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AGGIORNAMENTO AL 04.04.2017 |
ã |
Non
si ha parziale difformità del titolo
abilitativo in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non
eccedano per singola unità immobiliare il 2 per
cento delle misure progettuali:
il Consiglio
di Stato sconfessa il TAR. |
EDILIZIA PRIVATA: Parziali
difformità: le violazioni entro il 2% sono irrilevanti.
Il comma 2-ter dell'art. 34 del D.P.R.n.
380/2001 -a norma del quale "non si ha parziale difformità
del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano
per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali"- non contiene una definizione normativa della
parziale difformità, ma prevede una franchigia vera e
propria.
Il che a significare non che ogni violazione eccedente il 2%
considerato costituisce difformità totale, ma al contrario
che le violazioni contenute entro tale limite sono
irrilevanti.
In tal senso si esprime la Sez. VI del Consiglio di Stato
nella
sentenza 30.03.2017 n. 1481
in fattispecie nella quale si trattava di difformità
consistenti nell'altezza esterna del fabbricato e interna
del piano sottotetto, dovuta -ad avviso della ricorrente- di
una copertura del tetto a doppia falda diversa da quella in
progetto per la quale era stata presentata istanza per
ottenere la sanatoria dell'abuso ai sensi dell'art. 34 T.U.
06.06.2001 n. 380 e, subordinatamente alla sanatoria, il
recupero abitativo del piano sottotetto, ai sensi della
specifica l.r. 15.11.2007 n. 33 della Puglia, ricevendo un
diniego.
In primo grado il TAR aveva respinto il ricorso proposto
contro il diniego ritenendo che l'intervento si dovesse
considerare realizzato in difformità non parziale, ma totale
dal titolo abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio
detto la sanzione non demolitoria, di cui all'art. 34, comma
2, T.U. 380/2001 non fosse applicabile.
I giudici d'appello hanno invece ritenuto che:
• la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria va valutata
nella fase esecutiva del procedimento di repressione
dell'abuso, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di
demolizione: è per tal motivo che la norma viene a
costituire, in sostanza, un'ipotesi ulteriore di sanatoria,
denominata di solito "fiscalizzazione dell'abuso";
• l'amministrazione, tenuta a decidere sull'istanza della
ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l'abuso
costituisse effettivamente una "parziale difformità",
e in caso positivo se effettivamente non potesse essere
demolito senza pregiudizio per la parte conforme;
• la norma del comma 2-ter non contiene una definizione normativa
della parziale difformità, ma prevede una franchigia. In
altre parole, intende stabilire non che ogni violazione
eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale,
ma al contrario che le violazioni contenute entro tale
limite sono irrilevanti;
• in tal senso, è anzitutto un argomento letterale: il testo della
norma, contenuta nell'articolo dedicato appunto alle
conseguenze della "parziale difformità", stabilisce
quando la stessa "non si ha", e quindi un caso in cui
l'abuso esula;
• nello stesso senso, è anche l'argomento storico: la norma è stata
aggiunta in un momento successivo, con l'art. 5 del decreto
legge 70/2011, cd. "Decreto sviluppo", il cui
dichiarato scopo è "liberalizzare le costruzioni private",
scopo rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di
franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul
privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a
difformità, anche fra le più lievi;
• a identico risultato conduce l'argomento logico sistematico: se
effettivamente il comma 2-ter contenesse la nozione
normativa di parziale difformità, ne seguirebbe che sarebbe
abuso, e comporterebbe in via principale l'ordine di
rimessione in pristino, ogni difformità rispetto alle misure
di progetto, anche la più lieve, con risultati pratici
assurdi, di moltiplicazione e complicazione del contenzioso.
La decisione conferma le conclusioni a cui eravamo giunti in
questo commento al novellato art. 34: "Parziali
difformità ex art. 34 TUE: la soglia del 2% secondo il DL
Sviluppo", ossia che il legislatore nazionale, cui
spetta dettare i principi fondamentali e generali
dell'attività edilizia (art. 1 DPR 380/2001), ha ritenuto di
non assoggettare a sanzione alcuna le variazioni al titolo
comprese nella misura del 2% per altezza, distacchi,
cubatura o superficie (commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).
---------------
MASSIMA
... per la riforma della
sentenza 16.09.2015 n. 1251 del TAR Puglia-Bari,
Sez. III, resa fra le parti, con la quale è stato respinto
il ricorso per l’annullamento del provvedimento 25.06.2014
prot. n. 11.21992 del Comune di Corato, di reiezione
dell’istanza proposta dalla Fe.Im. S.r.l. per la sanatoria
del recupero a fini abitativi di vani sottotetto non
abitabili siti a Corato, via ... 28 interni 36 e 37;
...
La ricorrente appellante è un’impresa di costruzioni che ha
realizzato, in Comune di Corato (Ba), una lottizzazione
denominata “Pandorea”, alla quale si accede per il
viale omonimo, composta da varie unità abitative all’interno
di villette di varia tipologia, sia unifamiliari sia
plurifamiliari.
Per due di queste unità, di cui all’epoca dei fatti era
ancora proprietaria, site all’interno di una villetta
quadrifamiliare, al numero 28, interni 36 e 38, le veniva
contestata una difformità nell’altezza esterna del
fabbricato e interna del piano sottotetto, dovuta a suo dire
all’impiego di una copertura del tetto a doppia falda
diversa da quella in progetto.
Precisamente, secondo il provvedimento impugnato, di cui
subito, al posto di una copertura di latero-cemento, priva
di elementi a vista e caratterizzata da uno spessore del
solaio finito pari a 0,20 mt, veniva impiegata,
asseritamente per un migliore isolamento termico, una
copertura di legno lamellare con elementi a vista,
costituiti da travi e arcarecci di sostegno, spessa 0,375
metri, cui si aggiungono altri 0.165 metri per lo spessore
delle travi; l’altezza risultava quindi incrementata del
maggior spessore della diversa copertura (doc. 1 in primo
grado ricorrente appellante, provvedimento impugnato, ove la
descrizione dell’opera).
A fronte di ciò, la ricorrente appellante ha presentato al
Comune istanza contestuale per ottenere la sanatoria
dell’abuso ai sensi dell’art. 34 T.U. 06.06.2001 n.380 e,
subordinatamente alla sanatoria, il recupero abitativo del
piano sottotetto, ai sensi della specifica l.r. 15.11.2007
n. 33, ricevendo un diniego con il provvedimento meglio
indicato in epigrafe (doc. 1 in primo grado ricorrente
appellante, cit.)
Con la sentenza di cui pure in epigrafe, il TAR ha respinto
il ricorso proposto contro il diniego predetto, ed ha in
sintesi ritenuto che l’intervento si dovesse considerare
realizzato in difformità non parziale, ma totale dal titolo
abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio detto la
sanzione non demolitoria, di cui all’art. 34, comma 2, T.U.
380/2001 non fosse applicabile, ma si desse luogo alla sola
demolizione, e che per conseguenza, trattandosi di opera
abusiva non sanabile, il recupero abitativo del sottotetto
fosse precluso.
...
1. L’appello è fondato e va accolto, per le ragioni e nei
limiti di seguito esposti.
...
7. Tutto ciò posto, il primo motivo di appello è
fondato e va accolto.
In proposito, va ricordato quanto detto in premesse, ovvero
che la ricorrente appellante presentò al Comune un’istanza
dall’oggetto duplice: in primo luogo, l’applicazione della
sanzione non pecuniaria di cui all’art. 34 T.U. 380/2001,
poi il recupero abitativo del sottotetto creato con l’abuso.
Vanno quindi, per chiarezza, richiamate le norme di
riferimento, incominciando dalla prima.
8. L’art. 34 in questione dispone per quanto interessa al
comma 1 che “gli interventi e le opere realizzati in
parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o
demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il
termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del
dirigente o del responsabile dell'ufficio. Decorso tale
termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese
dei medesimi responsabili dell'abuso”.
Alla regola fa un’eccezione al comma 2, stabilendo che “quando
la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della
parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile
dell'ufficio applica una sanzione” pecuniaria,
commisurata nel caso che interessa, di immobile abitativo,
al doppio del costo di produzione.
Infine, al comma 2-ter, aggiunto con d.l. 13.05.2011 n. 70,
prevede che “ai fini dell'applicazione
del presente articolo, non si ha parziale difformità del
titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza,
distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano
per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure
progettuali”.
9. La giurisprudenza ha chiarito
–per tutte, la sentenza della Sezione 12.04.2013 n. 2001-
che la possibilità di applicare la sanzione
pecuniaria va valutata nella fase esecutiva del procedimento
di repressione dell’abuso, successiva ed autonoma rispetto
all’ordine di demolizione: è per tal motivo che la norma
viene a costituire, in sostanza, un’ipotesi ulteriore di
sanatoria, denominata di solito “fiscalizzazione
dell’abuso”.
10. Da ciò segue, secondo logica, che
l’amministrazione, tenuta a decidere sull’istanza della
ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l’abuso
costituisse effettivamente una “parziale difformità”,
e in caso positivo se effettivamente non potesse essere
demolito senza pregiudizio per la parte conforme.
11. In concreto,
nel provvedimento impugnato in primo grado,
l’amministrazione stessa si è fermata al primo punto, per
ragioni tuttavia errate. Contrariamente a quanto ritenuto
dal Giudice di primo grado, infatti, la
norma sopra riportata del comma 2-ter non contiene una
definizione normativa della parziale difformità, ma prevede
una franchigia. In altre parole, intende stabilire non che
ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce
difformità totale, ma al contrario che le violazioni
contenute entro tale limite sono irrilevanti.
12. In tal senso, è anzitutto un
argomento letterale: il testo della norma, contenuta
nell’articolo dedicato appunto alle conseguenze della “parziale
difformità”, stabilisce quando la stessa “non si ha”,
e quindi un caso in cui l’abuso esula.
13. Nello stesso senso, è anche l’argomento
storico: la norma, come si è visto, è stata aggiunta in
un momento successivo, con l’art. 5 del decreto legge
70/2011, cd. “Decreto sviluppo”, il cui dichiarato
scopo è “liberalizzare le costruzioni private”, scopo
rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di
franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul
privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a
difformità, anche fra le più lievi.
14. Infine, ad identico risultato conduce
l’argomento logico-sistematico: se effettivamente il
comma 2-ter contenesse la nozione normativa di parziale
difformità, ne seguirebbe che sarebbe abuso, e comporterebbe
in via principale l’ordine di rimessione in pristino, ogni
difformità rispetto alle misure di progetto, anche la più
lieve, con risultati pratici assurdi, di moltiplicazione e
complicazione del contenzioso
(Consiglio di Stato, Sez. VI,
sentenza 30.03.2017 n. 1481 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
E
questo è il censurato pronunciamento del TAR: |
EDILIZIA PRIVATA: La
sanzione alternativa alla
demolizione, nella prassi frequentemente definita come
“sanatoria ex art. 34 dpr 380/2001”, è contemplata solo per
le opere realizzate in parziale difformità dal permesso di
costruire, se la demolizione non può avvenire senza
pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Il requisito richiesto, pertanto, è duplice:
- la difformità solo parziale e non totale;
- il pregiudizio per la parte eseguita in conformità, in
caso di demolizione.
Se entrambi i presupposti indicati non sussistono la
demolizione è ineludibile.
---------------
Non ricorre la fattispecie della parziale difformità, posto
che anche a voler considerare corrette le misurazioni
dell’altezza del sottotetto effettuate dalla parte
ricorrente, il 2% è abbondantemente superato (si verte,
infatti, nell’ordine –approssimativamente- del 10% di
aumento).
La dimensione dell’incremento è tale da configurare una
variazione essenziale, ai sensi dell'articolo 32, D.P.R. n.
380/2001
Ai sensi di una consolidata giurisprudenza, a norma degli
articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001, si verificano
difformità totale del manufatto o variazioni
essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i
lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista
dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione,
destinazione, ubicazione, mentre si configura la
difformità parziale quando le modificazioni incidano su
elementi particolari e non essenziali della costruzione e si
concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non
incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
Precipitato logico di tali principi, è l’esclusione della
“sanatoria” invocata (quando l’altezza realizzata superi di
più del 2% quella progettata,) irrilevante essendo che vi
sia pregiudizio in caso di demolizione.
---------------
... per l'annullamento:
- del diniego di sanatoria a firma del Dirigente del Settore
Urbanistica, Sezione Edilizia Privata ed Economica del
Comune di Corato, recante il prot. 11.21992 del 25.06.2014,
notificato alla ricorrente in data 30.06.2014 e con il quale
è stata rigettata in via definitiva l’istanza di sanatoria
inoltrata dalla Fe.Im. s.r.l., ai sensi e per gli effetti
dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. 380/2001, nonché
contestualmente, ai sensi e per gli effetti della L.R.
Puglia n. 33/2007 per il recupero ai fini abitativi del vano
sottotetto (cfr istanza presentata in data 3006 2014,
protocollata al n. 3673 ed identificata come pratica
edilizia n. 15/2014),
- ove lesivi degli interessi della società ricorrente, dei
seguenti atti presupposti e/o connessi, richiamati ob
relationem nel summenzionato provvedimento ancorché
trattasi di atti del tutto sconosciuti e mai notificati alla
Fe.Im. srl: a) ordinanza di demolizione dirigenziale n.
39/2012 del 27.03.2012; b) ordinanza dirigenziale n. 3
1/2012 del 26.03.2012;
- di ogni altro atto, connesso, presupposto e/o
consequenziale a quello impugnato, ancorché non conosciuto,
ivi compresi, ove occorra ed ove lesivi degli interessi del
ricorrente, le eventuali ulteriori relazioni istruttorie
endoprocedimentali, la proposta del responsabile del
procedimento con riserva, in ogni caso, di formulare in
merito ed ove necessario appositi motivi aggiunti;
- nonché per l’accertamento del diritto della ricorrente,
con la consequenziale condanna del Comune di Corato, ad
ottenere ad ottenere il rilascio della sanatoria de qua,
conformemente a quanto richiesto con l’istanza/pratica
edilizia recante il n. 15/2014.
