di un percorso
valutativo che imponga “ex ante” la misurazione delle
regolari condotte esigibili, in fattispecie concreta, dai
convenuti.
Preliminarmente il Collegio intende soffermarsi sulla esatta
qualificazione giuridica da conferire alla “fattispecie
negoziale” individuata come produttiva del danno in
contestazione, ancorché su siffatta questione le parti non
abbiano sollevato alcuna specifica eccezione o rilievo “dubitativo”,
essendosi le ragioni della controversia sviluppate lungo la
traccia giuridico-normativa delineata dall’art. 7, co. 6,
D.Lgs. n. 165/2001 disciplinante il conferimento di
incarichi fiduciari esterni, nonostante, dagli atti di causa
emerga qualche riferimento al sistema degli appalti di
servizi.
Invero:
- la determina n. 320 Reg. Gen. del 14.10.2008, a firma
dell’ing. Fr.Di. reca ad oggetto l’“affidamento
prestazioni”;
- il successivo contratto del 16.10.2008 (sempre firmato
dall’ing. Di.), dopo aver riportato in premessa il richiamo
a “prestazione servizi ai sensi D.Lgs. n. 163/2006”,
individua quale oggetto dello stesso la “prestazione di
servizi”;
- lo stesso atto di citazione, nell’introdurre la
descrizione della vicenda di danno, discorre di “…prestazione
di servizi…”;
- e, in ultimo, la pur censurata modalità di affidamento
dell’incarico in argomento è quella –“negoziata”–
contemplata dal suddetto D.Lgs. n. 163/2006 disciplinante la
materia degli appalti di servizi.
In realtà, “…l’incarico di prestazione di servizi…”
affidato dal Comune di Stigliano alla ditta “L.S.”,
lungi dal consentire la pacifica ed agevole qualificazione
dello stesso nel novero del sistema degli “Appalti di
servizi”, configura una vera e propria fattispecie di “Conferimento
di incarico esterno”, con conseguente applicazione dei
presupposti, delle condizioni e dei limiti, di cui al D.Lgs.
n. 165 del 2001, posti a presidio della corretta
utilizzazione di tale modulo operativo.
E ciò, indipendentemente dal nomen iuris emergente
dagli atti del procedimento amministrativo e dagli scritti
di causa, inidonei a vincolare il Giudice nell’esercizio del
proprio dovere-potere di qualificare giuridicamente l’azione
ed il rapporto dedotto in giudizio, con l’unico limite
dell’integrità dei fatti e degli elementi costitutivi della
domanda (Cass. Sez. II nn. 15925/2007, 10922/2005 e
3980/2004; C.d.c. FVG, 20.02.2009, n. 73).
Del resto, che la fattispecie si inquadri nel “tipo”
degli incarichi e delle consulenze esterne, v’è conferma nel
richiamo, svolto in punto di motivazione del provvedimento
di affidamento, alla rilevata insufficienza, o
impreparazione, del personale organicamente inserito
nell’Ente per l’assolvimento della prestazione oggetto di
esternalizzazione.
In ogni caso, ed indipendentemente dalla qualificazione
giuridica prospettata dalle parti, ma nel rispetto di quei
principi di ragionevolezza non suscettibili di alcuna
indebita interferenza col divieto di sindacato sulle scelte
discrezionali dell’Amministrazione, va precisato come ormai
cogente ed obbligatorio si manifesti il dovere per ogni
Pubblica Amministrazione di rispettare le regole che
presidiano gli affidamenti di incarichi esterni –comunque
formalizzati– regole, queste, copiosamente e partitamente
enucleate dalla Corte dei conti nell’esercizio della
funzione giurisdizionale e di controllo sulla scorta
dell’impianto normativo di settore formatosi nel tempo, e
che conferiscono a tale “scelta operativa” il
carattere della eccezionalità, rispetto all’ordinario
impiego delle risorse professionali ritraibili dal proprio
organico.
Nella sintetizzata ottica organizzativa vanno quindi lette
le limitazioni costituite dalla peculiarità dell’oggetto
della prestazione conferita, dalla delimitazione temporale
dell’incarico, dalla coerenza del compenso con la qualità e
quantità del lavoro affidato e dalla inesistenza di figure
professionali “interne” in grado di assolvere a quel
compito, riscontrata mediante una reale, e dimostrata,
ricognizione.
I limiti, invero stringenti, al conferimento di incarichi
esterni, sommariamente richiamati, risultano essere stati
platealmente superati nell’ambito dell’affidamento del
servizio di “ricerca dei finanziamenti utilizzabili”
alla ditta “L.S.” sotto il duplice profilo
dell’assenza di tratti di particolare complessità o
specialità della prestazione, e del reale, concreto ed
attendibile riscontro della inidoneità del personale “intraneo”
a svolgere il servizio di cui si predicava, e disponeva, la
necessaria esternalizzazione.
E tanto, senza indugiare sui pur adombrati profili collusivi
documentalmente, e sospettosamente, emergenti dalla perfetta
coincidenza delle prerogative professionali vantate dalla
ditta in sede di illustrazione della propria offerta, con le
motivazioni poste a sostegno della Deliberazione giuntale n.
90 del 2008, la cui valenza di “mero” atto di
indirizzo, pure eccepita in sede difensiva dagli autori
della stessa per decolorarne la incidenza nella dinamica
causativa del danno, è clamorosamente smentita dalla
minuziosa e particolareggiata descrizione delle
caratteristiche della prestazione oggetto di affidamento,
sorprendentemente coincidenti con le specifiche distintive
della ditta affidataria.
In realtà, osserva il Collegio in aperta condivisione delle
stigmatizzazioni accusatorie sul punto, l’attività
ricognitiva delle disponibilità finanziarie “dormienti”
o “silenti”, non appare connotata da quel tratto di
alta complessità o specialità che imponga il ricorso ad
operazioni di particolare competenza non esigibile da
personale impiegato nella gestione del settore
economico-finanziario di un Comune che, a maggior dire per
quello di Stigliano, non contempla tra i propri compiti
quello di intraprendere o perseguire attività o strategie di
investimento, o di indebitamento, che in qualche modo, e con
elevato rischio, vengono riservate a soggetti finanziari
privati, certamente più avvezzi alla speculazione che alla
pianificazione.
Ed a conforto di tale valutazione non vale tanto richiamare
la pur facile constatazione del risultato -invero “ordinario”-
ottenuto dalla “fragorosa” iniziativa intrapresa (la
contabilizzazione dei mutui non utilizzati), quanto la
manifesta irragionevolezza di una scelta che, già in una
valutazione ex ante, avrebbe dovuto far intuire, in
un’ottica di credibile verosimiglianza sorretta dalla
doverosa conoscenza dei dati relativi alla esperienza
concreta della gestione delle risorse di bilancio, la
possibilità di definire in autonomia, e senza ricorso ad
onerose consulenze esterne, tale passaggio ricognitivo,
anche nella ritenuta necessarietà dello stesso per la
pianificazione di nuovi e proficui investimenti.
Peraltro, non è di poco conto rilevare come, successivamente
a tale riscontrata necessità, iniziative di identico tenore
e contenuto fossero state con successo intraprese dal Comune
(Determinazioni del Servizio di Urbanistica “lavorate”
dal personale dell’Ente e finalizzate all’accensione dei
mutui di € 235.000,00 e € 14.500,00): a conferma del fatto
che “…da soli si poteva!...”.
Né è ravvisabile, come ampiamente argomentato dalla difesa,
una condizione di insufficienza, numerica e qualitativa, del
personale impiegato cui poter affidare tale incombenza.
In disparte la pur condivisa osservazione sulla mancanza di
ogni reale e concreta indagine ricognitiva che valesse ad
integrare il requisito richiesto dalla normativa di settore
(ma sarebbe più corretto dire “richiesto dalle regole di
una ragionata e prudente amministrazione”) deve
rilevarsi come “L’assetto organizzativo del Comune ed il
piano di assegnazione contingenti di personale” di cui
alla Deliberazione n. 78 del 03/07/2003, non sostanzialmente
modificata dal successivo Atto giuntale (Deliberazione n. 5
del 28/01/2009) intervenuto sul punto, contemplasse
l’assegnazione al 2° Settore-Area Economico finanziaria di 9
unità di personale, 7 delle quali appartenenti alle
categorie B e C, e quindi con qualifica di “istruttore” e “collaboratore”:
pur volendo considerare il rilievo “incidente”
dell’assenza del dirigente, la descritta dotazione organica
non appare plausibilmente connotata da quella grave e
cronica penuria di risorse umane che offra ragione della
scelta di esternalizzazione effettuata.
Né in altri atti dell’Ente è dato rilevare un significativo
segnale di “criticità” della organizzazione del
personale che, nel settore coinvolto indirettamente nella
intrapresa iniziativa, ne paventasse in qualche modo
l’adottata soluzione “di rimedio”.
Sulla scorta delle dispiegate osservazioni,
il Collegio
giudica la scelta di ricorrere ad un oneroso servizio consulenziale esterno per la ricognizione delle risorse
finanziarie disponibili, intrapresa dalla Giunta Municipale
di Stigliano con la Deliberazione n. 90 del 2008,
come
segnata da grave ed inescusabile superficialità, nonché
produttiva di ingiustificato danno, costituito dal
corrispettivo riconosciuto alla ditta affidataria.
Di tale danno, pari ad € 32.400,00 per effetto dello
stralcio della quota inizialmente addebitata all’ing. Di.,
nelle more della vicenda giudiziaria deceduto, vanno
dichiarati responsabili gli odierni convenuti che, in
qualità di componenti della Giunta Municipale che adottò la
delibera di affidamento, offrirono decisivo ed unico
contributo causale all’avveramento dello stesso.
Somma comprensiva di rivalutazione monetaria. Interessi
legali dalla sentenza sino al soddisfo.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte dei Conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione
Basilicata così decide:
a) condanna gli odierni convenuti DI GI. Le., BA.An., CA.Gi. e
FE.Gi. al risarcimento, in parti uguali, in favore del
Comune di Stigliano, della somma complessiva di € 32.400,00.
Somma comprensiva di rivalutazione monetaria. Interessi
legali dalla sentenza sino al soddisfo (Corte dei Conti,
Sez. giurisdiz. Basilicata,
sentenza
16.06.2017 n. 62). |
APPALTI FORNITURE: Sulla
possibilità di acquistare, al di fuori del Mercato
elettronico (MePa) e della convenzione stipulata attraverso
la Consip, il gasolio e la benzina per i mezzi comunali, a
prezzi più vantaggiosi (-10%).
Obbligo Consip per le forniture di carburante anche senza
risparmio di spesa.
Per rifornirsi di carburante il Comune non può
approvvigionarsi in autonomia sul mercato e sottrarsi al
meccanismo delle convenzioni-quadro, a prescindere
dall'onerosità e dalla minor convenienza che l'acquisizione
centralizzata di beni e servizi presso la Consip può
comportare.
---------------
Il Sindaco del Comune di Pettorazza Grimani (RO) ha
presentato richiesta di parere ai sensi dell’art. 7, comma
8, della legge 05.06.2003, n. 131, formulando un quesito
sulla possibilità di acquistare, al di fuori del Mercato
elettronico (MePa) e della convenzione stipulata attraverso
la Consip, il gasolio e la benzina per i mezzi comunali,
considerato che i prezzi applicati in forza della
convenzione sarebbero molto più alti di quelli praticati dai
locali distributori di carburante, con una differenza di
oltre il 10%.
...
Il quesito formulato dal Sindaco del Comune di Pettorazza
Grimani, tuttavia, poiché espresso in termini non
propriamente generali ed astratti, può essere affrontato
limitatamente all’interpretazione delle summenzionate
disposizioni ed all’ambito di operatività delle specifiche
deroghe previste in materia.
L’acquisizione centralizzata di beni e servizi da parte
delle pubbliche amministrazioni mediante le c.d. centrali di
committenza e la Consip, in particolare (individuata
dall’art. 58 della L. 388/2000 quale centrale di acquisti
nazionale), ossia mediante convenzioni-quadro, già prevista
dalla L. n. 488/1999, è stata ulteriormente disciplinata
dalla L. n. 296/2006, la quale ha imposto alle
Amministrazioni statali il ricorso a tali convenzioni per
qualunque categoria merceologica, sancendo l’obbligo per la
quasi totalità delle amministrazioni statali e periferiche
di ricorrere al Mercato Elettronico della PA (MePa) per gli
acquisti sotto la soglia di rilievo comunitario (art. 1,
commi 449-450).
Successivamente, il D.L. n. 95/2012 (conv. nella L. n.
135/2012) ha esteso a tutte le pubbliche amministrazioni ed
alle società inserite nel conto economico consolidato della
PA l’obbligo di utilizzare le convenzioni Consip per
particolari categorie merceologiche di beni, compresi i
carburanti, prevedendo la nullità dei contratti stipulati in
violazione di tale obbligo, oltre ad una connessa ipotesi di
responsabilità disciplinare e per danno erariale in capo
agli autori della violazione medesima.
Da ultimo, la L. n. 208/2015 ha introdotto
una serie di disposizioni, sempre in materia di acquisti
delle pubbliche amministrazioni, disciplinando ulteriormente
la possibilità di deroga al regime dianzi sinteticamente
descritto, che era stata introdotta dalla L. n. 228/2013.
In primo luogo, il comma 510
dell’art. 1 della Legge di stabilità per il 2016, ha
riconosciuto alle pubbliche amministrazioni obbligate ad
approvvigionarsi attraverso le convenzioni Consip -o
attraverso quelle stipulate con altre centrali di
committenza regionali- la facoltà di procedere ad acquisti
autonomi, esclusivamente nel caso in cui “il bene o il
servizio oggetto di convenzione non sia idoneo al
soddisfacimento dello specifico fabbisogno
dell’amministrazione per mancanza di caratteristiche
essenziali” ed a condizione che vi sia la previa
autorizzazione motivata dell’organo di vertice
amministrativo, da trasmettere al competente ufficio della
Corte dei conti.
In secondo luogo, il comma 494 del
medesimo art. 1 della citata Legge di stabilità, modificando
il comma 7 dell’art. 1 del D.L. n. 95/2012, ha fatta salva
la possibilità, introdotta dall’art. 1, comma 151, della L.
n. 228/2013, di procedere ad affidamenti al di fuori della
convenzione Consip conseguenti “ad approvvigionamenti da
altre centrali di committenza o a procedure di evidenza
pubblica”, ma ha disposto, altresì, che gli stessi
debbano prevedere “corrispettivi inferiori almeno del 10
per cento per le categorie merceologiche telefonia fissa e
telefonia mobile e del 3 per cento per le categorie
merceologiche carburanti extra-rete, carburanti rete,
energia elettrica, gas e combustibili per il riscaldamento
rispetto ai migliori corrispettivi indicati nelle
convenzioni e accordi quadro messi a disposizione da Consip
SpA e dalle centrali di committenza regionali”.
La disposizione, inoltre, ha confermato la
necessità di apporre ai relativi contratti una clausola
risolutiva espressa, fissando, però, ad una soglia (più del
10 per cento) la percentuale di maggior vantaggio economico
ai fini dell’adeguamento del contraente ai “migliori
corrispettivi” offerti dalla Consip ed ha individuato un
“periodo sperimentale” di tre anni (dal 01.01.2017 al
31.12.2019), nel quale la facoltà per le amministrazioni di
svincolarsi dalle convenzioni Consip non è operante.
La ratio delle modifiche appena illustrate è quella
di rafforzare il sistema di acquisizione centralizzata,
disincentivando gli acquisti autonomi anche attraverso la “disapplicazione”
della deroga con riguardo ad alcune categorie merceologiche,
tra le quali proprio i carburanti.
Così definito il quadro normativo di riferimento,
occorre accertare se ed in che termini un ente
locale possa effettuare acquisti di carburante in via
diretta, sottraendosi, cioè, al meccanismo della
convenzione-quadro, ove questa comporti l’applicazione di un
corrispettivo (prezzo) sensibilmente più elevato rispetto a
quello rinvenibile sul mercato locale, avente, tra l’altro,
il vantaggio della vicinanza dei luoghi di rifornimento
(distributori presenti sul territorio comunale).
In merito si sono già espresse altre Sezioni regionali di
controllo, soffermandosi, in particolare, sulla
interpretazione delle citate norme derogatorie (Sezione
regionale di controllo per l’Emilia Romagna,
parere 20.04.2016 n. 38 e Sezione regionale di
controllo per il Friuli Venezia Giulia,
parere 25.03.2016 n. 35).
La prima, ossia quella che prevede la possibilità di
procedere, in generale, ad acquisti autonomi, laddove il
bene o servizio offerto in forza della convenzione non
soddisfi lo specifico fabbisogno dell’amministrazione
acquirente (comma 510 della L. n. 208/2015), correttamente è
stata ritenuta non applicabile al caso di acquisto di beni
fungibili (qual è, di norma e per natura, il carburante)
(Sezione regionale di controllo per il Friuli Venezia
Giulia, deliberazione cit.). La seconda, che
riguarda, invece, il reperimento sul mercato di alcune
categorie di prodotti, tra i quali proprio il carburante
(art. 1, comma 7, del D.L. n. 95/2012, come modificato dal
comma 494 della L. n. 208/2015) è senz’altro applicabile.
La deroga,
come emerge dal testo di tale ultima disposizione,
è sottoposta a limiti ed a condizioni ben precisi,
concretizzandosi nell’alternativa del ricorso ad altre
centrali di committenza o dell’esperimento di apposita
procedura ad evidenza pubblica. E’ richiesto, in entrambi i
casi, il conseguimento di un risparmio apprezzabile che, per
quanto riguarda il carburante (ed altre tipologie di beni
individuati dal legislatore), non può essere inferiore del 3
per cento rispetto ai prezzi fissati nelle convenzioni
Consip.
Non esistono, allo stato, possibilità di
approvvigionamento alternative diverse da quelle previste da
tali disposizioni, le quali, tra l’altro, avendo carattere
derogatorio e, quindi, eccezionale, devono considerarsi di
stretta interpretazione.
Per quanto riguarda l’acquisto di carburante, in generale ed
ad eccezione degli esercizi 2017, 2018 e 2019, dunque, il
ricorso diretto al mercato, laddove sia suscettibile di
determinare un effettivo risparmio di spesa, potrà avvenire
in presenza dei presupposti individuati dal legislatore e
nei limiti da quest’ultimo fissati.
Ne consegue che, qualora una
amministrazione pubblica non volesse far ricorso ad altre
centrali di committenza per l’acquisto di carburante,
sottraendosi al meccanismo delle convenzioni-quadro, e
volesse, invece, stabilire un rapporto diretto con un
fornitore, non potrebbe proprio farlo nel presente esercizio
(come negli altri due successivi), mentre al di fuori del
periodo di sospensione della deroga, avrebbe l’obbligo di
individuare tale fornitore mediante procedura ad evidenza
pubblica, secondo i principi generali e secondo le modalità
previste dal citato comma 494 dell’art. 1 della L. n.
208/2015.
Ciò a prescindere dall’onerosità e dalla
minor convenienza che, nel caso concreto rappresentato
dall’ente, sono certamente imputabili al sistema di acquisto
previsto dalle norme vigenti, alle quali codesta Sezione, al
pari delle amministrazioni pubbliche destinatarie della
normativa medesima, tuttavia, è tenuta a dare applicazione
(Corte dei Conti, Sez. controllo Veneto,
parere 29.05.2017 n. 348). |
CONSIGLIERI COMUNALI -
INCARICHI PROFESSIONALI:
Danno erariale al sindaco per l’affidamento diretto di
incarichi legali.
Secondo i magistrati contabili
l'affidamento in via diretta, da parte del sindaco, del
patrocinio legale ad avvocati del libero foro, in presenza
all'interno dell'ente di una propria avvocatura civica,
costituisce colpa grave tale da generare danno erariale.
Una possibile ed eccezionale scelta di avvocati all'esterno,
resta, in ogni caso, attribuita in via esclusiva alla
competenza dell'organo gestionale (avvocatura) e non
all'organo politico che, avendo proceduto con un illegittimo
affidamento fiduciario, ne subisce le sorti in fatto di
responsabilità erariale trattandosi di spesa inutilmente
sostenuta dall'ente. In altri termini, i citati incarichi
effettuati dal sindaco, rientrando in una scelta di gestione
attiva, ne radicano le conseguenze e le relative
responsabilità.
Sono queste le conclusioni cui è pervenuta la Corte dei
conti, Sez. giurisdiz. per il Lazio con la
sentenza 29.05.2017 n. 124.
Il fatto
La causa amministrativa che vedeva esposta l'amministrazione
comunale, con rilevanti risarcimenti di danni richiesti da
una ditta aggiudicataria a cui era stata successivamente
disposta la revoca dell'aggiudicazione, aveva condotto il
sindaco ad affidare in via diretta la difesa dell'ente a due
avvocati esterni del libero foro, pur in presenza di una
avvocatura interna. L'amministrazione, a fronte delle
richieste avanzate dai ricorrenti e della possibile
soccombenza l'ente, addiveniva a una transazione con
l'aggiudicatario estromesso, transazione considerata
vantaggiosa per l'ente.
In considerazione della mancata preventiva definizione degli
onorari da corrispondere ai legali esterni, si addiveniva a
un accordo sulle somme da corrispondere, con il successivo
riconoscimento di un debito fuori bilancio da parte del
consiglio comunale per circa mezzo milione di euro. A fronte
di tale scelta fiduciaria e del rilevante importo
corrisposto, la Procura rinviava a giudizio di conto il
sindaco stimando il danno erariale pari alla differenza tra
quanto corrisposto ai legali esterni e quanto invece da
corrispondere agli avvocati interni (incentivi) in caso di
assegnazione a questi ultimi della difesa dell'ente.
La difesa dell'ex sindaco
Nelle proprie memorie di comparsa l'ex primo cittadino si
difende precisando come l'assistenza esterna era
giustificata dalla rilevanza economica del risarcimento
richiesto, tanto che la transazione, successivamente
raggiunta, era avvallata anche dall'avvocatura interna,
inoltre gli onorari pagati agli avvocati esterni prevedevano
una decurtazione importante, rispetto a quanto inizialmente
richiesto e, in ultimo, se di responsabilità doveva parlarsi
la stessa non poteva non trovare altri possibili
interlocutori a partire dai consiglieri comunali che avevano
votato il riconoscimento e quindi l'utilità della citata
prestazione, oltre ai responsabili dei servizi che ne
avevano sottoscritto i pareri di conformità contabile e
tecnica, ivi inclusa la stessa avvocatura civica che ne
aveva giudicato la congruità.
Le motivazioni del collegio contabile
Secondo il collegio contabile la responsabilità del danno
erariale, causato alle casse dell'ente locale, discende in
via preliminare dall'illegittimo conferimento diretto
effettuato dal sindaco, ossia in assenza di una comprovata e
motivata impossibilità di assegnazione della difesa
dell'ente alla propria avvocatura civica (composta da ben 24
legali interni). Altro aspetto fondamentale, che radica la
responsabilità al primo cittadino, è soprattutto la
circostanza che l'iniziativa per l'attribuzione
dell'incarico esterno era stata assunta dal sindaco mediante
una ingerenza nell'attività gestionale e tale che sul
medesimo non poteva non gravare anche un onere di verifica
della legittimità delle modalità con le quale si intendeva
conferire i citati incarichi.
In altri termini, se l'incarico esterno fosse stato
attribuito dal responsabile dell'avvocatura civica, lo
stesso avrebbe dovuto necessariamente motivare
l'impossibilità ad assolvere con la struttura interna il
citato incarico, oltre alle necessarie ed obbligatorie
attività gestionali, ivi comprese quelle relative
all'affidamento degli incarichi di patrocinio legale
all'esterno, mentre nel caso di specie il Sindaco,
inserendosi indebitamente nella gestione attiva, non può non
subirne le conseguenze degli incarichi illegittimi
attribuiti in via fiduciaria.
Il Collegio contabile considera, pertanto, le somme
corrisposte ai citati legali del libero foro come
diminuzione patrimoniale subita dall'ente con ripristino
della tutela contabile in capo al convenuto, applicando,
tuttavia, la riduzione di 1/3 delle somme che avrebbero
dovute essere poste in capo anche ad altri soggetti, non
chiamati dalla Procura contabile in giudizio, ma che in ogni
caso hanno partecipato alla successiva liquidazione delle
somme non dovute mediante il citato riconoscimento del
debito fuori bilancio (articolo Quotidiano Enti Locali &
Pa del 05.06.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI - PUBBLICO IMPIEGO: Affinché
l'affidamento di un incarico professionale all'esterno
dell'ente non sostanzi un danno erariale,
la giurisprudenza contabile ha precisato principi e
criteri da osservare, poi positivizzati dal legislatore,
quali:
a) i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni
possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza
dell'Amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze
eccedenti le normali competenze del personale dipendente e
conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si
possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato
amministrativo;
b) l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività
continuativa bensì la soluzione di specifiche problematiche
già individuate al momento del conferimento del quale
debbono costituire l'oggetto espresso;
c) l'incarico si deve caratterizzare per la specificità e la
temporaneità, dovendosi altresì dimostrare l'impossibilità
di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle
strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo;
d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare
surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici
dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge;
e) il compenso connesso all'incarico sia proporzionato all'attività
svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata
al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei
requisiti previsti;
g) l'organizzazione dell'Amministrazione deve essere comunque
caratterizzata per il rispetto dei princìpi di
razionalizzazione, senza duplicazione di funzioni e senza
sovrapposizione all'attività ed alla gestione
amministrativa, per la migliore utilizzazione e flessibilità
delle risorse umane nonché per l'economicità, trasparenza ed
efficacia dell'azione amministrativa, per il prioritario
impiego delle risorse umane già esistenti all'interno
dell'apparato;
h) l'incarico non deve essere generico o indeterminato, al fine di
evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli
organici dell'Ente, il che presuppone la previa ricognizione
e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli
organici delle specifiche professionalità richieste;
i) i criteri di conferimento non devono rivelarsi generici, perché
la genericità non consente un controllo sulla legittimità
dell'esercizio dell'attività amministrativa di attribuzione
degli incarichi.
---------------
Con riguardo all’elemento soggettivo della responsabilità
amministrativa si reputa che la condotte del convenuto
(sindaco) sia stata connotata da colpa grave evincibile
dalla violazione di disposizioni normative chiare, non
connotate da complessità esegetiche in ordine al
conferimento di incarichi esterni.
---------------
4. Nel merito, il Collegio deve esaminare la vicenda
descritta nella premessa in fatto e procedere alla verifica
della sussistenza degli elementi tipici della responsabilità
amministrativa che si sostanziano in un danno patrimoniale,
economicamente valutabile, arrecato alla pubblica
amministrazione, in una condotta connotata da colpa grave o
dolo, nel nesso di causalità tra il predetto comportamento e
l'evento dannoso, nonché, nella sussistenza di un rapporto
di servizio fra colui che lo ha determinato e l'ente
danneggiato.
5. Con riferimento all’elemento oggettivo va espressa
condivisione in ordine all’an del danno erariale
contestato dall’organo requirente e per le considerazioni
dallo stesso espresse.
Si premette che il quadro normativo di riferimento è
rappresentato:
· dall’art. 13, comma 5, del "Regolamento sull'Ordinamento degli
Uffici e dei Servizi" approvato con deliberazione della
Giunta Comunale n. 62 del 29.10.2002, e vigente all’epoca
dei fatti;
· dall'art. 6, comma 1, del "Regolamento di Organizzazione per
l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio,
resistenza alle liti, conciliazione e transazione"
approvato con deliberazione della Giunta Comunale n. 182 del
27.01.2001 e tuttora vigente;
· in termini generali, dall’art. 110 del Tuel e dall’art. 7, comma
6 e seguenti, del decreto legislativo n. 165/2001.
Sempre in subiecta materia la
giurisprudenza contabile ha precisato principi e criteri da
osservare, poi positivizzati dal legislatore con le
disposizioni normative richiamate:
a) i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni
possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza
dell'Amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze
eccedenti le normali competenze del personale dipendente e
conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si
possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato
amministrativo;
b) l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività
continuativa bensì la soluzione di specifiche problematiche
già individuate al momento del conferimento del quale
debbono costituire l'oggetto espresso;
c) l'incarico si deve caratterizzare per la specificità e la
temporaneità, dovendosi altresì dimostrare l'impossibilità
di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle
strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo;
d) l'incarico non deve rappresentare uno strumento per ampliare
surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici
dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge;
e) il compenso connesso all'incarico sia proporzionato all'attività
svolta e non liquidato in maniera forfetaria;
f) la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata
al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei
requisiti previsti;
g) l'organizzazione dell'Amministrazione deve essere comunque
caratterizzata per il rispetto dei princìpi di
razionalizzazione, senza duplicazione di funzioni e senza
sovrapposizione all'attività ed alla gestione
amministrativa, per la migliore utilizzazione e flessibilità
delle risorse umane nonché per l'economicità, trasparenza ed
efficacia dell'azione amministrativa, per il prioritario
impiego delle risorse umane già esistenti all'interno
dell'apparato;
h) l'incarico non deve essere generico o indeterminato, al fine di
evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli
organici dell'Ente, il che presuppone la previa ricognizione
e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli
organici delle specifiche professionalità richieste;
i) i criteri di conferimento non devono rivelarsi generici, perché
la genericità non consente un controllo sulla legittimità
dell'esercizio dell'attività amministrativa di attribuzione
degli incarichi.
Ciò posto, l’illegittimità del conferimento
di incarico in esame si evince:
· dalla chiara violazione delle disposizioni
regolamentari disciplinanti l’istituto, in base alle quali
apparteneva al Capo dell'Avvocatura Comunale sia il potere
di proposta di conferimento di incarichi professionali ad
avvocati del libero foro
(art. 13, comma 5, del "Regolamento sull'Ordinamento
degli Uffici e dei Servizi”), sia il
potere di scelta del legale esterno
(all'art. 6, comma 1, "Regolamento di Organizzazione per
l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio,
resistenza alle liti, conciliazione e transazione"),
mentre, nella fattispecie in esame, la nomina dei
legali esterni è avvenuta mediante la procura a firma del
Sindaco Gi.Al. estesa a margine dell'atto di costituzione
del Comune di Roma nel giudizio avanti al TAR Lazio;
· dall’omessa –seria e concreta- preliminare
verifica in ordine alla effettiva impossibilità di ricorrere
a risorse interne, imposta sia dalle disposizioni
regolamentari richiamate che, più in generale, da norme di
legge ordinaria.
Al riguardo anche i principi di diritto affermati dalle
Sezioni Riunite di questa Corte (delib. n. 6/2005) espressi
nel senso che “deve essere adeguatamente
motivato con specifico riferimento all’assenza di strutture
organizzative o professionalità interne all’ente in grado di
assicurare i medesimi servizi. L’affidamento dell’incarico
deve essere preceduto, perciò, da un accertamento reale, che
coinvolge la responsabilità del dirigente competente,
sull’assenza di servizi o di professionalità, interne
all’ente, che siano in grado di adempiere l’incarico”;
· dalla circostanza –ben posta in rilievo dall’organo requirente-
che all'epoca dei fatti, nel mese di febbraio 2009,
l'Avvocatura Civica romana disponeva di ben ventiquattro
avvocati in servizio permanente.
La grave carenza istruttoria rilevata
milita, peraltro, nel senso che la nomina dei legali esterni
sia stata frutto di scelta fiduciaria da parte dell'allora
Sindaco Al..
5.1 Non inficiano le conclusioni raggiunte le pur suggestive
argomentazioni difensive volte ad evidenziare:
· la estrema rilevanza ed importanza (anche economica) della
questione, giacché tale aspetto non rende legittimo il
conferimento dell’incarico effettuato in palese violazione
di disposizioni legislative e regolamentari;
· l’assenza di segnalazione da parte del Capo dell’Avvocatura in
ordine a una possibile violazione procedimentale del
conferimento dell’incarico che -pur valutabile in sede di
quantificazione del danno erariale imputabile- non ha
valenza esimente dalla responsabilità amministrativa in
ragione della esigibilità di una condotta informata ai
principi di diligenza da parte del “primo cittadino”,
e declinabile nella vicenda in esame in termini di
preliminare verifica in ordine alla legittimità delle
modalità del conferimento di incarico che si intendeva
effettuare;
· l’assenza di danno erariale asserita affermando che il compenso
professionale era correlato alla prestazione, in quanto
siffatta tesi sovrappone impropriamente due piani, quello
civilistico riguardante l’esecuzione dell’incarico e che
vede come Parti l’Ente locale e i legali interessati, e
quello contabile nel cui ambito si è consumata la
illegittima procedura di conferimento e nel quale vengono in
rilievo l’Ente nella veste di danneggiato e il dipendente in
quella di presunto danneggiante;
· l’assenza di danno erariale affermata -sotto diverso profilo-
sull’assunto secondo cui l’Ente locale non avrebbe
conseguito un risparmio ove l’incarico fosse stato svolto in
via esclusiva dagli Avvocati interni dell’Ente, in quanto
asserzione puramente ipotetica;
· l’interruzione di ogni nesso causale tra il presunto danno ed il
comportamento tenuto dal convenuto che sarebbe stata
determinata dall’adozione della delibera n. 64/2012, in
quanto tale erronea tesi scaturisce dall’omessa distinzione
tra la delibera di riconoscimento del debito fuori bilancio
-che va a sanare un rapporto a contenuto patrimoniale tra
l’Ente e un soggetto esterno- doverosa ex art. 191 del Tuel
e la condotta illegittima e dannosa del convenuto foriera di
responsabilità amministrativa;
· l’impossibilità, da parte del sindaco, di essere a conoscenza del
regolamento dell’Ente articolato e complesso disciplinante
la materia, in quanto tale assunto –in astratto
condivisibile- non tiene conto che –in concreto- nella
fattispecie l’iniziativa per l’attribuzione dell’incarico
era assunta dal sindaco con una ingerenza nell’attività
gestionale e sul medesimo non poteva non gravare anche un
onere di verifica della legittimità delle modalità con le
quale si intendeva conferirlo;
· l’autentica di firma apposta consiste nell’attestazione che la
sottoscrizione è stata apposta in sua presenza da persona la
cui identità è stata previamente accertata conferendo anche
certezza alla data, ma non ha valenza di condivisione del
contenuto dell’atto.
6. Diverso apprezzamento si ritiene debba esprimersi in
ordine alla quantificazione del danno erariale -operata
dall’organo requirente in euro 468.720,00- che deve tener
conto del contributo causale di altri soggetti non evocati
in giudizio, sicché il danno risarcibile in favore dell’Ente
locale viene rideterminato in euro 312.480,00, oltre alla
rivalutazione monetaria dalla data (02.07.2013)
dell’esborso.
7. Con riguardo all’elemento soggettivo
della responsabilità amministrativa si reputa che la
condotte del convenuto sia stata connotata da colpa grave
evincibile dalla violazione di disposizioni normative
chiare, non connotate da complessità esegetiche in ordine al
conferimento di incarichi esterni.
8. Si reputano, inoltre, sussistenti, nella fattispecie in
esame, anche gli altri elementi della responsabilità
amministrativa, del rapporto di servizio –peraltro non
contestato- e del nesso di causalità.
9. In conclusione, accertata l’esistenza di tutti i
requisiti costitutivi della responsabilità amministrativa,
la domanda della Procura va accolta per le ragioni da questa
prospettate ma nella diversa misura dal Collegio determinata
oltre a rivalutazione monetaria e interessi legali dalla
data della sentenza al soddisfo.
10. Alla soccombenza segue anche l’obbligo del pagamento
delle spese di giudizio.
P. Q. M.
La Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale per la Regione
Lazio, definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza
ed eccezione reiette
RESPINGE
l’istanza di integrazione del contraddittorio.
CONDANNA
per l’addebito di responsabilità amministrativa di cui
all’atto di citazione in epigrafe, il signor Gi.Al. al
pagamento, in favore del comune di Roma Capitale, di
complessivi euro 312.480,00, oltre alla rivalutazione
monetaria dalla data del 02.07.2013.
Tale somma sarà gravate di interessi legali a far data dalla
pubblicazione della presente sentenza all’effettivo soddisfo
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 29.05.2017 n. 124). |
APPALTI -
CONSIGLIERI COMUNALI:
Risponde di danno erariale il sindaco che assume iniziative
per il comune senza seguire l'iter formale giuridico
contabile.
Risponde di danno erariale il sindaco
che, con una condotta del tutto difforme dalla normativa
vigente, assume iniziative estranee alle finalità
istituzionali assegnate dalla legge.
Nell'ordinamento degli enti locali le obbligazioni contratte
per acquisto di beni e servizi senza atto di impegno
contabile registrato sul competente capitolo di bilancio
ovvero senza attestazione di copertura finanziaria non
vincolano l'Amministrazione, bensì intercorrono tra il terzo
e l'amministratore o funzionario che le ha stipulate e/o ne
ha consentito l'esecuzione.
Va, pertanto, dichiarato danno ingiusto il pagamento -a
titolo di debito fuori bilancio- delle somme richieste per
prestazioni non collegate all'esercizio di funzioni o
servizi di competenza dell'ente e delle somme cui non
corrisponda un "arricchimento" dell'ente ai sensi dell'art.
2041 c.c.
(Corte dei conti, Sez. giurisdiz. Toscana,
sentenza 23.05.2017 n. 133 -
massima tratta da www.dirittodeiservizipubblici.it).
---------------
MASSIMA
Non essendo state poste questioni preliminari, il
Collegio entrando nel merito ritiene che la richiesta di
parte attorea sia fondata e sia da accogliere nei sensi di
cui in motivazione.
La Procura contesta all’odierno convenuto di aver assunto
una iniziativa estranea alle finalità istituzionali
dell’ente, con un uso della comunicazione istituzionale che,
nella specie, poteva definirsi comunicazione politica.
Osserva il Collegio che nell’ambito degli indirizzi di
modernizzazione delle Amministrazioni Pubbliche assume
rilevanza l’adozione di iniziative e strumenti di
trasparenza, relazione, comunicazione ed informazione
diretti a realizzare un rapporto aperto con i cittadini.
Alcune iniziative di legge, e tra esse la legge 07.08.1990 n. 241 e la legge
07.06.2000 n. 150, nell’ottica di
tale orientamento, hanno introdotto principi operativi e
strutture organizzative volti a questo scopo.
Tra le iniziative adottate dalle Amministrazioni vi è quello
della rendicontazione sociale che risponde alle esigenze
conoscitive dei diversi interlocutori (singoli cittadini,
famiglie, imprese, associazioni, altre istituzioni pubbliche
e private), cui è consentito di comprendere e valutare gli
effetti dell’azione amministrativa.
Nella specie la base normativa primaria di riferimento è
costituita dall’art. 1 della l. 07.06.2000 n. 150 che
prevede (comma 5): ”le attività di formazione e
comunicazione sono, in particolare, finalizzate a: a)
illustrare e favorire la conoscenza delle disposizioni
normative al fine di facilitarne l’ applicazione; b)
illustrare le attività delle istituzioni e il loro
funzionamento; c) favorire l’accesso ai servizi pubblici,
promuovendone la conoscenza; d) promuovere conoscenze
allargate ed approfondite su temi di rilevante interesse
pubblico e sociale; e) favorire processi interni di
semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli
apparati amministrativi nonché la conoscenza dell’avvio e
del percorso dei procedimenti amministrativi; f) promuovere
l’ immagine delle amministrazioni , nonché quella dell’
Italia, in Europa e nel mondo, conferendo conoscenza e
visibilità ad eventi di importanza locale, regionale,
nazionale ed internazionale”.
Date queste finalità, il volume dato alle stampe dal sig. Au.Pe. non appare certamente sussumibile in una
delle tipologie previste dalla normativa e la condotta
identifica, secondo la parte attorea, un danno erariale in
quanto costituente un atto politico che può dichiararsi di
parte e imputato e traslato come costo sul bilancio
dell’Amministrazione.
Osserva il Collegio che senza dubbio non appare sempre
agevole lo scrutinio del contenuto della pubblicazione con
la individuazione dell’assenza della finalità della
comunicazione istituzionale e la strumentalizzazione della
pubblicazione al fine della propaganda politica atteso che
la propaganda (politica) in quanto caratterizzata da una
valenza manipolativa e persuasiva -poiché il messaggio che
a suo mezzo viene trasmesso ha la finalità di provocare
l’adesione dei destinatari verso l’opzione enunciata
dall’autore della comunicazione– che si distingue
concettualmente dall’informazione, ma la distinzione,
agevole in astratto, può in concreto presentare difficoltà
nei casi limite: cfr. Cass. Sez. I Civ. 20.01.1998
n. 477.
Tuttavia in ogni caso la finalità istituzionale disegnata
dal quadro normativo suddetto è stata implementata dal
convenuto con un uso scorretto delle risorse finanziarie e
con consequenziale danno erariale per avere il soggetto
convenuto violato l’iter formale giuridico contabile
destinato ad esitare nel previo impegno di spesa, siccome è
confermato dalla nota del segretario comunale del 23.10.2014, il quale confermava che non risultavano agli atti del
Comune impegni di spesa inerenti l’acquisto del libro di
cui si tratta.
In altri termini il convenuto ha assunto, con condotta
gravemente colposa, un’iniziativa che non solo può
qualificarsi estranea alle finalità istituzionali assegnate
dalla legge, in conseguenza della decisione di impegnare i
fondi pubblici per la pubblicazione del volume in assenza
dei presupposti previsti dalla richiamata normativa, ma ha
agito anche in assenza di un impegno di spesa violando i
doverosi passaggi procedurali giuscontabili comportamento
sanzionato sistematicamente dalla giurisprudenza contabile
(cfr. Sez. I Centr. 18.01.2016 n. 22 e Sez. II Centr. 05.04.2002 n. 114),
con consequenziale assunzione di un
debito fuori bilancio causativo di un danno erariale.
Pertanto, vista la ritenuta responsabilità per i menzionati
motivi, gli oneri sostenuti dal Comune costituiscono danno
erariale in quanto i relativi oneri non potevano essere
posti a carico del Comune e devono essere rifusi dal
convenuto che ha adottato l’iniziativa in questione: cfr.
Sezione giurisdizionale Trentino Alto Adige 13.05.2015
n. 14.
Indiscusso il rapporto di servizio sussistente per il
sindaco Pe., il danno erariale deriva e si configura
definitivamente in forza del decreto ingiuntivo n. 36/2013
la cui cogenza esclude ogni responsabilità di coloro che
espressero voto favorevole alla adozione della citata
delibera n. 49/2014.
Osserva correttamente la parte attorea che il vincolo
giuridico derivante dall’ obbligazione (di pagamento del
corrispettivo) contratta nei confronti della Fe.Ed.Ar. srl, sarebbe gravato, come per legge, sul sig.
Pe. se vi fosse stata opposizione al decreto
ingiuntivo in modo da impedire allo stesso di divenire
definitivo con traslazione dei costi sul bilancio pubblico.
Infatti nell’ordinamento degli enti locali le obbligazioni
contratte per acquisto di beni e servizi senza atto di
impegno contabile registrato sul competente capitolo di
bilancio ovvero senza attestazione di copertura finanziaria
non vincolano l’Amministrazione, bensì intercorrono tra il
terzo e l’amministratore o funzionario che le ha stipulate
e/o ne ha consentito l’esecuzione (art. 23 D.L. n. 66/1989,
riprodotto nell’ art. 37 D.Lgs. 77/1995 e nell’art. 191 D.Lgs. n. 267/2000),
né vi è una parte “riconoscibile” o
“riconosciuta” da parte dell’Ente che avrebbe potuto sanare
l’assenza dell’atto di impegno con esperibilità da parte del
privato di un’azione di indebito arricchimento
antecedentemente non consentita (cfr. Sez. I Centr. 27.03.2008 n. 7966).
Va, pertanto, dichiarato danno ingiusto il pagamento –a
titolo di debito fuori bilancio- delle somme richieste per
prestazioni non collegate all’esercizio di funzioni o
servizi di competenza dell’ente e delle somme cui non
corrisponda un “arricchimento” dell’ente ai sensi dell’art.
2041 c.c..
Il danno erariale, sotto il profilo dell’efficienza causale,
va attribuito all’odierno convenuto in quanto autore della
condotta del tutto difforme dalla normativa vigente.
Il sig. Au.Pe. deve, pertanto, essere condannato
al pagamento, in favore del Comune di Montescudaio, della
somma sopra indicata, della somma di € 7.640,34, oltre
rivalutazione monetaria fino alla data di pubblicazione
della presente pronuncia, e con gli interessi legali sulla
somma così rivalutata decorrenti dalla decisione sino al
soddisfo. |
ATTI AMMINISTRATIVI -
CONSIGLIERI COMUNALI:
Danno erariale per la giunta che avvia una lite
temeraria.
L'opposizione al decreto monitorio, privo degli elementi
essenziali per essere accolto, costituisce lite temeraria i
cui costi supplementari sopportati dall'amministrazione
possono essere posti a carico dell'organo collegiale che ne
deliberi la resistenza in giudizio. A fronte di un caso
tipico di lite temeraria, dettagliatamente dimostrata dalla
Procura e successivamente dal collegio contabile, sono stati
condannati per danno erariale sia il sindaco che gli altri
componenti della Giunta comunale.
Tali sono le conclusioni a cui è pervenuta la Corte dei
Conti, Sez. giurisdiz. Lazio, con la
sentenza
11.05.2017 n. 107 .
La vicenda
A causa dei mancati pagamenti per alcuni lavori effettuati,
l'impresa notificava al Comune un provvedimento monitorio
nel quale si ingiungeva il pagamento che, oltre della parte
capitale, comprendeva anche gli interessi moratori per
ritardato pagamento nonché le spese dello stesso decreto
monitorio. Avverso il citato decreto ingiuntivo proponeva,
tuttavia, ricorso il Comune con delibera della giunta
comunale.
Il Tribunale respingeva l'opposizione e condannava il Comune
alle ulteriori spese di giudizio. La Procura rinviava,
pertanto, a giudizio l'intera Giunta per rispondere del
danno erariale causato al Comune a fronte delle maggiori
spese corrisposte e quantificate pari all'importo
complessivamente pagato con sola detrazione della quota del
capitale in ogni caso dovuta all'impresa.
La difesa dei convenuti
I convenuti, oltre alla richiesta di prescrizione, si
difendono evidenziando come non si trattasse di lite
temeraria, tanto che sul punto nulla veniva evidenziato dal
Tribunale, inoltre non vi era violazione di nessuna delle
norme imperative tali da generare una tipizzata
responsabilità erariale.
La sentenza del collegio contabile
Avuto riguardo alla prescrizione sostenuta dai convenuti,
evidenzia il Collegio contabile come la stessa coincida con
l'effettiva diminuzione patrimoniale del Comune,
realizzatasi solo al momento del pagamento disposto a
seguito della citata sentenza e non con la data della
deliberazione che aveva disposto la resistenza in giudizio
al decreto ingiuntivo. Nel merito domanda di risarcimento
del danno a titolo di responsabilità amministrativa per lite
temeraria è fondata, per le seguenti ragioni:
• dall'esame degli atti emerge come il finanziamento dei citati
lavori avrebbe dovuto essere disposto con mutuo contratto
con la Cassa Depositi e Prestiti, ma il Comune, non avendo
trasmesso la documentazione necessaria nei termini, non
riceveva alcun finanziamento dall'istituto;
• con successiva nota il Comune inviava la documentazione
all'Istituto ma questi rispondeva in modo negativo in quanto
trattandosi di nuovi lavori vi era assenza del provvedimento
di devoluzione del mutuo richiesto;
• mentre il Comune provvedeva alla richiesta del citato
finanziamento la ditta terminava i lavori e a seguito della
richiesta del pagamento, il Consiglio comunale negava la
proposta di finanziamento con risorse a carico del bilancio
comunale.
Effettuata la citata ricostruzione, appare evidente la
responsabilità dell'intero organo esecutivo nel proporre
opposizione al citato decreto ingiuntivo, con ovvia
soccombenza in giudizio e aggravio di spese per l'ente. Il
danno patito dall'ente, come quantificato dalla Procura,
deve essere ripartito in parti uguali tra i convenuti
(articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del 18.05.2017). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
Danno erariale per il responsabile finanziario
che ritarda i pagamenti ai fornitori.
Condanna a carico del responsabile finanziario che ha
ritardato il pagamento delle fatture emesse dalla società
creditrice, debitamente vistate e provviste di fondi a
destinazione vincolata, derivanti da mutuo Cassa depositi e
prestiti.
È questo l'esito della
sentenza 10.04.2017 n. 69
della sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il
Lazio, scaturita dopo che la sezione di controllo aveva
inviato alla Procura informativa di danno arrecato a un
Comune per maggiori somme corrisposte a una società rispetto
al valore dei lavori che erano stati commissionati e
regolarmente eseguiti.
La vicenda
Il caso è riferibile a un affidamento di lavori per il
rifacimento delle strade urbane ed extraurbane per un
importo complessivo contrattuale di 368.782 euro oltre Iva,
per il quale la società non ha ricevuto il pagamento
tempestivo di alcune fatture, nonostante gli esiti
favorevoli del contenzioso in tutti i gradi di giudizio.
Solo a seguito della conclusione del lungo procedimento
giudiziale, l'appaltatore ha visto soddisfatte le proprie
ragioni. Oggetto del giudizio sono i maggiori oneri
derivanti dal contenzioso (interessi legali e spese di lite)
che l'amministrazione ha liquidato alla società. Le somme
aggiuntive rappresentano infatti un danno per l'ente
rispetto al costo dei lavori commissionati ed eseguiti.
Il danno
In particolare, le somme sono state riconosciute a seguito
di atto transattivo nel quale le parti si sono accordate per
la definizione delle spettanze con pagamento, di 56.387,39
euro, pari alla metà delle somme dovute a titolo di
interessi, oltre 6.901,58 euro per spese legali, per
complessivi 63.288,97 euro. Questo importo (al quale va
aggiunto quello di mille euro pagati dal Comune quale
compenso del commissario ad acta), seppure inferiore
a quello costituente il credito della ditta a titolo di
interessi e spese, costituisce pur sempre un danno erariale,
in quanto ha comportato una lievitazione dei costi
complessivi delle opere senza giustificazione alcuna.
La colpa
I costi dei lavori erano finanziati da fondi a destinazione
vincolata, derivanti da mutuo della Cdp, le cui somme erano
state incassate dal Comune in tempo utile per la
liquidazione delle fatture. I giudici ricostruiscono che per
tutte le fatture pagate in ritardo (tranne che per una), la
causa del ritardo risiede nel mancato utilizzo delle somme
incassate dal Comune dalla Cdp a fronte delle fatture, somme
che sono state versate, invece, in tesoreria senza vincolo
di destinazione, nel contesto della ormai cronica situazione
di deficit dell'ente, esistente sin dal 2009 e sfociata nel
2011 nella dichiarazione di dissesto.
Conseguentemente, l'imputabilità del danno sofferto dal
Comune è addossabile al responsabile finanziario, il quale
ha determinato la dispersione delle risorse, la loro
distrazione a fini diversi da quelli per i quali erano state
erogate, e, nel contesto più generale di cronica
indisponibilità di cassa, l'insolvenza delle fatture per
lungo tempo. Gli elementi di colpa a carico del responsabile
finanziario sarebbero riconducibili, secondo i giudici, alla
necessaria conoscenza della disciplina dell'utilizzo delle
somme a destinazione vincolata, del tutto incompatibile con
il loro utilizzo per fin diversi.
La deliberazione ribadisce la necessità di procedere al
tempestivo pagamento delle fatture, in particolar modo se
relative a spese finanziate con entrate a destinazione
vincolata già incassate e per le quali è stata riscontrata
dal responsabile del procedimento la correttezza della
prestazione e la sussistenza dei presupposti di legge per la
liquidazione (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
04.05.2017). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: La
fattispecie del dolo, nell’ambito della
responsabilità amministrativa patrimoniale, è definita,
rispetto all’ambito della colpa grave, per l’assenza
di ogni errore (l’errore non giustificabile è il nucleo
della colpa grave) e per la presenza, invece, di una
coscienza dell’illecito.
Dunque, la coscienza e volontà dell’illecito, cioè la
consapevolezza del fatto che il proprio comportamento
costituisce una trasgressione alle norme di legge e non è
assistito da alcuna causa di giustificazione, rileva di per
sé ai fini dell’assorbimento dell’illecito erariale
nell’illecito doloso, senza che sia necessario, come
lo è in altre sedi (come quella penale) accertare altri
ulteriori elementi al fine di verificare se sia maturata o
meno una determinata o specifica figura di reato.
---------------
Il Responsabile finanziario è responsabile del danno
erariale causato all'Ente per l'utilizzo di somme a
destinazione vincolata (mutuo) ad altri fini (maggiori costi
sopportati dal Comune per ritardati pagamenti a valere su
fondi ricevuti con destinazione vincolata, ma utilizzati per
altri scopi).
---------------
In sostanza, la tesi accusatoria individua nel comportamento
del Ma. il nesso causale per aver determinato l’insorgere
del titolo per le maggiori somme spettanti alla società per
interessi, per spese legali e del commissario ad acta,
in quanto spese ricollegabili alla mancata tempestiva
soddisfazione delle fondate pretese creditorie della società
esecutrice dei lavori.
Sostiene che tali somme egli avrebbe dovuto tempestivamente
liquidare, in quanto fondi a destinazione vincolata, che
egli doveva obbligatoriamente destinare al pagamento
tempestivo delle fatture, quale Responsabile del
Dipartimento Finanziario, e, a maggior ragione, quale
soggetto che aveva attestato la copertura finanziaria dei
lavori proprio in ragione delle disponibilità derivanti dal
mutuo contratto ad hoc ed esistenti in cassa, mentre
le some risultano versate in tesoreria, e poi destiate ad
altre spese, senza che sia stato rispettato il loro vincolo
di destinazione.
...
4.2 I fatti come sopra esposti sono direttamente rilevanti
ai fini della definizione del titolo dell’addebito al Ma.,
che il Collegio ritiene correttamente inquadrabile nella
fattispecie del dolo.
Tale figura, nell’ambito della responsabilità amministrativa
patrimoniale, è, infatti, definita, rispetto all’ambito
della colpa grave, per l’assenza di ogni errore
(l’errore non giustificabile è il nucleo della colpa
grave) e per la presenza, invece, di una coscienza
dell’illecito; dunque, la coscienza e volontà dell’illecito,
cioè la consapevolezza del fatto che il proprio
comportamento costituisce una trasgressione alle norme di
legge e non è assistito da alcuna causa di giustificazione,
rileva di per sé ai fini dell’assorbimento dell’illecito
erariale nell’illecito doloso, senza che sia
necessario, come lo è in altre sedi (come quella penale)
accertare altri ulteriori elementi al fine di verificare se
sia maturata o meno una determinata o specifica figura di
reato.
Una tale consapevolezza è certa nella posizione del Ma. per
tutte le modalità di commissione dell’illecito sopra
evidenziate, ed è all’uopo sufficiente richiamare la
disciplina dell’utilizzo delle somme a destinazione
vincolata, del tutto incompatibile con l’utilizzo delle
stesse ad altri fini, ed inserire tale illegittima
deviazione di risorse nell’ambito della gestione del Ma. nel
2009 (quando, come si è detto, egli era, se non compartecipe
delle cause, quantomeno sicuramente, nella sua qualità, del
tutto a conoscenza dello stato di insolvenza dell’ente) per
concluderne che egli aveva piena consapevolezza, sia della
violazione, che delle conseguenze dannose che nel tempo ne
sarebbero derivate al Comune debitore
(Corte dei Conti, Sez. giurisdiz. Lazio,
sentenza 10.04.2017 n. 69). |
APPALTI - CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Il risarcimento del danno erariale “da distrazione”.
Sussiste il danno erariale da
distrazione quando una amministrazione comunale,
beneficiaria di finanziamenti pubblici a destinazione
vincolata, utilizza gli stessi per scopi differenti rispetto
a quelli posti a base della richiesta di finanziamento, in
particolare per la realizzazione di opere diverse, anche se
aventi finalità istituzionali.
Il superficiale controllo, sebbene periodico, effettuato
dagli enti finanziatori, che abbia contribuito ad agevolare
i comportamenti amministrativi illeciti, determina un
concorso di responsabilità.
Il Sindaco, l’Assessore all’urbanistica e il responsabile
dell’area lavori pubblici di un Comune avevano chiesto un
finanziamento al Ministero dell’ambiente e alla Regione
Toscana al fine di effettuare opere di consolidamento e
ricostruzione di muri di contenimento nel centro storico del
paese, a seguito di dissesto idrogeologico. A tale scopo
avevano presentato al Ministero e alla Regione un progetto
preliminare delle opere da realizzarsi. Ottenuto il
finanziamento, lo stesso era utilizzato per la costruzione
di un parcheggio multipiano, in totale difformità rispetto
al progetto preliminare posto a base della richiesta.
La Corte dei conti ha condannato i trasgressori al
risarcimento del danno cd. “da distrazione”, con
conseguente restituzione delle somme finanziate, non
accogliendo le difese dei convenuti, i quali sostenevano
comunque la sussistenza di una finalità istituzionale nella
costruzione del parcheggio.
Tuttavia, considerato che parte delle opere realizzate
avevano anche una funzione di contenimento idrogeologico e
che l’omesso controllo (accertato in via incidentale) da
parte del Ministero e della Regione sulla regolare
esecuzione delle opere aveva agevolato la condotta illecita,
i magistrati contabili hanno decurtato l’obbligazione
risarcitoria dei responsabili (Corte dei Conti, Sez.
giurisdiz Toscana,
sentenza 31.01.2013 n. 35 - commento tratto da
http://drasd.unipmn.it).
---------------
MASSIMA
L’insieme delle argomentazioni di cui trattasi, premessa
la presenza o l’assenza di implicazioni di natura penale non
rilevanti in questa sede (se non come imput alla
presente indagine di responsabilità amministrativa
contabile) indica sicuramente la sussistenza di un livello
di colpa azionabile.
Al riguardo la giurisprudenza di questa
Corte si è più volte occupata dell’utilizzazione dei
pubblici finanziamenti non conforme alle destinazioni
impresse dalla legge o dall’amministrazione concedente,
ritenendo che la fattispecie all’esame costituisca ipotesi
di danno erariale (c.d. da distrazione).
Detta giurisprudenza costantemente è stata
confermata anche in tempi recenti
(Sez. III, 06.05.2009, n. 171 - Sez. III, 23.03.2009, n.
106) per cui il danno è stato considerato
proprio quello di avere distratto i fondi dall’utilizzazione
dei progetti presentati all’amministrazione
(cfr. altresì la copiosa giurisprudenza di primo grado
indicata in atto di citazione).
La medesima giurisprudenza ha peraltro
evidenziato che il carattere illecito della distrazione di
fondi a destinazione vincolata non è escluso dal fatto che i
fondi stessi siano stati utilizzati per altre finalità
istituzionali, potendosi, in tal caso, solo tenersi conto
degli eventuali vantaggi in sede di quantificazione del
danno (Sez. III,
12.10.2004, n. 542).
Peraltro la distrazione delle pubbliche
finanze dai fini impressi dalla legge è espressamente punita
anche dal codice penale (artt. 316-bis e 316-ter).
In sintesi la procedura di finanziamento,
come rilevato, lascia alcuni margini di
discrezionalità all’amministrazione richiedente
nell’indicare i luoghi e le soluzioni tecniche con cui
eliminare i problemi connessi al rischio idrogeologico ma
una volta indicati e prescelti ogni modifica è inibita
all’amministrazione ed in ogni caso deve essere portata a
conoscenza del Ministero che la deve valutare nuovamente
come conforme all’interesse generale e specifico della
tutela del territorio, revocando in caso contrario il
finanziamento.
Peraltro anche le
comunicazioni periodiche che il Comune inviava al Ministero
per informarlo sull’andamento dei lavori (All. 1, sub. 12,
nota dep. cit.) si limitavano a comunicare laconicamente gli
importi erogati a stato di avanzamento dei lavori senza
alcun ulteriore dettaglio.
La palese non conformità a norma di tali
comportamenti amministrativi doveva essere rilevata dalla
struttura ministeriale
(come dalla struttura regionale per la parte di propria
competenza) il cui silenzio è stato invece
superato solo da una indagine penale, partita per
irregolarità riscontrate nelle gare di affidamento dei
lavori finanziati con gli importi in contestazione.
In altri termini il Collegio ritiene che
gli omessi controlli periodici demandati ex lege al
Ministero dell’Ambiente ed alla Regione Toscana abbiano
agevolato i comportamenti amministrativi di cui trattasi,
incidendo anche sul volume del riflesso economico degli
stessi.
Per quanto sopra, in conformità all’indirizzo
giurisprudenziale già seguito da questa Sezione (Sent. n.
330 del 15.06.2012), dall’importo complessivo del danno
erariale contestato vanno detratte le quote teoricamente
ascrivibili al comportamento di soggetti non citati in
giudizio ma la cui responsabilità va accertata in via
incidentale (e, quindi, senza effetto di giudicato), al solo
fine di consentire al Collegio di parametrare la condanna
degli odierni citati in base al loro effettivo contributo
causale, tenuto conto che il danno non può farsi risalire
alla loro esclusiva responsabilità.
Tale quota può esser indicata in via equitativa nel 50% del
danno azionabile la cui determinazione, come già anticipato
in parte narrativa, ha richiesto l’adozione di una
consulenza tecnica d’ufficio il cui deliberato è stato
recepito da questo Collegio nei termini che seguono.
3. Danno erariale
In primo luogo mentre non paiono condivisibili (per tutte le
argomentazioni soprasvolte) le eccezioni difensive che
ipotizzano la non attualità del danno in quanto il Ministero
dell’Ambiente potrebbe pur sempre attivarsi per recuperare
gli importi nei confronti del Comune di Campagnatico oppure
l’inesistenza dello stesso per l’ipotizzata “legittimità”
della spesa, la richiesta di valutazione della utilitas
è stata invece (parzialmente) accolta dal Collegio.
La materia, ovviamente, per il tecnicismo della stessa ha
necessitato il ricorso ad un consulente esterno al quale
sono stati posti due distinti quesiti volti ad appurare il
valore delle opere realizzate e la quota parte delle stesse
cui possa attribuirsi una azione di “contenimento del
rischio idrogeologico”.
L’elaborato consegnato del perito, corredato da una ampia ed
esaustiva documentazione, dopo aver ripercorso le fasi
storiche del finanziamento, dalla richiesta alla
utilizzazione, ha valorizzato la quota utile di fini della
salvaguardia del territorio nei seguenti termini:
A) finanziamento ministeriale:
utilizzato per € 1.079.002,67 (al netto del saldo
disponibile di cassa pari ad € 90.997,33 potenzialmente a
disposizione del Ministero dell’Ambiente e non oggetto della
presente azione risarcitoria) di cui € 125.000,00 con
valenza ambientale ed un danno differenziale di €
954.002,67;
B) finanziamento regionale:
utilizzato per € 141.900,00 di cui € 105.000,00 con valenza
ambientale ed un danno differenziale di € 36.900,00.
Come già riportato, il Collegio condivide la tesi del CTU
(pagg. 64-67 dell’atto peritale) per la quale, diversamente
da quanto richiesto dai Consulenti di parte, l’utilitas
da detrarre postula un effetto “ambientale”
dell’opera principale (struttura adibita a futuro parcheggio
auto e terrazza calpestabile realizzata a contatto con mura
pericolanti) nei fatti piuttosto contenuto mentre l’opera
minore (muro di contenimento lungo la viabilità) per la
maggior parte può dirsi di concreto aiuto all’ambiente.
In altri e definitivi termini le opere
pubbliche (per
inciso oggi del tutto incomplete e inutilizzabili nonché
sotto sequestro per motivi di ordine penale)
sono state sì parzialmente realizzate ma con denaro
erogato e percepito con vincolo di destinazione all’interno
di una procedura “rigida”, nei fatti superata da una
progettazione esecutiva non solo difforme dalla preliminare
ma neppure ritualmente approvata dalla Amministrazione
centrale.
Sul punto poi il Consulente (pag. 56) indica anche
violazioni in ordine alla violazione della normativa
coinvolgente il Genio civile di Grosseto, situazione
paradossale trattandosi ovviamente di opere in cemento
armato.
A parte le considerazioni di cui sopra, come detto il 50%
dal danno può attribuirsi a soggetti non evocati in
giudizio, residua l’importo di € 477.001,33 a favore del
Ministero dell’Ambiente ed € 18.450,00 a favore della
Regione Toscana.
Ciò premesso a tutte le parte citate in giudizio possono
essere ascritte censure a titolo di colpa grave, sia pure
differentemente riscontrata nei seguenti termini.
4. Ripartizione danno erariale
A) El.PE. in qualità di Sindaco
ha adottato gli atti fondamentali delle procedure di
richiesta ed utilizzazione del finanziamento che,
considerate le dimensioni del Comune di Campagnatico e
l’entità delle opere realizzate, non può ritenersi un atto
di mera ordinaria amministrazione.
A prescindere dalle ipotetiche implicazioni penali, sul
piano prettamente amministrativo risultano essere stati
posti in essere comportamenti non in linea con una doverosa
corretta gestione amministrazione di denaro pubblico per cui
la quota maggiore del danno, individuabile nel 60%
dell’importo ascrivibile, deve essere addebitato al medesimo
(€ 477.001,33 x 60% = 286.200,79 a favore del Ministero ed €
36.900,00 x 60% = 22.140,00 a favore della Regione) per un
totale di € 308.340,79
B) Lu.GR. come Vice-sindaco Assessore
all’Urbanistica ha
partecipato alla adozione del progetto esecutivo
accettandone colpevolmente i contenuti che non potevano e
dovevano a lui sfuggire in virtù della natura del proprio
Assessorato.
Per inciso la deliberazione è stata assunta da una Giunta,
composta di soli tre soggetti, di cui uno era anche assente
per cui il provvedimento doveva e poteva essere idoneamente
attenzionato.
Al riguardo deve essere disattesa l’eccezione per cui
essendo le opere concretamente avviate anche parzialmente
diverse da quelle indicate nella progettazione, ne sarebbe
esclusa la responsabilità.
In realtà la progettazione esecutiva fin dall’inizio
contrastava con il solo progetto sottoposto al Ministero
dell’Ambiente, quello preliminare ed allora tale eccezione
può solo essere parzialmente accolta, ai fini della
limitazione percentuale del danno ascrivibile.
Per quanto sopra, sempre a titolo di colpa grave, il
convenuto può essere chiamato a rispondere del 20% del danno
(€ 477.001,33 x 20% = 95.400,27 a favore del Ministero ed €
36.900,00 x 60% = 7.380,00 a favore della Regione) per un
totale di € 102.780,27.
C) Em.BA. in quanto Responsabile della Area LL.PP.
non solo ha dato i previsti pareri sulla delibera di
adozione del progetto esecutivo ma ha altresì svolto le
funzioni di Direttore lavori e Responsabile unico del
procedimento (RUP) dell’opera finanziata per cui non poteva
non conoscere nel dettaglio le opere in via di
realizzazione.
Per quanto sopra, sempre a titolo di colpa grave, il
convenuto può essere chiamato a rispondere del 20% del danno
(€ 477.001,33 x 20% = 95.400,27 a favore del Ministero ed €
36.900,00 x 60% = 7.380,00 a favore della Regione) per un
totale di € 102.780,27.
Alla somma per cui è condanna, trattandosi di debito di
valore conseguente alla valutazione economica di parte del
manufatto pubblico in contestazione obbligazione
originariamente pecuniaria, vanno aggiunti la rivalutazione
monetaria e gli interessi secondo i criteri che seguono:
- la rivalutazione va calcolata secondo l’indice ISTAT dei prezzi
al consumo per le famiglie ed operai (FOI), a decorrere dal
fatto illecito che trattandosi di un unicum va indicato
nella data dell’ultima erogazione da parte del Ministero
(15.06.2006), fino alla pubblicazione della presente
sentenza;
- gli interessi legali vanno calcolati dalla stessa data sulla
somma originaria rivalutata anno dopo anno, cioè con
riferimento ai singoli momenti con riguardo ai quali la
predetta somma si incrementa nominalmente in base agli
indici ci rivalutazione monetaria (Cass. Sez. II n.
18028/2010 – Sez. III n. 4587/2009 – Sez. III n. 5671/2010 –
SS.UU. 1712/2005), fino al concreto soddisfo.
Dalla data di pubblicazione della presente sentenza sono
altresì dovuti, sulla somma come sopra incrementata, gli
interessi nella misura del saggio legale fino all’effettivo
pagamento.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno, quindi,
poste a carico in quota percentuale delle parti convenute
condannate;
PER QUESTI MOTIVI
la Sezione giurisdizionale della Regione Toscana della Corte
dei conti, definitivamente pronunciando sul giudizio n.
57901/REL, in parziale conformità delle conclusioni del
Pubblico ministero
CONDANNA
A) El.PE. all’importo complessivo di € 308.340,79 (60% del totale)
di cui 286.200,79 a favore del Ministero dell’Ambiente ed
22.140,00 a favore della Regione Toscana;
B) Lu.GR. all’importo complessivo di € 102.780,27 (20% del totale)
di cui 95.400,27 a favore del Ministero dell’Ambiente ed
7.380,00 a favore della Regione Toscana;
C) Em.BA. all’importo complessivo di € 102.780,27 (20% del totale)
di cui 95.400,27 a favore del Ministero dell’Ambiente ed
7.380,00 a favore della Regione Toscana;
somme tutte cui vanno aggiunti gli interessi legali e la
rivalutazione monetarie secondo il criterio di calcolo
indicato in motivazione.
Segue la condanna al pagamento delle spese processuali che,
fino alla presente decisione, sono percentualmente liquidate
in € 2182,90 (Euro duemilacentottantadue/90).
Dispone infine il pagamento delle spese peritali,
quantificate in € 4.331,17 per rimborsi a piè di lista
omnicomprensivi e € 19.678,00 oltre IVA di legge per onorari
e spese (in totale € 28.145,55) a carico delle parti
condannate nelle rispettive quote di competenza, dedotti gli
eventuali acconti medio-tempore corrisposti. |
GIURISPRUDENZA |
APPALTI:
Esclusione dalla gara per gravi illeciti professionali, tali
da rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del
concorrente.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Esclusione
dalla gara – Per gravi illeciti professionali, tali da
rendere dubbia l’integrità o l’affidabilità del concorrente
– Art. 80, comma 5, lett. c, d.lgs. n. 50 del 2016 –
Presupposti - Individuazione
L’art. 80, comma 5, lett. c), d.lgs.
18.04.2016, n. 50 –che consente alle stazioni appaltanti di
escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di
contratti pubblici in presenza di “gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità”– innovando rispetto al previgente assetto
normativo, prevede che l’esclusione del concorrente è
condizionata al fatto che la stazione appaltante dimostri
con mezzi adeguati che l’operatore economico si è reso
colpevole di gravi illeciti professionali, tali da rendere
dubbia la sua integrità o affidabilità (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che tra i “gravi illeciti professionali”
rientrano le significative carenze nell’esecuzione di un
precedente contratto di appalto o di concessione che ne
hanno causato la risoluzione anticipata, non contestata in
giudizio, ovvero confermata all’esito di un giudizio, ovvero
che hanno dato luogo ad una condanna al risarcimento del
danno o ad altre sanzioni; il tentativo di influenzare
indebitamente il processo decisionale della stazione
appaltante o di ottenere informazioni riservate ai fini di
proprio vantaggio; il fornire, anche per negligenza,
informazioni false o fuorvianti suscettibili di influenzare
le decisioni sull’esclusione, la selezione o
l’aggiudicazione ovvero l’omettere le informazioni dovute ai
fini del corretto svolgimento della procedura di selezione.
Il dato assiologico che emerge appare incentrarsi sulla
circostanza che, per effetto degli indicati fattori o di
ulteriori elementi valutativi, emerga a carico
dell’operatore economico un quadro tale da rendere dubbia la
sua affidabilità.
La ratio della norma de qua risiede dunque
nell’esigenza di verificare l’affidabilità complessivamente
considerata dell’operatore economico che andrà a contrarre
con la p.a. per evitare, a tutela del buon andamento
dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri in
contatto con soggetti privi di affidabilità morale e
professionale.
Ha aggiunto il Tar che persiste in capo alla Stazione
appaltante un coefficiente di discrezionalità, il cui
esercizio –ed il cui correlato sindacato in sede
giurisdizionale- comporta la esatta riconduzione della
fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito
professionale) a quella concretamente palesatasi nella
singola gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di un diaframma di
discrezionalità in sede applicativa –il quale attiene non
all’individuazione delle fattispecie espulsive, che
senz’altro compete al legislatore, in materia di requisiti
generali, secondo una elencazione da considerare tassativa,
bensì alla riconduzione della fattispecie concreta a quella
astratta, siccome descritta genericamente mediante l’uso di
concetti giuridici indeterminati– affiora, pur in mancanza
di una formulazione della norma di segno univoco come quella
contenuta nel previgente Codice appalti (laddove si
discorreva di “motivata valutazione”), da quanto
statuito a proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione
con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie
espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”,
“gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di
ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad
individuare a fini meramente esemplificativi (TAR
Valle d’Aosta,
sentenza 23.06.2017 n. 36
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
La censura non può essere condivisa
In diritto deve osservarsi che l’art. 80,
comma 5, lett. c), del D.Lgs. n. 50/2016, recante il codice
dei contratti pubblici, consente alle stazioni appaltanti di
escludere i concorrenti da una procedura di affidamento di
contratti pubblici in presenza di «gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità», con la precisazione, ai fini che qui
interessano, che in tali ipotesi rientrano, tra l’altro, «significative
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione
anticipata».
La citata disposizione codicistica, innovando rispetto al
previgente assetto normativo, prevede che l’esclusione del
concorrente è condizionata al fatto che la stazione
appaltante dimostri con mezzi adeguati che l’operatore
economico si è reso colpevole di gravi illeciti
professionali, tali da rendere dubbia la sua integrità o
affidabilità.
Tra questi rientrano: le significative
carenze nell’esecuzione di un precedente contratto di
appalto o di concessione che ne hanno causato la risoluzione
anticipata, non contestata in giudizio, ovvero confermata
all’esito di un giudizio, ovvero hanno dato luogo ad una
condanna al risarcimento del danno o ad altre sanzioni; il
tentativo di influenzare indebitamente il processo
decisionale della stazione appaltante o di ottenere
informazioni riservate ai fini di proprio vantaggio; il
fornire, anche per negligenza, informazioni false o
fuorvianti suscettibili di influenzare le decisioni
sull’esclusione, la selezione o l’aggiudicazione ovvero
l’omettere le informazioni dovute ai fini del corretto
svolgimento della procedura di selezione.
Il dato assiologico che emerge appare
incentrarsi sulla circostanza che, per effetto degli
indicati fattori o di ulteriori elementi valutativi, emerga
a carico dell’operatore economico un quadro tale da rendere
dubbia la sua affidabilità.
La ratio della norma de qua
risiede dunque nell’esigenza di verificare l’affidabilità
complessivamente considerata dell’operatore economico che
andrà a contrarre con la p.a. per evitare, a tutela del buon
andamento dell’azione amministrativa, che quest’ultima entri
in contatto con soggetti privi di affidabilità morale e
professionale
Orbene, nel caso di specie, non solo non viene in rilievo un
profilo immediatamente correlato al momento esecutivo di un
pregresso rapporto contrattuale in termini di specifico
inadempimento al complesso di obbligazioni dallo stesso
scaturente; ma deve anche rilevarsi come la censurata
carenza di requisito alla partecipazione, pur astrattamente
non sottratto in quanto tale ad un più ampio giudizio di
inadempimento mediato o di rimbalzo, in concreto non possa
in alcun modo qualificarsi in tali termini.
...
Né infine può, secondo la traiettoria ermeneutica proposta
dal ricorrente, riconnettersi al precedente dictum
giudiziale un effetto di automatismo espulsivo ai presenti
fini: deve al riguardo ribadirsi che anche in siffatta
evenienza persiste in capo alla Stazione
appaltante un coefficiente di discrezionalità, il cui
esercizio –ed il cui correlato sindacato in sede
giurisdizionale- comporta la esatta riconduzione della
fattispecie astratta contemplata dalla norma (grave illecito
professionale) a quella concretamente palesatasi nella
singola gara.
Il conferimento alle stazioni appaltanti di
un diaframma di discrezionalità in sede applicativa
–il quale attiene non alla individuazione delle fattispecie
espulsive, che senz’altro compete al legislatore, in materia
di requisiti generali, secondo una elencazione da
considerare tassativa, bensì alla riconduzione della
fattispecie concreta a quella astratta, siccome descritta
genericamente mediante l’uso di concetti giuridici
indeterminati- affiora, pur in mancanza di una formulazione
della norma di segno univoco come quella contenuta nel
previgente Codice Appalti (laddove si discorreva di “motivata
valutazione”), da quanto statuito a
proposito della consacrata necessità di dare “dimostrazione
con mezzi adeguati” della sussistenza della fattispecie
espulsiva, nonché dall’uso di locuzione generiche (“dubbia”,
“gravi”) e dalla omessa precisa elencazione di
ipotesi escludenti, che il legislatore infatti si limita ad
individuare a fini meramente esemplificativi.
Ne consegue, anche per questa via ed alla luce dei rilievi
di cui sopra, la correttezza della valutazione qui in esame,
ove si consideri che l’intervenuto giudicato non espleta la
propria efficacia accertativo-preclusiva su di un specifico
fatto di inadempimento in sede propriamente posto in diretta
relazione causale con la conseguente risoluzione del
rapporto contrattuale, ma, come prima detto, sulla diversa
dimensione di una carenza di requisito partecipativo che
solo indirettamente e di rimbalzo ha comportato, non ex
se ma in via derivata e mediata, l’incidenza su di un
momento esecutivo-prestazionale peraltro connotato da
comprovata e non contestata conformità tutti gli obblighi
contrattualmente assunti. |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Accesso ai documenti adottati in seduta riservata.
---------------
Accesso ai documenti – Diritto – Atti adottati in seduta
riservata – Diniego – Illegittimità.
E’ illegittimo il diniego di accesso
agli atti riguardanti l’istante, opposto sul rilievo che
erano stati adottati in seduta riservata da un Comune, ove
non sia prevista diversa disposizione nel regolamento
comunale (1).
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che tra i casi di segreto espressamente
previsti dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse
ed i voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle
loro funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito
alla condotta della persona oggetto dell’attività di
indagine da parte del consiglio comunale, in quanto è il
richiedente l’accesso. Né d’altro canto l’attività
d’indagine del consiglio comunale, volta a far valere una
responsabilità politica, ha le stesse garanzie delle
indagini penali della polizia e della magistratura (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 22.06.2017 n. 1409
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. Il ricorrente, ex dipendente comunale, ha proposto
ricorso principale contro la mancata risposta alla richiesta
di accesso agli atti della commissione d’indagine istituita
dal Consiglio comunale sulla sua nomina a dirigente
dell’ente.