...
La società odierna ricorrente ha realizzato, sulla scorta
dei titoli edilizi rilasciatile in virtù di un piano di
lottizzazione regolarmente approvato, un fabbricato
destinato a civile abitazione composto da quattro unità
abitative (la ricorrente non precisa, in ricorso, quanti
piani fuori terra contempli il progetto, ma dagli allegati
grafici prodotti, verosimilmente si tratta di edificio ad un
piano f.t. e sottotetto –in progetto- non abitabile, sito in
v. ... n. 28, identificato al foglio 48, p.lla 717).
In sede di realizzazione del manufatto, il piano sottotetto
è stato edificato, per due delle unità immobiliari (interni
n. 36 en. 38 identificati, catastalmente dai subalterni 3 e
4) con maggiore altezza rispetto a quella di progetto (dalle
fotografie prodotte si evince chiaramente che il sottotetto
è già utilizzato a vani abitativi).
La società ha, pertanto, inoltrato una richiesta di “sanatoria”
(rectius: di applicazione di sanzione non demolitoria)
ai sensi e per gli effetti dell'art. 34, comma 2, del D.P.R.
n. 380/2001, ritenendo che le difformità realizzate fossero
lievi e assoggettabili alla normativa invocata.
Contestualmente, nell'istanza di che trattasi, ha anche
richiesto, ai sensi della L.R. n. 33/2007, cosi come
modificata dall'art. 1 della L.R. n. 38/2013, il recupero,
ai fini abitativi, del vano sottotetto; il tutto, comunque,
sempre previa definizione di sanatoria, ai sensi del
summenzionato art. 34, comma 2.
Con il provvedimento impugnato, il Comune ha negato
l’applicazione della sanzione pecuniaria e, conseguentemente
escluso la possibilità del recupero a fini abitativi del
sottotetto, in quanto, pacificamente, la normativa regionale
la esclude in caso di opere abusive.
...
Il ricorso non è fondato.
La questione su cui le parti controvertono va risolta
esclusivamente in punto di diritto.
Recita l’art. 34 cit., rubricato “Interventi eseguiti in
parziale difformità dal permesso di costruire”: “1.
Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità
dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e
spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo
fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del
responsabile dell'ufficio. Decorso tale termine sono rimossi
o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi
responsabili dell'abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio
della parte eseguita in conformità, il dirigente o il
responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al
doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge
27.07.978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in
difformità dal permesso di costruire, se ad uso
residenziale, e pari al doppio del valore venale,
determinato a cura della agenzia del territorio, per le
opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano
anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma
3, eseguiti in parziale difformità dalla segnalazione
certificata di inizio attività (1).
2-ter. Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non
si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza
di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie
coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2
per cento delle misure progettuali (2).”
In estrema sintesi la sanzione alternativa alla demolizione,
nella prassi frequentemente definita come “sanatoria ex
art. 34”, è contemplata solo per le opere realizzate in
parziale difformità dal permesso di costruire, se la
demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte
eseguita in conformità.
Il requisito richiesto, pertanto, è duplice:
- la difformità solo parziale e non totale;
- il pregiudizio per la parte eseguita in conformità, in caso di
demolizione.
Se entrambi i presupposti indicati non sussistono la
demolizione è ineludibile.
Non ricorre la fattispecie della parziale difformità, posto
che anche a voler considerare corrette le misurazioni
dell’altezza del sottotetto effettuate dalla parte
ricorrente, il 2% è abbondantemente superato (si verte,
infatti, nell’ordine –approssimativamente- del 10% di
aumento).
La dimensione dell’incremento è tale da configurare una
variazione essenziale, ai sensi dell'articolo 32, D.P.R. n.
380/2001
Ai sensi di una consolidata giurisprudenza, (Cons. St. Sez.
IV, 27.11.1010, n. 8260; 10.04.2009, n. 2227, Sez. V,
21.03.2011, n. 1726), a norma degli articoli 31 e 32 DPR n.
380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o
variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione,
allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella
prevista dall'atto di concessione per conformazione,
strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si
configura la difformità parziale quando le modificazioni
incidano su elementi particolari e non essenziali della
costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e
quantitative non incidenti sulle strutture essenziali
dell'opera.
Precipitato logico di tali principi, è l’esclusione della “sanatoria”
invocata (quando l’altezza realizzata superi di più del 2%
quella progettata,) irrilevante essendo che vi sia
pregiudizio in caso di demolizione.
Tale circostanza è tranciante e dirimente e non può che
porre fine al dibattito delle parti.
Risulta, infatti, del tutto irrilevante la motivazione
esposta nel provvedimento (che, pure, dà piena contezza di
tale elemento ostativo), atteso che il diniego impugnato ha
natura vincolata, sicché anche ai sensi dell’art. 21-ocites
l. n. 241/1990, l’atto impugnato è esente da ogni censura.
E’ peraltro, evidente che, risultando l’opera abusiva, non
potrà trovare applicazione la normativa regionale invocata
sul recupero dei sottotetti.
Del tutto irrilevante, infine, è l’eventuale sanatoria
concessa per analoghe costruzioni, la quale, ben lungi dal
fornire elemento a sostegno della illegittimità dell’atto
impugnato, può al più rivelare pregresse illegittimità
dell’operato dell’Ente su cui deve valutarsi l’esercizio dei
poteri di rimozione in autotutela
(TAR Puglia-Bari, Sez. III,
sentenza 16.09.2015 n. 1251 -
link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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IN EVIDENZA |
EDILIZIA PRIVATA:
Motivazione dell’ordinanza di demolizione adottata a
distanza di anni dall’abuso che non è stato commesso
dall’attuale titolare: rimessione all’Adunanza plenaria.
---------------
Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Motivazione
– Necessità – Ordinanza adottata a distanza di anni
dall’abuso che non è stato commesso dall’attuale titolare –
Rimessione all’Adunanza plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza
plenaria la questione se l’ordinanza di demolizione di
immobile abusivo debba essere congruamente motivata sulla
sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al
ripristino della legalità violata quando il provvedimento
sanzionatorio intervenga a una distanza temporale
straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il
titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il
trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento
sanzionatorio (1).
---------------
(1)
Ha chiarito la Sezione che sulla questione si sono formati
due orientamenti giurisprudenziali.
Secondo il primo maggioritario orientamento
l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è
legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione
e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla
commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni
legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o
al di lui avente causa (Cons. St., sez. VI, 10.05.2016, n.
1774; id. 11.12.2013, n. 5943; id. 23.10.2015, n. 4880; id.,
sez. V, 11.07.2014, n. 4892; id., sez. IV, 04.05.2012, n.
2592).
Ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per
decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di
sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe
operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o
potuto) avvalersi del corrispondente istituto
legislativamente previsto (Cons. St., sez. VI, 05.01.2015,
n. 13).
Un secondo orientamento (Cons. St., sez. IV,
04.02.2014, n. 1016) individua “casi-limite in cui può
pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi”
(Cons. St., sez. VI, 14.08.2015, n. 3933): considerazioni
che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla
commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte
dell’Amministrazione: Cons. St., sez. V, 09.09.2013, n.
4470, in un caso peraltro in cui la buona fede è stata
esclusa), sulla buona fede del soggetto destinatario
dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile
dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del trasferimento del
bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del
provvedimento sanzionatorio (in tal senso, anche Cons. St.,
sez. VI, 18.05.2015, n. 2512; id., sez. V, 15.07.2013, n.
3847).
Nella stessa scia, è stato sottolineato -in relazione a “semplici
difformità” della costruzione dal titolo edificatorio
sussistente- che il decorso del tempo incide sulla certezza
dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con
le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto
all’amministrazione sia nei confronti del dante causa (Cons.
St., sez. V, 15.07.2013, n. 3847, seguìta da id. 24.11.2013,
n. 2013 e id., sez. IV, 04.03.2014, n. 1016; la medesima
decisione richiama V, 29.05.2006, n. 3270, che, pur facendo
riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non
limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici
difformità”) (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
ordinanza 24.03.2017 n. 1337
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
MASSIMA
1. La sentenza appellata ha respinto il ricorso proposto
dai sig.ri Ba.Fi., An. e Fa. per l’annullamento
dell’ordinanza del Comune di Fiumicino prot. n. 14889 del
26.02.2014 con cui era stata ingiunta la demolizione delle
opere edili abusivamente realizzate sull’immobile sito in
quel Comune, località Isola Sacra, via ... n. 81-83.
Per quel che qui rileva, il ricorso è stato respinto alla
luce di quell’orientamento giurisprudenziale ex multis:
Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011, n. 79) secondo il
quale “l’ordine di demolizione, come
tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è
atto vincolato che non richiede una specifica valutazione
delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di
quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e
sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un
interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non
potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento
tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto
abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.
Propongono ricorso in appello gli interessati evidenziando
come, nonostante l’edificio fosse stato ultimato nel 1982, e
sin da quel momento l’Amministrazione fosse a conoscenza
dell’esistenza dello stesso, l’ordinanza era stata
notificata soltanto a ben 32 anni dall’ultimazione del
fabbricato in argomento. Tale inerzia aveva ingenerato una
posizione di affidamento rispetto alla quale
l’amministrazione avrebbe avuto l’onere di una congrua
motivazione in ordine all’interesse pubblico prevalente che
giustificasse il sacrificio dei ricorrenti i quali,
peraltro, semplicemente ereditando la proprietà
dell’edificio nel 2009, dalla dante causa Fi.Co.,
risultavano addirittura estranei a qualsivoglia
realizzazione abusiva.
Veniva, quindi, in altri termini lamentato che, nonostante
il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione
dell’abuso e la risposta sanzionatoria, con il conseguente
affidamento medio tempore maturato dagli attuali
proprietari, l’Amministrazione comunale non avesse dato
conto alcuno, con idonea motivazione, delle ragioni di
attualità, concretezza e specificità del pubblico interesse,
diverso dal mero ripristino della legalità, sotteso al
provvedimento sanzionatorio.
A sostegno del ricorso in appello gli interessati invocano
la pronuncia della IV Sezione (04.02.2014, n. 1016) secondo
la quale: “Il provvedimento di rimozione
dell’abuso è atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso
del bene e dalla coincidenza del proprietario con il
realizzatore dell’abuso medesimo; pertanto, le sanzioni in
materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti
dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla
modalità con cui l’abuso è stato consumato, salvo i casi in
cui sia pacifico che:
a) l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario
del provvedimento di rimozione, non è responsabile
dell’abuso;
b) l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il
successivo esercizio dei poteri repressivi;
c) tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e, più
ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri
repressivi, sia intercorso un lasso temporale ampio”.
Tale pronuncia costituisce l’esempio più approfondito di
quel filone giurisprudenziale che valorizza il decorso del
tempo come elemento influente sulla legittimità del
provvedimento sanzionatorio.
2. In effetti, nella giurisprudenza di questo Consiglio di
Stato, sembrano potersi individuare sul tema due
orientamenti giurisprudenziali, ancorché non sempre
compiutamente esplicitati.
Secondo il primo orientamento, che parrebbe
maggioritario, l’ordinanza di demolizione
di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza
alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso
temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi
escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al
responsabile dell’abuso o al di lui avente causa
(VI, 10.05.2016 n. 1774; VI, 11.12.2013 n. 5943; VI,
23.10.2015 n. 4880; V, 11.07.2014 n. 4892; IV, 04.05.2012 n.
2592). E si è precisato che ammettere la
sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del
tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria
extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche
quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi
del corrispondente istituto legislativamente previsto
(VI, 05.01.2015 n. 13).
3. E’ tuttavia presente un secondo orientamento
giurisprudenziale, che, conforme a quello invocato dagli
appellanti (IV, 04.02.2014, n. 1016), pur consapevole del
prevalente indirizzo contrario, individua
tuttavia “casi-limite in cui può pervenirsi a
considerazioni parzialmente difformi”
(VI, 14.08.2015 n. 3933): considerazioni
che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla
commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte
dell’Amministrazione:
V, 09.09.2013 n. 4470, in un caso peraltro in cui la buona
fede è stata esclusa), sulla buona fede del
soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso
dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del
trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la
comminatoria del provvedimento sanzionatorio
(in tal senso, anche VI, 18.05.2015 n. 2512; V, 15.07.2013
n. 3847).
Nella stessa scia, è stato sottolineato
-ma, si badi, in relazione a “semplici difformità”
della costruzione dal titolo edificatorio sussistente- che
il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti
giuridici e può incidere significativamente con le
possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto
all’amministrazione sia nei confronti del dante causa
(V, 15.07.2013 n. 3847, seguìta da V, 24.11.2013 n. 2013 e
IV, 04.03.2014 n. 1016; la medesima decisione richiama V,
29.05.2006 n. 3270, che, pur facendo riferimento alla
rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il
principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici
difformità”).
4. Gli appellanti, in punto di fatto, evidenziano che i
requisiti richiesti dall’orientamento a loro favorevole si
riscontrano nel caso in esame:
a) gli attuali proprietari dell’immobile, destinatari del
provvedimento demolitorio, hanno acquistato il diritto reale
de quo per successione ereditaria dalla dante causa
Co.Fi., unica responsabile dell’abuso avvenuto nel 1982;
b) la modalità di trasferimento della proprietà mortis causa
evidentemente esclude qualsivoglia intento finalistico
elusivo dell’esercizio dei poteri repressivi spettanti
all’autorità amministrativa competente;
c) tra la realizzazione dell’edificio in argomento e l’ordinanza di
demolizione sono trascorsi ben 32 anni.
5. Sussiste dunque un contrasto tra quel
filone giurisprudenziale (richiamato dalla sentenza qui
appellata) che ritiene ininfluente il decorso del tempo e
quell’orientamento (invocato dagli appellanti) che, a
determinate condizioni, richiede invece una specifica
motivazione in ordine all’adozione di un provvedimento
sanzionatorio.
Il Collegio ritiene comunque di dover osservare che,
nell’arco temporale decorrente dalla commissione
dell’abuso (anno 1982) e l’adozione del provvedimento
impugnato (anno 2014) sono intervenuti ben tre condoni
edilizi disciplinati dalle leggi 28.02.1985, n. 47,
23.12.1994, n. 724 e 24.11.2003, n. 326.
Dagli elementi di fatto forniti dagli appellanti si desume
che la loro dante causa non ha ritenuto di
avvalersi delle facoltà concesse dalle leggi richiamate e di
ottenere il condono per l’immobile abusivamente realizzato,
previa corresponsione delle somme dovute a titolo di
oblazione stabilite dalla normativa sopra citata. Invero,
nella prospettazione degli appellanti, il trasferimento
mortis causa dell’immobile assorbirebbe l’omissione
della presentazione delle domande di condono, realizzando
una sorta di sanatoria extra ordinem, formatasi per
il mero decorso del tempo (sia pure prolungato), ed
esonerando ratione temporis gli appellanti da una
presentazione, sia pur tardiva delle stesse (ammesso che
-osserva la Sezione- una tale evenienza sia possibile).
Il Collegio
ritiene ancora di dover evidenziare che la
sussistenza di un interesse pubblico attuale era richiesto
dalla giurisprudenza per l’annullamento (in autotutela) di
un preesistente provvedimento valutato in seguito
illegittimo. La giurisprudenza invocata dagli appellanti
estende, quindi, con una radicale innovazione di sistema, al
“fatto illecito” (quale deve considerarsi una
costruzione realizzata senza titolo abilitativo) quel che
originariamente era richiesto solo per un “atto
illegittimo”.
E’ peraltro vero che un lasso di tempo
straordinariamente lungo tra la commissione dell’abuso (da
parte di terzi) e la sanzione, tempo intercorso anche a
causa dell’inerzia serbata dall’amministrazione, potrebbe
essere ritenuto in sé idoneo a giustificare un affidamento
da parte del soggetto estraneo alla commissione dell’abuso;
affidamento che, se non può certo elidere in radice il
potere sanzionatorio, ne richiede una giustificazione in
termini di attualità e concretezza, in relazione, oltre che
al tempo, alla consistenza dell’abuso medesimo e ad altre
circostanze fattuali che si assumano rilevanti.
In conclusione, il Collegio, ai sensi dell’articolo 99
c.p.a., rimette l’affare all’Adunanza plenaria, perché possa
essere decisa la seguente questione: “Se
l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella
specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente
motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto
e attuale al ripristino della legalità violata quando il
provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza
temporale straordinariamente lunga dalla commissione
dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile
dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del
provvedimento sanzionatorio”. |
UTILITA' |
INCARICHI PROGETTUALI:
Lavori Pubblici: “on-line la Guida alla redazione dei
bandi per i Servizi di Architettura e di Ingegneria”.
On-line sul portale del Consiglio Nazionale degli
Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori la
Guida alla redazione dei Bandi da adottare nei Concorsi di
Idee e di Progettazione e nelle procedure di affidamento dei
Servizi di Architettura e Ingegneria, in relazione
all’importo stimato del corrispettivo ed alla tipologia
delle opere da realizzare.
“L’obiettivo principale di questa iniziativa -spiega Rino
La Mendola, Vicepresidente del Consiglio Nazionale e
Coordinatore del Dipartimento Lavori Pubblici- è quello di
offrire alle stazioni appaltanti gli strumenti necessari per
adottare le più corrette procedure di affidamento, riducendo
notevolmente i tempi di predisposizione degli atti di gara,
nel pieno rispetto del nuovo quadro normativo, determinato
dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo 50/2016.”
“La Guida potrà essere adottata dalle stazioni
appaltanti, non solo per l’affidamento dei Servizi di
Architettura e Ingegneria, ma anche e soprattutto per
bandire Concorsi di progettazione, che riteniamo lo
strumento ideale per selezionare il miglior progetto ed il
professionista da incaricare per le fasi successive della
progettazione.”
In particolare, le pubbliche amministrazioni ed i
committenti privati che intendano bandire un concorso,
potranno fruire di una piattaforma informatica, che il
Consiglio Nazionale degli Architetti attiverà già dal
prossimo mese di Aprile, la quale sarà in grado di garantire
l’anonimato dei partecipanti ed una notevole riduzione dei
costi e dei tempi di svolgimento delle procedure
concorsuali.
La Guida costituisce un’attività di supporto
all’Osservatorio Nazionale sui Servizi di Architettura e
Ingegneria (ONSAI), già lanciato lo scorso mese di gennaio
dallo stesso Consiglio Nazionale per un periodo di
sperimentazione, che si concluderà a fine marzo.
Dunque, ad aprile, l’Osservatorio funzionerà a pieno regime,
con l’obiettivo di alimentare, attraverso l’uso della
piattaforma informatica del Consiglio Nazionale, uno scambio
di informazioni, tra gli Ordini provinciali, sulle criticità
dei bandi pubblicati affinché venga attivato, dall’Ordine
competente per territorio, un confronto con le stazioni
appaltanti interessate, finalizzato al superamento delle
stesse criticità; ulteriore obiettivo, quello di offrire
agli architetti italiani un servizio utile a valutare
preliminarmente l’opportunità di partecipare alle diverse
procedure di affidamento (28.03.2017 - link a
www.awn.it). |
VARI: Il
leasing immobiliare abitativo.
Detrazione fiscale del 19% a valere sui canoni di leasing
fino a 8 mila euro annui e sul prezzo di riscatto fino 20
mila euro.
Sono questi gli incentivi concessi ai giovani
sotto i 35 anni e con reddito annuo non superiore a 55 mila
euro, che intendono approfittare dei vantaggi economici e
fiscali offerti dal leasing immobiliare abitativo. Minori,
ma pur sempre interessanti, sono gli incentivi a favore dei
soggetti con età uguale o superiore a 35 anni, ai quali
spetta la detraibilità pari al 19% dei canoni di leasing
(fino a un importo massimo di 4 mila euro annui) e la
detraibilità pari al 19% del prezzo del riscatto (fino a un
importo massimo di 10 mila euro). (...continua)
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017). |
GURI - GUUE - BURL
(e anteprima) |
EDILIZIA PRIVATA: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 03.04.2017 "Approvazione
dei criteri per l’accertamento delle infrazioni e
l’irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 27 della legge
regionale n. 24/2006 e s.m.i. conseguenti alla trasgressione
delle disposizioni relative agli attestati di prestazione
energetica degli edifici», in attuazione della dgr 5900 del
28.11.2016" (decreto
D.U.O. 29.03.2017 n. 3490). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 03.04.2017 "Criteri
di finanziamento di interventi di rimozione amianto da
strutture pubbliche. monitoraggio dell’attivazione dei
servizi di rimozione e smaltimento amianto in matrice
compatta proveniente da utenze domestiche" (deliberazione
G.R. 13.03.2017 n. 6337). |
PATRIMONIO: B.U.R.
Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 31.03.2017, "Approvazione
del bando «Criteri e procedure per concessione ai comuni di
contributi una tantum a fondo perduto per la rimozione del
cemento-amianto esistente in pubblici edifici»" (decreto
D.S. 17.03.2017 n. 2949). |
EDILIZIA PRIVATA: G.U.
28.03.2017 n. 73 "Approvazione dei modelli unici per la
realizzazione, la connessione e l’esercizio di impianti di
microcogenerazione ad alto rendimento e di
microcogenerazione alimentati da fonti rinnovabili" (Ministero
dello Sviluppo Economico,
decreto 16.03.2017). |
NOTE, CIRCOLARI E
COMUNICATI |
APPALTI:
Oggetto: Interpello n. 954-15/2017 - Articolo 11, comma
1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212 - COMUNE DI FIRENZE
(Agenzia delle Entrate,
interpello
n. 954-15/2017).
---------------
...il Comune di Firenze chiede chiarimenti in riferimento
all'applicazione dell'imposta di bollo di cui all'art. 2,
della Tariffa, parte prima, allegata al DPR 26.10.1972, n.
642, in relazione ai suddetti contratti di acquisto di beni
e servizi conclusi per corrispondenza, per i quali la
procedura negoziata è stata effettuata avvalendosi delle
funzionalità del mercato elettronico SIGEME. (...continua). |
EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI - VARI:
OGGETTO: Consultazione delle banche dati ipotecaria e
catastale relativa a beni immobili dei quali il soggetto
richiedente risulta titolare, anche in parte, del diritto di
proprietà o di altri diritti reali di godimento (Agenzia
delle Entrate,
circolare 24.03.2017 n. 3/E). |
COMPETENZE PROGETTUALI:
Oggetto: competenze professionali nelle attività di
pianificazione, progettazione, direzione
lavori e consulenza nel settore forestale. Consiglio di
Stato n. 952/2017. Assenza di competenze esclusive
(Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici
Laureati,
nota 21.03.2017 n. 1338 di prot.). |
ENTI LOCALI:
Oggetto: incarichi gratuiti a soggetti in quiescenza.
Art. 5, comma 9, del decreto legge 06.07.2012 n. 95,
convertito, con modificazioni, in legge 07.08.2012, n. 135.
Obbligo assicurativo Inail
(INAIL,
nota 08.03.2017 n. 4856 di
prot.). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Oggetto:
Art. 10 del d.m. 13.10.2016, n. 264, Regolamento recante
Criteri per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei
requisiti per la qualifica dei residui di produzione come
sottoprodotti e non come rifiuti - elenco pubblico istituito
presso le Camere di commercio territorialmente competenti -
Chiarimenti interpretativi (Ministero dell'Ambiente e
della Tutela del Territorio del Mare,
nota 03.03.2017 n. 3084 di prot.). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Oggetto: attribuzione di incarichi dirigenziali al
dirigente dell'avvocatura civica "senza vincolo di
esclusività"; comunicazioni ANCI 11.01.2017 (Prot. 4/VSG/SD/AB/ag-17)
e 07.02.2017 (Prot. 12/VSG/SD/ag-17) (Consiglio
Nazionale Forense,
nota 28.02.2017 n. 28109 di prot.). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Oggetto: Diritto di accesso a dati e documenti - Art. 5
d.lgs. 33/2013, come modificato dall'art. 6 del d.lgs. n.
97/2016. regime provvisorio ai fini delle esclusioni e dei
limiti all'accesso generalizzato (Avvocatura Generale
dello Stato,
circolare n. 61/2016). |
CORTE DEI CONTI |
INCENTIVO FUNZIONI TECNICHE: Il
"termine” lavori a base d’asta “utilizzata nel
secondo comma, è da intendere in senso atecnico e quindi non
soltanto per lavori ma anche per servizi e forniture.
Infatti, l’art. 102 del decreto legislativo 50/2016 dispone
che il responsabile unico del procedimento controlla
l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore
dell’esecuzione del contratto e che i contratti pubblici
sono soggetti a collaudo per i lavori, e a verifica di
conformità per i servizi e le forniture e disciplina una
serie di attività e di adempimenti (non tutti) che sono
comuni ad ogni tipo di appalto e che in base all’oggetto
dell’appalto, saranno conseguentemente previste le diverse
figure professionali che dovranno svolgere quelle attività
destinatarie dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113
e la cui quantificazione avrà una disciplina regolamentare.”.
---------------
Il menzionato art. 113 riconosce l’incentivo
“esclusivamente” per le “attività di programmazione della
spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei
progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure
di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di
responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori
ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo
tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di
collaudatore statico”.
L’avverbio “esclusivamente” esprime
con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il
compenso incentivante limitatamente alle attività
espressamente previste, ove effettivamente svolte dal
dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella
norma deve considerarsi tassativa.
---------------
Con la nota in epigrafe, il Sindaco del comune di
Mascalucia (CT) ha chiesto un parere in ordine
all’interpretazione dell’art. 113 del decreto legislativo n.
50 del 18.04.2016, recante il nuovo Codice dei contratti
pubblici e, in particolare, se i previsti incentivi per
lo svolgimento di funzioni tecniche possano essere
riconosciuti oltre che per gli appalti di lavori anche per
quelli di servizi e forniture.
In caso di risposta affermativa, con un secondo quesito,
il Sindaco ha chiesto alla Corte di esprimersi circa la
possibilità di includere o meno tra i suddetti servizi sia
quelli relativi all’attività di pianificazione urbanistica
che quelli di coordinamento per la sicurezza in fase di
progettazione e/o di esecuzione, laddove svolta da
dipendenti dell’Ente.
...
Con riferimento al primo quesito formulato dall’ente,
il Collegio ritiene di non doversi discostare
dall’orientamento espresso sul punto da altre sezioni di
controllo (cfr. Sezione controllo Puglia
parere 13.12.2016 n. 204; Sezione controllo
Veneto
parere 07.09.2016 n. 353; Sezione controllo
Lombardia
parere 05.07.2016 n. 184 e
parere 16.11.2016 n. 333), ovvero che
l’interpretazione logico sistematica dei commi 2 e 3
dell’art. 113 conduce alla conclusione per cui
“il termine” lavori a base d’asta “utilizzata
nel secondo comma, è da intendere in senso atecnico e quindi
non soltanto per lavori ma anche per servizi e forniture.
Infatti, l’art. 102 del decreto legislativo 50/2016 dispone
che il responsabile unico del procedimento controlla
l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore
dell’esecuzione del contratto e che i contratti pubblici
sono soggetti a collaudo per i lavori, e a verifica di
conformità per i servizi e le forniture e disciplina una
serie di attività e di adempimenti (non tutti) che sono
comuni ad ogni tipo di appalto e che in base all’oggetto
dell’appalto, saranno conseguentemente previste le diverse
figure professionali che dovranno svolgere quelle attività
destinatarie dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113
e la cui quantificazione avrà una disciplina regolamentare.”
(Sezione controllo Lombardia
parere 16.11.2016 n. 333).