Il ricorrente evidenzia che le relative deliberazioni
comunali sono state pubblicate sul sito dell’ente ma che la
relazione della commissione d’indagine, unitamente al
verbale della deliberazione, risultavano omessi in quanto “trattasi
di seduta segreta”.
Uguale silenzio è stato mantenuto sulla richiesta motivata
di ostensione anche della “Interrogazione urgente presentata
in Consiglio Comunale all’indomani dell’articolo pubblicato
sul Giornale di Vimercate del 15/03/2016, a pag. 43, dal
titolo: “una dipendente del Comune: “ho dato il decreto
di nomina a dirigente di De Fi. al Sindaco”.
Contro i suddetti dinieghi taciti ha proposto i seguenti
motivi di ricorso: violazione e falsa applicazione degli
artt. 22 e ss. l. 241/1990; violazione e falsa applicazione
dell’art. 3 d.p.r. 184/2006; violazione e falsa applicazione
dell’art. 97 della costituzione.
2. Con ricorso per motivi aggiunti il ricorrente ha
impugnato l’esplicito rigetto alle istanze di accesso,
motivate con riferimento al fatto che trattasi di atti
adottati in seduta segreta, l’articolo 50 dello Statuto del
Comune di Carnate nonché degli articoli 16 e 52 del
Regolamento sul funzionamento e l’organizzazione del
consiglio comunale di Carnate, che prevedono la segretezza
delle sedute, in quanto ai sensi dell’art. 24, comma 7, l.
241/1990 “… deve comunque essere garantito ai richiedenti
l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia
necessaria per curare o per difendere i propri interessi
giuridici”.
La difesa del Comune ha chiesto la reiezione del ricorso.
Alla camera di consiglio del 20.06.2017 la causa è stata
trattenuta dal Collegio per la decisione.
2. I ricorso sono parzialmente fondati.
La costante giurisprudenza, condivisa da
questo Collegio, afferma che qualora l’accesso ai documenti
amministrativi sia motivato dalla cura o la difesa di propri
interessi giuridici, esso prevale sull’esigenza di
riservatezza dei terzi
(Consiglio di Stato, VI, 05.03.2015, n. 1113; IV,
10.03.2014, n. 1134).
A ciò si aggiunge che dalla lettura delle
norme regolamentari comunali non si ricava in via diretta
che gli atti della seduta segreta siano automaticamente
sottratti all’accesso, atteso che è stabilita soltanto la
non pubblicità della seduta. Tali norme infatti, relative al
funzionamento del consiglio, trovano il loro fondamento
nell’art. 38, c. 7, del D.Lgs. 267/2000 secondo il quale “Quando
lo statuto lo preveda, il consiglio si avvale di commissioni
costituite nel proprio seno con criterio proporzionale. Il
regolamento determina i poteri delle commissioni e ne
disciplina l'organizzazione e le forme di pubblicità dei
lavori”.
Se la fonte regolamentare locale è la fonte primaria in
merito alla forma di pubblicità delle sedute, grazie alla
delega contenuta nell’art. 38, c. 7, citato, non vale
altrettanto per l’accesso agli atti.
L’art. 22, c. 3, della legge 241/1990 stabilisce che tutti i
documenti amministrativi sono accessibili, ad eccezione di
quelli indicati all'articolo 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6,
riservando così alla legge la disciplina della segretezza
documentale.
A sua volta l’art. 24 prevede che l’accesso è escluso nei
casi di segreto o di divieto di divulgazione espressamente
previsti dalla legge e dal regolamento governativo di cui al
comma 6 mentre all’amministrazione compete, ai sensi del
comma 2, di individuare gli atti coperti da segreto, secondo
le norme di legge che lo prevedono.
Tra i casi di segreto espressamente previsti
dall’ordinamento non rientrano le opinioni espresse ed i
voti dati dai consiglieri comunali nell’esercizio delle loro
funzioni e non ostano motivi di riservatezza in merito alla
condotta della persona oggetto dell’attività di indagine da
parte del consiglio comunale, in quanto è il richiedente
l’accesso. Né d’altro canto l’attività d’indagine del
consiglio comunale, volta a far valere una responsabilità
politica, ha le stesse garanzie delle indagini penali della
polizia e della magistratura.
Neppure eventuali testimonianze di impiegati comunali
possono essere secretate in quanto attinenti ad attività
amministrativa. Infatti il segreto d’ufficio, cioè l’obbligo
di non comunicare all’esterno dell’amministrazione notizie o
informazioni di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio
delle loro funzioni, ovvero che riguardino l’attività
amministrativa in corso di svolgimento o già conclusa, non
può prevalere sul diritto d’accesso ai sensi dell’art. 28
della L. 241/1990.
A ciò si aggiunge che l’art. 24 della legge n. 241 del 1990
garantisce comunque l’accesso a quegli atti la cui
conoscenza sia necessaria per curare o difendere i propri
interessi giuridici (comma 7).
In definitiva quindi i ricorsi sono fondati per quanto
attiene ai documenti richiesti.
Va invece respinta con riferimento alle norme dello Statuto
e del regolamento consiliare, in quanto riferite alla
pubblicità delle sedute e non all’accesso agli atti. |
ENTI LOCALI -
PUBBLICO IMPIEGO:
Ripetizione emolumenti non dovuti al netto di tutte le
ritenute fiscali e oneri previdenziali.
---------------
Pubblico impiego privatizzato – Stipendi – Ripetizione
emolumenti non dovuti - Su base lorda – Illegittimità.
E’ illegittimo il recupero, da parte
dell’Amministrazione, di somme indebitamente erogate ad un
dipendente su base lorda, anziché al netto di tutte le
ritenute fiscali e oneri previdenziali (1).
---------------
(1)
Ha ricordato il Tar che costituisce principio consolidato
nella giurisprudenza amministrativa (sez.
IV, 03.11.2015, n. 5010; id.,
sez. III, 21.01.2015, n. 198) che
l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme
indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire
detto recupero al netto delle ritenute fiscali,
previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di
ripetere le somme al lordo delle predette ritenute,
allorché, come di regola accade, le stesse non siano mai
entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Anche la Corte di Cassazione (sez. I, 04.09.2014, n. 18674)
ha affermato analogo principio. In particolare, ha chiarito
che nel rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro
versa al lavoratore la retribuzione al netto delle ritenute
fiscali e, quando corrisponde per errore una retribuzione
maggiore del dovuto, opera ritenute fiscali erronee per
eccesso; per cui il medesimo datore di lavoro, salvi i
rapporti con il fisco, può ripetere l'indebito nei confronti
del lavoratore soltanto nei limiti di quanto effettivamente
percepito da quest'ultimo, restando esclusa la possibilità
di ripetere importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate
nella sfera patrimoniale del dipendente (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 22.06.2017 n. 858
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
RILEVATO QUANTO DI SEGUITO ESPOSTO.
Il ricorso è palesemente fondato, tanto da consentirsene la
definizione con sentenza in forma semplificata.
Costituisce, infatti, come si usa dire
jus receptum
(cioè
diritto vivente, consolidato e agevolmente conoscibile)
nell’esperienza del Consiglio di Stato
che
l'Amministrazione, nel procedere al recupero delle somme
indebitamente erogate ai propri dipendenti, deve eseguire
detto recupero al netto delle ritenute fiscali,
previdenziali e assistenziali; non può invece pretendere di
ripetere le somme al lordo delle predette ritenute,
allorché, come di regola accade, le stesse non siano mai
entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.
Di seguito si richiama solo una parte della cospicua
giurisprudenza che un qualsiasi funzionario e dirigente di
media cultura, preparazione e diligenza dovrebbe conoscere:
Cons. St. sez. II, parere su ric. straord., n. 991, adunanza
05.04.2017; Cons. Stato Sez. IV, 03.11.2015, n.
5010; Cons. Stato, sez. III, 21.01.2015 n. 198; Cons.
Stato, sez. IV, 12.02.2015, n. 750; Cons. Stato, sez. IV, 20.09.2012, n. 5043; Cons. Stato, sez. III,
04.07.2011, nr. 3984 e n. 3982; id., sez. VI, 02.03.2009 nr. 1164, solo per citarne
alcune.
Nello stesso senso si atteggia l’orientamento dei Tribunali
Amministrativi, secondo i quali
la richiesta di restituzione
dei compensi illegittimamente percepiti non può che avere a
oggetto le somme ricevute in eccesso (e cioè, effettivamente
entrate nella sfera patrimoniale del dipendente medesimo),
non potendosi pretendere la ripetizione di somme calcolate
al lordo delle ritenute fiscali, le quali non sono mai
entrate nella disponibilità materiale e giuridica del
prestatore di lavoro.
Anche qui il Collegio si limita a
ricordare, per dare un aiuto a quegli stessi funzionari e
dirigenti dell’amministrazione finanziaria di cui si è già
fatto cenno: TAR Toscana, sez. I, 25.01.2017, n.
199; TAR Lazio Roma Sez. I-bis, 24/03/2016, n. 3753; TAR
Bologna, sez. I, 04.06.2015, n. 525; TAR Lombardia,
Milano, Sez. IV, n. 614/2013; TAR Umbria, sez. I, 05.12.2013, n. 559).
RICORDATO INOLTRE QUANTO SOTTO RIPORTATO.
Nella medesima direzione contraria alle difese
dell’amministrazione si colloca, ancora, l’orientamento
della Corte di Cassazione, evidenziante come
nel rapporto di
lavoro subordinato, il datore di lavoro versa al lavoratore
la retribuzione al netto delle ritenute fiscali e, quando
corrisponde per errore una retribuzione maggiore del dovuto,
opera ritenute fiscali erronee per eccesso; per cui il
medesimo datore di lavoro, salvi i rapporti con il fisco,
può ripetere l'indebito nei confronti del lavoratore
soltanto nei limiti di quanto effettivamente percepito da
quest'ultimo, restando esclusa la possibilità di ripetere
importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera
patrimoniale del dipendente: Cass. Civ., sez. I,
04.09.2014, n. 18674; id., Sez. Lav., 02.02.2012, n. 1464;
idem, sez. lavoro, 11.01.2006 n. 239; idem, sez.
lavoro, 26.02.2002 n. 2844.
A conforto indiretto, ove ve ne fosse bisogno per convincere
i più riottosi e incalliti, del suddetto orientamento è il
convincimento del Giudice ordinario il quale, a proposito
della speculare tematica delle modalità di calcolo degli
accessori dovuti al lavoratore pubblico, ha evidenziato come
appare consolidata la giurisprudenza anche amministrativa
(Ad. Plen. 05.06.2012, n.18),
nel ribadire la piena
legittimità delle modalità di calcolo degli accessori del
credito del dipendente pubblico riportate nell'alveo
dell'art. 1224 c.c. ritenendo che possa ritenersi produttivo
di interessi e soggetto ai meccanismi di attualizzazione del
credito solo il denaro che viene posto a disposizione del
creditore e che effettivamente ne incrementi il patrimonio,
e non quello corrispondente alle ritenute alla fonte,
operate dal sostituto d'imposta attraverso rapporto di
delegazione ex lege, che non sarebbe mai entrato nella
disponibilità del dipendente
(Cass. civ. Sez. lavoro, Ord.,
28/10/2016, n. 2190).
OSSERVATO, INOLTRE, QUANTO SOTTO RIPORTATO.
A quanto esposto non può opporsi l’orientamento contrario
espresso in materia dall'Agenzia delle entrate con infiniti
atti interpretativi di varia denominazione
(note,
risoluzioni, determinazioni, circolari, ecc.: fra le tante
v. quelle richiamate, sopra, dall’Avvocatura dello Stato,
oppure la nota del 23.05.2013, richiamata dal citato
parere di quest’anno della II sez. del CdS)
con le quali la
medesima Agenzia si è pervicacemente (ma inspiegabilmente)
espressa per la legittimità della richiesta di recupero
dell’indebito al lordo delle ritenute di legge, sulla base
di quanto disposto dall’art. 10, comma 1, lett. d-bis) del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), il quale statuisce la
deducibilità dal reddito complessivo del contribuente di
tutte le somme restituite in quanto indebitamente percepite
e non le modalità concrete con cui detto recupero deve aver
luogo.
Si tratta di un richiamo improvvido e temerario, perché con
esso, da una norma di garanzia per il privato che esplica i
suoi effetti nel rapporto tra contribuente erroneamente
gravato di in peso tributario non dovuto e l’amministrazione
finanziaria, si intende ricavare un principio vessatorio per
il medesimo privato nei suoi rapporti con il datore di
lavoro, costringendo quest’ultimo a ripetere quanto
effettivamente pagato aumentato di oneri fiscali
astrattamente dovuti dal lavoratore ma mai entrati nella sua
sfera patrimoniale.
Come invece precisato dalla giurisprudenza innanzi
riportata,
ciò che rileva nella fattispecie non è il
rapporto intercorrente tra l’interessato e l’Agenzia fiscale
-regolato dal succitato art. 10, comma 1, lett. d-bis) del
TUIR-
ma quello fra il ricorrente e l’Amministrazione di
servizio, nell’ambito del quale la seconda versa al primo
gli emolumenti al netto delle ritenute fiscali
(nonché
previdenziali e assistenziali);
con la conseguenza che non
risulta né logico, né equo, né lecito chiedere
all’interessato un adempimento che può essere posto in
essere direttamente dall’Amministrazione stessa senza
gravare sul soggetto interessato in maniera non coerente con
i fini del dovuto recupero delle somme erogate a titolo di
imposte e contributi.
Il richiamo effettuato dall’Amministrazione al TUIR, dunque,
non risulta adeguato a superare il consolidato orientamento
giurisprudenziale più volte espresso dalle varie
giurisdizioni ordinaria ed amministrativa, in base al quale,
come in precedenza esposto,
la ripetizione dell'indebito nei
confronti del dipendente non può non avere ad oggetto le
sole somme effettivamente “pagate” (come recita
l’art. 2033 c.c.) a quest'ultimo e da lui effettivamente
percepite in eccesso, vale a dire quanto e solo quanto
effettivamente sia entrato nella sfera patrimoniale del
dipendente
(Cons. di
Stato, Sez. VI, 02.03.2009, n. 1164).
D’altra parte, i ricordati e concordi insegnamenti non
avrebbero ragion d’essere soltanto ove l’amministrazione
finanziaria
–le cui palesemente errate direttive hanno
determinato anche il presente contenzioso, essendo evidente
che nessun pubblico dipendente si azzarderebbe (come pur
potrebbe e dovrebbe) a disapplicare una direttiva della
stessa amministrazione fiscale per ovvi timori di incorrere
in responsabilità contabile–
leggesse con un minimo di
capacità e diligenza le norme codicistiche, peraltro già
sopra richiamate.
L’art. 2033 cod. civ., sull’indebito oggettivo, stabilisce
che chi ha eseguito un “pagamento” non dovuto ha diritto di
ripetere ciò che ha “pagato”. La nozione di pagamento si
correla a quelal di ricevimento (art. 1463, comma 1, cod.
civ.) ed entrambe individuano un comportamento materiale
costituente la modalità principe di estinzione in via
satisfattiva dell’obbligazione pecuniaria. Pagamento e
ricevimento, costituenti la medesima azione vista dalla
parte rispettivamente del debitore e del creditore hanno per
oggetto un bene materiale che la terminologia del codice,
descrittiva di una società antica ma dai rapporti
socio-economici fondamentali sempre attuali, individua nella
“moneta” (artt. 1277 e seg. Cod. civ.), cioè in un preciso
e determinato oggetto concreto avente valore di scambio.
Se
è dunque, secondo la disciplina codicistica, la concreta
materialità di ciò che si è pagato e, correlativamente,
ricevuto a segnare le reciproche posizioni di debitore e
creditore (oltre quelli che non a caso si chiamano
“accessori”),
non possono certo valere ad alterare il
principio di materialità e concretezza dei pagamenti fatti e
ricevuti un titolo di debito-credito astratto che indichi
valori diversi.
Ancor più semplicemente,
se il datore di lavoro è debitore
di cento, ma tale debito si riduce a cinquanta per effetto
del c.d. cuneo fiscale, il lavoratore che abbia percepito
erroneamente (ad esempio per una duplicazione di pagamenti)
cinquanta, non è certo tenuto a restituire l’importo del suo
credito lavorativo astratto, cioè cento.
Si tratta di concetti elementari e di assoluto buon senso, a
fronte dei quali non possono valere gli inconcepibili
richiami fatti dall’amministrazione finanziaria e per essa
dall’amministrazione resistente, a specifiche norme
tributarie di garanzia per il contribuente, che si vorrebbe
tramutare in norme illogiche, inique e vessatorie,
riecheggianti antichi ma defunti istituti come quello del
“solve e repete” (prima paghi ciò che non devi e poi chiedi
la restituzione).
AGGIUNTI I SEGUENTI ULTERIORI RILIEVI.
Risultano, perciò, privi di ogni rilevanza i richiami fatti
dall’amministrazione resistente a comunicazioni, note,
dispacci, circolari, direttive, chiarimenti, ecc. emanati
dall’Agenzia delle Entrate nella materia qui di interesse,
tutti illegittimi per i motivi innanzi ricordati.
E’ infatti altrettanto risaputo (“Jus receptum”) che
le
disposizioni contenute in circolari o altri atti di analogo
contenuto e finalità interpretativi/esplicativi non possono
condizionare il giudice nell'interpretazione delle norme che
l’atto stesso intende spiegare.
Le circolari amministrative,
infatti, in quanto atti di indirizzo interpretativo-illustrativo-applicativo, non sono vincolanti
per i soggetti estranei all'Amministrazione: ed anche per
gli organi ed uffici della stessa amministrazione emanante
esse sono vincolanti, ma solo se legittime, potendo,
altrimenti essere disapplicate qualora il funzionario
chiamato a darvi applicazione ne accerti la portata contra legem.
Nei predetti limiti –derivanti dai canoni fondamentali di
gerarchia delle fonti e di separazione dei Poteri- gli atti
di tal natura sono atti diretti agli organi e uffici
periferici ovvero sottordinati, e non hanno di per sé valore
normativo o provvedimentale o comunque vincolante per i
soggetti estranei all'Amministrazione. Soccorre a tal
proposito l’ormai diffusa teoria della disapplicazione, la
quale tende a mitigare l’onere di impugnare espressamente e
ritualmente innanzi al TAR la determinazione
esplicativo-precettiva.
Una circolare amministrativa (o
altro atto analogo) contra legem può essere, infatti,
disapplicata anche d'ufficio dal giudice investito
dell'impugnazione dell'atto che ne faccia applicazione.
Anche qui l’orientamento giurisprudenziale è sostanzialmente
univoco e se ne riportano di seguito solo alcuni estratti da
fungere quale elemento di stimolo e di studio per i
dirigenti e funzionari dell’Agenzia delle Entrate: TAR
Umbria, 06/05/2014, n. 248; TAR Lazio, Roma, sez. I, 07/02/2014, n. 1507; TAR,Puglia, Lecce, sez. I, 10/10/2012,
n. 1653; Cons. Stato, sez. VI, 13/09/2012, n. 4859).
CONSIDERATO IN CONCLUSIONE.
Il ricorso va accolto e le spese, liquidate come da
dispositivo, seguono la soccombenza.
Il Collegio ravvisa nel comportamento dell’Agenzia delle
Entrate che continua ad ignorare i richiamati, concordi
insegnamenti giurisprudenziali elementi di grave negligenza
ed imperizia, che continuano ad alimentare un inutile
contenzioso dal prevedibile esito negativo per la parte
pubblica, con i conseguenti oneri economici per le finanze
pubbliche connessi alla necessaria condanna alle spese (art.
26 c.p.a.) come nel caso di specie.
Il Collegio manda pertanto alla Segreteria del TAR perché
invii copia della presente sentenza alla Procura regionale
della Corte dei Conti, al Sig. Presidente del Consiglio dei
Ministri, al Sig. Ministro dell’Economia. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - EDILIZIA PRIVATA: Il ricorrente, in quanto proprietario di un immobile
adiacente a quello della società controinteressata, ha
chiesto di poter accedere alla documentazione relativa ai
titoli edilizi e paesaggistici “richiesti, denegati e
concessi” concernenti “l’intervento inerente il cambio di
destinazione d’uso da lastrico solare a terrazzo praticabile
(roof garden) con realizzazione di torrino ascensore ed
installazione di pergolato presso l’albergo denominato ...”.
Ritiene il Collegio che in capo al ricorrente, in ragione
del divisato presupposto della vicinitas, deve riconoscersi
la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto
l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, prevede quale
presupposto per la legittimazione all'azione e
l'accoglimento della relativa domanda.
---------------
...
per l'accertamento
dell’illegittimo silenzio/inadempimento perfezionatosi
sull’istanza di accesso inoltrata al Comune di Vico Equense
a mezzo PEC in data 30.08.2016;
...
Il ricorso è fondato e va accolto.
Preliminarmente devono essere respinte le eccezioni di
inammissibilità del ricorso perché proposto, secondo la
prospettazione dei resistenti, ai sensi dell’art. 117 c.p.a.
(ricorso avverso il silenzio inadempimento) e non ai sensi
dell’art. 116 c.p.a. (accesso ai documenti amministrativi).
Deve, infatti, osservarsi che ai sensi dell’art. 32, comma 2, c.p.a. il giudice ha l’obbligo di qualificare l’azione
proposta in base ai suoi elementi sostanziali.
Nella fattispecie, l’azione proposta è volta ad accertare il
diritto del ricorrente (e il conseguente obbligo del Comune)
di accedere alla documentazione richiesta con l’istanza del
30.08.2016 e sulla quale si è formato un provvedimento
tacito di rigetto tempestivamente impugnato (il ricorso è
stato notificato ai resistenti in data 19.10.2016). E’
evidente, quindi, che la domanda giudiziale (sebbene
proposta dal ricorrente ai sensi dell’art. 117 c.p.a.) ha
tutti i requisiti di forma e sostanza per essere qualificata
come azione ai sensi dell’art. 116 c.p.a. volta
all’annullamento del provvedimento tacito di rigetto
dell’istanza di accesso e all’accertamento del diritto di
ottenere la documentazione richiesta (con conseguente
obbligo del Comune di esibirla).
Ciò premesso, il ricorso è fondato.
Il ricorrente in quanto proprietario di un immobile
adiacente a quello della società controinteressata ha
chiesto di poter accedere alla documentazione relativa ai
titoli edilizi e paesaggistici “richiesti, denegati e
concessi” concernenti “l’intervento inerente il cambio di
destinazione d’uso da lastrico solare a terrazzo praticabile
(roof garden) con realizzazione di torrino ascensore ed
installazione di pergolato presso l’albergo denominato “Le
An.” sito alla via ... n. ...”.
Ritiene il Collegio che in capo al ricorrente, in ragione
del divisato presupposto della vicinitas, deve riconoscersi
la sussistenza di un “interesse diretto, concreto ed
attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è stato chiesto
l'accesso”, che l'art. 22 l n. 241/1990, prevede quale
presupposto per la legittimazione all'azione e
l'accoglimento della relativa domanda.
Deve, inoltre, osservarsi che -contrariamente a quanto
eccepito dal Comune resistente- la domanda di accesso è
tutt’altro che generica in quanto individua o comunque
consente di individuare agevolmente (cfr. D.P.R. 184/2006)
gli atti richiesti che riguardano i titoli rilasciati per
uno specifico intervento edilizio realizzato dalla controinteressata. Del resto lo stesso Comune con la nota
inoltrata per conoscenza al ricorrente in data 24.05.2017 (e da quest’ultimo depositata) ha chiesto alla società controinteressata di evidenziare eventuali motivi di
opposizione all’accesso agli atti in mancanza dei quali
“procederà ad evadere” la richiesta; nonostante tale
intendimento il Comune non risulta allo stato avere ancora
adempiuto.
Quanto precede basta per concedere ingresso alla pretesa qui
fatta valere, nella precisazione che siffatta decisione in
nulla è condizionata da valutazioni circa la fondatezza
delle eventuali pretese alla cui tutela l'acquisizione della
documentazione è strumentale posto che, per costante
giurisprudenza, il diritto di accesso è autonomo rispetto
alla posizione giuridica posta a base della relativa istanza
(cfr., per tutte, Tar Campania, questa sezione sesta, 11.03.2010, n. 1373).
In definitiva, alla luce di quanto fin qui argomentato, il
ricorso deve essere accolto con conseguente accertamento del
diritto all’ostensione, per effetto del quale
l’amministrazione intimata dovrà consentire l’accesso,
secondo le modalità indicate in dispositivo
(TAR Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3382 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
potere di autotutela è un potere discrezionale attribuito
alle amministrazioni, che presuppone sia l'illegittimità
dell'atto amministrativo annullando, sia la sussistenza di
ragioni di interesse pubblico all'annullamento, entro un
termine ragionevole.
La norma di cui all'art. 21-nonies L. n. 241/1990 prevede,
dunque, che al fine di procedere all'annullamento d'ufficio
di un atto amministrativo la P.A. necessita di un
triplice ordine di presupposti: che l'atto sia
illegittimo; che sussistano ragioni di interesse pubblico
che ne giustifichino l'annullamento e che il tutto avvenga
entro un termine ragionevole.
Nell’adozione dell’atto, inoltre, occorre tener conto degli
interessi del destinatario; l’Amministrazione è infatti
chiamata a svolgere un bilanciamento tra gli opposti
interessi prima di decretare l’annullamento di un atto in
autotutela. Di tutti questi elementi è necessario dare conto
in motivazione.
In particolare, con riguardo all’annullamento di titoli
edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di
annullamento d'ufficio di un titolo edilizio devono
rispondere ai requisiti di legittimità codificati
nell'articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241,
consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e
nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione diverso dal mero ripristino della legalità,
comparato con i contrapposti interessi dei privati.
I presupposti dell'esercizio dell’autotutela dei titoli
edilizi sono quindi costituiti dall'illegittimità originaria
del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed
attuale alla loro rimozione (diverso dal mero ripristino
della legalità), tenuto conto anche delle posizioni
giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari.
E’ noto che l'esercizio del potere di autotutela è
espressione di rilevante discrezionalità che non esime,
tuttavia, l'Amministrazione dal dare conto, sia pure
sinteticamente, della sussistenza dei summenzionati
presupposti.
L'ambito della motivazione esigibile è integrato
dall'allegazione del vizio che inficia il titolo edilizio,
dovendosi tenere conto, per il resto, del particolare
atteggiarsi dell'interesse pubblico in materia di tutela del
territorio e dei valori che su di esso insistono (ambiente,
paesaggio, salute, sicurezza, beni storici e culturali), che
quasi sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti
dei privati; nonché dell'eventuale negligenza o della
malafede del privato che ha indotto in errore
l'Amministrazione o ha approfittato di un suo errore (ad es.
rappresentando in modo erroneo la situazione di fatto in
base alla quale è stato rilasciato il titolo o sono stati
individuati i legittimati attivi).
---------------
Per quanto riguarda poi la disciplina dell’annullamento di
ufficio anche questa risulta illegittimamente applicata dal
Comune.
L’art. 21-nonies della legge 241/1990, nella formulazione
ratione temporis applicabile, dispone infatti che “Il
provvedimento amministrativo illegittimo ai sensi
dell'articolo 21-octies può essere annullato d'ufficio,
sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un
termine ragionevole e tenendo conto degli interessi dei
destinatari e dei controinteressati, dall'organo che lo ha
emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge”.
La giurisprudenza amministrativa ha chiarito che il potere
di autotutela è un potere discrezionale attribuito alle
amministrazioni, che presuppone sia l'illegittimità
dell'atto amministrativo annullando, sia la sussistenza di
ragioni di interesse pubblico all'annullamento, entro un
termine ragionevole (Cons. Stato Sez. IV, 05.05.2016, n.
1808).
La norma di cui all'art. 21-nonies L. n. 241/1990 prevede
dunque che al fine di procedere all'annullamento d'ufficio
di un atto amministrativo la P.A. necessita di un triplice
ordine di presupposti: che l'atto sia illegittimo; che
sussistano ragioni di interesse pubblico che ne
giustifichino l'annullamento e che il tutto avvenga entro un
termine ragionevole. Nell’adozione dell’atto, inoltre,
occorre tener conto degli interessi del destinatario;
l’Amministrazione è infatti chiamata a svolgere un
bilanciamento tra gli opposti interessi prima di decretare
l’annullamento di un atto in autotutela. Di tutti questi
elementi è necessario dare conto in motivazione (Cons. Stato
Sez. III, 10.05.2017, n. 2169).
In particolare, con riguardo all’annullamento di titoli
edilizi, i presupposti per l’esercizio del potere di
annullamento d'ufficio di un titolo edilizio devono
rispondere ai requisiti di legittimità codificati
nell'articolo 21-nonies della l. 07.08.1990, n. 241,
consistenti nell'illegittimità originaria del titolo e
nell'interesse pubblico concreto ed attuale alla sua
rimozione diverso dal mero ripristino della legalità,
comparato con i contrapposti interessi dei privati
(Consiglio di Stato, sez. VI, 29/01/2016, n. 351).
I presupposti dell'esercizio dell’autotutela dei titoli
edilizi sono quindi costituiti dall'illegittimità originaria
del provvedimento, dall'interesse pubblico concreto ed
attuale alla loro rimozione (diverso dal mero ripristino
della legalità), tenuto conto anche delle posizioni
giuridiche soggettive consolidate in capo ai destinatari. E’
noto che l'esercizio del potere di autotutela è espressione
di rilevante discrezionalità che non esime, tuttavia,
l'Amministrazione dal dare conto, sia pure sinteticamente,
della sussistenza dei summenzionati presupposti. L'ambito
della motivazione esigibile è integrato dall'allegazione del
vizio che inficia il titolo edilizio, dovendosi tenere
conto, per il resto, del particolare atteggiarsi
dell'interesse pubblico in materia di tutela del territorio
e dei valori che su di esso insistono (ambiente, paesaggio,
salute, sicurezza, beni storici e culturali), che quasi
sempre sono prevalenti rispetto a quelli contrapposti dei
privati; nonché dell'eventuale negligenza o della malafede
del privato che ha indotto in errore l'Amministrazione o ha
approfittato di un suo errore (ad es. rappresentando in modo
erroneo la situazione di fatto in base alla quale è stato
rilasciato il titolo o sono stati individuati i legittimati
attivi) (TAR Napoli, sez. VIII, 04/11/2015, n. 5117, sez, VI
n. 3552/2016).
Nella fattispecie all’esame di questo giudice non emerge che
l’Amministrazione abbia posto a fondamento della sua scelta
alcuna argomentazione in merito all’interesse pubblico che
si intende tutelare e alcuna ponderazione degli interessi
coinvolti se non quella, peraltro errata, della non
intervenuta decorrenza del termine assegnato alla
Soprintendenza per pronunciarsi sulla autorizzazione
paesaggistica n. 46 del 31/12/2009 rilasciata dal Comune e
inoltrata all’Ente statale il 04.01.2010.
L’illegittimità dell’operato dell’amministrazione locale
emerge ancor di più se si tiene conto che l’Amministrazione
ha deciso di agire in autotutela dopo circa 3 anni dal
rilascio del titolo, termine troppo lungo che imponeva una
particolare istruttoria sia in merito all’affidamento
ingenerato nei ricorrenti per il decorso del tempo che con
riguardo alle ragioni di pubblico interesse.
Oltre al provvedimento assunto in autotutela n. 16014/2014,
conseguentemente deve essere annullata anche l’ordinanza di
demolizione n. 128/2014 assunta sulla base proprio del
disposto annullamento in autotutela.
L’art. 27, comma 2, del d.P.R. 380/2001, richiamato nella
detta ordinanza di demolizione prevede che “Il dirigente
o il responsabile, quando accerti l'inizio o l'esecuzione di
opere eseguite senza titolo su aree assoggettate, da leggi
statali, regionali o da altre norme urbanistiche vigenti o
adottate, a vincolo di inedificabilità, ……nonché in tutti i
casi di difformità dalle norme urbanistiche e alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici provvede alla
demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi…..”.
Tale norma non può ritenersi applicabile alla presente
fattispecie in quanto le opere contestate non risultano
realizzate abusivamente, ma in forza del permesso di
costruire n. 23/2011.
Conclusivamente il ricorso va accolto con il conseguente
assorbimento delle ulteriori censure formulate e per
l’effetto vanno annullati gli atti impugnati (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3378 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
mancata notifica dell'ordinanza di demolizione a uno dei
comproprietari non ne inficia la legittimità, comportandone
semmai l'inefficacia relativa nei confronti del solo
comproprietario interessato, ai fini della successiva
acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Altresì, cui l'ordinanza di demolizione di opere abusive
deve essere notificata oltre che al soggetto o ai soggetti
responsabili dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere
destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di
ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico
non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale,
contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di
cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui
mancato adempimento può anche comportare la sanzione della
acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto
dipende dalle singole fattispecie: il proprietario
incolpevole della singola particella sarà tenuto a non
frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno
tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non
potrà essere riferita al proprietario incolpevole la
previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la
sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei
destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente
riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla
demolizione.
---------------
Rispetto all'ordine demolizione non occorre alcun onere
aggiuntivo motivazionale, trattandosi di atto dovuto e a
contenuto vincolato ed inoltre la mancata comunicazione di
avvio del procedimento dequota, secondo lo schema di cui
all'art. 21-octies, l. n. 241 del 1990, a mera irregolarità
non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi
edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea
generale, una specifica motivazione circa le ragioni della
sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione
della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto
dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore
rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e
all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad
effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato
alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re
ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito ed
al ripristino della legalità. L'ingiunzione di demolizione,
infine, in quanto atto dovuto e dalla natura vincolata, non
deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del
procedimento.
---------------
In sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio.
---------------
Prive di pregio si appalesano le censure di carattere
formale-procedimentale, in disparte l’irrilevanza delle
stesse a fronte di un provvedimento di natura vincolata a
contenuto conforme rispetto ai dettami di legge (art.
21-octies, II co., L. 241/1990).
Ed, invero, per giurisprudenza pacifica (cfr. da ultimo TAR
Venezia, sez. I, 20/11/2015, n. 1240), la mancata notifica
dell'ordinanza di demolizione a uno dei comproprietari non
ne inficia la legittimità, comportandone semmai
l'inefficacia relativa nei confronti del solo
comproprietario interessato, ai fini della successiva
acquisizione del bene al patrimonio pubblico.
Del pari va ribadito il principio di diritto per cui
l'ordinanza di demolizione di opere abusive deve essere
notificata oltre che al soggetto o ai soggetti responsabili
dell'abuso anche al proprietario dell'area.
Il motivo per cui il proprietario viene ad essere
destinatario dell'ordine di demolizione, pur in assenza di
ogni coinvolgimento nella realizzazione delle opere non
autorizzate, sta nel fatto che la legge pone a suo carico
non una responsabilità (che sarebbe oggettiva e, come tale,
contraria ai principi dell'ordinamento) ma un obbligo di
cooperazione nella rimozione delle opere abusive il cui
mancato adempimento può anche comportare la sanzione della
acquisizione gratuita del terreno.
Si tratta di un obbligo di cooperazione il cui contenuto
dipende dalle singole fattispecie: il proprietario
incolpevole della singola particella sarà tenuto a non
frapporre ostacoli alla demolizione, alla quale dovranno
tuttavia provvedere i soggetti responsabili degli abusi. Non
potrà essere riferita al proprietario incolpevole la
previsione dell'ordinanza secondo la quale è possibile la
sua esecuzione da parte dell'Amministrazione e a spese dei
destinatari, essendo anche questa previsione necessariamente
riferita ai responsabili dell'abuso, tenuti alla
demolizione.
Sul piano procedimentale –in disparte la corretta
attivazione del meccanismo informativo-partecipativo ed i
già svolti rilievi in punto di vizi formali non invalidanti–
va ribadito l’assunto (cfr., da ultimo, TAR Napoli, sez. IV,
27/03/2017, n. 1668) per cui rispetto all'ordine demolizione
non occorre alcun onere aggiuntivo motivazionale,
trattandosi di atto dovuto e a contenuto vincolato ed
inoltre la mancata comunicazione di avvio del procedimento
dequota, secondo lo schema di cui all'art. 21-octies, l. n.
241 del 1990, a mera irregolarità non invalidante.
In altri termini, in materia di repressione di abusi
edilizi, l'ordinanza di demolizione non richiede, in linea
generale, una specifica motivazione circa le ragioni della
sanzione, essendo sufficiente, a tal fine, la constatazione
della natura abusiva del manufatto. Essa costituisce atto
dovuto e vincolato e non necessita di motivazione ulteriore
rispetto all'indicazione dei presupposti di fatto e
all'individuazione e qualificazione degli abusi edilizi.
L'Amministrazione, quindi, non è tenuta a compiere ulteriori
indagini circa la sussistenza dell'interesse pubblico,
concreto ed attuale, alla repressione dell'abuso né ad
effettuare una comparazione tra questo e l'interesse privato
alla conservazione del manufatto abusivo, essendo "in re
ipsa" l'interesse pubblico alla rimozione dell'illecito
ed al ripristino della legalità. L'ingiunzione di
demolizione, infine, in quanto atto dovuto e dalla natura
vincolata, non deve essere preceduto dalla comunicazione di
avvio del procedimento.
Nel caso di specie, in particolare, le descritte opere
risultano eseguite in assenza di atti abilitativi per
costruire, ricadenti in zona P.I. , comportandone
trasformazione urbanistica edilizia del territorio tanto da
indurre il Comune di Capri a disporre la sanzione
demolitoria prevista dall'art. 31 del D.P.R. n. 380/2001.
Oltre a ciò, le opere "abusive" risultano realizzate
in violazione degli obblighi stabiliti dalle disposizioni
del Titolo I, Parte Terza del Dlgs 22/01/2004 n. 42. Infine,
le stesse opere risultano ricadere in zona classificata a
rischio sismico di classe III dal 28/11/2002 ai sensi della
L. 64/1974 e della L.R. 9/83 e pertanto sanzionate in
applicazione del decreto legislativo n. 42/2004 n. 42,
violando, tra l'altro, l'articolo 146 della stessa norma
s.m.i..
Ne discende altresì l’infondatezza della censura relativa al
mancato parere della Commissione edilizia, atteso che in
sede di emanazione dell'ordinanza di demolizione di opere
edilizie abusive su area vincolata non è necessario
acquisire il parere della Commissione Edilizia Integrata dal
momento che l'ordine di ripristino discende direttamente
dall'applicazione della disciplina edilizia e non
costituisce affatto irrogazione di sanzioni discendenti
dalla violazione di disposizioni a tutela del paesaggio (in
termini TAR Napoli, sez. VI, 20/02/2017, n. 996) (TAR
Campania-Napoli, Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a
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EDILIZIA PRIVATA:
La nozione di pertinenzialità ai fini urbanistici
ed edilizi ha connotati diversi da quelli civilistici,
avendo rilievo determinante non tanto il legame materiale
tra pertinenza e immobile principale, quanto che la prima
non abbia autonoma destinazione e autonomo valore di mercato
e che esaurisca la propria destinazione d'uso nel rapporto
funzionale con l'edificio principale, così da non incidere
sul carico urbanistico e che vengano in rilievo manufatti di
dimensioni estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi,
ad alterare in modo significativo l'assetto del territorio.
---------------
Infine e nel merito, non colgono nel segno le censure di
merito volte ad evidenziare la mancata considerazione della
vetustà delle opere in questione e la loro prevalente natura
pertinenziale.
Di contro s’osserva, da un lato, che è del tutto
irrilevante che alcuni manufatti siano già da tempo
esistenti, atteso che –ed al fuori da vicende condonistiche
legate all’epoca di realizzazione degli abusi- possono
essere oggetto di demolizioni anche quelle opere abusive che
comportino un aumento del volume dell'immobile preesistente;
dall’altro lato i manufatti realizzati non possono
essere considerate pertinenze, e quindi non soggette
all'ordinanza di demolizione, avendo la giurisprudenza
amministrativa chiarito che le opere, come nel caso di
specie, aventi carattere di stabilità ed aventi
un'utilizzazione autonoma, oltre a non poter essere
considerate una mera pertinenza, costituiscono un'opera
esterna per la cui costruzione occorre il permesso di
costruire, non potendo fruire di regimi semplificati
allorquando le loro dimensioni sono di entità tali da
arrecare una visibile alterazione all'edificio, come nel
caso che ci occupa.
Più in generale, deve ricordarsi come la nozione di
pertinenzialità ai fini urbanistici ed edilizi ha connotati
diversi da quelli civilistici, avendo rilievo determinante
non tanto il legame materiale tra pertinenza e immobile
principale, quanto che la prima non abbia autonoma
destinazione e autonomo valore di mercato e che esaurisca la
propria destinazione d'uso nel rapporto funzionale con
l'edificio principale, così da non incidere sul carico
urbanistico e che vengano in rilievo manufatti di dimensioni
estremamente modeste e ridotte, inidonei, quindi, ad
alterare in modo significativo l'assetto del territorio, con
la conseguenza che nel caso di specie, in ragione del dato
qualitativo-quantitativo, non potrà riconoscersi siffatto
carattere alle opere de quibus (TAR Campania-Napoli,
Sez. VI,
sentenza 21.06.2017 n. 3377 - link a
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LAVORI PUBBLICI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere in ordine alla
competenza, a seguito del primo correttivo al Codice dei
contratti pubblici, ad adottare gli atti di attuazione del
sistema di qualificazione del contraente generale.
1. Oggetto del parere
Il Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione ha
chiesto al Consiglio di Stato un parere in ordine alla
portata degli artt. 197 e 199 del decreto legislativo
18.04.2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici).
Il quesito ha ad oggetto la competenza, a seguito del
decreto legislativo 19.04.2017, n. 56 (Disposizioni
integrative e correttive al decreto legislativo 18.04.2016,
n. 50), ad adottare gli atti di attuazione del sistema di
qualificazione del contraente generale: in particolare, il
dubbio è sorto in quanto dalla lettura del citato articolo
197 sembra che la competenza sia dell’ANAC mediante
l’adozione di linee guida, mentre dalla lettura del citato
articolo 199 sembra che la competenza sia del Ministero
delle infrastrutture e dei trasporti mediante l’adozione di
un decreto.
Si è trattato, pertanto, di stabilire se sia estensibile
anche al sistema di qualificazione del contraente generale
l’art. 83, coma 3, del d.lgs. n. 50 del 2016, come
modificato dal decreto correttivo, nella parte in cui,
recependo i rilievi prospettati dal Consiglio di Stato, con
il parere 01.04.2016, n. 855, prevede che il sistema
generale di qualificazione degli operatori economici debba
avvenire mediante decreto ministeriale in ragione della
natura “intrinsecamente normativa” del suo contenuto.
2. La risposta del Consiglio di Stato
Nel fornire la risposta al quesito nel parere è stata
ricostruita la normativa che nel tempo si è succeduta in
relazione al sistema di qualificazione degli operatori
economici e del contraente generale.
Alla luce della ricostruzione effettuata la Commissione
Speciale ha ritenuto che la volontà del legislatore sia
stata quella di “estendere” anche al contraente
generale la modifica che ha riguardato le disposizioni
generali di qualificazione.
A tale conclusione, il Consiglio di Stato è pervenuto
all’esito dell’analisi del dato letterale e della ragione
sistematica dell’intervento correttivo.
Sul piano letterale, il legislatore ha modificato
espressamente il regime transitorio di cui agli artt. 199 e
216, comma 27-bis, relativi al contraente generale, mediante
un espresso richiamo al decreto di cui al secondo comma
dell’art. 83. La mancata modifica anche dell’art. 197, per
quanto si tratti della norma che pone la disciplina a
regime, non può avere valenza determinante, proprio in
ragione del fatto che la stessa non è stata oggetto di
modifiche.
Sul piano della ragione sistematica, il legislatore del 2016
ha effettuato una chiara opzione a favore del sistema “unitario”
che eviti differenziazioni di regime del sistema
qualificazione dipendenti dalla presenza di un qualsiasi
operatore economico ovvero di un contraente generale. In
questo senso depone l’attribuzione alle SOA dei compiti di
attestazione che nel precedente sistema erano affidati, per
il solo contraente generale, ad un decreto ministeriale.
Deve, pertanto, presumersi che il legislatore del 2017 abbia
inteso continuare lungo questo percorso unitario, estendendo
anche al contraente generale la modifica che ha riguardato
la natura delle fonti di regolazione. Del resto, si
sottolinea nel parere, è la valenza intrinsecamente
normativa dell’atto che giustifica la sua veste
regolamentare. Ed è indubbio che tale valenza l’atto l’abbia
anche quando esso trovi applicazione nell’ambito della
disciplina del contraente generale.
3. Misure da adottare
In relazione al sistema di qualificazione nel parere sono
stati segnalati alcuni errori materiali, conseguenza di un
mancato coordinamento normativo che possono essere corretti
con un avviso di rettifica.
In particolare, tale avviso dovrà sostituire i riferimenti
alle linee guida contenuti nell’art. 83, comma 2, e
nell’art. 216 con il riferimento al “decreto di cui
all’art. 83, comma 2”.
In relazione al sistema di qualificazione del contraente
generale, che è l’oggetto specifico del parere, la
Commissione speciale ha sottolineato come la misura più
idonea per ridare coerenza al sistema sia rimessa al
legislatore. In questo caso, infatti, la difficoltà del
ricorso al mero avviso di rettifica deriva dal fatto che non
è sufficiente una mera sostituzione delle espressioni “linee
guida” con “decreto di cui al secondo comma dell’art.
83”.
Ciò in quanto, il sistema di qualificazione rimane comunque
affidato ad una pluralità di atti (linee guida e decreti
regolamentari) che presentano un contenuto eterogeneo. E’
dunque necessaria una modifica sostanziale della norma (Consiglio
di Stato, Comm. spec.,
parere 21.06.2017 n. 1479
- commento tratto da e link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Sulla distanza da osservare nel costruire un barbecue a
confine.
Per l’art. 890 c.c. chi presso il
confine vuole fabbricare forni o camini, per i quali può
sorgere pericolo di danni, deve osservare le distanze
stabilite dai regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie
a preservare i fondi vicini da ogni danno alla solidità,
salubrità e sicurezza.
Tale articolo va quindi letto nel senso di considerare le
cose espressamente elencate come gravate da una presunzione
assoluta di nocività o pericolosità.
Il rispetto della distanza prevista dall’art. 890 c.c.,
nella cui regolamentazione rientrano anche i forni, è
collegato ad una presunzione assoluta di nocività e
pericolosità che prescinde da ogni accertamento concreto nel
caso in cui vi sia un regolamento edilizio comunale che
stabilisca la distanza medesima; mentre, in difetto di una
disposizione regolamentare, si ha pur sempre una presunzione
di pericolosità, seppure relativa, che può essere superata
ove la parte interessata al mantenimento del manufatto
dimostri che mediante opportuni accorgimenti può ovviarsi al
pericolo o al danno del fondo vicino.
---------------
La Corte territoriale ha posto a fondamento della sua
decisione le risultanze della consulenza tecnica di ufficio
secondo le quali il barbecue in questione avrebbe dovuto
essere collocato a non meno di 5-6 metri dalla proprietà del
resistente (distanza che la corte territoriale ha affermato
essere persino troppo modesta) e che il predetto manufatto
invece era stato posto molto vicino alle finestre
dell'abitazione privata di An.Ma., che risultavano "soprastanti
per poche decine di centimetri", mentre la casa era
situata "in posizione soprastante la piccola area esterna
ove il sig. Ca.In. ha collocato il suo barbecue" e ha
aggiunto che "le fotografie in atti sono più eloquenti di
ogni scritto sull'argomento e il rinvio alla loro diretta
visione potrebbe bastare quale motivazione della pronuncia
giudiziale".
La Corte di appello ha qualificato il barbecue un forno e ha
dato atto che il Tribunale, accogliendo la domanda ex art.
890 c.c. dell'attore aveva rilevato che era costituito da un
manufatto in muratura il cui comignolo si trovava ad una
distanza minima da meno di un metro a due metri circa da
alcune finestre del soprastante appartamento dell'attore.
Per l'art. 890 c.c. chi presso il confine
vuole fabbricare forni o camini, per i quali può sorgere
pericolo di danni, deve osservare le distanze stabilite dai
regolamenti e, in mancanza, quelle necessarie a preservare i
fondi vicini da ogni danno alla solidità, salubrità e
sicurezza.
Tale articolo va quindi letto nel senso di considerare le
cose espressamente elencate come gravate da una presunzione
assoluta di nocività o pericolosità.
Il rispetto della distanza prevista dall'art. 890 c.c.,
nella cui regolamentazione rientrano anche i forni
(tale essendo qualificato dalla Corte di appello il
manufatto), è collegato ad una presunzione
assoluta di nocività e pericolosità che prescinde da ogni
accertamento concreto nel caso in cui vi sia un regolamento
edilizio comunale che stabilisca la distanza medesima;
mentre, in difetto di una disposizione regolamentare, si ha
pur sempre una presunzione di pericolosità, seppure
relativa, che può essere superata ove la parte interessata
al mantenimento del manufatto dimostri che mediante
opportuni accorgimenti può ovviarsi al pericolo o al danno
del fondo vicino
(Cass. 22/10/2009 n. 22389; Cass. 06/03/2002 n. 3199).
Va precisato che la presunzione che deve
essere superata non è una presunzione di danno, ma una
presunzione di pericolo che si produca il danna e prescinde
dall'accertamento in concreto del danno, dovendo invece
essere valutata in concreto la pericolosità del forno
ancorché non in attività.
Ne discende quale necessaria conseguenza, l'irrilevanza di
un accertamento svolto con il forno in funzione essendo
invece sufficiente la potenzialità dell'esalazione nociva o
molesta, potenzialità che è stata appunto accertata dal CTU
A nulla rileva che l'apertura più vicina fosse una luce od
una veduta e che si aprisse all'esterno del seminterrato,
dovendosi tenere conto del complessivo mancato rispetto
delle distanze come accertata in concreto dalla Corte di
appello sulla base della CTU e in base alla posizione del
forno rispetto all'immobile del resistente.
Il motivo deve pertanto essere rigettato.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la
violazione dell'art. 115 c.p.c. e sostiene che la Corte di
appello ha erroneamente applicato la nozione del notorio
ritenendo di comune esperienza la nocività delle immissioni
provocate dal barbecue senza avere valutato in concreto la
effettiva nocività e pericolosità del manufatto, amovibile
in quanto soltanto appoggiato al suolo.
2.1. La Corte di appello ha rilevato che per il comune buon
senso e per le nozioni di comune esperienza il carbone di
legna è nocivo.
Il motivo è infondato perché rientra ormai
nella comune esperienza che dalla bruciatura del carbone di
legna (come
rilevato dalla Corte di appello) si
sviluppa una sostanza cancerogena; già nel 2010 l'Agenzia
Internazionale per la ricerca sul cancro ha inserito il fumo
di legna tra i possibili agenti cancerogeni; va aggiunto che
anche su quotidiani a larga tiratura è stata evidenziata la
nocività dei fumi da barbecue
(v. ad es. il quotidiano La Stampa 08/08/2012 inserto
salute) (Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 20.06.2017 n. 15246 - massima tratta da
https://renatodisa.com). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Si
possono installare antenne per radioamatori su tetti
condominiali senza titolo edilizio.
LE antenne come quella di cui si è
dotato il ricorrente possono essere installate senza che sia
necessario il rilascio di un titolo edilizio, una nozione
che si può derivare con maggiore precisione dopo l’entrata
in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
---------------
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in
motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale
che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per
legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma
2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla
gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che
inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento
locale possa considerare un’attività costruttiva in modo
differente rispetto ai principi generali posti dalla norma
di legge citata.
Oltre a ciò il collegio deve richiamare adesivamente la
motivazione della propria ordinanza cautelare (2000, n.
1167) nella parte in cui essa evidenziava l’impossibilità di
derivare dalla lettura delle norme di regolamento l’obbligo
di acquisizione del titolo edilizio per l’installazione
dell’antenna.
---------------
L’impugnazione è relativa ad un atto con cui il comune di
Genova ha ingiunto all’interessato la rimozione dell’antenna
per radioamatore installata sulla copertura dell’immobile
condominiale ubicato in via ... 19. Il bene si eleva per
circa undici metri.
In relazione alle censure proposte il collegio deve
premettere una considerazione generale e assorbente in
ordine alla situazione soggettiva dedotta: risulta infatti
dall’esame della prevalente giurisprudenza in argomento (tar
Lazio, Latina, 2011/861, tar Abruzzo, Pescara, 2009, n. 207,
tar Piemonte, 2002, n. 2156) che le antenne come quella di
cui si è dotato il ricorrente possono essere installate
senza che sia necessario il rilascio di un titolo edilizio,
una nozione che si può derivare con maggiore precisione dopo
l’entrata in vigore del d.lvo 2003, n. 259.
La tesi è poi corroborata e non già smentita dalla
giurisprudenza citata dalla difesa comunale, posto che le
pronunce allegate presuppongono l’intervento autorizzativo
della p.a. solo nel caso in cui l’impianto riguardi un sito
paesisticamente rilevante, cosa che l’atto in questione non
allega si sia verificato.
Ne deriva che, al di là delle censure dedotte, il
provvedimento è carente nel presupposto che lo fonda, posto
che esso non specifica la ragione per cui in una zona
paesisticamente non significativa sarebbe necessario munirsi
di un titolo edilizio per installare un’antenna da
radioamatore.
A diversa conclusione non può indurre la menzione operata in
motivazione di due norme del regolamento edilizio comunale
che imporrebbero l’acquisizione di un titolo edilizio per
legittimare l’installazione del manufatto di che si tratta.
Al riguardo va considerato innanzitutto che l’art. 3, comma
2, del dpr 06.06.2001, n. 380 spiega un effetto sulla
gerarchia delle fonti del diritto in materia edilizia che
inibisce la possibilità di ritenere che un regolamento
locale possa considerare un’attività costruttiva in modo
differente rispetto ai principi generali posti dalla norma
di legge citata. Oltre a ciò il collegio deve richiamare
adesivamente la motivazione della propria ordinanza
cautelare (2000, n. 1167) nella parte in cui essa
evidenziava l’impossibilità di derivare dalla lettura delle
norme di regolamento l’obbligo di acquisizione del titolo
edilizio per l’installazione dell’antenna.
Il ricorso è pertanto fondato e va accolto, conseguendo da
ciò la condanna del comune soccombente alle spese di lite
sostenute dall’interessato, oneri che vengono liquidati
equamente date la natura della controversia e la lontananza
nel tempo dei fatti per cui è lite
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 20.06.2017 n. 540 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA - URBANISTICA:
Giurisdizione del giudice ordinario sulla domanda di
risarcimento del danno asseritamente risentito per aver
fatto affidamento sulla legittimità di provvedimenti
urbanistici ed edilizi successivamente annullati dal Tar.
---------------
Giurisdizione – Risarcimento danni - Affidamento sul
legittimità di provvedimenti urbanistici ed edilizi
successivamente annullati dal Tar – Controversia –
Giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la
domanda di risarcimento del danno asseritamente risentito
per aver fatto affidamento sulla legittimità di
provvedimenti urbanistici ed edilizi successivamente
annullati dal Tar; la domanda giudiziale non attiene,
infatti, ad atti e provvedimenti già adottati in materia, e
neppure all’esercizio del potere amministrativo, espletatosi
con l’approvazione del piano di lottizzazione e con il
rilascio delle concessioni edilizie, ma all’attitudine del
pregresso esercizio del potere amministrativo -sfociato nei
provvedimenti illegittimi- a determinare come conseguenza
causale l’insorgenza di un incolpevole affidamento nella
permanenza della situazione di vantaggio ottenuta (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che la questione ricade nella
giurisdizione del giudice ordinario perché involge
l’apprezzamento del comportamento tenuto dalla pubblica
amministrazione (cfr. Cass. civ., s.u., ord., 04.09.2015, n.
17586; id. 22.01.2015, n. 1162; id. 03.05.2013, n. 10305;
id. 23.03.2011, n. 6594) (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 19.06.2017 n. 211
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Giustificazione della non anomalia dell'offerta di gara
pubblica.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerte
anomale – Giustificazioni – Oggetto - Individuazione.
Ai sensi dell’art. 97, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, le giustificazioni rese dall’offerente
nell’ambito del giudizio di anomalia della propria offerta
devono riguardare elementi che concernono l’offerta stessa,
tra cui l’economia del processo di fabbricazione dei
prodotti, dei servizi prestati o del metodo di costruzione;
le soluzioni tecniche prescelte o le condizioni
eccezionalmente favorevoli di cui dispone l’offerente per
fornire i prodotti, per prestare i servizi o per eseguire i
lavori; l’originalità dei lavori, delle forniture o dei
servizi proposti (1).
---------------
(1)
Il Tar ha ritenuto inidonee a giustificare il notevole
ribasso offerto dalla ricorrente le giustificazioni che si
basano su elementi aleatori e futuri estranei all’offerta
stessa, quali gli eventuali introiti che sarebbe possibile
ricavare dalla vendita di un terreno ovvero dalla vendita di
appartamenti da costruire sul terreno medesimo (TAR
Umbria,
sentenza 16.06.2017 n. 457
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
1. Viene all’esame del Collegio la legittimità degli
atti riguardanti la procedura di gara per l’affidamento “dei
lavori di realizzazione della Piazza dell’Archeologia con
parte del corrispettivo costituito da trasferimento
dell’immobile”, da effettuarsi presso il Comune di Città
di Castello.
2. Con il primo motivo di ricorso, la società
ricorrente sostiene che in sede di valutazione dell’anomalia
della propria offerta, la stazione appaltante avrebbe errato
nel ritenere insufficienti ed incongruenti le
giustificazioni prodotte in ordine agli introiti derivanti
dalla vendita del terreno che costituisce parte del
corrispettivo, ovvero in relazione agli appartamenti che
sarebbe possibile costruire e poi vendere su detto terreno.
2.1. Il motivo è infondato e va respinto.
2.2. Osserva infatti il Collegio che
ai
sensi dell’art. 97 del d.lgs. n. 50/2016, le giustificazioni
rese dall’offerente nell’ambito del giudizio di anomalia
della propria offerta, devono riguardare elementi che
concernono l’offerta stessa, tra cui: l’economia del
processo di fabbricazione dei prodotti, dei servizi prestati
o del metodo di costruzione; le soluzioni tecniche prescelte
o le condizioni eccezionalmente favorevoli di cui dispone
l’offerente per fornire i prodotti, per prestare i servizi o
per eseguire i lavori; infine, l’originalità dei lavori,
delle forniture o dei servizi proposti.
2.3. Contrariamente al suesposto dato normativo, la società
ricorrente ha invece tentato di giustificare il notevole
ribasso offerto, facendo affidamento su elementi aleatori e
futuri estranei all’offerta stessa, quali gli eventuali
introiti che sarebbe possibile ricavare dalla vendita del
terreno facente parte della remunerazione della ditta
aggiudicataria, ovvero dalla vendita di appartamenti da
costruire sul terreno medesimo.
2.4. Appare pertanto corretta la valutazione effettuata
dalla stazione appaltante, secondo cui deve ritenersi “infondata
l’impostazione dell’impresa che ritiene di poter coprire
costi derivanti dall’esecuzione del contratto mediante utili
conseguibili eventualmente solo in un tempo successivo per
mezzo di un negozio giuridico differente”. |
EDILIZIA PRIVATA:
Manufatto abusivo - Ingiunzione alla demolizione
- Rigetto della richiesta di revoca o sospensione - Condanna
definitiva - PUBBLICA AMMINISTRAZIONE - Valutazione
effettuata dall'amministrazione comunale - Criteri.
In materia urbanistica, la situazione particolare che viene
a determinarsi in conseguenza della deliberazione comunale,
sottraendo l'opera abusiva la suo normale destino, che è la
demolizione, presuppone che la valutazione effettuata
dall'amministrazione comunale sia estremamente rigorosa e
deve essere puntualmente riferita al singolo manufatto, il
quale va precisamente individuato, dando atto delle
specifiche esigenze che giustificano la scelta, dovendosi
escludere che possano assumere rilievo determinazioni di
carattere generale riguardanti, ad esempio, più edifici o
fondate su valutazioni di carattere generale (Sez. 3, n.
25824 del 22/05/2013, Mursia; V. anche Sez. 3, n. 9864 del
17/02/2016, Corleone e altro).
Immobile abusivo in zona sottoposta a
vincolo paesaggistico - Condono edilizio ex legge 326/2003 -
Provvedimento di sanatoria - Amministrazione comunale -
Presupposti per l'emissione - Giurisprudenza.
La realizzazione, in area assoggettata a vincolo
paesaggistico, di nuove costruzioni in assenza di permesso
di costruire non è suscettibile di sanatoria (v. da ultimo,
Sez. 3, n. 16471 del 17/02/2010, Giardina, nonché ex. pi.
Sez. 3, n. 35222 del 11/04/2007, Manfredi e altro; Sez. 3,
n. 38113 del 03/10/2006, De Giorgi; Sez. 4, n. 12577 del
12/01/2005, Ricci) (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 15.06.2017 n. 30170 -
link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Sulla non sanabilità
di un parcheggio per camion, abusivamente realizzato in zona
agricola mediante livellamento del terreno e successivo
riporto di ghiaia.
Quanto al parcheggio, funzionale
all’esercizio delle attività di trasporto di cui era
all’epoca titolare il marito della ricorrente, è del pari
evidente la incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento,
sia con l’autorizzazione al livellamento per miglioramento
della funzionalità agricola, sia con la destinazione
agricola di zona (come pure con quella asseritamente
sopravvenuta a “zona per impianti tecnologici”), nonché con
l’art. 48 delle NTA dell’epoca, che escludevano in zona
agricola qualsiasi deposito non funzionale all’attività
agricola.
----------------
Con gli atti impugnati il Comune di Crespano del Grappa ha
denegato (18/19.05.2000, n. 2499) la sanatoria e il nulla
osta paesistico di un parcheggio per camion, abusivamente
realizzato in zona agricola mediante livellamento del
terreno e successivo riporto di ghiaia, e di un muro di
recinzione e contenimento a confine con il fondo adiacente
del vicino, situato a livello inferiore.
L’autorizzazione 24.11.1990 per l’esecuzione di recinzione
metallica su pali in ferro e per il “livellamento della
depressione presente nel terreno agricolo"........... “al
fine di realizzare un miglioramento fondiario del terreno”
medesimo, non può evidentemente coprire la realizzazione di
un muro di contenimento per proteggere il fondo confinante
dal deflusso dell’acqua piovana e dal franamento del
materiale ghiaioso (abusivamente riportato), né lo
spianamento del terreno agricolo e la sua copertura con un
materiale ghiaioso per realizzarvi un parcheggio,
trattandosi di opere ben diverse da quelle autorizzate.
Un muro lungo 52 m e di altezza 2.40 (giustamente misurata
dal piano di campagna esterno, perché i limiti di altezza,
ed anche il vincolo paesaggistico di zona sono imposti a
tutela dell’interesse pubblico e del contesto ambientale e
non del fondo di sedime dell’abuso) è cosa ben diversa dalla
recinzione metallica su pali (es. TAR Campania 677/2017; TAR
Bologna I sez., 1003/2014); senza contare che l’art. 88
della NTA allora vigenti consentiva in zona agricola solo la
recinzione delle aree di pertinenza dei fabbricati, in
nessun caso di altezza superiore ai 2 m, quindi non vi era
alcuna possibilità di sanatoria per mancanza della doppia
conformità.
Quanto al parcheggio, funzionale all’esercizio delle
attività di trasporto di cui era all’epoca titolare il
marito della ricorrente, è del pari evidente la
incompatibilità anche solo dell’inghiaiamento, sia con
l’autorizzazione al livellamento per miglioramento della
funzionalità agricola, sia con la destinazione agricola di
zona (come pure con quella asseritamente sopravvenuta a “zona
per impianti tecnologici”), nonché con l’art. 48 delle
NTA dell’epoca, che escludevano in zona agricola qualsiasi
deposito non funzionale all’attività agricola (cfr. TAR
Veneto II, n. 5244/2010, Tar Campania VIII, n. 1397/2016,
TAR Val D’Aosta I sez., n. 55/2016).
Anche per questo abuso, dunque, la sanatoria non poteva che
essere de negata per mancanza della doppia conformità.
Tanto premesso sulle caratteristiche del muro di
contenimento, è evidente che il diniego del nulla osta
paesaggistico è adeguatamente motivato con l’affermazione
che il muro “per posizione e tipologia interrompe i coni
visuali di pregio ambientale” (cfr. Tar Toscana III
1238/2012 sui limiti dell’onere motivazionale del diniego di
autorizzazione paesaggistica).
Dunque, tutti i motivi sono infondati.
Il ricorso è respinto
(TAR Veneto, Sez. II,
sentenza 15.06.2017 n. 572 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI:
Esclusione dalla gara per l’affidamento in concessione di un
servizio per omesso versamento del contributo all’Anac.
---------------
Contratti della
Pubblica amministrazione – Esclusione dalla gara – Per
omesso versamento del contributo all’Anac – Gara per
l’affidamento in concessione di un servizio – Non comporta
l’esclusione.
L’omesso versamento, da parte del
concorrente di una gara pubblica per l’affidamento in
concessione di un servizio, del contributo all’Anac,
previsto dall’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n. 266, non
comporta l’esclusione dalla procedura, non essendo il cit.
comma 67 dell’art. 1 applicabile alla concessione di servizi
(1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che l’art. 1, comma 67, l. 23.12.2005, n.
266 pone il versamento del contributo all’Anac come
condizione di ammissibilità dell’offerta unicamente per gli
appalti di opere pubbliche. Ne consegue che, in difetto di
espressa previsione di legge, tale previsione non può
estendersi alle concessioni di servizi, perché una simile
estensione risulterebbe incompatibile con il principio di
tassatività delle cause di esclusione dalla gara previsto
dall’art. 83, comma 8, d.lgs. 18.04.2016, n. 50.
Ad avviso del Tribunale, inoltre, l’estensione alle
concessioni di servizi della causa di esclusione dagli
appalti pubblici consistente nel mancato versamento del
contributo all’Anac si porrebbe in contrasto anche con il
principio generalissimo che non consente l’applicazione di
una norma eccezionale fuori dai casi da essa espressamente
contemplati.
Il Tar ha quindi concluso che in base all’ora vista
pronuncia dei giudici comunitari, il principio di parità di
trattamento e l’obbligo di trasparenza ostano all’esclusione
di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione
di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da
parte di tale operatore, dell’obbligo di pagamento di un
contributo (nel caso di specie: il contributo all’Anac) che
non risulti espressamente dai documenti di gara o da norme
di legge, bensì da una loro interpretazione (non
condivisibile, per quanto sopra detto): infatti, in tali
circostanze, i principi di parità di trattamento e di
proporzionalità non ostano a che si consenta al citato
operatore economico di regolarizzare la propria posizione e
di adempiere a tale obbligo entro un termine fissatogli
dall’amministrazione aggiudicatrice (TAR
Veneto, Sez. I,
sentenza 15.06.2017 n. 563
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
- Considerato, in particolare, che nel merito le censure
della ricorrente si incentrano, a ben guardare, tutte sulla
stessa questione, cioè sul mancato versamento nella gara
de qua, da parte della S.. S.r.l., del contributo
all’Autorità di Vigilanza (ora all’A.N.A.C.) di cui all’art.
1, comma 67, della l. n. 266/2005;
- Considerato, tuttavia, che come già accennato in sede
cautelare, l’art. 1, comma 67, della l. n.
266 cit. non è applicabile alla fattispecie all’esame,
avente ad oggetto una concessione di servizi, poiché la
disposizione in parola pone il versamento del ridetto
contributo come condizione di ammissibilità dell’offerta
unicamente per gli appalti di opere pubbliche: la succitata
condizione di ammissibilità non può, in difetto di espressa
previsione di legge, estendersi alle concessioni di servizi,
perché una simile estensione risulterebbe incompatibile con
il principio di tassatività delle cause di esclusione dalla
gara (v. art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016 ed in
passato art. 46, comma 1-bis, del d.lgs. n. 163/2006);
- Osservato, inoltre, che l’estensione alle
concessioni di servizi della causa di esclusione dagli
appalti pubblici consistente nel mancato versamento del
contributo all’A.N.A.C. si porrebbe in contrasto, oltre che
con la lettera della legge, con il principio generalissimo
che non consente l’applicazione di una norma eccezionale
fuori dai casi da essa espressamente contemplati;
- Considerato, ancora, che anche ove si
volesse sostenere la doverosità del versamento del
contributo nel caso di specie e che, pertanto, la S. S.r.l.
fosse tenuta a versarlo, ne deriverebbe non già l’esclusione
di detta società per il mancato versamento del contributo,
ma soltanto la fissazione alla società stessa di un termine
per regolarizzare la propria posizione
(così il recentissimo arresto della Corte Giust. UE,
02.06.2016, n. 27);
- Considerato, infatti, che, in base all’ora vista pronuncia
dei giudici comunitari, il principio di
parità di trattamento e l’obbligo di trasparenza ostano
all’esclusione di un operatore economico da una procedura di
aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato
rispetto, da parte di tale operatore, dell’obbligo di
pagamento di un contributo (nel caso di specie: il
contributo all’AVCP) che
(come nella vicenda qui in esame) non
risulti espressamente dai documenti di gara o da norme di
legge, bensì da una loro interpretazione (non condivisibile,
per quanto sopra detto): infatti, in tali circostanze, i
principi di parità di trattamento e di proporzionalità non
ostano a che si consenta al citato operatore economico di
regolarizzare la propria posizione e di adempiere a tale
obbligo entro un termine fissatogli dall’amministrazione
aggiudicatrice;
- Ritenuto in definitiva, alla luce di quanto si è esposto,
di dover dichiarare il ricorso manifestamente infondato ai
sensi dell’art. 74 c.p.a.. |
EDILIZIA PRIVATA: Come
è noto, soltanto con l’entrata in vigore dell’articolo 10
della legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) è stato
novellato l’articolo 31 della legge urbanistica 17.08.1942,
n. 1150, mediante l’introduzione dell’obbligo generalizzato
di munirsi della licenza edilizia per tutte le
trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite nell’intero
territorio comunale. In precedenza, tale obbligo aveva
invece una portata limitata, in quanto il richiamato
articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque intenda
eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare quelle
esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei centri
abitati ed ove esista il piano regolatore comunale, anche
dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art. 7,
deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
Dalla suddetta disposizione deriva che, per le costruzioni
realizzate prima dell’entrata in vigore della novella del
1967, la licenza edilizia non fosse richiesta, salvo che
l’opera ricadesse nel centro abitato o nelle zone di
espansione, e salvo inoltre –secondo l’orientamento fatto
proprio recentemente dalla Sezione– il caso in cui l’obbligo
di munirsi del titolo edilizio fosse comunque previsto dai
regolamenti edilizi comunali.
La giurisprudenza ha, inoltre, ripetutamente affermato che
“l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio
richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione
delle opere della cui demolizione di tratta e sulla
legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e
non sulla P.A.”.
---------------
Ritiene il Collegio che, con riferimento alle opere
realizzate prima del 1967, l’applicazione di quest’ultimo
principio comporti, ai fini del riparto dell’onere della
prova, che spetta all’interessato dimostrare che l’edificio
sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della
novella che ha generalizzato l’obbligo di munirsi del titolo
edilizio, e che tuttavia, una volta che la parte abbia dato
questa prova, sia onere del Comune dimostrare che,
nonostante l’epoca di realizzazione, l’edificazione
richiedesse comunque il rilascio del titolo edilizio.
Ciò sia in quanto l’esistenza di una delle condizioni
comportanti comunque la necessità della licenza costituisce
un fatto impeditivo del dispiegarsi della situazione
soggettiva allegata dal privato, sia per ragioni di
prossimità della prova, atteso che, a distanza di molti
anni, può risultare estremamente difficile per l’interessato
acquisire la documentazione necessaria a dimostrare –in
negativo– che la costruzione, all’epoca della sua
realizzazione, non ricadesse in alcuna delle situazioni che
avrebbero richiesto il previo rilascio del titolo edilizio.
---------------
1. Con la proposizione del ricorso introduttivo del presente
giudizio, la signora An.Ca.Da. ha impugnato l’ordinanza del
Comune di Mandello del Lario in data 30.12.2015, con la
quale le è stata ordinata la rimessione in pristino delle
opere realizzate in difformità dal “Nulla Osta esecuzione
opere edilizie” n. 1749 del 26.02.1962, con conseguente
riconduzione dell’unità abitativa posta al quarto piano –
sottotetto del fabbricato in Via ... 16/H alla destinazione
di “ripostiglio”.
2. La ricorrente allega di aver acquistato nel 2011,
mediante la stipulazione di un contratto di compravendita,
la mansarda oggetto del provvedimento repressivo comunale.
L’unità immobiliare, secondo quanto pure evidenziato dalla
parte, sarebbe stata realizzata, con le stesse
caratteristiche con le quali si presenta oggi, nel 1963,
allorché fu costruito il fabbricato nel quale si colloca, e
da allora sarebbe stata sempre destinata ad uso abitativo.
L’esistenza della mansarda sarebbe peraltro nota da tempo
all’Amministrazione, in quanto indicata nella relazione e
certificato di collaudo delle opere in cemento armato del
1963, presente agli atti del Comune.
...
7. Il ricorso è fondato, dovendo trovare accoglimento il
terzo motivo articolato dalla ricorrente, per le ragioni
che di seguito si espongono.
8. Il provvedimento impugnato ha ordinato il ripristino
della destinazione a ripostiglio della mansarda di proprietà
della ricorrente, sulla base del riscontro della difformità
della destinazione d’uso impressa all’immobile rispetto a
quanto previsto dal nulla osta rilasciato nel 1962 per la
costruzione dell’edificio ove è posto l’appartamento. La
medesima ordinanza fa, inoltre, riferimento alla circostanza
che l’unità abitativa non è indicata nel certificato di
abitabilità, che si riferisce alle unità fino al terzo piano
(mentre l’appartamento della ricorrente, come detto, si pone
al quarto piano, costituito dal sottotetto).
9. Al riguardo, deve tenersi presente che come è noto,
soltanto con l’entrata in vigore dell’articolo 10 della
legge 06.08.1967, n. 765 (c.d. “legge ponte”) è stato
novellato l’articolo 31 della legge urbanistica 17.08.1942,
n. 1150, mediante l’introduzione dell’obbligo generalizzato
di munirsi della licenza edilizia per tutte le
trasformazioni edificatorie dei suoli eseguite nell’intero
territorio comunale. In precedenza, tale obbligo aveva
invece una portata limitata, in quanto il richiamato
articolo 31 stabiliva, al primo comma, che “Chiunque
intenda eseguire nuove costruzioni edilizie ovvero ampliare
quelle esistenti o modificarne la struttura o l'aspetto nei
centri abitati ed ove esista il piano regolatore comunale,
anche dentro le zone di espansione di cui al n. 2 dell'art.
7, deve chiedere apposita licenza al podestà del comune”.
9.1 Dalla suddetta disposizione deriva che, per le
costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della
novella del 1967, la licenza edilizia non fosse richiesta,
salvo che l’opera ricadesse nel centro abitato o nelle zone
di espansione, e salvo inoltre –secondo l’orientamento fatto
proprio recentemente dalla Sezione– il caso in cui l’obbligo
di munirsi del titolo edilizio fosse comunque previsto dai
regolamenti edilizi comunali (per quest’ultimo profilo v.
Cons. Stato, Sez. VI, 07.08.2015, n. 3899; Id., Sez. IV,
21.10.2008, n. 5141; TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
09.01.2017, n. 37).
9.2 La giurisprudenza ha, inoltre, ripetutamente affermato
che “l’onere della prova sul possesso del titolo edilizio
richiesto e, più in generale, circa l’epoca di realizzazione
delle opere della cui demolizione di tratta e sulla
legittimità degli interventi effettuati grava sul privato e
non sulla P.A.” (in questo senso, ex multis:
Cons. Stato, Sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Ritiene il Collegio che, con riferimento alle opere
realizzate prima del 1967, l’applicazione di quest’ultimo
principio comporti, ai fini del riparto dell’onere della
prova, che spetta all’interessato dimostrare che l’edificio
sia stato realizzato prima dell’entrata in vigore della
novella che ha generalizzato l’obbligo di munirsi del titolo
edilizio, e che tuttavia, una volta che la parte abbia dato
questa prova, sia onere del Comune dimostrare che,
nonostante l’epoca di realizzazione, l’edificazione
richiedesse comunque il rilascio del titolo edilizio. Ciò
sia in quanto l’esistenza di una delle condizioni
comportanti comunque la necessità della licenza costituisce
un fatto impeditivo del dispiegarsi della situazione
soggettiva allegata dal privato, sia per ragioni di
prossimità della prova, atteso che, a distanza di molti
anni, può risultare estremamente difficile per l’interessato
acquisire la documentazione necessaria a dimostrare –in
negativo– che la costruzione, all’epoca della sua
realizzazione, non ricadesse in alcuna delle situazioni che
avrebbero richiesto il previo rilascio del titolo edilizio.
10. Facendo applicazione di questi principi nel caso oggetto
del presente giudizio, deve riscontrarsi che il fabbricato
in cui è posta l’unità abitativa della ricorrente risulta
essere stato realizzato nel 1963, come emerge dalla
circostanza che in quell’anno furono emessi non solo il
collaudo dei cementi armati (doc. 8 della ricorrente), ma
anche il permesso di abitabilità (doc. 9 della ricorrente).
La signora Da. ha inoltre affermato che l’unità abitativa di
sua proprietà, posta nel sottotetto, è stata realizzata con
le attuali caratteristiche sin dal momento della costruzione
dell’edificio, e a comprova di questa circostanza ha
richiamato la relazione e certificato di collaudo delle
opere in cemento armato del 1963, ove si legge che “Il
sottotetto è accessibile mediante scala: nello stesso
sottotetto sono stati ricavati due piccoli appartamenti in
falda di tetto” (v. ancora il doc. 8 della ricorrente).
Sulla scorta di questi elementi di fatto, deve ritenersi
effettivamente dimostrato che la destinazione del sottotetto
a residenza sia avvenuta in epoca precedente al 1967.
Circostanza, questa, peraltro non contestata
dall’Amministrazione, né nel provvedimento impugnato, né in
giudizio.
11. A fronte di questo dato, il Comune aveva perciò l’onere,
secondo quanto sopra si è detto, di accertare –dandone conto
nella motivazione dell’ordinanza di demolizione– che,
nonostante l’epoca di realizzazione, le opere fossero
soggette al rilascio del titolo edilizio.