Con riferimento al secondo quesito, l’ente chiede se
sia possibile includere tra i servizi per i quali
corrispondere l’incentivo per funzioni tecniche anche quelli
relativi all’attività di pianificazione urbanistica e di
coordinamento per la sicurezza in fase di progettazione e/o
di esecuzione, laddove svolta da dipendenti dell’Ente.
In proposito, deve rilevarsi che il
menzionato art. 113 riconosce l’incentivo “esclusivamente”
per le “attività di programmazione della spesa per
investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di
predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di
esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del
procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione
dell’esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero
di verifica di conformità, di collaudatore statico”.
L’avverbio “esclusivamente” esprime
con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il
compenso incentivante limitatamente alle attività
espressamente previste, ove effettivamente svolte dal
dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella
norma deve considerarsi tassativa
(così anche deliberazione Sezione Puglia cit., che richiama
Sezione delle Autonomie,
deliberazione 13.05.2016 n. 18, laddove, in via
incidentale, sottolinea che la nuova disposizione ha abolito
“gli incentivi alla progettazione
previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter, introducendo
nuove forme di incentivazione per funzioni tecniche … svolte
dai dipendenti esclusivamente per le attività di
programmazione della spesa per investimenti e per la
verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le
attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate”).
Sotto questo specifico profilo, ossia quello della
individuazione dei limiti entro i quali le attività svolte
dai pubblici dipendenti possono ricevere una specifica
remunerazione, la disciplina degli
incentivi, derogatoria rispetto al principio di
onnicomprensività della retribuzione, tra l’altro, è da
considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile
di estensione analogica.
P.Q.M.
La Sezione di controllo per la Regione siciliana
esprime parere favorevole con riferimento al
primo quesito e non favorevole con riferimento al
secondo
(Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia,
parere 30.03.2017 n. 71). |
PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGO: Strisce
pedonali non possono essere verdi.
Paga il funzionario.
Come prescrive il Codice della strada, i colori utilizzati
per gli attraversamenti pedonali sono regolamentati in
maniera perentoria e tale colorazione deve essere applicata
su tutto il territorio nazionale. Pertanto, qualora un
comune dovesse disporre diversamente, la spesa sostenuta per
l'acquisto della vernice colorata, in luogo di quella
tradizionale, costituisce un danno erariale.
È quanto ha messo nero su bianco la Sezione giurisdizionale
della Corte dei conti per il Veneto, nel testo della
sentenza
14.03.2017 n. 38 con cui ha
condannato un funzionario tecnico di un comune del padovano
per aver disposto, su 55 attraversamenti pedonali in città,
una colorazione non consentita.
Il collegio della magistratura contabile ha infatti
sottolineato come il regolamento attuativo del Codice della
strada dispone, all'articolo 145, che gli attraversamenti
pedonali devono essere evidenziati sulla carreggiata
mediante zebrature con strisce bianche parallele alla
direzione di marcia e che nessun altro segno è consentito.
Ne deriva che la colorazione verde, apposta sul fondo
stradale degli attraversamenti pedonali, è palesemente
contraria alle disposizioni del Codice della strada.
La Corte ha altresì richiamato il dm 27/04/2006 del
Ministero delle infrastrutture, con cui si ribadisce che la
colorazione delle strisce pedonali sia uniforme sull'intero
territorio nazionale e che, in caso di violazione, la
responsabilità ricade sugli enti proprietari delle strade
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2017).
---------------
MASSIMA
2. L'odierno giudizio è finalizzato all'accertamento
della pretesa risarcitoria avanzata dal Procuratore
regionale in ordine al danno erariale di €
1.155,00, asseritamente arrecato al Comune di San Martino di
Lupari (PD) da Gi.St.Ba., responsabile dell'Area
tecnica-manutenzioni, in relazione alla realizzazione, nel
territorio comunale, di attraversamenti pedonali su manto
stradale di colorazione non consentita.
3. Dagli atti di causa si evince che il convenuto, con le
determinazioni contrassegnate dai numeri 199/2008, 119/2009,
123/2010, 138/2010, 169/2010, 74/2012, 113/2012, 122/2012 e
148/2012, assunte nella qualità di responsabile di Area,
aveva fatto realizzare n. 55 attraversamenti pedonali su
manto stradale di colorazione verde; come da comunicazione
dello stesso funzionario, la differenza di spesa, effettuata
al fine di realizzare il passaggio pedonale su fondo verde,
anziché sul fondo stradale non colorato, ammonta a € 21,00
per ciascun attraversamento e, pertanto, ad € 1.155,00 in
totale.
Rileva il Collegio che l'art. 40 del codice della strada
(D.lgs. 30.04.1992 n. 285) nel disciplinare la segnaletica
orizzontale, costituita da strisce, frecce e scritte poste
sulla pavimentazione stradale per regolare la circolazione
stradale, per guidare gli utenti e per fornire prescrizioni
circa il comportamento da seguire, rinvia al regolamento per
quanto riguarda le forme, le dimensioni, i colori, i simboli
e le caratteristiche dei segnali orizzontali.
Lo stesso Codice (art. 45) vieta, tuttavia,
l'impiego di segnaletica stradale non conforme a quella
stabilita dal codice stesso, dal Regolamento o dai decreti e
dalle direttive ministeriali.
Il Regolamento, approvato con DPR
16.12.1992 n. 495, espressamente stabilisce che i colori dei
segnali orizzontali sono il bianco, il giallo, l'azzurro e
il giallo alternato con il nero (art. 137, comma 5); che gli
attraversamenti pedonali sono evidenziati sulla carreggiata
mediante zebrature con strisce bianche parallele alla
direzione di marcia (art. 145); che nessun altro segno è
consentito sulle carreggiate stradali soggette a pubblico
transito, all'infuori di quanto previsto dalle norme in
questione (art. 155).
Da ciò deriva che la colorazione verde, apposta sul fondo
stradale dell'attraversamento pedonale, deve ritenersi
contraria alle precise disposizioni poste dal Codice della
strada e dal Regolamento.
Peraltro, il Ministero delle Infrastrutture
e dei Trasporti,
con il decreto ministeriale 27.04.2006 n. 777 (II° direttiva
sulla corretta ed uniforme applicazione delle norme del
codice della strada in materia di segnaletica e criteri per
l'istallazione e la manutenzione), ha
espressamente ribadito (punto 5) sia la cogenza della
normativa stradale in ordine alla colorazione degli
attraversamenti pedonali, sia la necessità che la
colorazione sia uniforme sull'intero territorio nazionale;
ha, inoltre, segnalato le responsabilità ricadenti sugli
enti proprietari delle strade in caso di violazione delle
anzidette disposizioni.
Tali prescrizioni costituivano peraltro oggetto della
circolare 1/2001 della Prefettura di Padova, inviata a tutti
i Sindaci della Provincia, in cui si richiamavano le
disposizioni normative, la direttiva ministeriale e la
normativa europea (UN 1436 del 2004) in ordine al divieto di
utilizzare colorazioni diverse da quelle espressamente
previste.
Tanto premesso, il Collegio ritiene che la
maggiore spesa effettuata dal Comune per la realizzazione
degli attraversamenti pedonali colorati costituisca danno
erariale in quanto non solo contraria alle disposizioni di
legge ma anche di nessuna utilità per l'amministrazione
stessa e la Comunità amministrata.
4. Tale danno è addebitabile al signor
Gi.St.Ba., per avere adottato la scelta di apporre una
colorazione non consentita, in frontale contrasto con le
disposizioni di legge sopra richiamate.
Ritiene, al riguardo, il Collegio che la condotta
antigiuridica addebitata al convenuto sia supportata dalla
colpa grave. La valutazione della sussistenza dell'elemento
psicologico, nella intensità prevista dalla legge, va
effettuata attraverso un giudizio di rimproverabilità per
l'atteggiamento antidoveroso della volontà che sarebbe stato
possibile non assumere, con valutazione ex ante, in
base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della
serie causale produttiva del danno (teoria della concezione
normativa della colpevolezza).
Nel caso di specie, il convenuto, per la
sua qualificazione professionale (responsabile dell'Area
tecnica-manutenzioni del Comune), avrebbe potuto certamente
rilevare l'antigiuridicità della scelta effettuata, solo
verificando le chiare disposizioni normative in materia,
alla luce della modifica cromatica che andava a introdurre
nella segnaletica orizzontale posta nel territorio dell'Ente
locale, sicuramente innovativa rispetto ad una tradizionale
coloratura.
Peraltro, nel periodo di tempo in cui tale innovazione venne
introdotta (2008-2012) era intervenuta, ancorché non ve ne
fosse necessità, anche una specifica circolare
chiarificatrice della Prefettura di Padova. In buona
sostanza, sarebbe bastato un minimo di
diligenza da parte del funzionario e un approfondimento
sulla questione per valutare la portata delle disposizioni
normative e per ricercare, ove non in possesso della
Amministrazione, le direttive fornite dal competente
Ministero nella materia de qua.
5. Per tutto quanto precede, il Collegio condanna il signor
Gi.St.Ba. al pagamento, in favore del Comune di San Martino
di Lupari (PD), della somma di € 1.155,00, comprensiva di
rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali
calcolati dalla data di pubblicazione della sentenza sino al
soddisfo.
6. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si
liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale regionale per il Veneto
definitivamente pronunciando, condanna
BA.Gi.St. al pagamento, in favore del Comune di San Martino
di Lupari (PD), della somma complessiva di € 1.155,00,
comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre interessi
legali dalla data della sentenza sino all'effettivo
pagamento. |
PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
resta il vincolo sui posti da dirigente.
Il vincolo di indisponibilità dei posti dirigenziali
introdotto dalla legge di stabilità 2016 è ancora pienamente
vigente, malgrado la parziale bocciatura della legge Madia
da parte della Consulta e la conclusione delle procedure di
ricollocamento dei lavoratori in esubero delle province.
Lo ha affermato la Corte Emilia Romagna nella
parere 28.02.2017
n. 23, analizzando la portata dell'art. 1,
comma 219, della legge 208/2015 alla luce del sopravvenuto
quadro normativo e giurisprudenziale.
Tale disposizione ha congelato i posti da dirigente nelle
p.a. vacanti alla data del 15.10.2015, con una misura
espressamente collegata alla emanazione dei decreti delegati
di cui agli art. 8, 11 e 17 della legge 124/2015, nonché
alla conclusione dei procedimenti di mobilità previsti per
il personale della province.
Tuttavia, i predetti articoli
della legge Madia sono stati dichiarati costituzionalmente
illegittimi (Corte cost. 251/2016) per cui il termine per
l'esercizio della delega risulterebbe scaduto. Nel
frattempo, anche le mobilità imposte dalla riconfigurazione
degli enti di area vasta sono state completate.
Pertanto, un comune ha chiesto alla sezione emiliana se da
tutto ciò possa discendere il venire meno del blocco. Come
prevedibile, la Corte ha dato risposta negativa, affermando
che il comma 219 è da considerarsi tuttora in vigore.
In questa prospettiva, il parere rammenta che la sentenza
della Consulta non ha determinato alcun vuoto normativo, per
cui la delega non solo non è scaduta ma, entro il termine
stabilito, è tuttora legittimamente esercitabile da parte
del governo a legislazione vigente, assumendo non il parere
della Conferenza unificata bensì conseguendo l'intesa con la
Conferenza stato-regioni.
Anche il Consiglio di stato, del resto, nel recente parere
reso in data 09/01/2017, su apposita richiesta della
presidenza del consiglio dei ministri, si è espresso in tal
senso e la medesima linea interpretativa è stata sostenuta
anche dalla Corte dei conti Lombardia per affermare
(deliberazione n. 6/2017/Par) la piena validità del tetto al
salario accessorio imposto dal comma 236 della stessa legge
208
(articolo ItaliaOggi del 07.03.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Turnover,
giro di vite dalla Corte conti.
Turnover limitato negli enti locali. La Corte dei conti,
sezione regionale di controllo della Lombardia, col
parere
15.02.2017 n. 23, torna sulla sfortunata questione
dell'utilizzo dei «resti assunzionali», cioè le risorse
utilizzabili negli anni precedenti per assunzioni, ma non
consumate, fornendo un'interpretazione estremamente
restrittiva, complicando ulteriormente una materia da sempre
resa di difficile attuazione proprio dalle contraddittorie
indicazioni della magistratura contabile.
Secondo il parere
della sezione Lombardia, «al fine di calcolare la capacità assunzionale bisogna prendere come riferimento la
percentuale indicata per l'anno in cui si intende avviare la
procedura di assunzione, a prescindere da quale fosse la
percentuale indicata nell'anno a cui si riferiscono le
cessazioni intervenute (ossia i cosiddetti resti)». Questa
indicazione finisce per stringere moltissimo le maglie delle
assunzioni. Si prenda il caso dei comuni con popolazione
superiore ai 10.000 abitanti. Ai sensi dell'articolo 1,
comma 228, della legge 208/2015, possono assumere nel limite
del 25% del costo delle cessazioni del personale non avente
qualifica dirigenziale, cessato nel 2016.
Secondo la chiave
di lettura suggerita dalla sezione Lombardia, tuttavia,
questa limitata percentuale non varrebbe solo per calcolare
il turnover sull'anno precedente, ma anche per determinare
l'ammontare dei resti assunzionali del triennio 2013-2015,
sul quale «spalmare» questa limitata percentuale.
Nonostante, invece, per ciascuno di tali anni il turnover
sull'anno precedente fosse superiore (il 40% nel 2013 ed il
60% negli anni 2014-2015, con alcune possibilità di
innalzamento per i comuni virtuosi).
Nei confronti degli
enti con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, il cui
rapporto dipendenti-popolazione dell'anno 2016 sia inferiore
al rapporto medio dipendenti-popolazione per classe
demografica, come definito triennalmente con il decreto del
Ministro dell'interno di cui all'articolo 263, comma 2, del
dlgs 267/20000, paradossalmente, invece, l'indicazione della
sezione Lombardia potrebbe anche rivelarsi vantaggiosa, in
quanto detti comuni potrebbero utilizzare il 75% come
parametro per il conteggio del turnover del triennio
2013-2015 e, quindi, ottenere spazi maggiori di quelli
fissati dalla legge. Secondo il parere della sezione
Lombardia, i «resti assunzionali» devono essere presi in
considerazione «solo per determinare l'entità del budget di
spesa su cui va parametrata la capacità assunzionale che
deve necessariamente essere rispettosa della percentuale
fissata dal legislatore per l'anno in cui si intende a
procedere con la nuova assunzione».
Quanto disposto dalla
sezione Lombardia genera estrema confusione negli enti, che
si trovano per l'ennesima volta spiazzati da interpretazioni
contraddittorie della magistratura contabile: infatti, la
Sezione regionale di controllo per il Veneto era giunta a
conclusioni diametralmente opposte col parere 31.08.2012, n. 534. In effetti, la contraddittorietà ed incoerenza
delle conseguenze derivanti dal parere 23/2017 della sezione
Lombardia ne rendono estremamente debole l'impianto.
Il
nuovo caos si aggiunge ad una situazione estremamente
complicata, dovuta da un lato appunto alle continue
modifiche alle regole sul turnover e, dall'altro, ad
interpretazioni spesso sfortunate della Corte dei conti,
come quella sul significato dell'articolo 3, comma 5, del dl
90/2014, che ha appunto consentito il cumulo delle risorse assunzionali,
non correttamente considerato dalla sezione autonomie come
rivolto alla programmazione futura con deliberazione
27/2014, dalla quale però la sezione non ha mai voluto
recedere, costringendo il legislatore a prevedere
espressamente l'utilizzabilità dei resti passati, come vuole
la logica, attraverso il dl 79/2015
(articolo ItaliaOggi dell'01.03.2017). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Dalla
Corte dei conti prezioso assist sul taglio.
Dalla Corte dei conti dell'Umbria arriva un prezioso assist
agli enti locali sui tagli alle risorse per il salario
accessorio del personale. Secondo i giudici contabili, è
possibile (e anzi quasi doveroso) disapplicare i criteri di
calcolo indicati dalla Ragioneria generale dello Stato per
quantificare le decurtazioni derivanti dalle cessazioni
intervenute nell'anno precedente. Si tratta di un'apertura
importante, che può tradursi in un insperato incremento
delle risorse disponibili.
Tutto ruota intorno al comma 236 della legge 208/2015, che
ha imposto di contenere il fondo entro il tetto massimo del
2015 e di decurtarlo in ragione delle cessazioni di
personale. Tale obbligo vale nelle more dell'adozione dei
decreti legislativi attuativi della legge Madia e la Corte
dei conti della Puglia ne ha confermato pochi giorni fa la
piena vigenza (parere
20.01.2017 n. 2).
Per il taglio proporzionale alle cessazioni esistono due
metodi di calcolo, quello della Rgs e quello della Corte dei
conti Lombardia (delibera n. 324/2011). Il primo (ribadito
con la circolare n. 12/2016) comporta, però, un
ingiustificato incremento della riduzione, poiché calcola la
riduzione sommando alle cessazioni 2016 anche le cessazioni
2015 (pro quota, ossia meta del loro valore medio annuo).
Il sistema alternativo, più correttamente, tiene conto della
data di cessazione dei dipendenti in considerazione del
diritto dei cessati all'attribuzione del trattamento
accessorio per il periodo di permanenza in servizio
nell'anno solare di cessazione: pertanto, il fondo è ridotto
solo dei ratei stipendiali effettivamente non corrisposti,
rinviando il taglio della rimanente quota all'anno
successivo.
La novità significativa della delibera della Corte dei conti
Umbria è che non si limita a ribadire la vigenza di questo
secondo metodo, ma lo considera preferibile in quanto «più
aderente alla realtà».
Per tale motivo, considerato che il taglio proporzionale
impone sempre il confronto con i presenti nel 2015, in sede
di riclassificazione del fondo 2017 gli enti potranno
utilizzare tale sistema per recuperare l'eventuale maggior
taglio prodotto dal metodo della Rgs nel calcolo dei cessati
del 2016 e aumentare così le risorse disponibili del fondo
(articolo ItaliaOggi del 21.02.2017). |
ENTI
LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Personale,
spesa alleggerita. Possibile escludere dal tetto gli
arretrati dovuti ai legali. Secondo
la Corte conti Puglia devono essere ricompresi tra gli oneri
straordinari.
Gli enti locali possono escludere dal tetto alla spesa di
personale gli arretrati dovuti agli avvocati dell'ente a
titolo di compensi professionali, in quanto nel conto
economico costituiscono «componenti straordinari di costo»,
che devono essere ricompresi tra gli oneri straordinari alla
voce «altri costi».
L'affermazione, contenuta nel recente
parere 13.12.2016 n. 200
della Corte dei Conti Puglia, è importante, oltre che per il
chiarimento puntuale che reca, anche in un'ottica di
sistema.
Infatti, la magistratura contabile pugliese, riprendendo la
linea interpretativa inaugurata della Sezione delle
Autonomie nella delibera n. 16/2016, cerca di porre rimedio
all'effetto distorsivo che il nuovo principio della
competenza potenziata produce nel calcolo della spesa di
personale.
Come ribadisce la stessa Corte Conti Puglia, infatti, anche
nel sistema contabile armonizzato il computo della spesa
deve considerare solo il dato degli impegni in contabilità
finanziaria, quale risulta a consuntivo. L'armonizzazione,
tuttavia, ha modificato la fase dell'impegno che si continua
a registrare nell'esercizio di competenza, ma con
imputazione all'anno di esigibilità. In tale anno, pertanto,
la spesa impegnata risulta incrementata anche delle «quote»
di competenza di anni precedenti (non liquidate in quegli
esercizi) e questo può incidere negativamente proprio sul
rispetto del vincolo del tetto massimo.
L'ente può violare il limite per effetto della registrazione
contabile della spesa, senza che ciò corrisponda ad un
effettivo incremento dei costi di personale. Tale effetto,
invece, non si produce nel conto economico che «corregge»
l'imputazione della spesa impegnata secondo il principio di
competenza economica (registra i costi con modalità simili
alla competenza giuridica della contabilità finanziaria ante dlgs 118).
Come accennato, la Sezione delle Autonomie aveva affermato
lo stesso principio ma in riferimento agli arretrati del
rinnovo contrattuale che nel nuovo sistema gravano per
intero sull'anno di sottoscrizione del contratto, ma che non
si calcolano ai fini del rispetto del tetto per espressa
previsione del limite di cui ai comma 557 e 562 della l.
296/2006.
La novità della delibera della Corte pugliese, dunque, sta
nell'aver ribadito la soluzione anche per gli arretrati di
voci incluse nel vincolo di spesa, così rafforzando
l'indicazione operativa dettata dalle autonomie.
In sostanza, gli enti potranno calcolare la spesa di
personale rettificando il dato della spesa desunto dalla
contabilità finanziaria con la contabilità economica.
D'altronde lo stesso legislatore utilizza tale sistema per
il calcolo degli indici di sana gestione allegati al
bilancio di previsione e al consuntivo. Il nuovo metodo di
calcolo può dunque risultare prezioso, tanto più che il più
recente orientamento della Corte è particolarmente rigoroso
in ordine alle spese da computare nel calcolo ed esclude le
sole voci oggetto di una deroga espressa di legge
(articolo ItaliaOggi del 10.02.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Mini-enti,
più flessibilità sulle posizioni organizzative.
Ai fini del rispetto del tetto sul salario accessorio, è
possibile considerare unitariamente le risorse di bilancio
destinate al finanziamento delle indennità di posizione con
il fondo risorse decentrate.
Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti Piemonte e
agevola i piccoli comuni privi di dirigenza, superando
l'orientamento più restrittivo della Ragioneria generale
dello Stato.
Il comma 236 della legge 208/2015 ha nuovamente
imposto un tetto all'ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento economico accessorio
del personale, anche di livello dirigenziale, delle
pubbliche amministrazioni, che non può superare il
corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è
comunque automaticamente ridotto in misura proporzionale
alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del
personale assumibile ai sensi della normativa vigente.
Al
riguardo, è pacifico che l'obbligo di contenimento si
applichi anche alle indennità di posizione organizzativa (P.o.)
dei comuni privi di dirigenza, benché finanziate con risorse
di bilancio e non con il fondo decentrato (cfr. Corte dei
conti – sezione delle autonomie, deliberazione n. 26/2014,
nonché sezioni regionali di controllo Lombardia n. 123/2016
e Abruzzo n. 58/2016).
Tuttavia, secondo la Rgs, questo
principio imporrebbe anche di applicare il vincolo
separatamente alle risorse che finanziano le P.o. e al fondo
del salario accessorio del restante personale (così la nota
n. 63898 del 2015). Ne deriverebbe l'impossibilità di
compensare eventuali aumenti delle risorse destinate alle
P.o. con riduzioni di (altre) poste del fondo decentrato: di
fatto, l'ente non potrebbe costituire nuove P.o. o aumentare
l'indennità di quelle in carica (anche in caso di
cessazioni, dovendo ridurre le risorse destinate alle P.o.
del valore P.o. cessata).
In forza di tale interpretazione,
per tutto il periodo di durata del vincolo per le (sole) P.o. continuerebbe a valere il divieto di aumento
stipendiale dell'art. 9, comma 1, del dl 78/2010, ormai non
più in vigore: l'indennità di ciascuna P.o. resterebbe
bloccata al valore che aveva nel 2015 (tetto massimo), salva
riduzione dell'indennità di altra po. L'evidente disparità
di trattamento richiedeva un intervento correttivo arrivato
ora con il
parere
29.11.2016 n. 135
della Corte dei conti Piemonte.
Anche nel 2017, dunque, è possibile variare la retribuzione
di posizione delle P.o. in carica o conferire nuovi
incarichi anche se solo previa riduzione di altre poste
iscritte nel fondo risorse decentrate destinato alla
generalità dei lavoratori dell'ente.
Si ricorda che mentre
la costituzione del fondo è atto di competenza unilaterale
dell'ente, le modalità di impiego delle risorse è attribuita
alla contrattazione decentrata. Sarà pertanto necessario
ottenere il consenso delle organizzazioni sindacali
all'operazione che riduce l'accessorio del restante
personale (salvo agire in applicazione dell'art. 40, comma
3-ter, dlgs 165/2001)
(articolo ItaliaOggi del 10.02.2017). |
DOTTRINA E
CONTRIBUTI |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
E. Lo Monte,
Art. 659 c.p.: una fattispecie contro il disturbo delle
persone che finisce per disturbare solo il giudice -
Cassazione Penale, Sez. III, 07.02.2017 n. 5613 (aprile
2017 - tratto da www.giurisprudenzapenale.com).
---------------
L’Autore commenta una recente pronuncia della III sezione
in tema di Disturbo delle occupazioni o del riposo delle
persone (art. 659 c.p.), fattispecie la cui oggettività
giuridica tutelata, secondo un’autorevole tesi dottrinale,
confortata da un concorde orientamento giurisprudenziale,
anche risalente, va individuata nell’ordine pubblico,
considerato nello specifico aspetto della pubblica
tranquillità o della quiete pubblica.
Le disposizioni di cui all’art. 659 c.p. sono finalizzate
alla salvaguardia della quiete pubblica, quale
prospettazione dell’ordine pubblico materiale parametrato,
nel caso di specie, sulla pace pubblica o sulla pacifica
convivenza. Ed infatti, l’ordine pubblico, nella sua
accezione materiale, nel senso di pubblica tranquillità è
assunto ad oggetto di tutela in diverse fattispecie del
codice penale (ad esempio, agli artt. 654, 655, 657, 659,
660) che, non a caso, non presentano particolari problemi di
tipo interpretativo.
Resta il problema della collocazione codicistica di tali
fattispecie, come del resto di molte delle contravvenzioni
all’interno del codice penale. Il percorso argomentativo
svolto dal supremo Collegio conferma questa lettura della
fattispecie criminosa e si muove in linea con precedenti
orientamenti. |
EDILIZIA PRIVATA:
La semplificazione amministrativa dei
regimi edilizi - D.LGS. 25.11.2016 N. 222 (SCIA 2)
(ANCI, marzo 2017).
---------------
Semplificazione amministrativa, maggiore dialogo dei
Comuni con i cittadini e le imprese, interventi di edilizia
più veloci e regole più chiare. Il decreto Madia sulla
semplificazione in materia edilizia (d.lgs. 222/2016,
cosiddetto Scia2) porta con sé un potenziale di alto valore,
soprattutto appunto sulla semplificazione. Un tema sul quale
l’Anci punta molto, cercando di supportare l’evoluzione
delle normative soprattutto nei Comuni più piccoli, dove la
competenza e la propensione all’innovazione è più difficile.
E’ anche in quest’ottica che nasce il sesto quaderno tecnico
dell’Anci, dedicato proprio allo Scia2 e consultabile
gratuitamente sul sito istituzionale dell’Associazione.
Accanto a un necessario inquadramento delle nuove norme
sugli interventi di edilizia nelle città, il quaderno offre
agli amministratori e agli 8 mila Municipi una modulistica
aggiornata su tutti i tipi di adempimento necessari a
seconda della fattispecie di intervento edilizio. Chiarendo,
inoltre, una delle maggiori innovazioni che il decreto
apporta, ovvero quella del regime amministrativo da adottare
per i singoli interventi. Che, in alcuni casi, possono ora
essere effettuati anche senza dare comunicazione al Comune:
l’installazione di pannelli solari e fotovoltaici o la
pavimentazione del giardino condominiale –magari con
installazione di giochi per bambini– sono solo alcuni degli
esempi in tal senso.
L’ambizione del quaderno, dunque, non è solo quella di dare
ai Comuni uno strumento utile a favorire la regolarità di
tutte le procedure. Attraverso la stesura di linee guida
chiare e definite, infatti, si incrementa anche
l’opportunità concreta di potenziare e semplificare il
dialogo tra amministrazione, cittadini e imprese.