11.1 Ciò, tuttavia, non emerge dalla lettura del
provvedimento impugnato, il quale si limita a riscontrare la
difformità del locale sottotetto rispetto al nulla osta
rilasciato per l’edificazione dell’intero fabbricato nel
1962. La circostanza che sia stato emesso un “nulla osta”
per l’esecuzione dell’intervento edificatorio non dimostra
però, di per sé, che il previo rilascio del titolo fosse
condizione necessaria per l’edificazione. E, d’altro canto,
ove il titolo non fosse stato indispensabile, dovrebbe pure
ritenersi irrilevante la circostanza che, nella
realizzazione dell’intervento, l’allora proprietario si sia
discostato dal nulla osta rilasciatogli.
11.2 Deve poi rilevarsi che, soltanto in giudizio, il Comune
ha sostenuto, nelle proprie difese, che il fabbricato nel
quale è situato il sottotetto si troverebbe “nel nucleo
abitato consolidato del Comune” (v. memoria comunale in
data 11.04.2016, p. 7). Secondo la prospettazione
dell’Amministrazione, ciò si desumerebbe:
- dalla perimetrazione del centro edificato operata ai sensi
della legge n. 865 del 1971, risultante dal Piano Regolatore
Generale, la quale evidenzierebbe come l’abitato sia
largamente sviluppato intorno all’edificio (doc. 5 del
Comune);
- dalla fotografia tratta da Google Maps datata settembre
2010, che permetterebbe di riscontrare l’edificazione in
epoca risalente dei fabbricati circostanti (doc. 14 del
Comune).
I suddetti elementi, come anticipato, non risultano tuttavia
essere stati fatti oggetto dell’istruttoria procedimentale
e, comunque, non sono idonei a dimostrare la precisa
circostanza che, nel 1963, l’area su cui sorge il fabbricato
facesse parte del centro abitato.
11.3 Sotto altro profilo, non è dirimente, al fine di
sorreggere la legittimità dell’ordinanza di demolizione, la
circostanza che l’area entro la quale ricade l’immobile sia
soggetta a vincolo paesaggistico.
Secondo l’Amministrazione, da questo dato dovrebbe
discendere la necessarietà del provvedimento adottato,
essendo stata disattesa l’autorizzazione rilasciata dalla
Soprintendenza in relazione al progetto del 1962.
Al riguardo, deve tuttavia osservarsi che dalle motivazioni
dell’ordinanza emerge che il profilo di difformità
riscontrato rispetto all’autorizzazione paesaggistica
attiene solo al numero e alle dimensioni delle finestre,
ossia a profili che di per sé avrebbero potuto giustificare
unicamente un provvedimento diretto a disporre la
regolarizzazione delle aperture, ma non anche il ripristino
della destinazione del sottotetto a ripostiglio. E ciò in
quanto il mero utilizzo del locale sottotetto per finalità
abitative, e la realizzazione di opere interne atte a
realizzare la predetta destinazione, non incidono, di per se
stessi, sull’aspetto esteriore dell’edificio, e sono quindi
irrilevanti, come tali, dal punto di vista paesaggistico.
12. In definitiva, il provvedimento impugnato risulta
affetto dai dedotti vizi di difetto di istruttoria e di
motivazione, sotto i profili illustrati.
Il ricorso va quindi accolto, con assorbimento delle
rimanenti censure, e va disposto, per l’effetto,
l’annullamento del provvedimento impugnato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1354 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA:
Ai fini della legittimità di un provvedimento non
è necessario che la motivazione contenga un’analitica
confutazione delle osservazioni e controdeduzioni svolte
dalla parte, essendo invece sufficiente che dalla
motivazione si evinca che l’amministrazione abbia
effettivamente tenuto conto nel loro complesso di quelle
osservazioni e controdeduzioni per la corretta formazione
della propria volontà o del proprio giudizio.
Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione del
provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente e
logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una
esternazione motivazionale che renda, nella sostanza,
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione
amministrativa alle deduzioni partecipative.
---------------
9. Il ricorso è infondato.
10. Non può, anzitutto, trovare accoglimento il primo
motivo, con il quale la ricorrente allega la violazione
delle garanzie di partecipazione procedimentale, a causa
dell’omessa valutazione delle osservazioni presentate dopo
la ricezione della comunicazione di avvio del procedimento.
10.1 Al riguardo, deve richiamarsi l’unanime orientamento
giurisprudenziale secondo il quale “ai fini della
legittimità di un provvedimento non è necessario che la
motivazione contenga un’analitica confutazione delle
osservazioni e controdeduzioni svolte dalla parte, essendo
invece sufficiente che dalla motivazione si evinca che
l’amministrazione abbia effettivamente tenuto conto nel loro
complesso di quelle osservazioni e controdeduzioni per la
corretta formazione della propria volontà o del proprio
giudizio” (così Cons. Stato, Sez. V, 02.10.2014, n.
4928). Ciò che si richiede, ai fini della giustificazione
del provvedimento, è quindi una motivazione complessivamente
e logicamente resa a sostegno dell’atto stesso, ossia una
esternazione motivazionale che renda, nella sostanza,
percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione
amministrativa alle deduzioni partecipative (Cons. Stato,
Sez. V, 13.02.2017, n. 603, che conferma TAR Lazio, Sez. II
Ter, 07.10.2015, n. 11504).
10.2 Nel caso oggetto del presente giudizio, il
provvedimento impugnato ha bensì evidenziato che la parte
interessata avesse presentato “deduzione e documenti”,
ma li ha ritenuti “non rilevanti ai fini del presente
procedimento”.
Tale affermazione deve ritenersi sufficiente, posto che le
ragioni per le quali l’Amministrazione non ha accolto quanto
prospettato dall’interessata sono evincibili dalle ampie
motivazioni del provvedimento amministrativo, che si
contrappongono agli argomenti sostenuti nelle osservazioni
della parte, in questo senso risultati non idonei a
sorreggere un diverso esito del procedimento.
10.3 E invero, la parte aveva sostenuto, anzitutto, che dal
tenore della comunicazione di avvio del procedimento, ove si
afferma che il permesso di costruire n. 45 del 2012 era
stato rilasciato “per tali opere”, dovesse ricavarsi
che, secondo lo stesso Comune, l’intervento accertato in
occasione del sopralluogo fosse conforme al predetto titolo
edilizio.
Tale osservazione è stata implicitamente confutata
dall’Amministrazione, la quale –chiarendo l’affermazione
contenuta nella comunicazione di avvio del procedimento cui
si era riferita la società– ha evidenziato che le opere non
corrispondessero affatto a quelle oggetto del precedente
permesso di costruire (che infatti aveva ad oggetto un
intervento del tutto diverso, consistenti soltanto in una
recinzione). In questo senso le opere sono state dichiarate
“difformi” dal precedente titolo edilizio.
Una volta rilevata la mancanza di corrispondenza
dell’intervento rispetto all’oggetto del permesso di
costruire (circostanza, peraltro, obiettivamente
riscontrabile), era irrilevante che il Comune confutasse gli
argomenti spesi dalla parte per sostenere che il titolo
edilizio non fosse decaduto.
Infine, la ricostruzione del Comune in ordine alla
disciplina urbanistica applicabile all’area costituisce
un’implicita confutazione della diversa prospettazione
operata, sul punto, dalla società con la presentazione delle
osservazioni.
10.4 Il motivo va, perciò, rigettato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’ordine di demolizione di opere edilizie abusive
non richiede la previa comunicazione di avvio del
procedimento, trattandosi di atto dovuto e rigorosamente
vincolato, con riferimento al quale non sono richiesti
apporti partecipativi del destinatario, al quale va
garantita soltanto la possibilità di partecipare a quelle
attività di rilevamento fattuale che preludono alla
valutazione circa l’adozione del provvedimento repressivo.
---------------
11. E’ pure infondato il secondo motivo, con il quale
la parte lamenta la mancanza di corrispondenza, quanto
all’individuazione dell’illecito edilizio, tra la
comunicazione di avvio del procedimento e l’ordinanza di
rimessione in pristino, oltre che la genericità di
quest’ultima nell’indicare le opere come meramente difformi
dal permesso di costruire.
11.1 La ricorrente insiste, anzitutto, sulla circostanza che
–a suo avviso– dalla comunicazione di avvio del procedimento
si evincerebbe che le opere fossero state ritenute conformi
al permesso di costruire, per cui la loro abusività veniva
fatta dipendere soltanto dalla ritenuta decadenza dello
stesso titolo edilizio. Nel provvedimento conclusivo,
invece, si afferma la difformità delle opere dal permesso di
costruire, benché decaduto.
Secondo la parte, la differente impostazione dell’ordinanza
di demolizione rispetto alla comunicazione di avvio del
procedimento avrebbe, perciò, frustrato le garanzie di
partecipazione procedimentale.
11.2 La prospettazione della parte non può essere condivisa.
Al riguardo, va anzitutto evidenziato che, secondo il
prevalente indirizzo giurisprudenziale, l’ordine di
demolizione di opere edilizie abusive non richiede neppure
la previa comunicazione di avvio del procedimento,
trattandosi di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con
riferimento al quale non sono richiesti apporti
partecipativi del destinatario, al quale va garantita
soltanto la possibilità di partecipare a quelle attività di
rilevamento fattuale che preludono alla valutazione circa
l’adozione del provvedimento repressivo (Cons. Stato, Sez.
V, 07.06.2015, n. 3051). E, nel caso oggetto del presente
giudizio, il rilevamento dello stato dei luoghi non è
oggetto di contestazione.
11.3 Peraltro, l’Amministrazione ha effettivamente inviato
all’interessata la comunicazione dell’avvio di un
procedimento sanzionatorio degli abusi edilizi, evidenziando
–secondo quanto sopra riportato– che le opere fossero state
realizzate in assenza di titolo abilitativo. La ricorrente è
stata così messa pienamente in grado di partecipare al
procedimento, presentando le proprie osservazioni, al fine
di dimostrare il carattere non illecito delle opere.
La circostanza, poi, che il tenore del provvedimento finale
non corrisponda esattamente, per qualche profilo, alla
comunicazione di avvio del procedimento non potrebbe in ogni
caso costituire, di per sé, una lesione delle prerogative di
partecipazione procedimentale dell’interessato. E ciò in
quanto l’Amministrazione –nei procedimenti a iniziativa
d’ufficio– è tenuta soltanto a rendere noto l’avvio
dell’iter, ma non anche a comunicare lo schema finale del
provvedimento che intende adottare. Tanto più quando avviene
che, come nel caso di specie, il diverso tenore del
provvedimento conclusivo dipenda proprio dalla necessità di
chiarire profili (la corrispondenza o meno delle opere
rispetto al precedente permesso di costruire) posti
all’attenzione dell’Amministrazione dall’apporto
partecipativo dell’interessato.
11.4 La parte lamentata poi la genericità dell’ordinanza di
demolizione, nella parte in cui accerta la difformità delle
opere rispetto al titolo, senza precisare se si tratti di
difformità totale o parziale, e senza considerare che,
secondo la tesi della parte, dovrebbe trovare applicazione
analogica, pur in assenza della realizzazione di volumi
edilizi, l’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, che
imporrebbe di considerare irrilevante tale difformità.
La censura non può essere accolta.
Con l’uso del termine “difformità” l’amministrazione
ha inteso affermare che le opere non fossero sorrette dal
precedente permesso di costruire. Come detto, infatti, il
titolo edilizio rilasciato nel 2012 si riferiva a una
recinzione, mentre le opere sanzionate dal provvedimento
impugnato consistono in una asfaltatura diretta ad allargare
l’accesso carrabile e nella realizzazione di uno spazio
adibito a parcheggio.
Ciò posto, deve tenersi presente che l’assenza di titolo e
la totale difformità rispetto a questo sono del tutto
assimilate quanto al trattamento sanzionatorio, per cui non
è giuridicamente rilevante stabilire se si versi nell’una o
nell’altra ipotesi. Conseguentemente, è pure irrilevante una
eventuale improprietà terminologica del provvedimento su
questo punto. E’, invece, radicalmente escluso che il tenore
dell’ordinanza impugnata potesse ingenerare alcun dubbio
circa la possibilità di ricondurre le opere alla fattispecie
della mera difformità parziale dal permesso di costruire,
tenuto conto degli atti del procedimento e della circostanza
che sin dal verbale di sopralluogo era stata rilevato che le
opere non fossero sorrette da alcun titolo. Nessuno spazio
poteva trovare, quindi, l’applicazione analogica
dell’articolo 34 del d.P.R. n. 380 del 2001, ipotizzata
dalla ricorrente, al fine di pervenire alla qualificazione
delle “difformità” come irrilevanti.
11.5 Il motivo va, quindi, rigettato
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La possibilità di procedere ad interventi
ricadenti nell’ambito della c.d. ‘attività edilizia libera’
non opera in modo incondizionato, ma resta pur sempre
subordinata (in base al comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R.
380, cit.) al rispetto “[delle] prescrizioni degli strumenti
urbanistici comunali, e comunque [al] rispetto delle altre
normative di settore aventi incidenza sulla disciplina
dell’attività edilizia (…)”.
La conformità urbanistica costituisce dunque un presupposto
per l’esecuzione degli interventi di attività edilizia
libera, e non una conseguenza della mera astratta
riconducibilità dell’opera, in base alle sue caratteristiche
tipologiche, nell’elencazione contenuta all’articolo 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001.
---------------
12. Con il terzo motivo, infine, la ricorrente
sostiene –in estrema sintesi– la conformità urbanistica
delle opere.
La prospettazione della parte, tuttavia, non convince.
12.1 Sotto un primo profilo, la società allega che le opere
consisterebbero nella mera pavimentazione dell’area e
sarebbero, quindi, riconducibili nell’ambito dell’attività
edilizia libera, ai sensi dell’articolo 6 del d.P.R. n. 380
del 2001. Secondo la parte, dall’applicazione di
quest’ultima disposizione deriverebbe la possibilità di
realizzare tali opere in qualunque porzione del territorio
comunale, a prescindere dalla destinazione urbanistica.
Conseguentemente, il Comune non avrebbe dovuto ordinare la
rimessione in pristino, ma soltanto comminare la sanzione
pecuniaria, per l’omessa comunicazione dell’intervento,
secondo quanto prescritto dalla disciplina vigente al tempo
della realizzazione dell’intervento.
Rileva il Collegio che –come ben evidenziato dalla difesa
comunale– la medesima questione attinente
all’interpretazione dell’articolo 6, sopra richiamato, è già
stata affrontata in una pronuncia del Consiglio di Stato,
peraltro relativa a un caso del tutto analogo a quello
oggetto del presente giudizio. Si trattava infatti parimenti
di opere di pavimentazione realizzate nel territorio del
medesimo Comune di Seregno, in area destinata a standard
d’uso pubblico (in quel caso “S/SA – massa boscata”).
E in quel precedente si è ritenuto –affermando un principio
che il Collegio condivide e fa proprio– che “la
possibilità di procedere ad interventi ricadenti nell’ambito
della c.d. ‘attività edilizia libera’ non opera in modo
incondizionato, ma resta pur sempre subordinata (in base al
comma 1 dell’articolo 6 del d.P.R. 380, cit.) al rispetto
“[delle] prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali,
e comunque [al] rispetto delle altre normative di settore
aventi incidenza sulla disciplina dell’attività edilizia (…)”
(Cons. Stato, Sez. VI, 27.07.2015, n. 3667).
La conformità urbanistica costituisce dunque un presupposto
per l’esecuzione degli interventi di attività edilizia
libera, e non una conseguenza della mera astratta
riconducibilità dell’opera, in base alle sue caratteristiche
tipologiche, nell’elencazione contenuta all’articolo 6 del
d.P.R. n. 380 del 2001
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 14.06.2017 n. 1351 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Risarcimento danni per revoca di aggiudicazione conseguente
a informativa antimafia poi annullata giudizialmente se
prima della revoca dell'aggiudicazione è intervenuta la
cessione di ramo di azienda.
----------------
Risarcimento danni – Contratti della Pubblica
amministrazione – Aggiudicazione – Revoca Conseguente ad
informativa antimafia – Annullamento in sede giurisdizionale
– Istanza risarcitoria - Intervenuta cessione d’azienda -
Difetto di legittimazione della società cedente.
E’ inammissibile per difetto di
legittimazione attiva, la domanda di risarcimento dei danni
subiti per effetto dell'informativa antimafia e della
conseguente revoca dell'aggiudicazione dell'appalto di
lavori, successivamente annullati in sede giurisdizionale,
ove –prima della revoca dell’aggiudicazione– sia intervenuta
cessione del ramo d’azienda.
----------------
(1)
Ha chiarito il Tar che la cessione dell’azienda, infatti,
comporta (ai sensi dell’art. 2558, comma 1, cod. civ.) il
trasferimento al cessionario dei rapporti contrattuali
relativi all’azienda e, soprattutto, di ogni credito verso
terzi relativo all’azienda stessa, per effetto di quanto
previsto dall’art. 2559, comma 1, cod. civ., secondo cui “La
cessione dei crediti relativi all'azienda ceduta, anche in
mancanza di notifica al debitore o di sua accettazione, ha
effetto, nei confronti dei terzi, dal momento
dell'iscrizione del trasferimento nel registro delle imprese”.
Regime giuridico che opera senz’altro anche in relazione ai
crediti da fatto illecito, come chiarito dalla Corte di
cassazione (sez. III, 31.07.2012, n. 13692) secondo cui “Tra
i crediti che, nel caso di cessione d'azienda, si
trasferiscono automaticamente al cessionario rientrano anche
quelli derivanti da fatti illeciti commessi in danno
dell'impresa cedente, a nulla rilevando che gli stessi
consistano nella lesione di interessi legittimi pretensivi
od oppositivi per condotta illegittima della p.a.” (TAR
Sardegna,
sentenza 14.06.2017 n. 403
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
rilevanza penale, o meno, dell'omessa esposizione del cd.
cartello di cantiere.
La violazione dell'obbligo di esporre il
cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo,
qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo
medesimo, è tuttora punita dall'art. 44, lett. a) del d.P.R.
06.06.2011, n. 380, se commessa dal titolare del permesso
a costruire, dal committente, dal costruttore
o dal direttore dei lavori.
Ciò in quanto sussiste continuità normativa tra l'art. 4,
comma 4, dell'abrogata legge 28.02.1985, n. 47, e la nuova
fattispecie contemplata dall'art. 27, comma 4, del citato
d.P.R. 380 del 2011.
Tant'è che integra il reato anche l'esposizione, in maniera
non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e
i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti
presente all'interno del cantiere.
---------------
1. Il ricorso è fondato.
2. Lo stesso provvedimento impugnato ha dato atto del
contrario insegnamento di legittimità in merito alla
rilevanza penale dell'omessa esposizione del cd. cartello di
cantiere, qualora detta prescrizione sia prevista dal
provvedimento sindacale (come si evince in specie dal
richiamo, contenuto nel capo d'imputazione, alla
prescrizione contenuta nel permesso di costruire n. 4 del
2011).
In proposito, infatti, la violazione dell'obbligo di esporre
il cartello indicante gli estremi del titolo abilitativo,
qualora prescritto dal regolamento edilizio o dal titolo
medesimo, è tuttora punita dall'art. 44, lett. a) del d.P.R.
06.06.2011, n. 380, se commessa dal titolare del permesso
a costruire, dal committente, dal costruttore
o dal direttore dei lavori (Sez. 3, n. 29730 del
04/06/2013, Stroppini, Rv. 255836; anche più recentemente,
ad es. Sez. 3, n. 13963 del 29/01/2016, Carotenuto ed altri;
Sez. 3, n. 10713 del 16/01/2015, Zanussi ed altri).
Ciò in quanto sussiste continuità normativa tra l'art. 4,
comma 4, dell'abrogata legge 28.02.1985, n. 47, e la nuova
fattispecie contemplata dall'art. 27, comma 4, del citato
d.P.R. 380 del 2011 (Sez. 3, n. 46832 del 15/10/2009, Thabet
e altro, Rv. 245613; quanto alla previsione normativa
iniziale, Sez. U, n. 7978 del 29/05/1992, Aramini e altro,
Rv. 191176).
Tant'è che integra il reato anche l'esposizione, in maniera
non visibile, del cartello indicante il titolo abilitativo e
i nominativi dei responsabili, ancorché esso risulti
presente all'interno del cantiere (Sez. 3, n. 40118 del
22/05/2012, Zago e altri, Rv. 253673).
2.1. In particolare, quanto al contestato rilievo penale (v.
provvedimento impugnato, pag. 2) delle sole norme violatrici
delle prescrizioni concernenti la trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio, a suo tempo fu posto l'accento,
nel contesto normativo in allora rappresentato dalla legge
n. 47 del 1985, sull'art. 4 della stessa.
Detta norma, intitolata "vigilanza sull'attività
urbanistico-edilizia nel territorio comunale per assicurarne
la rispondenza alle norme di legge e di regolamento alle
prescrizioni degli strumenti urbanistici ed alle modalità
esecutive fissate nella concessione o nell'autorizzazione",
prevedeva, all'ultimo comma, che gli ufficiali ed agenti di
polizia giudiziaria dessero immediata comunicazione
all'autorità giudiziaria, al presidente della giunta
regionale ed al sindaco ove nei luoghi di realizzazione
delle opere non fosse esibita la concessione ovvero non
fosse stato apposto il prescritto cartello, "ovvero in
tutti gli altri casi di presunta violazione
urbanistico-edilizia".
In tal modo testualmente consentendo di desumere, in
particolare, come anche la sola violazione dell'obbligo di
apposizione del cartello fosse appunto considerata dal
legislatore come ipotesi di presunta violazione
urbanistico-edilizia e, come tale, di particolare rilevanza
ai suindicati fini.
A riprova era stato altresì notato come la sistemazione del
prescritto cartello, contenente gli estremi della
concessione edilizia e degli autori dell'attività
costruttiva presso il cantiere, consentisse una vigilanza
rapida, precisa ed efficiente dell'attività, rispondendo
allo scopo di permettere ad ogni cittadino di verificare se
i lavori fossero o meno stati autorizzati dall'autorità
competente. Di qui, dunque, la riconducibilità della
condotta omissiva in questione all'interno dell'allora
precetto dell'art. 20, lett. a), della legge 47 del 1985, in
relazione alla inosservanza delle norme di cui alla stessa
legge.
Né tali conclusioni potevano mutare ove si abbia riguardo
alla sopravvenuta normativa rappresentata dal d.P.R. n. 380
del 2001, posto che l'art. 27, comma 4, del d.P.R. stesso)
ha riprodotto la previsione del previgente art. 4 cit.
relativa alla immediata comunicazione agli enti competenti
da parte degli ufficiali ed agenti di p.g. della mancata
apposizione del cartello così come di "tutti gli altri
casi di presunta violazione urbanistico-edilizia",
restando quindi confermata l'appartenenza della violazione
in questione alla attività edilizio-urbanistica e, dunque,
la sanzionabilità della stessa all'interno delle ipotesi di
cui all'art. 44, lett. a), del d.P.R. cit., così acquistando
rilievo determinante la previsione di essa all'interno dei
regolamenti edilizi o della concessione (cfr., in
motivazione, n. 10713 del 2015 cit.).
La sentenza impugnata, che ha disatteso siffatto consolidato
insegnamento in ordine alla riconducibilità dell'apposizione
del cartello al campo delle violazioni in materia
urbanistica ed edilizia, va pertanto annullata, con rinvio
per nuovo giudizio -a norma dell'art. 623, lett. d), cod.
proc. pen.- al competente Tribunale di Asti
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 13.06.2017 n. 29213). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulla
responsabilità dell’inquinamento riguardante l’area “ex
polveriera Montedison”.
---------------
Inquinamento –
Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei luoghi – Soggetto
obbligato – Individuazione – Criterio.
La fonte dell'obbligo di procedere
alla messa in sicurezza e all'eventuale bonifica del sito
inquinato si identifica nella responsabilità dell'autore
dell'inquinamento, che quindi va puntualmente e precisamente
individuato da parte dell’Autorità amministrativa, sulla
base di un rigoroso accertamento anche in caso di vicende
societarie complesse (1).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che la Direttiva 2004/35/CE all’art. 2
definisce come “operatore”, cui si connette la
responsabilità per danno ambientale (cfr. 2° e 18°
Considerando) “qualsiasi persona fisica o giuridica, sia
essa pubblica o privata, che esercita o controlla
un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad
una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini
dell’internalizzazione dei costi ambientali), nel caso
all’esame del Tribunale sono del tutto assenti un’analisi e
un accertamento in concreto del ruolo effettivamente svolto
dalla ricorrente con specifico riferimento al ramo
industriale interessato e ritenuto ‘responsabile’
della condotta inquinante (Tar Lazio, sez. II-bis,
21.03.2016, n. 3441), tenuto conto della complessa
articolazione, anche nel tempo, del Gruppo Montedison.
Ha aggiunto il Tar che l'inquadramento della contaminazione
come situazione permanente non esime dall’individuazione del
soggetto responsabile, rilevando quel concetto ai fini
dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica
più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a
contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei
relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi
procedurali.
Il Tar ha infine ricordato che nell'ipotesi di mancata
individuazione del responsabile, o di mancata esecuzione
degli interventi in esame da parte sua –e sempreché non
provvedano spontaneamente né il proprietario del sito, né
altri soggetti interessati–, le opere di recupero ambientale
devono essere eseguite dall'Amministrazione competente (art.
250, d.lgs. 03.04.2006, n. 152), che potrà poi rivalersi sul
proprietario del sito, nei limiti del valore dell'area
bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non vada a
buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto dei
medesimi interventi (art. 253, d.lgs. n. 152 del 2006) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 1326 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
V.2) Così sinteticamente ricostruito il contenuto
essenziale del provvedimento il Collegio osserva che
l’istruttoria operata dal Comune, che si riverbera
nell’articolato motivazionale, si presenta carente e non
supportata da circostanze attuali.
L’attività istruttoria svolta dal Comune si fonda, infatti,
da un lato, su elementi antecedenti all’ordinanza n.
76/2004, oggetto di annullamento, dall’altro su circostanze
subprocedimentali successive dalle quali non trapela, in
generale, alcuna attività volta ad individuare il soggetto
responsabile dell’inquinamento e, nello specifico, alcun
accertamento conducente e conclusivo per ritenere tale la
ricorrente. Anzi, dall’attività compiuta parrebbe emergere
l’intenzione del Comune di eseguire in proprio le opere di
bonifica, per il tramite della propria società Ta. STU
s.p.a.
Va ancora evidenziato che gli ultimi atti compiuti risalgono
agli anni 2006/2007.
Da allora –per quasi dieci anni– non risulta, né dall’atto
impugnato né dalla produzione documentale versata in atti,
che il Comune abbia svolto alcuna attività di indagine
ulteriore. Neppure si dà conto della permanente esistenza in
vita della società Ta. STU spa (soggetto obbligato alla
bonifica, unitamente al Comune, secondo l’ordinanza n.
76/2004), dell’avvenuta presentazione del progetto
definitivo da parte di tale società né di ulteriori elementi
rilevanti occorsi in tale lungo lasso di tempo.
Va osservato, innanzi tutto, che non risulta che la
ricorrente sia mai stata proprietaria dell’area (ceduta al
Comune nel 2002) né, tanto meno, che abbia svolto alcun tipo
di attività sui terreni in questione.
Ciò posto, l’individuazione del soggetto responsabile è
avvenuta sulla base di una indimostrata successione della
ricorrente “a titolo universale” dal soggetto che,
fino agli anni ’70, ha svolto l’attività inquinante.
Deve rammentarsi che il Comune nel 2002 ha acquistato l’area
in questione dalla società Co.In.Im. srl,
avente causa della società In.Ed. srl, già “Se.Im.Mo. spa” (per effetto del
trasferimento della proprietà nel 1999) la quale a sua volta
ne era divenuta proprietaria per conferimento (ciò è quanto
si ricava dal contratto di compravendita tra il Comune e la
società Co. srl).
Il Comune, nei propri atti difensivi, fa riferimento –a
sostegno dell’assunto circa la successione di Ed. spa– ad
una visura camerale relativa a Mo. srl da cui
risultano, a partire dal 1999, i trasferimenti d’azienda, le
fusioni, le scissioni e i subentri coinvolgenti le seguenti
società: Ge.Ge.Im. srl, Im.Gr. srl, Società Im.As. spa, Ac. srl,
Ce. srl, ICI Im.Co.In. srl, Ed.Tr.Se. srl, e, infine, con atto di fusione per
incorporazione nell’aprile 2012, Ed.spa.
A fronte di tale complessità dei rapporti societari, sopra
sinteticamente evidenziati (con indicazioni peraltro
difformi tra quanto riportato nel provvedimento impugnato e
quanto risulta dal documento prodotto in giudizio), che
prendono l’avvio da una precisa società del più articolato “Gruppo
Mo.”, l’individuazione di Ed. spa quale
successore “a titolo universale”, che sarebbe,
secondo l’atto impugnato, “soggetto giuridico succeduto a
Mo. spa, Co.In.Im. srl e Mo.
srl”, appare affermazione indimostrata, priva di alcuna
evidenza documentale, né in sede procedimentale né in sede
processuale.
Invero né è stata dimostrata –in modo rigoroso– l’effettiva
qualificazione di avente causa della ricorrente dal soggetto
responsabile dell’inquinamento (e quindi di successore a
titolo universale), essendosi il Comune limitato ad una
sommaria descrizione delle presunte successioni societarie
di un gruppo che, in realtà, nel corso di oltre un
cinquantennio, risulta essere stato oggetto di modificazioni
complesse e articolate, composto da molteplici società
svolgenti attività tra loro differenti. Né è stata
dimostrata la responsabilità dell’inquinamento dell’area in
questione da parte del ritenuto avente causa della
ricorrente, considerato che, come già rilevato,
l’individuazione nella società Co. srl del soggetto
responsabile, effettuata con l’ordinanza n. 76/2004 (fondata
sul titolo contrattuale), è stata ritenuta da questo
Tribunale non corretta e non risulta che, in sede di nuovo
procedimento, siano stati effettuati accertamenti ai fini
dell’individuazione di una responsabilità ad altro titolo
della predetta società, asserita dante causa della
ricorrente.
La Direttiva 2004/35/CE all’art. 2 definisce come “operatore”,
cui si connette la responsabilità per danno ambientale (cfr.
2° e 18° Considerando) “qualsiasi persona fisica o
giuridica, sia essa pubblica o privata, che esercita o
controlla un'attività professionale”.
Pur volendo far riferimento –in via teorica ed astratta– ad
una nozione ampia di operatore economico (rilevante ai fini
dell’internalizzazione dei costi ambientali),
nel caso di
specie sono del tutto assenti un’analisi e un accertamento
in concreto del ruolo effettivamente svolto dalla ricorrente
con specifico riferimento al ramo industriale interessato e
ritenuto ‘responsabile’ della condotta inquinante
(cfr. in termini Tar Lazio–Roma sez. II-bis 21.03.2016, n.
3441), tenuto conto della complessa articolazione, anche nel
tempo, del Gruppo Mo..
L'inquadramento della contaminazione come situazione
permanente, cui fa riferimento il Comune nel provvedimento
impugnato, non esime dall’individuazione del soggetto
responsabile, rilevando quel concetto ai fini
dell'applicazione delle procedure amministrative di bonifica
più recentemente introdotte nel nostro ordinamento anche a
contaminazioni storiche, con conseguente applicazione dei
relativi limiti tabellari o di rischio e delle relative fasi
procedurali.
Le norme di cui agli artt. 242 e segg. del d.lgs. n.
152/2006 vanno interpretate nel senso che l'obbligo di
adottare le misure dirette a fronteggiare la situazione di
inquinamento incombe su colui che di tale situazione sia
responsabile per avervi dato causa (cfr. Corte di Giustizia
sentenza 04.03.2015, n. C-534/15, Fipa Group).
La fonte dell'obbligo di procedere alla messa in sicurezza e
all'eventuale bonifica del sito inquinato si identifica,
cioè, nella responsabilità dell'autore dell'inquinamento,
che quindi va puntualmente e precisamente individuato da
parte dell’Autorità amministrativa, sulla base di un
rigoroso accertamento (Tar Milano sez. IV 13.10.2016, n.
1860; Consiglio di Stato, sez. V, 14.04.2016, n. 1509).
Nell'ipotesi di mancata individuazione del responsabile, o
di mancata esecuzione degli interventi in esame da parte sua
–e sempreché non provvedano spontaneamente né il
proprietario del sito, né altri soggetti interessati–, le
opere di recupero ambientale devono essere eseguite
dall'Amministrazione competente (art. 250), che potrà poi
rivalersi sul proprietario del sito, nei limiti del valore
dell'area bonificata, anche esercitando, ove la rivalsa non
vada a buon fine, le garanzie gravanti sul terreno oggetto
dei medesimi interventi (art. 253) (cfr. Cons. Stato sez. V
09.07.2015 n. 3449; Ad. Plen. n. 21/2013).
Tale disciplina rende priva di rilevanza la questione posta
dalla ricorrente circa la permanenza dell’efficacia
dell’ordinanza n. 76/2004 nella parte in cui il Comune
imponeva a sé stesso gli obblighi di bonifica. A questi
l’Amministrazione è tenuta comunque, nell’ipotesi sopra
indicata, in forza di legge.
Sotto altro profilo, ma concorrente ai fini della fondatezza
del lamentato vizio di carenza istruttoria, va rilevato che
l’affermazione contenuta nel provvedimento impugnato circa “l’accertata
contaminazione del sito” si fonda, tenuto conto della
documentazione offerta, sulla relazione di ARPA di cui si è
preso atto nella conferenza di servizi del 16.04.2006 che,
tuttavia, ha evidenziato che “i valori analitici
riscontrati nei campioni prelevati in contraddittorio
corrispondono a quelli rilevati dal laboratorio di parte e
non si riscontrano superamenti ai valori limite stabiliti
dal DM 471/1999 per i siti ad uso verde pubblico, privato e
residenziale”.
Nel corso del lungo periodo intercorso tra quegli
accertamenti e il provvedimento impugnato non risulta che
siano stati compiuti ulteriori analisi, anche alla luce
della normativa sopravvenuta.
Per le ragioni che precedono il ricorso per motivi aggiunti,
in relazione ai profili esaminati e assorbite le ulteriori
censure, merita accoglimento e per l’effetto va disposto
l’annullamento dell’ordinanza del 30.03.2016. |
EDILIZIA PRIVATA: Le
caratteristiche proprie della copertura di cui si tratta
costituiscono una conferma che quest’ultima ha le funzioni e
la destinazione propria di una vera e propria terrazza,
funzioni queste ultime del tutto differenti da quelle che
contraddistinguono un lastrico solare, destinato
com’è a costituire esclusivamente un tetto, privo
un’utilizzazione da parte dei dimoranti nell’immobile.
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In presenza di un utilizzo protratto della copertura come
terrazzo, l’avvenuta realizzazione di una ringhiera
protettiva costituisce un intervento per il quale non è
richiesto il preventivo rilascio del permesso di costruire.
Infatti, tali opere seppure finalizzate a consentire
l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile non
determinano una significativa trasformazione urbanistica ed
edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come
mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva
esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite
al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di
mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale
da non comportare un aumento del carico urbanistico.
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2.2 Altrettanto legittima è la realizzazione del terrazzo.
2.3 Sul punto è necessario premettere che i coniugi Ni.
hanno ottenuto la sanatoria, con provvedimento del nr.
75/88, di un bagno con ripostiglio in ampliamento sulla
corte posta sul retro dell’edificio di loro proprietà.
2.4 Parte ricorrente afferma di aver collocato delle
ringhiere sul lastrico solare riferito ai manufatti oggetto
di sanatoria e, ciò, in considerazione del fatto che lo
stesso lastrico solare sarebbe stato da sempre utilizzato
come terrazzo, pertinente all’abitazione.
2.5 Le affermazioni dei ricorrenti risultano confermate dai
documenti allegati al ricorso, nell’ambito dei quali è
possibile evincere che la copertura sovrastante gli ambienti
condonati si trova a livello delle porte finestre di un
locale adibito a “sala”, esplicando così le funzioni
tipiche di una terrazza o di un balcone prospiciente le
aperture della stessa unità abitativa.
Detta circostanza, desumibile dalla documentazione
fotografica, unitamente alle caratteristiche proprie della
copertura di cui si tratta, costituisce una conferma che
quest’ultima ha le funzioni e la destinazione propria di una
vera e propria terrazza, funzioni queste ultime del tutto
differenti da quelle che contraddistinguono un lastrico
solare, destinato com’è a costituire esclusivamente un
tetto, privo un’utilizzazione da parte dei dimoranti
nell’immobile (sulla diversità di funzioni tra lastrico e
terrazza si veda anche TAR Sicilia Catania Sez. I,
10/11/2008, n. 2068).
2.6 In presenza di un utilizzo protratto della copertura
come terrazzo, non assume carattere dirimente nemmeno
l’avvenuta installazione delle ringhiere da parte dei
ricorrenti e, ciò, considerando che secondo un costante
orientamento giurisprudenziale l’avvenuta realizzazione di
una ringhiera protettiva costituisce un intervento per il
quale non è richiesto il preventivo rilascio del permesso di
costruire; “infatti, tali opere seppure finalizzate a
consentire l'utilizzo del solaio di copertura di un immobile
non determinano una significativa trasformazione urbanistica
ed edilizia del territorio, ma si configurano piuttosto come
mere pertinenze, essendo preordinate ad un'oggettiva
esigenza dell'edificio principale, funzionalmente inserite
al servizio dello stesso, sfornite di un autonomo valore di
mercato e caratterizzate da un volume minimo, tale da non
consentire una destinazione autonoma e diversa da quella a
servizio dell'immobile al quale accedono e, comunque, tale
da non comportare un aumento del carico urbanistico (TAR
Campania Salerno Sez. II, 27.06.2014, n. 1139)”.
Le censure di cui al secondo e al terzo motivo sono,
pertanto, fondate
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'ordine di demolizione ha un carattere dovuto,
dovendo essere disposto indipendente dal periodo di tempo
intercorso dalla commissione dell’abuso, non sussistendo
alcun legittimo affidamento in capo al responsabile
dell’abuso.
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata
la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso
un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione
dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo
qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività
del costruttore contra legem. Non può ammettersi, pertanto,
un affidamento meritevole di tutela alla conservazione di
una situazione di fatto abusiva.
---------------
2.7 Vanno respinte, al contrario, le ulteriori censure
proposte.
2.8 E’ infondato, in particolare, il primo motivo con il
quale si sostiene l’esistenza di un eccesso di potere per
carenza di motivazione, in quanto la demolizione sarebbe
stata disposta dopo venti anni dalla realizzazione delle
opere di cui si tratta.
2.9 Costituisce orientamento maggioritario, fatto proprio
anche da questo Tribunale, quello in base al quale l'ordine
di demolizione ha un carattere dovuto, dovendo essere
disposto indipendente dal periodo di tempo intercorso dalla
commissione dell’abuso, non sussistendo alcun legittimo
affidamento in capo al responsabile dell’abuso (Cons. Stato
Sez. VI, 23.10.2015, n. 4880).
Non sussiste, infatti, alcuna necessità di motivare in modo
particolare un provvedimento con il quale sia stata ordinata
la demolizione di un manufatto abusivo, quando sia trascorso
un lungo periodo di tempo tra l'epoca della commissione
dell'abuso e la data dell'adozione dell'ingiunzione di
demolizione, poiché l'ordinamento tutela l'affidamento solo
qualora esso sia incolpevole, mentre la realizzazione di
un'opera abusiva si concretizza in una volontaria attività
del costruttore contra legem. Non può ammettersi,
pertanto, un affidamento meritevole di tutela alla
conservazione di una situazione di fatto abusiva (Cons.
Stato Sez. VI, 01.12.2015, n. 5426)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
La sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può
essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando
il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non
può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità.
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3.3 Altrettanto infondato è il quarto motivo, diretto a
sostenere la legittimità dell’innalzamento del fabbricato.
3.4 Non solo i ricorrenti non hanno contestato né
l’innalzamento né la modifica della pendenza del tetto, ma
va evidenziato come dette variazioni non sono mai state
oggetto di richiesta di un provvedimento abilitativo o di
una variante alla concessione originaria, circostanza
quest’ultima che conferma il carattere abusivo degli stessi
manufatti.
3.5 Nemmeno risulta dimostrato che l’eventuale demolizione
della tettoia sarebbe di pregiudizio per la parte conforme.
3.6 Si consideri come costituisca orientamento consolidato
che la sostituzione della demolizione con la sanzione
pecuniaria, prevista dall’art. 34 del Dpr 380/2001, può
essere adottata solo in un secondo momento e, cioè, quando
il soggetto privato non ha ottemperato spontaneamente alla
demolizione ed il Comune ha accertato che la demolizione non
può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in
conformità (TAR Campania Napoli Sez. IV, 24.04.2017, n. 2217
e TAR Campania Salerno Sez. I, 02.03.2016, n. 485, TAR
Molise Campobasso Sez. I, 08.04.2016, n. 171)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E’ noto che l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non
richiede la comunicazione di avvio del procedimento,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato e che,
ancora, la mancata indicazione dell’area di sedime non
inficia la legittimità dell’ordine demolitorio, attenendo
tale aspetto al provvedimento successivo e relativo
all’esecuzione dell’ordinanza gravata.
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3.7 E’ noto, altresì, che l’ordinanza di demolizione
costituisce un atto dovuto dell’Amministrazione che non
richiede la comunicazione di avvio del procedimento,
riconducibile ad esercizio di potere vincolato (Cons. Stato
Sez. VI, 15.09.2015, n. 4293) e che, ancora, la mancata
indicazione dell’area di sedime non inficia la legittimità
dell’ordine demolitorio, attenendo tale aspetto al
provvedimento successivo e relativo all’esecuzione
dell’ordinanza gravata (TAR Campania sez. IV del 06.10.2016,
n. 4574 e Cons. Stato Sez. IV, 23.01.2012, n. 282)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 13.06.2017 n. 824 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ESPROPRIAZIONE:
Giurisdizione giudice ordinario sull'accertamento tecnico
preventivo finalizzato ad operazioni di occupazione
d'urgenza non preordinate a decreto di esproprio.
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Giurisdizione – Espropriazione per pubblica utilità –
Accertamento tecnico preventivo – Finalizzato ad operazioni
di occupazione d'urgenza non preordinate a decreto di
esproprio – Controversia – giurisdizione giudice ordinario.
Rientra nella giurisdizione del
giudice ordinario la controversia avente ad oggetto il
ricorso volto all’accertamento tecnico preventivo in vista
di operazioni di occupazione d'urgenza collegate, ma non
finalizzate, ad un provvedimento di espropriazione; ed
infatti, l’accertamento tecnico preventivo, attesa la sua
valenza cautelare e conservativa, è intimamente connesso al
giudizio di merito nel quale la prova avrebbe dovuto essere
acquisita in via ordinaria, con la conseguenza che il
Giudice adito è tenuto a verificare preliminarmente se la
futura ed eventuale domanda di merito, cui accede la domanda
di accertamento tecnico preventivo, rientri o meno nella
propria giurisdizione (1).
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(1) Il Tar ha richiamato
il recente arresto delle Sezioni unite della cassazione (ord.,
09.02.2011, n. 3167) secondo cui le controversie concernenti
l’occupazione temporanea di aree funzionale alla corretta
esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art. 49,
d.P.R. 08.06.2001, n. 327, non avendo ad oggetto atti o
provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla
materia espropriativa vera e propria, rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia
limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione
temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di
provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo
(Tar Umbria 16.01.2014, n. 49) con riferimento ad una
controversia nella quale la parte ricorrente non si doleva
della legittimità di provvedimenti o comportamenti in
materia espropriativa, né dell’occupazione sine titulo
preordinata all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna
dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in
occasione dell’occupazione temporanea del proprio fondo,
asseritamente in carenza di potere (TRGA
Trentino Alto Adige-Trento,
sentenza 13.06.2017 n. 198
- link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
7. Ancor prima di procedere all’esame delle eccezioni
processuali sollevate dall’amministrazione resistente con la
memoria depositata in data 31.05.2017, giova rammentare che,
secondo la giurisprudenza (TAR Lazio Roma, Sez. II,
29.03.2016, n. 3846), «l’esperibilità dell’accertamento
tecnico preventivo nell’ambito del processo amministrativo
-prima riconosciuta in via giurisprudenziale nel solco di
una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni
concernenti i mezzi probatori sperimentabili nel processo
amministrativo, alla stregua dei principi del giusto
processo, del diritto di difesa e di conservazione dei
valori giuridici- trova espresso riconoscimento nell’art.
53, comma 5, del c.p.a., laddove espande espressamente l’esperibilità
dei mezzi di prova nel processo amministrativo a tutti
quelli previsti dal codice del processo civile con formula
che esclude soltanto l’interrogatorio formale ed il
giuramento. La ratio dell’accertamento tecnico preventivo,
regolato dall’art. 696 c.p.c., è quella di ovviare al
pericolo della dispersione della prova prima che la parte
interessata attivi un giudizio di merito ovvero definisca
con un accordo un procedimento contenzioso già iniziato.
Presupposto essenziale di tale strumento di acquisizione
della prova è la sussistenza di un’urgenza concreta di far
verificare, ante causam, lo stato dei luoghi, ovvero la
qualità o la condizione di una cosa, in chiara correlazione
con un’esigenza di tipo cautelare che è resa evidente
dall’incipit della norma».
8. Si deve poi evidenziare che
l’accertamento tecnico
preventivo, attesa la sua valenza cautelare e conservativa,
è intimamente connesso al giudizio di merito nel quale la
prova avrebbe dovuto essere acquisita in via ordinaria
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 27.10.2011, n. 5769),
con
l’ulteriore conseguenza che il Giudice adito è tenuto a
verificare preliminarmente se la futura ed eventuale domanda
di merito, cui accede la domanda di accertamento tecnico
preventivo, rientri o meno nella propria giurisdizione.
9. Passando all’eccezione di difetto di giurisdizione di
questo Tribunale, il Collegio ritiene che la stessa debba
essere accolta.
Come ha puntualizzato il Giudice regolatore
della giurisdizione (Cass. civ., Sez. Un., ord. 09.02.2011,
n. 3167),
le controversie come quella per cui è causa,
concernenti l’occupazione temporanea di aree funzionale alla
corretta esecuzione dei lavori, disposte ai sensi dell’art.
49 del D.P.R. n. 327/2001, non avendo ad oggetto atti o
provvedimenti in materia ablatoria e rimanendo estranee alla
materia espropriativa vera e propria, rientrano nella
giurisdizione del giudice ordinario, purché la domanda sia
limitata a far valere l’illecito protrarsi dell’occupazione
temporanea, senza lamentare vizi di legittimità di
provvedimenti amministrativi.
Nello stesso senso si è espresso il giudice amministrativo
(TAR Umbria Perugia, Sez. I, 16.01.2014, n. 49) con
riferimento ad una controversia nella quale la parte
ricorrente non si doleva della legittimità di provvedimenti
o comportamenti in materia espropriativa, né
dell’occupazione sine titulo preordinata
all’espropriazione, bensì chiedeva la condanna
dell’amministrazione al risarcimento dei danni subiti in
occasione dell’ occupazione temporanea del proprio fondo,
asseritamente in carenza di potere.
Ciò posto, con riferimento alla fattispecie in esame è
sufficiente evidenziare che:
A) l’occupazione di cui trattasi -che avrebbe cagionato i danni
lamentati, per il suo protrarsi oltre il termine previsto- è
stata disposta con la determinazione dirigenziale n. 862 del
28.10.2008 ai sensi dell’art. 28 della legge provinciale n.
6/1993 (disposizione questa che, come quella dell’art. 49
del D.P.R. n. 327/2001, risponde alla sola finalità di
disciplinare l’occupazione temporanea dell’area
interessata);
B) la società ricorrente non lamenta alcun vizio della predetta
determinazione dirigenziale n. 862 del 28.10.2008, né della
successiva determinazione dirigenziale n. 706 del
23.11.2016, limitandosi a richiedere il risarcimento dei
danni derivanti dalla pretesa occupazione abusiva dell’area
successivamente al 31.05.2009 e dall’allagamento dell’area
di sua proprietà, con conseguente richiesta di ripristino
dello stato dei luoghi. |
APPALTI: •
Sulla sinteticità degli atti nel giudizio
amministrativo e sulla natura sanzionatoria della condanna
alle spese di cui all'art. 26, c. 2 c.p.a..
•
Sul criterio della c.d. doppia riparametrazione
per le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più
vantaggiosa.
•
In tema di chiarezza e sinteticità degli atti amministrativi
di cui all'art. 3, c. 2, c.p.a. il limite dimensionale degli
atti giudiziari può essere superato ottenendo
l'autorizzazione preventiva ex art. 6 del decreto del
Segretariato generale della giustizia amministrativa del
22.12.2016, recante "Disciplina dei criteri di redazione
e dei limiti dimensionali dei ricorsi e degli altri atti
difensivi nel processo amministrativo".
In assenza di tale autorizzazione, la parte dell'atto
eccedente i limiti non è esaminabile.
Inoltre, l'art. 26, c. 2, c.p.a. dispone che "Il giudice
condanna d'ufficio la parte soccombente al pagamento di una
sanzione pecuniaria, in misura non inferiore al doppio e non
superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per
il ricorso introduttivo del giudizio, quando la parte
soccombente ha agito o resistito temerariamente in giudizio.
Al gettito delle sanzioni previste dal presente comma si
applica l'articolo 15 delle norme di attuazione".
Tale norma si lega a quanto sancito dall'art. 26, c. 1,
c.p.a., secondo cui "Quando emette una decisione, il
giudice provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli
artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 del c.p.c., tenendo anche
conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità
di cui all'art. 3, c. 2".
E' pacifica la natura sanzionatoria della misura pecuniaria
in esame, che tipizza uno dei casi di temerarietà del
giudizio e che prescinde da una specifica domanda nonché
dalla prova del danno subito, ed il cui gettito, commisurato
a predeterminati limiti edittali, è destinato al bilancio
della giustizia amministrativa, atteso che lo scopo della
norma è quello di tutelare la rarità della risorsa
giudiziaria, un bene non suscettibile di usi sovralimentati
o distorti, soprattutto a presidio dei casi in cui il suo
uso è davvero necessario
•
Nel sistema degli appalti pubblici nessuna norma di
carattere generale impone, per le gare da aggiudicare con il
criterio dell'offerta più vantaggiosa, l'obbligo della
stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta
tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex
specialis, mediante il criterio della c.d. doppia
riparametrazione atteso che nelle gare da aggiudicarsi con
detto criterio la riparametrazione ha la funzione di
ristabilire l'equilibrio fra i diversi elementi qualitativi
e quantitativi previsti per la valutazione dell'offerta solo
se e secondo quanto voluto e disposto dalla stazione
appaltante con il bando, con la conseguenza che l'operazione
di riparametrazione deve essere espressamente prevista dalla
legge di gara per poter essere applicata e non può tradursi
in una modalità di apprezzamento delle offerte
facoltativamente introdotta dalla commissione giudicatrice.
Infatti, la discrezionalità che pacificamente compete alla
stazione appaltante nella scelta, alla luce delle esigenze
del caso concreto, dei criteri da valorizzare ai fini della
comparazione delle offerte, come pure nella determinazione
della misura della loro valorizzazione, non può non
rivestire un ruolo decisivo anche sul punto della c.d.
riparametrazione che, avendo la funzione di preservare
l'equilibro fra i diversi elementi stabiliti nel caso
concreto per la valutazione dell'offerta (e perciò di
assicurare la completa attuazione della volontà espressa al
riguardo dalla stazione appaltante), non può che dipendere
dalla stessa volontà e rientrare quindi già per sua natura
nel dominio del potere di disposizione ex ante della
stessa Amministrazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 12.06.2017 n. 2852 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
All’Adunanza plenaria la questione della perdurante
efficacia delle proposte di vincolo ante d.lgs. 42 del 2004
e non seguite dal provvedimento ministeriale di notevole
interesse pubblico.
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Beni culturali, paesaggistici e ambientali – Proposte di
vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n.
42 del 2004 – Efficacia – Mancata conclusione del
procedimento – Deferimento all’Adunanza plenaria.
Va rimessa all’Adunanza
plenaria la questione se, a mente del combinato disposto
degli articoli 140, 141 e 157, co. 2, d.lgs. 22.01.2004, n.
42 –come modificati dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n.
157, e poi, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63– le proposte di
vincolo formulate prima dell’entrata in vigore del medesimo
decreto legislativo, e per le quali non vi sia stata
conclusione del relativo procedimento con l’adozione del
decreto ministeriale recante la dichiarazione di notevole
interesse pubblico, cessino di avere effetto.
(1)
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(1) I.- Con una articolata motivazione, la quarta sezione
del Consiglio di Stato deferisce all’Adunanza plenaria la
questione della perdurante efficacia delle proposte di
vincolo paesaggistico formulate prima dell’entrata in vigore
del d.lgs. n. 42 del 2004, non seguite dal decreto
ministeriale di conclusione del procedimento di
dichiarazione di notevole interesse pubblico.
La rimessione è stata disposta nell’ambito di un giudizio di
appello proposto da una società –interessata al rilascio di
un’autorizzazione unica ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. n.
387 del 2003– la cui domanda di annullamento di un diniego
di autorizzazione paesaggistica era stata respinta dal TAR
sul presupposto (tra gli altri motivi di rigetto) della
perdurante efficacia di due proposte di vincolo dell’area di
localizzazione del parco eolico, non seguite dal decreto
ministeriale di dichiarazione di notevole interesse pubblico
che, invece, la ricorrente assumeva prive di effetti ai
sensi dell’art. 141 d.lgs. n. 42 del 2004.
La questione giuridica controversa può essere sintetizzata
nei seguenti termini.
L’art. 157, co. 2 d.lgs. n. 42/2004 prevede che “le
disposizioni della presente Parte si applicano anche agli
immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla data di
entrata in vigore del presente Codice, sia stata formulata
la proposta ovvero definita la perimetrazione ai fini della
dichiarazione di notevole interesse pubblico o del
riconoscimento quali zone di interesse archeologico”.
Nel contesto antecedente al Codice dei beni culturali, la
tutela dei valori paesaggistici si esplicava fin dal momento
in cui la proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni
interessati e la durata della misura cautelativa o
anticipatoria di tutela durava fino alla approvazione del
vincolo, senza indicazione di termine di efficacia della
misura ovvero di decadenza dal potere di emanazione del
provvedimento finale.
Per effetto delle modifiche introdotte all’art. 141 d.lgs.
n. 42/2004 -dapprima con il d.lgs. 24.03.2006 n. 157, e poi,
segnatamente, con il d.lgs. 26.03.2008 n. 63- il comma 5 del
suddetto articolo prevede ora che “se il provvedimento
ministeriale di dichiarazione non è adottato nei termini di
cui all’art. 140, co. 1, allo scadere di detti termini, per
le aree e gli immobili oggetto della proposta di
dichiarazione, cessano gli effetti di cui all’art. 146, co.
1” (cioè i particolari limiti imposti ai proprietari,
possessori o detentori dei beni che “non possono
distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino
pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione”).
Il TAR, in particolare, ha condiviso l’interpretazione
ministeriale (parere 03.11.2009 n. 21909 dell’Ufficio
legislativo del Ministero per i beni e le attività
culturali), secondo cui la proposta di vincolo formulata
dalla competente commissione prima della data di entrata in
vigore del d.lgs. 22.01.2004 n. 42, conserva efficacia anche
in assenza della approvazione mediante l’adozione della
dichiarazione di notevole interesse pubblico, ai sensi e per
gli effetti dell’art. 157, comma 2, del d.lgs. n. 42/2004.
A tale conclusione è pervenuto sulla scorta delle seguenti
considerazioni:
a) alla data di entrata in vigore del Codice di cui al d.lgs.
22.01.2004 n. 42, ha continuato a trovare applicazione la
medesima disciplina prevista dall’art. 2, ultimo comma,
della legge 29.06.1939 n. 1497 (trasfuso nell’art. 140 del
d.lgs. 29.10.1999 n. 490), secondo la quale, relativamente
alle cd. bellezze di insieme, la tutela dei valori
paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere
l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni
soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la
proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati ... e
la durata della misura cautelativa o anticipatoria dura fino
all’approvazione del vincolo, al fine di impedire che il
lasso di tempo necessario per l’approvazione definitiva
degli elenchi possa rendere possibili manomissioni
incontrollate dei beni immobili ricompresi nell’elenco delle
bellezze di insieme e quindi compromettere il paesaggio,
valore tutelato dall’art. 9 Cost.;
b) l’art. 157, co. 2, d.lgs. n. 42/2004 –il quale, nel prevedere
che “le disposizioni della presente parte si applicano
anche agli immobili ed alle aree in ordine ai quali, alla
data di entrata in vigore del presente Codice, sia stata
formulate la proposta ovvero definita la perimetrazione ai
fini della dichiarazione di notevole interesse pubblico o
del riconoscimento quali zone di interesse archeologico”,
non prevede altresì “forme di decadenza del vincolo,
termini perentori per il perfezionamento della procedura o
forme di silenzio”– non ha subito alcuna modificazione
ad opera del d.lgs. 24.03.2006 n. 157 e del d.lgs.
26.03.2008 n. 63; fonti queste ultime che, nel modificare
gli artt. 141, co. 3 e co. 5 del Codice, hanno introdotto
una espressa decadenza per le proposte non approvate dal
Ministro entro il termine di cui all’art. 140, co. 1; da ciò
consegue che le forme di decadenza successivamente
introdotte non sono applicabili alle proposte di vincolo
formulate antecedentemente alla entrata in vigore del
Codice;
c) ogni diversa interpretazione “si pone in contraddizione con
l’interpretazione letterale e sistematica dell’art. 157,
comma 2”, il quale, peraltro, non introduce un “rinvio
mobile, così recependo tutte le successive novelle normative”,
poiché ciò comporterebbe, oltre che un contrasto con “l’originaria
intenzione del legislatore”, anche “la sostanziale
retroattività delle norme sopravvenute ed una violazione
proprio del principio del tempus regit actum”.
La società appellante, nel censurare le statuizione di primo
grado, ha prospettato la tesi per cui il termine di
decadenza, previsto nel caso di procedimenti di vincolo non
conclusi entro il termine previsto dall’art. 140, co. 1,
d.lgs. n. 42/2004, come introdotto in particolare dal d.lgs.
n. 63/2008, si applicherebbe anche a quei procedimenti
avviati prima dell’entrata in vigore del Codice dei beni
culturali, a tale conclusione non ostandovi l’art. 157, co.
2, del Codice che, al contrario la confermerebbe.
II.- La rimessione.
Con l’ordinanza in esame la quarta sezione, dopo aver
disatteso alcune questioni preliminari, ricostruisce i due
orientamenti che si fronteggiano sul tema, richiamando al
riguardo anche le argomentazioni addotte dalla
giurisprudenza dei TAR e della Corte di cassazione in
materia di tutela penale dei beni paesaggistici (favorevole
alla tesi della ultrattività dell’efficacia delle mere
proposte di vincolo).
La quarta sezione ha poi provveduto a prospettare ulteriori
argomenti a sostegno dell’uno come dell’altro orientamento.
Secondo l’orientamento prevalente (Cons.
Stato, VI, 27.07.2015 n. 3663
e
21.03.2005
n. 1121
che si richiamano ai principi espressi da
Corte cost.,
23.07.1997 n. 262;
Cass. pen., sez. III, 12.01.2012 n. 6617; idem
17.02.2010 n. 16476;
TAR Venezia 29.04.2015, n. 473):
d) le proposte di vincolo avanzate prima dell’entrata in vigore del
d.lgs. n. 42/2004, ancorché i relativi procedimenti non si
siano conclusi (nel rispetto dei termini di cui alla Tabella
A, allegata al D.M. 13.06.1994 n. 495), non risentono delle
modifiche introdotte all’art. 141 dal d.lgs. n. 63/2008, di
modo che, per un verso, vi è sempre la possibilità, per
l’amministrazione, di emanare il provvedimento di
dichiarazione; per altro verso, perdurano gli effetti di
tutela “anticipata”, di cui all’art. 146, co. 1 del
Codice.
Tale affermazioni si fonda sul sistema di tutela introdotto
dall’art. 2, ultimo comma, della legge n. 1497/1939 e sulla
affermazione della Corte costituzionale per cui la mancata
adozione del provvedimento di vincolo nel termine di
conclusione del procedimento a tal fine previsto non
comporta nemmeno “il venir meno dell’efficacia
dell’originario vincolo”, quel vincolo cioè che,
applicato in via provvisoria fin dalla pubblicazione della
proposta, diviene definitivo con l’adozione della
dichiarazione di interesse (Corte cost., n. 262 del 1997
cit.);
e) il legislatore del 2008, a fronte dell’introduzione della
perdita di efficacia delle misure di tutela per il mancato
rispetto del termine di adozione del decreto ministeriale,
non ha invece modificato l’art. 157, co. 2, del Codice, né
questo contiene un “rinvio mobile”, di modo che le
forme di decadenza successivamente introdotte (dd.lgs. nn.
157/2006 e 63/2008), non sono applicabili alle proposte
formulate antecedentemente alla data di entrata in vigore
del d.lgs. n. 42/2004;
f) il ritenere applicabile anche alle antecedenti proposte il
sopravvenuto regime decadenziale (recte, di perdita
di efficacia delle misure di tutela) costituirebbe una
applicazione retroattiva delle norme, contrastante anche con
il principio del “tempus regit actum”;
g) la “insensibilità” delle antecedenti proposte al nuovo
regime si giustifica, sul piano logico–sistematico e secondo
una interpretazione costituzionalmente orientata, con
finalità di tutela del paesaggio, in attuazione concreta
dell’art. 9 Cost., posto che, diversamente opinando, si
avrebbe una indiscriminata e generalizzata decadenza di
tutte le proposte di vincolo non ancora approvate presenti
sull’intero territorio nazionale indipendentemente dalla
data della loro formulazione, entro i brevissimi tempi di
decadenza previsti dall’art. 141 del d.lgs. n. 42/2004;
h) la logica sottesa alla scelta di non considerare prive di
effetti le proposte di vincolo a seguito di norme
sostanziali e procedimentali (sopravvenute alla loro
emanazione), che tale decadenza sanciscono, è la stessa che
ha condotto la Corte costituzionale (cfr.
sentenza n.
57 del 2015, in Foro
it., 2015, I, 3063 con nota di TRAVI) e l’Adunanza
plenaria (cfr.
sentenza n.
6 del 2015, in Foro
it., 2015, III, 501, con nota di TRAVI e in
Urbanistica e appalti, 2015, 1303, con nota di MUCIO,
cui si rinvia per ogni approfondimento di dottrina e
giurisprudenza), ad escludere la soluzione esegetica che
estende misure decadenziali a fatti storici anteriori
dovendosi preferire, al contrario, quella che garantisce l’ultrattività
delle norme precedenti in corso di attuazione (nella specie,
come, noto, si trattava del termine decadenziale previsto
dall’art. 30, comma 3, c.p.a. per la proposizione della
domanda risarcitoria);
i) va esclusa qualsiasi forma di indebita ingerenza dello Stato nei
confronti della proprietà privata e della libertà di
iniziativa economica alla stregua dei parametri europei
atteso che la disciplina nazionale volta a tutelare il
paesaggio come valore primario costituzionale (ma
riconosciuto anche a livello internazionale), incide su una
materia che non rientra nelle competenze dell’Unione; essa,
pertanto, non può essere sindacata neppure sotto il profilo
della violazione del principio generale della
proporzionalità (cfr. negli esatti termini
Corte di
giustizia UE, sez. X, 06.03.2014, C-206/13,
Cruciano Siragusa).
Secondo un più recente orientamento, maturato in seno alla
VI sezione del Consiglio di Stato (Cons.
Stato, VI, 16.11.2016 n. 4746;
TAR
Puglia–Bari, III, 08.03.2012, n. 521
e
TAR Venezia,
II, 08.04.2005, n. 1393),
anche per le proposte di vincolo approvate prima
dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 42 del 2004 varrebbe il
regime decadenziale previsto dall’art. 141, qualora non
sopravvenga, nel termine di legge, il provvedimento
ministeriale conclusivo del relativo procedimento.
Ciò in quanto:
j) la tesi dell’ultrattività delle mere proposte di vincolo
presupporrebbe l’esistenza di un genus di proposte
assistite da un regime speciale e rafforzato privo tuttavia
di base normativa; né una tale specialità potrebbe desumersi
dal peculiare pregio paesaggistico dei beni tutelati da tali
peculiari proposte di vincolo poiché una tale caratteristica
sarebbe indimostrata.
La stessa esegesi dell’art. 157, comma 2, escluderebbe, dal
punto di vista del tenore letterale, una tale
differenziazione nel regime giuridico delle proposte di
vincolo poiché quando afferma che “conservano efficacia a
tutti gli effetti” una serie di atti (dichiarazioni,
elenchi, provvedimenti) fa riferimento ad atti formali e
definitivi, non dunque a semplici loro proposte. Nessuna
rilevanza potrebbe poi riconoscersi al profilo dell’impatto
organizzativo della opposta tesi, in ordine alla perdita di
efficacia di un numero considerevole di proposte di vincolo
per intervenuta decadenza;
k) il quadro normativo operante è stato profondamente modificato
con gli interventi di cui ai decreti legislativi nn.
157/2006 e 63/2008, di modo che oggi la cessazione di
efficacia del vincolo provvisorio per mancato rispetto del
termine di conclusione del procedimento (a differenza di
quanto previsto dal quadro normativo vigente all’epoca della
sentenza n. 262/1997 della Corte costituzionale),
costituisce la “regola”, a fronte della quale sempre
meno si giustifica, con il passare del tempo, una “eccezione”
relativa a proposte di vincolo formulate in epoca anteriore
al 2004;
l) all’estensione della nuova disciplina anche alle mere proposte
di vincolo non osterebbe la mancata modifica dell’art. 157,
comma 2, d.lgs. n. 42/2004 sia in quanto appare dubbio
sostenere la violazione del principio di irretroattività
della legge nel caso di procedimenti non ancora conclusi, e
dunque in assenza di situazioni e/o rapporti giuridici
consolidati; sia in quanto tra due possibili interpretazioni
della norma, ed in assenza di specifiche indicazioni del
legislatore, appare preferibile una interpretazione che
tenda ad “uniformare” il sistema, in luogo di una
interpretazione che produca differenti applicazioni dei
poteri amministrativi (e dei loro effetti) e, dunque,
possibili disparità di trattamento.
III.- Per completezza si segnala:
m) circa l’interpretazione dell'articolo 2, ultimo comma, della
legge 29.06.1939, n. 1497 (trasfuso nell’articolo 140 del
D.lgs. 29.10.1999, n. 490) secondo il quale, relativamente
alle c.d. bellezze di insieme, la tutela dei valori
paesaggistici (che si sostanzia nella necessità di ottenere
l’autorizzazione paesaggistica per poter modificare i beni
soggetti a tutela) si esplica fin dal momento in cui la
proposta è pubblicata nell’albo dei Comuni interessati e la
durata della misura cautelativa o anticipatoria si protrae
sino all’approvazione del vincolo- al fine di impedire che
il lasso di tempo necessario per l'approvazione definitiva
degli elenchi possa rendere possibili manomissioni
incontrollate dei beni immobili ricompresi nell'elenco delle
bellezze d'insieme e quindi compromettere il paesaggio,
valore tutelato dall'art. 9 Cost. -
Cons. Stato, Ad. plen., 06.05.1976, n. 3; Sez. IV,
19.12.1986, n. 913; idem 12.03.1987, n. 714; idem
25.01.1990, n. 139;
Sez. VI, 21.03.2005, n. 1121;
Sez. V, 11.10.2005, n. 5484;
Tar Lazio, Sez. II, 21.02.2005 n. 1427;
n) sul riparto di competenze Stato - Regioni in relazione alla
titolarità ed all’ esercizio dei poteri di tutela, controllo
e gestione dei beni culturali e paesaggistici,
Cons. Stato, Ad. plen., 14.12.2001, n. 9, in Foro
it., 2003, III 382, con nota di L. GILI;
o) sulla importanza del paesaggio in sede di pianificazione del
territorio,
Corte cost., 24.07.2013, n. 238;
18.07.2013, n. 211 e
24.07.2012, n. 207, in Foro it., 2013, I, 3025,
con nota di ROMBOLI, cui si rinvia per ogni approfondimento
di dottrina e giurisprudenza;
p) sul carattere “trasversale” della materia della tutela e
valorizzazione dei beni culturali,
Corte cost., 17.07.2013, n. 194, in Foro it.,
2013, I, 2733
(Consiglio di Stato, Sez. IV,
ordinanza 12.06.2017 n. 2838
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI:
I portatori di un interesse specifico hanno
diritto di accesso agli atti amministrativi per la tutela di
situazioni giuridicamente rilevanti, intendendo, per tali,
le situazioni giuridiche soggettive che presentino un
collegamento diretto ed attuale con gli atti cui la
richiesta si riferisce.
---------------
Nelle gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello
della necessaria sussistenza di un interesse differenziato,
concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente
collegamento con la tutela giurisdizionale di una
determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il
diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla
documentazione privata d'interesse amministrativo,
soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato
con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere
prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata
situazione in sede giurisdizionale.
Inoltre: “E' da escludere che la titolarità del diritto
d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale
all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e
suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la
richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale
forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera
attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse
anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in
via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri
termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante»,
che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a
quella di «interesse all'impugnazione»”.
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel
senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la
documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in
senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere
considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento
di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato".
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma
1, lett. b), l. 07.08.1990 n. 241 e successive
modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai
documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al
fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi
dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata
alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico
o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività
stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione
di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente;
nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della
funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento
per l'esercizio della potestà di amministrazione”
---------------
In sede di accesso agli atti non è dato pretendere che
l’istante indichi specifici dati (quali il numero di
protocollo e la data di formazione di un atto) di atti e
documenti non in suo possesso.
“L'esigenza di una puntuale indicazione degli estremi degli
atti oggetto della domanda di accesso deve intendersi in
modo flessibile e non formalistico, non occorrendo dunque
l'indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo
emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto),
ma potendosi ritenere l'onere assolto con l'indicazione
dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, sì da
mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la
portata ed il contenuto della domanda”.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato nei seguenti
limiti, sussistendo il concreto interesse della ricorrente
al riconoscimento in suo favore del diritto di accesso a
tutti gli atti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui
all’oggetto, con particolare riferimento a quelli posti a
fondamento della delibera di CME con cui è stata decisa la
revoca dell’assegnazione ad -OMISSIS- della medesima
esecuzione dei lavori.
Ed invero, il contratto di appalto è stato stipulato dal
consorzio CME nell’interesse e per conto della deducente
consorziata designata, che è stata la materiale esecutrice
dei lavori sino alla sua estromissione.
Sussiste dunque la legittimazione di -OMISSIS- all’accesso a
tutti i documenti concernenti l’esecuzione dei lavori di cui
all’oggetto, con particolare riferimento a quelli prodromici
alla revoca dei lavori di esecuzione dell’appalto.
E’ stato, in proposito, costantemente affermato dalla
giurisprudenza amministrativa che i portatori di un
interesse specifico hanno diritto di accesso agli atti
amministrativi per la tutela di situazioni giuridicamente
rilevanti, intendendo, per tali, le situazioni giuridiche
soggettive che presentino un collegamento diretto ed attuale
con gli atti cui la richiesta si riferisce.
Il collegio richiama, sul punto, il costante orientamento
della giurisprudenza amministrativa in base al quale: “nelle
gare pubbliche il diritto di accesso agli atti delle
procedure di affidamento e di esecuzione dei contratti
pubblici è sottoposto ad un limite generale che è quello
della necessaria sussistenza di un interesse differenziato,
concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente
collegamento con la tutela giurisdizionale di una
determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il
diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla
documentazione privata d'interesse amministrativo,
soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato
con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere
prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata
situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 27.04.2015, n. 2096).
Inoltre: “E' da escludere che la titolarità del diritto
d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale
all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e
suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la
richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale
forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera
attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse
anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in
via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri
termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante»,
che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a
quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato,
sez. V, 17.03.2015, n. 1370).
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel
senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la
documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in
senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere
considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento
di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato”
(Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 714).
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22,
comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive
modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai
documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al
fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi
dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata
alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico
o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività
stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione
di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente;
nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della
funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento
per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons.
Stato, sez. III, 22.12.2014, n. 6352).
Ne consegue, dunque, la possibilità dell’ostensione da parte
della ricorrente anche di atti di natura privatistica,
purché connessi all’esercizio della potestà autoritativa
dell’amministrazione.
La legittimazione di -OMISSIS- all’accesso ai documenti
richiesti si appalesa nel caso di specie in maniera ancor
più evidente, posto che il consorzio CME ha disposto la
revoca dell’assegnazione dell’appalto sulla base di presunti
inadempimenti connessi con l’esecuzione del medesimo,
cosicché è interesse della deducente prendere visione ed
estrarre copia di tutti i documenti inerenti l’esecuzione
dei lavori al fine di dimostrare, in sede giudiziale, la
correttezza del proprio operato.
Riguardo all’asserzione avversaria secondo la quale il
contenuto dell’istanza di -OMISSIS- non consentirebbe di
individuare l’oggetto della stessa, gli atti di cui è stato
richiesto l’accesso sono precisamente individuabili in
relazione allo specifico appalto cui si riferiscono,
espressamente indicato nella pertinente istanza («Intervento
di ristrutturazione edilizia (OP 1.03 e OP 1.07) di cui al
contratto d’appalto stipulato con l’Azienda Lombarda
Edilizia Residenziale Milano (ALER MILANO), REP. 80/2008 –
Q.re Molise/Calvairate – Lotto C – Fabbr. 8 – Via Tomei n. 2
e Piazza Insubria 1. Finanziamento “Contratti di Quartiere
II” D.G.R. VII/13861 del 29/07/2003 – D.G.R. VII/14845 del
31/10/2003 CUP: I46I05000050007 – CIG. 02952331F»).
Inoltre, per insegnamento giurisprudenziale consolidato, in
sede di accesso agli atti non è dato pretendere che
l’istante indichi specifici dati (quali il numero di
protocollo e la data di formazione di un atto) di atti e
documenti non in suo possesso.
“L'esigenza di una puntuale indicazione degli estremi
degli atti oggetto della domanda di accesso deve intendersi
in modo flessibile e non formalistico, non occorrendo dunque
l'indicazione di tutti gli estremi identificativi (organo
emanante, numero di protocollo, data di adozione dell'atto),
ma potendosi ritenere l'onere assolto con l'indicazione
dell'oggetto e dello scopo cui l'atto è indirizzato, sì da
mettere l'Amministrazione in condizione di comprendere la
portata ed il contenuto della domanda” (cfr. Cons.
Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 28; TAR Lazio, Roma, sez. III.,
17.01.2012, n. 487).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
accolto e, per l’effetto, va annullato il provvedimento
impugnato e va disposta la condanna dell’Amministrazione al
riconoscimento in favore della società ricorrente del
diritto di accesso a tutti gli atti concernenti l’esecuzione
dei lavori di cui all’oggetto, con particolare riferimento a
quelli posti a fondamento della delibera di CME con cui è
stata decisa la revoca dell’assegnazione ad -OMISSIS- della
medesima esecuzione dei lavori
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 12.06.2017 n. 1311 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Non
è configurabile in forma omissiva il reato di cui all'art.
256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei confronti
del proprietario di un terreno sul quale terzi abbiano
abbandonato o depositato rifiuti in modo incontrollato,
anche nel caso in cui non si attivi per la rimozione dei
rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste solo in
presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti.
Nella fattispecie, il rapporto di coniugio non attribuisce
il dovere di impedire che il coniuge reati e certamente non
costituisce il coniuge custode o responsabile delle azioni
dell'altro. Sicché tale rapporto non espande gli obblighi
che (non) gravano sul proprietario dell'area.
---------------
1.1 coniugi Gi.An. e Vi.Pa. ricorrono per l'annullamento
della sentenza del 18/12/2015 del Tribunale di Brindisi che
li ha condannati alla pena, condizionalmente sospesa, di
2.100,00 euro di ammenda per il reato di cui agli artt. 110,
cod. pen., 256, commi 1 e 2, d.lgs. n. 152 del 2006, loro
ascritto per aver, senza autorizzazione, raccolto, smaltito
e stoccato rifiuti speciali non pericolosi, costituiti da
pezzi di fili elettrici, terra e roccia da scavo, rifiuti
legnosi, rifiuti ferrosi, plastica e gomma. Il fatto è
contestato come accertato in Ceglie Messapica il 19/02/2014.
1.1. Con il primo motivo, deducendo che il (solo)
An., titolare di impresa esercente attività edile, aveva
momentaneamente depositato alcuni materiali ed attrezzature
della propria ditta e che i cumuli di pietre erano
null'altro che il prodotto di lavori agricoli di
spietramento del terreno (circostanze oggetto della
testimonianza resa dal figlio Ma., del tutto negletta),
eccepiscono l'inosservanza e l'erronea applicazione degli
artt. 192, cod. proc. pen., e 256, d.lgs. n. 152 del 2006
nonché vizio di motivazione contraddittoria ed illogica in
ordine alla definizione di rifiuto dei beni sopra indicati e
omessa valutazione di elementi di prova favorevoli
all'imputato.
1.2. Con il secondo motivo eccepiscono, con
riferimento alla posizione della Pa., la violazione del
principio di colpevolezza e di responsabilità personale
essendo la condanna basata sul presupposto della
comproprietà del fondo e della 'culpa in vigilando'.
...
5. E' invece fondato il secondo motivo.
5.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte,
non è configurabile in forma omissiva il reato di cui
all'art. 256, comma secondo, d.lgs. n. 152 del 2006, nei
confronti del proprietario di un terreno sul quale terzi
abbiano abbandonato o depositato rifiuti in modo
incontrollato, anche nel caso in cui non si attivi per la
rimozione dei rifiuti, poiché tale responsabilità sussiste
solo in presenza di un obbligo giuridico di impedire la
realizzazione o il mantenimento dell'evento lesivo, che il
proprietario può assumere solo ove compia atti di gestione o
movimentazione dei rifiuti (Sez. 3, n. 50997 del 07/10/2015,
Cucinella, Rv. 266030; Sez. 3, n. 40528 del 10/06/2014,
Cantoni, Rv. 260754; Sez. 3, n. 49327 del 12/11/2013, Merlet,
Rv. 257294).
5.2. Il rapporto di coniugio non attribuisce il dovere di
impedire che il coniuge reati e certamente non costituisce
il coniuge custode o responsabile delle azioni dell'altro.