Le indicazioni, gli schemi e la modulistica presenti nella
pubblicazione tengono conto anche del nuovo regolamento di
semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche. |
PUBBLICO IMPIEGO:
Affondo populista sulla trasparenza per i dirigenti pubblici
(26.03.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
APPALTI:
Appalti: eterno vai e vieni della norma sullo scorporo dei
costi del personale (25.03.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
PUBBLICO IMPIEGO:
Quello strano no agli obblighi di trasparenza per gli uffici
in staff alla politica (25.03.2017 - link
a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
M. Timo,
Considerazioni sull’ambito di
applicazione della legge 241/1990 (25.03.2017
- tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa; 2.1. I rapporti della legge
241 con altre disposizioni normative: la legge statale; 2.2.
(Segue) la legge regionale; 3. Osservazioni conclusive. |
APPALTI:
S. Tuccillo,
Le raccomandazioni vincolanti dell’ANAC tra ambivalenze
sistematiche e criticità applicative (Riflessioni a margine
del Regolamento ANAC sull’esercizio dell’attività di
vigilanza in materia di contratti pubblici) (22.03.2017
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. Premessa 2. La disciplina normativa e
le interpretazioni possibili 3. Sul potere di autotutela
della stazione appaltante 4. La natura della raccomandazione
vincolante e il rapporto con il potere sanzionatorio 5. Il
Regolamento ANAC sull’esercizio dell’attività di vigilanza
in materia di contratti pubblici: lo “strappo nel cielo di
carta” o l’ennesima conferma dell’esorbitanza dei poteri
dell’Autorità anticorruzione? |
APPALTI SERVIZI:
F. Midiri,
I servizi pubblici locali privi di interesse economico fra
legislatore nazionale e giurisprudenza europea (22.03.2017
- tratto da www.federalismi.it).
---------------
Sommario: 1. I servizi di interesse economico
generale ed i servizi privi di interesse economico nella
recente legislazione 2. Il modello dei SIEG derivato dalla
giurisprudenza europea e la nozione di servizio di interesse
economico generale nel testo unico sui servizi pubblici
locali di interesse economico 3. La nozione di servizio
pubblico locale non di interesse economico che emerge dal
testo unico 4. Le deroghe della giurisprudenza comunitaria
al regime concorrenziale dei SIEG sulla base dei principi di
sussidiarietà e solidarietà 5. Il principio di sussidiarietà
orizzontale come criterio per identificare i servizi privi
di interesse economico ed il loro ambito di operatività. |
PUBBLICO IMPIEGO:
San Remo: reintegrato per vizi di forma uno degli
assenteisti (18.03.2017 - link a
http://luigioliveri.blogspot.it). |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
C. Bianco e F. Radicetti,
Profili normativi e problematici
dell’Accesso civico - Nota a Cons. St., Sez. IV, sentenza
12.08.2016 n. 3631 (Rassegna Avvocatura dello
Stato n. 4/2016).
----------------
SOMMARIO: 1. Cenni sull’origine dell’istituto e
sulla sua introduzione nell’ordinamento italiano - 2.
Diritto d’accesso e accesso civico: presupposti e
coesistenza dei due istituti - 3. Profili problematici per
l’individuazione dei limiti all’accesso civico e rinvio al
soft law quale possibile strumento di soluzione - 4.
Possibile evoluzione dell’istituto. |
ATTI
AMMINISTRATIVI:
A. Contaldo e F. Peluso,
La Posta Elettronica Certificata nella pratica
amministrativa (Rassegna Avvocatura dello
Stato n. 4/2016).
---------------
SOMMARIO: 1. introduzione - 2. La Pec
nell’ordinamento giuridico - 2.1. Cenni sulla PEC
nell’evoluzione della digitalizzazione della P.a. - 2.2.
alcune problematiche giuridiche della PEC - 3. La Posta
Elettronica Certificata nell’ambito internazionale - 4. il
funzionamento del sistema di Posta Elettronica Certificata -
5. i vantaggi derivanti dall’uso della PEC. |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO:
G. Fabrizi,
Scissione ope legis del rapporto organico e
responsabilità del funzionario per il contratto stipulato in
violazione delle norme di contabilità pubblica dell’Ente.
Improponibilità dell’azione ex art. 2041 cod. civ. nei
confronti della P.A. - Nota a Cassazione Civile,
Sez. I, sentenza 04.01.2017 n. 80 (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 4/2016).
---------------
Relativamente all'attività contrattuale condotta
dall'amministratore o funzionario in violazione delle regole
di contabilità in merito alla gestione degli enti locali, si
applica l’art. 23 del d.lgs. n. 66/1989 (oggi confluito
nell’art. 191 del TUEL, d.lgs. n. 267/2000) che prevede
l’imputazione dei relativi effetti alla sfera giuridica del
funzionario e non dell’Ente comunale.
Si realizza una vera e propria frattura o scissione ope
legis del rapporto di immedesimazione organica tra i
suddetti agenti e la Pubblica Amministrazione, con
conseguente esclusione della riferibilità a quest'ultima
delle iniziative adottate al di fuori delle norme di
contabilità pubblica.
Da ciò deriva l’improponibilità dell’azione di
ingiustificato arricchimento ex art. 2041 cod. civ. nei
confronti del Comune. (...continua). |
LAVORI PUBBLICI:
S. Trivelloni,
Attività di protezione civile tra contratti di appalto,
affidamenti in house ed accordi fra pubbliche
amministrazioni ex art. 15, L. 07.08.1990, n. 241 ed art. 6
L. 24.02.1992, n. 225, alla luce dell’entrata in vigore del
d.Lgs. 18.04.2016, n. 50 (Rassegna Avvocatura
dello Stato n. 4/2016).
---------------
SOMMARIO: Premessa - 1. onerosità della
prestazione - 2. requisito soggettivo: nozione di operatore
economico - 3. requisito oggettivo. la deroga di cui agli
artt. 17, 9 e 158 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 - 4. in house
providing - 5. la cooperazione tra soggetti pubblici. |
APPALTI:
G. Gambardella e C. A. Mauro,
Il soccorso istruttorio dopo l’entrata in vigore del D.lgs.
n. 50 del 18.04.2016. Vecchie e nuove problematiche
(Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2016).
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SOMMARIO: 1. Origini del soccorso istruttorio - 2.
I principi del soccorso istruttorio - 3. Tassatività delle
cause di esclusione nel codice degli appalti pubblici, con
particolare riferimento all’analisi degli articoli 46 e 38
dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 18.04.2016 -
4. Conclusioni. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO:
M. Gerardo,
Anticorruzione e trasparenza nella pubblica amministrazione.
Profili giuridici, economici ed informatici (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2016).
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SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. Aspetti della
disciplina della trasparenza strumentali alla prevenzione
della corruzione e degli illeciti nella p.a. - 3. (Segue)
Presupposti affinché la disciplina sulla trasparenza possa
efficacemente operare - 4. “Aspetto statico” dell’attività
rivolta alla prevenzione della corruzione - 5. “Aspetto
dinamico” dell’attività rivolta alla prevenzione della
corruzione - 6. Gestione informatica dei dati. |
APPALTI SERVIZI:
D. Andracchio,
Lo «Stato-Autoproduttore» - Dalle origini giurisprudenziali
alla codificazione dell’in house providing (Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 2/2016).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La cura concreta degli
interessi pubblici e l’ampia discrezionalità della p.a.
nella scelta degli «strumenti»: esternalizzazione,
partenariato pubblico-privato e in house providing. La
sequenza logica “interessi pubblici-mezzi-strumenti” - 3. Le
origini giurisprudenziali dell’in house providing e i
requisiti del «controllo analogo» e della «attività
prevalentemente svolta in favore dell’ente pubblico» - 4. La
dubbia natura dell’in house providing: «ordinarietà» versus
«derogatorietà» - 5. Critica alla «derogatorietà». Le tre
ragioni che giustificano la configurazione dell’in house
providing come modello organizzatorio ordinario: la
incostituzionalità dei limiti all’utilizzo della
autoproduzione, i vincoli di finanza pubblica imposti dal
Patto di Stabilità Interno (P.S.I.) e il principio di
auto-organizzazione amministrativa - 6. L’in house providing
nelle nuove direttive appalti e il processo di «positivizzazione-integrazione»
dei requisiti dell’istituto: il carattere misto della nuova
autoproduzione - 7. I nuovi requisiti del «controllo
analogo» e della «attività prevalente» come elaborati nelle
nuove direttive in materia di appalti e di concessioni:
l’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle
decisioni significative della struttura in house e lo
svolgimento di un’attività pubblica nella misura dell’oltre
80 % - 8. Le fattispecie di autoproduzione disciplinate
nelle nuove direttive in materia di appalti e di
concessioni: in house verticale ed invertito, in house
orizzontale, in house frazionato e la cooperazione
pubblico-pubblico non istituzionalizzata - 9. La «forma
giuridica» dell’in house providing prima e dopo l’adozione
delle direttive europee. Società in mano pubblica,
fondazioni pubbliche e associazioni no profit - 10.
Considerazioni conclusive: le questioni affrontate dalla più
recente giurisprudenza amministrativa in tema di in house
providing e il nuovo Codice degli appalti pubblici. |
APPALTI:
A. Mezzotero e D. Romei,
Gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul
contratto (Rassegna Avvocatura dello Stato n.
2/2016).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La tesi
dell’annullabilità del contratto - 3. La tesi della nullità
del contratto - 4. La tesi dell’inefficacia del contratto -
5. La tesi della caducazione automatica del contratto - 6.
La soluzione accolta dal legislatore - 7. Le sanzioni
alternative 8. I profili risarcitori. |
PUBBLICO IMPIEGO:
F. Scardino,
L’uso illegittimo dell’autovettura di servizio - Nota a
Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 31.03.2016 n. 13038
(Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2016). |
PUBBLICO IMPIEGO:
M. De Paolis,
Reato di concussione per costrizione e per induzione
(Azienditalia n. /2015).
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Il reato di concussione, nella duplice forma della
costrizione e dell’induzione, costituisce un delitto
particolarmente grave in quanto lede il prestigio della PA
con il venir meno delle regole di lealtà dei propri
dipendenti e contemporaneamente danneggia l’integrità
patrimoniale dei soggetti privati che vedono anche coartata
la libertà di espressione. |
EDILIZIA PRIVATA:
M. Panato,
Semplificazione amministrativa: innovazioni, profili
applicativi e orientamenti interpretativi (Azienditalia
n. 11/2015).
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Anche in campo urbanistico ed edilizio il legislatore
tenta, da tempo, di introdurre nuovi meccanismi di
semplificazione amministrativa. In particolare con i decreti
c.d. Sviluppo Italia, Cresci Italia e Sblocca Italia e,
recentissimamente, con la legge n. 124/2015 "Deleghe al
Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni
pubbliche", sono state introdotte nuove norme sul
procedimento amministrativo (tra cui la modifica degli art.
21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990) ed in
materia più prettamente edilizia, con modifiche anche dei
titoli abilitativi.
Altre innovazioni, invece, hanno interessato gli strumenti
ed i metodi di governo del territorio. Da questo sono
derivati nuovi adempimenti per gli enti locali, ma anche
procedimenti (parzialmente) più snelli e la possibilità per
i Comuni di farsi promotori di politiche per il recupero
edilizio. |
ATTI
AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI:
M. De Paolis,
Atto di alta amministrazione, politico e a movente politico
(Azienditalia n. 11/2015).
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Nell’ambito dell’attività svolta dalle Pubbliche
Amministrazioni un momento particolarmente rilevante è
rappresentato dalla nomina degli organi di vertice a cui si
provvede attraverso l’atto di alta amministrazione al quale
si affiancano gli atti politici utilizzati per inviare
direttive e gli atti a movente politico che sono atti
amministrativi al pari degli atti di alta amministrazione. |
APPALTI:
V. Giannotti,
Le tutele del terzo in caso di debiti fuori bilancio:
analisi delle responsabilità (Azienditalia n.
10/2015).
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Spetta al Consiglio comunale il riconoscimento dei debiti
fuori bilancio e in caso di non riconoscimento, si è aperta
nella giurisprudenza civile una dicotomia di soluzioni,
entrambe dettate dalle Sezioni Unite della Cassazione. Il
discrimine nasce dalla tutela riconosciuta al terzo, rivolta
nei confronti dell’Amministrazione a livello sussidiario,
per tutti i debiti nascenti prima delle disposizioni
introdotte nel D.L. n. 66/1989, mentre per i debiti sorti
successivamente la responsabilità è attribuibile al
funzionario o amministratore che li abbia contratti.
Intento dell’articolo è fornire un’adeguata ricostruzione
degli istituti riguardanti i debiti fuori bilancio così come
attualmente delineati dalla giurisprudenza di legittimità,
ivi compreso il recente passaggio anche della giurisprudenza
amministrativa. |
PATRIMONIO:
M. Pollini,
Il contratto di manutenzione degli immobili (Azienditalia
n. 10/2015).
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La vigente normativa in materia di manutenzione degli
immobili da parte della Pubblica Amministrazione è orientata
alla riduzione degli spazi utilizzati e dei relativi costi.
L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), con la Determina
n. 7 del 28.04.2015, ha dettato le Linee guida per
l’affidamento del servizio di manutenzione degli immobili
stessi.
Nel presente lavoro vengono richiamate le principali norme
in materia e, con riferimento alle suddette Linee guida e
con spunti dello scrivente, sono presi in considerazione gli
aspetti più rilevanti della tematica, dalla programmazione
al controllo dell’esecuzione del servizio. |
A.N.AC. (già
AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI) |
INCARICHI PROGETTUALI:
Oggetto: Indicazioni operative a seguito dell'entrata in
vigore del Decreto 02.12.2016, n. 263 del Ministero delle
Infrastrutture e dei Trasporti (Regolamento recante
definizione dei requisiti che devono possedere gli operatori
economici per l'affidamento dei servizi di architettura e
ingegneria e individuazione dei criteri per garantire la
presenza di giovani professionisti, in forma singola o
associata, nei gruppi concorrenti ai bandi relativi a
incarichi di progettazione, concorsi di progettazione e di
idee, ai sensi dell'articolo 24, commi 2 e 5, del decreto
legislativo 18.04.2016, n. 50) (comunicato
del Presidente 22.03.2017 - link a
www.anticorruzione.it). |
APPALTI:
Vigilanza sui contratti pubblici. Pubblicati i
nuovi moduli per la presentazione degli esposti.
Pubblicati i nuovi moduli per la presentazione di esposti in
calce al "Regolamento
sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di
contratti pubblici - regolamento 15.02.2017"
e nella sezione modulistica "Presentazione
di esposti alle vigilanze" (27.03.2017 - link
a www.anticorruzione.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO:
Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione dell’art.
14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti
i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di
direzione o di governo e i titolari di incarichi
dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs.
97/2016 (determinazione
08.03.2017 n. 241 - link a
www.anticorruzione.it).
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Il Consiglio dell’ANAC ha approvato nella seduta
dell’08.03.2017, dopo la consultazione pubblica, le Linee
guida sull’applicazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013
Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di
incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di
governo e i titolari di incarichi dirigenziali, come
modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016.
Alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 97/2016, le
Linee guida forniscono indicazioni e chiarimenti
sull’attuazione delle misure di trasparenza contenute
nell’art. 14, oggi riferite ad un novero di soggetti più
ampio rispetto al testo previgente.
Le Linee guida entrano in vigore il giorno successivo alla
pubblicazione sulla G.U. e sostituiscono integralmente la
delibera numero 144 del 07.10.2014. |
APPALTI: Bando
ko nonostante preannuncio. Delibera
anac.
Un bando per appalto integrato pubblicato dopo l'entrata in
vigore del decreto 50/2016 è illegittimo anche se la
stazione appaltante aveva effettuato la preinformazione
prima del 19.04.2016.
Lo precisa l'Autorità nazionale anticorruzione con la delibera
01.03.2017 n. 212
che, a seguito di una segnalazione dell'Associazione delle
società di ingegneria (Oice), ha affrontato il tema della
legittimità di un bando per appalto integrato emesso
dall'Azienda ospedaliera di Padova.
Secondo l'Oice la procedura doveva ritenersi non più
applicabile al momento della pubblicazione del bando e del
disciplinare di gara, ancorché la pubblicazione fosse stata
proceduta da un avviso di preinformazione. A questa tesi si
era contrapposta la stazione appaltante segnalando che il
bando era comunque legittimo perché preceduto da un avviso
di preinformazione pubblicato precedentemente all'entrata in
vigore del codice (19.04.2016).
La materia era regolata
dall'art. 216, comma 1, del dlgs 50/2016 che prevede che il
nuovo Codice si applichi alle procedure e ai contratti per
le quali i bandi e avvisi con cui si indice la procedura di
scelta del contraente sono pubblicati successivamente alla
sua entrata in vigore.
La delibera chiarisce che «per avvisi
pubblicati con una delle forme di pubblicità obbligatorie
indicate dall'articolo 66 del dlgs 163/2006 di cui al
comunicato Anac dell'11.05.2016 devono intendersi gli
avvisi che la stazioni appaltanti hanno l'obbligo di
pubblicare all'atto di indizione di una procedura di scelta
del contraente». Pertanto, dice la delibera Anac, «la
pubblicazione dell'avviso di preinformazione comunque non è
obbligatoria ed è necessaria soltanto qualora le s.a.
ricorrano alla facoltà loro concessa di ridurre i termini di
ricezione delle offerte».
Quindi, dal momento che la gara il
cui bando di indizione è pubblicato in data successiva
all'entrata in vigore del dlgs 50/2016, esso ricade
nell'ambito di applicazione del nuovo codice anche se il
relativo avviso di preinformazione è stato pubblicato prima
del 19.04.2016
(articolo ItaliaOggi del 18.03.2017). |
APPALTI: Sanzioni
Anac solo per i casi più gravi. Codice appalti. L’effetto
delle raccomandazioni.
Ispezioni, alert e
sanzioni (salate) per chi non si adegua. Ma anche una sorta
di "bollino blu" per premiare gli enti capaci di
distinguersi per la buona amministrazione.
Sono il "bastone e
la carota" al centro del nuovo regolamento (regolamento
15.02.2017 sull’esercizio dell’attività di vigilanza in
materia di contratti pubblici) con cui
l’Anticorruzione disciplina la «raccomandazione vincolante»:
uno dei poteri di vigilanza più delicati concessi dal nuovo
codice appalti all’Autorità di Raffaele Cantone.
In ballo c’è la possibilità per l’Anac di intervenire in
tempo (quasi) reale sulla gestione delle gare pubbliche,
intimando ai funzionari di correggere in corsa gli atti o le
procedure illegittime. Sotto la minaccia di sanzioni
pesantissime per chi non si adegua alla "raccomandazione":
la forchetta oscilla tra 250 e 25mila euro, a carico dei
dirigenti pubblici. Un potere molto rilevante, mirato a dare
strumenti efficaci (e tempestivi) per combattere corruzione
e illegalità nel mercato (da oltre cento miliardi all’anno)
degli appalti. Di qui la scelta di delimitarne in modo
rigoroso gli ambiti di applicazione. La «raccomandazione
vincolante» scatterà soltanto a fronte del rischio di gravi
violazioni delle norme. Inoltre, bisognerà garantire sempre
il contraddittorio con stazioni appaltanti e dirigenti
coinvolti dal procedimento.
Il regolamento, che ha recepito molte osservazioni mosse dal
Consiglio di Stato, stabilisce innanzitutto che la vigilanza
prenderà il via sulla base dell’attività ispettiva dell’Anac,
ma anche tenendo conto delle segnalazioni inviate agli
uffici di Via Minghetti a Roma, oltre che nei casi in cui le
Pa verranno colte in fallo sull’applicazione dei protocolli
di «vigilanza collaborativa» o rifiuteranno di adeguarsi a
un parere di «precontenzioso vincolante».
Precise anche le direttive sulle segnalazioni: dovranno
essere presentate seguendo il modello allegato al
regolamento (preferibilmente tramite Pec) e dovranno essere
firmate. Quelle anonime saranno scartate. Mentre nel caso di
denunce frutto della soffiata di un «whistleblower» verrà
garantita la tutela dell’identità del dipendente.
L’attivazione del potere di raccomandazione è limitata alle
violazioni più gravi. Tra queste: l’affidamento di contratti
senza bando quando le norme prescrivono di dare pubblicità
all’appalto; la firma del contratto senza attendere i
canonici 35 giorni dall’aggiudicazione («stand still»); la
mancata esclusione di concorrenti privi dei requisiti morali
per contrattare con la Pa; il frazionamento artificioso
dell’appalto per ridurre l'importo al di sotto delle soglie
che impongono la gara; l’avvio di appalti di partenariato
senza trasferimento di rischi operativi sui privati; l’abuso
di ricorso alle deroghe previste in caso di urgenza o dalle
norme di protezione civile.
Fuori dai casi più gravi l’Anac potrà adottare un atto di
raccomandazione non vincolante, dunque privo di sanzioni.
Quanto ai tempi, il procedimento dovrà partire entro 60
giorni dalla segnalazione e nessun "fascicolo" potrà essere
aperto a contratto già avviato. Nel corso del procedimento
sono previste audizioni e deposito di memorie, oltre che la
possibilità di ispezioni.
Gli enti destinatari di una raccomandazione vincolante
avranno 15 giorni per comunicare all’Anac le loro
intenzioni. Per chi non si adegua scatteranno le multe. Ma
sono previsti anche i casi di segnalazione in positivo delle
Pa che hanno messo in pratica «buone pratiche
amministrative»: una sorta di "bollino blu" rilasciato
dall’Authority (articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
LAVORI PUBBLICI:
Ribassi, come scoprire se lo sconto è congruo.
Parere dell'Anac sui criteri per determinare le percentuali.
La verifica della congruità di un ribasso presentato
nell'ambito di lavori affidati in house da una
concessionaria, deve essere effettuata rispetto ad appalti
omogenei dal punto di vista sia del prezzario applicato, sia
delle tipologie di lavorazioni oggetto del contratto da
affidare.
È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione
nel
parere sulla normativa 11.01.2017 n. 8 - rif. AG 53/2016/AP
.
Il parere dell'Autorità nasce da una richiesta avanzata
dall'Enac (Ente nazionale per l'aviazione civile) un anno fa
con la quale veniva chiesto il parere dell'organismo di
regolazione vigilanza in merito al criterio da seguire nella
determinazione della percentuale di ribasso in una
fattispecie di affidamento diretto di lavori ad impresa
collegata ex art. 218 dlgs n. 163/2006, allora vigente e
oggi riprodotto nell'art. 7 del dlgs n. 50/2016.
Nel caso specifico era prevista una remunerazione in tariffa
secondo le previsioni del contratto di programma, mediante
applicazione di un ribasso, che possa ritenersi congruo, a
partire dal prezzario di riferimento, aggiornato ai sensi
dell'art. 133, comma 8, del dlgs n. 163/2006 e appositamente
validato da un organismo di certificazione.
Le percentuali
di ribasso proposte dal concessionario erano pari a 21,29%,
23,69% e 25,67% e si articolavano per soglie di valore
dell'appalto calcolate prendendo in considerazione i ribassi
ottenuti in gare per infrastrutture di volo, con importo a
base d'asta superiore a 150 mila euro, aggiudicate e contrattualizzate nel periodo 2010-2014, i cui lavori si
erano conclusi entro il 2014, in 14 aeroporti italiani con
Wlu (work load unit) superiore a 3 milioni l'anno.
Ad avviso dell'Enac le percentuali non sarebbero state
congrue se confrontate con le medie di ribasso calcolate
dalla stessa Enac sui ribassi registrati negli ultimi cinque
anni sul territorio nazionale (che darebbero dati più alti
del 3, 8 e 3 per cento) e da qui la richiesta di parere
formulata ad Anac per capire quale potesse essere il
corretto metodo di calcolo per la determinazione delle
percentuali.
Il parere dell'Anac premette una considerazione generale
relativa alla variabilità dei ribassi presentati in gara che
sono «chiaramente influenzati in modo decisivo dalla base
d'asta dell'appalto, la quale è a sua volta frutto
dell'applicazione del prezzario di riferimento alle singole
lavorazioni che compongono l'appalto stesso». Nel merito, le
indicazioni fornite dall'Autorità sono nel senso di fare
riferimento a precedenti appalti in cui sia stato utilizzato
lo stesso prezzario e, considerando nel caso specifico che
il prezzario era stato aggiornato da poco, occorreva
«particolare cautela nel confrontare ribassi la cui entità
dipende ovviamente dal prezzario di riferimento applicato».
Andava quindi ben verificato il grado di confrontabilità.
Particolare attenzione andava prestata anche alla
significatività del campione di riferimento e alla tipologia
di lavori oggetto degli appalti esaminati: dovevano essere
appalti analoghi, in termini di lavorazioni oggetto del
contratto, a quelle dell'affidamento in esame. Infine, il
metodo di calcolo deve sempre garantire un numero
significativo di osservazioni ma, al tempo stesso, non
troppo ampio, al fine di consentire l'utilizzo di dati tra
loro confrontabili
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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OGGETTO: proposta di affidamento diretto ad impresa
collegata di lavori per la realizzazione di infrastrutture
aeroportuali – congruità del ribasso da applicare al
prezzario adottato –- richiesta di parere.
AG 53/2016/AP
Infrastrutture aeroportuali – affidamento diretto a impresa
collegata – ribasso – criterio di calcolo di ribasso
congruo.
La percentuale di ribasso da applicare agli affidamenti
diretti di lavori aeroportuali ex art. 7 del d.lgs. n.
50/2016 è calcolata correttamente quando è determinata
tenendo conto di un insieme di appalti omogeneo sia sotto il
profilo del prezzario applicato che della tipologia di
lavorazioni oggetto del contratto.
Occorre altresì che l’arco temporale di riferimento dei dati
utilizzati per il calcolo sia sufficiente a garantire un
numero significativo di osservazioni ma, al tempo stesso,
non troppo ampio, al fine di consentire l’utilizzo di dati
tra loro confrontabili.
Articolo 7 del d.lgs. 50/2016 |
QUESITI & PARERI |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla divisione ereditaria di
edifici ricadenti in zona agricola che comporti la
realizzazione di edifici plurifamiliari come causa di
esclusione della lottizzazione abusiva - Comune di Montopoli
di Sabina (Regione Lazio,
nota 28.03.2017 n. 159695 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Oggetto: Parere in merito alla verifica della legittimità
delle preesistenze nell'ambito dei procedimenti di
accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi
dell'art. 167 del d.lgs. 42/2004 (Regione Lazio,
nota 28.03.2017 n. 159563 di prot.). |
URBANISTICA:
Oggetto: Parere in merito all'ammissibilità della
procedura di variante urbanistica di cui all'art. 8 del
d.P.R. 160/2010 per gli esercizi che svolgono attività di
somministrazione di alimenti e bevande (Regione Lazio,
nota 28.03.2017 n. 158854 di prot.). |
EDILIZIA PRIVATA:
Le distanze tra edifici e le superfici coperte.
DOMANDA:
Definizione di superficie coperta, definizione di distanze,
definizione di bow window. Le NTA del PRG vigente di
questo comune definiscono la superficie coperta quale la
massima sezione orizzontale del fabbricato con esclusione di
scale a giorno, di aggetti a giorno, di bow window e
di porticati purché in tutti i casi menzionati ci si trovi
senza sovrastante costruzione e interessanti non più di ml.
1,50.
Inoltre, sempre le NTA, stabiliscono che le distanze dalle
strade e dai confini devono essere misurate dall'ingombro
della superficie coperta, così come sopra definita, quindi
ad esclusione delle scale a giorno, di aggetti a giorno, di
bow window, ecc. …..