Sicché tale rapporto non espande gli obblighi che (non)
gravano sul proprietario dell'area.
5.3. Ne consegue che, essendo queste le uniche ragioni della
condanna della Pa., nei suoi confronti la sentenza impugnata
deve essere annullata senza rinvio per non aver commesso il
fatto
(Corte di cassazione, Sez. III penale,
sentenza 09.06.2017 n. 28704). |
EDILIZIA PRIVATA: La
disposizione di cui all'art. 9, secondo comma, del DM del
02.04.1968, n. 1444 (nella parte in cui prevede che gli
edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad una
distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci metri
dalle pareti finestrate) deve applicarsi anche nell’ipotesi
in cui si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò,
considerando sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso
contenute nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in
considerazione del fatto che anche detto manufatto è
suscettibile di integrare la nozione di “fabbricato” e
“costruzione” di cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del
codice civile.
Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del computo
della distanza di dieci metri “non sono computabili ai fini
delle distanze tra edifici solamente:
- gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti alle
caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare);
- le parti che hanno funzione ornamentale e decorativa (es. le
mensole, le lesene, i risalti verticali);
- le canalizzazioni di gronde e i loro sostegni;
- gli aggetti, gli elementi di ridotte dimensioni e gli altri
manufatti di minima entità. Non possono invece essere
esclusi dal computo delle distanze le pensiline, i balconi e
tutte quelle sporgenze (anche dei generi ora indicati), che
le particolari dimensioni sono destinate anche ad estendere
ed ampliare la parte concretamente utilizzabile per l'uso
abitativo dell'edificio”.
E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata dall'art. 9
D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle pareti
finestrate è volta alla salvaguardia delle imprescindibili
esigenze igienico sanitarie, al fine di evitare malsane
intercapedini tra edifici tali da compromettere i profili di
salubrità degli stessi, quanto ad areazione, luminosità ed
altro.
---------------
Deve ritenersi non condivisibile la tesi
dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di
specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte
in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla
distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di
servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice
civile.
Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca
orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM
1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica.
---------------
1. Il ricorso va accolto, risultando fondati sia il primo
che il secondo motivo.
1.1 In primo luogo è necessario premettere che costituisce
circostanza incontestata che il manufatto è posizionato ad
una distanza inferiore ai tre metri rispetto al muro
perimetrale della villetta, così come risulta ad una
distanza inferiore ai dieci metri rispetto alla parete
finestrata del fabbricato sul fondo confinante di proprietà
del Sig. Lo.Ju..
1.2 Ciò premesso è evidente che l’autorizzazione edilizia
diretta a permettere la realizzazione del ripostiglio è
stata adottata in violazione dell’art. 9, secondo comma, del
DM del 02.04.1968, n. 1444, nella parte in cui prevede che
gli edifici di nuova realizzazione siano comunque ubicati ad
una distanza minima, assoluta ed inderogabile, di dieci
metri dalle pareti finestrate.
1.3 Detta distanza deve applicarsi anche nell’ipotesi in cui
si intenda realizzare un ripostiglio e, ciò, considerando
sia, l’inesistenza di eccezioni in questo senso contenute
nell’art. 9 sopra citato sia, ancora, in considerazione del
fatto che anche detto manufatto è suscettibile di integrare
la nozione di “fabbricato” e “costruzione” di
cui allo stesso art. 9 e all’art. 873 del codice civile.
1.4 Precedenti pronunce hanno affermato che ai fini del
computo della distanza di dieci metri “non sono
computabili ai fini delle distanze tra edifici solamente: -
gli sporti (cioè le sporgenze che non sono non attinenti
alle caratteristiche del corpo di fabbrica che racchiude il
volume che si vuol distanziare); - le parti che hanno
funzione ornamentale e decorativa (es. le mensole, le
lesene, i risalti verticali); - le canalizzazioni di gronde
e i loro sostegni; - gli aggetti, gli elementi di ridotte
dimensioni e gli altri manufatti di minima entità. Non
possono invece essere esclusi dal computo delle distanze le
pensiline, i balconi e tutte quelle sporgenze (anche dei
generi ora indicati), che le particolari dimensioni sono
destinate anche ad estendere ed ampliare la parte
concretamente utilizzabile per l'uso abitativo dell'edificio
(Cons. Stato Sez. IV, 21.10.2013, n. 5108, Cons. Stato Sez.
V, 13.03.2014, n. 1272 Cass. civ. Sez. II, 24.11.1995, n.
12163)”.
1.5 E’ noto, infatti, che la distanza minima fissata
dall'art. 9 D.M. 02.04.1968 n. 1444 di dieci metri dalle
pareti finestrate è volta alla salvaguardia delle
imprescindibili esigenze igienico sanitarie, al fine di
evitare malsane intercapedini tra edifici tali da
compromettere i profili di salubrità degli stessi, quanto ad
areazione, luminosità ed altro.
1.6 Deve ritenersi non condivisibile la tesi
dell’Amministrazione comunale secondo la quale, al caso di
specie, dovrebbe applicarsi l’art. 34 delle NTA, nella parte
in cui detta disposizione consentirebbe di derogare alla
distanza dei dieci metri, legittimando costruzioni “di
servizio”, nei limiti delle distanze di cui al codice
civile.
1.7 Sul punto è sufficiente evidenziare come costituisca
orientamento consolidato che le disposizioni di cui al DM
1444/1968 prevalgono sulle contrastanti previsioni dei
regolamenti locali, ai quali si sostituiscono per inserzione
automatica (per tutti si veda TAR Emilia Romagna-Bologna
Sez. I, 08.07.2016, n. 693, Cons. Stato Sez. IV, 29.02.2016,
n. 856 Cons. Stato Sez. IV, 02.11.2010, n. 7731 e Cass. civ.
Sez. Unite, 07.07.2011, n. 14953).
1.8 L’autorizzazione di cui si tratta è stata adottata anche
in violazione dell’art. 873 del codice civile nella parte in
cui prevede che le costruzioni tra fondi finitimi devono
essere tenute ad una distanza non inferiore a tre metri,
disposizione quest’ultima suscettibile di essere derogata
solo prevedendo una distanza superiore.
2. In conclusione il ricorso è fondato e va accolto, con
conseguente annullamento dell’autorizzazione edilizia n. 98
del 04.04.2002
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2017 n. 785
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Il
comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi
per gruppi di edifici che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di
“previsioni planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel
disciplinare la realizzazione ex novo o la sistemazione
integrale di un insieme di edifici un piano di natura
esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e
accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi
igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10
metri.
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che
il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale
“da definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario”.
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche la
lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella parte
in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza possa
derivare solo da uno strumenti pianificatorio che contenga
“previsioni planovolumetriche”, ossia previsioni progettuali
che evidenzino congiuntamente la planimetria ed il volume
dei fabbricati presi in considerazione attraverso la
proiezione in mappa delle relative ombre; posto che solo in
tal modo risulta possibile operare una verifica concreta sul
fatto se un distacco inferiore a quello standard di 10 m.
possa nuocere alle esigenze di salubrità ed areazione degli
edifici frontistanti.
---------------
E’ fondata la
prospettazione difensiva delle parti intimate che fa leva
sulla non applicabilità degli obblighi di distanza prevista
dall’art. 879 c.c. per le costruzioni al confine con vie e
con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si
riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non
semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la
stessa non trova applicazione all’obbligo di distanza fra
pareti finestrate previsto dall’art. 9 del D.M. 1444 del
1968 in quanto tale obbligo non attiene solo ad una
dimensione intersoggettiva di regolamentazione dei rapporti
fra proprietà finitime ma è posto a presidio del preminente
interesse pubblico ad un ordinato sviluppo urbanistico
intorno alla strade ed alle piazze, ordinato sviluppo che
trova la sua disciplina esclusivamente nelle leggi e
regolamenti urbanistico-edilizi fra cui il citato D.M..
---------------
Nel merito sia il comune di Grosseto che la
controinteressata osservano:
1) che l’impugnata variante avrebbe la consistenza di piano
particolareggiato dotato di previsioni planivolumetriche per
ciascun isolato e, come tale, ben avrebbe potuto contenere
previsioni derogatorie rispetto all’obbligo di distanza di
10 metri fra pareti finestrate in forza della previsione di
cui alla seconda parte del comma 1 dell’art. 9 del D.M. 1444
del 1968.
2) che essendo l’edificio oggetto dell’impugnato permesso
confinante con un passaggio pubblico previsto dalla variante
esso non era tenuto al rispetto delle distanze legali in
forza della previsione di cui all’art. 879 c.c.
Entrambe le deduzioni difensive sono prive di fondamento.
Il comma 2 dell’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 ammette
distanze inferiori a quelle indicate nei precedenti commi
per gruppi di edifici che siano oggetto di piani
particolareggiati o lottizzazioni convenzionate dotati di “previsioni
planovolumetriche”.
La previsione derogatoria si fonda sul presupposto che nel
disciplinare la realizzazione ex novo o la
sistemazione integrale di un insieme di edifici un piano di
natura esecutiva possa adottare soluzioni progettuali e
accorgimenti tecnici in grado di evitare problemi
igienico-sanitari anche con una distanza inferiore a 10
metri (TAR Brescia 730/2011).
Affinché la deroga possa operare è, quindi, necessario che
il piano attuativo giunga ad un livello di dettaglio tale “da
definire i rapporti spazio-dimensionali e architettonici
delle varie costruzioni considerate come fossero un edificio
unitario” (Corte Cost. 24/02/2017 n. 41).
A tale risultato conduce non solo la ratio ma anche
la lettera del comma 2 dell’art. 9 del citato D.M. nella
parte in cui richiede che la deroga all’obbligo di distanza
possa derivare solo da uno strumenti pianificatorio che
contenga “previsioni planovolumetriche”, ossia
previsioni progettuali che evidenzino congiuntamente la
planimetria ed il volume dei fabbricati presi in
considerazione attraverso la proiezione in mappa delle
relative ombre; posto che solo in tal modo risulta possibile
operare una verifica concreta sul fatto se un distacco
inferiore a quello standard di 10 m. possa nuocere alle
esigenze di salubrità ed areazione degli edifici
frontistanti.
Nel caso di specie la tavole della variante riferite alla
zona omogenea B2 (isolato 29, lotto 3 nel quale sono
compresi gli edifici di cui al ricorso – doc. 6 del
fascicolo dell’amministrazione) contengono una
rappresentazione “solo in pianta” dei fabbricati
esistenti al momento della loro redazione e l’indicazione
astratta dei volumi realizzabili in ampliamento, la cui
collocazione, tuttavia, non è graficamente sviluppata
attraverso una rappresentazione planovolumetrica.
Non risulta, quindi, raggiunto il livello di dettaglio
progettuale previsto dal comma 2 dell’art. 9 del D.M. 1444
del 1968 ai fini della derogabilità degli obblighi di
distanza previsti dai commi precedenti.
E’ altresì fondata la prospettazione difensiva delle parti
intimate che fa leva sulla non applicabilità degli obblighi
di distanza prevista dall’art. 879 c.c. per le costruzioni
al confine con vie e con piazze.
Anche a voler tacere del fatto che la citata disposizione si
riferisce a costruzioni da realizzare su vie esistenti e non
semplicemente programmate dagli strumenti urbanistici, la
stessa, secondo un costante orientamenti giurisprudenziale
che il Collegio condivide, non trova applicazione
all’obbligo di distanza fra pareti finestrate previsto
dall’art. 9 del D.M. 1444 del 1968 in quanto tale obbligo
non attiene solo ad una dimensione intersoggettiva di
regolamentazione dei rapporti fra proprietà finitime ma è
posto a presidio del preminente interesse pubblico ad un
ordinato sviluppo urbanistico intorno alla strade ed alle
piazze, ordinato sviluppo che trova la sua disciplina
esclusivamente nelle leggi e regolamenti urbanistico-edilizi
fra cui il citato D.M. (TAR Palermo, sez. III, 17/10/2012,
n. 2049; TAR Genova (Liguria) sez. I 20.07.2011 n. 1148; TAR
Brescia, sez. I 03.07.2008 n. 788).
Alla luce di quanto sopra specificato occorre quindi
concludere nel senso che la impugnata variante del comparto
C.1 di Marina di Grosseto è illegittima in parte qua
(con specifico riferimento ai lotti in cui insistono le
proprietà dei ricorrenti e della controinteressata) nel
punto in cui consente la realizzazione di interventi di
ricostruzione con maggiore volumetria ad una distanza
inferiore a quella prevista dall’art. 9 del D.M. 1444 del
1968, posto che tale tipologia di interventi, essendo
inquadrabile nella categoria della nuova costruzione, deve
rispettare gli obblighi di distanza legale (Cass. 20/08/2015
n. 17043).
Parimenti illegittimo (per derivazione) deve ritenersi
l’impugnato permesso di costruire rilasciato in sua
attuazione.
Il ricorso deve, quindi, essere accolto in relazione alla
domanda di annullamento dei predetti atti, mentre è
inammissibile con riferimento alla domanda di condanna della
controinteressata alla demolizione del manufatti
illegittimamente autorizzato posto che la stessa esula dalla
giurisdizione esclusiva del g.a. in materia di atti e
comportamenti della p.a. afferenti il governo del territorio
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 08.06.2017 n. 776 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Sulla possibilità, o meno, di accede ad un parere legale del
comune cui è succeduto il preavviso di diniego del richiesto
permesso di costruire.
Le ragioni poste alla base del diniego
di accesso al parere legale, fondate sulla sua natura di
“documento interno riservato, prodromico anche ad una
eventuale difesa in giudizio”, per quanto stringate,
risultano puntuali e satisfattive.
Difatti, va dapprima sottolineato come il predetto parere
legale non sia stato affatto richiamato esplicitamente nel
provvedimento adottato dall’Amministrazione, comunque dotato
di una specifica ed esaustiva motivazione, che ha posto in
grado la ricorrente di percepire le ragioni del diniego
tanto da indurla a ritirare la richiesta originaria; da ciò
si deduce, quantomeno in via presuntiva, l’intenzione degli
Uffici comunali di tenere riservato il parere legale e non
utilizzarlo per rafforzare l’apparato motivazionale posto
alla base del preavviso di diniego del permesso di
costruire. L’assenza negli atti del procedimento di un
diretto riferimento al parere rende molto dubbia la sua
natura di atto endoprocedimentale e quindi la sua valenza
istruttoria.
Inoltre, nell’impugnato diniego si specifica che il parere
risulta essere un documento interno riservato, finalizzato
anche ad una eventuale difesa in giudizio del Comune, con
ciò chiarendosi le effettive intenzioni che hanno indotto
l’Amministrazione all’acquisizione del predetto parere.
Del resto, il principio della riservatezza della consulenza
legale, che dovrebbe garantire all’Amministrazione la
possibilità di predisporre la propria strategia difensiva,
in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto,
può considerarsi quanto meno potenziale, si pone non come
eccezione alla regola dell’accesso, e dunque, di stretta
interpretazione, bensì come disciplina rispondente ai valori
sottesi all’art. 24 Cost., in modo da evitare che l’accesso
sia adoperato in modo strumentale e tale da offrire indebiti
vantaggi ad una delle parti in giudizio.
Quindi il parere legale deve essere osteso soltanto laddove
abbia con certezza una funzione endoprocedimentale e
istruttoria, perché correlato ad un procedimento
amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso
collegato, mentre se lo stesso è reso allo scopo di definire
una strategia difensiva, anche in vista di una lite
potenziale, ben può essere ritenuto inaccessibile
dall’Amministrazione.
---------------
2. Passando all’esame del merito del ricorso, lo stesso è
infondato.
3. Con le due censure di ricorso, da trattare congiuntamente
in quanto strettamente connesse, si assume l’illegittimità
del diniego comunale in ragione della ampiezza del diritto
di accesso e della necessaria interpretazione restrittiva
dei casi di sua esclusione, unitamente alla circostanza che
il richiesto parere legale sarebbe stato riversato nel
procedimento amministrativo e, senza alcuna effettiva
motivazione, sarebbe stato sottratto all’accesso.
3.1. Le doglianze sono complessivamente infondate.
Appare opportuno premettere che non risultano affatto
dimostrate –se non in modo apodittico e generico– la
concretezza e l’attualità dell’interesse all’accesso, visto
che il procedimento cui si riferisce il parere legale si è
concluso per scelta autonoma della stessa ricorrente
attraverso la rinuncia, dopo la comunicazione del preavviso
di rigetto trasmessa dal Comune, all’originario intervento
edilizio, per il quale era stato richiesto un permesso di
costruire; la successiva presentazione di una s.c.i.a. per
la realizzazione di un intervento avente differenti
caratteristiche quali-quantitative non appare idonea a
riattivare il pregresso e oramai concluso procedimento
edilizio avviato con la richiesta di permesso di costruire,
considerata l’alternatività tra gli stessi.
3.2. In ogni caso, le ragioni poste alla base del diniego di
accesso al parere legale, fondate sulla sua natura di “documento
interno riservato, prodromico anche ad una eventuale difesa
in giudizio”, per quanto stringate, risultano puntuali e
satisfattive, anche alla luce delle peculiarità del caso di
specie.
Difatti, va dapprima sottolineato come il predetto parere
legale non sia stato affatto richiamato esplicitamente nel
provvedimento adottato dall’Amministrazione, comunque dotato
di una specifica ed esaustiva motivazione, che ha posto in
grado la ricorrente di percepire le ragioni del diniego
tanto da indurla a ritirare la richiesta originaria (cfr.
all. 2 al ricorso); da ciò si deduce, quantomeno in via
presuntiva, l’intenzione degli Uffici comunali di tenere
riservato il parere legale e non utilizzarlo per rafforzare
l’apparato motivazionale posto alla base del preavviso di
diniego del permesso di costruire. L’assenza negli atti del
procedimento di un diretto riferimento al parere rende molto
dubbia la sua natura di atto endoprocedimentale e quindi la
sua valenza istruttoria (sull’accessibilità dei soli pareri
posti alla base del provvedimento finale, laddove
costituiscano parte integrante della motivazione: Consiglio
di Stato, V, 23.06.2011, n. 3812; TAR Lombardia, Milano, II,
18.11.2011, n. 2788).
Inoltre, nell’impugnato diniego si specifica che il parere
risulta essere un documento interno riservato, finalizzato
anche ad una eventuale difesa in giudizio del Comune, con
ciò chiarendosi le effettive intenzioni che hanno indotto
l’Amministrazione all’acquisizione del predetto parere.
Del resto, il principio della riservatezza della consulenza
legale, che dovrebbe garantire all’Amministrazione la
possibilità di predisporre la propria strategia difensiva,
in ordine ad un lite che, pur non essendo ancora in atto,
può considerarsi quanto meno potenziale, si pone non come
eccezione alla regola dell’accesso, e dunque, di stretta
interpretazione, bensì come disciplina rispondente ai valori
sottesi all’art. 24 Cost., in modo da evitare che l’accesso
sia adoperato in modo strumentale e tale da offrire indebiti
vantaggi ad una delle parti in giudizio (cfr. Consiglio di
Stato, IV, 18.10.2016, n. 4338).
Quindi il parere legale deve essere osteso soltanto laddove
abbia con certezza una funzione endoprocedimentale e
istruttoria, perché correlato ad un procedimento
amministrativo che si conclude con un provvedimento ad esso
collegato, mentre se lo stesso è reso allo scopo di definire
una strategia difensiva, anche in vista di una lite
potenziale, ben può essere ritenuto inaccessibile
dall’Amministrazione (cfr. Consiglio di Stato, IV,
18.10.2016, n. 4338).
Nella fattispecie di cui al presente contenzioso, pertanto,
appare giustificato il diniego di accesso al parere legale
opposto dal Comune alla società ricorrente.
3.3. Di conseguenza, le suesposte censure non sono
meritevoli di accoglimento.
4. In conclusione, il ricorso deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 07.06.2017 n. 1293 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: In
sede di esame della istanza di accertamento di conformità
proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico n. 380 del
2001, il Comune deve effettuare non solo gli accertamenti
espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma anche quelli
–logicamente antecedenti e giuridicamente
rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo
testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in
materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico,
per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al
permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare
nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a
qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo
unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento
di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n.
10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza, in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso
la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a
verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con
il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini
su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve
effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla
sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla
giurisdizione ordinaria».
---------------
7.1. Contrariamente a quanto è stato dedotto dalle
interessate, in sede di esame della istanza di accertamento
di conformità proposta ai sensi dell’art. 36 del testo unico
n. 380 del 2001, il Comune deve effettuare non solo gli
accertamenti espressamente previsti dal medesimo art. 36, ma
anche quelli –logicamente antecedenti e giuridicamente
rilevanti– previsti dagli articoli 11 e 12 del medesimo
testo unico.
Tra le disposizioni applicabili in tema di istanze in
materia edilizia, vi è l’art. 11, comma 1, del testo unico,
per il quale «il permesso di costruire è rilasciato al
permesso di costruire o a chi abbia titolo per richiederlo».
Tale regola riguarda non solo le istanze volte a realizzare
nuovi edifici, ma anche quelle volte alla sanatoria, a
qualsiasi titolo, di un immobile realizzato sine titulo.
L’interpretazione estensiva dell’art. 11, comma 1, del testo
unico si giustifica per la natura stessa dell’accertamento
di conformità (ovvero del condono straordinario).
La sua ratio corrisponde a quella dell’art. 4 della legge n.
10 del 1977.
Come rilevato dalla pacifica giurisprudenza (Cons. Stato,
Sez. IV, 25.11.2008, n. 5811; Sez. V, 11.03.2001,
n. 1507), in sede di rilascio del titolo edilizio (sia esso
la concessione, ovvero il permesso), «il Comune è tenuto a
verificare la legittimazione soggettiva del richiedente, con
il solo limite di non poter procedere d’ufficio ad indagini
su profili che non appaiono controversi»: il Comune non deve
effettuare un «definitivo accertamento di eventualmente confliggenti posizioni di diritto soggettivo, demandato alla
sede naturale della risoluzione di tali conflitti, cioè alla
giurisdizione ordinaria».
Pertanto, il Comune non poteva che attribuire rilevanza alla
opposizione del signor Fu., che nel corso del procedimento
ha fornito una documentazione tale da far ritenere
ragionevole la sussistenza della sua legittimazione ad
opporsi anche all’accertamento di conformità.
Poiché il provvedimento impugnato non doveva risolvere il
conflitto venutosi a verificare tra le ricorrenti ed il
signor Fu., ma doveva unicamente prendere atto della
opposizione di quest’ultimo, adeguatamente motivata, il
contestato diniego risulta adeguatamente istruito e motivato
(e non si può nella presente sede giurisdizionale effettuare
l’indagine sulla effettiva titolarità del bene, dovendosi
unicamente verificare se l’atto impugnato sia legittimo)
(TAR Calabria-Reggio Calabria,
sentenza 05.06.2017 n. 521 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Ostensione dell’offerta nella parte in cui contiene
informazioni che costituiscano segreti tecnici o
commerciali.
---------------
•
Accesso ai documenti – Contratti della Pubblica
amministrazione – Esclusione relativa – Art. 53, comma 5,
lett. a, d.lgs. n. 50 del 2016 - Informazioni che
costituiscano segreti tecnici o commerciali – Condizione.
•
Accesso ai
documenti – Contratti della Pubblica amministrazione –
Esclusione relativa – Art. 53, comma 5, lett. a, d.lgs. n.
50 del 2016 – Limiti – Prevalenza della difesa in giudizio –
Decorso del termine per impugnare l’aggiudicazione –
Irrilevanza ex se.
•
L’art. 53, comma 5, lett. a), d.lgs. 18.04.2016,
n. 50 –che disciplina i casi di esclusione “relativa”
all’accesso ai documenti di gara– non fa riferimento
all’offerta nel suo complesso, che in linea di principio è
accessibile, ma soltanto alla parte di essa che contiene
informazioni che costituiscano segreti tecnici o
commerciali, parti che devono essere indicate, motivate e
comprovate da una espressa dichiarazione dell’offerente,
contenuta nell’offerta stessa (1).
•
Il divieto di accesso ai documenti di gara,
previsto dalla lett. a) del comma 5 dell’art. 53, d.lgs.
18.04.2016, n. 50, non è assoluto, essendo infatti
consentito, dal successivo comma 6, l’accesso al concorrente
che lo chieda in vista della difesa in giudizio dei propri
interessi in relazione alla procedura di affidamento del
contratto nell’ambito della quale viene formulata la
richiesta di accesso, senza che tale possibilità venga meno
a seguito del decorso del termine utile per intraprendere
azioni giurisdizionali volte alla contestazione dell’esito
della procedura di gara avanti il Tar competente (2).
---------------
(1)
Ha chiarito il Tar che tale dichiarazione costituisce un
onere per l’offerente che voglia mantenere riservate e
sottratte all’accesso tali parti dell’offerta. Peraltro tale
manifestazione di volontà è comunque suscettiva di autonomo
e discrezionale apprezzamento da parte della stazione
appaltante sotto il profilo della validità e pertinenza
delle ragioni prospettate a sostegno dell’opposto diniego.
(2) Ad avviso del Tar la tutela impugnatoria ai fini caducatori
(soggetta allo stringente termine decadenziale dimezzato)
non esaurisce lo spettro di forme di difese in giudizio del
concorrente non aggiudicatario, ben potendo, anche nella
stessa sede giurisdizional-amministrativa, azionare
l’autonoma e concorrente tutela risarcitoria nel più ampio
spatium temporis ivi previsto.
Ha aggiunto il tribunale che costituendo la previsione
normativa de qua un’eccezione all’eccezione di esclusione
(relativa) e di conseguente ripristinando il principio
generale espresso dal primo comma dell’art. 53, d.lgs.
18.04.2016, n. 50 (in linea con un univoco trend normativo
volto ad ampliare in termini quali-quantitativi il valore
della trasparenza amministrativa sia con riguardo alla
generale azione della Pubblica amministrazione, sia nello
specifico settore dei contratti pubblici), della stessa deve
esser data un’opzione ermeneutica non restrittivo-limitativa,
ma al contrario ampliativo-estensiva, nel senso appunto di
ricondurre al concetto di “difesa in giudizio” degli
interessi del concorrente, in relazione alla procedura di
affidamento del contratto nell’ambito del quale viene
formulata la richiesta di accesso, come comprensiva di ogni
forma di tutela delle proprie posizioni giuridiche.
In altri termini, se l’accesso è diritto dell’interessato
ammesso in via generale dalla norma della l. 07.08.1990, n.
241, le compressioni di cui ai commi 2 e 5 dell’art. 53 del
Codice rappresentano norme speciali e, comunque,
eccezionali, da interpretarsi in modo restrittivo
(attenendosi a quanto tassativamente ed espressamente
contenuto in esse); mentre le deroghe a tali eccezioni,
contenute nel comma 6 di tale ultima disposizione,
consentendo una riespansione e riaffermazione del diritto
generalmente riconosciuto nel nostro ordinamento di accedere
agli atti, possono ben essere considerate “eccezioni
all’eccezione” e, dunque, nuovamente regola (TAR
Valle d’Aosta,
sentenza 05.06.2017 n. 34
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Pur
nel nuovo sistema introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241
del 1990, il silenzio serbato dall'Amministrazione
sull'istanza di accertamento di conformità urbanistica di
cui all'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto
tacito di reiezione dell'istanza (e quindi di
silenzio-significativo e non di silenzio-rifiuto).
Pertanto, una volta decorso il termine di 60 giorni, si
forma il silenzio-diniego, che può essere impugnato
dall'interessato in sede giurisdizionale nel prescritto
termine decadenziale di sessanta giorni, alla stessa stregua
di un comune provvedimento, senza che possano ravvisarsi in
esso i vizi formali propri degli atti, quali i difetti di
procedura o la mancanza di motivazione, con la conseguenza
che il predetto provvedimento, in quanto tacito, è già di
per sé privo di motivazione ed impugnabile non per difetto
di motivazione, bensì per il suo contenuto di rigetto.
Pertanto, l'ordinamento, a seguito della presentazione
dell'istanza di accertamento di conformità, ai sensi
dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede alcun
obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza come rifiuto della stessa.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
Ed invero, in relazione ai primi due motivi di
ricorso, concernenti l’assunta carenza di motivazione e la
violazione dell’art. 10-bis della legge n. 241/1990, deve
richiamarsi il costante orientamento della giurisprudenza
amministrativa, per il quale: “Pur nel nuovo sistema
introdotto dagli artt. 2 e 3, l. n. 241 del 1990, il
silenzio serbato dall'Amministrazione sull'istanza di
accertamento di conformità urbanistica di cui all'art. 36,
d.P.R. n. 380 del 2001, ha natura di atto tacito di
reiezione dell'istanza (e quindi di silenzio-significativo e
non di silenzio-rifiuto). Pertanto, una volta decorso il
termine di 60 giorni, si forma il silenzio-diniego, che può
essere impugnato dall'interessato in sede giurisdizionale
nel prescritto termine decadenziale di sessanta giorni, alla
stessa stregua di un comune provvedimento, senza che possano
ravvisarsi in esso i vizi formali propri degli atti, quali i
difetti di procedura o la mancanza di motivazione, con la
conseguenza che il predetto provvedimento, in quanto tacito,
è già di per sé privo di motivazione ed impugnabile non per
difetto di motivazione, bensì per il suo contenuto di
rigetto. Pertanto, l'ordinamento, a seguito della
presentazione dell'istanza di accertamento di conformità, ai
sensi dell'art. 36, d.P.R. n. 380 del 2001, non prevede
alcun obbligo dell'Amministrazione di pronunciarsi con un
provvedimento espresso, qualificando il silenzio serbato
sulla predetta istanza come rifiuto della stessa” (cfr.,
fra le tante, TAR Campania, sez. III, 22.08.2016, n. 4088)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
E' del tutto inconciliabile con la finalità
agricola, e non può essere ammissibile, la realizzazione in
area agricola di opere di battitura del terreno, riporto di
sabbia e di materiali inerti con asfaltatura per la
realizzazione di una pavimentazione per uno spessore di
circa 50 cm.
La realizzazione del piazzale-deposito altera lo stato dei
luoghi e costituisce un intervento di permanente
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio
disciplinato dall'art. 3, d.P.R. n. 380 del 2001 che,
essendo subordinato al permesso di costruire, deve
necessariamente rispettare le tipologie e le destinazioni
d'uso funzionali consentite per la zona agricola.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
...
Riguardo, invece, al terzo motivo di diritto, l’opera
di asfaltatura è stata realizzata su area agricola.
In proposito, riguardo ad altre fattispecie analoghe a
quella in questione la realizzazione di un parcheggio
scoperto è stata riconosciuta assolutamente fuori dalle
ipotesi di legittima utilizzazione che il proprietario
poteva fare del proprio terreno ed è stato, in particolare,
affermato che: “E' del tutto inconciliabile con la
finalità agricola, e non può essere ammissibile, la
realizzazione in area agricola di opere di battitura del
terreno, riporto di sabbia e di materiali inerti con
asfaltatura per la realizzazione di una pavimentazione per
uno spessore di circa 50 cm. La realizzazione del
piazzale-deposito altera lo stato dei luoghi e costituisce
un intervento di permanente trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio disciplinato dall'art. 3, d.P.R.
n. 380 del 2001 che, essendo subordinato al permesso di
costruire, deve necessariamente rispettare le tipologie e le
destinazioni d'uso funzionali consentite per la zona
agricola” (cfr. TAR Campania, sez. VIII, 10.03.2016, n.
1397; 07.11.2016, n. 5116)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. 24.03.1989, n.
122 i proprietari di immobili possono realizzare, nei locali
siti al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare
a pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in
deroga agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti.
Peraltro condizione essenziale per l'applicazione della
succitata normativa è che si tratti di parcheggi «pertinenziali»,
nel senso che devono essere al servizio di singole unità
immobiliari e fruibili solo da chi si trova in un
determinato rapporto con tali unità immobiliari, che si può
inverare nella «residenza» e può pure presupporre una
relazione di pertinenzialità materiale tale, cioè, da
evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il
fabbricato principale e l'area asservita.
---------------
Il Collegio ritiene che il ricorso sia infondato.
...
Il Collegio condivide integralmente tale orientamento,
risultando, pertanto, infondato pure il terzo motivo di
gravame, anche in considerazione dell’insussistenza del
vincolo giuridico-pertinenziale.
“Ai sensi dell'art. 9, comma 1, l. 24.03.1989, n. 122 i
proprietari di immobili possono realizzare, nei locali siti
al piano terreno dei fabbricati, parcheggi da destinare a
pertinenza delle singole unità immobiliari, anche in deroga
agli strumenti urbanistici ed ai regolamenti edilizi
vigenti; peraltro condizione essenziale per l'applicazione
della succitata normativa è che si tratti di parcheggi «pertinenziali»,
nel senso che devono essere al servizio di singole unità
immobiliari e fruibili solo da chi si trova in un
determinato rapporto con tali unità immobiliari, che si può
inverare nella «residenza» e può pure presupporre una
relazione di pertinenzialità materiale tale, cioè, da
evocare un rapporto d'immediata contiguità fisica tra il
fabbricato principale e l'area asservita” (Cons. Stato,
sez. IV, 23.05.2016, n. 2116).
Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va
respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 01.06.2017 n. 1231 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: Allo
scopo di stabilire se un atto amministrativo sia
meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente
lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se
l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la
cui adozione sia stata preceduta da un riesame della
situazione che aveva condotto al precedente provvedimento,
giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento
istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli
interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto
e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata,
può dare luogo a un atto propriamente di conferma, in grado,
come tale, di costituire un provvedimento diverso dal
precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando
l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si
limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e
senza una nuova motivazione.
---------------
A questo proposito, va ricordata la costante giurisprudenza
elaborata in tema di atto di conferma.
Allo scopo di stabilire se un atto amministrativo sia
meramente confermativo (e perciò non impugnabile) o di
conferma in senso proprio (e, quindi, autonomamente
lesivo e da impugnarsi nei termini), occorre verificare se
l'atto successivo sia stato adottato o meno senza una nuova
istruttoria e una nuova ponderazione degli interessi.
In particolare, non può considerarsi meramente
confermativo rispetto ad un atto precedente l'atto la
cui adozione sia stata preceduta da un riesame della
situazione che aveva condotto al precedente provvedimento,
giacché solo l'esperimento di un ulteriore adempimento
istruttorio, sia pure mediante la rivalutazione degli
interessi in gioco e un nuovo esame degli elementi di fatto
e di diritto che caratterizzano la fattispecie considerata,
può dare luogo a un atto propriamente di conferma, in grado,
come tale, di costituire un provvedimento diverso dal
precedente e quindi suscettibile di autonoma impugnazione.
Ricorre invece l'atto meramente confermativo quando
l'amministrazione, a fronte di un'istanza di riesame, si
limita a dichiararne l'esistenza di un suo precedente
provvedimento senza compiere alcuna nuova istruttoria e
senza una nuova motivazione (cfr. per tutte Cons. Stato,
sez. IV, 14.04.2014, n. 1805; sez. IV, 12.02.2015, n.758;
sez. IV, 29.02.2016, n. 812)
(Consiglio di Stato, Sez. III,
sentenza 30.05.2017 n. 2564 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: La
giurisprudenza è monolitica nell’affermare che il Comune in
sede di istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio
non è chiamato a svolgere accertamenti complessi, dovendo
limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo
legittimante, posto che l’autorizzazione viene emanata
facendo comunque salvi i diritti dei terzi.
Dall’accertamento dell’esistenza di eventuali fattori
limitativi, preclusivi o estintivi dello ius aedificandi o
della piena disponibilità dei beni oggetto dell’intervento
consegue per l’amministrazione il dovere di adottare i
provvedimenti volti al ripristino della legalità violata. La
verifica dell'esistenza di un idoneo titolo sul bene oggetto
della richiesta avviene mediante attività che non è diretta
a risolvere i conflitti tra i privati ma ad accertare il
requisito della legittimazione soggettiva del richiedente.
Del resto secondo condivisa giurisprudenza
“l’Amministrazione non può agire in spregio dei principi che
tutelano la proprietà privata nei confronti dell’azione
amministrativa: principi che sono sanciti dalla
Costituzione, ma ormai presidiati anche da un consistente
corpus giurisprudenziale della Corte europea dei diritti
dell’uomo; e che hanno anche un impatto sui profili
sostanziali del governo e della gestione del territorio.
Ragionare diversamente significherebbe non salvaguardare,
bensì pregiudicare i principi di buon andamento e del giusto
procedimento, dovendosi aver riguardo alle fondamentali
garanzie della proprietà. Ed anche il principio di
conservazione degli atti si rivela recessivo nella specie,
mancando il presupposto fondamentale della legittimazione,
neppure sanato a posteriori.
E parimenti recessivo si rivela -in concreto- il principio
dell’affidamento”.
---------------
Tali principi ancor più valgono con riferimento alla
denuncia/segnalazione di inizio attività, che è un atto
soggettivamente ed oggettivamente privato, uno strumento di
massima semplificazione quale manifestazione di autonomia
privata con cui l'interessato certifica la sussistenza dei
presupposti in fatto ed in diritto allegati a presupposto
del legittimo esercizio dell'attività segnalata alla P.A.
Presupposto indefettibile perché una DIA/SCIA possa essere
produttiva di effetti è la completezza e la veridicità delle
dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, in presenza
di una dichiarazione inesatta o incompleta
all'Amministrazione spetta comunque il potere di inibire
l'attività dichiarata.
La Sezione in recente pronuncia
ha richiamato, condividendolo, l’orientamento consolidato
della giurisprudenza per cui “non sono evocabili i principi
a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di
autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione
dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine
dei presupposti per concludere favorevolmente il
procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio,
dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame),
non necessita, peraltro, di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica e in considerazione che le
affermazioni miranti a considerare il rilievo del decorso
del tempo sono tutte imperniate sulla tutela
dell’affidamento del privato, ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al
Comune, dovuto proprio a fatto del privato”.
---------------
8.2. – Da quanto appena evidenziato consegue che i
provvedimenti adottati dal Comune ed oggetto di gravame
assumono i caratteri dell’atto dovuto.
La denunziata violazione delle regole e dei principi che
governano l’esercizio del potere di autotutela ed il
connesso principio dell’affidamento del privato, non appare
meritevole di positiva delibazione.
Sia i precedenti proprietari nell’istanza di accertamento di
conformità, che la ricorrente nella SCIA hanno, infatti,
dichiarato l’assenza della lesione dei diritti dei terzi.
Tali dichiarazioni sono risultate non rispondenti ai
contenuti della produzione documentale.
In simili casi anche l’attuale formulazione dell’art. 19 L.
241/1990, frutto di recenti interventi nel senso della
liberalizzazione, al comma 6-bis L. 241/1990, consente al
Comune di esercitare i propri poteri sanzionatori,
prevedendo che «restano altresì ferme le disposizioni
relative alla vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia,
alle responsabilità e alle sanzioni previste dal decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2001, n. 380, e dalle
leggi regionali».
La giurisprudenza è monolitica nell’affermare che il Comune
in sede di istruttoria per il rilascio di un titolo edilizio
non è chiamato a svolgere accertamenti complessi, dovendo
limitarsi a verificare la sussistenza di un titolo
legittimante, posto che l’autorizzazione viene emanata
facendo comunque salvi i diritti dei terzi (ex multis Cons.
Stato, sez. IV, sent, 5587 del 09.12.2015 e apre n. 4571 del
12.12.2011).
Dall’accertamento dell’esistenza di eventuali fattori
limitativi, preclusivi o estintivi dello ius aedificandi o
della piena disponibilità dei beni oggetto dell’intervento
consegue per l’amministrazione il dovere di adottare i
provvedimenti volti al ripristino della legalità violata. La
verifica dell'esistenza di un idoneo titolo sul bene oggetto
della richiesta avviene mediante attività che non è diretta
a risolvere i conflitti tra i privati ma ad accertare il
requisito della legittimazione soggettiva del richiedente
(TAR Sicilia, sez. III, sent. 100 del 13.01.2017).
Del resto secondo condivisa giurisprudenza
“l’Amministrazione non può agire in spregio dei principi che
tutelano la proprietà privata nei confronti dell’azione
amministrativa: principi che sono sanciti dalla
Costituzione, ma ormai presidiati anche da un consistente
corpus giurisprudenziale della Corte europea dei diritti
dell’uomo; e che hanno anche un impatto sui profili
sostanziali del governo e della gestione del territorio.
Ragionare diversamente significherebbe non salvaguardare,
bensì pregiudicare i principi di buon andamento e del giusto
procedimento, dovendosi aver riguardo alle fondamentali
garanzie della proprietà. Ed anche il principio di
conservazione degli atti si rivela recessivo nella specie,
mancando il presupposto fondamentale della legittimazione,
neppure sanato a posteriori.
E parimenti recessivo si rivela -in concreto- il principio
dell’affidamento” (TAR Lazio, sez. II-bis, sent. 1141
del 02.02.2012).
8.3. - Tali principi ancor più valgono con riferimento alla
denuncia/segnalazione di inizio attività, che è un atto
soggettivamente ed oggettivamente privato, uno strumento di
massima semplificazione quale manifestazione di autonomia
privata con cui l'interessato certifica la sussistenza dei
presupposti in fatto ed in diritto allegati a presupposto
del legittimo esercizio dell'attività segnalata alla P.A.
Presupposto indefettibile perché una DIA/SCIA possa essere
produttiva di effetti è la completezza e la veridicità delle
dichiarazioni contenute nell'autocertificazione, in presenza
di una dichiarazione inesatta o incompleta
all'Amministrazione spetta comunque il potere di inibire
l'attività dichiarata.
La Sezione in recente pronuncia (TAR Bari, sent. 96/2017)
ha richiamato, condividendolo, l’orientamento consolidato
della giurisprudenza per cui “non sono evocabili i principi
a presidio dell’esercizio dell’ordinario potere di
autotutela decisoria, i quali postulano una riconsiderazione
dell’interesse pubblico, inesistente nel caso di specie, in
cui l’amministrazione ha verificato la carenza ab origine
dei presupposti per concludere favorevolmente il
procedimento di formazione del titolo edilizio silenzioso.
L’eliminazione d'ufficio di un titolo abilitativo edilizio,
dovuto a fatto dell'interessato (come nel caso in esame),
non necessita, peraltro, di un'espressa e specifica
motivazione sul pubblico interesse, consistendo questo
nell'interesse della collettività al rispetto della
disciplina urbanistica (da ultimo, Consiglio di Stato, sez.
V, 08.11.2012 n. 5691; Consiglio di Stato, sez. IV, 30.07.2012 n. 4300) e in considerazione che le affermazioni
miranti a considerare il rilievo del decorso del tempo sono
tutte imperniate sulla tutela dell’affidamento del privato
(si veda, ad esempio, Consiglio di Stato, sez. I, 25.05.2012 n. 3060), ossia una situazione qui non sussistente,
stante l’erronea rappresentazione dei fatti proposta al
Comune, dovuto proprio a fatto del privato” (ex multis, da
ultimo, TAR Bari, sez. III, sent. 222 del 09.03.2017, TAR
Campania, sez. IV, sent. 5726, del 13.12.2016).
9. - Dalle considerazioni che precedono discende anche il
rigetto delle censure articolate avverso la successiva
ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi, in quanto
deve ritenersi provvedimento consequenziale rigidamente
vincolato. L'interesse pubblico al ripristino dello stato
dei luoghi è, infatti, ‘in re ipsa’.
Né può ritenersi legittimamente invocata l’applicazione
dell’art. 38 d.p.r. 380/2001. E’ sufficiente in proposito
rilevare che la peculiarità dell’art. 38 è giustificata
essenzialmente dalla necessità di tutela dell’affidamento
del soggetto che ha edificato in conformità ad un titolo
rivelatosi poi illegittimo. Ma si è già diffusamente
argomentato sull’insussistenza, nella vicenda per cui è
causa, di alcun legittimo affidamento tutelabile in capo
alla ricorrente.
10. – In base alle considerazioni esposte il ricorso va
rigettato
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 30.05.2017 n. 560 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Impugnazione immediata dell’ammissione di altro concorrente
o unitamente all'aggiudicazione.
--------------
Processo amministrativo – Rito appalti – Rito
superaccelerato – Impugnazione immediata ammissione di altro
concorrente – Presupposto – Individuazione – Mancata
pubblicità ex art. 29, d.lgs. n. 50 del 2016 – Impugnazione
dell’ammissione unitamente all’aggiudicazione.
L'onere di immediata impugnazione
del provvedimento di ammissione ad una gara d'appalto ai
sensi dell’art. 120, comma 2 bis, c.p.a. risulta esigibile
solo a fronte della contestuale operatività della
disposizione che consente l’immediata conoscenza di tale
ammissione da parte delle imprese partecipanti e,
segnatamente, dell’art. 29, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50
(pubblicazione sul profilo del committente nella sezione
“Amministrazione trasparente”), in mancanza della quale tale
ammissione deve essere impugnata unitamente
all’aggiudicazione (1).
--------------
(1)
Ha chiarito il Tar che in difetto del contestuale
funzionamento delle regole che assicurano la pubblicità e la
comunicazione dei provvedimenti di cui si introduce l’onere
di immediata impugnazione -che devono, perciò, intendersi
legate da un vincolo funzionale inscindibile- la relativa
prescrizione processuale si rivela del tutto inattuabile,
per la mancanza del presupposto logico della sua operatività
e, cioè, la predisposizione di un apparato regolativo che
garantisca la tempestiva informazione degli interessati
circa il contenuto del provvedimento da gravare nel
ristretto termine di decadenza ivi stabilito.
Una volta esclusa l’applicazione del nuovo rito
superaccelerato di cui all’art. 120, comma 2-bis, c.p.a.,
trova applicazione il costante orientamento
giurisprudenziale, formatosi prima dell’entrata in vigore
del nuovo Codice dei contratti pubblici, che nega valenza
procedimentale autonoma all’atto di ammissione alla gara e
che ne ammette l’impugnazione solo unitamente al
provvedimento di aggiudicazione (TAR
Campania-Napoli, Sez. I,
sentenza 29.05.2017 n. 2843
- commento tratto da link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Ai
fini della qualificazione di una strada come vicinale
pubblica, occorre avere riguardo alle sue condizioni
effettive, in quanto una strada può rientrare in tale
categoria solo qualora rilevino il passaggio esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività
di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la
concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione
del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi
nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali
di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum",
superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza
di un diritto di uso o di godimento della strada da parte
della collettività.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione
in ipotesi di contestazione, resta fermo l'orientamento
della giurisprudenza di legittimità secondo cui "l'iscrizione di una
strada nell'elenco formato dalla P.A. delle vie gravate da
uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa
della pretesa della P.A. La stessa iscrizione pone in essere
una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico,
superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto
di godimento da parte della collettività.".
---------------
L'assoggettamento ad uso pubblico di una strada privata può
derivare, oltre che dalla volontà del proprietario e dal
mutamento della situazione dei luoghi, con conseguente
inserimento della stessa nella rete viaria cittadina, anche
da un immemorabile uso pubblico, inteso come comportamento
della collettività contrassegnato dalla convinzione, pur
essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente
di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra
strada della rete viaria pubblica, di esercitare il diritto
di uso della strada.
---------------
7. Passando ai motivi del presente appello, si rileva che
con il primo motivo il Consorzio sostiene che, costituendo
il Consorzio stradale permanente degli utenti della rete
viaria del centro turistico di Marsia, il Comune di
Tagliacozzo avrebbe violato la disposizione dell’art. 14
della legge n. 126/1958, la quale prevedrebbe la
costituzione di un consorzio stradale obbligatorio per la
manutenzione soltanto delle strade vicinali pubbliche e non
invece di quelle pubbliche.
Anche in questo caso si può prescindere dall’eccezione di
inammissibilità per novità della censura, stante la sua
infondatezza.
Infatti nella proposta di deliberazione del Consiglio
comunale n. 26/P del 14.09.2009, è espressamente
affermato che “La disciplina dei consorzi stradali
obbligatori si applica a tutte le strade private aperte al
pubblico transito, a prescindere che si tratti di strade
vicinali o meno; le strade del centro turistico di Marsia, a
prescindere da chi sia il proprietario, sono sicuramente
aperte al pubblico transito; ciò è previsto, tra l’altro,
dall’art. 7 del verbale di conciliazione sottoscritto
innanzi al Commissario Regionale agli Usi Civici dell’Aquila
in data 19.07.1968, Cron. N. 136 (e ribadito, nello stesso
senso, nel verbale di conciliazione in data 01.04.1971, n.
171: “Le strade, i piazzali, i larghi destinati all’uso
collettivo sono soggetti all’uso pubblico di circolazione, a
norma delle leggi in materia, salvi gli oneri della società Marsia e suoi aventi causa per la costruzione, sistemazione
e manutenzione delle strade”), ed è stato di recente
confermato dalla sentenza del TAR dell’Aquila n. 232 del
2003 (divenuta definitiva per non essere stata impugnata da
alcuno); pertanto, anche per esse trovano applicazione le
disposizioni del d.lgs. n. 1446/1918 e dell’art. 14 della
legge n. 126/1958”.
Inoltre, secondo il consolidato orientamento
giurisprudenziale (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 19.03.2015, n. 1515), ai fini della qualificazione di una
strada come vicinale pubblica, occorre avere riguardo alle
sue condizioni effettive, in quanto una strada può rientrare
in tale categoria solo qualora rilevino il passaggio
esercitato "iure servitutis pubblicae" da una collettività
di persone appartenenti a un gruppo territoriale, la
concreta idoneità del bene a soddisfare esigenze di
carattere generale, anche per il collegamento con la
pubblica via, e un titolo valido a sorreggere l'affermazione
del diritto di uso pubblico, che può anche identificarsi
nella protrazione dell'uso da tempo immemorabile.
L'iscrizione della strada nell'elenco delle strade vicinali
di uso pubblico costituisce presunzione "iuris tantum",
superabile con la prova contraria, che escluda l'esistenza
di un diritto di uso o di godimento della strada da parte
della collettività.
In disparte ogni problematica in ordine alla giurisdizione
in ipotesi di contestazione, resta fermo l'orientamento
della giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., Sez. Unite,
07.11.1994, n. 9206) secondo cui "l'iscrizione di una
strada nell'elenco formato dalla P.A. delle vie gravate da
uso pubblico non ha natura costitutiva, ma è dichiarativa
della pretesa della P.A. La stessa iscrizione pone in essere
una mera presunzione "iuris tantum" di uso pubblico,
superabile con la prova dell'inesistenza di un tale diritto
di godimento da parte della collettività.".
8. Inoltre, questa Sezione (sentenza 22.12.2014, n.
6197), confermando la sentenza n. 230 del 2003 del TAR
per l’Abruzzo, ha definitivamente accertato la presenza di
un immemorabile uso pubblico delle strade e delle piazze
ricadenti all’interno del centro turistico di Marsia.
Ciò conferma risolutivamente che sussistevano i presupposti
affinché, ai sensi dell’art. 14 L. n. 126/1958, fosse
costituito dal Comunità di Tagliacozzo il consorzio stradale
permanente degli utenti della rete viaria del centro
turistico di Marsia.
Come già ricordato, l'assoggettamento ad uso pubblico di una
strada privata può derivare, oltre che dalla volontà del
proprietario e dal mutamento della situazione dei luoghi,
con conseguente inserimento della stessa nella rete viaria
cittadina, anche da un immemorabile uso pubblico, inteso
come comportamento della collettività contrassegnato dalla
convinzione, pur essa palesata da una situazione dei luoghi
che non consente di distinguere la strada in questione da
una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica, di
esercitare il diritto di uso della strada.
In ogni caso, si rileva che nella proposta di deliberazione
del Consiglio comunale n. 26/P del 14.09.2009, è
espressamente affermato (pag. 4) che “Nessuna delle strade
ricomprese nel comprensorio del centro turistico di Marsia
può essere classificata come “strada comunale” ai sensi
della vigente normativa, per cui tutte queste strade
rientrano nella definizione di “strade private” soggette ad
uso pubblico, e come tale soggette alla competenza del
Consorzio stradale che si intende costituire”.
Tali rilievi sono sufficienti a dimostrare la legittimità
degli atti impugnati sotto il profilo denunciato, restando
salve altre ed ulteriori questioni di diritto proprietario
che non sono comunque di competenza di questo plesso
giurisdizionale
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2017 n. 2531 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Ai
sensi dell’art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 12/04/2006, n.
163, sono esclusi dalle
procedure di gara per i contratti pubblici quanti “hanno
commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle
norme in materia di contributi previdenziali e
assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello
Stato in cui sono stabiliti”.
Costituisce ius receputm che la regolarità contributiva
postulata dalla trascritta norma deve sussistere fin dalla
presentazione dell’offerta e permanere per tutta la durata
della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la
stazione appaltante, restando irrilevanti eventuali
adempimenti tardivi dell’obbligazione contributiva.
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, 04/05/2012, n. 8, non è
superato dall’articolo 31 (Semplificazioni in materia di DURC), comma 8, del D.L. 21/06/2013, n. 69 (Disposizioni
urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con
modificazioni dalla L. 09/08/2013, n. 98, sull’invito alla
regolarizzazione, a norma del quale, ai fini della verifica
per il rilascio del DURC, «in caso di mancanza dei requisiti
per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al
rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento
del documento già rilasciato, invitano l'interessato […] a
regolarizzare la propria posizione entro un termine non
superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità».
Ciò è stato recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria di
questo Consiglio di Stato, con le sentenza 29/02/2016, n. 5 e
6, con le quali si è chiarito che anche dopo detto art. 31
non sono consentite regolarizzazioni postume delle posizioni
previdenziali, perché l’impresa dev’essere in regola con
l’assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali
fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato
per la durata della procedura di aggiudicazione e del
rapporto con la stazione appaltante: sicché rimane
irrilevante l’eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva, posto che l’invito alla
regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già
previsto dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24/10/2007 e ora
recepito dall’art. 31 predetto, opera solo nei rapporti tra
impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC
chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla
stazione appaltante per la verifica della veridicità
dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lett. i), del Codice dei contratti pubblici ai fini della
partecipazione alla gara d’appalto.
Nessun argomento contrario può trarsi, poi, dall’art. 4 del
D.M. 30/01/2015, recante norme di “Semplificazione in materia
di documento unico di regolarità contributiva (DURC)”.
Come rilevato dalla citata Adunanza Plenaria n. 6 del 2016:
“Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la
disciplina dell'affidamento degli appalti pubblici non
consente la regolarizzazione postuma della irregolarità
contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di
regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte
di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia
delle fonti normative non permette ad una norma
regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione
incompatibile con la disciplina di rango legislativo”.
---------------
Può, pertanto, procedersi ad esaminare nel merito i due
motivi di gravame che risultano infondati.
In punto di diritto occorre premettere che, ai sensi
dell’art. 38, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 12/04/2006, n.
163 (applicabile ratione temporis), sono esclusi dalle
procedure di gara per i contratti pubblici quanti “hanno
commesso violazioni gravi, definitivamente accertate, alle
norme in materia di contributi previdenziali e
assistenziali, secondo la legislazione italiana o dello
Stato in cui sono stabiliti”.
Costituisce ius receputm che la regolarità contributiva
postulata dalla trascritta norma deve sussistere fin dalla
presentazione dell’offerta e permanere per tutta la durata
della procedura di aggiudicazione e del rapporto con la
stazione appaltante, restando irrilevanti eventuali
adempimenti tardivi dell’obbligazione contributiva (cfr. da
ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 29/04/2016, n. 1650; Sez. III,
09/03/2016, n. 955).
Tale principio, già chiaramente espresso dall’Adunanza
Plenaria del Consiglio di Stato, 04/05/2012, n. 8, non è
superato dall’articolo 31 (Semplificazioni in materia di DURC), comma 8, del D.L. 21/06/2013, n. 69 (Disposizioni
urgenti per il rilancio dell’economia), convertito con
modificazioni dalla L. 09/08/2013, n. 98, sull’invito alla
regolarizzazione, a norma del quale, ai fini della verifica
per il rilascio del DURC, «in caso di mancanza dei requisiti
per il rilascio di tale documento gli Enti preposti al
rilascio, prima dell'emissione del DURC o dell'annullamento
del documento già rilasciato, invitano l'interessato […] a
regolarizzare la propria posizione entro un termine non
superiore a quindici giorni, indicando analiticamente le
cause della irregolarità».
Ciò è stato recentemente ribadito dall’Adunanza Plenaria di
questo Consiglio di Stato, con le sentenza 29/02/2016, n. 5 e
6, con le quali si è chiarito che anche dopo detto art. 31
non sono consentite regolarizzazioni postume delle posizioni
previdenziali, perché l’impresa dev’essere in regola con
l’assolvimento degli obblighi previdenziali e assistenziali
fin dalla presentazione dell’offerta e conservare tale stato
per la durata della procedura di aggiudicazione e del
rapporto con la stazione appaltante: sicché rimane
irrilevante l’eventuale adempimento tardivo
dell’obbligazione contributiva, posto che l’invito alla
regolarizzazione (il c.d. preavviso di DURC negativo), già
previsto dall’art. 7, comma 3, del D.M. 24/10/2007 e ora
recepito dall’art. 31 predetto, opera solo nei rapporti tra
impresa ed ente previdenziale, ossia con riferimento al DURC
chiesto dall’impresa e non anche al DURC richiesto dalla
stazione appaltante per la verifica della veridicità
dell’autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 38, comma 1,
lett. i), del Codice dei contratti pubblici ai fini della
partecipazione alla gara d’appalto.
Nessun argomento contrario può trarsi, poi, dall’art. 4 del
D.M. 30/01/2015, recante norme di “Semplificazione in materia
di documento unico di regolarità contributiva (DURC)”.
Come rilevato dalla citata Adunanza Plenaria n. 6 del 2016:
“Appurato, infatti, che a livello di normativa primaria, la
disciplina dell'affidamento degli appalti pubblici non
consente la regolarizzazione postuma della irregolarità
contributiva, deve certamente escludersi che tale forma di
regolarizzazione possa essere stata introdotta da una fonte
di rango regolamentare, quale è il decreto ministeriale 30.01.2015.
È fin troppo evidente che il generale principio di gerarchia
delle fonti normative non permette ad una norma
regolamentare di introdurre una forma di regolarizzazione
incompatibile con la disciplina di rango legislativo”.
I principi di diritto poc’anzi espressi si attagliano
perfettamente alla fattispecie controversa, nella quale le
stazioni appaltanti, in sede di verifica
dell’autodichiarazione resa dal concorrente, hanno appurato
l’esistenza di un’irregolarità contributiva a carico della
R.C.B.
Al riguardo giova puntualizzare che nessuna rilevanza può
avere il fatto che l’autocertificazione risalga al settembre
2012 e la verifica sia stata compiuta nel 2014, in quanto,
come sopra osservato, la regolarità contributiva deve
sussistere continuativamente dal momento della presentazione
della domanda di partecipazione sino alla conclusione del
rapporto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2017 n. 2529 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Dall’esclusione dalla gara consegue
automaticamente l’escussione della cauzione provvisoria,
senza che all’uopo possano rilevare gli stati soggettivi del
concorrente in ordine alle circostanze che hanno determinato
il provvedimento espulsivo, ricollegandosi la detta
escussione soltanto alla mancata prova del possesso dei
requisiti di partecipazione dichiarati con la presentazione
dell'offerta e al conseguente provvedimento di esclusione.
---------------
Ritiene, infine, il Collegio, in linea con un consolidato
orientamento giurisprudenziale, che dall’esclusione dalla
gara consegua automaticamente l’escussione della cauzione
provvisoria, senza che all’uopo possano rilevare gli stati
soggettivi del concorrente in ordine alle circostanze che
hanno determinato il provvedimento espulsivo, ricollegandosi
la detta escussione soltanto alla mancata prova del possesso
dei requisiti di partecipazione dichiarati con la
presentazione dell'offerta e al conseguente provvedimento di
esclusione (cfr, fra le tante, Cons. Stato, Sez. V,
15/03/2017, n. 1172; 13/06/2016, n. 2531; 01/10/2015 n. 4587;
28/04/2014, n. 2201; 16/04/2013, n. 2114; Sez. IV, 19/11/2015,
n. 5280).
La reiezione delle censure sin qui esaminate consente di
prescindere dall’affrontare le restanti doglianze
prospettate, potendo l’impugnata sentenza reggersi sui capi
risultati immuni da vizi.
L’appello va, in definitiva, respinto
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 29.05.2017 n. 2529 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: L’art.
10-bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai
procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un
provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al
richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento
della sua istanza.
La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’,
cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima
ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il
contraddittorio da instaurare consente di valutare già in
sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul
se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento
dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi
giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione
condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca
della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e
che non proponga dunque ricorso.
L’art. 10-bis non si applica invece quando sia proposta una
istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio
del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.
In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di
effettuare una ulteriore valutazione della situazione di
fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono
profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a
sorpresa’.
Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente
confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla
base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità
della precedente valutazione, non occorre dunque una
ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato:
l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha
l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di
riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione
prevista dall’art. 10-bis, se intende respingerla perché
ritiene immodificabile la precedente valutazione.
---------------
13. Col quarto motivo, è lamentato che le determinazioni di
‘riesame negativo’ della Soprintendenza sarebbero
illegittime, perché –in violazione dell’art. 10-bis della
legge n. 241 del 1990, nel frattempo entrato in vigore– la
Soprintendenza non avrebbe comunicato preventivamente le
ragioni di rigetto della istanza.
L’appellante ha richiamato molteplici precedenti
giurisprudenziali, riguardanti la ratio dell’art. 10-bis e
il suo ambito di applicazione.
Ritiene la Sezione che anche tale censura è infondata, per
le seguenti considerazioni.
13.1. In primo luogo, il successivo atto negativo della
Soprintendenza va considerato meramente confermativo del
precedente parere.
Infatti, la Soprintendenza –con una nota sostanzialmente
‘di cortesia’- ancora una volta ha dato atto dell’esistenza
del vincolo disposto dal decreto ministeriale del 24.09.1947, negando la possibilità di esercitare una
discrezionalità contrastante con le esigenze di tutela poste
a sua base, ribadendo il contenuto del precedente parere
negativo e considerando ‘illecita’ una sanatoria che avrebbe
consentito il mantenimento delle ‘alterazioni ambientali’.
13.2. Peraltro, le censure proposte non risultano fondate e
vanno respinte.
L’art. 10-bis della legge n. 241 del 1990 si applica ai
procedimenti che l’Amministrazione intenda concludere con un
provvedimento che ‘per la prima volta’ rappresenta al
richiedente una o più ragioni impeditive dell’accoglimento
della sua istanza.
La sua ratio è quella di evitare ‘provvedimenti a sorpresa’,
cioè che prospettino questioni di fatto o di diritto prima
ignote al richiedente, o comunque da lui non percepibili: il
contraddittorio da instaurare consente di valutare già in
sede amministrativa le argomentazioni dell’interessato sul
se vi siano effettivamente ragioni ostative all’accoglimento
dell’istanza e agevola la deflazione dei ricorsi
giurisdizionali, poiché può avvenire o che l’Amministrazione
condivida le osservazioni o che l’interessato si convinca
della adeguatezza della valutazione dell’Amministrazione e
che non proponga dunque ricorso.
L’art. 10-bis non si applica invece quando sia proposta una
istanza di riesame, volta alla rinnovazione dell’esercizio
del potere, e non prospetti alcuna sopravvenienza.
In tal caso, infatti, si chiede all’Amministrazione di
effettuare una ulteriore valutazione della situazione di
fatto e di diritto già in precedenza valutata e non vi sono
profili che potrebbero comportare una ‘motivazione a
sorpresa’.
Quando l’istanza di riesame è respinta con un atto meramente
confermativo o solo di conferma del precedente atto, sulla
base di una motivazione incentrata sulla immodificabilità
della precedente valutazione, non occorre dunque una
ulteriore interlocuzione procedimentale con l’interessato:
l’Amministrazione, così come in linea di principio non ha
l’obbligo di prendere in considerazione l’istanza di
riesame, così non ha l’obbligo di inviare la comunicazione
prevista dall’art. 10-bis, se intende respingerla perché
ritiene immodificabile la precedente valutazione.
14. Per le ragioni che precedono, l’appello va respinto
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 26.05.2017 n. 2507 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI: La
comunicazione dei motivi ostativi di cui all’art. 10-bis, L.
n. 241/1990, è priva di immediata lesività, attesa la
funzione che le è propria, di consentire alla parte di
partecipare attivamente al procedimento, ed in ipotesi, di
far pervenire l'autorità competente anche ad una diversa
determinazione rispetto a quanto rappresentato nella sede
dell'interlocuzione procedimentale, essendo pertanto
inammissibile la sua autonoma impugnazione.
---------------
Il presente ricorso va dichiarato inammissibile.
Per giurisprudenza pacifica, la comunicazione dei motivi
ostativi di cui all’art. 10-bis, L. n. 241/1990, è infatti
priva di immediata lesività, attesa la funzione che le è
propria, di consentire alla parte di partecipare attivamente
al procedimento, ed in ipotesi, di far pervenire l'autorità
competente anche ad una diversa determinazione rispetto a
quanto rappresentato nella sede dell'interlocuzione
procedimentale, essendo pertanto inammissibile la sua
autonoma impugnazione (TAR Lombardia, Milano, Sez. II,
01.07.2015 n. 1515, TAR Roma, Lazio, Sez. II, 14.06.2016 n.
6788, Sez. III, 12.04.2012, n. 3359)
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 26.05.2017 n. 1188 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Accesso alle offerte di gara e azione incidentale avverso il
diniego del ricorrente e del controinteressato.
---------------
•
Processo amministrativo – Accesso ai documenti – Azione ex
art. 116, comma 2, c.p.a. – soggetto legittimato –
Controinteressato – Esclusione.
•
Accesso ai
documenti – Contratti della Pubblica amministrazione –
Differimento dopo l’aggiudicazione – Art. 53, comma 2,
d.lgs. n. 50 del 2016 – Interpretazione – Differimento del
solo contenuto delle offerte – Documentazione amministrativa
– E’ immediatamente accessibile.
•
La facoltà di azionare la tutela in materia di
accesso ai documenti anche in pendenza di giudizio ex art.
116, comma 2, c.p.a., attesa la finalità istruttoria di tale
strumento processuale, può essere riconosciuta solo alla
parte ricorrente nel giudizio principale e non anche al
controinteressato, stante la natura strumentale rispetto ad
un’azione già incardinata, ferma restando, ovviamente la
possibilità di proporre un autonomo processo di accesso.
•
L'art. 53, comma 2, lett. c), d.lgs. 18.04.2016,
n. 50, secondo cui l'accesso in relazione alle offerte è
differito fino al momento dell’aggiudicazione, deve essere
interpretato nel senso che tale norma si riferisce solamente
al contenuto delle offerte, essendo posta a presidio della
segretezza delle offerte tecnico-economiche, ma non
impedisce l’accesso alla documentazione amministrativa,
relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti, essendo
peraltro la conoscenza di tale documentazione elemento
imprescindibile per l’esercizio del diritto di difesa in
relazione al nuovo sistema delineato dall’art. 120, comma
2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti dell’impugnazione
immediata delle ammissioni e delle esclusioni (1).
---------------
(1)
Tar Lazio, sez. III, 28.03.2017, n. 3971.
Il Tar ha anche ricordato l’art. 29, d.lgs. 18.04.2016, n.
50, il quale detta i principi generali sulla trasparenza e
impone la pubblicità di tutti gli atti delle procedure di
affidamento sul sito delle stazioni appaltanti, nella
sezione amministrazione trasparente, e inoltre sulla
piattaforma digitale ANAC e sul sito del Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti, nonché il comma 3 dell’art.
76 (nel testo ante correttivo attualmente vigente) che, in
aggiunta alle pubblicazioni previste dall’art. 29,
stabilisce che debba essere dato “avviso ai concorrenti,
mediante PEC o strumento analogo negli altri Stati membri,
del provvedimento che determina le esclusioni dalla
procedura di affidamento e le ammissioni ad essa all'esito
della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando
l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato
dove sono disponibili i relativi atti”; laddove per “atti”
si devono intendere, i verbali di gara relativi alla fase di
ammissione dei concorrenti e la documentazione
amministrativa di cui si è detto sopra utile al fine della
verificazione della sussistenza dei requisiti soggettivi dei
concorrenti (TAR
Veneto, Sez. I,
ordinanza 26.05.2017 n. 512
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
Nel merito, il diniego di accesso alla
documentazione amministrativa opposto
all’Impresa di Costruzioni Ga.Ro. è
illegittimo, non essendo condivisibile l’assunto
dell’Amministrazione secondo cui l’accesso alla
documentazione amministrativa, ai sensi dell’art. 53, comma
2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016, è differito fino al
momento dell’aggiudicazione;
Infatti, tale ultima norma si riferisce
solamente al contenuto delle offerte, ed è chiaramente posta
a presidio della segretezza delle offerte
tecnico-economiche, ma non impedisce l’accesso alla
documentazione amministrativa contenuta normalmente nella
busta A, relativa ai requisiti soggettivi dei concorrenti,
essendo peraltro la conoscenza di tale documentazione
elemento imprescindibile per l’esercizio del diritto di
difesa in relazione al nuovo sistema delineato dall’art.
120, comma 2-bis, c.p.a., che onera i concorrenti
dell’impugnazione immediata delle ammissioni e delle
esclusioni;
Giova considerare, inoltre, non solo l’art.
29 del D.lgs. 50/2016, il quale detta i principi generali
sulla trasparenza e impone la pubblicità di tutti gli atti
delle procedure di affidamento sul sito delle stazioni
appaltanti, nella sezione amministrazione trasparente, e
inoltre sulla piattaforma digitale ANAC e sul sito del
Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, ma anche il
comma 3 dell’art. 76
(nel testo ante correttivo attualmente vigente)
che in aggiunta alle pubblicazioni previste
dall’art. 29, stabilisce che debba essere dato “avviso ai
concorrenti, mediante PEC o strumento analogo negli altri
Stati membri, del provvedimento che determina le esclusioni
dalla procedura di affidamento e le ammissioni ad essa
all'esito della valutazione dei requisiti soggettivi,
economico-finanziari e tecnico-professionali, indicando
l'ufficio o il collegamento informatico ad accesso riservato
dove sono disponibili i relativi atti”; laddove per “atti”
si devono intendere, i verbali di gara relativi alla fase di
ammissione dei concorrenti e la documentazione
amministrativa di cui si è detto sopra utile al fine della
verificazione della sussistenza dei requisiti soggettivi dei
concorrenti;
Ed invero, è proprio il nuovo regime
diversificato di impugnazione previsto dal citato art. 120,
comma 2-bis, del cpa, introdotto nel 2016, che impone una
tale interpretazione, nel senso cioè che l’operatore
economico possa accedere alla documentazione amministrativa
e ai verbali di gara relativi alla fase di ammissione dei
concorrenti, già nella fase iniziale della procedura
selettiva (senza attendere cioè quella finale di
aggiudicazione, come era previsto nel vecchio regime di cui
al D.lgs. n. 163 del 2006) e che il differimento previsto
dall’art. 53, comma 2, lett. c), del D.lgs. n. 50 del 2016
sia ormai limitato alle buste della proposta che contengono
le offerte tecniche e economiche
(cfr. in tal senso, TAR Lazio, sez. III, n. 3971 del
28.03.2017);
D’altro canto, non sussiste alcuna esigenza
di differimento delle richieste di accesso a tale
documentazione amministrativa una volta conclusa la fase
delle ammissioni e delle esclusioni, né verrebbe violata
alcuna esigenza di riservatezza essendo noto il contenuta
della busta contenente la documentazione amministrativa una
volta aperta la stessa, né, quindi, potrebbe in alcun modo
configurarsi alcuna violazione da parte dei pubblici
ufficiali rilevante ai sensi dell’art. 326 c.p., richiamato
dal comma 4 dell’art. 53 del D.lgs. 50/2016;
Pertanto, l’istanza avanzata dalla Ga.Ro. deve essere
accolta e deve essere ordinato all’Amministrazione
resistente di consentire alla stessa l’accesso alla
documentazione amministrativa richiesta relativa alla Fr. e
ai verbali di gara, entro il termine di 15 giorni dalla
comunicazione in via amministrativa della presente ordinanza
ovvero dalla notifica, se antecedente. |
EDILIZIA PRIVATA: Regolamento
unico edilizio, norma salva.
Non sono state accolte dalla Consulta, con
la
sentenza 26.05.2017 n. 125, le
questioni di legittimità costituzionali,
sollevate dalla regione Puglia e dalla
provincia autonoma di Trento, che hanno
promosso due distinti ricorsi, iscritti
rispettivamente ai numeri 5 e 9 del registro
2015, lamentando l'incostituzionalità
dell'art. 17-bis (Regolamento unico
edilizio) del dl 133/2014 (Misure urgenti
per l'apertura dei cantieri, la
realizzazione delle opere pubbliche),
convertito, con modificazioni, dalla legge
n. 164/2014.
La norma impugnata aggiunge il
comma 1-sexies all'art. 4 del dpr n.
380/2001, stabilendo che in sede di
Conferenza unificata il governo, le regioni
e le autonomie locali stipulano accordi o
intese per l'adozione di uno schema di
regolamento edilizio-tipo e che «tali
accordi costituiscono livello essenziale
delle prestazioni, concernenti la tutela
della concorrenza e i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto
il territorio nazionale».
La regione
sosteneva che la disposizione fosse in
contrasto con l'art. 117, commi 2, 3 6, della
Costituzione perché la disciplina in
questione, nelle materie «determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili e sociali» e
«tutela della concorrenza», rientrerebbe
nella competenza statale esclusiva, ma la
norma non andrebbe a individuare una
prestazione da erogare, definendo poi i
livelli strutturali e qualitativi necessari
per soddisfare i diritti. La potestà
regolamentare spetterebbe allo stato solo
nelle materie di legislazione esclusiva: in
questo caso, l'ausilio dello schema di
regolamento-tipo integrerebbe gli estremi di
una fonte regolamentare, invasiva della
potestà riconosciuta alle regioni,
sottolineava la difesa.
Secondo la Corte, la
legge non ha perso la propria competenza
attribuendo a un atto sub-legislativo il
compito di disciplinare una materia affidata
al legislatore statale che, infatti, detta
tutti gli estremi necessari per raggiungere
l'uniformità nazionale in un ambito di
interesse. La scelta di rinviare ad altri
atti l'identificazione delle specifiche
caratteristiche è possibile, come confermano
precedenti sentenze della Consulta. Lo
schema di regolamento-tipo è privo dei
contenuti propri delle fonti regolamentari e
ha solo la funzione di raccordo e
coordinamento meramente tecnico e
redazionale. Fra l'altro, dopo l'intesa, gli
enti locali, adeguandosi al tipo stabilito
in Conferenza, potranno fare interventi in
linea con le peculiarità territoriali grazie
all'esercizio delle potestà regolamentari
loro attribuite in materia edilizia.
Invece
la provincia asseriva che la norma violasse
l'art. 117, comma secondo, lettere e) e m),
della Costituzione, ledendo la potestà
legislativa primaria e la potestà
amministrativa in materia di «urbanistica e
piani regolatori» delle province autonome.
Ma la norma è inapplicabile alle province
autonome perché impedita dalla clausola di
salvaguardia richiamata dall'art. 43-bis del
dl. n. 133/2014 che prevede che «le norme
trovino applicazione nelle Regioni a statuto
speciale e nelle Province autonome
compatibilmente con le norme dei rispettivi
statuti e con le relative norme di
attuazione»
(articolo ItaliaOggi del
27.05.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
La Corte costituzionale riconduce lo schema
di regolamento edilizio-tipo adottato in sede di conferenza
unificata Stato–Regioni–Enti locali tra i principi
fondamentali del governo del territorio.
---------------
Regolamento edilizio tipo – Accordo in sede di Conferenza
unificata – Questione infondata di costituzionalità.
E’ infondata la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 17-bis del decreto-legge
12.09.2014, n. 133 (Misure urgenti per l’apertura dei
cantieri, la realizzazione delle opere pubbliche, la
digitalizzazione del Paese, la semplificazione burocratica,
l’emergenza del dissesto idrogeologico e per la ripresa
delle attività produttive), convertito, con modificazioni,
dalla legge 11.11.2014, n. 164, promossa, in riferimento
all’art. 117, secondo, terzo e sesto comma, della
Costituzione nella parte in cui afferma «[i]l Governo, le
regioni e le autonomie locali, in attuazione del principio
di leale collaborazione, concludono in sede di Conferenza
unificata accordi ai sensi dell’articolo 9 del decreto
legislativo 28.08.1997, n. 281, o intese ai sensi
dell’articolo 8 della legge 05.06.2003, n. 131, per
l’adozione di uno schema di regolamento edilizio-tipo, al
fine di semplificare e uniformare le norme e gli
adempimenti. Ai sensi dell’articolo 117, secondo comma,
lettere e) e m), della Costituzione, tali accordi
costituiscono livello essenziale delle prestazioni,
concernenti la tutela della concorrenza e i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
nazionale. Il regolamento edilizio-tipo, che indica i
requisiti prestazionali degli edifici, con particolare
riguardo alla sicurezza e al risparmio energetico, è
adottato dai comuni nei termini fissati dai suddetti
accordi, comunque entro i termini previsti dall’articolo 2
della legge 07.08.1990, n. 241, e successive modificazioni».
(1)
---------------
(1) I.- Con la sentenza n. 125 del 2017, la Corte
costituzionale ha ritenuto infondate, in riferimento agli
artt. 117, commi secondo, terzo e sesto, della Costituzione,
le questioni di legittimità costituzionale di cui alla
massima sollevate dalla Regione Puglia e quelle analoghe
proposte dalla Provincia autonoma di Trento in relazione
però alle norme di attuazione dello statuto speciale per il
Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti
legislativi statali e leggi regionali e provinciali.
La Regione Puglia, in particolare, aveva impugnato la norma
di legge lamentando in particolare che:
a) la disciplina in esame non rientrerebbe nelle materie «determinazione
dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali» e «tutela della concorrenza»,
di competenza statale esclusiva (art. 117, secondo comma,
lettere e) e m). La disposizione in esame infatti non
individuerebbe una prestazione da erogare, di cui è
necessario definire i livelli strutturali e qualitativi
capaci di soddisfare i diritti civili e sociali tutelati
dalla Costituzione, ma disciplinerebbe una funzione
normativa concernente le modalità di adozione e i contenuti
del regolamento edilizio-tipo;
b) l’intervento legislativo de quo ricadrebbe, invece,
nella materia di competenza concorrente «governo del
territorio», in riferimento alla quale è attribuito al
legislatore statale il potere di dettare i principi
fondamentali della materia in forma di legge e non di
regolamento, come accaduto nel caso di specie. Ne
discenderebbe, secondo la ricorrente, non solo la violazione
dell’art. 117, terzo comma, Cost., ma anche del sesto comma
dello stesso articolo, il quale stabilisce che la potestà
regolamentare spetta allo Stato soltanto nelle materie di
legislazione esclusiva.
II.- La Corte costituzionale, ha ritenuto le questioni non
fondate sulla scorta delle seguenti considerazioni:
c) pur condividendo la doglianza regionale circa la impossibilità
di ricondurre la disciplina in questione alle materie di
competenza statale esclusiva dei «livelli essenziali
delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali»
e della «tutela della concorrenza», tenuto altresì
conto della irrilevanza della auto-qualificazione
legislativa, la Corte osserva tuttavia che la norma in
questione ha posto un criterio procedurale, di natura
concertativa, finalizzato a semplificare la struttura dei
regolamenti edilizi, anche attraverso la predisposizione di
definizioni uniformi sull’intero territorio nazionale.
La decisione di ricorrere a uno schema “tipo”,
riflettendo tale esigenza unitaria e non frazionabile, viene
pertanto annoverata a pieno titolo tra i principi
fondamentali del governo del territorio e quindi
legittimamente ricompresa nella competenza statale
esclusiva, senza tuttavia pregiudicare la possibilità, per
le singole regioni, di operare nell’ambito dello schema e di
svolgere una funzione di raccordo con gli enti locali
operanti sul loro territorio;
d) è da escludersi che legge statale si sia spogliata della
propria competenza, attribuendo ad un atto sub-legislativo
il compito di disciplinare una materia che l’art. 117, terzo
comma, Cost. affida al legislatore. La disposizione
censurata, infatti, non contiene una autorizzazione “in
bianco”, non omettendo di indicare i soggetti
interessati, l’obiettivo da perseguire, il metodo e gli
adempimenti procedurali necessari a unificare e coordinare
la struttura e il lessico dei regolamenti edilizi locali;
e) è ben possibile che il legislatore rinvii ad atti integrativi
e ad essi affidi «il compito di individuare le
specifiche caratteristiche della fattispecie tecnica […] le
quali necessitano di applicazione uniforme in tutto il
territorio nazionale» e «mal si conciliano con il diretto
contenuto di un atto legislativo» (Corte
cost. sentenza n. 11 del 2014).
Poiché se è ovvio che tali atti, «qualora autonomamente
presi, non possono assurgere al rango di normativa
interposta, altra è la conclusione cui deve giungersi ove
essi vengano strettamente ad integrare, in settori
squisitamente tecnici, la normativa primaria che ad essi
rinvia» (Corte cost. sentenza n. 11 del 2014);
f) la disciplina statale che rimette a decreti ministeriali
l’approvazione di talune norme tecniche per le costruzioni
costituisce «chiara espressione di un principio
fondamentale» (Corte
cost. sentenze n. 282 del 2016
e n.
254 del 2010;
nello stesso senso,
sentenza n. 41 del 2017);
g) è da escludersi che lo schema di regolamento-tipo integrerebbe
gli estremi di una fonte regolamentare statale, invasiva
della potestà riconosciuta alle regioni nelle materie di
legislazione concorrente. Il regolamento tipo non ha alcun
contenuto innovativo della disciplina dell’edilizia ma
svolge una funzione di raccordo e coordinamento meramente
tecnico e redazionale, venendo a completare il principio
(fondamentale) contenuto nella disposizione legislativa
sicché ben potrebbe essere adottato in una materia di
legislazione concorrente in quanto, come già precisato, «[l]’art.
117, sesto comma, Cost. […] preclude allo Stato, nelle
materie di legislazione concorrente, non già l’adozione di
qualsivoglia atto sub-legislativo, […] bensì dei soli
regolamenti, che sono fonti del diritto, costitutive di un
determinato assetto dell’ordinamento» (Corte
cost. sentenza n. 284 del 2016);
h) all’intesa potrà seguire il recepimento regionale e
l’esercizio del potere regolamentare da parte degli enti
locali. Questi, nell’adempiere al necessario obbligo di
adeguamento delle proprie fonti normative al “tipo”
concertato in Conferenza unificata e recepito dalle singole
Regioni, godranno di un ragionevole spazio per intervenire
con riferimenti normativi idonei a riflettere le peculiarità
territoriali e urbanistiche del singolo comune, tramite
l’esercizio delle potestà regolamentari loro attribuite in
materia edilizia (art. 117, sesto comma, Cost.; artt. 2,
comma 4, e 4 del citato TUEL).
Ad una soluzione identica, anche se tramite un percorso
argomentativo in parte diverso, la Corte perviene in
riferimento al ricorso proposto dalla Provincia autonoma di
Trento.
III.- Sui rapporti tra Stato e Regioni in materia di Governo
del territorio, e sulla individuazione dei principi
fondamentali all’interno del t.u. ed. si vedano:
i) Corte
cost., sentenza 13.04.2017, n. 84
oggetto della
NEWS US del 10.05.2017
ed i richiami di giurisprudenza e di dottrina ivi segnalati;
j) Corte
cost., sentenza 09.03.2016, n. 49
in Riv. giur. edilizia, 2016, I, 8, con nota di
STRAZZA; Giur. it., 2016, 2233 (m), con nota di
VIPIANA PERPETUA, secondo cui «È costituzionalmente
illegittimo, per violazione dell’art. 117, 3º comma, cost.,
l’art. 84-bis, 2º comma, lett. b), l.reg. Toscana 03.01.2005
n. 1, che stabilisce la possibilità per l’amministrazione di
esercitare poteri sanzionatori per la repressione degli
abusi edilizi, anche oltre il termine di trenta giorni dalla
presentazione della Scia, in un numero più ampio di ipotesi
rispetto alla previsione statale; nell’ambito della materia
concorrente del «governo del territorio», i titoli
abilitativi agli interventi edilizi costituiscono oggetto di
una disciplina che assurge a principio fondamentale e tale
valutazione deve ritenersi valida anche per la denuncia di
inizio attività (Dia) e per la segnalazione certificata di
inizio attività (Scia), che si inseriscono in una
fattispecie, il cui effetto è pur sempre quello di
legittimare il privato ad effettuare gli interventi edilizi;
tale fattispecie ha una struttura complessa e non si
esaurisce, rispettivamente, con la dichiarazione o la
segnalazione, ma si sviluppa in due fasi ulteriori: una
prima, di ordinaria attività di controllo
dell’amministrazione; una seconda, in cui può esercitarsi
l’autotutela amministrativa; anche le condizioni e le
modalità di esercizio dell’intervento della p.a., una volta
che siano esauriti i termini prescritti dalla normativa
statale, devono considerarsi il necessario completamento
della disciplina dei titoli abitativi, poiché
l’individuazione della loro consistenza e della loro
efficacia non può prescindere dalla capacità di resistenza
rispetto alle verifiche effettuate dall’amministrazione
successivamente alla maturazione degli stessi; la disciplina
di questa fase ulteriore è, dunque, parte integrante del
titolo abilitativo e costituisce un tutt’uno inscindibile;
il suo perno è costituito da un istituto di portata generale
-quello dell’autotutela- che si colloca allo snodo
delicatissimo del rapporto fra il potere amministrativo e il
suo riesercizio, da una parte, e la tutela dell’affidamento
del privato, dall’altra; ne deriva che la disciplina de qua
costituisce espressione di un principio fondamentale della
materia «governo del territorio»; la normativa regionale,
nell’attribuire all’amministrazione un potere di intervento,
lungi dall’adottare disposizioni di dettaglio, ha introdotto
una disciplina sostitutiva dei principi fondamentali dettati
dal legislatore statale, toccando i punti nevralgici del
sistema elaborato nella legge sul procedimento
amministrativo e con tutti i rischi per la certezza e
l’unitarietà dello stesso»;
k) Corte
cost., 12.04.2013, n. 64
in Foro it., 2014, I, 2299 secondo cui «È
incostituzionale l’art. 1, 1º e 2º comma, l.reg. Veneto
24.02.2012 n. 9, nella parte in cui prevede che, nell’ambito
degli interventi edilizi nelle zone classificate sismiche, è
esclusa, anche con riguardo ai procedimenti in corso, la
necessità del previo rilascio delle autorizzazioni del
competente ufficio tecnico regionale per i «progetti» e le
«opere di modesta complessità strutturale», privi di
rilevanza per la pubblica incolumità, individuati dalla
giunta regionale in base ad una procedura nella quale è
prevista l’obbligatoria assunzione di un semplice parere da
parte della commissione sismica regionale»
(Corte
Costituzionale,
sentenza 26.05.2017 n. 125
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI: L’obbligo
di motivazione dei provvedimenti amministrativi è inteso
dalla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato secondo una concezione sostanziale/funzionale, nel
senso che esso è da intendersi rispettato quando l’atto reca
l’esternazione del percorso logico-giuridico seguito
dall’amministrazione per giungere alla decisione adottata e
il destinatario è in grado di comprendere le ragioni di
quest’ultimo e, conseguentemente, di utilmente accedere alla
tutela giurisdizionale, in conformità ai principi di cui
agli artt. 24 e 113 della Costituzione.
---------------
11. La prima censura è infondata.
Deve premettersi che l’obbligo di motivazione dei
provvedimenti amministrativi è inteso dalla consolidata
giurisprudenza di questo Consiglio di Stato secondo una
concezione sostanziale/funzionale, nel senso che esso è da
intendersi rispettato quando l’atto reca l’esternazione del
percorso logico-giuridico seguito dall’amministrazione per
giungere alla decisione adottata e il destinatario è in
grado di comprendere le ragioni di quest’ultimo e,
conseguentemente, di utilmente accedere alla tutela
giurisdizionale, in conformità ai principi di cui agli artt.
24 e 113 della Costituzione (da ultimo: Cons. Stato, III,
23.11.2015, nn. 5311 e 5312; IV, 21.04.2015, n. 2011; V,
24.11.2016, n. 4959, 23.09.2015, n. 4443, 28.07.2015, n.
3702, 14.04.2015, n. 1875, 24.03.2014, n. 1420; VI,
06.12.2016, n. 5150).
Con riferimento al caso di specie può rilevarsi che nel
verbale della seduta del 22.07.2015 della commissione
giudicatrice le ragioni dell’esclusione sono espresse
attraverso il richiamo alla previsione di cui al punto 1.4.
del disciplinare di gara, secondo cui le proposte formulate
dagli offerenti devono «adeguarsi alle quantità e alle
tipologie dei corpi illuminanti previste nel progetto
preliminare approvato», mentre «non verranno tenute
in considerazione proposte di modifica delle tipologie
richiamate».
Ciò è, ad avviso della Sezione, sufficiente a fare
comprendere in modo compiuto le ragioni del provvedimento
lesivo per l’interessato e a controdedurre sul punto in sede
giurisdizionale, il che trova conferma proprio
nell’introduzione della controversia in trattazione
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 25.05.2017 n. 2457 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI -
EDILIZIA PRIVATA: Il
risarcimento del danno derivante da procedimento
amministrativo illegittimo, per ciò che riguarda
l'ammissibilità della domanda, giurisprudenza consolidata
ritiene non sufficiente il mero annullamento del
provvedimento lesivo, essendo necessario sia fornita la
prova sia del danno subito, sia dell'elemento soggettivo del
dolo o della colpa dell'Amministrazione, configurabili
quando l'adozione dell'atto illegittimo è avvenuta in
violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa,
quali desumibili sia dai principi costituzionali
d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge
ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e
trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento,
quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
Essa è quindi connessa alla particolare dimensione della
responsabilità dell'Amministrazione per lesione di interessi
legittimi, identificabili con quelli al c.d. giusto
procedimento, il quale richiede competenza, attenzione,
celerità ed efficacia, necessari parametri di valutazione
dell'azione amministrativa.
---------------
... per la riforma della
sentenza 01.06.2015 n. 851 del TAR Toscana, Sez.
II, resa tra le parti, concernente condanna al risarcimento
del danno a seguito di illegittimo diniego di autorizzazione
per la realizzazione impianto fotovoltaico;
...
L’appello della Provincia di Grosseto è fondato, in
particolare dove lamenta la mancata prova della sussistenza
dei presupposti soggettivi dell’illecito.
Oggetto del ricorso di primo grado e della conseguente
sentenza è la domanda di risarcimento dei danni
asseritamente subiti da An.Me. derivante dal diniego opposto
dall’Amministrazione provinciale alla richiesta di
autorizzazione per realizzazione di impianto fotovoltaico e
del ritardo che ne è seguito, causa il primitivo diniego poi
annullato dal giudice.
La stessa sentenza di prime cure spiega che il mancato
rilascio dell’autorizzazione unica è derivato dall’esito
negativo della conferenza dei servizi del 19.10.2010,
motivato dal parere di non conformità del progetto con il
piano territoriale di coordinamento vigente, perché tale
impianto non sarebbe stato localizzato in campi chiusi ma in
un’area visibile da media distanza, perché localizzata nelle
prime propaggini di un versante collinare adiacente un’area
pianeggiante e quindi in base a valutazioni sui valori
ambientali coinvolti e di conseguenza eminentemente
discrezionale.
Non va sottaciuto infatti che tale diniego era scaturito da
varie considerazioni, non ultimo che il Comune di
Castiglione della Pescaia, interessato dalla Me. il
24.06.2010 per l’approvazione del programma aziendale
pluriennale di miglioramento agricolo ambientale (P.A.P.M.A.A.)
necessario per realizzare l’impianto, non si era pronunciato
e lo ha poi fatto con rilevante ritardo il 20.03.2012, il
che costituisce una grave responsabilità; ma va anche
rilevato che l’autorizzazione non era atto vincolato da
emanarsi a seguito di meri accertamenti, ma che richiedeva
valutazioni sulla qualità dell’unità morfologica
territoriale (U.M.T.) cui i fondi dell’interessata
appartengono.
La sentenza che ha annullato il diniego cita l’area
interessata come area collinare dovevano valorizzate le
risorse storico-naturali, vanno promosse opere di
miglioramento dell’ambiente dello spazio rurale, limitati
degli erosivi derivanti dalla presenza di vigneti
specializzati; tali indirizzi, dettati dal Piano
territoriale di coordinamento provinciale, non potevano però
essere considerati come incompatibili in assoluto con la
realizzazione dell’impianto energetico da fonte rinnovabile;
nemmeno il piano territoriale prevedeva preclusioni
generalizzate per questi, se non criteri di ammissibilità
coerenti con i valori identitari di ogni unità morfologica,
per perseguire la tutela degli ambiti di rilevante pregio
naturalistico e paesaggistico e verificare in concreto
l’impatto dell’impianto, nel bilanciamento degli interessi
contrapposti e tenendo conto che vi erano unità morfologiche
più vulnerabili di quelle interessata, né che l’intervento
riguardasse la produzione di energia eolica, ben più
invasiva [in coerenza con TAR Toscana, II, 25.06.2007, n.
939].
Perciò fondamentale è stata la successiva approvazione del
P.A.P.M.A.A. da parte del Comune, intervenuta con
deplorevole ritardo, ma comunque senza domande di
risarcimento: ritardo di cui non può rispondere una diversa
amministrazione. In ogni caso è importante che anche tale
ultimo atto presupposto aveva carattere di discrezionalità.
Si deve da un lato preliminarmente considerare che per il
risarcimento del danno derivante da procedimento
amministrativo illegittimo, per ciò che riguarda
l'ammissibilità della domanda, giurisprudenza consolidata
ritiene non sufficiente il mero annullamento del
provvedimento lesivo, essendo necessario sia fornita la
prova sia del danno subito, sia dell'elemento soggettivo del
dolo o della colpa dell'Amministrazione, configurabili
quando l'adozione dell'atto illegittimo è avvenuta in
violazione delle regole proprie dell'azione amministrativa,
quali desumibili sia dai principi costituzionali
d'imparzialità e buon andamento, sia dalle norme di legge
ordinaria in materia di celerità, efficienza, efficacia e
trasparenza, sia dai principi generali dell'ordinamento,
quanto a ragionevolezza, proporzionalità ed adeguatezza.
Essa è quindi connessa alla particolare dimensione della
responsabilità dell'Amministrazione per lesione di interessi
legittimi, identificabili con quelli al c.d. giusto
procedimento, il quale richiede competenza, attenzione,
celerità ed efficacia, necessari parametri di valutazione
dell'azione amministrativa (Cons. Stato, V, 08.04.2014 n.
1644).
Nella specie, la sentenza non ha mosso considerazioni sulle
colpe ipoteticamente ascrivibili alla Provincia di Grosseto;
ma passando in esame il suo comportamento, esso non pare
caratterizzato da violazione di regole su trasparenza o
celerità, né di quelle costituzionali a presidio dei
principi di imparzialità e buon andamento.
L’Amministrazione ha avuto una particolare attenzione nei
confronti della tutela paesaggistica, attenzione mancata nel
passato e sanzionata dal Tribunale amministrativo della
Toscana proprio in tema di energie alternative e non può
ignorarsi che la Provincia si trovava di fronte ad una
fattispecie latamente discrezionale in cui le attenzioni
sono particolarmente dovute e ciò senza l’ausilio
dell’approvazione del P.A.P.M.A.A., carenza che rendeva
l’azione amministrativa di un sostegno istruttorio di grande
rilievo.
Inoltre la Provincia era tenuta ad un’istruttoria
coinvolgente altre amministrazioni. Sicché le cause potevano
essere ascritte agli uffici provinciali. Tra dette altre
amministrazioni coinvolte vi era il Comune (peraltro non
intimato). La circostanza della presenza di
un’ingiustificato ritardo nel pronunciarsi sul P.A.P.M.A.A.,
passaggio necessario per la Provincia al fine di esprimersi
compiutamente, non necessariamente può dunque essere
riferita alla Provincia medesima.
Per le ragioni suesposte l’appello va accolto con
conseguente riforma della sentenza impugnata
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 24.05.2017 n. 2446 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA: L'annullamento
della destinazione urbanistica di un'area -rectius:
dell'atto che la dispone-, in conseguenza dell'efficacia
retroattiva della pronuncia caducatoria, comporta la
riviviscenza della pregressa disciplina urbanistica di tale
area.
---------------
7. In conclusione, stante la fondatezza della seconda
censura dedotta col ricorso principale e vista la fondatezza
del corrispondente profilo di illegittimità derivata,
dedotto con i primi e con i secondi motivi aggiunti, il
ricorso stesso ed i motivi aggiunti devono essere accolti,
restando assorbite le censure non esaminate.
Per l’effetto va annullato, oltre all’impugnato diniego, il
regolamento urbanistico in parte qua, con conseguente
riviviscenza, quanto alla proprietà della ricorrente, della
disciplina urbanistica dettata dal previgente piano
regolatore generale.
Invero, la caducazione della variante urbanistica determina
la reviviscenza delle previsioni di piano precedenti,
modificate dalla variante poi annullata (Cons. Stato, V,
22.02.2007, n. 954; idem, IV, 06.05.2004, n. 2800; TAR
Lombardia, Milano, II, 02.12.2011, n. 3084; TAR Toscana, I,
10.12.2009, n. 3267; TAR Lazio, Roma, II, 02.11.2000, n.
8874; TAR Friuli Venezia Giulia, I, 29.07.2014, n. 423: “l'annullamento
della destinazione urbanistica di un'area -rectius:
dell'atto che la dispone-, in conseguenza dell'efficacia
retroattiva della pronuncia caducatoria, comporta la
riviviscenza della pregressa disciplina urbanistica di tale
area").
Pertanto, per effetto dell’annullamento del regolamento
urbanistico o di una sua variante il terreno avrà quella
medesima destinazione che avrebbe avuto se tale ultimo atto
non fosse mai venuto ad esistenza (Cons. Stato, IV,
28.01.2002, n. 456)
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 23.05.2017 n. 725
- link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Commissione
di gara, presidenza non al Rup. Regola
applicabile subito.
Il Rup (Responsabile unico del procedimento)
non può essere nominato presidente della
commissione giudicatrice; la regola è
applicabile anche adesso e non occorre
attendere l'istituzione dell'albo Anac dei
commissari di gara.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Latina,
Sez. I, con la
sentenza 23.05.2017 n. 325
che esamina alcuni profili
inerenti il ruolo del Rup nelle commissioni
giudicatrici.
Nel caso esaminato dai giudici il Rup era
stato nominato presidente della commissione
di gara e aveva anche svolto la funzione di
componente di un'altra commissione di gara
per l'affidamento di un analogo servizio
presso un diverso comune (gara vinta da un
partecipante alla gara oggetto di esame da
parte del Tar).
Rispetto a tali censure i
giudici hanno accolto il ricorso affermando
che il Rup non può essere membro della
commissione; benché la compatibilità tra le
due funzioni sia stata di recente affermata
in giurisprudenza. Per i giudici laziali ciò
si desume dal confronto tra la previsione
del soppresso articolo 84, dlgs 12.04.2006, n. 163 secondo cui «i commissari
diversi dal presidente non devono aver
svolto né possono svolgere alcun'altra
funzione o incarico tecnico o amministrativo
relativamente al contratto del cui
affidamento si tratta» e la formulazione
dell'articolo 77, comma 4, dlgs. 19.04.2016, n. 50 secondo cui «i commissari non
devono aver svolto né possono svolgere
alcun'altra funzione o incarico tecnico o
amministrativo relativamente al contratto
del cui affidamento si tratta».
Per il Tar la mancata esclusione del
presidente dalla regola prevista
dall'articolo 77 implica chiaramente che il
Rup non possa essere componente della
commissione nemmeno quale presidente. Ciò
comporta il superamento della giurisprudenza
formatasi sotto il codice De Lise e, ha
sottolineato il Tar, l'applicazione
immediata dell'art. 77, comma 4, che di fatto
vieta la nomina del Rup, come nel caso
esaminato, a presidente della commissione
anche in assenza dell'istituzione dell'albo
dei commissari previsto dall'articolo 77,
comma 3, del codice, norma «formulata in
termini generali e pertanto immediatamente
efficace».
Da notare, però, che il decreto
correttivo rimette a una valutazione
specifica la possibilità di nomina del Rup a
commissario di gara
(articolo ItaliaOggi del
02.06.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
La recente giurisprudenza amministrativa,
evidenziando che le cc.dd. “pergotende” non possono essere
considerate “opere precarie” ex art. 3, comma 1, lett. e),
del T.U. dell’Edilizia, perché non si connotano per una
temporaneità della loro utilizzazione, ma piuttosto per
costituire un elemento di migliore fruizione dello spazio,
comunque duraturo, ha approfondito la questione della
necessità o meno del previo rilascio del titolo abilitativo
per la loro realizzazione, osservando come una struttura in
alluminio anodizzato destinata ad ospitare una tenda
retrattile in tessuto come quella in questione, non integri,
in primo luogo, gli effetti di “trasformazione edilizia e
urbanistica del territorio” propri degli “interventi di
nuova costruzione” ex artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la
struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione
dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dello spazio esterno del locale;
considerata in tale contesto, la struttura in alluminio
anodizzato si qualifica in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della
tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non
vale a configurare una “nuova costruzione”, attese la sua
realizzazione in tessuto e la sua natura retrattile, che,
escludendo elementi di fissità e stabilità nella copertura,
priva di qualsiasi tamponatura laterale, fanno sì che non
possa parlarsi di uno spazio chiuso e della creazione di
nuova superficie o nuovo volume.
---------------
Con il ricorso in epigrafe la Br. s.r.l., società esercente
attività di somministrazione di alimenti e bevande nel
locale commerciale di via ... 2/4, ha dedotto di aver
chiesto ed ottenuto da Roma Capitale, con determinazione
dirigenziale prot CI/235212/2014, per l’area pertinenziale
esterna al suo locale, la concessione per l’occupazione di
suolo pubblico con tenda autoportante, tavoli, sedie e
fioriere, secondo i progetti depositati a supporto
dell’istanza, ma di aver successivamente ricevuto, proprio
in relazione alla suddetta struttura (realizzata in
alluminio, poggiante su 6 pali alloggiati in 6 vasi,
sostenuta da un sistema di assemblaggio laterale di staffe
inox e fusioni in alluminio e non fissata sul muro
perimetrale del fabbricato), avviso di apertura del
procedimento amministrativo per realizzazione di opere
abusive e l’ordinanza n. 1057/2016 di rimozione
dell’installazione.
In merito a tale ultimo provvedimento, la Br. s.r.l. ha,
quindi, lamentato l’errata rappresentazione da parte
dell’Amministrazione, del manufatto in questione, che non
era stato considerato negli elementi decisivi ai fini del
suo corretto inquadramento, costituiti, appunto, dalla
copertura retrattile e dalla funzione di semplice sostegno
della tenda svolta dalla struttura in alluminio leggero, la
cui apposizione doveva considerarsi assolutamente
irrilevante dal punto di vista urbanistico - edilizio, ferma
restando la necessità per l’occupazione del suolo pubblico
della specifica concessione.
Tali censure sono fondate e meritevoli di accoglimento.
La recente giurisprudenza amministrativa, (cfr. Cons. St.,
Sez. VI, 17.04.2016 n. 1619), evidenziando che le cc.dd. “pergotende”
non possono essere considerate “opere precarie” ex
art. 3, comma 1, lett. e), del T.U. dell’Edilizia, perché
non si connotano per una temporaneità della loro
utilizzazione, ma piuttosto per costituire un elemento di
migliore fruizione dello spazio, comunque duraturo, ha
approfondito la questione della necessità o meno del previo
rilascio del titolo abilitativo per la loro realizzazione,
osservando come una struttura in alluminio anodizzato
destinata ad ospitare una tenda retrattile in tessuto come
quella in questione, non integri, in primo luogo, gli
effetti di “trasformazione edilizia e urbanistica del
territorio” propri degli “interventi di nuova
costruzione” ex artt. 3 e 10 DPR n. 380/2001.
Va, invero, considerato che l’opera principale non è la
struttura in sé, ma la tenda, quale elemento di protezione
dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata ad una
migliore fruizione dello spazio esterno del locale;
considerata in tale contesto, la struttura in alluminio
anodizzato si qualifica in termini di mero elemento
accessorio, necessario al sostegno e all’estensione della
tenda.
Quest’ultima, poi, integrata alla struttura portante, non
vale a configurare una “nuova costruzione”, attese la
sua realizzazione in tessuto e la sua natura retrattile,
che, escludendo elementi di fissità e stabilità nella
copertura, priva di qualsiasi tamponatura laterale, fanno sì
che non possa parlarsi di uno spazio chiuso e della
creazione di nuova superficie o nuovo volume.
Allo stesso modo, deve ritenersi che non sia integrata la
fattispecie della ristrutturazione edilizia, richiamata,
invece, erroneamente nella determinazione impugnata.
Invero, ai sensi dell’articolo 3, lettera d), del dpr n.
380/2001, tale tipologia di intervento edilizio fa
riferimento ad “interventi rivolti a trasformare gli
organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere”,
i quali “comprendono il ripristino o la sostituzione di
alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione,
la modifica e l’inserimento di nuovi elementi e impianti”.
Orbene, la disposizione, così come declinata dal
legislatore, richiede comunque che le opere realizzate
abbiano consistenza e rilevanza edilizia, siano cioè tali da
poter “trasformare l’organismo edilizio”,
condividendo pertanto natura e consistenza degli elementi
costitutivi di esso.
Tali caratteristiche risultano all’evidenza non sussistenti
nella fattispecie della struttura in alluminio anodizzato
atta ad ospitare una tenda retrattile, avuto riguardo alla
consistenza di tale intervento ed alla circostanza che
l’immobile accanto al quale essa è collocata è un fabbricato
in muratura, sulla cui originaria identità e conformazione
l’opera nuova non può certamente incidere.
Sulla base delle considerazioni sopra svolte deve, pertanto,
ritenersi che la struttura realizzata dalla ricorrente non
necessitasse del previo rilascio del permesso di costruire,
giacché la tenda retrattile che essa è unicamente destinata
a servire si risolve, in ultima analisi, in un mero elemento
di arredo dello spazio pertinenziale su cui insiste,
legittimamente occupato dalla ricorrente in virtù di
concessione di occupazione di suolo pubblico.
Tale interpretazione delle strutture in parola appare, in
verità, essere stata già condivisa dall’Amministrazione di
Roma Capitale nella circolare del 09.03.2012, nella quale,
alla lettera i) del punto 3.2 si specifica che, tra le
attività di edilizia libera (A.E.L.), sono ricomprese “tende
autoportanti, tende in aggetto, ombrelloni, pedane e
fioriere al servizio degli esercizi commerciali e di
ristorazione ubicate su suolo pubblico, ferma restando
l’acquisizione della specifica autorizzazione amministrativa
secondo quanto previsto dalle deliberazioni di Roma Capitale
in materia di occupazione suolo pubblico e naturalmente
esclusa la loro chiusura sui lati perimetrali”.
In conclusione, il ricorso deve essere, dunque, accolto, con
annullamento dell’atto impugnato ed assorbimento di ogni
altra doglianza (TAR
Lazio-Roma, Sez. II,
sentenza 22.05.2017 n. 6054 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Offerta anomala, non c'è
audizione. Tar Lazio su procedure di
verifica.
Non deve essere più convocato in audizione
il concorrente di una gara di appalto che ha
presentato un'offerta dichiarata anomala; i
termini per presentare le giustificazioni
non sono perentori e la verifica va condotta
sul complesso dell'offerta.
Lo ha precisato il Tar Lazio-Roma, Sez. III-quater, con la
sentenza 19.05.2017 n. 5979 nella quale si discuteva delle
modalità di svolgimento della procedura di
verifica delle offerte anomale.
Un primo punto sollevato riguardava la
necessità o meno di convocare in audizione
il concorrente anomalo; veniva contestata la
violazione di legge per omessa convocazione
della ricorrente, in audizione, nell'ambito
del giudizio di anomalia. Sul punto, i
giudici osservano come, in seguito
all'entrata in vigore del nuovo codice degli
appalti (decreto legislativo n. 50 del 2016)
quest'obbligo procedimentale,
precedentemente previsto, al ricorrere di
determinati presupposti, dall'art. 88, comma
4, dell'abrogato dlgs 163/2006, non sia più
altrimenti contemplato in seno all'art. 97
del nuovo codice.
Rispetto all'effetto derivante dal tardivo
riscontro alle richieste di giustificazione
dell'offerta nella sentenza ribadisce che
nelle gare pubbliche la mancata o anche la
sola tardiva produzione delle
giustificazioni dell'offerta e degli
eventuali chiarimenti non possono comportare
l'automatica esclusione dell'offerta
sospettata di anomalia e che i termini a tal
fine previsti non sono perentori, ma
sollecitatori, avendo lo scopo di
contemperare gli interessi del concorrente a
giustificare l'offerta e quelli
dell'amministrazione alla rapida conclusione
del procedimento di gara.
Sul tema delle modalità di svolgimento delle
verifiche di anomalia il Tar laziale ha
affermato che nelle gare pubbliche di
appalto il giudizio d'insostenibilità e
anomalia dell'offerta del concorrente deve
essere complessivo, nel senso di tener conto
di tutti gli elementi favorevoli o negativi,
tanto da poter giungere a ritenere credibili
voci di prezzo eccessivamente basse perché
accompagnate da altre voci sulle quali sono
possibili e realizzabili risparmi, al fine
di giungere ad una compensazione che lasci
l'offerta affidabile e seria a prescindere
dalla gestione interna dell'impresa
offerente
(articolo ItaliaOggi del
26.05.2017). |
APPALTI: Le
mere questioni formali non escludono
l'impresa.
Non si può escludere l'impresa dall'appalto
solo perché nell'offerta manca l'impegno del
fideiussore per l'esecuzione del contratto
previsto dal bando di gara: scatta infatti
il soccorso istruttorio a pagamento in
favore dell'azienda partecipante. E il
merito è anche del decreto correttivo al
codice dei contratti pubblici che mostra
come la legislazione in materia si evolva
nel senso di evitare l'estromissione dalla
procedura a evidenza pubblica per mere
omissioni formali.
È quanto emerge dalla
sentenza
19.05.2017 n. 1125,
pubblicata dalla IV Sez. del TAR
Lombardia-Milano.
Par condicio
Accolto il ricorso della società che si
candida a gestire i servizi di manutenzione
e riparazione di un termovalorizzatore,
nell'ambito della gara a procedura aperta
bandita da un organismo di diritto pubblico
che opera nel settore della gestione
ambientale.
È vero: nell'offerta dell'impresa esclusa
manca l'impegno del fideiussore a rilasciare
la garanzia prevista dall'articolo 103 del
decreto legislativo 50/2016 in caso di
aggiudicazione dell'appalto. Ma l'azienda
può pagare la sanzione pecuniaria e ottenere
così un termine per mettersi in regola: deve
infatti escludersi la violazione della par
condicio per i partecipanti all'appalto
perché l'omissione non incide sull'offerta
tecnica o economica e dunque
sull'attribuzione dei punteggi che decreta
la vittoria nella gara.
Lo stesso nuovo testo dell'articolo 83,
comma 9, del decreto legislativo 50/2016,
introdotto dal dlgs correttivo 56/2017,
indica che il legislatore guarda con favore
all'ampliamento del ricorso al soccorso
istruttorio
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2017).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è fondato, per le ragioni
che seguono.
La società istante è stata esclusa dalla
procedura per la mancanza del requisito di
cui all’art. 15 del disciplinare di gara, il
quale –in conformità alla previsione
dell’art. 93, comma 8, del D.Lgs. 50/2016–
impone che l’offerta contenente la cauzione
provvisoria del 2% dell’importo dell’appalto
sia corredata, a pena di esclusione,
dall’impegno di un fideiussore a rilasciare
la garanzia per l’esecuzione del contratto,
di cui all’art. 103 del D.Lgs. 50/2016,
qualora l’offerente risultasse
aggiudicatario.
In effetti, nel caso di specie, l’offerta
della ricorrente non riporta tale impegno;
tuttavia, come sostenuto nel gravame,
tale omissione non comporta l’automatica
esclusione dell’offerta, bensì l’onere per
la stazione appaltante di attivare il
procedimento di soccorso istruttorio di cui
all’art. 83, comma 9, secondo periodo, del
D.Lgs. 50/2016 (c.d. soccorso istruttorio a
pagamento).
Infatti, la norma dell’art. 93, comma 8, che
pure contiene l’inciso “a pena di
esclusione”, deve essere letta alla luce
dell’ulteriore disposizione dell’art. 83,
comma 9, che prevede (nel testo applicabile
ratione temporis alla presente
fattispecie) il soccorso istruttorio con
pagamento di una sanzione pecuniaria, in
caso di incompletezza, di mancanza e di ogni
altra irregolarità essenziale degli elementi
della domanda, “con esclusione di quelli
afferenti all’offerta tecnica ed economica”.
Nel caso di specie, l’impegno di un terzo
–vale a dire il fideiussore– al rilascio
della garanzia per l’esecuzione del
contratto non costituisce certamente un
elemento dell’offerta tecnica o economica,
bensì un differente elemento della domanda
di partecipazione, riguardante il regime
delle cauzioni da rilasciarsi da parte degli
operatori, ma non incide sul concreto
contenuto dell’offerta tecnica o economica
da valutarsi da parte della stazione
appaltante ai fini dell’attribuzione del
punteggio ai partecipanti alla procedura di
gara.
La possibilità di regolarizzare la mancanza
del succitato elemento (vale a dire
l’impegno al rilascio della garanzia
definitiva), non viola quindi il principio
della “par condicio” dei concorrenti
ed è anzi volta ad evitare l’esclusione per
difetto di un elemento meramente formale.
Le conclusioni alle quali lo scrivente
Collegio giunge con l’attuale pronuncia
trovano conferma nella giurisprudenza
formatasi nella vigenza del pregresso codice
dei contratti pubblici (D.Lgs. 163/2006), il
cui articolo 75, comma 8, ricalcava
l’attuale art. 93, comma 8
(cfr. sul punto, TAR Liguria, sez. II,
17.10.2016, n. 1023).
Parimenti, le medesime conclusioni sono
confermate dalla circostanza che
l’evoluzione legislativa è nel senso
dell’ampliamento degli spazi del soccorso
istruttorio, per evitare l’esclusione dalle
pubbliche gare per omissioni meramente
formali e prive di sostanziale rilevanza
(cfr. il nuovo testo dell’art. 83, comma 9,
così come introdotto dal D.Lgs. 56/2017 di
correzione del D.Lgs. 50/2016).
Per effetto dell’accoglimento del presente
gravame, deve essere annullato il
provvedimento di esclusione, con conseguente
onere di Ac. Spa di avviare il soccorso
istruttorio. |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati di omessa denuncia dei lavori e
presentazione dei progetti e di inizio dei lavori senza
preventiva autorizzazione - Natura permanente dei reati -
Violazione della normativa antisimica - Individuazione della
cessazione della permanenza - Artt. 64, 65, 71, 72, 93, 94,
95 e 101 dlgs n. 380/2001 - Giurisprudenza.
In materia antisismica, i reati di omessa denuncia dei
lavori e presentazione dei progetti e di inizio dei lavori
senza preventiva autorizzazione scritta dell'ufficio
competente hanno natura di reati permanenti, la cui
consumazione si protrae sino a quando il responsabile non
presenta la relativa denuncia con l'allegata documentazione,
non completa l'opera, ovvero, non ricorrendo alcuna delle
precedenti condizioni, sino alla data della sentenza di
condanna di primo grado (Corte di cassazione, Sezione III
penale, 20/01/2016, n. 2209; idem Sezione III penale,
14/01/2016, n. 1145).
Atteso che la lesione dell'interesse protetto dalla norma,
ravvisabile nell'apprestamento degli strumenti necessari
alla amministrazione competente per potere effettivamente ed
efficacemente esercitare i propri compiti in tema di
vigilanza sulla regolarità tecnica di ogni costruzione
eseguita in zona sismica, permane sin tanto che tale
controllo non viene consentito ovvero, una volta completata
la realizzazione dell'opera, esso risulta oramai
sostanzialmente non più utile.
Opere edilizie in zona sismica -
Acquisizione delle autorizzazioni in materia antisismica -
Necessità - Individuazione di un errore scusabile in capo
all'agente - Integrazione degli elementi soggettivi ed
oggettivi.
La realizzazione in zona sismica, di un ballatoio aggettante
esterno e la sostituzione e dislocazione di parte di una
scala interna, in assenza delle prescritte comunicazioni e
autorizzazioni integra l'elemento materiale della
contravvenzione in materia antisismica, mentre, ai fini
della integrazione dell'elemento soggettivo è sufficiente
accertare l'avvenuta consapevole violazione della norma
legislativa prescrittiva, in assenza di fattori che
avrebbero potuto legittimare l'individuazione di un errore
scusabile in capo all'agente, per giustificare quanto meno
la colposità della condotta (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 18.05.2017 n. 24574
- link a www.ambientediritto.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Reati
paesaggistici e reati urbanistici - Disciplina difforme e
differenziata - Effetti - Successivo provvedimento di
compatibilità paesaggistica - Condono ambientale - Art. 181 dlgs n. 42/2004.
Sanatoria urbanistica e
violazione paesaggistica - Artt. 36 e 44, comma 1, lettera
e), dPR n. 380/2001 - Giurisprudenza.
La concessione rilasciata a seguito di accertamento di
conformità ai sensi dell'art. 36 del dPR n. 380 del 2001
estingue i reati contravvenzionali previsti dalle norme
urbanistiche vigenti, ma non i reati paesaggistici previsti
dal dlgs, n. 42 del 2004, che sono soggetti ad una
disciplina difforme e differenziata, legittimamente e
costituzionalmente distinta, avente oggettività giuridica
diversa, rispetto a quella che riguarda l'assetto del
territorio sotto il profilo edilizio.
Né ha rilievo la circostanza che la ricorrente avesse anche
conseguito un provvedimento di compatibilità paesaggistica
posto che la circostanza di avere ottenuto detto
provvedimento non determina di per sé la non punibilità dei
reati in materia ambientale e paesaggistica, in quanto
compete sempre al giudice l'accertamento dei presupposti di
fatto e di diritto legittimanti l'applicazione del
cosiddetto condono ambientale (Corte di cassazione, Sezione
III penale, 06/04/2016, n. 13730) (Corte di Cassazione, Sez.
III penale,
sentenza 16.05.2017 n. 24111 - link a
www.ambientediritto.it). |
APPALTI: Aggiudicazione mancata, scatta il
risarcimento.
Danno per mancato profitto.
In caso di mancata aggiudicazione, ritenuta
illegittima, al concorrente spetta il
risarcimento del danno per lucro cessante
individuato come mancato profitto e come
«danno curriculare».
Lo ha chiarito
l'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
con la
sentenza
12.05.2017 n. 2 che ha
approfondito il tema della quantificazione
del danno nel caso di mancata aggiudicazione
del contratto.
In particolare la sentenza ha chiarito che
il danno conseguente al lucro cessante si
identifica con l'interesse cosiddetto
positivo, che ricomprende sia il mancato
profitto (che l'impresa avrebbe ricavato
dall'esecuzione dell'appalto), sia il danno
cosiddetto curriculare (cioè il pregiudizio
subìto dall'impresa a causa del mancato
arricchimento del curriculum e dell'immagine
professionale per non poter indicare in esso
l'avvenuta esecuzione dell'appalto).
Dal punto di vista dell'onere della prova,
spetta, in ogni caso, all'impresa
danneggiata offrire, senza poter ricorrere a
criteri forfettari, la prova rigorosa
dell'utile che in concreto avrebbe
conseguito, qualora fosse risultata
aggiudicataria dell'appalto. Questo perché,
dice il collegio, nell'azione di
responsabilità per danni il principio
dispositivo opera con pienezza e non è
temperato dal metodo acquisitivo proprio
dell'azione di annullamento di cui
all'articolo 64, commi 1 e 3, del codice di
procedura amministrativa; inoltre la
valutazione equitativa, ai sensi
dell'art. 1226 del codice civile, è ammessa
soltanto in presenza di situazione di
impossibilità, o di estrema difficoltà, di
una precisa prova sull'ammontare del danno.
Il mancato utile spetta nella misura
integrale, in caso di annullamento
dell'aggiudicazione impugnata e di certezza
dell'aggiudicazione in favore del
ricorrente, solo se questo dimostri di non
aver utilizzato o potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, in quanto
tenuti a disposizione in vista della
commessa. In difetto di tale dimostrazione,
può presumersi che l'impresa abbia
riutilizzato o potuto riutilizzare mezzi e
manodopera per altri lavori acquisiti o
acquisibili da altri committenti
(articolo ItaliaOggi del
19.05.2017).
---------------
MASSIMA
50. In conclusione, l’Adunanza plenaria
enuncia i seguenti principi di diritto:
1. Dal giudicato amministrativo, quando riconosce la fondatezza
della pretesa sostanziale, esaurendo ogni
margine di discrezionalità nel successivo
esercizio del potere, nasce ex lege,
in capo all’amministrazione,
un’obbligazione, il cui oggetto consiste nel
concedere “in natura” il bene della
vita di cui è stata riconosciuta la
spettanza.
2. L’impossibilità (sopravvenuta) di esecuzione in forma specifica
dell’obbligazione nascente dal giudicato
–che dà vita in capo all’amministrazione ad
una responsabilità assoggettabile al regime
della responsabilità di natura contrattuale,
che l’art. 112, comma 3, c.p.a., sottopone
peraltro ad un regime derogatorio rispetto
alla disciplina civilistica– non estingue
l’obbligazione, ma la converte, ex lege,
in una diversa obbligazione, di natura
risarcitoria, avente ad oggetto
l’equivalente monetario del bene della vita
riconosciuto dal giudicato in sostituzione
della esecuzione in forma specifica;
l’insorgenza di tale obbligazione può essere
esclusa solo dalla insussistenza originaria
o dal venir meno del nesso di causalità,
oltre che dell’antigiuridicità della
condotta.
3. In base agli articoli 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice
amministrativo ha giurisdizione solo per le
controversie nelle quali sia parte una
pubblica amministrazione o un soggetto ad
essa equiparato, con la conseguenza che la
domanda che la parte privata danneggiata
dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione
in forma specifica del giudicato proponga
nei confronti dell’altra parte privata,
beneficiaria del provvedimento illegittimo,
esula dall’ambito della giurisdizione
amministrativa.
4.
Nel caso di mancata aggiudicazione, il danno
conseguente al lucro cessante si identifica
con l’interesse c.d. positivo, che
ricomprende sia il mancato profitto (che
l’impresa avrebbe ricavato dall’esecuzione
dell’appalto), sia il danno c.d. curricolare
(ovvero il pregiudizio subìto dall’impresa a
causa del mancato arricchimento del
curriculum e dell’immagine professionale per
non poter indicare in esso l’avvenuta
esecuzione dell’appalto).
Spetta, in ogni caso, all’impresa
danneggiata offrire, senza poter ricorrere a
criteri forfettari, la prova rigorosa
dell’utile che in concreto avrebbe
conseguito, qualora fosse risultata
aggiudicataria dell’appalto, poiché
nell’azione di responsabilità per danni il
principio dispositivo opera con pienezza e
non è temperato dal metodo acquisitivo
proprio dell’azione di annullamento (ex art.
64, commi 1 e 3, c.p.a.), e la valutazione
equitativa, ai sensi dell’art. 1226 cod.
civ., è ammessa soltanto in presenza di
situazione di impossibilità -o di estrema
difficoltà- di una precisa prova
sull’ammontare del danno.
5.
Il mancato utile spetta nella misura
integrale, in caso di annullamento
dell’aggiudicazione impugnata e di certezza
dell’aggiudicazione in favore del
ricorrente, solo se questo dimostri di non
aver utilizzato o potuto altrimenti
utilizzare maestranze e mezzi, in quanto
tenuti a disposizione in vista della
commessa.
In difetto di tale dimostrazione, può
presumersi che l’impresa abbia riutilizzato
o potuto riutilizzare mezzi e manodopera per
altri lavori, a titolo di aliunde
perceptum vel percipiendum. |
APPALTI: Avvalimento
infragruppo, il contratto è da produrre.
Gare: per la disponibilità dei requisiti.
Anche nell'avvalimento infragruppo è
necessaria la produzione del contratto con
il quale si mettono a disposizione i
requisiti; il principio vale anche nei
settori speciali.
È quanto ha precisato il TAR Lazio-Roma,
III Sez., con la
sentenza
09.05.2017 n. 5545 rispetto ad una fattispecie di avvalimento infragruppo, per una gara di
appalto successiva all'entrata in vigore del
nuovo codice dei contratti pubblici (dlgs
50/2016).
I giudici hanno messo in evidenza la
discontinuità del nuovo codice rispetto al
codice De Lise del 2006, segnalando che in
base all'articolo 49, comma 2, lett. g), del
vecchio codice era previsto che per le
imprese appartenenti al medesimo gruppo, in
luogo del contratto di avvalimento si
potesse presentare una dichiarazione
sostitutiva attestante il legame giuridico
ed economico esistente nel gruppo, dal quale
fare discendere gli obblighi di messa a
disposizione dei requisiti oggetto di
avvalimento per tutta la durata del
contratto.
Ebbene, dicono i giudici laziali,
«nessuna norma di analogo tenore trova oggi
collocazione nel nuovo codice degli appalti
pubblici»; quindi si applica sempre il
generale obbligo di allegare il relativo
contratto.
La norma del vecchio codice, dicono i
giudici, non era peraltro «espressione di un
particolare principio eurounitario di
primaria rilevanza o cogente», il che
avrebbe potuto portare a sostenere la
diretta applicazione, né, ancora, i giudici
ritengono che sia possibile desumere una
eccezione per i cosiddetti «settori
speciali» (acqua, energia e trasporti) con
riferimento al comma 2 dell'art. 89 del
nuovo codice. Il rinvio al comma 1 della
stessa norma non consente di ammettere una
deroga all'obbligo di stipulare e produrre
in gara un contratto scritto di avvalimento.
La sentenza ha precisato, in particolare,
che occorre depositare la dichiarazione
dell'ausiliaria, «adempimento certamente non
derogabile, non essendo altrimenti
ipotizzabile altro documento idoneo a
comprovare il rapporto di avvalimento e
costituendo la suddetta dichiarazione da
sempre la prova principale del rapporto di
avvalimento, anche nel regime previgente»
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2017).
----------------
MASSIMA
19.5.
Com’è noto, senza sostanziali differenze tra
nuovo e vecchio Codice, l’istituto in
questione (avvalimento), di derivazione
comunitaria, consente che un imprenditore
possa comprovare alla stazione appaltante il
possesso dei necessari requisiti economici,
finanziari, tecnici e organizzativi –nonché
di attestazione della certificazione SOA– a
fini di partecipazione ad una gara, facendo
riferimento alle capacità di altro soggetto
(ausiliario), che assume contrattualmente
con lo stesso –impegnandosi nei confronti
della stazione appaltante– una
responsabilità solidale.
I caratteri e le finalità di fondo
dell’istituto (per come delineati
dall’articolo 47 della direttiva 2004/18/CE)
sono stati da ultimo sostanzialmente
confermati dall’articolo 63 della direttiva
2014/24/UE (cui corrispondono le analoghe
previsioni dell’articolo 38, paragrafo 2
della direttiva 2014/23/UE in tema di
concessioni e dell’articolo 79 della
direttiva 2014/25/UE in tema di cc.dd. ‘settori
speciali’), recepito nel nostro
ordinamento dall’art. 89 d.lgs. n. 50 del
2016.
L’avvalimento, pertanto, può riguardare
anche, come accaduto nella specie, un
requisito di capacità tecnica, relativo ad
una determinata esperienza
tecnico-professionale maturata nella
installazione di una specifica tipologia di
macchine radiogene e, in casi di questo
genere, deve ritenersi che “l’impresa
ausiliaria deve assumere l’impegno di
mettere a disposizione dell’impresa
ausiliata le proprie risorse e il proprio
apparato organizzativo, in termini di mezzi,
personale e di ogni altro elemento aziendale
qualificante
(cfr. in tal senso, fra le tante, Cons.
Stato, VI, 31.07.2014, n. 4056; V,
22.01.2015, n. 257, 27.01.2014, n. 412,
04.11.2014, n. 5446, 23.05.2011, n. 3066 e
12.06.2009, n. 3762; III, 07.04.2014, n.
1636 e 11.07.2014, n. 3599; IV, 09.02.2015,
n. 662). (…..)
Nella situazione in esame, la società
appellata richiama i requisiti di capacità
tecnica ed economica, riferiti al fatturato
ed ai contratti pregressi della ditta
ausiliaria, ma non richiama in alcun modo la
messa a disposizione –da parte di
quest’ultima– della propria struttura
organizzativa...”
(è quanto si legge in Cons. Stato, sez. VI,
15.05.2015, n. 2486).
Il Collegio ritiene che, anche nel caso in
esame, il requisito esperienziale di cui al
punto III.1.3., lett. a), del bando non sia
un mero requisito immateriale o “cartolare”
ma che, al contrario, comporti l’effettiva
prestazione di risorse, personale e mezzi,
da parte della He..
In effetti la specifica esperienza
tecnico-professionale delineata dalla
clausola serve a garantire alla stazione
appaltante la effettiva e concreta capacità
della concorrente di svolgere adeguatamente
le prestazioni contrattuali assunte, con
particolare riguardo alla installazione
delle macchine radiogene del tipo voluto dal
bando e, più nel dettaglio dal Capitolato
Speciale d’Appalto.
Seguendo, in altri termini, la
differenziazione tipologica invalsa in tema
di avvalimento, quello che viene in
considerazione nella specie appare
avvicinarsi, quanto meno per il profilo
attinente alla installazione dei macchinari
dedotti in appalto, ad un avvalimento di
tipo “operativo” piuttosto che di
mera “garanzia” (figura che,
viceversa, ricorre in caso di messa a
disposizione di un requisito patrimoniale o
del solo fatturato, ad integrazione di una
solidità finanziaria altrimenti non adeguata
in capo alla concorrente ausiliata).
Pertanto, seguendo quanto recentemente
affermato dall’Adunanza Plenaria del
Consiglio di Stato nella sentenza
04.11.2016, n. 23 laddove si richiama
adesivamente (par. 3.4.) l’opinione secondo
cui “il contratto di
avvalimento (qualificabile come contratto
atipico) presenta tratti propri: i) del
contratto di mandato di cui agli articoli
1703 e seguenti del codice civile, ii)
dell’appalto di servizi, nonché iii) aspetti
di garanzia atipica nei rapporti fra
l’impresa ausiliaria e l’amministrazione
aggiudicatrice per ciò che riguarda
l’assolvimento delle prestazioni dedotte in
contratto”,
deve ritenersi che, nella specie, ai fini
dell’integrazione del requisito in capo alla
concorrente, nel contratto di avvalimento
debbano necessariamente ricorrere elementi
propri anche dell’appalto di servizi
(prestazione di mezzi e risorse), che
appaiono prevalenti rispetto agli aspetti di
“mera garanzia patrimoniale”. |
INCARICHI PROFESSIONALI: Notai,
limiti al falso ideologico. Esclusione se
l'omessa attestazione non provoca nullità.
La prima presa di posizione della Cassazione
sul collegamento con i lavori edilizi.
Il falso ideologico, a carico di un notaio,
non è configurabile se l'omessa attestazione
non incide sul contenuto dell'atto in modo
da determinarne la nullità in base alla
legge.
È questa la prima presa di posizione della
Corte di Cassazione, Sez. V penale, in tema di falso ideologico e
lavori edilizi (sentenza
08.05.2017 n. 22200).
In particolare secondo la Cassazione non
commette falso ideologico il notaio che, in
un atto pubblico da lui rogato, non attesta
l'avvenuta «realizzazione di interventi
edilizi c.d. “minori”, in quanto
insuscettibili di determinare la nullità
dell'atto traslativo, per l'epoca della
costruzione dell'immobile e per la
consistenza delle opere realizzate».
L'imputazione riguardava l'«attestazione da
parte del notaio rogante, nell'atto pubblico
stipulato per la compravendita di un
fabbricato, oggetto di opere edili che
avevano comportato il cambio di destinazione
d'uso di una loggia e di un magazzino, e
l'ampliamento planovolumetrico, che le opere
realizzate in epoca successiva ai titoli
legittimanti non richiedessero provvedimenti
abilitativi; circostanza non rispondente al
vero (secondo l'accusa), in quanto
l'immobile era stato trasformato e
modificato abusivamente in data antecedente
alla vendita, della quale erano a conoscenza
tutte le parti».
Con riferimento alla fattispecie concreta,
la sentenza ha affermato che il notaio aveva
l'obbligo di rogare l'atto, non ricorrendo
alcuna proibizione alla sua stipulazione.
Tale proibizione si configura, soltanto,
nell'ipotesi in cui esista un vizio che dia
luogo ad una nullità assoluta dell'atto. In
relazione all'abusivismo edilizio la nullità
assoluta dell'atto di compravendita si
realizza soltanto nell'ipotesi in cui, in
base alla normativa in materia, sia prevista
la sua «incommerciabilità».
Nella fattispecie esaminata, invece, «è
stata esclusa l'applicabilità delle norme
sull'incommerciabilità degli atti traslativi
aventi ad oggetto immobili abusivi»,
trattandosi di bene commerciabile in quanto
costruito «prima del 17.03.1985» e
sottoposto, successivamente a tale data,
soltanto ad interventi edili c.d. «minori».
Quindi, l'atto pubblico di compravendita non
era «proibito dalla legge», poiché non
affetto dal vizio di nullità
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato.
2. Giova premettere che correttamente la
sentenza impugnata ha riqualificato il fatto
contestato nel rato di falso ideologico, e
non già materiale, in atto pubblico.
È altresì pacificamente emerso che le parti
venditrici, la parte acquirente ed il Notaio
rogante erano consapevoli della
realizzazione di alcuni interventi edilizi
illegittimi, pur tuttavia non richiamati
nell'atto di compravendita stipulato. Al
riguardo, va rammentato che
il falso ideologico per omissione è
integrato dalla condotta che, incidendo sul
significato di un enunciato dichiarativo o
constatativo, produca un'attestazione non
conforme ai fatti; tuttavia, l'omissione è
configurabile soltanto se sussista un
relativo obbligo giuridico di
rappresentazione di alcuni fatti, sicché, in
caso di omessa rappresentazione, l'atto
pubblico assuma il significato di
attestazione della loro inesistenza (cd.
attestazione implicita)
(in tal senso, Sez. 1, n. 46966 del
17/11/2004, Narducci, Rv. 231183: "La
falsità ideologica di un atto può derivare
anche dall'omissione o dalla incompletezza
dei dati in esso illustrati, quando il
contesto espositivo sia tale che la
parzialità dell'informazione si risolve
nella mendace negazione dell'esistenza di un
fatto").
Tanto premesso, la sentenza impugnata appare
immune da censure.
Nel caso in esame, infatti, è stata esclusa
l'applicabilità delle norme
sull'incommerciabilità degli atti traslativi
aventi ad oggetto immobili abusivi,
trattandosi di immobile realizzato prima del
17.03.1985 (e, addirittura, del 01.09.1967,
data di entrata in vigore della c.d. "legge-ponte"),
dies a quo per l'applicabilità
dell'art. 46, comma 1, d.P.R. 380/2001, e di
interventi edilizi c.d. "minori", non
rientranti nelle previsioni di cui all'artt.
46, comma 5-bis (in relazione all'art. 22,
comma 3) d.P.R. 380/2001.
Non ricorrendo un'ipotesi di nullità
dell'atto, pertanto, e sul presupposto che
l'art. 27 della l. 89 del 1913 (c.d. legge
notarile) prevede che "Il notaro è
obbligato a prestare il suo ministero ogni
volta che ne è richiesto", è stato
affermato che il Notaio rogante non avesse
il divieto di stipulare l'atto di
compravendita in oggetto, e non avesse
neppure l'obbligo di dichiarare l'esistenza
degli interventi edilizi "minori"
realizzati, in quanto non incidenti sul
regime di commerciabilità del bene.
L'art. 28 della legge notarile sancisce,
infatti, che "Il notaro non può ricevere
atti (...) se essi sono espressamente
proibiti dalla legge (...)".
Sicché, nel caso in esame, trattandosi di
bene commerciabile, in quanto costruito
prima del marzo 1985 ed oggetto di
interventi edilizi c.d. "minori",
l'atto pubblico di compravendita non era "proibito
dalla legge", in quanto non affetto dal
vizio della nullità sancito dall'art. 46
d.P.R. 380/2001.
In tal senso si è, altresì, espressa la
giurisprudenza civile di questa Corte,
secondo cui, in tema di responsabilità
disciplinare dei notai, il divieto, imposto
dall'articolo 28, comma primo, n. 1, della
legge 16.02.1913, n. 89, sanzionato con la
sospensione a norma dell'art. 138, comma
secondo, di ricevere atti "espressamente
proibiti dalla legge" attiene ad ogni
vizio che dia luogo ad una nullità assoluta
dell'atto, con esclusione, quindi, dei vizi
che comportano l'annullabilità o
l'inefficacia dell'atto (ovvero la stessa
nullità relativa) ed è sufficiente che la
nullità risulti in modo inequivoco (Cass.
Civ., Sez. 3, n. 11128 del 11/11/1997, Rv.
509864)
Del resto, lo stesso art. 2700 c.c.,
richiamato dal ricorrente, nel delimitare il
regime di efficacia dell'atto pubblico,
sancisce che questo "fa piena prova, fino
a querela di falso, della provenienza del
documento dal pubblico ufficiale che lo ha
formato, nonché delle dichiarazioni delle
parti e degli altri fatti che il pubblico
ufficiale attesta avvenuti in sua presenza o
da lui compiuti".
Ebbene, oltre alla prova della provenienza
del documento, l'efficacia probatoria
dell'atto pubblico si estende alle
dichiarazioni e ai fatti avvenuti in
presenza del pubblico ufficiale; ma tale
efficacia riguarda soltanto le dichiarazioni
e i fatti rilevanti ai fini della formazione
dell'atto pubblico.
In altri termini,
l'omessa esposizione di un fatto assume il
significato della negazione della sua
esistenza soltanto quando la sua rilevanza
ne avrebbe imposto la manifestazione; al
contrario, non ricorre la c.d. attestazione
implicita, allorquando, come nel caso di
specie, non sussista l'obbligo di attestare
la realizzazione di interventi edilizi c.d.
"minori", in quanto insuscettibili di
determinare la nullità dell'atto traslativo,
per l'epoca della costruzione dell'immobile
e per la consistenza delle opere realizzate. |
EDILIZIA PRIVATA: La
sostituzione o il rinnovamento di serramenti e, quindi,
anche di infissi o di serrande, rientra nel concetto di
finiture di edifici, come tale configurabile in termini di
manutenzione ordinaria ai sensi dell’art. 31, lett.
a), della l. 05.08.1978, n. 457, vigente all’epoca della
contestazione dell’abuso ed (anche) oggi ai sensi dell'art.
3, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n. 380, disposizione ultima
secondo la quale tale intervento costituisce attività libera
e non soggetta a denuncia di inizio attività ai sensi
dell'art. 6, lett. a), dello stesso decreto, e ciò sia che
vengano impiegati gli stessi materiali componenti, sia che
la sostituzione o il rinnovamento venga effettuata con
materiali diversi.
----------------
5. – Anche il secondo motivo di ricorso, nella
sequenza proposta nell’atto introduttivo del presente
giudizio, si presenta fondato.
Con il secondo motivo di ricorso, infatti, si sostiene
correttamente che la sostituzione dell’infisso costituirebbe
intervento di “manutenzione ordinaria”, di talché si
presenta illegittima la sanzione demolitoria inflitta dal
Comune.
Sul punto va rammentato, in aderenza ad una diffusa
giurisprudenza, che la sostituzione o il rinnovamento di
serramenti e, quindi, anche di infissi o di serrande,
rientra nel concetto di finiture di edifici, come tale
configurabile in termini di manutenzione ordinaria ai
sensi dell’art. 31, lett. a), della l. 05.08.1978, n. 457,
vigente all’epoca della contestazione dell’abuso ed (anche)
oggi ai sensi dell'art. 3, lett. a), D.P.R. 06.06.2001, n.
380, disposizione ultima secondo la quale tale intervento
costituisce attività libera e non soggetta a denuncia di
inizio attività ai sensi dell'art. 6, lett. a), dello stesso
decreto, e ciò sia che vengano impiegati gli stessi
materiali componenti, sia che la sostituzione o il
rinnovamento venga effettuata con materiali diversi (cfr.
TAR Piemonte, Sez. I, 12.04.2010 n. 1761; TAR Campania,
Napoli, Sez. IV, 18.10.2005 n. 16667 e TAR Lazio, Sez. II,
09.05.2005 n. 3438)
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
In ragione del contenuto rigidamente vincolato
che li caratterizza, gli atti sanzionatori in materia
edilizia, tra cui l'ordine di demolizione di costruzione
abusiva, non devono essere preceduti dalla comunicazione
d'avvio del relativo procedimento.
----------------
7. - Quanto alla mancata comunicazione dell’avvio del
procedimento repressivo sanzionatorio (ai sensi ai sensi
dell’art. 7 l. 241/1990) che ha dato luogo all’ordinanza qui
gravata, trova applicazione il costante insegnamento
giurisprudenziale a mente del quale in ragione del contenuto
rigidamente vincolato che li caratterizza, gli atti
sanzionatori in materia edilizia, tra cui l'ordine di
demolizione di costruzione abusiva, non devono essere
preceduti dalla comunicazione d'avvio del relativo
procedimento (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. VI,
24.09.2010 n. 7129).
Ne deriva che, come la terza, anche la quarta censura non si
presta ad essere accolta
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
COMPETENZE GESTIONALI:
La competenza ad adottare
atti di gestione in materia edilizia, compresi quelli
repressivo-sanzionatori, è stata trasferita dalla legge ai
dirigenti soltanto con l’entrata in vigore della l.
191/1998, vale a dire a far data dal 05.07.1998.
----------------
6. – Con la terza censura dedotta il ricorrente
sostiene la incompetenza del Sindaco ad adottare il
provvedimento repressivo in materia edilizia qui impugnato,
ma la censura non coglie nel segno.
Sul punto va invero considerato che in materia di riparto di
competenza tra organi politici e organi della gestione negli
Enti locali per la adozione di provvedimenti amministrativi
si è assistito alla seguente evoluzione:
- con l'originaria stesura dell'art. 51, terzo comma, della legge
08.06.1990, n. 142, venne previsto che ai dirigenti
spettassero tutti i compiti, compresa la adozione di atti
che impegnassero l'amministrazione verso l'esterno ma che
non fossero espressamente riservati dalla legge o dallo
statuto agli organi di governo, indicandosi in particolare,
con richiamo alle modalità stabilite dallo statuto, la
presidenza delle commissioni di gara e di concorso, la
responsabilità sulle procedure d'appalto e di concorso, la
stipulazione dei contratti;
- con la modifica apportata dall'art. 6 della l. 15.05.1997, n. 127
la elencazione dei compiti attribuiti ai dirigenti ha subito
un ampliamento, aggiungendosi, a quelli previsti dal cennato
originario terzo comma, gli atti di gestione finanziaria,
ivi compresa l'assunzione di impegni di spese (lett. d), gli
atti di amministrazione e gestione del personale (lett. e),
i provvedimenti di assentimento di cui alla sopra citata
lett. [f], le attestazioni, certificazioni, comunicazioni,
diffide, verbali, autenticazioni, legalizzazioni ed ogni
altro atto costituente manifestazione di giudizio e di
conoscenza (lett. g), gli atti ad essi attribuiti dallo
statuto e dai regolamenti o, in base a questi, delegati dal
sindaco (lett. h);
- con l'art. 45 d.lgs. 31.03.1998, n. 80 è stato previsto che, a
decorrere dalla data di entrata in vigore dello stesso
decreto (e cioè dal 23.04.1998), le disposizioni previgenti
che conferiscono agli organi di governo l'adozione di atti
di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi di cui
all'art. 3, secondo comma, del d.lgs. 03.02.1993, n. 29, si
intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai
dirigenti;
- con l'art. 2, comma 12, l. 16.06.1998, n. 191, è stata inserita,
dopo la lett. [f] del sopra citato e modificato art. 51
della l. n. 142/1990, la seguente lett. [f-bis]: “tutti i
provvedimenti di sospensione dei lavori, abbattimento e
riduzione in pristino di competenza comunale, nonché i
poteri di vigilanza edilizia e di irrogazione delle sanzioni
amministrative previsti dalla vigente legislazione statale e
regionale in materia di prevenzione e repressione
dell'abusivismo edilizio e paesaggistico–ambientale”.
L'esplicito ampliamento normativo, subìto per due volte,
della elencazione dei compiti originariamente spettanti ai
dirigenti, conduce alla conclusione che quanto indicato,
limitatamente alle commissioni, alle procedure e ai
contratti, dall'iniziale stesura dell'art. 51, non fosse
meramente esemplificativo. Una ipotesi del genere
colliderebbe infatti con la considerazione in base alla
quale il legislatore avrebbe emesso per tre volte norme
sostanzialmente inutili (precisando dapprima taluni compiti
nella originaria stesura dell'art. 51, ampliandoli poi con
la legge n. 127 del 1997, ampliandoli ulteriormente con la
legge n. 191 del 1998).
Va pertanto concluso, per quanto qui occorre, che il
progressivo ampliamento delle competenze dei dirigenti sia
avvenuto, di volta in volta, in concomitanza con la entrata
in vigore delle varie norme sopra esaminate.
E va conseguentemente detto che le enunciazioni, di ampio
significato, contenute nell'art. 51, terzo comma, cit. ("spettano
ai dirigenti tutti i compiti...") e nell'art. 45 cit. ("le
disposizioni previgenti che conferiscono agli organi di
governo l'adozione di atti ... si intendono nel senso che la
relativa competenza spetta ai dirigenti"), sono state
intese dal medesimo legislatore che le ha introdotte, e
(cfr. in particolare l'originario art. 51 e l'art. 6, comma
2 cit.) nel momento stesso in cui sono state poste, nel
senso di enunciazioni di principio, abbisognevoli di
specificazioni necessarie; non utili quindi, ex se, a
conferire senz'altro poteri dirigenziali sul punto.
Può concludersi pertanto che la competenza ad adottare atti
di gestione in materia edilizia, compresi quelli
repressivo-sanzionatori, sia stata trasferita dalla legge ai
dirigenti soltanto con l’entrata in vigore della l.
191/1998, vale a dire a far data dal 05.07.1998 e quindi in
epoca successiva alla data di adozione del provvedimento qui
impugnato
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-quater,
sentenza 08.05.2017 n. 5541 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Costi
di sicurezza esclusi per le opere di tipo
intellettuale. Consiglio di Stato. Appalti
pubblici.
Novità per le prestazioni di natura
intellettuale a pubbliche amministrazioni,
negli appalti di servizi soggetti alla
disciplina delle opere pubbliche (Dlgs
50/2016): il Consiglio di Stato esclude che
per esse vi siano costi di sicurezza da
indicare.
La
sentenza 08.05.2017 n.
2098, relativa alla fornitura e
manutenzione di software ad una società
pubblica della provincia autonoma di
Bolzano, decide il caso di un fornitore che
aveva indicato la cifra «zero» per i costi
di sicurezza, che il disciplinare di gara
imponeva fossero chiariti.
Per i giudici, quando la fornitura riguarda
un servizio di natura intellettuale, costi
di sicurezza non sono configurabili e, in
conseguenza, non si può escludere il
concorrente per asserita violazione
dell’articolo 87, comma 4, del Dlgs 163/2006
(oggi articolo 50, Dlgs 50/2016, Codice
appalti), dovendosi valutare in concreto se
la dichiarazione relativa all’offerta
economica sia congrua. Il confine tra
forniture di servizi di natura intellettuale
ed altri tipi di servizi assume rilievo con
l’evolversi delle professioni verso
strutture imprenditoriali, articolate in
organismi complessi, destinati ad operare
non solo presso la sede professionale ma
anche presso l’utente, anche in forme
societarie complesse.
Le recenti modifiche al Dlgs 50/2016 (Dlgs
19.04.2017 n. 56, pubblicato il 5 maggio
e in vigore dal 20 maggio) accentuano
(articolo 50) la differenza degli appalti di
servizi di natura intellettuale rispetto ad
altri servizi, esonerando i primi, per la
loro matrice personale, dalle clausole
sociali che garantiscono generica stabilità
occupazionale.
Restano di difficile definizione le figure
in cui i costi di sicurezza non sono
applicabili: la fornitura di pc con
assistenza tecnica on-site, quindi con
personale in loco, non è stata ritenuta
prestazione intellettuale (Tar Bologna,
sentenza 268/2015), nemmeno se vi è garanzia
post vendita (Consiglio di Stato,
1798/2015); consulenza e brokeraggio
assicurativo per una Regione non espongono a
rischi o pericoli (Consiglio di Stato,
1051/2016; Tribunale amministrativo di
Bolzano, 143/2017); il servizio di call
center, ritenuto di natura intellettuale
(Tar Bologna, 564/2016). Per i tecnici, la
redazione di un piano di rischi
idrogeologici con sopralluoghi e rilievi
espone a rischi specifici (Consiglio di
Stato, 3139/2016), come progettazione
lavori, demolizione e ricostruzione di una
scuola con sopralluoghi, rilievi e
misurazioni (Tar Veneto, 182/2017).
Altre volte i servizi di ingegneria a
supporto di una struttura tecnica di
un’azienda ospedaliera sono stati ritenuti
prevalentemente intellettuali, privi di
rischi specifici perché si esprimono in
attività di controllo e supervisione dei
lavori, senza partecipazione attiva ai
cantieri (Tar Napoli, 4150/2016); solo
professionale è anche l’attività degli
interpreti e traduttori (assistenza
linguistica negli asili nido della provincia
di Trento), anche se l’attività è prestata
in scuole (Consiglio di Stato, 223/2017).
In sintesi, analizzando i costi aziendali
emerge il ridursi delle prestazioni
meramente intellettuali, che si riducono
all’ideazione delle soluzioni, senza
necessità di verifiche e collaudi
(articolo Il Sole 24
Ore del 10.05.2017). |
APPALTI -
ATTI AMMINISTRATIVI:
Nella fattispecie, l’istanza di accesso è
assolutamente generica e indeterminata, facendo riferimento
a “tutta la corrispondenza interna fra DL, RUP, ufficio
affari legali M.M. e Consiglio di Amministrazione”.
Deve, dunque, ricevere applicazione la costante
giurisprudenza sull’inesistenza in capo all’istante del
concreto interesse all’accesso in tutti i casi in cui lo
stesso miri ad un controllo generalizzato dell’operato
dell’amministrazione, inammissibile ai sensi dell’art. 24,
comma 3, della legge n. 241/1990.
---------------
Ai sensi dell'art. 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 nelle gare
pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di
affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è
sottoposto ad un limite generale che è quello della
necessaria sussistenza di un interesse differenziato,
concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente
collegamento con la tutela giurisdizionale di una
determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il
diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla
documentazione privata d'interesse amministrativo,
soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato
con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere
prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata
situazione in sede giurisdizionale.
Inoltre “E' da escludere che la titolarità del diritto
d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale
all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e
suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la
richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale
forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera
attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse
anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in
via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri
termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante»,
che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a
quella di «interesse all'impugnazione»”.
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel
senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la
documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in
senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere
considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento
di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato”.
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22, comma
1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive modificazioni,
il diritto di accesso si indirizza ai documenti
amministrativi detenuti dall'Amministrazione e concernenti
attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla
natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina
sostanziale; quindi è strutturato al fine di consentire la
conoscenza di atti rappresentativi dell'attività della
Pubblica amministrazione finalizzata alla cura e al
perseguimento di scopi di interesse pubblico o che si
configurino essenziali all'esercizio dell'attività stessa,
indipendentemente dal fatto che essa sia espressione di
poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente; nel
documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della
funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento
per l'esercizio della potestà di amministrazione”.
---------------
Il collegio ritiene che il ricorso sia fondato solo in
parte, sussistendo il concreto interesse della ricorrente
all’accesso esclusivamente riguardo al verbale del CdA di MM
che concerne la sua posizione con riferimento alla
risoluzione del contratto in questione.
Ed invero, riguardo alla porzione dell’istanza concernente
la copia della corrispondenza privata interna intercorsa tra
la DL e il RUP, la DL e la DT, la DT e la progettazione,
nonostante l’astratta configurabilità della possibilità
dell’ostensione anche di atti di natura privatistica, purché
connessi all’esercizio della potestà autoritativa
dell’amministrazione, nella fattispecie in questione
l’istanza è assolutamente generica e indeterminata, facendo
riferimento a “tutta la corrispondenza interna fra DL,
RUP, ufficio affari legali M.M. e Consiglio di
Amministrazione”. Deve, dunque, ricevere applicazione la
costante giurisprudenza sull’inesistenza in capo all’istante
del concreto interesse all’accesso in tutti i casi in cui lo
stesso miri ad un controllo generalizzato dell’operato
dell’amministrazione, inammissibile ai sensi dell’art. 24,
comma 3, della legge n. 241/1990 (cfr., fra le tante, Cons.
Stato, sez. IV, 12.01.2016, n. 68).
Riguardo alla documentazione detenuta da ANAC, l’accesso è
stato legittimamente negato da MM in virtù del differimento
già dalla stessa Autorità disposto con nota del 12.12.2016
su analoga istanza di accesso presentatagli dalla odierna
ricorrente, poiché ai sensi del Regolamento concernente
l’accesso ai documenti formati o detenuti stabilmente
dall’Autorità, l’accesso è differito a una data successiva
all’adozione della delibera conclusiva del Consiglio, che
non è ancora intervenuta.
Riguardo, invece, al verbale del Consiglio di
Amministrazione di MM, il Collegio ritiene che sia
rinvenibile l’interesse della ricorrente all’ostensione del
medesimo, anche se non specificato nell’istanza, atteso che
nel provvedimento di risoluzione si fa menzione di
un’autorizzazione alla risoluzione medesima da parte del
Consiglio di Amministrazione, risultando, dunque, lo stesso
facilmente individuabile.
Il Collegio richiama, in proposito, il costante orientamento
della giurisprudenza amministrativa in base al quale: “Ai
sensi dell'art. 13, d.lgs. 12.04.2006 n. 163 nelle gare
pubbliche il diritto di accesso agli atti delle procedure di
affidamento e di esecuzione dei contratti pubblici è
sottoposto ad un limite generale che è quello della
necessaria sussistenza di un interesse differenziato,
concreto ed attuale, il quale deve trovarsi in evidente
collegamento con la tutela giurisdizionale di una
determinata posizione giuridica dell'istante; inoltre il
diritto all'accesso ai documenti amministrativi oppure alla
documentazione privata d'interesse amministrativo,
soprattutto per questa ultima, deve essere sempre comparato
con il diritto alla riservatezza e comunque si deve ritenere
prevalente ove connesso al riconoscimento di una determinata
situazione in sede giurisdizionale” (cfr. Cons. Stato,
sez. V, 27.04.2015, n. 2096).
Inoltre “E' da escludere che la titolarità del diritto
d'accesso risieda soltanto in una situazione funzionale
all'esercizio di un interesse giuridicamente protetto e
suscettibile di tutela giurisdizionale; ed invero la
richiesta di accesso, pur non potendo configurarsi quale
forma di preventivo e generalizzato controllo dell'intera
attività dell'Amministrazione, si può basare su un interesse
anche non funzionalmente connesso ad un'immediata tutela in
via giudiziale, purché concreto ed attuale; in altri
termini, la nozione di «interesse giuridicamente rilevante»,
che fonda il diritto di accesso, è più ampia rispetto a
quella di «interesse all'impugnazione»” (Cons. Stato,
sez. V, 17.03.2015, n. 1370).
“Il diritto di accesso non è stato configurato dal
legislatore con carattere meramente strumentale rispetto
alla difesa in giudizio, avendo un carattere autonomo, nel
senso che il collegamento tra l'interesse giuridicamente
rilevante del soggetto che richiede l'accesso e la
documentazione oggetto della relativa istanza va inteso in
senso ampio, poiché la documentazione richiesta deve essere
considerata mezzo utile per la difesa e non come strumento
di prova diretta della lesione dell'interesse tutelato”
(Cons. Stato, sez. VI, 10.02.2015, n. 714).
Deve, infine, precisarsi che: “Ai sensi dell'art. 22,
comma 1, lett. b), l. 07.08.1990 n.241 e successive
modificazioni, il diritto di accesso si indirizza ai
documenti amministrativi detenuti dall'Amministrazione e
concernenti attività di pubblico interesse,
indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica
della loro disciplina sostanziale; quindi è strutturato al
fine di consentire la conoscenza di atti rappresentativi
dell'attività della Pubblica amministrazione finalizzata
alla cura e al perseguimento di scopi di interesse pubblico
o che si configurino essenziali all'esercizio dell'attività
stessa, indipendentemente dal fatto che essa sia espressione
di poteri autoritativi o di autonomia negoziale dell' ente;
nel documento deve quindi sostanziarsi l'esercizio della
funzione amministrativa, ovvero deve costituire strumento
per l'esercizio della potestà di amministrazione” (Cons.
Stato, sez. III, 22.12.2014, n. 6352).
Ne consegue, dunque, la possibilità dell’ostensione anche di
atti di natura privatistica, purché connessi all’esercizio
della potestà autoritativa dell’amministrazione
(TAR Lombardia-Milano, Sez. I,
sentenza 05.05.2017 n. 1035 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
I lavori di adeguamento su
struttura socio-riabilitativa per
portatori di disabilità, da parte di una IPAB,
rientrano per definizione all’interno delle “…
opere pubbliche o di interesse generale”, di cui all'art.
17, co. 3, lett. c) TUE. Trattasi infatti di struttura volta
alla cura di persone con gravi disabilità, e mirante ad
assicurare loro assistenza continuativa, anche dopo la morte
dei relativi familiari.
Sicché, la fattispecie è esente dal versamento del
contributo di costruzione ai sensi dell’art. 17, co. 3,
lett. c), TUE. Invero, il contributo di costruzione, non è
dovuto: “… per gli impianti, le attrezzature, le opere
pubbliche o di interesse generale realizzate dagli enti
istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici” ove “Per integrare la fattispecie
normativa, è necessario il concorso di due requisiti,
l'uno di carattere oggettivo e l'altro di
carattere soggettivo. Per effetto del primo, la
costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse
generale; per effetto del secondo, le opere devono essere
eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio
della norma è innanzitutto quella di agevolare l'esecuzione
di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici
o dalle quali la collettività possa comunque trarre una
utilità. Il legislatore ha, quindi, inteso evitare
l'imposizione di oneri concessori al soggetto che interviene
per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse;
imposizione che sarebbe altrimenti intimamente
contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure
indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento. In tale prospettiva, è
stato chiarito dalla giurisprudenza -con riferimento al
requisito soggettivo- che per “enti istituzionalmente
competenti" debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero
anche i soggetti privati, purché l'opera sia realizzata per
conto di un ente pubblico”.
---------------
1. La ricorrente –iscritta nell’elenco delle IPAB operanti
all’interno della Regione– ha ottenuto permesso di costruire
al fine di eseguire lavori di adeguamento del proprio
immobile a struttura socio-riabilitativa, versando il
relativo contributo concessorio.
Avvedutasi della possibilità di fruire dell’esenzione
stabilita dall’art. 17, co. 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001
(TUE), essa ha diffidato il Comune di Castro a trasformare
il permesso di costruire da oneroso in gratuito, restituendo
conseguentemente le somme indebitamente percepite dall’ente
a titolo di oneri concessori.
Tale diffida è stata formalmente disattesa dal Comune con
nota prot. n. 7141/15.
Avverso tale nota, e ai relativi provvedimenti presupposti,
la ricorrente è insorta, deducendone l’illegittimità sulla
base dei seguenti motivi di gravame: violazione dell’art.
17, co. 3, lett. c), d.P.R. n. 380/2001; eccesso di potere
per errore.
All’udienza del 19.04.2017 il ricorso è stato trattenuto in
decisione.
...
4. Nel merito, con i vari motivi di gravame, deduce la
ricorrente la violazione, ad opera del Comune, della
previsione di cui all’art. 17, co. 3, lett. c), TUE, avuto
riguardo sia alla sua soggettività di diritto pubblico, sia
alla natura di interesse generale delle opere realizzate
dalla ricorrente.
Gli assunti sono fondati.
4.2. Ai sensi dell’art. 17, co. 3, lett. c), TUE, il
contributo di costruzione, non è dovuto: “… per gli
impianti, le attrezzature, le opere pubbliche o di interesse
generale realizzate dagli enti istituzionalmente competenti
nonché per le opere di urbanizzazione, eseguite anche da
privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
Così individuata la previsione normativa di riferimento,
occorre ora indagarne la portata.
4.3. Sul punto, osserva il Collegio che, per condivisa
giurisprudenza amministrativa, “Per integrare la
fattispecie normativa, è necessario il concorso di due
requisiti, l'uno di carattere oggettivo e l'altro
di carattere soggettivo. Per effetto del primo, la
costruzione deve riguardare opere pubbliche o di interesse
generale; per effetto del secondo, le opere devono essere
eseguite da un ente istituzionalmente competente. La ratio
della norma è innanzitutto quella di agevolare l'esecuzione
di opere destinate al soddisfacimento di interessi pubblici
o dalle quali la collettività possa comunque trarre una
utilità. Il legislatore ha, quindi, inteso evitare
l'imposizione di oneri concessori al soggetto che interviene
per l'istituzionale attuazione del pubblico interesse;
imposizione che sarebbe altrimenti intimamente
contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia pure
indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento. In tale prospettiva, è
stato chiarito dalla giurisprudenza -con riferimento al
requisito soggettivo- che per “enti istituzionalmente
competenti" debbano intendersi i soggetti pubblici, ovvero
anche i soggetti privati, purché l'opera sia realizzata per
conto di un ente pubblico” (TAR Lombardia, II,
03.11.2016, n. 2011. Cfr. altresì la copiosa giurisprudenza
ivi citata).
5. Ciò premesso, e venendo ora al caso in esame, rileva il
Collegio che, per quel che attiene al requisito
soggettivo, già la denominazione giuridica della
ricorrente –i.e: Istituzione pubblica di assistenza e
beneficenza (IPAB)– ne tradisce la sua natura pubblicistica,
peraltro assai risalente nel tempo, essendo le IPAB
originariamente disciplinate dalla legge 17.07.1890, n.
6972.
Inoltre, ai sensi dell’art. 1 d.lgs. n. 207/2001, si è
previsto “il riordino delle istituzioni pubbliche di
assistenza e beneficenza”, la qual cosa costituisce
ulteriore indice della sua natura pubblicistica.
La natura pubblicistica della ricorrente è poi confermata
dalla L.R. n. 15/2004, la quale in coerenza con la citata
normativa statale ha dettato previsioni per il riordino
delle IPAB già esistenti in ambito regionale, tra le quali
risulta inclusa la ricorrente –il cui statuto è stato
approvato in data 10.07.1923 (cfr. doc. n. 11 del fascicolo
di parte ricorrente)– come da nota Regione Puglia n.
635/2013 (cfr. n. 35 del relativo Allegato contenente
indicazione di tutte le IPAB regionali – Doc. n. 15).
Da ultimo, vi è in atti nota n. 32 del 18.02.2010 con la
quale la Regione, visto il piano di risanamento elaborato
dalla ricorrente, ha autorizzato quest’ultima a conservare
la soggettività giuridica pubblica in atto, nelle more della
sua trasformazione in Azienda pubblica di servizi alla
persona (ASP), ai sensi del d.lgs. n. 207/2001.
Alla luce di tali elementi, è evidente la natura
pubblicistica della ricorrente, e l’assenza del fine di
lucro della stessa, sicché deve senz’altro ritenersi
integrato il requisito soggettivo richiesto dalla cennata
previsione di cui all’art. 1,7 co. 3, lett. c) TUE.
6. Per quel che attiene al requisito oggettivo,
peraltro mai contestato dal Comune, rileva il Collegio che
l’opera realizzata dalla ricorrente –realizzazione di una
struttura socio-riabilitativa per portatori di disabilità–
rientra per definizione all’interno delle “… opere
pubbliche o di interesse generale”, di cui al cennato
art. 17, co. 3, lett. c) TUE. Trattasi infatti di struttura
volta alla cura di persone con gravi disabilità, e mirante
ad assicurare loro assistenza continuativa, anche dopo la
morte dei relativi familiari.
7. Per tali ragioni, reputa il Collegio la sussistenza di
entrambi i requisiti normativamente previsti ai fini
dell’esenzione del contributo in esame.
Ne consegue, in accoglimento del ricorso, la condanna del
Comune di Castro alla restituzione, in favore della
ricorrente, di tutte le somme versate da quest’ultima al
Comune a titolo di oneri concessori relativi al p.d.c.
18.12.2012, n. 7274.
Trattandosi di indebito oggettivo, e in assenza di indici di
mala fede da parte del Comune, il relativo importo andrà
maggiorato di rivalutazione monetaria e interessi legali
sulla somma via via rivalutata, dal 09.02.2016 –data di
notifica del presente ricorso, e dies a quo di
decorrenza della mora (art. 2033 c.c.)– al soddisfo (TAR
Puglia-Lecce, Sez. I,
sentenza 04.05.2017 n. 671 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Appalti,
essenziale la sicurezza. Esclusa l'impresa
che non indica i costi anti-infortuni. Il
Tar Campania: non attivabile il soccorso
istruttorio per un obbligo previsto dalla
legge.
Il soccorso istruttorio non salva
dall'esclusione dalla gara l'impresa che
nell'offerta economica manca di indicare i
costi di sicurezza interna. Con il nuovo
codice dei contratti pubblici, infatti,
l'obbligo scaturisce direttamente dalla
legge, che indica come elemento economico
essenziale gli oneri sostenuti dell'azienda
per tutelare la salute dei lavoratori:
l'estromissione della società inadempiente
dalla gara scatta dunque al di là delle
previsioni ad hoc contenute nello stesso
bando emesso dall'ente.
È quanto emerge dalla
sentenza 03.05.2017 n. 2358,
pubblicata dalla III Sez. del TAR
Campania-Napoli.
Parla chiaro l'articolo 95, comma
10, del decreto legislativo 50/2016:
«Nell'offerta economica l'operatore deve
indicare i propri costi aziendali
concernenti l'adempimento delle disposizioni
in materia di salute e sicurezza sui luoghi
di lavoro». Resta fuori, quindi, dalla
procedura a evidenza pubblica la società che
puntava a gestire la raccolta dei rifiuti
urbani in un comune del Napoletano.
È
escluso che l'impresa candidata possa
ottenere il termine di dieci giorni per
mettersi in regola previsto dall'articolo
83, nono comma, del decreto legislativo
50/2016: il soccorso istruttorio, infatti,
si può ottenere soltanto per sanare le
carenze formali del documento di gara unico
europeo, mentre la partecipante alla
procedura pubblica che non espone i costi
necessari agli adempimenti per la sicurezza
sui luoghi di lavoro viene meno a un obbligo
imposto dalla legge che integra di per sé
gli atti di gara. Non conta allora se il
bando, il disciplinare oppure lo stesso
modello di offerta economica predisposto
dalla stazione appaltante prevedano la
dichiarazione separata degli oneri sostenuti
per tutelare la salute dei dipendenti.
Già prima del decreto legislativo 50/2016 la
giurisprudenza di legittimità è intervenuta
sull'esclusione dalla gara l'impresa che in
sede di offerta economica non ha indicato
gli oneri necessari a evitare gli infortuni,
anche se un incombente del genere non
risulta richiesto dal bando. E ha chiarito
che si tratta di un precetto imperativo per
qualsiasi tipo di procedura pubblica, quale
che sia la posta in palio: lavori, servizi o
forniture.
Deve ritenersi che il principio
secondo cui ogni impresa che partecipa a un
appalto pubblico deve indicare gli oneri di
sicurezza aziendali è un obbligo che integra
«dall'esterno» la legge di gara. Se non si
adegua, dunque, l'azienda resta fuori dalla
procedura benché il bando non preveda
l'estromissione ad hoc, il tutto in base al
principio di «tassatività attenuata» delle
cause di esclusione dalle gare, sancito
dall'articolo 46 del codice dei contratti
pubblici. Il Consiglio di stato con la
sentenza 5873/2015, pubblicata dalla quinta
sezione, dà continuità all'orientamento di
giurisprudenza espresso dall'adunanza
plenaria di Palazzo Spada.
Resta da motivare perché in caso di mancata
indicazione degli oneri di sicurezza
aziendali non sono legittimamente
esercitabili i poteri attinenti al soccorso
istruttorio: nella specie, anche si dovesse
ritenere che il bando abbia escluso
l'obbligo delle imprese di indicare i costi
di sicurezza aziendale in sede di offerta,
la legge di gara risulta comunque impugnata
sul punto da un'impresa partecipante
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017). |
APPALTI:
Non si possono imporre iscritti a
particolari ordini.
Annullata. Va posta nel nulla
l'aggiudicazione dell'appalto se si scopre
che la lettera d'invito impone alla società
partecipante di avere un dipendente iscritto
a uno specifico ordine professionale,
titolato ai lavori messi a gara, mentre
l'impresa vincitrice ha solo un consulente
con quei requisiti, per quanto legato
all'azienda da un contratto in esclusiva.
E ciò perché non si può disattendere il
requisito indicato nella lettera d'invito
agli operatori economici: l'amministrazione
ha infatti interesse a che il professionista
sia a diretta disposizione
dell'aggiudicataria.
È quanto emerge dalla
sentenza
28.04.2017 n. 150,
pubblicata dalla I Sez. del TAR
Molise.
Potere e intensità
Accolto il ricorso dello studio
professionale associato, che fa bloccare la
gara vinta dal competitor per il piano di
assestamento forestale del comune: per
realizzarlo, infatti, ci vuole un agronomo,
mentre il titolare dell'aggiudicataria è un
geologo e solo il consulente esterno ha il
requisito indicato.
Ai fini dell'appalto il rapporto di lavoro
subordinato non può essere equiparato alla
prestazione d'opera per le evidenti
differenze fra gli istituti ex articoli 2094
c.c. e 2222 c.c.: nel primo caso risulta
evidente la maggiore intensità del potere
che il creditore vanta nel pretendere
l'esecuzione della prestazione dal
professionista.
Senza dimenticare che un'eventuale
equiparazione delle due figure è contraria
alla par condicio fra i partecipanti alla
procedura: penalizza chi sostiene i costi
dell'assunzione e paga i contributi rispetto
all'altro che con la consulenza risparmia
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2017). |
APPALTI: Giustificare
i prezzi corregge l'anomalia. Valutazione
congruità offerte in gara.
È illegittima l'esclusione per anomalia
dell'offerta laddove l'offerente abbia
documentato gli scostamenti tra prezzi
indicati in offerta e prezzi indicati in
sede di giustificazione.
Lo ha precisato il TAR Lombardia-Milano,
I Sez., con la
sentenza 27.04.2017 n. 963 analizzando la disciplina
della verifica della congruità delle
offerte.
In particolare, i giudici hanno affermato
che nelle gare pubbliche la valutazione
della congruità dell'offerta, pur essendo
espressione di discrezionalità cosiddetta
tecnica della stazione appaltante è tuttavia
suscettibile di sindacato esterno da parte
del giudice amministrativo nei profili
dell'eccesso di potere per manifesta
irragionevolezza, erronea valutazione dei
presupposti, e contraddittorietà;
diversamente, il provvedimento che valuta
un'offerta non anomala non abbisogna di una
motivazione analitica, essendo sufficiente
anche un rinvio alle argomentazioni e
giustificazioni della parte che l'ha
formulata, quello che la ritiene anomala,
deve essere invece puntualmente motivato.
Ciò premesso, era accaduto che gli importi
dell'analisi dei prezzi delle lavorazioni
più significative indicati dall'offerente in
sede di giustificazione non coincidessero
con i prezzi inseriti in sede di offerta;
inoltre, non erano stati dimostrati i
fattori e le circostanze che avevano
prodotto tali scostamenti. Da qui
l'esclusione per anomalia da parte della
stazione appaltante che però i giudici
ritengono illegittima in quanto l'impresa
aveva documentato gli scostamenti tra i
prezzi indicati in sede di offerta e i
prezzi indicati in sede di giustificazione.
Nella fattispecie esaminata dal Tar, la
ricorrente non aveva sostanzialmente
modificato la ripartizione delle voci,
riducendone alcune ed aumentandone altre,
per riuscire a giustificare il prezzo
complessivamente offerto né quello relativo
a singole voci, essendosi invece limitata a
dimostrare la loro congruità, sostenendo a
tal fine che i valori indicati in sede di
gara erano addirittura eccedenti rispetto ai
costi che la stessa avrebbe sostenuto
nell'esecuzione dell'appalto di che
trattasi, potendo infatti anche essere
ulteriormente ribassati, rimanendo tuttavia
idonei a coprire le spese, e ad assicurare
un utile di impresa
(articolo ItaliaOggi del
05.05.2017).
---------------
MASSIMA
I.1) In via preliminare, osserva il
Collegio che,
nelle gare pubbliche, la valutazione della
congruità dell'offerta, pur essendo
espressione di discrezionalità c.d. tecnica
della stazione appaltante, è tuttavia
suscettibile di sindacato esterno da parte
del giudice amministrativo nei profili
dell'eccesso di potere per manifesta
irragionevolezza, erronea valutazione dei
presupposti, e contraddittorietà
(C.S., Sez. V, 29.04.2016, n. 1652).
Inoltre, per giurisprudenza pacifica,
mentre il provvedimento che valuta
un’offerta non anomala non abbisogna di una
motivazione analitica, essendo sufficiente
anche un rinvio alle argomentazioni e
giustificazioni della parte che l’ha
formulata, quello che la ritiene anomala,
deve essere invece puntualmente motivato
(TAR Campania, Napoli, Sez. III, 10.10.2013,
n. 4532).
In particolare,
il giudizio negativo sul piano
dell'attendibilità deve riguardare voci che,
per la loro incidenza complessiva, rendano
l'intera operazione economica non
plausibile, e per l'effetto, non
suscettibile di accettazione da parte della
stazione appaltante
(TAR Lazio, Roma, Sez. II, 16.12.2015 n.
14142),
con irrilevanza di eventuali singole voci di
scostamento, non avendo ad oggetto la
ricerca di specifiche e singole inesattezze
dell'offerta economica
(TAR Umbria, Sez. I, 14.03.2015 n. 114,
C.S., Sez. IV, 26.02.2015, n. 963),
quanto invece la dimostrazione della
complessiva inaffidabilità dell’offerta, e
dunque la sua inidoneità a garantire la
serietà nell'esecuzione del contratto
(TAR Lazio, Roma, Sez. I, 02.12.2016, n.
12066, TAR Puglia, Bari, Sez. I, 23.02.2017,
n. 184, TAR Campania, Napoli, Sez. IV,
06.10.2016, n. 4619, C.S. Sez. V,
13.09.2016, n. 3855).
...
II) In aggiunta a quanto precede, di per sé
risolutivo ai fini dell’accoglimento del
ricorso, ritiene il Collegio che le
motivazioni addotte nel citato verbale n.
2/2016, oltreché insufficienti, siano
altresì errate.
Come sopra evidenziato, secondo detto
provvedimento, l’offerta della ricorrente
andava esclusa, sostanzialmente, poiché le
giustificazioni fornite, e riferite a 8
voci, “non coincidono per difetto con i
prezzi inseriti nella lista delle
lavorazioni e fornitura” (v. punto n.
1).
II.1) Osserva il Collegio che,
in linea generale, nella fase del controllo
dell’anomalia, non è effettivamente
possibile un’indiscriminata ed arbitraria
modifica postuma della composizione
dell’offerta economica, con il solo limite
del rispetto del saldo complessivo,
ponendosi ciò in contrasto con le esigenze
conoscitive, da parte della stazione
appaltante, della struttura dei costi,
finendo altrimenti per snaturarsi
completamente la funzione ed i caratteri del
subprocedimento di anomalia
(C.S., Sez. III, 15.04.2016 n. 1533, C.S.,
Sez. III, 10.03.2016 n. 962).
E’ tuttavia consentito al concorrente di
dimostrare, in sede di verifica di anomalia,
che determinate voci di prezzo erano
eccessivamente basse, mentre altre, per
converso, erano sopravvalutate, pervenendo
così ad un rimaneggiamento, volto a
documentare per alcune di esse un risparmio
idoneo a compensare il maggior costo di
altre, incidendo finanche anche sull'utile
esposto
(TAR Lazio, Roma, Sez. II, 26.09.2016, n.
9927),
al fine di giungere ad una compensazione tra
sottostime e sovrastime, che lasci l’offerta
affidabile e seria
(C.S., Sez. V, 06.08.2015 n. 3859, TAR
Veneto, Sez. I, 12.10.2015, n. 1033).
II.2) Con riferimento alla fattispecie per
cui è causa, in via preliminare, osserva il
Collegio che le compensazioni operate dalla
ricorrente sono di modesto importo,
limitandosi a circa Euro 9.000,00, e
riferite a sole 8 voci su 23, dubitandosi
pertanto che le stesse fossero idonee a
stravolgere l’impianto complessivo
dell’offerta.
Inoltre, il Collegio evidenzia che, malgrado
la stessa ricorrente abbia affermato di aver
effettuato, mediante le proprie
giustificazioni, una “compensazione”
tra le voci di costo oggetto di verifica, in
realtà, più semplicemente, si è limitata a
dare conto della composizione della propria
offerta, cercando inoltre di dimostrare che
la stessa era addirittura complessivamente
eccedente rispetto ai costi da sostenersi
nell’esecuzione dell’appalto. Infatti,
poiché le giustificazioni sono risultate
superiori ai prezzi offerti per un importo
irrisorio (voci art. 9E e 11E, Euro 36,36),
essendo invece inferiori di quasi 9000 Euro,
deve concludersi che la ricorrente non ha
sostanzialmente effettuato tanto una
compensazione, in aumento ed in diminuzione,
delle voci di costo indicate in sede di
offerta, avendo al contrario cercato di
dimostrare che le stesse erano in realtà
sovrastimate rispetto ai costi
effettivamente necessari.
Conseguentemente, malgrado la non
coincidenza tra i valori delle voci di costo
indicate nelle giustificazioni, e quelli
offerti in gara, erroneamente assunta dal
provvedimento impugnato quale causa di
esclusione della ricorrente, ed a
prescindere dalla loro entità quantitativa,
la stazione appaltante avrebbe dovuto
pronunciarsi sulla congruità dell’offerta,
alla luce delle risultanze del procedimento
di anomalia.
L’indirizzo giurisprudenziale,
implicitamente posto a fondamento del
provvedimento impugnato, e che il Collegio
condivide, secondo cui
il concorrente sottoposto a verifica di
anomalia non può fornire giustificazioni
tali da integrare un’operazione di “finanza
creativa”, modificando, in aumento o in
diminuzione, le voci di costo
(TAR Lazio, Roma, Sez. II 26.09.2016 n.
9927, TAR Lombardia, Milano, Sez. IV,
01.06.2015, n. 1287, C.S., Sez. VI,
07.02.2012 n. 636),
non è infatti applicabile alla fattispecie,
essendosi formato in una casistica in cui il
rimaneggiamento delle voci è finalizzato a
mantenere fermo l’importo finale, al solo
scopo di “far quadrare i conti”,
ossia di assicurare che il prezzo
complessivo offerto resti immutato, per
superare le contestazioni sollevate dalla
stazione appaltante su alcune voci di costo.
Come detto, nella fattispecie per cui è
causa, la ricorrente non ha invece
sostanzialmente modificato la ripartizione
delle voci, riducendone alcune ed
aumentandone altre, per riuscire a
giustificare il prezzo complessivamente
offerto, né quello relativo a singole voci,
essendosi invece limitata a dimostrare la
loro congruità, sostenendo a tal fine che i
valori indicati in sede di gara erano
addirittura eccedenti rispetto ai costi che
la stessa avrebbe sostenuto nell’esecuzione
dell’appalto di che trattasi, potendo
infatti anche essere ulteriormente
ribassati, rimanendo tuttavia idonei a
coprire le spese, ed ad assicurare un utile
di impresa.
Paradossalmente, se la ricorrente si fosse
limitata a formulare le proprie
giustificazioni per un importo identico a
quello offerto in gara, la stazione
appaltante si sarebbe pronunciata sulla loro
congruità. Poiché invece nel caso di specie,
mediante dette giustificazioni, la
ricorrente ha sostanzialmente inteso
comprovare non solo che il prezzo offerto in
gara era congruo, ma anche che il medesimo
era addirittura eccedente ai costi
effettivi, del tutto irragionevolmente, la
Commissione ha invece ritenuto che l’offerta
andasse esclusa, sic et simpliciter. |
PATRIMONIO: Demanio
senza automatismi. Addio al rinnovo delle
concessioni senza selezione. APPALTI/ Una
sentenza del Tribunale amministrativo
regionale della Lombardia.
Addio rinnovo automatico delle concessioni
demaniali in essere anche dopo il decreto
legge enti locali 113/2016, il tutto in
ossequio alla sentenza C-458/14 della Corte
Ue che ha dichiarato illegittimo
l'affidamento a privati delle spiagge
italiane, prorogato al 31.12.2020 senza «una
imparziale e trasparente procedura di
selezione dei potenziali candidati».
E ciò perché l'articolo 24, c. 3-septies,
del dl 113/2016 introduce in pratica una
moratoria sulle concessioni esistenti ma
senza un termine finale certo.
Così la
sentenza
27.04.2017 n. 959 del TAR Lombardia-Milano,
Sez. I.
La controversia nasce dalla procedura a
evidenza pubblica bandita dal comune per la
gestione di uno stabilimento balneare. I
giudici di Lussemburgo hanno già bocciato la
norma di cui all'articolo 1, comma 18, del
decreto legge 194/2009 che prorogava le
autorizzazioni demaniali per gestire
attività turistiche e ricreative in riva al
mare e ai laghi. Ma dopo la sentenza Ue nel
dl 113/2016 è stata introdotta una norma
secondo cui i rapporti pendenti conservano
validità fino a quanto la materia non sarà
regolata dallo stato nazionale secondo i
principi eurounitari di libera concorrenza.
E anche voler condividere l'interpretazione
della società ricorrente secondo cui la
proroga prevista all'articolo, comma
3-septies, del dl 113/2016 debba trovare
applicazione con riferimento alle
concessioni non solo di beni demaniali ma
anche di beni appartenenti al patrimonio
indisponibile, queste norme devono essere
disapplicate per contrasto con il diritto Ue
(articolo ItaliaOggi del
31.05.2017).
---------------
MASSIMA
9.1 Prima di esaminare le censure,
occorre delineare il quadro normativo la cui
applicazione al caso di specie è oggetto
della presente controversia.
9.2 L’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, come
modificato dall'articolo 1, comma 1, della
legge 26.02.2010, n. 25, in sede di
conversione e, successivamente,
dall'articolo 34-duodecies, comma 1, del
D.L. 18.10.2012, n. 179, dall'articolo 1,
comma 547, della Legge 24.12.2012, n. 228 e,
da ultimo, dall'articolo 1, comma 291, della
Legge 27.12.2013, n. 147, dispone che: “ferma
restando la disciplina relativa
all'attribuzione di beni a regioni ed enti
locali in base alla legge 05.05.2009, n. 42,
nonché alle rispettive norme di attuazione,
nelle more del procedimento di revisione del
quadro normativo in materia di rilascio
delle concessioni di beni demaniali
marittimi, lacuali e fluviali con finalità
turistico-ricreative, ad uso pesca,
acquacoltura ed attività produttive ad essa
connesse, e sportive, nonché quelli
destinati a porti turistici, approdi e punti
di ormeggio dedicati alla nautica da
diporto, da realizzarsi, quanto ai criteri e
alle modalità di affidamento di tali
concessioni, sulla base di intesa in sede di
Conferenza Stato-regioni ai sensi
dell'articolo 8, comma 6, della legge
05.06.2003, n. 131, che è conclusa nel
rispetto dei principi di concorrenza, di
libertà di stabilimento, di garanzia
dell'esercizio, dello sviluppo, della
valorizzazione delle attività
imprenditoriali e di tutela degli
investimenti, nonché in funzione del
superamento del diritto di insistenza di cui
all'articolo 37, secondo comma, secondo
periodo, del codice della navigazione, [che
è soppresso dalla data di entrata in vigore
del presente decreto], il termine di durata
delle concessioni in essere alla data di
entrata in vigore del presente decreto e in
scadenza entro il 31.12.2015 è prorogato
fino al 31.12.2020, fatte salve le
disposizioni di cui all'articolo 03, comma
4-bis, del decreto-legge 05.10.1993, n. 400,
convertito, con modificazioni, dalla legge
04.12.1993, n. 494. All'articolo 37, secondo
comma, del codice della navigazione, il
secondo periodo è soppresso”.
9.3 La conformità al diritto comunitario di
questa norma è stata oggetto di rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia
dell’Unione Europea, disposto con sentenza
di questo Tribunale n. 2401/2014 e con
ordinanza del Tar Sardegna n. 224/2015.
La
Corte, con sentenza del 14.07.2016, ha
affermato che:
1) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE del
Parlamento europeo e del Consiglio, del
12.12.2006, relativa ai servizi nel mercato
interno, deve essere interpretato nel senso
che osta a una misura nazionale, come quella
di cui ai procedimenti principali, che
prevede la proroga automatica delle
autorizzazioni demaniali marittime e lacuali
in essere per attività turistico ricreative,
in assenza di qualsiasi procedura di
selezione tra i potenziali candidati.
2) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a
una normativa nazionale, come quella di cui
ai procedimenti principali, che consente una
proroga automatica delle concessioni
demaniali pubbliche in essere per attività
turistico ricreative, nei limiti in cui tali
concessioni presentano un interesse
transfrontaliero certo.
9.4 A seguito della decisione della Corte di
Giustizia, il legislatore italiano, con
legge n. 160 del 07.08.2016, ha introdotto,
in sede di conversione al d.l. n. 113/2016,
all’art. 24, il comma 3-septies, ai sensi
del quale: “nelle more della revisione e
del riordino della materia in conformità ai
principi di derivazione europea, per
garantire certezza alle situazioni
giuridiche in atto e assicurare l'interesse
pubblico all'ordinata gestione del demanio
senza soluzione di continuità, conservano
validità i rapporti già instaurati e
pendenti in base all'articolo 1, comma 18,
del decreto-legge 30.12.2009, n. 194,
convertito, con modificazioni, dalla legge
26.02.2010, n. 25”.
10.1 Così delineato il quadro normativo, si
può procedere con l’esame delle doglianze
formulate dalla ricorrente.
10.2 Anche a volere condividere la linea
interpretativa prospettata dalla ricorrente,
secondo cui la proroga prevista all’art. 1,
c. 18, d.l. n. 194/2009 ed all’art. 24, c.
3-septies, d.l. n. 113/2016 debba trovare
applicazione con riferimento alle
concessioni non solo di beni demaniali ma
anche di beni appartenenti al patrimonio
indisponibile, queste norme devono essere
disapplicate per contrasto con il diritto
comunitario, così come interpretato dalla
Corte di Giustizia UE con la sentenza sopra
richiamata.
Per costante giurisprudenza, al pari di
regolamenti e direttive, anche le pronunce
della Corte di Giustizia della Comunità
europea hanno, difatti, efficacia diretta
nell'ordinamento interno degli stati membri,
vincolando sia le amministrazioni che i
giudici nazionali alla disapplicazione delle
norme interne con esse configgenti
(Cfr. C.
Cost., 19.04.1985, n. 113 che ha affermato
l’immediata applicabilità delle statuizioni
risultanti dalle sentenze interpretative
della Corte di Giustizia; Cons. giust. amm.
Sicilia, sez. giurisd., 16.05.2016, n. 139).
10.3 La presente controversia ha ad oggetto
il contratto in forza del quale il Comune di
Como ha attribuito alla ricorrente il
diritto utilizzare il compendio denominato “lido
di Villa Olmo”, appartenente al
patrimonio indisponibile, quale lido e
stabilimento balneare, dietro versamento di
un canone periodico e senza alcun
corrispettivo a carico dell’amministrazione.
Tale contratto presenta i caratteri della
concessione, ai sensi del diritto
dell’Unione, essendo il rischio d’impresa a
carico della società Villa Olmo s.n.c.
La concessione rientra nell’ambito di
applicazione dell’articolo 12 della
direttiva 2006/123 in quanto:
- deve essere qualificata quale autorizzazione, ai sensi delle
disposizioni della direttiva, in quanto atto
formale che il prestatore deve ottenere
dall’autorità nazionale al fine di potere
esercitare l’attività economica;
- il numero di autorizzazioni disponibili per l’attività in
questione è indubbiamente limitato per via
della scarsità delle risorse naturali, quali
sono, in generale, le rive del lago di Como,
suscettibili di sfruttamento economico solo
in numero limitato, e quale è, in
particolare, il compendio in questione, in
considerazione delle sue peculiarità (in
relazione alla sua ubicazione ed alla sua
storia);
- la concessione d’uso del bene in questione non rientra nella
categoria delle concessioni di servizi,
escluse dall’ambito di applicazione della
direttiva 2006/123 e rientranti in quello
della direttiva 2014/23, per le ragioni
affermate dalla Corte di Giustizia con la
sentenza del 14.07.2016 (punti 44-48) ed
estensibili anche al caso di specie.
10.4 L’art. 12, c. 1, della direttiva
2006/123, dispone che, qualora il numero di
autorizzazioni disponibili per una
determinata attività sia limitato per via
della scarsità delle risorse naturali o
delle capacità tecniche utilizzabili, il
rilascio delle autorizzazioni deve essere
soggetto ad una procedura di selezione tra i
candidati potenziali, che presenti garanzie
di imparzialità e di trasparenza e preveda,
in particolare, un'adeguata pubblicità
dell'avvio della procedura e del suo
svolgimento e completamento.
10.5 Come affermato dalla Corte di Giustizia
ai punti 50 e ss. della sentenza sopra
richiamata, “una normativa nazionale,
come quella di cui ai procedimenti
principali, che prevede una proroga ex lege
della data di scadenza delle autorizzazioni
equivale a un loro rinnovo automatico, che è
escluso dai termini stessi dell’articolo 12,
paragrafo 2, della direttiva 2006/123.
Inoltre, la proroga automatica di
autorizzazioni relative allo sfruttamento
economico del demanio marittimo e lacuale
non consente di organizzare una procedura di
selezione come descritta al punto 49 della
presente sentenza”.
La Corte ha poi affermato che,
pur se
l’articolo 12, paragrafo 3, della direttiva
2006/123 prevede espressamente che gli Stati
membri possano tener conto, nello stabilire
le regole della procedura di selezione, di
considerazioni legate a motivi imperativi
d’interesse generale, “è previsto che si
tenga conto di tali considerazioni solo al
momento di stabilire le regole della
procedura di selezione dei candidati
potenziali e fatto salvo, in particolare,
l’articolo 12, paragrafo 1, di tale
direttiva.
Pertanto l’articolo 12, paragrafo 3, della
direttiva in questione non può essere
interpretato nel senso che consente di
giustificare una proroga automatica di
autorizzazioni allorché, al momento della
concessione iniziale delle autorizzazioni
suddette, non è stata organizzata alcuna
procedura di selezione ai sensi del
paragrafo 1 di tale articolo”.
Inoltre, “una giustificazione fondata sul
principio della tutela del legittimo
affidamento richiede una valutazione caso
per caso che consenta di dimostrare che il
titolare dell’autorizzazione poteva
legittimamente aspettarsi il rinnovo della
propria autorizzazione e ha effettuato i
relativi investimenti. Una siffatta
giustificazione non può pertanto essere
invocata validamente a sostegno di una
proroga automatica istituita dal legislatore
nazionale e applicata indiscriminatamente a
tutte le autorizzazioni in questione”.
La previsione di cui all’art. all’art. 1, c.
18, d.l. n. 194/2009, come affermato dalla
Corte di Giustizia dell’Unione Europea,
contrasta quindi con l’articolo 12,
paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123.
10.6 Un identico contrasto deve ritenersi
sussistente con riferimento alla previsione
di cui all’art. 24, c. 3-septies, d.l. n.
113/2016.
Con tale norma, il legislatore -nel
prevedere la conservazione della validità
dei rapporti già instaurati e pendenti in
base all'articolo 1, comma 18, del
decreto-legge 30.12.2009, n. 194,
convertito, con modificazioni, dalla legge
26.02.2010, n. 25 “nelle more della
revisione e del riordino della materia in
conformità ai principi di derivazione
europea”– ha, difatti, sostanzialmente
reintrodotto un rinnovo automatico delle
autorizzazioni concesse, oltretutto senza la
previsione di un termine finale certo, che
impedisce lo svolgimento di procedure
comparative, eludendo così, al pari
dell’art. 1, c. 18, d.l. n. 194/2009, il
dettato della direttiva 2006/123 e le
indicazioni date dalla Corte di Giustizia.
10.7
Poiché le norme invocate dalla ricorrente si
pongono in contrasto con il diritto
comunitario, esse devono essere
disapplicate. A ciò consegue la piena
legittimità della decisione del Comune di
Como di non considerare efficace la
concessione in questione e di procedere alla
pubblicazione del bando per l’assegnazione
del compendio immobiliare. |
APPALTI: Le
stazioni appaltanti hanno il potere di
fissare nella lex specialis parametri di
capacità tecnica dei partecipanti e
requisiti soggettivi specifici di
partecipazione attraverso l'esercizio di
un'ampia discrezionalità, fatti salvi i
limiti imposti dai principi di
ragionevolezza e proporzionalità, i quali
consentono il sindacato giurisdizionale
sull'idoneità ed adeguatezza delle clausole
del bando rispetto alla tipologia e
all'oggetto dello specifico appalto.
In definitiva, in sede di predisposizione
della lex specialis di gara d'appalto,
l'Amministrazione è legittimata ad
introdurre disposizioni atte a limitare la
platea dei concorrenti onde consentire la
partecipazione alla gara stessa di soggetti
particolarmente qualificati, specie per ciò
che attiene al possesso di requisiti di
capacità tecnica e finanziaria, tutte le
volte in cui tale scelta non sia
eccessivamente quanto irragionevolmente
limitativa della concorrenza, in quanto
correttamente esercitata attraverso la
previsione di requisiti pertinenti e congrui
rispetto allo scopo perseguito.
---------------
14. La
ricorrente ha, infine, dedotto, in via
subordinata, l’illegittimità, per eccesso di
potere per illogicità e contraddittorietà,
dell’art. 9 dell’avviso d’asta nella parte
in cui prevede, a pena di esclusione, tra i
requisiti di partecipazione, “un’esperienza
professionale di almeno tre anni nell’ambito
della conduzione di impianti sportivi o di
pubblici esercizi”.
A suo avviso, avendo il Comune individuato
l’uso per il quale il bene è dato in
concessione nella “gestione di uno
stabilimento balneare, quale attività
principale, oltre ad attività di
somministrazione di alimenti e bevande
accessorie alle suddette attività” (art.
2 dell’avviso d’asta) e avendo richiesto ai
concorrenti il possesso del requisito
dell’iscrizione alla competente camera di
commercio “per le specifiche attività
oggetto della concessione”, sarebbe
illegittimo richiedere, a dimostrazione
della capacità tecnica, una generica
esperienza professionale nell’ambito della
conduzione di ogni tipo di impianto sportivo
o di pubblico esercizio e non esigere,
invece, una specifica esperienza nella
conduzione degli stabilimenti balneari.
La conduzione di uno stabilimento balneare,
con due piscine, necessiterebbe di
specifiche competenze e capacità che
spaziano dall’assistenza ai bagnanti, alla
manutenzione degli impianti natatori, alla
gestione degli attracchi per l’ormeggio
delle imbarcazioni, alla balneabilità o meno
dello specchio lacuale, alla tutela
dell’ambiente lacustre.
15. La censura è infondata.
Per costante giurisprudenza "le stazioni
appaltanti hanno il potere di fissare nella
lex specialis parametri di capacità tecnica
dei partecipanti e requisiti soggettivi
specifici di partecipazione attraverso
l'esercizio di un'ampia discrezionalità,
fatti salvi i limiti imposti dai principi di
ragionevolezza e proporzionalità, i quali
consentono il sindacato giurisdizionale
sull'idoneità ed adeguatezza delle clausole
del bando rispetto alla tipologia e
all'oggetto dello specifico appalto. In
definitiva, in sede di predisposizione della
lex specialis di gara d'appalto,
l'Amministrazione è legittimata ad
introdurre disposizioni atte a limitare la
platea dei concorrenti onde consentire la
partecipazione alla gara stessa di soggetti
particolarmente qualificati, specie per ciò
che attiene al possesso di requisiti di
capacità tecnica e finanziaria, tutte le
volte in cui tale scelta non sia
eccessivamente quanto irragionevolmente
limitativa della concorrenza, in quanto
correttamente esercitata attraverso la
previsione di requisiti pertinenti e congrui
rispetto allo scopo perseguito" (TAR
Campania, Napoli, sez. V, 03.05.2016 n.
2185; Cons. di St., sez. V, 23.09.2015, n.
4440; TAR Lazio, Roma, sez. II, 02.09.2015,
n. 11008).
Nel caso di specie, la decisione
dell’amministrazione di consentire la
partecipazione alla gara a soggetti iscritti
alla camera di commercio per “le
specifiche attività oggetto di concessione”
ed aventi un’esperienza professionale nella
conduzione, in generale, di impianti
sportivi o anche di pubblici esercizi,
anziché ai soli soggetti aventi una
specifica esperienza nella conduzione di
stabilimenti balneari non può ritenersi
viziata per manifesta illogicità né per
contraddittorietà.
La scelta dell’amministrazione è, invero,
adeguata in considerazione dell’oggetto
della concessione (gestione di uno
stabilimento balneare ed esercizio
dell’attività di somministrazione di
alimenti e bevande), della tipologia di beni
di cui è composto il compendio immobiliare
(biglietteria, due piscine scoperte e
solarium, cabine, guardaroba, docce, servizi
igienici, locali deposito e sale macchine e
dehor-bar) e delle destinazioni funzionali
ammesse (ludico/ricreativo e bar nell’ambito
del lido).
Le attività che dovranno essere svolte dal
concessionario sono dunque plurime e
riguardano l’attività di ristorazione, la
gestione di impianti sportivi (le due
piscine) e la gestione dello stabilimento
balneare, attività, quest’ultima, che consta
di prestazioni già ricomprese nelle prime
due (come l’attività di assistenza ai
bagnanti, richiamata dalla stessa
ricorrente): ciò giustifica che il requisito
di esperienza non sia limitato
esclusivamente a quest’ultima attività.
Inoltre, consentire la partecipazione alla
gara ai soli soggetti che hanno maturato la
propria esperienza nella conduzione di
stabilimenti balneari, e non al più ampio
numero di gestori di impianti sportivi in
genere, avrebbe, invece, ristretto
eccessivamente ed ingiustificatamente la
platea dei partecipanti, in netto contrasto
con i principi del favor partecipationis
e dell’apertura al mercato di settori dai
quali finora sono rimasti esclusi tutti
quegli operatori non affidatari di
provvedimenti concessori rilasciati senza
gara (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza
27.04.2017 n. 959). |
TRIBUTI: Notifiche
a mezzo posta, un pieno di insidie.
Dalle notifiche a mezzo posta degli atti
tributari un pieno di insidie per i
contribuenti.
Secondo una recentissima sentenza della
Corte di Cassazione alle notifiche fiscali
si applica infatti la disposizione contenuta
nell'articolo 1335 del codice civile secondo
la quale «ogni dichiarazione diretta a una
determinata persona si reputa conosciuta nel
momento in cui giunge all'indirizzo del
destinatario, se questi non prova di essere
stato, senza sua colpa, nell'impossibilità
di averne notizia».
Se questa tesi dei giudici di legittimità
(Sez. V civile) contenuta nella
sentenza
26.04.2017 n. 10245, dovesse affermarsi, ne
deriverebbero gravi conseguenze per i
contribuenti.
In quanto si verrebbe ad affermare che la
notifica è giunta a buon fine anche quando
l'atto venga consegnato ad un soggetto che
si trovi in loco del tutto per caso, come un
conoscente del figlio del destinatario
oppure, al limite, a chi si è introdotto
abusivamente nella proprietà altrui. Ponendo
sul destinatario l'onere della prova -difficile e quasi diabolica- di essere
stato senza colpa nell'impossibilità di
avere notizia della circostanza.
In ambito tributario infatti a seguito della
notifica scatta un breve termine entro il
quale il debitore deve contestare nelle
forme di legge la pretesa del Fisco (in
genere ricorrendo alla giustizia
tributaria); se egli resta inerte la pretesa
fiscale si «consolida», cioè si ha per
definitivamente accertata.
Di qui l'enorme rilievo che assumono del
diritto tributario le norme sulla notifica
degli atti impositivi.
Per quanto sopra illustrato molto spesso
accade che il contribuente venga a
conoscenza della pretesa fiscale solo quando
inizia la procedura di riscossione coattiva.
E in quel momento affermi di non aver avuto
notizia dell'atto di accertamento. Ma questa
sua asserita ignoranza è irrilevante se
l'atto impositivo è stato notificato,
secondo regole e prassi che tendono ad
avvantaggiare il Fisco, ad esempio
consentendogli di ricorre al servizio
postale; né è necessaria la prova che il
contribuente abbia ricevuto materialmente
l'atto impositivo, ma è sufficiente che esso
sia giunto in un'area, come la buca delle
lettere, ove il contribuente avrebbe potuto
prenderne visione; o a mani di una persona
che si può presumere gli consegni la
missiva.
Legge e regolamento postale individuano poi
i soggetti cui l'atto inviato per posta può
essere consegnato; si tratta di un elenco
piuttosto ampio, ma ove la consegna avvenga
a chi non ha alcun legame con il
contribuente e con il luogo della notifica,
sarebbe logico ritenere che la notifica non
sia andata a buon fine.
Nei rapporti di diritto civile invece il
creditore non è collocato in una posizione
istituzionale di vantaggio rispetto al
debitore, e perciò la notifica informa
soltanto il debitore di quanto da lui si
pretende; ed impedisce il venir meno del
diritto (per prescrizione o decadenza). Ma
il debitore non ha, di regola, alcun onere
di replicare alla richiesta pervenutagli. E
se il creditore vorrà realizzare il suo
diritto dovrà rivolgersi al giudice, avanti
al quale il debitore potrà difendersi.
Dunque nei rapporti privati la applicazione
dell'art. 1335 del codice civile produce
effetti limitati Mentre l'applicazione del
medesimo principio alla notifica degli atti
tributari produce effetti negativi
dirompenti per il presunto debitore. E
simile applicazione estensiva dell'art. 1335
pare tradisca la funzione della norma, che
è, inserita nel libro quarto (delle
obbligazioni) nel capo II (dei contratti in
generale) del codice civile; e quindi non è
stata concepita per regolare un rapporto
pubblicistico come quello tributario, che è
fondato non sul consenso contrattuale, bensì
sul potere impositivo dello Stato
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017). |
APPALTI: Integrazione
documentale tramite la Pec.
Nelle gare d'appalto la richiesta di
integrazione documentale ai fini del
soccorso istruttorio deve essere comunicata
alla ditta mediante posta elettronica
certificata.
Lo ha stabilito il TAR Toscana, Sez. III, con la
sentenza
26.04.2017 n. 609.
La
vicenda nasce dall'esclusione di un
raggruppamento temporaneo «reo» di non aver
trasmesso una serie di atti richiesti dal
committente pubblico. La p.a. inoltre non
aveva voluto concedere la rimessione in
termini, anche se era stato addotto che la
domanda di ulteriore carteggio ex art. 83,
comma 9, dlgs n. 50 del 2016 non era stata
ricevuta e che comunque era partita da un
semplice indirizzo di posta elettronica.
Il
Collegio ha risolto la quaestio iuris
interpretando in termini più ampi l'art. 76,
comma 3, citato dlgs, il quale prescrive
l'utilizzo della Pec in caso di
«provvedimento che determina le esclusioni
dalla procedura di affidamento».
L'organo
giudicante vi ha fatto rientrare non solo i
provvedimenti di esclusione in senso
stretto, ma anche quegli atti che pongono a
carico dei concorrenti degli incombenti il
cui mancato rispetto comporta come sanzione
l'esclusione dalla gara. In tale quadro
rientra anche l'atto con il quale la
stazione appaltante assegna al concorrente
un termine non superiore a dieci giorni
perché siano rese, integrate o completate le
dichiarazioni necessarie alla
partecipazione.
Infine il Tar ha ribadito
che la posta elettronica ordinaria non
garantisce certezza in ordine all'inoltro e
al recepimento dell'atto, per cui in questo
caso non poteva dirsi maturata la decadenza
a carico del ricorrente
(articolo ItaliaOggi
Sette del
29.05.2017).
---------------
MASSIMA
9 – Il Collegio ritiene fondata la prima
censura di cui al ricorso introduttivo del
giudizio, ove parte ricorrente censura la
erronea applicazione della lex specialis e
delle norme vigenti in materia di
comunicazioni ai concorrenti ai sensi del
d.lgs. n. 50 del 2016.
L’art. 8 del
Disciplinare di gara -in disparte le
“comunicazioni aventi carattere generale”,
per le quali prevede la sola pubblicazione
sul sito START nell’area riservata alla gara- contiene per le comunicazioni aventi
specifica valenza per il singolo concorrente
due distinte previsioni, che devono essere
tra loro armonizzate; da un lato stabilisce
che le comunicazioni di valenza individuale
“sono eseguite ai sensi dell’art. 76 d.lgs.
50/2016”, dall’altro lato aggiunge che le
comunicazioni “comunque avvengono e si danno
per eseguite mediante spedizione di messaggi
alla casella di posta elettronica o alla
casella di posta elettronica certificata
indicata dal concorrente ai fini della
procedura telematica di acquisto nella
domanda di partecipazione”, con l’aggiunta
dell’inserimento delle comunicazioni stesse
in area riservata del sistema START.
Le due
richiamate previsioni disciplinari hanno
diversa portata applicativa, dal momento che
l’art. 76 d.lgs. n. 50 del 2016,
espressamente richiamato dall’art. 8 del
Disciplinare, prevede per alcune tipologie
di comunicazioni l’uso esclusivo della pec,
essendo questo uno degli elementi innovativi
in materia del Codice del 2016, mentre la
restante previsione dell’art. 8 del
Disciplinare contempla l’alternativa tra pec
o posta elettronica ordinaria.
Invero il
coordinamento tra i due contenuti dell’art.
8 cit. è agevole, ancorché lo stesso avrebbe
potuto essere formulato in termini
maggiormente perspicui; cioè
il Disciplinare
di gara, nel richiamare l’art. 76 d.lgs. n.
50 del 2016, vincola la stazione appaltante
all’utilizzo della pec per le comunicazioni
per le quali la norma del Codice preveda
tale strumento in via esclusiva, con
l’effetto che l’ulteriore previsione di alternatività tra pec e posta elettronica
ordinaria vale solo per le comunicazioni
diverse da quelle per le quali l’art. 76
d.lgs. n. 50 del 2016 impone l’uso della
pec.
Tale lettura del sistema normativo
comporta, quale ulteriore passaggio
esegetico, la necessità di chiarire se la
comunicazione di integrazione documentale in
sede di soccorso istruttorio, di cui
all’art. 83, comma 9, d.lgs. n. 50 del 2016,
rientri o meno tra quelle per le quali era
necessario l’utilizzo in via esclusiva della
pec, ovvero se tale richiesta di
integrazione sia legittimamente comunicabile
anche con mezzo diverso.
Ritiene il Collegio
che
la risposta al quesito passi attraverso
la corretta interpretazione dell’art. 76,
comma 3, d.lgs. n. 50 del 2016, laddove
l’utilizzo della pec è imposto con
riferimento al “provvedimento che determina
le esclusioni dalla procedura di
affidamento”.
L’Amministrazione resistente
sembra leggere la suddetta previsione
normativa come riferita ai provvedimenti di
esclusione in senso stretto, avendo infatti
comunicato l’esclusione della concorrente
dalla gara a mezzo pec e non utilizzando la
casella di posta elettronica ordinaria, pur
indicata da parte ricorrente nella domanda
di partecipazione alla selezione.
Ritiene
tuttavia il Collegio che la suddetta
previsione normativa debba essere letta in
termini più ampi, sì da comprendere cioè non
solo i provvedimenti di esclusione in senso
stretto, ma anche quegli atti che pongono a
carico dei concorrenti degli incombenti il
cui mancato rispetto comporta come sanzione
l’esclusione dalla gara, parlando infatti la
norma di provvedimento “che determina”
l’esclusione, cioè il cui esito finale può
essere l’esclusione dalla gara.
In tal
quadro rientra dunque anche l’atto di cui
all’art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del
2016, con il quale la stazione appaltante
assegna al concorrente un termine non
superiore a dieci giorni perché siano rese,
integrate o regolarizzate le dichiarazioni
necessarie alla partecipazione alla gara,
con la precisazione che “in caso di inutile
decorso del termine di regolarizzazione, il
concorrente è escluso dalla gara”.
Si tratta
anche in questo caso, dunque, di un atto
“che determina le esclusioni dalla procedura
di affidamento”, cioè dotato di forte
potenzialità lesiva per il concorrente,
stante la perentorietà del termine che viene
assegnato per la regolarizzazione, che cade
nella disciplina del combinato disposto
degli artt. 83, comma 9, e 76, comma 3,
d.lgs. n. 50 del 2016, e di cui quindi deve
essere dato avviso ai concorrenti a mezzo
pec.
Nel caso di specie, invece, come già
chiarito, l’atto di soccorso istruttorio è
stato comunicato a mezzo posta elettronica
ordinaria, che non garantisce certezza in
ordine al suo inoltro e recepimento, per cui
non può dirsi maturata a decadenza a carico
del concorrente, risultando quindi
illegittima la disposta esclusione dalla
gara. |
VARI: Tumore da telefonino, è malattia
professionale.
L'Inail dovrà risarcire un ex dipendente
della Telecom ammalatosi di neurinoma
dell'acustico, un tumore benigno ma
invalidante, causato dall'utilizzo
prolungato del telefono cellulare.
Lo ha
deciso, in primo grado, il TRIBUNALE di
Ivrea con la
sentenza
21.04.2017 n. 96, che riconosce il legame tra tumore
cranico e uso del cellulare.
Il lavoratore
per 15 anni, dal 1995 al 2010, ha utilizzato
il telefono cellulare messogli a
disposizione dall'azienda, anche per 3-4 ore
al giorno. Fino a quando inizia ad avvertire
disturbi a un orecchio che dopo ripetuti
controlli medici risultano causati da un
neurinoma dell'acustico, carcinoma benigno
ma che necessita di essere asportato.
L'intervento avviene nel 2011: i medici
rimuovono il neurinoma, ma anche il nervo
acustico, con la conseguente perdita di
udito dall'orecchio destro.
Un danno
biologico permanente del 23%, come stabilito
dal giudice del lavoro Luca Fadda, che si è
basato su una consulenza tecnica d'ufficio e
ha condannato l'Inail a versare al
lavoratore un vitalizio da malattia
professionale, quantificabile in circa 500
euro al mese. «Con il caso deciso dal
tribunale di Ivrea», hanno spiegato i legali
della vittima Renato Ambrosio e Stefano Bertone, «è la prima volta che, fin
dall'inizio, la giustizia italiana riconosce
la piena plausibilità dell'effetto oncogeno
delle onde elettromagnetiche dei cellulari.
Effetto già riconosciuto sin dal 2011 dalla Iarc (International agency for research on
cancer) che includeva le onde dei cellulari
e dei cordless fra i possibili cancerogeni».
«A oggi non c'è un rapporto causa-effetto
accertato che indichi che l'uso del telefono
cellulare aumenta il rischio di cancro», ha
però commentato Carmine Pinto, presidente
dell'Aiom, l'associazione italiana di
oncologia medica». «In 20 anni la
letteratura scientifica non ha prodotto
evidenze certe sulla correlazione tra
cellulari e cancro, ci sono diversi studi
contraddittori, non esaustivi». Il punto,
ricorda l'oncologo, è che i cellulari
emettono campi elettromagnetici a bassa
frequenza, e «su questi campi non ci sono
studi completi.
Non ci sono prove che anche basse frequenze
riescano a influire sui neuroni tanto da
provocare un cancro cerebrale».
«Anche
perché», conclude, «dal momento che
l'irradiamento di questo tipo di campi è
molto tenue, ci vogliono 30 anni per poter
valutare in maniera attendibile i possibili
effetti sul cervello»
(articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017). |
URBANISTICA: L'arte sposta l'ambulante.
È legittimo il piano del commercio su area
pubblica di un comune che, per riqualificare
l'area vicino a un importante basilica,
d'accordo con la soprintendenza per i beni
architettonici, ha disposto il parziale
spostamento di alcuni posteggi in altre aree
del territorio comunale.
Questo è il
principio espresso dal Consiglio di Stato,
Sez. V, con la
sentenza 19.04.2017 n. 1816 in materia di spostamento di un
piano di commercio ambulante su area
pubblica per la tutela dei centri storici
delle città d'arte.
I giudici del consiglio di stato sostengono
che la difesa di un centro storico non si
può limitare alla conservazione della
consistenza materiale, ma deve riguardare
anche la qualità dell'ambiente
(articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017).
---------------
MASSIMA
4.3. Osserva inoltre il Collegio che
l’illegittimità degli atti impugnati in
primo grado neppure può essere affermata in
base all’invocata inclusione del mercato di
San Lorenzo fra i ‘mercati storici’ e
fra le ‘espressioni di identità culturale
e collettiva’ di cui alle Convenzioni
UNESCO per la salvaguardia del c.d.
patrimonio culturale immateriale e la
promozione delle diversità culturali
adottate a Parigi il 03.11.2003 e il
20.10.2005: per meglio dire «espressioni
di identità culturale collettiva», le
quali, a norma dell’art. 7-bis del Codice
dei beni culturali e del paesaggio, «sono
assoggettabili alle disposizioni» di
tutela e valorizzazione di quel Codice
soltanto «qualora siano rappresentate da
testimonianze materiali e sussistano i
presupposti e le condizioni per
l'applicabilità dell'articolo 10», cioè
per la dichiarazione di bene culturale: il
che qui non ricorre (è semmai il contesto
monumentale ad avere tale qualifica, a
muovere dalla basilica).
Il Comune appellato bene ha obiettato che la
ratio della l. 20.02.2006, n. 77 è la
protezione dei siti di interesse culturale,
paesaggistico e ambientale, inseriti nella «lista
del patrimonio mondiale» dell'UNESCO, al
fine di preservarne l’unicità in quanto
elementi di rilievo mondiale del patrimonio
italiano e della sua rappresentazione a
livello internazionale.
Ma la sufficiente ragione giuridica dei
richiamati interventi non necessita di una
siffatta, aggiuntiva, qualificazione
internazionale e –come indica l’art. 52 del
Codice– si riferisce alla coerenza attuale
del commercio con un contesto, qui
particolarmente significativo, del
patrimonio culturale italiano.
La ratio dell’art. 52 non è quella di
una mera conservazione della situazione
esistente, ma quella di una valutazione in
ragione delle trasformazioni che il
commercio stesso, per sua natura, può
presentare. Sicché non può ritenersi che
l’operatività della norma debba limitarsi
nella pura e semplice cristallizzazione (in
modo –per così dire– ‘statico’) delle
caratteristiche dei luoghi, specie quando
per le dinamiche commerciali vengano a
presentarsi evidenti e gravi profili di
conseguito degrado, contrari alla
conservazione dei valori da tutelare.
Al contrario, la salvaguardia dei siti in
questione comporta interventi orientati al
decoro urbano, cioè a preservare attivamente
le caratteristiche essenziali dei luoghi.
Come già la giurisprudenza di questa Sezione
ha precisato in un rilevante caso di
postazioni di commercio ambulante nel centro
storico di Roma, “il
decoro urbano non è una materia o
un’attività ma una finalità immateriale
dell’azione amministrativa, che corrisponde
al valore insito in un apprezzabile livello
di qualità complessiva della tenuta degli
spazi pubblici, armonico e coerente con il
contesto storico, perseguita mediante la
selezione delle apposizioni materiali (es.
dehor) e delle utilizzazioni, specie
commerciali (art. 52 del Codice) ma non
solo. A seconda del profilo e dello
strumento, può essere frutto vuoi di tutela
(e valorizzazione) del patrimonio culturale,
vuoi di disciplina urbanistica o del
commercio, vuoi della politiche comunali di
concessioni di suolo pubblico: comunque in
ragione delle competenze di legge”
(Cons. Stato, V, 23.08.2016, n. 3861).
Un siffatto obiettivo può dalle
amministrazioni competenti essere perseguito
anche con riguardo alle trasformazioni
negative che nel tempo subisce la dinamica,
pur solo merceologica, del commercio
ambulante, ove –ferme naturalmente le
trasformazioni tecniche compatibili- giunga
al punto da divenire incongrua con le
concrete caratteristiche storico-artistiche
e con la dignità culturale dei luoghi.
La previsione risponde a una finalità
essenziale per la salvaguardia dei centri
storici e delle città d’arte: la quale, per
non restare claudicante perché incentrata
sulla preservazione del solo elemento
materiale, deve riguardare anche la
dimensione immateriale e qualitativa. In
questa si iscrivono appunto, per decoro
urbano, la corrispondenza tra il contesto
storico-artistico e la connotazione che nei
fatti assume l’attività commerciale, su cui
il provvedere, analiticamente o per congrue
categorie, compete al Comune ex art. 52 cit.
(mentre altre misure, di stretta tutela di
beni culturali, competono senz’altro al solo
Ministero: cfr. artt. 20, 12, 13 e 45 del
Codice).
Alla luce di tali parametri, l’operato del
Comune di Firenze (e con esso degli
impugnati atti della Soprintendenza) risulta
congruo, coerente e non viziato dai
lamentati profili di abnormità ed
irragionevolezza.
Il Comune ha rilevato che il Piano di
gestione adottato ai sensi della l. n. 77
del 2006 ha previsto espresse misure di
tutela per le tradizionali botteghe
artigiane fiorentine, nonché per i negozi
storici (cioè gli esercizi commerciali “che
vantano una lunga tradizione di genere
merceologico venduto nello stesso negozio o
dell’attività ivi esercitata, ma anche la
tipicità della produzione”).
Queste altre sono misure comunali volte a
coniugare la salvaguardia di luoghi storici
con la preservazione di attività economiche
integrate da tempo immemorabile e che
mantengono la corrispondente connotazione
storica. Sicché la loro preservazione, lungi
dal costituire un detrimento come nei casi
cennati, continua ad esprimere un elemento
delle caratteristiche tradizionali
dell’apprezzabilità dei luoghi e del decoro
urbano da attivamente perseguire.
In coerenza con l’art. 52 del Codice dei
beni culturali e del paesaggio,
l’amministrazione comunale ha il compito
non, riduttivamente, di attestarsi a una
mera rilevazione economica; ma di vagliare
l’attualità di un rapporto tra la realtà
effettiva delle attività commerciali e il
contesto di particolare pregio. Il fatto
della presenza di attività commerciali
risalenti non comporta la loro automatica
congruenza con quel carattere dei luoghi: al
contrario, occorre considerare la
compatibilità –seppur con attenzione alla
normale evoluzione tecnica– delle loro
mutate caratteristiche rispetto a quello
stesso ambiente.
Essendo questo il proporzionato e
contestuale modo in cui inquadrare da parte
del Comune la preservazione di attività
economiche in àmbiti di carattere storico o
monumentale, è evidente che tale
salvaguardia non può favorire
indistintamente qualunque attività
economica, cioè anche quella che (ad es.,
per cessioni o per recente costituzione) si
trovi ad operare in un sito storico offrendo
ora in vendita merci che non hanno
qualitativamente a vedere con la
connotazione e il pregio storico del
contesto.
Pertanto
è congruo e giustificato l’operato selettivo
del Comune appellato il quale, per
salvaguardare le caratteristiche di pregio
dei siti UNESCO e in attuazione del Piano di
gestione del giugno 2006, ha disposto
l’istituzione di un albo degli esercizi
commerciali, artigianali e alberghieri e dei
pubblici esercizi, anche per commercio su
area pubblica, che svolgono attività di
rilevante valore artistico, storico,
ambientale e documentario.
Risulta in atti che nessuna delle attività
gestite dagli appellanti sia iscritta nel
richiamato Albo (e, in particolare, che non
vi risulti iscritto l’esercente nei cui
confronti è stata resa la sentenza di questo
Consiglio di Stato, V, 23.02.2015, n. 847,
richiamata dagli appellanti con memoria
05.01.2017). |
APPALTI: Bandi
di gara e formulazione delle offerte.
Clausole escludenti da impugnare subito.
Le clausole di un bando di gara escludenti
la partecipazione devono essere
immediatamente impugnate; le altre
potenzialmente lesive devono essere
impugnate al momento dell'aggiudicazione
definitiva.
È quanto ha affermato il Consiglio di Stato,
Sez. III, con la
sentenza
18.04.2017 n. 1809 relativamente all'onere di
tempestiva impugnazione delle clausole di
atti di gare per l'affidamento di contratti
pubblici.
La sentenza si pronuncia in merito
all'impugnativa della clausola del bando di
gara nella quale veniva precisato il
criterio di calcolo delle offerte teso a
premiare l'impresa concorrente che avrebbe
offerto un ribasso maggiore sulla parte di
fornitura che rappresentava il più alto
impegno economico per l'amministrazione. I
giudici ricostruiscono in termini generali
le regole sull'impugnazione precisando che
l'onere di impugnare immediatamente le
previsioni della legge di gara non concerne
solo quelle in senso classico «escludenti»,
che prevedono requisiti soggetti di
partecipazione, ma anche le clausole
afferenti alla formulazione dell'offerta,
sia sul piano tecnico che economico, laddove
esse rendano impossibile la presentazione di
una offerta.
La sentenza ricorda quali siano le
fattispecie che devono essere immediatamente
oggetto di impugnativa, fra cui: le regole
impositive, ai fini della partecipazione, di
oneri manifestamente incomprensibili o del
tutto sproporzionati per eccesso rispetto ai
contenuti della procedura concorsuale; le
previsioni che rendano la partecipazione
incongruamente difficoltosa o addirittura
impossibile; le disposizioni abnormi o
irragionevoli che rendano impossibile il
calcolo di convenienza tecnica ed economica
ai fini della partecipazione alla gara
ovvero prevedano abbreviazioni irragionevoli
dei termini per la presentazione
dell'offerta; le condizioni negoziali che
rendano il rapporto contrattuale
eccessivamente oneroso e obiettivamente non
conveniente.
Pertanto, dicono i giudici, le
rimanenti tipologie di clausole «asseritamente
ritenute lesive devono essere impugnate
insieme con l'atto di approvazione della
graduatoria definitiva». È quello il momento
in cui viene definita la procedura
concorsuale e identificato in concreto il
soggetto leso dal provvedimento, così
rendendo attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva e postulano la
preventiva partecipazione alla gara
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017).
---------------
MASSIMA
6.11. La previsione del disciplinare di
gara infatti, proprio per il tenore della
censura e indipendentemente dall’esito della
gara, appariva immediatamente lesiva per la
ricorrente, che proprio in base alla sua
stessa prospettazione sarebbe stata
costretta dalla legge di gara a formulare
una offerta asseritamente illogica sul piano
della convenienza economica oltre che, come
deduce l’appellante (p. 20 del ricorso),
asseritamente irragionevole e illogica, per
la stessa stazione appaltante, anche
rispetto al dichiarato intento di
configurare a lotto unico indivisibile.
6.12. Occorre al riguardo rammentare,
infatti, che
l’onere di impugnare immediatamente le
previsioni della legge di gara non concerne
solo quelle in senso classico “escludenti”,
che prevedono requisiti soggetti di
partecipazione (Ad. plen., 29.01.2003, n.
1), ma anche le clausole afferenti alla
formulazione dell’offerta, sia sul piano
tecnico che economico, laddove esse rendano
(realmente) impossibile la presentazione di
una offerta
(v., ex plurimis, Cons. St., sez. IV,
11.10.2016, n. 4180).
6.13.
La più recente giurisprudenza segue ormai
fermamente tale linea interpretativa
(Cons. St., sez. III, 02.02.2015, n. 491)
e, nel tentativo di enucleare le ipotesi in
cui tale evenienza può verificarsi, ha a più
riprese puntualizzato che, tra le altre,
tali sono:
a)
le regole impositive, ai fini della
partecipazione, di oneri manifestamente
incomprensibili o del tutto sproporzionati
per eccesso rispetto ai contenuti della
procedura concorsuale
(v., in particolare, Cons. St., sez. IV,
07.11.2012, n. 5671);
b)
le previsioni che rendano la partecipazione
incongruamente difficoltosa o addirittura
impossibile
(così, del resto, la già citata pronuncia n.
1 del 29.01.2003 dell’Adunanza plenaria);
c)
le disposizioni abnormi o irragionevoli che
rendano impossibile il calcolo di
convenienza tecnica ed economica ai fini
della partecipazione alla gara ovvero
prevedano abbreviazioni irragionevoli dei
termini per la presentazione dell’offerta
(cfr. Cons. St., sez. V, 24.02.2003, n.
980);
d)
le condizioni negoziali che rendano il
rapporto contrattuale eccessivamente oneroso
e obiettivamente non conveniente
(cfr. Cons. St., sez. V, 21.11.2011 n.
6135);
e)
l’imposizione di obblighi contra ius
(come, ad esempio, la cauzione definitiva
pari all’intero importo dell’appalto: Cons.
St., sez. II, 19.02.2003, n. 2222);
f)
le gravi carenze nell’indicazione di dati
essenziali per la formulazione dell’offerta
(quelli relativi, exempli gratia, al
numero, alle qualifiche, alle mansioni, ai
livelli retributivi e all’anzianità del
personale destinato ad essere assorbiti
dall’aggiudicatario) ovvero la presenza di
formule matematiche del tutto errate (come
quelle per cui tutte le offerte conseguono
comunque il punteggio di “0” punti);
g)
gli atti di gara del tutto mancanti della
prescritta indicazione nel bando di gara dei
costi della sicurezza “non soggetti a
ribasso”
(cfr. Cons. St., sez. III, 03.10.2011 n.
5421).
6.14.
Le rimanenti tipologie di clausole
asseritamente ritenute lesive devono essere
impugnate insieme con l’atto di approvazione
della graduatoria definitiva, che definisce
la procedura concorsuale ed identifica in
concreto il soggetto leso dal provvedimento,
rendendo attuale e concreta la lesione della
situazione soggettiva
(Cons. Stato, sez. V, 27.10.2014, n. 5282)
e postulano la preventiva partecipazione
alla gara.
6.15. Non occorre aggiungere altro per
comprendere che l’odierna appellante avrebbe
dovuto impugnare immediatamente, come il
primo giudice ha rilevato in limine litis,
la previsione qui contestata che rendeva, a
suo dire, ragionevolmente impossibile la
formulazione di un’offerta economica seria,
ponderata, logica e coerente con il
principio del prezzo complessivamente più
basso.
6.16. Il non avere l’appellante stessa
contestato specificamente il pur sintetico
rilievo del TAR rende il motivo qui
disaminato inammissibile per difetto di
interesse, restando precluso al Collegio
l’esame di esso nel merito.
7. In conclusione, per i motivi esposti,
l’appello deve in parte dichiarato
inammissibile e in parte deve essere
respinto, secondo le ragioni sopra esposte,
con piena conferma della sentenza impugnata. |
APPALTI: Aggiudicazione provvisoria.
Si può censurare solo se è illogica.
Il ritiro di una aggiudicazione provvisoria
è censurabile davanti al giudice
amministrativo soltanto in caso di manifesta
illogicità o irrazionalità della scelta
compiuta dalla stazione appaltante.
È quanto
ha precisato il TAR Lombardia-Milano, Sez.
IV, con la
sentenza 18.04.2017 n.
900 che tratta degli effetti del ritiro, da
parte di una stazione appaltante, una
aggiudicazione provvisoria.
I giudici hanno
ricostruito il quadro normativo vigente con
riguardo all'articolo 33 del decreto 50/2016
che ha sostituito l'aggiudicazione
provvisoria con la proposta di
aggiudicazione, facendo seguito agli
orientamenti giurisprudenziali formatisi
sull'atto di aggiudicazione provvisoria che
avevano circoscritto gli effetti di questa
prima fase del procedimento di
aggiudicazione del contratto.
I giudici hanno ricordato come anche in
passato, prima del decreto 50, le sentenze
avevano chiarito che l'aggiudicazione
provvisoria, facendo nascere in capo
all'interessato solo una mera aspettativa
alla definizione positiva del procedimento
stesso, non assume le caratteristiche di un
provvedimento conclusivo della procedura di
evidenza pubblica, avendo, per sua natura,
un'efficacia destinata ad essere superata.
Da questo il Tar fa discendere che, ai fini
del ritiro dell'aggiudicazione provvisoria,
non vi è obbligo di avviso di avvio del
procedimento né un particolare onere
motivazionale. Infatti, la possibilità che
all'aggiudicazione provvisoria della gara
d'appalto non segua quella definitiva è un
evento del tutto fisiologico, inidoneo di
per sé a ingenerare qualunque affidamento
tutelabile con conseguente obbligo
risarcitorio. Diversamente, dopo
l'aggiudicazione definitiva e prima della
stipula del contratto, la revoca è pur
sempre possibile, salvo un particolare e più
aggravato onere motivazionale.
Pertanto il ritiro dell'aggiudicazione
provvisoria può essere censurato, oltre che
per violazione della norma di legge
eventualmente invocata dalla stazione
appaltante a fondamento della sua decisione,
solo in caso di manifesta illogicità o
irrazionalità della scelta amministrativa
compiuta (articolo ItaliaOggi
del 21.04.2017).
---------------
MASSIMA
3.1. Ebbene, il Collegio deve anzitutto
rammentare che, con l’entrata in vigore del
nuovo codice, l’aggiudicazione provvisoria è
stata sostituita dalla “proposta di
aggiudicazione”, di cui all’art. 33 del
d.lgs. 18.04.2016, n. 50: non di meno, in
prima approssimazione, si possono richiamare
gli orientamenti giurisprudenziali formatisi
sull’atto di aggiudicazione provvisoria, cui
si riferiva il previgente codice degli
appalti.
3.2. Ciò vale anzitutto per la tesi, del
tutto condivisibile, per cui
l’aggiudicazione provvisoria,
facendo nascere in capo all'interessato solo
una mera aspettativa alla definizione
positiva del procedimento stesso, non è
individuabile come provvedimento conclusivo
della procedura di evidenza pubblica,
avendo, per sua natura, un’efficacia
destinata ad essere superata: per cui, ai
fini della suo ritiro non vi è obbligo di
avviso di avvio del procedimento
(così, da ultimo C.d.S., III, 05.10.2016, n.
4107).
Così, nelle gare pubbliche, “la
possibilità che all'aggiudicazione
provvisoria della gara d'appalto non segua
quella definitiva è un evento del tutto
fisiologico, disciplinato dagli artt. 11,
comma 11, 12 e 48, d.lgs. 12.04.2006, n.
163, inidoneo di per sé a ingenerare
qualunque affidamento tutelabile con
conseguente obbligo risarcitorio”
(C.d.S., V, 21.04.2016, n. 1600); per lo
stesso motivo, “non è
richiesto un particolare onere motivazionale
a sostegno della revoca del procedimento,
mentre dopo l'aggiudicazione definitiva e
prima della stipula del contratto, la revoca
è pur sempre possibile, salvo un particolare
e più aggravato onere motivazionale”
(TAR Lazio, II, 05.09.2016, n. 9543).
3.3. Ne segue che il ritiro
dell’aggiudicazione provvisoria può essere
censurato, oltre che per violazione della
norma di legge eventualmente invocata dalla
Stazione appaltante a fondamento della sua
decisione, soltanto in caso di manifesta
illogicità o irrazionalità della scelta
amministrativa compiuta: e ciò vale anche
per il caso che tale decisione trovi il
proprio fondamento, come nel caso, nel bando
di gara, giacché è pur sempre la stessa
aspettativa transitoria a chiedere tutela.
3.4.1. Ebbene, in specie, non è in questione
che l’originaria lex specialis
mancasse di quel secondo allegato 3, il
quale è stato poi incluso nel nuovo
disciplinare tecnico.
3.4.2. È poi condivisibile che una parte di
tali elementi fosse desumibili dalle
restanti disposizioni contenute negli
allegati originari, per cui la loro migliore
esposizione nel nuovo allegato 3 da sola non
avrebbe ragionevolmente giustificato la
rinnovazione della procedura; ma ciò non si
può affermare per le quantità di reagenti da
utilizzare nel servizio.
3.5. Non bisogna dimenticare che la gara de
qua era al massimo ribasso, e ciò comporta
che la prestazione richiesta debba essere
esattamente delineata nel suo contenuto, non
potendo la Stazione appaltante svolgere,
durante la selezione, un giudizio
qualitativo sulle offerte presentate.
3.6. Così, prestabilendo –secondo una scelta
tecnica ampiamente discrezionale e di norma
incesurabile- un quantitativo di reagente da
impiegare nel servizio, si impone
ragionevolmente un’adeguata soglia
qualitativa del servizio stesso, rilevante
sia nel momento della valutazione d’anomalia
(ed è infatti in quel momento che, in
specie, la Stazione appaltante si è resa
conto dell’incompletezza dell’offerta) sia
poi, durante l’esecuzione del contratto, per
verificare, in corso d’opera, il reale
utilizzo dei reagenti e, così, la qualità
complessiva del servizio.
3.7. È dunque legittimo che
l’Amministrazione, quando abbia
originariamente omesso tale elemento, possa
poi includervelo, previo ritiro e
reiterazione della procedura, almeno finché
manchi un’aggiudicazione definitiva:
l’affermazione per cui lo scopo sarebbe
stato quello di ampliare il numero dei
partecipanti resta una mera insinuazione.
3.8. Accertata come legittima la decisione
di ritiro, ad analoga conclusione si deve
pervenire per la nuova procedura di gara, di
cui resta irrilevante l’esito. |
AMBIENTE-ECOLOGIA - TRIBUTI: Minambiente
in fuorigioco sui rifiuti. Tar Lazio.
È illegittimo il silenzio inadempimento
ventennale del Ministero dell'ambiente in
materia di assimilazione dei rifiuti
speciali ai rifiuti urbani.
Il TAR Lazio-Roma - Sez. II-bis, con
sentenza
13.04.2017 n. 4611, ha
obbligato il ministero dell'ambiente ad
adottare, entro un termine massimo di 120
giorni (dall'emissione sentenza), il decreto
ministeriale atteso ormai dal lontano 1997
(ovvero dall'anno dell'entrata in vigore del
cosiddetto «decreto Ronchi»).
Il fatto in concreto.
Il dicastero del
Ministero dell'ambiente, il Ministero dello
sviluppo economico e il Comune di Reggio
Emilia venivano chiamati in causa da
un'azienda bolognese (operante nel settore
rifiuti, attiva soprattutto sul fronte della
raccolta e avvio a riciclo della carta da
macero) che lamentava di essere gravemente
danneggiata, in termini di ingiusta
sottrazione di risorse e beni al mercato
privato e di elevato versamento Tari, dalla
eccessiva assimilazione dei rifiuti speciali
ai rifiuti urbani effettuata dalle
amministrazioni comunali, a causa della
mancanza di una regolamentazione
ministeriale (prevista dall'articolo 195 del dlgs 152/2006, e prima ancora dall'articolo
18, 2° comma, lettera d, dlgs 5/1997 c.d.
decreto Ronchi).
Il Tar Lazio ha accolto il ricorso
sostenendo che «il Ministero dell'ambiente,
pur tenuto ad adottare la regolamentazione
suddetta, risulta non aver ancora completato
l'iter relativo, avendo soltanto avviato le
attività propedeutiche all'adozione del
decreto in questione».
Cosa che «rende illegittima l'inerzia tenuta
dallo stesso» e, per questo motivo, dovrà
adottare «di concerto con il ministro dello
Sviluppo economico il decreto che fissi i
criteri per l'assimilabilità dei rifiuti
speciali ai rifiuti urbani, nel termine di
giorni 120» dalla data della sentenza.
Per la metà di agosto prossimo e dopo
vent'anni di attesa, il regolamento potrebbe
finalmente essere emanato
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA - VARI: Nuovo
ufficio. Il garage perde la sosta vietata.
Chi trasforma il garage in attività
commerciale non può mantenere il cartello di
divieto di sosta regolarmente autorizzato
dal comune per consentire l'accesso e lo
stazionamento dei veicoli all'interno del
locale. Neppure se occasionalmente nello
stesso manufatto vengono ricoverati dei
motorini o delle biciclette.
Lo dice il TAR Toscana, Sez. III, con la
sentenza 12.04.2017 n.
560.
Un cittadino ha trasformato una autorimessa
in ufficio mantenendo attiva la vecchia
concessione comunale per l'esercizio di un
passo carraio. Contro la conseguente revoca
della licenza attivata a seguito di un
controllo della polizia municipale
l'interessato ha proposto senza successo
ricorso al Tribunale amministrativo locale.
Ai sensi del codice stradale il passo
carrabile deve consentire l'accesso a
un'area laterale idonea allo stazionamento e
alla sosta dei veicoli. Quindi se un locale
è utilizzato per fini commerciali diversi
non risulta possibile attivare o mantenere
un passo carrabile. Neppure se nelle ore
serali gli stessi locali ad uso ufficio sono
utilizzati per il rimessaggio occasionale di
motorini o di velocipedi da parte degli
operatori
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Sulla
pergotenda.
La struttura costituita da due pali poggiati sul pavimento
di un terrazzo a livello e da quattro traverse con binario
di scorrimento a telo in pvc, ancorata al sovrastante
balcone e munita di copertura rigida a riparo del telo
retraibile (c.d. pergotenda) non configura né un aumento del
volume e della superficie coperta, né la creazione o la
modificazione di un organismo edilizio, né l'alterazione del
prospetto o della sagoma dell'edificio cui è connessa, in
ragione della sua inidoneità a modificare la destinazione
d'uso degli spazi interni interessati, della sua facile e
completa rimovibilità, dell'assenza di tamponature verticali
e della facile rimovibilità della copertura orizzontale: la
stessa va pertanto qualificata come arredo esterno, di
riparo e protezione, funzionale alla migliore fruizione
temporanea dello spazio esterno all'appartamento cui accede
ed è riconducibile agli interventi manutentivi liberi, ossia
non subordinati ad alcun titolo abilitativo ai sensi
dell'art. 6, comma 1, d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
---------------
Il primo gruppo di censure è infondato.
È noto e condivisibile il consolidato orientamento della
giurisprudenza sulle cosiddette pergotende (cfr. ex multis
Consiglio di Stato, sez. VI, 11.04.2014, n. 1777).
Per la giurisprudenza richiamata, la struttura costituita da
due pali poggiati sul pavimento di un terrazzo a livello e
da quattro traverse con binario di scorrimento a telo in pvc,
ancorata al sovrastante balcone e munita di copertura rigida
a riparo del telo retraibile (c.d. pergotenda) non configura
né un aumento del volume e della superficie coperta, né la
creazione o la modificazione di un organismo edilizio, né
l'alterazione del prospetto o della sagoma dell'edificio cui
è connessa, in ragione della sua inidoneità a modificare la
destinazione d'uso degli spazi interni interessati, della
sua facile e completa rimovibilità, dell'assenza di
tamponature verticali e della facile rimovibilità della
copertura orizzontale: la stessa va pertanto qualificata
come arredo esterno, di riparo e protezione, funzionale alla
migliore fruizione temporanea dello spazio esterno
all'appartamento cui accede ed è riconducibile agli
interventi manutentivi liberi, ossia non subordinati ad
alcun titolo abilitativo ai sensi dell'art. 6, comma 1,
d.P.R. 06.06.2001 n. 380.
Diversamente, peraltro, deve essere valutato l’intervento
realizzato dalla ricorrente, essendo stato accertato che,
oltre alla pergotenda, identificabile nella struttura di
sostegno della copertura ritraibile e nella copertura
stessa, si è verificata la tamponatura dei tre lati
originariamente aperti con policarbonato trasparente, oltre
alla realizzazione di porte di accesso laterali.
Dall’esame complessivo dell’opera risulta insussistente il
presupposto ravvisato dalla giurisprudenza amministrativa,
oltre che dalla richiamata circolare di Roma Capitale, per
la qualificazione della stessa come edilizia libera, perché
le chiusure verticali e la presenza di porte di accesso,
seppure in materiale leggero e facilmente amovibile,
impediscono di considerare la stessa come un arredo esterno,
funzionale alla fruizione temporanea del terrazzo, essendo,
al contrario, riconoscibile una vera e propria opera di
ristrutturazione edilizia, in quanto rivolta a modificare
l’appartamento mediante la trasformazione del terrazzo in un
ambiente tendenzialmente chiuso.
Ne derivano l’infondatezza delle censure e, nei limiti del
dedotto, la legittimità dell’ordine di ripristino
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 11.04.2017 n. 4448 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L'istanza di accertamento di conformità (c.d. sanatoria)
non incide sulla legittimità della previa ordinanza di
demolizione pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma
soltanto sospendendone gli effetti fino alla definizione,
espressa o tacita, dell'istanza, con il risultato che essa
potrà essere portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata
decorrendo il relativo termine di adempimento dalla
conoscenza del diniego.
---------------
1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha
ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in
fatto.
2.– L’appello non è fondato.
3.– Con un primo motivo si afferma l’erroneità della
sentenza nella parte in cui non ha avrebbe dichiarato
l’inefficacia dell’ordine di demolizione a seguito della
presentazione, da parte degli appellanti, in data
25.02.2003, di una domanda di accertamento di conformità.
Il motivo non è fondato.
L’art. 31 del decreto del Presidente della Repubblica
06.06.2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede
che, in presenza di interventi, quali quelli di nuova
costruzione, eseguita in assenza di un permesso di
costruire, l’amministrazione deve ordinare la demolizione.
L’art. 36 dello stesso decreto che in presenza, tra l’altro,
di tali abusi è possibile «ottenere il permesso in
sanatoria se l'intervento risulti conforme alla disciplina
urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della
realizzazione dello stesso, sia al momento della
presentazione della domanda».
Il due procedimenti sono diversi e separati. La
giurisprudenza di questo Consiglio, con orientamento che si
condivide, ha affermato, infatti, che «l'istanza di
accertamento di conformità (c.d. sanatoria) non incide sulla
legittimità della previa ordinanza di demolizione
pregiudicandone definitivamente l'efficacia ma soltanto
sospendendone gli effetti fino alla definizione, espressa o
tacita, dell'istanza, con il risultato che essa potrà essere
portata ad esecuzione se l'istanza è rigettata decorrendo il
relativo termine di adempimento dalla conoscenza del diniego»
(Cons. Stato, sez. VI, 02.02.2015, n. 466)
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’esercizio del potere repressivo degli abusi edilizi
costituisce attività vincolata della p.a., con la
conseguenza che ai fini dell'adozione delle ordinanze di
demolizione non è necessario l'invio della comunicazione di
avvio del procedimento, non essendovi spazio per momenti
partecipativi del destinatario dell'atto.
---------------
1.– La questione posta all’esame della Sezione attiene alla
legittimità dell’ordinanza del Comune resistente che ha
ordinato la demolizione delle opere descritte nella parte in
fatto.
2.– L’appello non è fondato.
...
4.– Con un secondo motivo si afferma l’erroneità
della sentenza nella parte in cui non avrebbe ritenuto
illegittimi gli atti impugnati per mancata comunicazione
dell’avvio del procedimento e per la mancata indicazione del
responsabile del procedimento.
Il motivo non è fondato.
L’art. 7 della legge n. 241 del 1990 prevede che l’avvio del
procedimento è comunicato, tra gli altri, ai soggetti «nei
confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a
produrre effetti diretti». L’art. 8 dispone che con tale
comunicazione deve essere indicato anche il nome del
responsabile del procedimento.
L’art. 21-octies, secondo comma, secondo inciso, della
stessa legge prevede che: «Il provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in
concreto adottato».
Parte della giurisprudenza amministrativa, con orientamento
che la Sezione condivide, assume che venendo in rilievo
elementi conoscitivi nella disponibilità del privato, spetta
a quest’ultimo indicare quali sono gli elementi conoscitivi
che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto
la comunicazione. Solo dopo che la parte ha adempiuto a
questo onere l’amministrazione «sarà gravata dal ben più
consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli
elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo
del provvedimento non sarebbe mutato». La tesi opposta
porrebbe a carico della p.a. una probatio diabolica «quale
sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale
contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato
l’esito del procedimento» (Cons. Stato, sez. VI,
04.04.2015, n. 1060; Id., VI, 29.07.2008, n. 3786; id., V,
18.04.2012, n. 2257).
Nel settore dell’edilizia la giurisprudenza di questo
Consiglio ha già avuto modo di affermare che: «l’esercizio
del potere repressivo degli abusi edilizi costituisce
attività vincolata della p.a., con la conseguenza che ai
fini dell'adozione delle ordinanze di demolizione non è
necessario l'invio della comunicazione di avvio del
procedimento, non essendovi spazio per momenti partecipativi
del destinatario dell'atto» (Cons. Stato, sez. VI,
05.01.2015, n. 13).
La parte non ha inoltre indicato alcun elemento probatorio
rilevante atto a dimostrare, ai sensi dell’art. 21-ocites
della legge n. 241 del 1990, che se avesse partecipazione al
procedimento avrebbe inciso sul contenuto della
determinazione finale
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 10.04.2017 n. 1667 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: I
presupposti per l’esercizio del potere di annullamento
d’ufficio con effetti ex tunc sono l’illegittimità
originaria del provvedimento, l’interesse pubblico concreto
ed attuale alla sua rimozione diverso dal mero ripristino
della legalità, l’assenza di posizioni consolidate in capo
ai destinatari e non ultima una più puntuale e convincente
motivazione allorché la caducazione intervenga ad una
notevole distanza di tempo.
---------------
L’infedele prospettazione dello stato dei luoghi incide
certamente sull’onere motivazionale dell’Amministrazione
relativo alla comparazione tra interesse pubblico e privato
e all’affidamento riposto dal richiedente sul mantenimento
del manufatto, non potendo l’interessato medesimo vantare il
proprio legittimo affidamento nella persistenza di un
beneficio ottenuto attraverso l’induzione in errore
dell’Amministrazione procedente, (errore) determinato dallo
stesso soggetto richiedente, ma pur sempre a condizione che
l’Amministrazione descriva puntualmente l’infedele
rappresentazione dei luoghi e motivi adeguatamente in ordine
all’incidenza sostanziale della difformità tra quanto
dichiarato e quanto esistente in ordine alla legittimità del
titolo edilizio.
---------------
7.2 - Il ricorso si palesa, invece, fondato in relazione al
contestuale annullamento del pdc in variante.
Ed invero, secondo i principi giurisprudenziali enucleati
dal Consiglio di Stato, poi sostanzialmente confluiti
nell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 (nel testo
ratione temporis applicabile ovvero quello antecedente
alle novelle del 2014 e 2015), “i presupposti per
l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio con effetti
ex tunc sono l’illegittimità originaria del provvedimento,
l’interesse pubblico concreto ed attuale alla sua rimozione
diverso dal mero ripristino della legalità, l’assenza di
posizioni consolidate in capo ai destinatari e non ultima
una più puntuale e convincente motivazione allorché la
caducazione intervenga ad una notevole distanza di tempo
(cfr. fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, 27/11/2010 n.
8291; Sez. IV, n. 2885 del 2016; Sez. IV, n. 2908 del 2016)”
- così, da ultimo, Consiglio di stato, sez. IV, sent.
25/01/2017 n. 293.
Dunque, l’illegittimità originaria del provvedimento (che,
in disparte il caso di vizi meramente procedurali, in
materia urbanistica si traduce nel contrasto del titolo con
gli strumenti urbanistici e la normativa edilizia vigenti) è
pur sempre un indefettibile presupposto per l’annullamento
in autotutela, che –nel caso di specie– difetta o del quale,
comunque, il Comune ha omesso di dare conto nell’atto
gravato.
L’infedele prospettazione dello stato dei luoghi, in altri
termini, incide certamente sull’onere motivazionale
dell’Amministrazione relativo alla comparazione tra
interesse pubblico e privato e all’affidamento riposto dal
richiedente sul mantenimento del manufatto, non potendo
l’interessato medesimo vantare il proprio legittimo
affidamento nella persistenza di un beneficio ottenuto
attraverso l’induzione in errore dell’Amministrazione
procedente (ex multis, Consiglio di Stato, IV,
24.12.2008, n. 6554; Consiglio di Stato, V, 08.11.2012, n.
5691; TAR Puglia, Lecce, III, 21.02.2005, n. 686, TAR
Campania, Napoli, VIII, 19.05.2015, n. 2791), (errore)
determinato dallo stesso soggetto richiedente, ma pur sempre
a condizione che l’Amministrazione descriva puntualmente
l’infedele rappresentazione dei luoghi e motivi
adeguatamente in ordine all’incidenza sostanziale della
difformità tra quanto dichiarato e quanto esistente in
ordine alla legittimità del titolo edilizio.
Per quanto innanzi detto, l’atto gravato –limitatamente al
disposto annullamento del pdc in variante n. 167/2008- va
annullato, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’Amministrazione
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 10.04.2017 n. 380 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Paletti al rito superveloce. Tar
Puglia.
Il Comune non può pretendere l'applicazione
del rito superaccelerato al ricorso di chi
impugna l'aggiudicazione dell'appalto se non
ha pubblicato l'elenco delle aziende ammesse
alla procedura nella sezione ad hoc
«amministrazione trasparente» prevista dal
decreto legislativo 33/2013. È dunque
tempestivo l'atto introduttivo del giudizio
depositato dall'impresa esclusa entro 30
giorni dalla Pec con cui la stazione
appaltante rende noto l'affidamento dei
lavori insieme con l'elenco delle aziende
che hanno partecipato all'iter.
È quanto emerge dalla
sentenza 05.04.2017 n. 340,
pubblicata dalla III Sez. del TAR
Puglia-Bari.
Principio di effettività
Infondata l'eccezione di irricevibilità per
tardività sollevata dal Comune benché la
graduatoria della gara sia stata pubblicata
il 9 agosto scorso mentre risulta notificato
soltanto il 16 novembre il ricorso proposto
contro la mancata esclusione dell'Ati
aggiudicataria. Il punto è che la
graduatoria compare nell'albo pretorio della
provincia, in quanto profilo committente
della stazione appaltante, ma non nella
sezione amministrazione trasparente come
richiede l'articolo 29 del nuovo codice
degli appalti pubblici, che richiama il
decreto trasparenza sull'attività delle
pubbliche amministrazioni: è la stessa
difesa dell'ente locale ad ammetterlo
durante la discussione.
E d'altronde neanche il bando di gara
risulta più chiaro: si limita a rinviare al
sito Internet della stazione unica
appaltante che nella sezione «bandi e
gare» contiene solo regolamenti e
moduli. Il tutto mentre la giurisprudenza
delle Corte Ue condanna per violazione del
principio di effettività le leggi nazionali
che richiedono ricorsi sprint senza che la
parte privata abbia una completa conoscenza
degli atti. Il ricorso dell'azienda è
rigettato nel merito ma le spese di giudizio
sono comunque compensate per la novità della
questione
(articolo ItaliaOggi del
12.05.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Pot
Entrate, il Tar è incompetente.
Sulla legittimità delle posizioni organizzative temporali (Pot)
dell'Agenzia delle entrate è competente il giudice del
lavoro.
Con queste motivazioni il TAR Lazio-Roma ha respinto il ricorso
presentato da Dirpubblica invitando l'associazione a
riassumere la causa davanti alla giurisdizione competente
entro tre mesi dalla data della
sentenza 30.03.207
n. 4049.
Per il Tar Lazio con gli atti impugnati
da Dirpubblica, l'Agenzia delle entrate ha attribuito mere
responsabilità gestionali. Per queste ragioni il collegio
ritiene, conformandosi a giurisprudenza consolidata, che la
questione di selezione interna per titoli tra pubblici
dipendente avviata per attribuzione temporanea di mansioni
superiori, appartenga alla giurisdizione del giudice
ordinario, in quanto non incide sulla posizione di ruolo dei
concorrenti, che rimane immutata.
Non c'è insomma per il giudice amministrativo un mutamento
di profilo professionale ma solo di una implementazione di
compiti per cui il giudice adito dovrà essere quello del
lavoro
(articolo ItaliaOggi dell'01.04.2017).
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MASSIMA
Il complesso gravame tende a revocare in dubbio la
legittimità, amministrativa e costituzionale, delle
disposizioni con le quali le Agenzie fiscali hanno
provveduto ad assegnare -in via temporanea, da ultimo fino
al 30.09.2017, e comunque nelle more dell’espletamento del
concorso pubblico per la copertura dei posti dirigenziali
vacanti (concorso non ancora indetto)- incarichi ai propri
funzionari privi di livello dirigenziale consistenti nella
delega alla firma di atti tributari e relative funzioni che
non siano quelle riservate esclusivamente per legge ai
dirigenti, con attribuzione ai medesimi di posizioni
organizzative speciali e senza previa indizione del concorso
pubblico.
In questi termini perimetrata la causa petendi, il
ricorso deve ritenersi inammissibile per difetto di
giurisdizione del giudice amministrativo.
Ed invero, il ricorso in esame in quanto volto a contestare
l’attribuzione delle posizioni organizzative speciali
strumentali al conferimento delle deleghe di firma di atti
tributari con relative funzioni presupposte integra una
vicenda che rientra nella giurisdizione del Giudice
Ordinario.
Come già ha avuto modo di rilevare questo Tribunale con
riguardo ad una vicenda parzialmente simile decisa inter
partes con sentenza n. 11005/2016, nel caso di specie
vengono in considerazione atti ricompresi tra le
determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore
di lavoro privato ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.lgs.
n.165 del 2001 di fronte ai quali sussistono posizioni di
diritti soggettivi.
Tanto si evince dalla circostanza che con gli atti impugnati
l’Agenzia delle Entrate ha attribuito mere “responsabilità
gestionali connesse all’esercizio delle deleghe” con
attribuzione di “posizioni organizzative temporanee”
e relativo trattamento economico, da conferirsi ad interim
previa procedura selettiva interna, con valutazione
comparata dei curricula degli interessati e colloquio di
approfondimento, che non implica una “progressione
verticale” rientrante nella materia dei concorsi pubblici.
Più in particolare, vengono all’esame nell’odierna
controversia atti con i quali si intende conferire una
posizione organizzativa sulla base di deleghe all’esercizio
di funzioni gestionali; il concetto di procedura concorsuale
—riservata, ai sensi dell'art. 63, comma 4, d.lgS. n. 165
del 2001, alla giurisdizione del Giudice Amministrativo—
evoca una procedura caratterizzata dalla valutazione dei
candidati e dalla compilazione finale di una graduatoria: ne
sono escluse, pertanto, non solo le assunzioni che non sono
basate su di una logica selettiva, ma soprattutto le
procedure che si sostanziano (come nella fattispecie) in una
mera verifica di idoneità di determinati soggetti, già
inseriti nell'ambito dell'Amministrazione di riferimento.
Il Collegio ritiene, sulla scorta di una consolidata
giurisprudenza (v. Tar Campobasso, sez. I, 16/07/2013, n.
487; in termini: TAR Puglia–Lecce n. 290 del 16.02.2016; Tar
Lazio, sez. III, n. 11005/2016; ordinanza Tar Lazio, sez. II,
n. 3702/2016 del 07.07.2016) che appartiene
alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia
avente ad oggetto la selezione interna per titoli fra
pubblici dipendenti avviata non per la nomina a un posto o
per la progressione verticale o per la promozione in un'area
organizzativa diversa, bensì per l'attribuzione temporanea
di superiori mansioni (quale appare profilarsi nella
fattispecie), sicché essa non consiste in un concorso
pubblico propriamente inteso né in un concorso interno per
la progressione verticale, non incidendo sulla posizione di
ruolo dei concorrenti, che rimane immutata.
Va soggiunto, che al vaglio di questo TAR non sono stati
sottoposti atti c.d. di macro-organizzazione, ossia volti a
ridefinire le linee fondamentali di organizzazione degli
uffici, trattandosi piuttosto di atti volti a sopperire a
temporanee esigenze funzionali degli uffici mediante Linee
guida preordinate alla individuazione dei funzionari interni
alla struttura cui attribuire, in via provvisoria e per
assicurare la continuità dell’azione amministrativa, talune
responsabilità gestionali da conferire secondo criteri
organizzativi propri del datore di lavoro privato.
I provvedimenti oggetto di gravame, pertanto, non sono
idonei a derogare alla regola che vuole la giurisdizione
ordinaria estesa ad ogni aspetto del rapporto di lavoro
contrattualizzato.
A conferma di tanto, occorre soggiungere che la ricorrente,
sia nell’atto introduttivo che nei motivi aggiunti, ha più
volte precisato a motivo dell’asserita illegittimità degli
atti impugnati l’assenza della procedura concorsuale che
l’intimata Amministrazione avrebbe dovuto indire; unica
materia che, ai sensi dell’art. 63, comma 4°, del decreto
legislativo n. 165 del 2001, sarebbe residuata alla
giurisdizione di questo TAR.
L’inapplicabilità di tale ultima disposizione è confermata
dal fatto che il conferimento delle deleghe alla firma di
atti tributari e delle pedisseque posizioni organizzative
speciali ad interim di cui qui si tratta, non comporta un
mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, né
determina un mutamento di area, ma comporta soltanto
un’implementazione di compiti connessi all’esercizio di
deleghe di funzioni riferite a uffici aventi natura
dirigenziale alla quale si correla una indennità di
posizione e di risultato e non anche una variazione del
trattamento economico in godimento.
Dalle considerazioni che precedono ne consegue che la
controversia oggi in decisione rientra nell’alveo della
giurisdizione del Giudice Ordinario, in funzione di Giudice
del lavoro.
Va, pertanto, declinata la giurisdizione del Giudice
Amministrativo in favore di quella del Giudice Ordinario,
davanti al quale il giudizio andrà riassunto, ai sensi
dell’art. 11, comma II c.p.a., entro il termine perentorio
di tre mesi dal passaggio in giudicato della presente
sentenza, salvi gli effetti processuali e sostanziali della
domanda, e ferme restando le preclusioni e le decadenze
eventualmente intervenute. |
APPALTI SERVIZI:
Un freno all'avvalimento nella
scelta del socio. Non si può applicare l'avvalimento
nelle gare indette per la selezione del
socio privato della società mista a cui è
affidato il servizio pubblico.
Lo dice il TAR Abruzzo-L'Aquila con la
sentenza
30.03.2017 n. 152.
Il principio ha come sfondo la tematica
dell'utilizzo da parte del Comune del
modello gestionale operativo della società
mista.
Alla base di questo partenariato
pubblico-privato vi è l'esigenza di creare
un'organizzazione comune con un soggetto
privato appositamente selezionato, al fine
di dotarsi del patrimonio di esperienza,
composto di conoscenze tecniche e
scientifiche, maturate dal privato, il quale
deve contribuire all'arricchimento del «know
how» pubblico e ad alleggerire gli oneri
gestionali del Comune.
Quindi, se il privato, al fine di
aggiudicarsi un contratto pubblico, ha
bisogno di avvalersi dell'esperienza e dei
requisiti tecnico-organizzativi di un altro
soggetto (c.d. ausiliario), perché non li
possiede, ciò vuol dire che non sarà in
condizione di fornire alcun «know how» alla
pubblica amministrazione.
Né tale «know how» potrà essere apportato
dall'impresa ausiliaria, la quale non è una
concorrente né diventa parte del contratto
di società stipulato con l'ente locale. Il
collegio ha concluso dichiarando che bene ha
fatto l'ente territoriale a richiedere nel
bando il possesso dei requisiti di capacità,
tecnica e organizzativa in capo
all'aspirante socio in proprio e di non
consentire la partecipazione a soggetti non
singolarmente in possesso di detti requisiti (articolo ItaliaOggi Sette
del 18.04.2017).
---------------
MASSIMA
7.- Con l’ultimo motivo di ricorso è
dedotta l’illegittimità del bando di gara,
nella parte in cui (punto 9.3) vieta
l’istituto dell’avvalimento, in violazione
dei principi comunitari in tema di favor
partecipationis, nonché per violazione e
falsa applicazione degli articoli 30 e 89
del d.lgs. 50/2016 e degli articoli 1 e 17
del d.lgs. n. 175/2016.
Il motivo è infondato.
7.1.- Alla luce di un’interpretazione
coordinata delle disposizioni del nuovo
codice dei contratti pubblici,
deve ritenersi esclusa la
possibilità di applicare l’istituto dell’avvalimento
alle gare, come quella in esame, indette ai
sensi dell’art. 179 del d.lgs. 50/2016
nell’ambito del partenariato pubblico
privato, quale quella indetta per la
selezione del socio operativo della società
mista affidataria del servizio pubblico.
Dal combinato disposto dell’art. 179, commi
1 e 2, del d.lgs. 80/2016 e art. 164, comma
2, del d.lgs. 50/2016, al quale rinvia
l’art. 179, comma 2 citato, si desume che
prevede che alle procedure di affidamento
disposte nell’ambito del partenariato
pubblico privato si applicano:
- “in quanto compatibili”, le
disposizioni di cui alla parte I, III, V e
VI e della parte II, limitatamente al titolo
I;
- le disposizioni contenute nella parte I e
nella parte II, del presente codice
limitatamente ai “principi generali, alle
esclusioni, alle modalità e alle procedure
di affidamento, alle modalità di
pubblicazione e redazione dei bandi e degli
avvisi, ai requisiti generali e speciali e
ai motivi di esclusione, ai criteri di
aggiudicazione, alle modalità di
comunicazione ai candidati e agli offerenti,
ai requisiti di qualificazione degli
operatori economici, ai termini di ricezione
delle domande di partecipazione alla
concessione e delle offerte, alle modalità
di esecuzione” (art. 164, comma 2, del
d.lgs. 50/2016, richiamato dall’art. 179,
comma 2, dello stesso decreto legislativo).
Dalla lettura della norma emerge che, mentre
il richiamo della parte I, III, V e VI e
alla parte II, titolo I, costituisce un
rinvio interno “aperto” ovvero a
tutte le disposizioni in tali parti e titoli
contenute, fatta salva la compatibilità
delle stesse con la disciplina del
partenariato pubblico privato, invece, il
richiamo alla parte I e alla parte II
costituisce un rinvio interno “chiuso”
ovvero circoscritto ad un elenco tassativo
di ipotesi.
Orbene,
l’art. 89 del d.lgs. n. 50/2016, che
disciplina l’avvalimento, è collocato nella
parte II, titolo III, e, ancorché tale
titolo sia denominato “Procedura di
affidamento”, l’istituto in questione
non è annoverabile in alcuno degli ambiti
disciplinari nominativamente elencati, non
potendo farsi rientrare né tra le “modalità”
di affidamento né tra le “procedure di
affidamento” strictu sensu
intese, né tra i “requisiti generali e
speciali”, trattandosi di un istituto
che soccorre alla carenza dei requisiti
tecnici, organizzativi e finanziari da parte
di un concorrente.
L’esclusione dell’avvalimento nelle gare
indette per la selezione del socio privato
della società mista trova conferma anche
dall’esame della specifica disciplina delle
società miste, contenuta nell’art. 17, comma
2, del d.lgs. 175/2016, ai sensi del quale è
il socio privato che “deve possedere i
requisiti di qualificazione” in
relazione alle prestazioni per cui la
società è stata costituita.
8.3.- D’altra parte, la decisione del Comune
di Teramo di vietare l’avvalimento, è
compatibile con il modello organizzativo,
prescelto a monte, per la gestione del
servizio pubblico di igiene ambientale e
degli altri servizi e lavori accessori.
Invero,
il partenariato pubblico-privato
costituisce una modalità organizzativa di
tipo istituzionalizzato
(termine utilizzato dalla Commissione
europea nel “Libro verde” presentata
il 30.04.2004),
alternativa alla gestione in
economia e alla completa esternalizzazione
della gestione delle funzioni e dei servizi
pubblici, che trova espressione nel
principio di libera organizzazione, sancito
dall’art. 2 della direttiva n. 2014/23/UE.
Secondo tale principio “le autorità
nazionali, regionali e locali possono
liberamente organizzare l'esecuzione dei
propri lavori o la prestazione dei propri
servizi in conformità del diritto nazionale
e dell'Unione” e “sono libere di
decidere il modo migliore per gestire
l'esecuzione dei lavori e la prestazione dei
servizi per garantire in particolare un
elevato livello di qualità, sicurezza e
accessibilità, la parità di trattamento e la
promozione dell'accesso universale e dei
diritti dell'utenza nei servizi pubblici”.
Dunque,
la scelta dell’ente locale di
adottare il modello organizzativo del
partenariato pubblico-privato per la
gestione di determinati servizi pubblici si
realizza con la costituzione di una società,
partecipata congiuntamente dal partner
pubblico e dal partner privato.
La società mista, a differenza della
esternalizzazione del servizio ad operatori
economici estranei alla pubblica
amministrazione, realizza una collaborazione
stabile e di lunga durata tra la pubblica
amministrazione ed il privato, attraverso
l’istituzione di un’organizzazione comune
con la “missione” di assicurare
determinati servizi (e/o funzioni e/o opere)
in favore della comunità locale.
Alla base della decisione della
pubblica amministrazione di optare per il
modello gestionale della società mista
(oggi disciplinato dal d.lgs. 19.08.2016, n.
175, che ha consolidato una serie di norme
contenute in frammentarie disposizioni
legislative e ha codificato i principi
elaborati dalla giurisprudenza)
vi è, infatti, l’esigenza di creare
un’organizzazione comune con un soggetto
privato appositamente selezionato, al fine
di dotarsi del patrimonio di esperienza,
composto di conoscenze tecniche e
scientifiche, maturate dal privato, il
quale, con il proprio apporto organizzativo
e gestionale, dovrà contribuire
all’arricchimento del “Know how”
pubblico, e, con il proprio apporto
finanziario, ad alleggerire gli oneri
economico finanziari che l’ente territoriale
deve sopportare la gestione dei servizi
pubblici.
Tale esigenza, nella specie, è manifestata
dal Comune di Teramo all’art. 4.3 del bando,
che richiede ai concorrenti di “presentare
una proposta di piano industriale per la TE.
Am. S.p.a., apportando il proprio Know how
tecnico, gestionale, organizzativo nel
settore del servizio di igiene ambientale,
nonché la propria capacità tecnica
manageriale per il migliore conseguimento
degli obiettivi di crescita e sviluppo della
società”. In particolare, il bando
richiede che la proposta di piano
industriale “dovrà essere indirizzata al
concreto miglioramento dell’efficienza e
dell’economicità aziendale, anche attraverso
interventi di integrazione
organizzativa/gestionale, inerenti le
attività specifiche di trattamento
finalizzato al recupero e/o alla
valorizzazione dei rifiuti ivi compreso lo
smaltimento degli stessi”.
Orbene,
se il privato, al fine di
aggiudicarsi un contratto pubblico, ha la
necessità di avvalersi dell’esperienza e dei
requisiti tecnico-organizzativi di un altro
soggetto (c.d. ausiliario nel contratto di
avvalimento), perché non li possiede, non
potrà evidentemente apportare alcun “Know
how” alla pubblica amministrazione. Né
tale “Know how” potrà essere
apportato dall’impresa ausiliaria, la quale
non è una concorrente né diventa parte del
contratto di società stipulato con l’ente
locale.
Ne deriva, alla luce delle considerazioni
svolte, la legittimità, della volontà
negoziale dell’ente locale, espressa nel
bando di gara, di richiedere il possesso dei
requisiti di capacità, tecnica e
organizzativa in capo all’aspirante socio in
proprio e di non consentire la
partecipazione a soggetti non singolarmente
in possesso di detti requisiti. |
LAVORI PUBBLICI: Partenariato,
Cds chiede formazione doc nella p.a..
Via libera alle linee guida Anac sul partenariato pubblico
privato (Ppp), ma con adeguata formazione nelle p.a..
È il contenuto principale del
parere
29.03.2017 n. 775 favorevole con osservazioni (Parere
sullo schema di linee guida recanti “Monitoraggio delle
amministrazioni aggiudicatrici sull’attività dell’operatore
economico nei contratti di partenariato pubblico privato”) reso ieri dal
Consiglio di Stato. I giudici premettono che si tratta di
linee guida che, dal punto di vista giuridico, hanno in
realtà una duplice natura.
Sono non vincolanti quanto al
contenuto della parte prima (analisi e allocazione dei
rischi) e invece vincolanti quanto alla parte seconda
(monitoraggio dell'attività dell'operatore economico). Si
sottolinea come sia opportuno che le linee guida forniscano
alle amministrazioni aggiudicatrici le opportune indicazioni
per assicurare una adeguata selezione e formazione dei
funzionari pubblici che dovranno concretamente implementare
le linee guida.
Si evidenzia poi che la necessità di
produrre nell'offerta un piano economico-finanziario
asseverato è previsto dall'art. 183 (finanza di progetto),
ma non dall'articolo 181 (Ppp) invitando l'Anac a rivedere
la richiesta di asseverazione
(articolo ItaliaOggi del 30.03.2017). |
ENTI
LOCALI - VARI: Sono
legittime benedizioni in aula.
Impartire benedizioni religiose in classe (purché al di
fuori delle lezioni e «facoltative») è legittimo.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.03.2017 n. 1388, ha accolto il
ricorso del ministero dell'Istruzione e ribaltato la
decisione del Tar Emilia Romagna, che aveva annullato la
delibera con cui un consiglio di istituto di Bologna aveva
consentito lo svolgimento del rito nelle aule nel 2015.
Secondo la VI sezione di palazzo Spada le benedizioni non
incidono sulla vita scolastica, «non diversamente dalle
diverse attività parascolastiche che» possono essere «programmate,
o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole
scuole, anche senza una formale delibera»; inoltre, «per
un elementare principio di non discriminazione, non può
attribuirsi alla natura religiosa di un'attività una valenza
negativa tale da renderla vietata, o intollerabile»,
soltanto perché «espressione di una fede religiosa,
mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta
ammissibile e legittima».
Del resto, la Costituzione, all'articolo 20, pone, hanno
puntualizzato i magistrati amministrativi, «un divieto di
trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle
manifestazioni religiose in quanto tali». All'origine
della vicenda il ricorso depositato da alcuni insegnanti e
genitori di un istituto bolognese e dal comitato «Scuola
e costituzione», ai quali, in primo grado, il Tar aveva
dato ragione, nel 2016, motivando la scelta con il fatto che
la scuola non potesse essere coinvolta in un rito attinente
unicamente alla sfera individuale di ciascuno.
Il Consiglio di stato, però, ha adesso capovolto il
giudizio, affermando che le benedizioni non condizionano «in
alcun modo lo svolgimento della didattica». Una delle
docenti ricorrenti ha già annunciato che ora ci si appellerà
alla Corte di giustizia europea
(articolo ItaliaOggi del 28.03.2017). |
APPALTI SERVIZI: Settori
speciali, revisione prezzi alla giustizia Ue. Verificare se
è legittimo non applicarla.
Verificare se sia legittima l'inapplicabilità della
revisione prezzi negli appalti dei settori speciali.
È quanto ha chiesto alla Corte di giustizia europea il
Consiglio di Stato, Sez. IV, con l'ordinanza
22.03.2017 n. 1297
in merito all'esclusione dell'istituto della revisione
prezzi nell'ambito dei contratti aggiudicati nei cosiddetti
settori speciali (energia, acqua e trasporti).
La fattispecie oggetto di esame del collegio giudicante
riguardava un contratto di servizi affidato da parte della
Rfi, Rete ferroviaria italiana spa, per il quale era stata
avanzata una richiesta di adeguamento revisionale del
corrispettivo d'appalto, respinta dalla stazione appaltante;
in primo grado era stata confermata la legittimità
dell'operato di Rfi mentre il Consiglio di stato ha scelto
la strada del rinvio della questione alla Corte europea per
valutare la conformità dell'interpretazione del giudice di
prime cure.
La questione viene posta in relazione ai principi del
Trattato, all'articolo 16 della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea e alla direttiva n. 17/2004
per sapere se l'interpretazione del diritto interno che
escluda la revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai
cosiddetti settori speciali, con particolare riguardo a
quelli con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la
stessa direttiva, ma legati a questi ultimi da un nesso di
strumentalità sia legittimo.
Inoltre, i giudici hanno chiesto se la direttiva n. 17/2004
(ove si ritenga che l'esclusione della revisione dei prezzi
in tutti i contratti stipulati e applicati nell'ambito dei
cosiddetti settori speciali discenda direttamente da essa),
sia conforme ai principi dell'Unione europea (in
particolare, agli articoli 3, co. 1 Tue, 26, 56/58 e 101 TfUe,
art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea),
«per l'ingiustizia, la sproporzionatezza, l'alterazione
dell'equilibrio contrattuale e, pertanto, delle regole di un
mercato efficiente».
Una questione di particolare rilievo che potrebbe avere
ripercussioni sull'intero sistema semplificato che
caratterizza il regime in cui operano i settori speciali (articolo ItaliaOggi del 31.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Casa galleggiante sul Tevere, serve il permesso di costruire. Chi
vuole realizzare il sogno di avere una casa sul fiume deve ottenere il
permesso di costruire perché non basta la sola concessione.
Per la Corte di Cassazione (Sez. III penale,
sentenza 15.03.2017 n. 12387) i cosiddetti fiumaroli che seguono
la moda della casa galleggiante, senza essersi prima messi in regola con il
testo unico sull'edilizia (Dpr 380/2001) commettono il reato di abuso
edilizio.
La vicenda
Partendo da questa premessa respinge il ricorso dell'imputato, un
architetto-imprenditore, che aveva realizzato sul Tevere, e dunque in una
zona sottoposta a vincolo paesaggistico, un edificio galleggiante di due
piani, composto da otto appartamenti e vari terrazzi in forza di una
concessione e di un parere tecnico della Ausl ma senza il permesso di
costruire.
Secondo il proprietario della houseboat infatti, i galleggianti che
stazionano sul biondo fiume della città eterna sarebbero sottratti alla
disciplina urbanistica, anche quando come nel suo caso, c'era stato un
cambio di destinazione da attività ricreativa ad abitazione. In subordine
invocava il riconoscimento della sua buona fede, considerando le
autorizzazioni già ottenute dalla pubblica amministrazione e l'oggettiva
difficoltà di interpretare la legge sul punto.
La decisione
La Cassazione non è d'accordo. I via libera ricevuti, per lo più riferiti ad
aspetti prettamente idraulici, avevano lasciato impregiudicata la necessità
di ulteriori permessi e fatto salve altre disposizioni vigenti. Inoltre
l'imputato aveva il dovere, anche “rafforzato” in virtù della sua
doppia qualifica di architetto e imprenditore, di contattare gli uffici
comunali per avere chiarimenti sugli atti amministrativi. Spiegazioni che
intanto fornisce la Suprema corte.
Per la Cassazione le caratteristiche qualificavano la casa galleggiante come
intervento di nuova costruzione (Dpr 380/2001) perché comportavano una
trasformazione edilizia e urbanistica del territorio. L'abitazione sul fiume
rientrava tra le opere definite, a titolo di esempio dalla norma (articolo
3, comma 1, lettera e5) e in particolare, tra le «strutture o
imbarcazioni utilizzate come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come
depositi, magazzini o simili non diretti a soddisfare esigenze meramente
temporanee». I giudici della terza sezione penale sottolineano che la
necessità del permesso di costruire per le strutture galleggianti ancorate
alle sponde del Tevere è stata riconosciuta dalla giurisprudenza
amministrativa, in casi analoghi.
Anche i fondali subacquei, infatti, vanno considerati come suolo, in questo
caso demaniale e le strutture stabilmente installate sull'acqua sono
assoggettabili al testo unico sull'edilizia (articoli 3, 10 e 35). Il
principio dettato dalla Cassazione non vale soltanto per chi sul fiume vuole
vivere ma anche per chi crea un luogo di lavoro: ristoranti, ritrovi,
depositi, magazzini, studi ecc. Per tutti c'è bisogno del permesso di
costruire a meno che le strutture non siano destinate a soddisfare delle
esigenze in un tempo limitato (articolo Quotidiano Enti Locali & Pa del
16.03.2017). |
VARI: La
multa degli altri è segreta. Tar Molise.
Chi viene sanzionato per divieto di sosta può chiedere al
comando di polizia locale di conoscere quanti veicoli sono
stati multati in quella determinata situazione. Ma non certo
di avere accesso indiscriminato ai verbali dei colleghi
trasgressori.
Così il TAR Molise, Sez. I,
sentenza
15.03.2017 n. 81.
Un conducente ha lasciato inavvertitamente il proprio
veicolo in sosta vietata durante la sagra di Ferragosto e
per questo è stato multato dai vigili. Ha poi chiesto al
comune informazioni sul numero dei verbali elevati nella
medesima circostanza. Nonostante la risposta del comando di
polizia locale l'interessato ha proposto doglianze al
collegio che ha rigettato le censure. In particolare circa
la possibilità di ottenere copia integrale di tutti i
verbali elevati dai vigili.
È infatti discutibile che un comune debba rilasciare
informazioni di questo tipo, specifica il collegio. È
sufficiente comunicare quante infrazioni sono state
accertate in quella determinata situazione dal comando di
polizia locale. Non rilasciare copia degli altri atti
sanzionatori
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.03.2017). |
APPALTI: Ditta
in doppia veste, no all'esclusione
automatica.
Nelle gare sotto soglia regolate dal nuovo
codice dei contratti, è illegittima
l'esclusione automatica della ditta in lizza
sia come concorrente sia come
subappaltatrice.
Lo afferma il TAR Piemonte, Sez. II, con la
sentenza
08.03.2017 n. 328.
La stazione appaltante aveva estromesso la
società in quanto la compresenza nello
stesso soggetto del ruolo di partecipante e
di subappaltatore alterava la competizione.
Ciò aveva indotto la pubblica
amministrazione a liberarsi della
concorrente in base all'art. 80, comma 5,
lett. m), del decreto legislativo 50/2016
che fa riferimento a situazioni di controllo
o comunque ad offerte imputabili ad un unico
centro decisionale.
Il collegio ha dato ragione al privato
rilevando che la legge di gara, pur
imponendo l'indicazione dei subappaltatori,
non prevedeva un divieto per lo stesso
soggetto di concorrere in più vesti. Né ciò
è vietato dalla legge, in analogia a quanto
invece disposto, ad esempio, per gli
ausiliari o i componenti il raggruppamento
temporaneo di imprese.
In definitiva la presenza del medesimo
soggetto nell'ambito di più offerte può
costituire mero sintomo di collegamento tra
le offerte e di dubbia trasparenza delle
stesse ma, quale mero indizio, va verificato
nel contraddittorio delle parti
(articolo ItaliaOggi Sette dell'01.05.2017). |
APPALTI SERVIZI:
Ok alla consegna anticipata del
servizio.
Legittima la consegna anticipata del
servizio anche se il contratto d'appalto non
è ancora efficace. Possibile? Sì, se il
servizio risulta essenziale e il Comune ad
esempio è alle prese con la necessità
liberare dalla neve le strade cittadine: in
casi di urgenza è l'articolo 32, comma 13,
del nuovo codice dei contratti pubblici che
consente alla stazione appaltante di
stringere i tempi.
È quanto emerge dalla
sentenza
07.03.2017 n. 209, pubblicata dalla
II Sez. del TAR Emilia Romagna-Bologna.
Interesse pubblico
Non conta che il provvedimento
dell'amministrazione sia adottato in
pendenza del periodo di stand still, la
classica clausola dei contratti che
impedisce alle parti di avere rapporti con
terzi mentre è in corso l'accordo fra loro.
Fa un buco nell'acqua il consorzio agrario
che contesta l'esecuzione anticipata decisa
dal Comune per lo sgombero della neve e il
trattamento antigelo sul territorio.
È vero: l'esecuzione può avere inizio
soltanto quando il contratto risulta
efficace, ma la stazione appaltante può
ottenere la consegna del servizio prima del
tempo per evitare pericoli a persone o cose.
Altrettanto vale quando si tratta di
tutelare l'igiene e la salute pubblica ma
anche per il patrimonio storico, artistico e
culturale dell'area. Insomma: la stazione
appaltante ha diritto alla prestazione
immediata quando un ulteriore ritardo può
danneggiare l'interesse pubblico sotteso
alla gara, compresa l'ipotesi in cui
l'amministrazione rischia di perdere
finanziamenti europei.
E in ogni caso l'aggiudicazione inefficace
della gara è tutt'altro che inesistente:
risulta solo sospesa (articolo ItaliaOggi Sette
del 18.04.2017).
---------------
MASSIMA
6. Con i motivi aggiunti parte
ricorrente contesta la consegna anticipata
del servizio in via d’urgenza, lamentando
innanzitutto, con il primo di detti motivi,
che con tale consegna anticipata sarebbe
stata pretermessa la fase delle verifiche,
al cui esito è condizionata l’efficacia
dell’aggiudicazione (come si è già detto nel
paragrafo 2).
Il Collegio ancora una volta tralascia le
argomentazioni che attengono a presunte
irregolarità inficianti le gare svoltesi nei
precedenti anni, che non possono trovare
ingresso nel presente giudizio, non essendo
state tempestivamente denunciate con ricorso
innanzi al TAR.
Ciò premesso, si osserva che
la consegna anticipata dell’appalto
è prevista dal d.lgs. n. 50/2016. L’art. 32
prevede, al comma 13, che l'esecuzione del
contratto può avere inizio solo dopo che lo
stesso è divenuto efficace, salvo che, in
casi di urgenza, la stazione appaltante ne
chieda l'esecuzione anticipata, nei modi e
alle condizioni previste al comma 8.
Il comma 8 prevede che «Nel caso di
servizi e forniture, se si è dato avvio
all'esecuzione del contratto in via
d'urgenza, l'aggiudicatario ha diritto al
rimborso delle spese sostenute per le
prestazioni espletate su ordine del
direttore dell'esecuzione. L'esecuzione
d'urgenza di cui al presente comma è ammessa
esclusivamente nelle ipotesi di eventi
oggettivamente imprevedibili, per ovviare a
situazioni di pericolo per persone, animali
o cose, ovvero per l'igiene e la salute
pubblica, ovvero per il patrimonio, storico,
artistico, culturale ovvero nei casi in cui
la mancata esecuzione immediata della
prestazione dedotta nella gara
determinerebbe un grave danno all'interesse
pubblico che è destinata a soddisfare, ivi
compresa la perdita di finanziamenti
comunitari».
Il successivo comma 9 dispone che il
contratto non può comunque essere stipulato
prima di trentacinque giorni dall'invio
dell'ultima delle comunicazioni del
provvedimento di aggiudicazione; il comma 10
prevede alcune eccezioni alla predetta
regola, tra le quali quella di cui alla
lettera b): «nel caso di un appalto
basato su un accordo quadro di cui
all'articolo 54, nel caso di appalti
specifici basati su un sistema dinamico di
acquisizione di cui all'articolo 55, nel
caso di acquisto effettuato attraverso il
mercato elettronico e nel caso di
affidamenti effettuati ai sensi
dell'articolo 36, comma 2, lettere a) e b).».
Orbene, a fronte della natura essenziale del
servizio di cui trattasi era necessario
assicurarne lo svolgimento durante la
stagione invernale, sicché non si ravvisano
profili di illegittimità, essendo certamente
rispondente all’interesse pubblico lo
svolgimento del servizio medesimo ed essendo
altresì possibile e anche probabile, in caso
di mancata esecuzione, il verificarsi di
pregiudizi anche rilevanti all’incolumità
delle persone e all’integrità dei beni.
Si precisa che
nel caso in esame è legittima anche
l’esecuzione anticipata durante il periodo
di stand still, secondo le
disposizioni su riportate, trattandosi di
affidamento ai sensi dell’art. 36/2 lett. b. |
EDILIZIA PRIVATA: Non
sono sanabili opere edilizi abusive realizzate su un’area
ricompresa in un piano particolareggiato destinato a
interventi di e.r.p. a favore della popolazione nomade, a
cui il ricorrente stesso appartiene.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state
edificate senza titolo, dunque abusivamente.
È altrettanto pacifico che si tratta di opere che
necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile
in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa
in un piano particolareggiato destinato a interventi di
e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il
ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
- da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide
sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua
efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di
sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia
stata presentata);
- dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può
dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento
privato in un’area nella quale sono previsti soltanto
interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore
dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire
degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il
carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza
titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle
particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente
e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti:
questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di
pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe,
evidenziando che “la normativa urbanistica statale e
regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti
che pongono in essere trasformazioni permanenti del
territorio e che a nessun proprietario è precluso, in
ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius
aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei
piani regolatori” .
---------------
... per l'annullamento dell'ordinanza n. 440 del 23.11.2016
con la quale il Dirigente del Comune di Nichelino (TO) ha
ordinato la demolizione delle opere edilizie realizzate
all'interno del lotto di terreno sito in Nichelino (TO), Via
..., censito al Catasto Terreni al foglio 22,
mappale 173, ed il ripristino dello stato dei luoghi, nonché
di ogni altro atto ad essa presupposto, consequenziale o
connesso.
...
1) Con il provvedimento in epigrafe il Dirigente dell’Area
tecnica del Comune di Nichelino ha ordinato la demolizione
di opere edilizie abusive realizzate dal sig. Ott.Ce. -di etnia sinti- su un terreno di sua proprietà, in assenza
di permesso di costruire e in contrasto con la disciplina
urbanistica vigente nel predetto Comune, consistenti in un
“fabbricato di civile abitazione ad un piano fuori terra
costituito da muratura perimetrale in blocchi di laterizi
intonacati fondati su un basamento in calcestruzzo…”, nonché
in un “cancello carraio e pedonale per l’accesso al lotto…”
e in “manufatti vari posti in adiacenza al fabbricato
principale…”.
2) Di tale provvedimento l’interessato ha chiesto
l’annullamento deducendo:
- che le opere in questione, per quanto abusive, sono
comunque conformi alla disciplina urbanistica, in quanto
ricadono in area disciplinata da un piano particolareggiato
finalizzato a interventi di edilizia residenziale pubblica
in favore della popolazione nomade;
- che dunque il ricorrente
potrebbe chiedere al Comune un permesso in sanatoria;
- che
nell’immobile vivono il ricorrente e il suo nucleo
familiare, i cui componenti presentano anche numerosi
problemi di salute;
- che il provvedimento impugnato, infine,
viola l’art. 8 della CEDU e il principio di proporzionalità,
in quanto non tiene conto delle condizioni personali del
ricorrente e della sua famiglia, aventi risorse economiche
limitate e comprovati problemi di salute.
...
5) Il ricorso è infondato.
È pacifico che le opere di cui si discute sono state
edificate senza titolo, dunque abusivamente.
È altrettanto pacifico che si tratta di opere che
necessitano complessivamente del permesso di costruire.
Il ricorrente sostiene che l’abuso sarebbe regolarizzabile
in via di sanatoria perché insistente su un’area ricompresa
in un piano particolareggiato destinato a interventi di
e.r.p. a favore della popolazione nomade, a cui il
ricorrente stesso appartiene. Si osserva in proposito:
- da un lato, l’asserita sanabilità dell’abuso non incide
sulla legittimità dell’ordine di demolizione, né sulla sua
efficacia, almeno fino al momento in cui l’istanza di
sanatoria non venga presentata (e qui non risulta che sia
stata presentata);
- dall’altro, come sostenuto dal Comune resistente, non può
dirsi conforme alla disciplina urbanistica un intervento
privato in un’area nella quale sono previsti soltanto
interventi pubblici di e.r.p.; e la circostanza che l’autore
dell’abuso appartenga al gruppo sociale che dovrebbe fruire
degli interventi pubblici in questione non fa venir meno il
carattere abusivo di quanto individualmente realizzato senza
titolo.
Né tale carattere può venire meno in ragione delle
particolari condizioni economiche e di salute del ricorrente
e dei suoi familiari o della appartenenza all’etnia sinti:
questa Sezione ha già avuto ripetutamente occasione di
pronunciarsi a quest’ultimo riguardo in cause analoghe,
evidenziando che “la normativa urbanistica statale e
regionale si applica indifferentemente a tutti i soggetti
che pongono in essere trasformazioni permanenti del
territorio e che a nessun proprietario è precluso, in
ragione della sua origine etnica, di esercitare lo ius
aedificandi nel rispetto delle leggi, dei regolamenti e dei
piani regolatori” (cfr. TAR Piemonte, sez. II, n. 1223 del
05.10.2016, che richiama le precedenti n. 358/2016 e n.
551/2015).
6) In relazione a quanto sopra il ricorso deve essere
respinto
(TAR Piemonte, Sez. II,
sentenza 03.03.2017 n. 307 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Realizzazione
soppalco: quando occorre il permesso di costruire.
In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la
disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio
aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito
come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio,
non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per
caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
In linea di principio, sarà necessario il permesso di
costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e
comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001,
n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e in
prospettiva ulteriore carico urbanistico.
Si rientrerà invece
nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il
soppalco sia tale da non incrementare la superficie
dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia
suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.
---------------
...
per la riforma
della sentenza del TAR Lazio, sede di Roma, sezione I-quater
30.11.2011 n. 9401, resa fra le parti, con la quale è
stato respinto il ricorso per annullamento della
determinazione dirigenziale 29.09.2006 n.1803 di Roma
Capitale, di demolizione in quanto abusive di opere
realizzate senza permesso di costruire all’interno di
un’unità immobiliare sita a Roma, in via ... n. 17;
...
I ricorrenti appellanti hanno impugnato in primo grado il
provvedimento indicato in epigrafe, con il quale hanno
ricevuto ingiunzione a demolire, in quanto realizzate senza
permesso di costruire, una serie di opere realizzate
all’interno di un immobile di proprietà -sito a Roma, via
... 17, e distinto al catasto al f. 622, part. 300
sub. 501- costituite da una struttura di putrelle in ferro
orizzontali e verticali, disposte in modo da formare un
soppalco a forma di “L” della superficie di circa 24,80 mq
all’interno di un locale più ampio.
L’area soppalcata al
piano superiore consiste di un solaio in muratura con due
finestre, posto ad altezza variabile da un soffitto
irregolare, da metri 2,30 a metri 1.55 circa; la struttura
del soppalco poggia invece per circa 20 mq su una pedana in
muratura di circa 0,40 metri di altezza, ha un distacco di
metri 1,88 e un’altezza interna praticabile di circa 1,45
metri; per la parte restante di circa 4,80 mq poggia sul
piano di calpestio ed ha un distacco di 2,10 metri.
L’area
sottostante il soppalco è poi priva di finestre, con nuove
tramezzature ed attacchi per impianti idrici ed elettrici
(v. doc. 1 in primo grado ricorrenti appellanti, ordinanza
impugnata).
Con la sentenza indicata in epigrafe, il TAR ha respinto il
ricorso, ritenendo in sintesi estrema che l’intervento fosse
effettivamente soggetto a permesso di costruire, mai
ottenuto né richiesto.
Contro tale sentenza, i ricorrenti in primo grado propongono
appello, affidato a due motivi:
- con il primo di essi, deducono propriamente eccesso di
potere per carenza di presupposti e mancanza di motivazione.
Premettono in fatto che, a loro dire, da un lato per l’opera
in questione sarebbe stato pendente un procedimento di
condono edilizio, su istanza dei precedenti proprietari,
certi Salvi; dall’altro, che per una porzione dello stesso
immobile sarebbe stata emessa un’analoga ordinanza,
annullata dal TAR del Lazio con sentenza 30.01.2007
n. 636.
Ciò premesso, sostengono che l’intervento, in quanto
soppalco non praticabile, non sarebbe soggetto a permesso di
costruire, contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di
primo grado. Ciò sarebbe stato in qualche modo riconosciuto
dall’Autorità giudiziaria penale, che ne avrebbe disposto il
dissequestro;
- con il secondo motivo, deducono violazione degli artt. 33
e 37 T.U. 06.06.2001 n.380, perché il Giudice di primo
grado non avrebbe valutato la presentazione da parte loro di
una denuncia di inizio attività – DIA a sanatoria, che in
ogni caso avrebbe dovuto far venir meno l’abuso.
...
1. Il primo motivo di appello è fondato ed assorbente, nei
termini che seguono.
2. In base ad un rilievo logico, prima che giuridico, la
disciplina edilizia del soppalco, ovvero dello spazio
aggiuntivo che si ricava all’interno di un locale, di solito
come nella specie, un’abitazione, interponendovi un solaio,
non è definita in modo univoco, ma va apprezzata caso per
caso, in relazione alle caratteristiche del manufatto.
3. In linea di principio, sarà necessario il permesso di
costruire quando il soppalco sia di dimensioni non modeste e
comporti una sostanziale ristrutturazione dell'immobile
preesistente, ai sensi dell'art. 3, comma 1, D.P.R. 06.06.2001, n. 380, con incremento delle superfici dell'immobile e
in prospettiva ulteriore carico urbanistico: così per tutte
C.d.S. 03.09.2014 n. 4468.
Si rientrerà invece
nell’ambito degli interventi edilizi minori, per i quali
comunque il permesso di costruire non è richiesto, ove il
soppalco sia tale da non incrementare la superficie
dell’immobile, e ciò sicuramente avviene quando esso non sia
suscettibile di utilizzo come stanza di soggiorno.
4. Quest’ultima è l’ipotesi che si verifica nel caso di
specie, in cui, come detto in narrativa, lo spazio
realizzato con il soppalco è un vano chiuso, senza finestre
o luci, di altezza interna modesta, tale da renderlo
assolutamente non fruibile alle persone: si tratta, in buona
sostanza, di un ripostiglio.
5. Quanto sopra è sufficiente per affermare l’illegittimità
dell’ordinanza di demolizione impugnata, che va annullata,
in riforma della sentenza di primo grado, perché fondata, in
sintesi, su un presupposto non corretto.
6. Va invece assorbito il secondo motivo, che si fonda sul
rapporto fra l’ordinanza impugnata ed un fatto ulteriore, la
presentazione in un momento successivo della DIA. E’
evidente infatti che, annullata l’ordinanza stessa, la
possibilità che rispetto alla demolizione da essa ordinata
si sia prodotta una sanatoria è priva di rilievo.
Spetterà
invece all’amministrazione, nel prosieguo della propria
attività, valutare se l’opera compiuta integri un diverso e
minore tipo di abuso, e in caso affermativo se esso sia
stato sanato dalla DIA in questione. Ciò però rientra nel
futuro esercizio di poteri amministrativi, sui quali il
Giudice non può pronunciare
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 02.03.2017 n. 985 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: La
revoca di una aggiudicazione non rientra tra le ipotesi di
esclusione dell’art. 80, comma V, dlgs 50/2016, poiché non costituisce
automaticamente un grave illecito professionale, tale da
rendere dubbia la affidabilità, né integra l’ipotesi di
significative carenze nell’esecuzione di un precedente
appalto.
---------------
Il verbale della commissione di gara costituisce un atto
pubblico che è assistito da fede privilegiata, facendo prova
sino a querela di falso di quanto in esso attestato; una
volta che il verbale venga "chiuso", cioè confermato e
sottoscritto, esso diviene pertanto intangibile anche per
gli stessi componenti della Commissione, nel senso che il
potere che con la verbalizzazione è stato esercitato è
venuto meno, cioè si è consumato.
Può peraltro ammettersi che, nel caso in cui il verbale sia
inficiato da errori materiali, sia consentito operare le
opportune rettifiche, ma deve trattarsi di vero e proprio
errore materiale, cioè di una inesattezza percepibile ictu
oculi dal contesto dell'atto e tale da non determinare
alcuna incertezza in ordine alla individuazione di quanto
effettivamente rappresentato e avvenuto.
---------------
1) Il presente ricorso è proposto avverso gli atti della
gara per l’affidamento del servizio di ristorazione
scolastica della scuola materna ed elementare per il
triennio 2016/2019, del Comune di Campiglione Fenile.
Il Collegio, anche dopo l’esame più approfondito, rispetto a
quello della fase cautelare, non ravvisa elementi per
discostarsi dalla decisione interinale, per le ragioni di
seguito rappresentate.
2) Il primo motivo verte sulla violazione dell’art. 80, comma
5, lett. c), d.lgs. 50/2016, per la mancata dichiarazione
nella domanda di ammissione al punto h), da parte della G.
di una precedente revoca dell’aggiudicazione del servizio
presso il Comune di Sciolze, per l’omissione nella
dichiarazione di reati riferibili al legale rappresentante
rilevanti sotto il profilo dell’affidabilità morale e
professionale.
La censura è infondata in fatto, in quanto nella domanda di
ammissione l’Amministratore unico della G. ha dichiarato
che l’affidamento per il servizio di refezione scolastica
era stato revocato dalla Centrale Unica di Committenza -
capofila Comune di Chivasso, per asserite false
dichiarazioni rese dalla Sig. Ka.Pi. amministratore
unico della società sino al 01.07.2016 e che il provvedimento
era però stato impugnato avanti il Tar Lazio.
Sempre secondo parte ricorrente la revoca avrebbe dovuto
comportare l’esclusione dalla gara, in quanto il fatto
integra l’ipotesi di grave illecito professionale, tale da
rendere dubbia la integrità e affidabilità di cui all’art. 80,
comma V, d.lgs. 50/2016.
Anche questo rilievo non può essere condiviso, poiché la
revoca di una aggiudicazione non rientra tra le ipotesi di
esclusione dell’art. 80, comma V, poiché non costituisce
automaticamente un grave illecito professionale, tale da
rendere dubbia la affidabilità, né integra l’ipotesi di
significative carenze nell’esecuzione di un precedente
appalto.
Nel caso di specie la revoca non ha riguardato l’esecuzione
di un contratto, ma l’omissione di dichiarazioni rese dal
precedente amministratore, mentre in questa sede la G. non
solo ha dichiarato l’intervenuta revoca, ma anche le ragioni
della stessa, indicando altresì il reato contestato all’ex
amministratore, nonché gli atti societari successivi con cui
la società si è dissociata dalle condotte contestate.
...
E’ fondata
anche la censura nella parte in cui osserva che la
formulazione dell’offerta non potesse indurre a ritenere che
vi fosse una “donazione” delle attrezzature a fine
contratto, poiché nell’offerta la G. si limita a dichiarare
la “fornitura a proprie spese” di tutta una serie di
strumenti (dai frigoriferi ai piccoli elettrodomestici), che
indica la volontà di sostituzione gratuita degli esistenti,
ma senza alcun riferimento alla fase conclusiva del
contratto e alla volontà di trasferire in proprietà i beni
alla stazione appaltante.
Il chiarimento reso in sede di apertura delle offerte, nella
seduta del 18.08.2016, si è sostanziato in una dichiarazione
integrativa dell’offerta originale, attraverso cui è stata
introdotta una nuova proposta, in palese violazione al
principio della immodificabilità dell’offerta.
Né può valere la dichiarazione postuma della commissione: in
base ai principi generali in materia e secondo pacifica
giurisprudenza, il verbale della commissione costituisce un
atto pubblico che è assistito da fede privilegiata, facendo
prova sino a querela di falso di quanto in esso attestato;
una volta che il verbale venga "chiuso", cioè confermato e
sottoscritto, esso diviene pertanto intangibile anche per
gli stessi componenti della Commissione, nel senso che il
potere che con la verbalizzazione è stato esercitato è
venuto meno, cioè si è consumato (TAR Campania Napoli,
sez. II, 21.05.2009, n. 2831; TAR Toscana Firenze,
sez. I, 21.03.2006 , n. 977; TAR Firenze, sez. II, 22.06.2010, n. 2031).
Può peraltro ammettersi che, nel caso in cui il verbale sia
inficiato da errori materiali, sia consentito operare le
opportune rettifiche, ma deve trattarsi di vero e proprio
errore materiale, cioè di una inesattezza percepibile ictu
oculi dal contesto dell'atto e tale da non determinare
alcuna incertezza in ordine alla individuazione di quanto
effettivamente rappresentato e avvenuto (TAR Lazio
Latina, sez. I, 10.01.2008, n. 28)
Tale ipotesi non si è però verificata nel caso in esame,
atteso che la commissione ha integrato con una dichiarazione
successiva il proprio giudizio, modificando quanto attestato
nel precedente verbale, "letto, confermato e sottoscritto"
dai commissari.
In ogni caso, anche a voler considerare valida la
dichiarazione, la commissione ha confermato di aver inteso
la formula “fornitura a proprie spese” come espressione di
volontà di trasferire la proprietà delle attrezzature al
termine dell’appalto, confermando che ha assegnato un
punteggio per un criterio non previsto dalla lex specialis e
per un impegno non espressamente e inequivocabilmente
assunto dall’offerente.
Ne consegue il punteggio massimo di 10 punti per la voce
migliorie del centro di cottura, non poteva essere
assegnato, poiché alla voce “fornitura a proprie spese” come
intesa dalla commissione, cioè trasferimento della proprietà
delle attrezzature al termine del contratto, non poteva
essere assegnato punteggio
(TAR Piemonte, Sez. I,
sentenza 28.02.2017 n. 289 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti
assolutamente incompatibile con atti amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo
restando tra l'altro il potere-dovere del giudice
dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei
presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e
di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio
del potere di rilascio).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla
inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da
precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un
immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine
giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al
contrario, l'opposto principio dell'interesse
dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca-
delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche).
---------------
La sanzione dell'ordine di demolizione, prevista
dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla
regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in
sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è
consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o
del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento
del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente
prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che
tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non
potendo la tutela del territorio essere rinviata
indefinitamente.
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha
osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione
dell'istanza di condono in rapporto alla condanna
giudiziale- che per neutralizzare l'ordine di demolizione
non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in
tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie,
siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
---------------
4.1. In ragione della loro stretta connessione, i motivi di
impugnazione possono essere esaminati congiuntamente.
In proposito, è invero principio del tutto consolidato che
l'ordine di demolizione impartito dal giudice con la
sentenza di condanna è suscettibile di revoca quando risulti
assolutamente incompatibile con atti amministrativi della
competente autorità, che abbiano conferito all'immobile una
diversa destinazione o ne abbiano sanato l'abusività (fermo
restando tra l'altro il potere-dovere del giudice
dell'esecuzione di verificare la legittimità dell'atto concessorio sotto il duplice profilo della sussistenza dei
presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e
di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio
del potere di rilascio) (Sez. 3, n. 47402 del 21/10/2014, Chisci e altro, Rv. 260972).
Non sussiste infatti alcun diritto "assoluto" alla
inviolabilità del domicilio, desumibile dalle decisioni
della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, tale da
precludere l'esecuzione dell'ordine di demolizione di un
immobile abusivo, finalizzato a ristabilire l'ordine
giuridico violato (dalla giurisprudenza CEDU si ricava, al
contrario, l'opposto principio dell'interesse
dell'ordinamento all'abbattimento -in luogo della confisca-
delle opere incompatibili con le disposizioni urbanistiche)
(Sez. 3, n. 18949 del 10/03/2016, Contadini e altro, Rv.
267024).
4.2. Ciò posto, dallo stesso contenuto del ricorso emerge
che la procedura di sanatoria pende da circa venti anni,
senza alcun apprezzabile risultato.
Né appare seriamente sostenibile, dati siffatti precedenti
ed anche al di là delle comunque non impegnative
dichiarazioni del tecnico comunale (al riguardo, nel
provvedimento impugnato si dà invece espressamente atto che
proprio dalle parole del funzionario pubblico poteva
addirittura desumersi che alcuna rapida definizione delle
pratiche edilizie era prevista), che essa possa concludersi
in tempi ragionevolmente pronosticabili.
Infatti la sanzione dell'ordine di demolizione, prevista
dall'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380, sfugge alla
regola del giudicato penale ed è sempre riesaminabile in
sede esecutiva al fine di una eventuale revoca, che è
consentita solo in presenza di determinazioni della P.A. o
del giudice amministrativo incompatibili con l'abbattimento
del manufatto, ovvero quando sia ragionevolmente
prevedibile, in base ad elementi concreti e specifici, che
tali provvedimenti saranno adottati in breve tempo, non
potendo la tutela del territorio essere rinviata
indefinitamente (Sez. 3, n. 25212 del 18/01/2012, Maffia, Rv.
253050).
Sì che del tutto correttamente il Procuratore generale ha
osservato -irrilevante essendo il momento di presentazione
dell'istanza di condono in rapporto alla condanna
giudiziale- che per neutralizzare l'ordine di demolizione
non è ovviamente sufficiente la, mera, possibilità che in
tempi lontani, e comunque non prevedibili come in specie,
siano emanati atti favorevoli alla parte ricorrente.
4.3. In ragione di ciò, non vi è alcuna possibilità,
pertanto, di confrontare l'ordine di demolizione con
provvedimenti di segno diverso, tali da metterne in dubbio
la perdurante piena efficacia.
4.4. Al riguardo, e con particolare attenzione al secondo
motivo di ricorso, è poi appena il caso di aggiungere che
-ferme le svolte considerazioni- non rileva il fatto
dell'inutile pendenza ventennale della procedura
amministrativa di sanatoria (tra l'altro, finora, ad
evidente esclusivo vantaggio del privato che ha goduto del
bene), atteso che, a fronte delle innegabili inefficienze di
pubbliche autorità, si pone in ogni caso l'obbligo di porre
in esecuzione un ordine di demolizione, nascente da una
sentenza irrevocabile di condanna.
5. I motivi di censura appaiono quindi manifestamente
infondati nella loro integralità, e ne va dichiarata
l'inammissibilità
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2017 n. 8887). |
EDILIZIA PRIVATA: L'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione
amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto
alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28
della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva.
La demolizione del manufatto abusivo, anche se
disposta dal giudice
penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata
altrimenti eseguita,
ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad
un'autonoma funzione ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per
ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive
ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente
dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato
dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen..
Una
lettura sistematica
della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura
amministrativa, e la
dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento
penale, della
demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è
che, pur integrando
un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità
amministrativa, nel
senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice
penale anche qualora
sia stata già disposta dall'autorità amministrativa,
l'ordine 'giudiziale' di
demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel
contenuto
(l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione)
'amministrativo', ed è
eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti
eseguita".
Pertanto, se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono
disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga
revocata in dubbio la
natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza
che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può
essere disposta immediatamente, senza neppure
l'individuazione dei
responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione
giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo
che la dispone.
Anche perché è pacifico che l'ordine
'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da
parte del giudice penale allorquando divenga
incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso
tenore, in tal senso non
mutuando il
carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella
irretrattabilità, ed è
impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del
reato e/o della pena;
resta
eseguibile, qualora sia
stato impartito con la sentenza di applicazione della pena
su richiesta, anche nel
caso di estinzione del reato conseguente al decorso del
termine di cui all'art.
445, comma 2, cod. proc. pen.; non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
all'irrevocabilità
della sentenza.
---------------
L'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio
disponibile del
Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione
emesso dal giudice con
la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione
da parte del pubblico
ministero, a spese del condannato, sussistendo
incompatibilità solo nel caso in
cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera,
l'esistenza di interessi pubblici al
mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a
quello del ripristino
dell'assetto urbanistico violato.
Oltre a ciò, il giudice,
nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio
della sospensione della
pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale
ordine ha la funzione di
eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale
subordinazione è ostativa
l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del
comune, poiché anche
questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto
abusivamente
costruito.
---------------
4. I ricorsi sono inammissibili.
4.1. In relazione al primo profilo di censura, ed in ragione
della particolare struttura semplificata del presente
provvedimento, è del tutto opportuno e sufficiente ricordare
che è già stata anche
ritenuta manifestamente infondata la
questione di legittimità costituzionale, per violazione
degli artt. 3 e 117 Cost., dell'art. 31 del d.P.R. 06.06.2001, n. 380 per mancata previsione di un termine di
prescrizione dell'ordine di demolizione del manufatto
abusivo disposto con la sentenza di condanna, in quanto le
caratteristiche di detta sanzione amministrativa —che
assolve ad una funzione ripristinatoria del bene leso;
configura un obbligo di fare per ragioni di tutela del
territorio; non ha finalità punitive ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che si trova in rapporto con
il bene, anche se non è l'autore dell'abuso—
non consentono
di ritenerla "pena" nel senso individuato dalla
giurisprudenza della Corte EDU, e, pertanto, è da escludere
sia la irragionevolezza della disciplina che la riguarda
rispetto a quella delle sanzioni penali soggette a
prescrizione, sia una violazione del parametro interposto di
cui all'art. 117 Cost. (Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Porcu, Rv. 267977).
Sì che va ribadito che l'ordine di
demolizione del manufatto abusivo, avendo natura di sanzione
amministrativa di carattere ripristinatorio, non è soggetto
alla prescrizione stabilita dall'art. 173 cod. pen. per le
sanzioni penali, né alla prescrizione stabilita dall'art. 28
della legge 24.11.1981, n. 689, che riguarda
unicamente le sanzioni pecuniarie con finalità punitiva (ad
es. Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Fornnisano, Rv.
264736).
4.2. La Corte infine richiama ed integralmente condivide
Sez. 3, n. 9949 del
20/01/2016, Di Scala -allo stato non massimata- che
appunto conclude nel
senso che la demolizione del manufatto abusivo, anche se
disposta dal giudice
penale ai sensi dell'art. 31, comma 9, qualora non sia stata
altrimenti eseguita,
ha natura di sanzione amministrativa, che assolve ad
un'autonoma funzione
ripristinatoria del bene giuridico leso, configura un
obbligo di fare, imposto per
ragioni di tutela del territorio, non ha finalità punitive
ed ha carattere reale,
producendo effetti sul soggetto che è in rapporto con il
bene, indipendentemente
dall'essere stato o meno quest'ultimo l'autore dell'abuso.
Per tali sue
caratteristiche la demolizione non può ritenersi una «pena»
nel senso individuato
dalla giurisprudenza della Corte EDU e non è soggetta alla
prescrizione stabilita
dall'art. 173 cod. pen..
In ogni caso, ivi è comunque ribadito che l'art. 31 Testo
Unico dell'edilizia
disciplina l'ingiunzione alla demolizione delle opere
abusive, adottata dall'autorità
amministrativa nel caso non venga disposta la demolizione
d'ufficio; in caso di
inottemperanza, è prevista l'irrogazione di una sanzione
amministrativa
pecuniaria, e, comunque, l'acquisizione dell'opera abusiva
al patrimonio del
Comune, finalizzata alla demolizione 'in danno', a spese dei
responsabili
dell'abuso, salvo che con specifica deliberazione consiliare
non venga dichiarata
l'esistenza di prevalenti interessi pubblici, e sempre che
l'opera non contrasti con
rilevanti interessi urbanistici ed ambientali. Il comma 9
del medesimo art. 31
prevede che la demolizione venga ordinata dal giudice con la
sentenza di
condanna, "se ancora non sia stata altrimenti eseguita".
Una
lettura sistematica
della disposizione, dunque, impone di ribadire la natura
amministrativa, e la
dimensione accessoria, ancillare, rispetto al procedimento
penale, della
demolizione, pur quando ordinata dal giudice penale; tant'è
che, pur integrando
un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità
amministrativa, nel
senso che la demolizione deve essere ordinata dal giudice
penale anche qualora
sia stata già disposta dall'autorità amministrativa,
l'ordine 'giudiziale' di
demolizione coincide, nell'oggetto (l'opera abusiva) e nel
contenuto
(l'eliminazione dell'abuso), con l'ordine (o l'ingiunzione)
'amministrativo', ed è
eseguibile soltanto "se ancora non sia stata altrimenti
eseguita".
Pertanto, se la 'demolizione d'ufficio' e l'ingiunzione alla
demolizione sono
disposte dall'autorità amministrativa, senza che venga
revocata in dubbio la
natura amministrativa, e non penale, delle misure, e senza
che ricorra la
pertinenzialità ad un fatto-reato, in quanto, come si è
visto, la demolizione può
essere disposta immediatamente, senza neppure
l'individuazione dei
responsabili, non può affermarsi che la 'demolizione
giudiziale' -identica
nell'oggetto e nel contenuto- muti natura giuridica solo in
ragione dell'organo
che la dispone. Anche perché è pacifico che l'ordine
'giudiziale' di demolizione è suscettibile di revoca da
parte del giudice penale allorquando divenga
incompatibile con provvedimenti amministrativi di diverso
tenore (Sez. 3, n.
47402 del 21/10/2014, Chisci, Rv. 260972), in tal senso non
mutuando il
carattere tipico delle sanzioni penali, consistente nella
irretrattabilità, ed è
impermeabile a tutte le eventuali vicende estintive del
reato e/o della pena (ad
esso non sono applicabili l'amnistia e l'indulto, cfr. Sez.
3, n. 7228 del
02/12/2010, dep. 2011, D'Avino, Rv. 249309);
resta
eseguibile, qualora sia
stato impartito con la sentenza di applicazione della pena
su richiesta, anche nel
caso di estinzione del reato conseguente al decorso del
termine di cui all'art.
445, comma 2, cod. proc. pen. (cfr. Sez. 3, n. 18533 del
23/03/2011, Abbate,
Rv. 250291); non è estinto dalla morte del reo sopravvenuta
all'irrevocabilità
della sentenza (cfr. Sez. 3, n. 3861 del 18/01/2011, Baldinucci e altri, Rv.
249317).
Si tratta, dunque, della medesima sanzione amministrativa,
adottabile
parallelamente al procedimento amministrativo, la cui
emissione è demandata
(anche) al giudice penale all'esito dell'affermazione di
responsabilità penale, al
fine di garantire un'esigenza di celerità ed effettività del
procedimento di
esecuzione della demolizione.
4.3. In relazione all'ulteriore, e sostanzialmente connesso,
profilo di
censura, la giurisprudenza del tutto consolidata della Corte
è altresì nel senso
che l'acquisizione gratuita dell'opera abusiva al patrimonio
disponibile del
Comune non è incompatibile con l'ordine di demolizione
emesso dal giudice con
la sentenza di condanna e con la sua successiva esecuzione
da parte del pubblico
ministero, a spese del condannato, sussistendo
incompatibilità solo nel caso in
cui l'ente locale stabilisca, con propria delibera,
l'esistenza di interessi pubblici al
mantenimento delle opere abusive, prevalenti rispetto a
quello del ripristino
dell'assetto urbanistico violato (ex plurimis, Sez. 3, n.
42698 del 07/07/2015,
Marche, Rv. 265495; Sez. 3, n. 4962 del 28/11/2007, dep.
2008, Mancini, Rv.
238803; Sez. 3, n. 49397 del 16/11/2004, Sposato, Rv.
230652; Sez. 3, n. 3489
del 03/11/2000, Mosca, Rv. 217999).
Oltre a ciò, è stato ricordato anche dal Procuratore
generale che il giudice,
nella sentenza di condanna, può subordinare il beneficio
della sospensione della
pena alla demolizione dell'opera abusiva, in quanto tale
ordine ha la funzione di
eliminare le conseguenze dannose del reato, né a tale
subordinazione è ostativa
l'avvenuta acquisizione dell'immobile al patrimonio del
comune, poiché anche
questa vicenda è finalizzata alla demolizione del manufatto
abusivamente
costruito (Sez. 3, n. 32351 del 01/07/2015, Giglia e altro, Rv. 264252; Sez. 3,
n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258517)
(Corte di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 23.02.2017 n. 8882). |
EDILIZIA PRIVATA: La
realizzazione di un abbaino è da qualificarsi quale "nuova
costruzione".
Nell'ambito delle opere edilizie, la semplice "ristrutturazione"
si verifica ove gli interventi, comportando modificazioni
esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del
quale sussistano e rimangano inalterate le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura, mentre si verte in ipotesi di "nuova
costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in
tema di distanze vigente al momento della medesima, quando
la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio e, in particolare, comporti aumento
della volumetria.
Nella specie, la Corte di Appello ha constatato che gli
abbaini hanno determinato un aumento di volumetria del
fabbricato di parte convenuta e, conseguentemente, ha
esattamente concluso che essi costituiscono nuova
costruzione.
---------------
RITENUTO IN FATTO
1. — In accoglimento delle domande proposte da Fr.Ir. nei
confronti di Se.Wa., Se.Lu. e Fr.Br., il Tribunale di
Bolzano condannò i convenuti all'arretramento —fino alla
distanza legale— di due abbaini edificati dai medesimi nel
loro immobile e di un'antenna televisiva ivi installata,
nonché al risarcimento del danno; accertò inoltre il confine
tra i fondi delle parti.
CONSIDERATO IN DIRITTO
...
2. — Col secondo motivo di ricorso, si deduce la
violazione e la falsa applicazione di norme di diritto,
nonché il vizio di motivazione della sentenza impugnata, per
avere la Corte territoriale qualificato gli abbaini come "nuove
costruzioni" in contrasto con la previsione dell'art. 52
del regolamento di esecuzione alla legge urbanistica
provinciale di Bolzano e per avere erroneamente ritenuto che
gli abbaini determinavano un aumento di volumetria del piano
sottostante al sottotetto.
Le doglianze non possono trovare accoglimento.
Il primo profilo, relativo al regolamento provinciale
risulta nuovo e, perciò, inammissibile, non avendo peraltro
parte ricorrente dedotto —come era suo onere— di aver posto
la questione a fondamento di apposito motivo di appello.
Il secondo profilo è infondato.
Invero, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione
del principio di diritto secondo cui, nell'ambito delle
opere edilizie, la semplice "ristrutturazione" si
verifica ove gli interventi, comportando modificazioni
esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del
quale sussistano e rimangano inalterate le componenti
essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture
orizzontali, la copertura, mentre si verte in ipotesi di "nuova
costruzione", come tale sottoposta alla disciplina in
tema di distanze vigente al momento della medesima, quando
la fabbrica comporti una variazione rispetto alle originarie
dimensioni dell'edificio e, in particolare, comporti aumento
della volumetria (Cass., Sez. Un., n. 21578 del 2011).
Nella specie, la Corte di Appello ha constatato che gli
abbaini hanno determinato un aumento di volumetria del
fabbricato di parte convenuta (p. 19 sentenza impugnata) e,
conseguentemente, ha esattamente concluso che essi
costituiscono nuova costruzione.
La motivazione del giudizio di fatto circa la sussistenza di
aumento di volumetria è esente da vizi logici e giuridici e
rimane, pertanto, non sindacabile in sede di legittimità
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 17.02.2017 n. 4255). |
CONSIGLIERI COMUNALI: La
critica al politico che fa scattare il reato di
diffamazione. Offesa all'onore di consiglieri comunali. La
scriminante dell'esercizio del diritto di critica politica.
Era stato condannato in primo e secondo grado del reato di
diffamazione aggravata e al risarcimento dei danni un per
avere offeso l'onore di tre consiglieri comunali, facendo
affiggere per le strade principali di un Comune dei
manifesti in cui detti consiglieri erano indicati come
responsabili della sottrazione di 560 mila euro dal bilancio
comunale per motivazioni addotte dai "cinque cavalieri
della tavola ... rotonda" quali "problemi personali
che possono essere compresi, ma non possono essere
soddisfatti dall'amministrazione comunale ...".
La Corte di Cassazione, se da un lato ha annullato la
sentenza agli effetti penali per intervenuta prescrizione
del reato dall'altro ha, invece, confermato gli effetti
civili della condanna in quanto non ha riconosciuto la
sussistenza della scriminante dell'esercizio del diritto di
critica politica.
In particolare, la Corte, ha richiamato la giurisprudenza a
tenore della quale l'esercizio di tale diritto può rendere
non punibili espressioni anche aspre e giudizi di per sé
ingiuriosi, tesi a stigmatizzare comportamenti realmente
tenuti da un personaggio pubblico, ma non può scriminare la
falsa attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata
come fondamento per l'esposizione a critica del personaggio
stesso: dunque, la critica politica -che nell'ambito della
polemica fra contrapposti schieramenti può anche tradursi in
valutazioni e commenti tipicamente "di parte", ossia
non obiettivi- deve pur sempre fondarsi sull'attribuzione di
fatti veri, in quanto nessuna interpretazione soggettiva,
che sia fonte di discredito per la persona che ne sia
investita, può ritenersi rapportabile al lecito esercizio
del diritto di critica, quando tragga le sue premesse da una
prospettazione dei fatti non vera.
Alla luce di tali principi, la Suprema Corte ha evidenziato
come nella vicenda in esame la Corte distrettuale ha dato
conto della falsa attribuzione alle persone offese di una
condotta scorretta, ricostruendo il significato offensivo
delle espressioni riportate nei manifesti non già
singolarmente considerate, ma collocate nel «complesso
dell'informazione rappresentato dal testo»: in tale
corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo
significato del fatto comunicativo, il riferimento alla
"sottrazione" della cospicua somma dal bilancio comunale è
posto in correlazione, nei manifesti fatti affiggere
dall'imputato nelle strade principali del Comune, a "problemi
personali" dei consiglieri comunali, a loro volta
indicati come "cavalieri della tavola ... rotonda".
Nei termini indicati, conclude la Corte, "la deduzione
difensiva circa la riferibilità del contenuto dei manifesti
ad un'operazione di storno di bilancio dà corpo, al più, ad
un'interpretazione soggettiva di detto significato, laddove
la sua valenza lesiva della reputazione delle persone offese
fondata su una prospettazione dei fatti non vera è stata
congruamente argomentata valorizzando il collegamento
testuale della sottrazione all'esigenza di far fronte a
"problemi personali" dei consiglieri comunali, rappresentati
come partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita,
all'evidenza, da risorse pubbliche" (commento tratto da
www.ilquotidianodellapa.it).
---------------
MASSIMA
In premessa, la Corte rileva che, considerato il periodo
di sospensione del corso della prescrizione e non risultando
il ricorso inammissibile, la fattispecie estintiva del reato
risulta perfezionata in data 02/12/2013.
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza
rinvio agli effetti penali per essere il reato estinto per
prescrizione, mentre il ricorso deve essere esaminato, a
norma dell'art. 578 cod. proc. pen., ai soli effetti civili.
Esso non è fondato.
I due motivi possono essere esaminati congiuntamente,
essendo entrambi volti al riconoscimento della sussistenza
della scriminate dell'esercizio del diritto
di critica politica.
Come questa Corte ha già avuto modo di affermare,
l'esercizio di tale diritto può rendere non punibili
espressioni anche aspre e giudizi di per sé ingiuriosi, tesi
a stigmatizzare comportamenti realmente tenuti da un
personaggio pubblico, ma non può scriminare la falsa
attribuzione di una condotta scorretta, utilizzata come
fondamento per l'esposizione a critica del personaggio
stesso (Sez. 5, n.
14459 del 02/02/2011 - dep. 11/04/2011, Contrisciani, Rv.
249935; Sez. 5, n. 24087 del 13/01/2004 - dep. 26/05/2004,
Boldrini, Rv. 228900): dunque, la critica
politica -che nell'ambito della polemica fra contrapposti
schieramenti può anche tradursi in valutazioni e commenti
tipicamente "di parte", ossia non obiettivi- deve pur
sempre fondarsi sull'attribuzione di fatti veri, in quanto
nessuna interpretazione soggettiva, che sia fonte di
discredito per la persona che ne sia investita, può
ritenersi rapportabile al lecito esercizio del diritto di
critica, quando tragga le sue premesse da una prospettazione
dei fatti non vera
(Sez. 5, n. 7419 del 03/12/2009 - dep. 24/02/2010,
Cacciapuoti, Rv. 246096).
La Corte distrettuale ha dato conto della falsa attribuzione
alle persone offese di una condotta scorretta, ricostruendo
il significato offensivo delle espressioni riportate nei
manifesti non già singolarmente considerate, ma collocate
nel «complesso dell'informazione rappresentato dal testo»:
in tale corretta prospettiva ricostruttiva dell'obbiettivo
significato del fatto comunicativo, il riferimento alla "sottrazione"
della cospicua somma dal bilancio comunale è posto in
correlazione, nei manifesti fatti affiggere dall'imputato
nelle strade principali del Comune, a "problemi personali"
dei consiglieri comunali, a loro volta indicati come "cavalieri
della tavola ... rotonda".
Nei termini indicati, la deduzione difensiva circa la
riferibilità del contenuto dei manifesti ad un'operazione di
storno di bilancio dà corpo, al più, ad un'interpretazione
soggettiva di detto significato, laddove la sua valenza
lesiva della reputazione delle persone offese fondata su una
prospettazione dei fatti non vera è stata congruamente
argomentata valorizzando il collegamento testuale della
sottrazione all'esigenza di far fronte a "problemi
personali" dei consiglieri comunali, rappresentati come
partecipi alla "tavola ... rotonda" costituita,
all'evidenza, da risorse pubbliche.
Prive di pregio sono le ulteriori deduzioni circa il
riferimento della sentenza impugnata ai lettori dei
manifesti, ossia la cittadinanza comunale, riferimento,
questo, congruamente volto a dar conto della valutazione
delle espressioni di cui all'imputazione sulla base di un
criterio di media convenzionale in rapporto alla personalità
dell'offeso e dell'offensore ed al contesto nel quale la
frase offensiva è stata diffusa (cfr. Sez. 5, n. 19070 del
27/03/2015 - dep. 07/05/2015, Foti, Rv. 263711; Sez. 5, n.
11632 del 14/02/2008 - dep. 14/03/2008, Tessarolo, Rv.
239479).
Pertanto, la sentenza impugnata deve essere annullata senza
rinvio agli effetti penali per essere il reato è estinto per
prescrizione, mentre, agli effetti civili, il ricorso deve
essere rigettato, con condanna del ricorrente alla rifusione
delle spese di parte civile liquidate come da dispositivo
(Corte di Cassazione, Sez. V penale,
sentenza 10.02.2017 n. 6332). |
APPALTI: Commissione
di gara illegittima se tra i componenti c’è un rapporto
gerarchico.
Riveste una particolare importanza la
sentenza 06.02.2017 n. 108
del TAR Marche in relazione ad alcune precisazioni in tema
di composizione della commissione di gara negli appalti da
aggiudicarsi secondo il criterio dell'offerta economicamente
più vantaggiosa.
In particolare per quanto attiene ad un preciso profilo di
incompatibilità –non di consueta considerazione da parte dei
giudici– determinato dal fatto che un commissario era, a sua
volta, anche superiore gerarchico di altro componente.
Circostanza che, secondo il giudice, incideva sulla libera
determinazione del componente «subordinato».
Le incompatibilità
Il nuovo codice degli appalti ha ampliato, dal punto di
vista soggettivo con il comma 4 dell'articolo 77, le ipotesi
di incompatibilità ritenendo –a differenza del comma 4
dell'articolo 84 del pregresso codice– che anche il
presidente di commissione, se risulta essere stato
interessato dalla redazione degli atti di gara (in qualità
di Rup) e/o dal contratto della cui aggiudicazione si
tratta, non possa far parte della commissione né, appunto,
presiederla. Circostanza questa, in ogni caso, destinata a
venir meno con la prevista modifica –a opera del decreto
correttivo del codice- del comma 3 dell'articolo 77 che
imporrà la nomina esterna del presidente della commissione
direttamente dall'Albo dei commissari.
Raramente, nella giurisprudenza è venuta in considerazione
una diversa –possibile– tipologia di incompatibilità
determinata dal fatto che un commissario, operando nel
servizio di altro componente della commissione responsabile
del servizio, potesse essere considerato come soggetto
potenzialmente «condizionato» dal fatto di essere
subordinato ad altro componente e quindi «influenzabile»
nelle proprie libere scelte per una sorta di timore
reverenziale (metus reverentialis) nei confronti del
superiore.
È questa la decisione del giudice marchigiano che ha
ritenuto persuasiva la censura del ricorrente di
incompatibilità – tra le altre - tra 2, dei tre, commissari
perché tra questi insisteva «un rapporto di dipendenza
gerarchica».
La decisione
Secondo il giudice, «per un principio generale
dell'ordinamento di settore, ma applicabile naturalmente
anche ai concorsi pubblici, ogni commissario deve essere
libero di svolgere in autonomia le proprie valutazioni, il
che sarebbe fortemente ostacolato dal fatto che uno dei
membri possa esercitare, anche inconsciamente, una qualche
“pressione” su uno o più degli altri componenti».
E uno «dei casi in cui tale “pressione” può manifestarsi si
verifica proprio quando fra i commissari vi sono rapporti di
dipendenza gerarchica».
Tra l'altro, il vizio deve ritenersi a valenza invalidante «ex
se, a prescindere quindi dal fatto che in concreto non sia
fornita la prova di uno sviamento di potere».
Si tratta di una decisione non completamente condivisibile
che rischia di incidere anche sulle normali dinamiche di
nomina delle commissioni di gara, spesso –anche per carenza
di organico– composte da soggetti presenti nello stesso
servizio interessato dall'appalto (articolo Quotidiano
Enti Locali & Pa del 23.02.2017).
---------------
MASSIMA
1. La cooperativa ricorrente ha preso parte alla
procedura ad evidenza pubblica indetta dalla Centrale Unica
di Committenza (C.U.C.) istituita presso l’Unione Montana
Alta Valle del Metauro per conto del Comune di Urbania,
avente ad oggetto l’affidamento del servizio di gestione
dell’asilo nido comunale per il periodo 1/9/2016-31/7/2018.
Alla gara hanno preso parte solo “La So.” e “Eu.As.” e
quest’ultima è risultata collocata al primo posto della
graduatoria finale con punti 86/100, mentre la ricorrente ha
conseguito punti 74,07/100. Prima di decretare
l’aggiudicazione, la C.U.C. ha sottoposto l’offerta di “Eu.”
a verifica di congruità.
2. Con il ricorso introduttivo “La So.” (gestore uscente del
servizio) censura il complessivo operato della C.U.C. e del
Comune di Urbania per i seguenti motivi:
- il RUP designato dalla C.U.C. è diverso da quello indicato nella
determina di indizione della gara;
- la commissione è stata nominata dalla C.U.C. e non dalla stazione
appaltante (ossia dal Comune di Urbania);
- la commissione di gara non era composta da membri esperti del
settore;
- fra due dei commissari sussiste un rapporto di dipendenza
gerarchica;
- il presidente della commissione ha svolto anche le funzioni di
RUP, in violazione dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. n. 50/2016,
nonché del successivo comma 7;
- i punteggi attribuiti dalla commissione alle due offerte
risultano illogici e immotivati (e ciò anche in conseguenza
dell’assenza di specifica competenza in materia in capo ai
commissari);
- la valutazione della congruità dell’offerta della
controinteressata è stata svolta dal solo RUP e non dalla
commissione nel suo plenum;
- la valutazione di congruità, peraltro, non è stata in realtà
compiuta, essendosi il RUP limitato a verificare i
certificati del casellario giudiziale depositati
dall’aggiudicataria;
- è altresì illegittima l’esecuzione anticipata del servizio
disposta dal Comune, e ciò in quanto il ritardo nella
conclusione della gara è ascrivibile unicamente alla
stazione appaltante ed alla C.U.C.
La ricorrente ha proposto altresì la domanda di subentro (e
in via subordinata di risarcimento per equivalente monetario
del danno da mancata aggiudicazione) e la domanda
risarcitoria per i danni derivanti dalla consegna anticipata
del servizio alla controinteressata.
...
8. Ciò detto, vanno accolte le censure inerenti le modalità
di nomina del RUP e della commissione di gara, le quali,
come si dirà meglio infra, hanno valenza assorbente.
Nel merito, si osserva quanto segue.
8.1.
Il fatto che la presente gara sia stata bandita in
epoca immediatamente successiva all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 50/2016 ha certamente provocato qualche incertezza
circa le disposizioni da applicare al riguardo, e ciò anche
alla luce del parere reso dal Consiglio di Stato sulle Linee
guida predisposte dall’ANAC in materia di nomina del RUP
(vedasi il parere della Commissione Speciale n. 1767/2016).
Ciò peraltro non giustifica l’operato della C.U.C..
8.2. Va infatti considerato che, anche volendo applicare, ai
sensi dell’art. 77, comma 12, D.Lgs. n. 50/2016, le
disposizioni interne alla C.U.C., la nomina del RUP e della
commissione sono illegittime. In effetti, la convenzione
stipulata nel 2015 per l’istituzione e l’implementazione
della C.U.C. operante presso l’Unione Montana Alta Valle del
Metauro prevede che il RUP sia nominato dal Comune
interessato e che la commissione di gara sia formalmente
nominata dalla C.U.C. ma su designazione del Comune
interessato (art. 3, comma 4, e art. 4 della Convenzione).
Anche l’art. 31, comma 1, del D.Lgs. n. 50/2016 prevede che
il RUP sia designato dalla stazione appaltante.
E, del resto, con la determinazione comunale n. 51/2016 il
RUP era stato già nominato.
8.3. L’art. 31, comma 14, del D.Lgs. n. 50/2016 (secondo cui
“Le centrali di committenza e le aggregazioni di stazioni
appaltanti designano un RUP per le attività di propria
competenza con i compiti e le funzioni determinate dalla
specificità e complessità dei processi di acquisizione
gestiti direttamente”) disciplina una fattispecie
peculiare e non applicabile nella specie, visto che
l’appalto per cui è causa non presenta né particolari
difficoltà tecnico-amministrative né un importo
economicamente rilevante (si tratta, infatti, di un servizio
routinario erogato ormai da molti anni e oggetto, alla
scadenza dei vari contratti, di periodico rinnovo all’esito
di gara ad evidenza pubblica).
8.4.
Tenuto conto dei compiti particolarmente delicati che
il D.Lgs. n. 50/2016 attribuisce al RUP, nonché dell’essenza
stessa della figura (si noti, in particolare, l’aggettivo “unico”),
in uno stesso procedimento non possono coesistere due RUP e,
comunque, l’eventuale secondo RUP, ai sensi del citato art.
31, comma 14, è chiamato a svolgere solo le specifiche
attività per cui è stato nominato.
8.5. Quanto alla nomina della commissione, nella specie il
Comune di Urbania non risulta aver designato formalmente
alcuno dei tre componenti, per cui è stata violata la
predetta convenzione istitutiva della C.U.C.
A questo proposito va evidenziato che l’art. 3, comma 6,
della convenzione, a differenza di quanto opinato dalla
difesa delle amministrazioni resistenti, non pone alcuna
eccezione con riguardo alle gare da aggiudicare con il
criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa,
essendo anche in quel caso prevista la designazione da parte
del Comune interessato.
8.6. E’ parzialmente fondata anche la censura relativa alla
competenza tecnica dei commissari chiamati a far parte della
commissione di gara.
In effetti, mentre è legittima la
presenza del segretario generale del Comune di Urbania (sia
per le sue indubbie competenze in materia di procedure ad
evidenza pubblica, sia perché lo stesso risulta aver diretto
ormai da qualche anno il Settore Sociale-Educativo dello
stesso Comune resistente), non altrettanto può dirsi per gli
altri due commissari.
Questo sotto due profili: quanto al geom. Di., non è stato
provato che lo stesso possegga specifiche competenze
professionali riguardo al servizio oggetto dell’appalto;
quanto al geom. Co., in aggiunta alle precedenti
considerazioni rileva il fatto che il medesimo è in rapporto
di subordinazione gerarchica con il geom. Di. (tale
circostanza, affermata in ricorso, non è stata infatti
smentita dalle amministrazioni intimate).
Per un principio generale dell’ordinamento di settore, ma
applicabile naturalmente anche ai concorsi pubblici, ogni
commissario deve essere libero di svolgere in autonomia le
proprie valutazioni, il che sarebbe fortemente ostacolato
dal fatto che uno dei membri possa esercitare, anche
inconsciamente, una qualche “pressione” su uno o più
degli altri componenti. Uno dei casi in cui tale “pressione”
può manifestarsi si verifica proprio quando fra i commissari
vi sono rapporti di dipendenza gerarchica. Il vizio ha
valenza invalidante ex se, a prescindere quindi dal
fatto che in concreto non sia fornita la prova di uno
sviamento di potere.
9. In vista della riedizione della gara, il Tribunale
ritiene altresì di osservare che la censura relativa
all’incompatibilità in cui versava il presidente della
commissione ai sensi dell’art. 77, comma 4, D.Lgs. n.
50/2016 va ritenuta infondata alla luce delle Linee guida
adottate dall’ANAC in data 26.10.2016.
Come è noto, e pur a fronte di un dettato normativo più
restrittivo rispetto alla formulazione del previgente art.
84, comma 4, del D.Lgs. n. 163/2006, in sede di parere il
Consiglio di Stato aveva censurato l’originaria formulazione
delle Linee guida (vedasi il punto “Pag. 3, par. 1.2.,
terzo periodo” del parere, in cui la Commissione
Speciale ha evidenziato che “…la disposizione che in tal
modo viene interpretata (e in maniera estremamente
restrittiva) è in larga parte coincidente con l’articolo 84,
comma 4, del previgente ‘Codice’ in relazione al quale la
giurisprudenza di questo Consiglio aveva tenuto un approccio
interpretativo di minor rigore, escludendo forme di
automatica incompatibilità a carico del RUP, quali quelle
che le linee-guida in esame intendono reintrodurre (sul
punto ex multis: Cons. Stato, V, n. 1565/2015). Pertanto,
non sembra condivisibile che le linee-guida costituiscano lo
strumento per revocare in dubbio (e in via amministrativa)
le acquisizioni giurisprudenziali…”).
L’ANAC si è adeguata al rilievo, tanto che nella stesura
definitiva le Linee guida (punto 2.2., ultimo periodo)
stabiliscono che “Il ruolo di RUP è, di regola,
incompatibile con le funzioni di commissario di gara e di
presidente della commissione giudicatrice (art. 77, comma 4,
del Codice), ferme restando le acquisizioni
giurisprudenziali in materia di possibile coincidenza”.
Peraltro, non potendosi escludere futuri révirement
giurisprudenziali, è consigliabile che in sede di
ripetizione della procedura il Comune e la C.U.C.
chiariscano nettamente le rispettive competenze circa
l’approvazione dei vari atti di gara, visto che
l’incompatibilità non sussiste laddove, ad esempio, il RUP
non abbia in alcun modo cooperato nella stesura del
capitolato tecnico o del bando.
10. Le censure inerenti l’omessa/errata valutazione
dell’anomalia dell’offerta dell’aggiudicataria sono
assorbite, sia perché la ricorrente non ha graduato i motivi
di ricorso, sia perché –come meglio si preciserà infra–
nella specie il Tribunale non è oggettivamente in grado di
valutare allo stato (ammesso che a ciò sia legittimato ex
officio) la maggiore satisfattività per la ricorrente
dell’accoglimento di una piuttosto che di un’altra censura.
11. In conclusione, la domanda impugnatoria va accolta, con
conseguente annullamento dell’aggiudicazione definitiva e
dell’affidamento del servizio in via d’urgenza disposto in
favore della controinteressata.
Questo secondo provvedimento non ha infatti valenza
autonoma, dovendosi dare quasi per scontato che in tanto il
servizio è stato affidato a “Eurotrend” in quanto la stessa
era risultata aggiudicataria provvisoria. In ogni altro
caso, infatti (deserzione della gara, annullamento in
autotutela del bando, ritardo nella conclusione della
procedura, etc.), il servizio sarebbe stato certamente
affidato in proroga al precedente gestore, ossia alla
cooperativa ricorrente.
12. A questo punto il problema si sposta alla verifica della
corretta modalità di esecuzione della presente sentenza.
12.1. Si deve premettere che dall’accoglimento delle censure
formulate dalla ricorrente (le quali, come detto, non sono
state graduate) non deriverebbe in nessun caso
l’accertamento della spettanza dell’aggiudicazione, visto
che:
- l’accoglimento delle doglianze relative alle modalità di nomina
del RUP e della commissione ed alla competenza dei
commissari ha quale effetto l’obbligo per la C.U.C. di
ripetere la gara (visto che le offerte sono ormai note e non
è quindi più assicurabile la genuinità del giudizio, nemmeno
se questo fosse affidato ad altra commissione);
- dall’accoglimento delle censure inerenti la omessa/errata
valutazione dell’anomalia e l’oggettiva insostenibilità
dell’offerta di “Eurotrend” sarebbe invece disceso l’obbligo
per la stazione appaltante di procedere alla (ri)valutazione
dell’anomalia, anche alla luce delle doglianze svolte dalla
ricorrente. Per giurisprudenza costante, infatti, in prima
battuta la valutazione de qua compete alla stazione
appaltante, il giudice essendo chiamato solo a stabilire se
tale valutazione è stata preceduta da adeguata istruttoria e
se essa risponde ai consueti canoni di adeguatezza e
logicità.
12.2. Diverso è il discorso per quanto concerne
l’annullamento dell’affidamento in via d’urgenza del
servizio, perché in questo caso l’effetto della sentenza
potrebbe esplicarsi in pieno, essendo solo due le ditte
partecipanti alla gara e non essendo stato rappresentato
alcun problema di ammissibilità di una o di entrambe le
offerte (per cui, allo stato, non vi è pericolo che il
servizio possa essere svolto da un operatore che non
possiede i requisiti morali e tecnici).
Peraltro, come il Tribunale ha già statuito per due volte in
sede cautelare, la valutazione circa l’ottimale gestione di
questa fase interinale non può che essere rimessa al Comune
di Urbania, e ciò anche alla luce del fatto che la
ricorrente ha sul punto formulato la domanda risarcitoria
(per cui i danni patrimoniali subiti di cui si chiede il
ristoro –in sé di importo non particolarmente rilevante-
sarebbero elisi in toto in caso di accoglimento della
domanda stessa).
Al riguardo il Tribunale, richiamando analogicamente l’art.
122 cod. proc. amm. (e ciò in quanto nella specie il
contratto non è stato ancora formalmente stipulato), non
ritiene di poter decretare la cessazione immediata della
gestione del servizio da parte della controinteressata,
soprattutto in ragione della particolare natura dell’utenza
e dell’indiscutibile esigenza di continuità gestionale.
12.3. In accoglimento della presente sentenza, pertanto, il
Comune di Urbania dovrà ripetere in tempi ragionevolmente
contenuti la procedura di gara, attenendosi ai principi di
diritto dianzi esposti.
Per la trattazione della domanda risarcitoria va invece
fissata l’udienza pubblica dell’08.11.2017
(TAR Marche,
sentenza 06.02.2017 n. 108 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
Permesso a costruire per le
verande, libertà alle pergotende.
La realizzazione di una veranda su balconi,
terrazzi, attici o giardini richiede il
permesso di costruire in quanto, dal punto
di vista edilizio, determina un aumento
della volumetria dell'edificio, perché è
caratterizzata da ampie superfici vetrate,
che all'occorrenza si aprono tramite
finestre scorrevoli o a libro.
La pergotenda rappresenta, invece, un
elemento di migliore fruizione dello spazio
esterno, stabile e duraturo. Tenuto conto
della sua consistenza, delle caratteristiche
costruttive e della funzione, una pergotenda
non costituisce un'opera edilizia soggetta
al previo rilascio del titolo abilitativo e
rientra all'interno della categoria delle
attività di edilizia libera.
Il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 25.01.2017 n. 306 si è espresso
riguardo alla definizione di pergolati,
verande, gazebo e pergotende. E in
particolare riprende per la prima volta la
definizione di veranda data dal regolamento
edilizio tipo, cioè «locale o spazio coperto
avente le caratteristiche di loggiato,
balcone, terrazza o portico, chiuso sui lati
da superfici vetrate o con elementi
trasparenti e impermeabili, parzialmente o
totalmente apribili».
Il fatto in sintesi. Tizia presentava
ricorso al Tar contro l'ordinanza di
demolizione di una copertura e chiusura
perimetrale di un pergolato con teli
plastificati, fissati alla struttura. Il
sistema utilizzato per fissare i teli è
quello degli occhielli e chiavetta, con un
riquadro di materiale plastico come finestra
nella parte centrale, perché copertura e
chiusura perimetrale sono state realizzate
in assenza di titolo abilitativo. Il Tar ha
respinto il ricorso, ma il Consiglio di
stato lo ha accolto, classificando il
manufatto come una pergotenda, non
assoggettata al rilascio di un titolo
edilizio.
Il Consiglio di stato ha cercato
di chiarire la materia con delle
definizioni, pur ammettendo che «in
relazione ad alcune opere di limitata
consistenza e di limitato impatto sul
territorio (come pergolati, gazebo, tettoie,
pensiline e pergotende) non è sempre agevole
individuare il limite entro il quale esse
possono farsi rientrare nel regime
dell'edilizia libera o per cui è richiesta
una comunicazione o permesso di costruire»
(articolo ItaliaOggi
del 28.04.2017). |
APPALTI: Sull'illegittimità
del provvedimento con il quale la stazione appaltante
annulla d'ufficio la gara, senza aver dato prima alle
imprese partecipanti l'avviso dell'inizio del procedimento
di autotutela.
- "l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, oltre a riprendere
orientamenti
già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso
come
immanente nel sistema, è norma di carattere processuale e
pertanto,
in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o
già
definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15
del 2005, e
tuttavia, con riferimento alla mancata comunicazione di
avvio, la
disposizione in parola non può comunque, anche per
fattispecie anteriori,
essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope
exceptionis"
da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì
l'onere
di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto
essere diverso";
- "con la presentazione della domanda di
partecipazione
alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e
l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una
posizione
differenziata e qualificata, per cui, ove l'amministrazione
che ha
bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve
provvedere, ai
sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro
l'avviso di
avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è
illegittimo,
per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7
e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la
stazione appaltante
annulla d'ufficio la gara, senza aver dato alle imprese
partecipanti
previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela";
- "l'annullamento
in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto,
valide
ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il
provvedimento
deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da
rimuovere, non potendo
l'autotutela essere finalizzata al mero ripristino della
legalità violata,
ma dovendo la medesima essere il risultato di un'attività
istruttoria
adeguata che dia conto della valutazione dell'interesse
pubblico e di
quello del privato che ha riposto affidamento nella
conservazione
dell'atto".
---------------
MASSIMA
2. Il motivo è fondato.
2.1. Va rilevato che, con la domanda proposta in prime cure,
An.Fe., chiedeva accertarsi l'illiceità del comportamento
del
Comune di Arcene -che aveva annullato in via di autotutela
per
motivi formali, con la delibera n. 435 del 18.11.1994,
la procedura
concorsuale per l'assegnazione della licenza di autonoleggio
da rimessa per autobus- e condannarsi l'ente al
risarcimento dei
danni subiti.
A seguito dell'espletamento dei tre gradi del
giudizio, il
Fe. provvedeva alla riassunzione della causa ex art.
392 cod.
proc. civ. in seguito alla pronuncia di questa Corte n.
3666/2006,
con la quale -sul presupposto che la delibera n. 435 del 18.11.1994 integrasse un atto di annullamento in via di autotutela
della
procedura concorsuale per l'assegnazione della predetta
licenza-
la causa veniva rinviata al giudice di merito per la
verifica della legittimità
di detto provvedimento, "sotto il profilo della necessità
della
comunicazione dell'avvio del procedimento" ex art. 7 della
legge
n. 241 del 1990, e sotto quello della natura discrezionale e
non vincolata
del provvedimento di autotutela, che comporta, pertanto,
"una valutazione comparativa tra l'interesse pubblico alla
rimozione
della illegittimità e l'interesse privato alla conservazione
dell'atto che
'medio tempore' ha prodotto effetti e suscitato legittime
aspettative".
2.2. Ebbene, sotto il primo profilo, va osservato che la
Corte di Appello
ha ancorato il rigetto del gravame, in sede di rinvio, sulla
giurisprudenza
amministrativa -precedente l'entrata in vigore della legge
n. 241 del 1990, ed applicabile ratione temporis- secondo
la
quale l'obbligo della comunicazione di avvio del
procedimento amministrativo
sussiste solo quando, in relazione alle ragioni che
giustificano
l'adozione del provvedimento, e a qualsiasi altro possibile
profilo, la comunicazione stessa apporti una qualche utilità
all'azione
amministrativa, affinché questa, sul piano del merito e
della legittimità,
riceva arricchimento dalla partecipazione del destinatario
del
provvedimento. Nei casi in cui, invece, anche con la
partecipazione
del privato il provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso,
viene meno l'obbligo della comunicazione di cui trattasi (C.
St.
7056/2005).
Di più, la Corte territoriale ha fatto, altresì,
applicazione
dell'art. 21-octies della legge n. 15 del 2005, sebbene
entrato in
vigore dopo i fatti per cui è causa e l'instaurazione del
giudizio di
primo grado, avvenuta nel 1994, affermando che "la validità
dell'indirizzo giurisprudenziale" succitato era stata
"pienamente confermato
(sic) dalla norma di cui all'art. 21-octies della legge n.
240
(sic) del 1990, introdotta dalla legge n. 15 del 2005".
Tale
disposizione
-al secondo comma- stabilisce, infatti, che "Non è
annullabile
il provvedimento adottato in violazione di norme sul
procedimento
o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata
del provvedimento,
sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il
provvedimento
amministrativo non è comunque annullabile per mancata
comunicazione dell'avvio del procedimento qualora
l'amministrazione
dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non
avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato".
E sarebbe "incontestabile", secondo la Corte di merito, che
"nel caso
in esame non si sarebbe potuto pervenire ad un provvedimento
diverso
rispetto all'annullamento per autotutela della procedura di
assegnazione della licenza di autonoleggio da autorimessa di
autobus,
anche a fronte della eventuale partecipazione del Fe..
E
ciò per un duplice ordine di ragioni:
a) in considerazione
del fatto
che la mancata eliminazione dell'illegittimità del
procedimento di
assegnazione della licenza (approvazione della Giunta
Regionale in
data 27.07.1994, ossia dopo la pubblicazione del bando
di gara, e
mancato rispetto degli obblighi di pubblicità previsti
dall'art. 13 del
Regolamento Comunale) costituirebbe violazione
dell'interesse pubblico
al ripristino della legalità;
b) al fine di evitare ricorsi
di terzi
controinteressati, nel caso di omesso annullamento".
2.2.1. Orbene, è bensì vero che -secondo l'orientamento di
una
parte della giurisprudenza amministrativa- l'articolo 21-octies,
comma 2, della legge 241/1990 -oltre a riprendere
orientamenti
già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso
come immanente
nel sistema- è norma di carattere processuale e pertanto,
in
quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o
già definiti
alla data di entrata in vigore della legge n. 15 del 2005.
E
tuttavia,
la medesima giurisprudenza ha avuto cura di precisare che,
con riferimento alla mancata comunicazione di avvio, la
disposizione in
parola non può comunque, anche per fattispecie anteriori,
essere
applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope exceptionis"
da parte
dell'amministrazione, alla quale incombe altresì l'onere di
dimostrare
che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere
diverso
(cfr. C. St. 3048/2013).
Nel caso di specie, la Corte
territoriale
ha, per contro, applicato la disposizione in parola in
assenza
dell'eccezione suddetta - la cui proposizione non si rileva
in alcun
modo dall'impugnata sentenza, e senza dare conto, nella
decisione
impugnata, dell'eventuale esistenza di specifici e concreti
elementi
di prova (richiesi anche dalla giurisprudenza precedente la
legge n.
15 del 2005, che ha introdotto l'art. 21-octies) in ipotesi
forniti
dall'amministrazione sul piano della conformazione concreta
dell'oggetto del provvedimento, al di là del generico ed
astratto interesse
al ripristino della legalità, circa il fatto che il
contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso, anche nel
caso
in cui il Fe. fosse stato invitato a partecipare al
procedimento.
2.2.2. In mancanza di tali indispensabili precisazioni, non
desumibili
dalla decisione di appello, non possono che trovare
applicazione,
pertanto, nel caso di specie, i principi enunciati dalla
giurisprudenza
amministrativa con specifico riferimento alla fattispecie,
ricorrente
nel caso concreto, di annullamento di ufficio di una gara.
Si è, per
vero, affermato -al riguardo- che la presentazione della
domanda
di partecipazione alla gara per l'appalto-concorso e con la
predisposizione
e l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono
una
posizione differenziata e qualificata.
Di conseguenza, ove
la medesima
amministrazione che ha bandito la gara intenda annullarla in
autotutela, deve provvedere, ai sensi degli art. 7 e 8 l. n.
241/1990
a comunicare loro l'avviso di avvio del relativo
procedimento, con la
conseguenza che è illegittimo, per violazione dei canoni
partecipativi
di cui agli artt. 7 e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il
provvedimento con
il quale la stazione appaltante annulla d'ufficio la gara
dopo che erano
state espletate le formalità di apertura delle offerte ed
essa aveva avuto conoscenza delle ditte partecipanti, senza
aver dato a queste
ultime previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela
(cfr.
C. St. 17/2009).
Nel caso concreto, per contro, la sentenza
impugnata
non ha fatto corretta applicazione di tali principi, e
soprattutto
di quanto statuito dalla decisione n. 3666/2006 di questa
Corte, secondo
la quale il giudice di rinvio avrebbe dovuto verificare la
legittimità
della delibera di annullamento della procedura concorsuale
"sotto il profilo della necessità della comunicazione
dell'avvio del
procedimento, ai sensi dell'art. 7 della legge 07.08.1990, n.
241".
La Corte di Appello si è, difatti, limitata ad
affermare che "anche
a fronte dell'eventuale partecipazione del Fe. alla
procedura"
il provvedimento di annullamento in via di autotutela non
avrebbe
potuto essere diverso, facendo riferimento -non a
specifiche
ragioni inerenti la concreta determinazione del
provvedimento, sul
piano del dispiegamento della funzione amministrativa di
autotutela- bensì operando un generico riferimento ad astratte
esigenze di
ripristino della legalità e ad ipotetiche, quanto
improbabili, azioni di
terzi.
2.3. Ma egualmente carente, sul piano del rispetto delle
statuizioni
contenute nella decisione rescindente di questa Corte n.
3666/2006,
si palesa l'impugnata sentenza quanto al profilo della
natura discrezionale
e non vincolata del provvedimento di autotutela, che in
quanto tale comporta, secondo quanto affermato nella
predetta decisione
di legittimità, "una valutazione comparativa tra l'interesse
pubblico alla rimozione della illegittimità e l'interesse
privato alla
conservazione dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto
effetti e
suscitato legittime aspettative".
2.3.1. E' del tutto pacifico, infatti,
che l'annullamento in
autotutela
presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto, valide ed
esplicite ragioni
di interesse pubblico ed il provvedimento deve intervenire
entro un
termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei
destinatari
dell'atto da rimuovere. L'autotutela non può essere, invero,
finalizzata
al mero ripristino della legalità violata, dovendo essere il
risultato di un'attività istruttoria adeguata, che dia conto
della valutazione
dell'interesse pubblico e di quello del privato che ha
riposto
affidamento nella conservazione dell'atto (cfr.,
ex plurimis,
C. St.
1265/2014; 2940/2014; 1798/2016).
2.3.2. Per converso, nel caso di specie, il Comune di Arcene
-con
comunicazione del 15.05.1993, trascritta nel ricorso (p.
3)- si
limitò a sospendere -non a denegare- la licenza di
autonoleggio
da rimessa per autobus (accordando al Fe. solo quella
di autonoleggio
da rimessa di autovetture), in attesa dell'approvazione
regionale.
Sopravvenuta, quindi, tale approvazione con provvedimento
n. 55279 del 27.07.1994, il Fe. sollecitava per due
volte
(in data 18.10.1994 ed in data 17.11.1994) il
Comune
al rilascio della predetta licenza. Con delibera n. 435 del
18.11.1994 l'ente pubblico comunicava, invece, il rigetto
dell'istanza
per le ragioni formali dianzi dette. Ciò posto, è evidente
che la Corte
territoriale, in sede di rinvio, avrebbe dovuto -in
ottemperanza a
quanto disposto da questa Corte nella sentenza n. 3666/2006
ed in
applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza
amministrativa
succitata- accertare quale interesse pubblico specifico e
concreto,
al di là di quello, insufficiente a giustificare
l'annullamento di un
atto amministrativo in via di autotutela, del ripristino
della legalità,
fosse stato -in ipotesi- posto dall'amministrazione
comunale a
fondamento dell'annullamento in questione.
La Corte di merito avrebbe dovuto, inoltre, operare -come
stabilito
da questa Corte- una valutazione comparativa "tra
l'interesse pubblico
alla rimozione della illegittimità e l'interesse privato
alla conservazione
dell'atto che 'medio tempore' ha prodotto effetti e
suscitato
legittime aspettative".
Per converso, il giudice di rinvio
non ha
in alcun modo evidenziato la sussistenza di un interesse
specifico e
concreto alla rimozione dell'atto in capo
all'amministrazione, diverso
da quelle generale ed astratto al ripristino della legalità,
né si è curata
di accertare se l'annullamento della procedura concorsuale,
solo
sospesa nelle more dell'approvazione regionale, e disposto
quando detta approvazione era stata ormai concessa, avesse
fatto venire
meno effetti già prodotti da tale atto o leso legittime
aspettative del
privato, come statuito dalla sentenza di questa Corte n.
3666/2006.
2.3. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, la censura deve
essere
accolta.
3. L'accoglimento del ricorso comporta la cassazione
dell'impugnata
sentenza, con rinvio alla Corte di Appello di Brescia in
diversa composizione,
che dovrà procedere a nuovo esame della controversia
facendo applicazione dei seguenti principi di diritto:
- "l'articolo 21-octies, comma 2, della legge 241/1990, oltre a riprendere
orientamenti
già vigenti, che consideravano il principio ivi espresso
come
immanente nel sistema, è norma di carattere processuale e
pertanto,
in quanto tale, applicabile anche ai procedimenti in corso o
già
definiti alla data di entrata in vigore della legge n. 15
del 2005, e
tuttavia, con riferimento alla mancata comunicazione di
avvio, la
disposizione in parola non può comunque, anche per
fattispecie anteriori,
essere applicata d'ufficio dal giudice, ma solo "ope
exceptionis"
da parte dell'amministrazione, alla quale incombe altresì
l'onere
di dimostrare che il contenuto del provvedimento non avrebbe
potuto
essere diverso";
- "con la presentazione della domanda di
partecipazione
alla gara per l'appalto-concorso e con la predisposizione e
l'inoltro dell'offerta, i soggetti concorrenti assumono una
posizione
differenziata e qualificata, per cui, ove l'amministrazione
che ha
bandito la gara intenda annullarla in autotutela, deve
provvedere, ai
sensi degli art. 7 e 8 l. n. 241/1990 a comunicare loro
l'avviso di
avvio del relativo procedimento, con la conseguenza che è
illegittimo,
per violazione dei canoni partecipativi di cui agli artt. 7
e 8, l. 07.08.1990 n. 241, il provvedimento con il quale la
stazione appaltante
annulla d'ufficio la gara, senza aver dato alle imprese
partecipanti
previo avviso d'inizio del procedimento di autotutela";
- "l'annullamento
in autotutela presuppone, oltre all'illegittimità dell'atto,
valide
ed esplicite ragioni di interesse pubblico ed il
provvedimento
deve intervenire entro un termine ragionevole e previa valutazione degli interessi dei destinatari dell'atto da
rimuovere, non potendo
l'autotutela essere finalizzata al mero ripristino della
legalità violata,
ma dovendo la medesima essere il risultato di un'attività
istruttoria
adeguata che dia conto della valutazione dell'interesse
pubblico e di
quello del privato che ha riposto affidamento nella
conservazione
dell'atto" (Corte di Cassazione, Sez. I civile,
sentenza 11.01.2017 n. 511). |
APPALTI:
Nelle gare il passato non conta.
Sentenza del tribunale amministrativo di
Lecce.
Grazie al nuovo codice dei contratti
pubblici l'impresa non può essere esclusa da
una gara d'appalto solo perché in passato è
scattata la risoluzione di un analogo
contratto in cui è parte ad opera di
un'altra amministrazione. A patto, però, che
la società abbia impugnato la precedente
decisione del comune: a differenza di quanto
accadeva con le vecchie norme, infatti, la
controversia sub iudice non integra «i gravi
requisiti professionali» che possono
determinare l'estromissione dalla procedura
a evidenza pubblica. E ciò anche se
l'azienda si è vista rigettare dal giudice
l'istanza cautelare che aveva proposto
nell'ambito della controversia instaurata
davanti al tribunale delle imprese.
Emerge dalla
sentenza 22.12.2016 n. 1935 dalla III
Sez. del TAR Puglia-Lecce.
Accolto il ricorso proposto dalla società
igiene ambientale esclusa dalla stazione
unica appaltante dalla procedura negoziata
per l'affidamento del servizio di raccolta
rifiuti nel comune: è annullata
l'aggiudicazione provvisoria dell'appalto
all'impresa controinteressata.
Il punto è
che un'amministrazione locale di un'altra
regione ha già sciolto un altro contratto
relativo alla gestione dei rifiuti rilevando
«gravi carenze» nell'esecuzione
dell'appalto. Ma ciò non basta a legittimare
l'esclusione perché l'articolo 80, quinto
comma lettera c) del decreto legislativo
50/2016 ha innovato la disciplina previgente
di cui all'articolo 38, primo comma lettera
f) del decreto legislativo 163/06: oggi
l'estromissione scatta solo se l'azienda
esclusa non si rivolge al giudice contro la
risoluzione del contratto precedente o la
sussistenza dei gravi motivi professionali
risulta «confermata a seguito di un
giudizio».
E dunque risulta irrilevante
anche il no all'istanza cautelare
pronunciata dal tribunale delle imprese. Né
si può disapplicare il nuovo codice dei
contratti per una presunta contrarietà alla
direttiva 2014/24/Ue, che pure è stata
recepita dal decreto legislativo 50/2016:
deve escludersi la normativa eurounitaria
sia self executing perché non ha un
carattere completo e dettagliato. Spese di
giudizio interamente compensate per la
novità del caso (articolo ItaliaOggi Sette
del 24.04.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: La
questione concernente la determinazione dell’an e del quantum
del contributo di costruzione comporta l’esplicazione, da
parte dell’Amministrazione, di un’attività priva di profili
di discrezionalità e attinente a posizioni giuridiche di
diritto soggettivo.
Conseguentemente, sono radicalmente inconfigurabili i vizi
di difetto di istruttoria e di motivazione.
E ciò in quanto le operazioni di corretta quantificazione
della misura del contributo “si esauriscono in una mera
operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto
la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero
dall'amministrazione con norme di natura regolamentare e,
quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di
legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti
criteri generali, contestare l'erroneità della
quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando
ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di
fatto o di diritto”.
---------------
Nell’ordinamento giuridico vige la regola generale
dell’onerosità del permesso di costruire.
Si tratta di un principio introdotto dall’articolo 1 della
legge 28.01.1977, n. 10 –in base al quale “Ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa
relativi (...)”– e oggi sancito dall’articolo 11, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si conferma l’onerosità del
permesso.
A fronte di tale regime generale, la disciplina primaria
stabilisce una serie di ipotesi, indicate all’articolo 17
del d.P.R. n. 380 del 2001, di riduzione o di esonero dal
contributo di costruzione. Tali ultime previsioni normative
–secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza–
sono tuttavia da ritenere “tassative e di stretta
interpretazione”, proprio in quanto “derogatorie rispetto
alla regola della normale onerosità del permesso” e, inoltre, perché
qualificabili come esenzioni tributarie, come tali
costituenti eccezioni al principio costituzionale di
capacità contributiva.
Poste tali considerazioni, deve rilevarsi che –come
sopra detto– l’articolo 17, comma 3, lett. c) del d.P.R. n.
380 del 2001, invocato dalla ricorrente, contempla
anzitutto, quali trasformazioni edificatorie esonerate dal
contributo di costruzione, “gli impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti”.
Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, per
integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso
di due requisiti, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di
carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo,
le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente.
La ratio della norma è
anzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere
destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle
quali la collettività possa comunque trarre una utilità. Il legislatore ha
quindi inteso evitare “l'imposizione degli oneri concessori
al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione
del pubblico interesse”; imposizione che “sarebbe altrimenti
intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia
pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento”.
In tale prospettiva, la giurisprudenza ha altresì
chiarito –con riferimento al requisito soggettivo– che per
“enti istituzionalmente competenti” debbano intendersi i
soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché
l’opera sia realizzata per conto di un ente pubblico.
In particolare, con riferimento a questa seconda ipotesi,
“l’esenzione spetta soltanto qualora (come avviene nella
concessione di opera pubblica e in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale utilizzato
consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene
direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia
operato. In altri termini, l’esenzione spetta solo se il
privato abbia agito quale organo indiretto
dell’amministrazione, come appunto nella concessione o nella
delega”.
E l’esattezza
della soluzione in base alla quale si richiede che l’opera
sia realizzata direttamente da enti pubblici ovvero da
soggetti che agiscono per conto di enti pubblici è
confermata non soltanto “dall'endiadi: "opere pubbliche o di
interesse generale", che rinvia ad una figura soggettiva
pubblica, ma dal fatto che nella sola seconda parte della
proposizione normativa, concernente le opere di
urbanizzazione, la disposizione reca la specifica
indicazione: "eseguite anche da privati". Ne esce quindi
caricata di ulteriore valore semantico la locuzione: "enti
istituzionalmente competenti", che non può riferirsi che ad
enti pubblici o a soggetti che agiscono per conto degli
stessi”.
---------------
E’ indubitabile che l’intervento di ristrutturazione
dell’Istituto di ricovero e cura costituisca un’opera di
interesse generale.
Non può, invece, ritenersi che l’Associazione ricorrente sia qualificabile quale “ente istituzionalmente
competente”.
Si tratta, infatti, di un soggetto che non ha natura
pubblica e che non ha agito per conto di una pubblica
amministrazione. E la mera circostanza che l’Istituto operi
in regime di accreditamento con il servizio sanitario
nazionale non comporta, di per sé, l’esistenza di un
rapporto organizzatorio con la pubblica amministrazione,
tale da determinare la riferibilità dell’opera realizzata a
un ente pubblico.
Sotto altro profilo, il Collegio ritiene altresì non
dirimente, al fine di qualificare l’Associazione come “ente
istituzionalmente competente”, la circostanza che si tratti
di un soggetto privo di finalità lucrative.
L’assenza di scopo di lucro è, infatti, una circostanza che
attiene unicamente alla funzionalità interna della persona
giuridica, la quale non potrà redistribuire gli eventuali
utili derivanti dall’attività svolta. Si tratta, tuttavia,
di un elemento che, in sé considerato, non è sufficiente a
determinare la riferibilità dell’opera a un ente pubblico,
che è quanto richiesto dalla norma al fine di rendere
operativa l’esenzione.
Tale conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza
del Consiglio di Stato, la quale ha evidenziato che la
natura di ONLUS del soggetto che realizza l’intervento non
soddisfa il prescritto requisito soggettivo, laddove –come
avviene anche nel caso oggetto del presente giudizio– le
opere sono destinate a rimanere nella disponibilità del
privato, e non sono vincolate neppure a vedere conservata
nel tempo la loro funzione.
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Deve rilevarsi che la disposizione
ex art. 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380/2001 richiede, ai fini dell’esenzione
dal versamento del contributo di costruzione, non soltanto che
si sia in presenza di un’opera di urbanizzazione, ma che
questa sia altresì realizzata in attuazione di strumenti
urbanistici.
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Istituto di
ricovero e cura gestito dalla ricorrente è bensì
astrattamente riconducibile nel novero delle opere di
urbanizzazione secondaria –ai sensi dell’articolo 16, comma
8, del d.P.R. n. 380 del 2001– in quanto rientrante tra le
“attrezzature sanitarie”, ma non è stato realizzato in
attuazione dello strumento urbanistico.
Invero, risulta agli atti del giudizio che
l’opera ricade in Zona F2, destinata a ospitare “Servizi
tecnologici e di interesse generale” e disciplinata
dall’articolo 53 delle NTA del Piano delle Regole; zona ove
sono localizzate “attrezzature pubbliche e/o private con
funzioni di interesse generale”.
Al riguardo, la difesa comunale ha ben evidenziato che gli
spazi per attrezzature pubbliche e collettive prescritti
dall’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 2005 sono
classificati dallo strumento urbanistico non quale Zona F2,
ma come “ZONA F1 (aree di servizi di uso pubblico e
interesse comune)”, soggetta alla disciplina dell’articolo
52 delle NTA del Piano delle Regole. Solo tali spazi sono,
quindi, specificamente destinati a standard urbanistici.
Al contrario, le aree classificate come Zona F2 non sono
state prese in considerazione dallo strumento urbanistico al
fine della verifica della dotazione di aree di uso pubblico
a servizio di insediamenti residenziali e non danno luogo a
standard urbanistici. Si tratta, infatti, di aree che
comprendono compendi immobiliari aventi varia destinazione
(«Ambiti per servizi tecnologici», «Complesso
socio-assistenziale, sanitario, ospedaliero “La Nostra
Famiglia”», «Crossodromo Bodrone», «Villa Mira»), tutti
caratterizzati dal soddisfacimento di finalità di interesse
generale, ma non costituenti opere che il Comune ha reputato
necessarie al fine dell’urbanizzazione dell’ambito entro il
quale ricadono, tanto da non averle prese in considerazione
ai fini del calcolo della relativa dotazione di standard.
Si tratta, in altri termini, di compendi immobiliari
rispetto ai quali lo strumento urbanistico ha
sostanzialmente operato una ricognizione, qualificandoli
come attrezzature con funzioni di interesse generale, ma non
quali opere indispensabili per assicurare i servizi
necessari alla comunità insediata.
Da ciò derivano due considerazioni.
Sotto un primo profilo, poiché l’intervento oggetto del
presente giudizio non è posto a servizio dell’urbanizzazione
del territorio comunale, o di una porzione di questo, esso
non dà luogo a un’opera di urbanizzazione, pur rientrando
nelle categorie astrattamente indicate all’articolo 16,
comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E invero, perché un’opera sia qualificabile come opera di
urbanizzazione secondaria è necessario che essa sia
direttamente funzionale a un ben preciso insediamento
urbano. E ciò in considerazione della circostanza che “le
opere di urbanizzazione secondaria hanno tendenzialmente una
dimensione comunale o infra-comunale, in quanto finalizzate
a migliorare il grado di fruibilità di uno specifico e
circoscritto insediamento urbano mediante la creazione da
parte dell’ente locale di determinate strutture di supporto
per servizi fruibili da quella comunità”.
Conseguentemente, un centro ospedaliero contemplato dallo
strumento urbanistico quale attrezzatura con funzioni di
interesse generale, ma non previsto quale dotazione di
standard a servizio di un ambito territoriale, di per sé non
è qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria.
Sotto altro, concorrente, profilo, la circostanza che –come detto– il Piano di Governo del Territorio si sia
limitato a riconoscere la presenza sul territorio e
l’interesse generale di una congerie assai diversificata di
opere esistenti, indicandole con una medesima
classificazione, senza però prenderle in considerazione
quali dotazioni di servizi necessarie alla collettività,
implica che tali opere debbano bensì reputarsi conformi allo
strumento urbanistico, ma non attuative delle relative
previsioni. Si tratta infatti di opere che non devono, ma
possono essere presenti sul territorio comunale, per cui,
laddove le attività che in esse si svolgono dovessero essere
dismesse dai privati, non insorgerebbe l’obbligo per
l’Amministrazione di assicurare in altro modo la
soddisfazione delle dotazioni di servizi in favore della
comunità insediata.
La validità della predetta distinzione tra opere meramente
conformi, o specificamente attuative, del piano è stata, del
resto, anche di recente ribadita dalla giurisprudenza, la
quale ha esplicitamente affermato che la semplice
riconduzione all’astratta tipologia di opera di
urbanizzazione secondaria non può considerarsi sufficiente
ai fini dell’esenzione del contributo, essendo necessario
altresì che l’intervento sia attuativo di una specifica
previsione di piano.
E, in questo senso, non può ritenersi pertinente il
richiamo, operato dalla ricorrente, alla sentenza della IV
Sezione del Consiglio di Stato 12.05.2011, n. 2870, al
fine di sostenere che qualunque opera rientrante
astrattamente nel novero delle opere di urbanizzazione, e
realizzata in conformità allo strumento urbanistico, debba
beneficiare dell’esenzione. La fattispecie decisa dal
Consiglio di Stato riguardava, infatti, la costruzione di
un’opera che corrispondeva a una puntuale previsione dello
strumento urbanistico, il quale destinava specificamente
un’area a servizi ospedalieri e sanitari.
Come detto, nel caso oggetto del presente giudizio, l’opera
ricade, invece, in una zona avente una destinazione generica
ad attrezzature con funzioni di interesse generale, in
relazione alla quale il Comune ha operato una ricognizione
di strutture esistenti, pur classificandole come di
interesse generale, assicurando, per questa via, la mera
compatibilità delle stesse con lo strumento urbanistico,
senza però sancirne la necessità in relazione alle esigenze
attinenti alle dotazioni di servizi in favore della comunità
insediata.
---------------
... per l'accertamento della non debenza del contributo di
costruzione per l'esecuzione dell'intervento di
ristrutturazione edilizia oggetto del permesso di costruire
n. 39/2013 e per la conseguente condanna del Comune di
Bosisio Parini alla restituzione delle somme versate a tale
titolo dall’Associazione ricorrente, maggiorate degli
interessi legali maturati dalla data della domanda
giudiziale all'effettiva restituzione;
...
1. La ricorrente Associazione “La nostra famiglia” (di
seguito anche: l’Associazione) è un ente ecclesiastico
civilmente riconosciuto, avente carattere di organizzazione
non lucrativa di utilità sociale (ONLUS), che gestisce, nel
territorio del Comune di Bosisio Parini, l’Istituto di
ricovero e cura a carattere scientifico “Eugenio Medea” e un
centro di riabilitazione, operando, per entrambe tali
strutture, in regime di accreditamento con l’Azienda
sanitaria della Provincia di Lecco.
2. L’Associazione ha chiesto al Comune il rilascio di un
permesso di costruire per la ristrutturazione edilizia di un
padiglione dell’Istituto “Eugenio Medea”.
In data 03.10.2013, l’Amministrazione ha comunicato
l’emanazione del titolo edilizio, chiedendo tuttavia alla
parte istante di produrre il calcolo analitico degli oneri
dovuti per l’intervento, da corrispondersi prima del ritiro
del permesso di costruire.
L’Associazione ha a questo punto prodotto le proprie
controdeduzioni, ritenendo di non essere tenuta al
versamento del contributo di costruzione.
A seguito di interlocuzioni tra le parti, la Giunta
comunale, con deliberazione del 01.04.2015, n. 37, ha
infine ribadito di ritenere dovuta la corresponsione degli
oneri per il rilascio del titolo edilizio. L’Ufficio tecnico
comunale ha quindi emesso la nota del 15.04.2015, con la
quale è stato chiesto all’Associazione il versamento, a
titolo di contributo di costruzione, dell’importo
complessivo di euro 188.329,57; somma di cui la ricorrente
ha chiesto e ottenuto la rateizzazione, riservandosi
tuttavia di agire in giudizio per contestare la sussistenza
dell’obbligazione.
3. L’Associazione ha quindi proposto il presente ricorso,
con il quale ha chiesto a questo Giudice di accertare e
dichiarare che nessun contributo è dovuto per la
realizzazione dell’intervento di ristrutturazione,
condannando conseguentemente il Comune alla restituzione
delle somme già versate dalla ricorrente, maggiorate degli
interessi legali dal giorno della domanda giudiziale, previo
annullamento –occorrendo– degli atti comunali specificati
in epigrafe.
...
7. Il ricorso è infondato, per le ragioni che si espongono
di seguito.
8. L’Associazione sostiene di non essere tenuta al
versamento degli oneri per la realizzazione dell’intervento
di ristrutturazione edilizia, in base alle previsioni
dell’articolo 17, comma 3, lett. c), del decreto del
Presidente della Repubblica 06.06.2011, n. 380;
disposizione, questa, per la quale il contributo di
costruzione non è dovuto “per gli impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti nonché per le opere di
urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione di
strumenti urbanistici”.
La ricorrente ritiene l’intervento pienamente riconducibile
entro il perimetro applicativo di entrambe fattispecie
contemplate dalla previsione normativa ora richiamata. Le
opere sarebbero, infatti, annoverabili tra “gli impianti, le
attrezzature, le opere pubbliche o di interesse generale
realizzate dagli enti istituzionalmente competenti” (primo
motivo di ricorso) e, comunque, costituirebbero anche “opere
di urbanizzazione, eseguite anche da privati, in attuazione
di strumenti urbanistici” (secondo motivo).
Sotto altro profilo, la parte allega la violazione
dell’articolo 3 della legge n. 241 del 1990, nonché il vizio
di eccesso di potere per carenza di istruttoria, carenza di
motivazione e contraddittorietà, poiché l’Amministrazione
non avrebbe illustrato le ragioni per le quali ha ritenuto
di non aderire alle argomentazioni dell’Associazione in
ordine al ricorrere di un’ipotesi di esonero dal versamento
del contributo di costruzione (terzo motivo di ricorso).
9. Il Collegio ritiene, per ragioni di ordine logico, di
dover prendere le mosse da quest’ultima censura.
9.1 La doglianza non può trovare accoglimento, per la
ragione dirimente che la questione concernente la
determinazione dell’an e del quantum del contributo di
costruzione comporta l’esplicazione, da parte
dell’Amministrazione, di un’attività priva di profili di
discrezionalità (v., tra le ultime: Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2016, n. 2011) e attinente a posizioni giuridiche di
diritto soggettivo (ex multis: Cons. Stato, Sez. IV, 21.08.2013, n. 4208). Conseguentemente, sono radicalmente inconfigurabili i vizi di difetto di istruttoria e di
motivazione (Cons. Stato, Sez. IV, 10.03.2015, n. 1211).
E ciò in quanto le operazioni di corretta quantificazione
della misura del contributo “si esauriscono in una mera
operazione materiale che, se errata, può comportare soltanto
la violazione dei criteri fissati dalla normativa ovvero
dall'amministrazione con norme di natura regolamentare e,
quindi, la sussistenza del solo vizio di violazione di
legge, potendo l'interessato, sulla base dei predetti
criteri generali, contestare l'erroneità della
quantificazione operata dall'amministrazione, evidenziando
ad esempio l'erroneità dei calcoli ovvero dei presupposti di
fatto o di diritto” (Cons. Stato, Sez. V, 29.07. 2000, n.
4217; nello stesso senso: TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 08.09.2011, n. 2189).
9.2 Il terzo motivo di ricorso va quindi respinto.
10. Può passarsi, a questo punto, alla trattazione dei primi
due mezzi, con i quali –come detto– l’Associazione allega
di versare in entrambe le fattispecie contemplate
dall’articolo 17, comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del
2001, e di aver pertanto diritto all’esenzione dal
contributo di costruzione.
11. Al riguardo, mette conto anzitutto di ricordare che
nell’ordinamento giuridico vige la regola generale
dell’onerosità del permesso di costruire.
Si tratta di un principio introdotto dall’articolo 1 della
legge 28.01.1977, n. 10 –in base al quale “Ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia
del territorio comunale partecipa agli oneri ad essa
relativi (...)”– e oggi sancito dall’articolo 11, comma 2,
del d.P.R. n. 380 del 2001, ove si conferma l’onerosità del
permesso.
A fronte di tale regime generale, la disciplina primaria
stabilisce una serie di ipotesi, indicate all’articolo 17
del d.P.R. n. 380 del 2001, di riduzione o di esonero dal
contributo di costruzione. Tali ultime previsioni normative
–secondo gli orientamenti espressi dalla giurisprudenza–
sono tuttavia da ritenere “tassative e di stretta
interpretazione”, proprio in quanto “derogatorie rispetto
alla regola della normale onerosità del permesso” (Cons.
Stato, Sez. IV, 11.02.2016, n. 595) e, inoltre, perché
qualificabili come esenzioni tributarie, come tali
costituenti eccezioni al principio costituzionale di
capacità contributiva (TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.10.2014, n. 1111).
12. Poste tali considerazioni, deve rilevarsi che –come
sopra detto– l’articolo 17, comma 3, lett. c) del d.P.R. n.
380 del 2001, invocato dalla ricorrente, contempla
anzitutto, quali trasformazioni edificatorie esonerate dal
contributo di costruzione, “gli impianti, le attrezzature,
le opere pubbliche o di interesse generale realizzate dagli
enti istituzionalmente competenti”.
12.1 Al riguardo, la giurisprudenza ha chiarito che, per
integrare la fattispecie normativa, è necessario il concorso
di due requisiti, l’uno di carattere oggettivo e l’altro di
carattere soggettivo.
Per effetto del primo, la costruzione deve riguardare opere
pubbliche o di interesse generale; per effetto del secondo,
le opere devono essere eseguite da un ente istituzionalmente
competente (ex multis: Cons. Stato, Sez. V, 11.01.2006,
n. 51; Id. 20.10.2004, n. 6818; Id., 10.07.2000, n.
3860).
La ratio della norma –è stato inoltre rilevato– è
anzitutto quella di agevolare l'esecuzione di opere
destinate al soddisfacimento di interessi pubblici o dalle
quali la collettività possa comunque trarre una utilità
(Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.). Il legislatore ha
quindi inteso evitare “l'imposizione degli oneri concessori
al soggetto che interviene per l'istituzionale attuazione
del pubblico interesse”; imposizione che “sarebbe altrimenti
intimamente contraddittoria, poiché verrebbe a gravare, sia
pure indirettamente, sulla stessa comunità che dovrebbe
avvantaggiarsi dal loro pagamento” (così ancora Cons. Stato,
n. 51 del 2006, cit.).
12.2 In tale prospettiva, la giurisprudenza ha altresì
chiarito –con riferimento al requisito soggettivo– che per
“enti istituzionalmente competenti” debbano intendersi i
soggetti pubblici, ovvero anche i soggetti privati, purché
l’opera sia realizzata per conto di un ente pubblico.
In particolare, con riferimento a questa seconda ipotesi,
“l’esenzione spetta soltanto qualora (come avviene nella
concessione di opera pubblica e in altre analoghe figure organizzatorie) lo strumento contrattuale utilizzato
consenta formalmente di imputare la realizzazione del bene
direttamente all’ente per conto del quale il privato abbia
operato. (cfr. ex multis V Sez. n. 536 del 1999 e n. 1901
del 2000). In altri termini, l’esenzione spetta solo se il
privato abbia agito quale organo indiretto
dell’amministrazione, come appunto nella concessione o nella
delega” (Cons. Stato, n. 595 del 2016, cit.).
E –come pure rilevato dalla giurisprudenza– l’esattezza
della soluzione in base alla quale si richiede che l’opera
sia realizzata direttamente da enti pubblici ovvero da
soggetti che agiscono per conto di enti pubblici è
confermata non soltanto “dall'endiadi: "opere pubbliche o di
interesse generale", che rinvia ad una figura soggettiva
pubblica, ma dal fatto che nella sola seconda parte della
proposizione normativa, concernente le opere di
urbanizzazione, la disposizione reca la specifica
indicazione: "eseguite anche da privati". Ne esce quindi
caricata di ulteriore valore semantico la locuzione: "enti
istituzionalmente competenti", che non può riferirsi che ad
enti pubblici o a soggetti che agiscono per conto degli
stessi” (Cons. Stato, n. 51 del 2006, cit.).
12.3 Poste tali coordinate ermeneutiche, deve ritenersi che,
nel caso oggetto del presente giudizio, sia riscontrabile
soltanto il requisito oggettivo richiesto dalla previsione
normativa, ma non anche il requisito soggettivo.
E’ infatti indubitabile che l’intervento di ristrutturazione
dell’Istituto di ricovero e cura costituisca un’opera di
interesse generale (anche alla luce delle previsioni di
piano, delle quali si tratterà nello scrutinare il secondo
motivo di ricorso).
Non può, invece, ritenersi che l’Associazione “La nostra
famiglia” sia qualificabile quale “ente istituzionalmente
competente”.
Si tratta, infatti, di un soggetto che non ha natura
pubblica e che non ha agito per conto di una pubblica
amministrazione. E la mera circostanza che l’Istituto operi
in regime di accreditamento con il servizio sanitario
nazionale non comporta, di per sé, l’esistenza di un
rapporto organizzatorio con la pubblica amministrazione,
tale da determinare la riferibilità dell’opera realizzata a
un ente pubblico.
Sotto altro profilo, il Collegio ritiene altresì non
dirimente, al fine di qualificare l’Associazione come “ente
istituzionalmente competente”, la circostanza che si tratti
di un soggetto privo di finalità lucrative.
L’assenza di scopo di lucro è, infatti, una circostanza che
attiene unicamente alla funzionalità interna della persona
giuridica, la quale non potrà redistribuire gli eventuali
utili derivanti dall’attività svolta. Si tratta, tuttavia,
di un elemento che, in sé considerato, non è sufficiente a
determinare la riferibilità dell’opera a un ente pubblico,
che è quanto richiesto dalla norma al fine di rendere
operativa l’esenzione.
Tale conclusione trova conferma anche nella giurisprudenza
del Consiglio di Stato, la quale ha evidenziato che la
natura di ONLUS del soggetto che realizza l’intervento non
soddisfa il prescritto requisito soggettivo, laddove –come
avviene anche nel caso oggetto del presente giudizio– le
opere sono destinate a rimanere nella disponibilità del
privato, e non sono vincolate neppure a vedere conservata
nel tempo la loro funzione (Cons. Stato, n. 51 del 2006,
cit.).
12.4 In definitiva, alla luce delle considerazioni sin qui
esposte, il primo motivo di ricorso deve essere respinto.
13. E’ altresì infondato il secondo motivo, con il quale la
ricorrente afferma che l’intervento rientrerebbe comunque
nella seconda fattispecie contemplata dall’articolo 17,
comma 3, lett. c), del d.P.R. n. 380 del 2001, in quanto
annoverabile tra le “opere di urbanizzazione, eseguite anche
da privati, in attuazione di strumenti urbanistici”.
13.1 Al riguardo, deve rilevarsi che la disposizione
normativa richiede, ai fini dell’esenzione, non soltanto che
si sia in presenza di un’opera di urbanizzazione, ma che
questa sia altresì realizzata in attuazione di strumenti
urbanistici.
Nel caso oggetto del presente giudizio, l’Istituto di
ricovero e cura gestito dalla ricorrente è bensì
astrattamente riconducibile nel novero delle opere di
urbanizzazione secondaria –ai sensi dell’articolo 16, comma
8, del d.P.R. n. 380 del 2001– in quanto rientrante tra le
“attrezzature sanitarie”, ma non è stato realizzato in
attuazione dello strumento urbanistico.
13.2 In particolare, risulta agli atti del giudizio che
l’opera ricade in Zona F2, destinata a ospitare “Servizi
tecnologici e di interesse generale” e disciplinata
dall’articolo 53 delle NTA del Piano delle Regole; zona ove
sono localizzate “attrezzature pubbliche e/o private con
funzioni di interesse generale”.
Al riguardo, la difesa comunale ha ben evidenziato che gli
spazi per attrezzature pubbliche e collettive prescritti
dall’articolo 9 della legge regionale n. 12 del 2005 sono
classificati dallo strumento urbanistico non quale Zona F2,
ma come “ZONA F1 (aree di servizi di uso pubblico e
interesse comune)”, soggetta alla disciplina dell’articolo
52 delle NTA del Piano delle Regole. Solo tali spazi sono,
quindi, specificamente destinati a standard urbanistici.
Al contrario, le aree classificate come Zona F2 non sono
state prese in considerazione dallo strumento urbanistico al
fine della verifica della dotazione di aree di uso pubblico
a servizio di insediamenti residenziali e non danno luogo a
standard urbanistici. Si tratta, infatti, di aree che
comprendono compendi immobiliari aventi varia destinazione
(«Ambiti per servizi tecnologici», «Complesso
socio-assistenziale, sanitario, ospedaliero “La Nostra
Famiglia”», «Crossodromo Bodrone», «Villa Mira»), tutti
caratterizzati dal soddisfacimento di finalità di interesse
generale, ma non costituenti opere che il Comune ha reputato
necessarie al fine dell’urbanizzazione dell’ambito entro il
quale ricadono, tanto da non averle prese in considerazione
ai fini del calcolo della relativa dotazione di standard.
Si tratta, in altri termini, di compendi immobiliari
rispetto ai quali lo strumento urbanistico ha
sostanzialmente operato una ricognizione, qualificandoli
come attrezzature con funzioni di interesse generale, ma non
quali opere indispensabili per assicurare i servizi
necessari alla comunità insediata.
Da ciò derivano due considerazioni.
13.3 Sotto un primo profilo, poiché l’intervento oggetto del
presente giudizio non è posto a servizio dell’urbanizzazione
del territorio comunale, o di una porzione di questo, esso
non dà luogo a un’opera di urbanizzazione, pur rientrando
nelle categorie astrattamente indicate all’articolo 16,
comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001.
E invero, perché un’opera sia qualificabile come opera di
urbanizzazione secondaria è necessario che essa sia
direttamente funzionale a un ben preciso insediamento
urbano. E ciò in considerazione della circostanza che “le
opere di urbanizzazione secondaria hanno tendenzialmente una
dimensione comunale o infra-comunale, in quanto finalizzate
a migliorare il grado di fruibilità di uno specifico e
circoscritto insediamento urbano mediante la creazione da
parte dell’ente locale di determinate strutture di supporto
per servizi fruibili da quella comunità” (Cons. Stato, n.
595 del 2016, cit.).
Conseguentemente, un centro ospedaliero contemplato dallo
strumento urbanistico quale attrezzatura con funzioni di
interesse generale, ma non previsto quale dotazione di
standard a servizio di un ambito territoriale, di per sé non
è qualificabile come opera di urbanizzazione secondaria.
13.4 Sotto altro, concorrente, profilo, la circostanza che –come detto– il Piano di Governo del Territorio si sia
limitato a riconoscere la presenza sul territorio e
l’interesse generale di una congerie assai diversificata di
opere esistenti, indicandole con una medesima
classificazione, senza però prenderle in considerazione
quali dotazioni di servizi necessarie alla collettività,
implica che tali opere debbano bensì reputarsi conformi allo
strumento urbanistico, ma non attuative delle relative
previsioni. Si tratta infatti di opere che non devono, ma
possono essere presenti sul territorio comunale, per cui,
laddove le attività che in esse si svolgono dovessero essere
dismesse dai privati, non insorgerebbe l’obbligo per
l’Amministrazione di assicurare in altro modo la
soddisfazione delle dotazioni di servizi in favore della
comunità insediata.
13.5 La validità della predetta distinzione tra opere
meramente conformi, o specificamente attuative, del piano è
stata, del resto, anche di recente ribadita dalla
giurisprudenza, la quale ha esplicitamente affermato che la
semplice riconduzione all’astratta tipologia di opera di
urbanizzazione secondaria non può considerarsi sufficiente
ai fini dell’esenzione del contributo, essendo necessario
altresì che l’intervento sia attuativo di una specifica
previsione di piano (Cons. Stato, Sez. IV, 18.05.2016,
n. 2011; TAR Lombardia, Brescia, Sez. I, 23.10.2014, n.
1111).
E, in questo senso, non può ritenersi pertinente il
richiamo, operato dalla ricorrente, alla sentenza della IV
Sezione del Consiglio di Stato 12.05.2011, n. 2870, al
fine di sostenere che qualunque opera rientrante
astrattamente nel novero delle opere di urbanizzazione, e
realizzata in conformità allo strumento urbanistico, debba
beneficiare dell’esenzione. La fattispecie decisa dal
Consiglio di Stato riguardava, infatti, la costruzione di
un’opera che corrispondeva a una puntuale previsione dello
strumento urbanistico, il quale destinava specificamente
un’area a servizi ospedalieri e sanitari.
Come detto, nel caso oggetto del presente giudizio, l’opera
ricade, invece, in una zona avente una destinazione generica
ad attrezzature con funzioni di interesse generale, in
relazione alla quale il Comune ha operato una ricognizione
di strutture esistenti, pur classificandole come di
interesse generale, assicurando, per questa via, la mera
compatibilità delle stesse con lo strumento urbanistico,
senza però sancirne la necessità in relazione alle esigenze
attinenti alle dotazioni di servizi in favore della comunità
insediata.
13.6 Alla luce delle considerazioni sin qui esposte, si
conferma quindi il rigetto anche del secondo motivo di
impugnazione.
14. In conclusione, l’intero ricorso deve essere respinto
(TAR Lombardia-Milano, Sez. II,
sentenza 03.11.2016 n. 2011 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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