Si chiede se possa essere positivamente valutata una istanza
nella quale viene proposto un “bow window”, ovvero un
allargamento aggettante verso l’esterno di un solo piano del
fabbricato rispetto la muratura perimetrale portante per
1,50 mt., lasciando libera tale sporgenza da sovrastanti e
sottostanti costruzioni in rispetto delle NTA sopra
riportate.
Tale allargamento aggettante sarebbe comunque parte
integrante degli ambienti interni dell’edificio, senza
distinzione o separazione tra la parte “aggettante – bow
window” e la rimanente parte interna delle stanze.
In conseguenza di ciò il fabbricato proposto avrebbe una
parte, ovvero quella definita “bow window”, che oltre
a non essere calcolata ai fini della superficie coperta,
sarebbe anche posta ad una distanza dai confini e dalle
strade inferiore ai 5 metri.
RISPOSTA:
Si ritiene opportuno premettere che per “bow window”
si intende quel tipo di balcone chiuso sporgente per uno o
più piani dalla facciata di un edificio, e interamente
unito, mediante una grande apertura, all’ambiente interno
corrispondente, del quale costituisce parte integrante.
Ciò premesso si rileva che le distanze previste dall’art. 9
del DM n. 1444 sono in genere ritenute inderogabili
trattandosi di norme di interesse pubblico sotto il profilo
igienico-sanitario e tali sono state considerate anche in
giurisprudenza per quanto riguarda in particolare i bow
windows (v. TAR Lombardia, Milano, n. 2187/2011).
E’ stato inoltre affermato che per il calcolo della distanza
legale tra gli edifici è necessario valutare la tipologia
dei manufatti: al riguardo con l’ordinanza del n. 424 del
27.01.2010, il Consiglio di Stato ha stabilito, in
sostanziale conferma di quella cit. del TAR, che ai fini del
calcolo delle distanze legali dai confini: “devono
computarsi le parti dell’edificio quali scale, terrazze e
corpi avanzati che, seppur non corrispondano a volumi
abitativi coperti, siano destinati ad estendere e ampliare
la consistenza del fabbricato; mentre non sono computabili
le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione
meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di
limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie
e simili”.
Il Consiglio di Stato ha anche ribadito, richiamandosi alla
sentenza della Cassazione Civile n. 19544/2009, che il
limite di tre metri previsto dall’art. 873 c.c. come
distanza minima dalle costruzioni, non può essere derogato
da fonti normative secondarie quali i regolamenti comunali.
Resta invece ammissibile per queste fonti secondarie “stabilire
distanze maggiori” ai sensi del comma 7 e 9 dell’art.
873 c.c. seconda parte e/o anche determinare “punti di
riferimento, per la misurazione delle distanze, diversi da
quelli indicati dal codice civile, escludendo taluni
elementi della costruzione dal calcolo delle più ampie
distanze previste in sede regolamentare”.
Viene infatti precisato che gli oggetti presenti
sull'edificio non possono considerarsi meri elementi
decorativi, al contrario, estendendo il volume edificatorio,
e che quindi costituiscono corpo di fabbrica e, come tali,
da dover essere conteggiati nel calcolo della distanza (link
a
www.ancirisponde.ancitel.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Parità di genere per tutti. Anche
nei comuni sotto i 3 mila abitanti. Il principio non ha
valore programmatico ma è precettivo per gli enti.
Un ente locale con popolazione inferiore a 3 mila abitanti
deve conformarsi, nella composizione della giunta comunale,
alla vigente normativa in tema di parità di genere? È
ammissibile la delega a un consigliere comunale?
La legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha
disciplinato la materia per i soli comuni con popolazione
superiore ai 3 mila abitanti stabilendo, affinché sia
rispettato il principio della parità di genere, un preciso
quorum del 40%; per i comuni al di sotto di tale soglia
demografica occorre richiamare l'art. 6, comma 3, del
decreto legislativo n. 267/2000.
Tale articolo prevede che gli statuti comunali e provinciali
stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari
opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di
entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non
elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti,
aziende ed istituzioni da essi dipendenti. La citata
disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma 1, della
legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo
«promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla
espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi».
Ai sensi del comma 2 dell'art. 1 della citata legge n. 215
del 2012 è previsto che gli enti locali, entro sei mesi
dall'entrata in vigore della legge stessa, adeguino i propri
statuti e regolamenti alle disposizioni del comma 3
dell'art. 6 del richiamato Tuel. L'art. 2, comma 1, lett. b)
della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma
2, del decreto legislativo n. 267/2000, disponendo che il
sindaco ed il presidente nella provincia nominino i
componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari
opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di
entrambi i sessi».
La citata normativa va letta alla luce dell'art. 51 della
Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n.
1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al
principio della promozione delle pari opportunità tra donne
e uomini. Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta
fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le
disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46,
comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n.
215/2012.
Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari
opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione,
dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n.
198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non
hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo,
finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di
entrambi i sessi, in condizioni di pari opportunità, alla
vita istituzionale degli enti territoriali.
Ferma restando
la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'ente,
le richiamate disposizioni normative sulla parità di genere
risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di
una espressa previsione statutaria. Risulterebbe, infine,
ammissibile la delega (interorganica) a un consigliere
comunale a condizione che il suo contenuto sia coerente con
la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce e
purché sia sancita all'interno dello statuto nell'ambito
dell'autonomia esercitabile ai sensi dell'art. 6 del decreto
legislativo n. 267/2000
(articolo ItaliaOggi del 17.03.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Riunioni senza ostacoli.
Vietato sindacare la richiesta di convocazione.
Il potere sostitutivo del prefetto garantisce
i diritti dei consiglieri.
Quando viene attivato il potere sostitutivo del prefetto
previsto dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n.
267/2000?
Nel caso di specie, alcuni consiglieri comunali di minoranza
hanno depositato presso il comune una mozione ed una
interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione
ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n.
267/2000 e, a causa del mancato riscontro della richiesta nei
termini indicati dalla legge, hanno chiesto l'attivazione
del potere sostitutivo del prefetto ex art. 39, comma 5, del
citato Tuel.
Ai sensi della normativa regolamentare sul
funzionamento del consiglio comunale è previsto che le
interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo
dell'ente dovranno essere iscritte all'ordine del giorno in
occasione della convocazione della prima adunanza del
consiglio successiva alla loro presentazione. Inoltre, la
medesima fonte normativa prevede che la convocazione
richiesta ex citato art. 39, comma 2, «deve contenere in
allegato, per ciascun argomento indicato da iscrivere
all'ordine del giorno, il relativo schema di deliberazione».
Ad avviso del sindaco, in base al combinato disposto delle
citate norme regolamentari, sarebbe escluso che la richiesta
di convocazione formulata da un quinto dei consiglieri possa
avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo
ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal
relativo «schema di deliberazione».
Orbene, il diritto ex
art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge
con la previsione severa ed eccezionale della modificazione
dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto in caso di mancata convocazione
del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve
di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n.
4278). L'orientamento che vede riconosciuto e definito «il
potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del
Consiglio medesimo» come «diritto» dal legislatore è,
quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia,
Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124).
Circa la questione della sindacabilità dei motivi che
determinano i consiglieri a chiedere la convocazione
straordinaria dell'assemblea, secondo l'orientamento
prevalente al presidente del Consiglio spetta solo la
verifica formale della richiesta prescritto numero di
consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La
giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando
che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da
parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del
consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che
la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti
legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché
spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica
circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle
questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto
che, in quanto illecito, impossibile o per legge
manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in
nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno»
(Tar Piemonte, n. 268/1996, Tar Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Il Tar Sardegna, con la sentenza n. 718 del 2003, ha
respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex
art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto,
ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non poteva
esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale,
«essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel
n. 267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani
dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato
argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere
discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba
rinviare la discussione (questione sospensiva) Peraltro,
l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e
regolamentare dei comuni e delle province la disciplina
delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle
mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo
proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte,
che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Al
riguardo, qualora l'intenzione dei proponenti non sia
diretta a provocare una delibera in merito del consiglio
comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato
ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42,
comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri
nella competenza del Consiglio comunale in qualità di
«organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo»
anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando
nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono
comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la
dizione legislativa che parla di «questioni» e non di
deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere
che la trattazione di argomenti non rientranti nella
previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba
necessariamente essere subordinata alla successiva adozione
di provvedimenti da parte del consiglio comunale. Sulla base
di tali argomentazioni, pertanto, il prefetto è tenuto alla
applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5,
del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a
voler provvedere alla convocazione del richiesto consiglio
comunale.
Nella fattispecie in esame, l'ente potrebbe
valutare l'opportunità di modificare la normativa
regolamentare dal momento che la stessa, limitando all'esame
delle «deliberazioni» la possibilità di accedere
all'istituto previsto dall'art. 39, comma 2, citato,
restringe il perimetro dei diritti riconosciuti ai
consiglieri comunali
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Consiglieri, accesso 2.0.
Possono entrare nei sistemi informatici interni.
Il Viminale conferma: non ci sono motivi per
respingere la richiesta.
Un consigliere comunale può chiedere di accedere al sistema
informatico interno, anche contabile, dell'ente?
Premesso che la materia dovrebbe trovare apposita disciplina
regolamentare, secondo il consolidato orientamento del
ministero dell'interno, «non paiono sussistere elementi
ostativi all'accoglimento della richiesta».
In merito, il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, ha
affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione
del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e
notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che
i consiglieri comunali sono tenuti al segreto ai sensi
dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000; in tal senso
anche il Tar Lombardia, Brescia che, con sentenza 01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre ai
consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto
degli atti che intendono visionare giacché trattasi di
informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in
conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la previa visione dei vari protocolli (dei quali
il protocollo informatico rappresenta una innovazione
tecnologica prevista, tra l'altro, dall'art. 17 del decreto
legislativo n. 82/2005 e successive modificazioni - codice
dell'amministrazione digitale) è necessaria per potere
individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad
esercitare l'accesso vero e proprio.
Risulta utile richiamare il parere del 22.02.2011 con
il quale la Commissione per l'accesso ai documenti
amministrativi ha osservato che, ai sensi della vigente
normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003)
ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo
informatico, a cui possono liberamente accedere i
consiglieri comunali, i quali, pertanto, possono prendere
visione in via informatica di tutte le determinazioni e le
delibere adottate dall'ente; ciò in ottemperanza al
principio generale di economicità dell'azione
amministrativa, che riduce allo stretto necessario la
redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi.
Rafforzano l'orientamento favorevole già espresso i seguenti
ulteriori pareri della commissione per l'accesso ai
documenti amministrativi:
- parere del 03.02.2009, con il quale è stato precisato
che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema
informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti
di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che
favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni
richieste senza aggravare l'ordinaria attività
amministrativa»;
- parere del 16.03.2010 con il quale è stata ribadita
l'accessibilità del consigliere comunale al sistema
informatico dell'ente tramite utilizzo di apposita password,
ove operante, ferma restando la responsabilità della
segretezza della password di cui il consigliere è stato
messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel);
- parere del 25.05.2010 con cui la Commissione ha rimarcato
il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo
informatico
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2017). |
CONSIGLIERI COMUNALI: OSSERVATORIO
VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota.
Va ricompreso ai fini del calcolo del quorum.
Quando la legge vuole escludere il primo
cittadino lo dice espressamente.
È legittima la deliberazione con la quale il consiglio
comunale ha approvato una modifica allo statuto dell'ente
considerando anche il voto del sindaco nel computo del
quorum funzionale previsto dall'art. 6, comma 4, del decreto
legislativo n. 267/2000?
Premesso che non si riscontrano sul punto univoci
orientamenti giurisprudenziali (cfr. Tar Puglia sentenza
1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e
Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), l'art. 6, comma 4 del Tuel dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi
consigli con il voto favorevole dei due terzi dei
consiglieri assegnati. Le disposizioni di cui al presente
comma si applicano anche alle modifiche statutarie».
La normativa ha previsto un «procedimento aggravato» per
l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative
modifiche, sia disponendo che, in caso di mancata
approvazione dei due terzi dell'assemblea, si debba ripetere
la votazione entro 30 giorni, sia prescrivendo che lo
statuto sia approvato se ottiene per due volte, in sedute
successive, il voto favorevole della maggioranza assoluta
dei membri assegnati al collegio. L'approvazione dello
statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo
«fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.), comporta
che su di esso converga il più elevato numero di consensi
attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi
da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente,
la previsione di maggioranze speciali disponendo che i
quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni,
siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta
non dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto
e delle sue modifiche comporta che in sede di prima
votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole
dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il
sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi
dell'art. 37 del citato testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso
computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel
quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha
indicato espressamente usando la formula «senza computare
a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia»
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2017). |
APPALTI:
Procedimento per il pagamento dei debiti fuori bilancio
di Roma Capitale di competenza della Gestione Commissariale
(parere
04.08.2016-369240, AL 25906/16 - Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2016). |
LAVORI PUBBLICI:
Applicabilità e misura della penale contrattuale in caso
di informazione di interdittiva antimafia sopravvenuta nel
corso dell’esecuzione o a ultimazione dei lavori (parere
27.06.2016-309204, AL 48015/2015 - Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2016). |
APPALTI SERVIZI:
La revisione dei prezzi negli appalti di servizi (parere
11.05.2016-229719, AL 10949/16 - Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2016). |
PATRIMONIO:
Spending review: la riduzione del 15% dei canoni per le
locazioni passive anche alle ipotesi in cui proprietario
dell’immobile sia una p.a. (parere
09.05.2016-226080, AL 37970/2012 - Rassegna
Avvocatura dello Stato n. 3/2016). |
NEWS |
EDILIZIA PRIVATA: Scure
sull'impresa senza Scia. L'omissione costa l'arresto e
sanzioni fino a 2.582 euro. INDUSTRIA/ La stretta (anche per
chi è senza bollino antincendio) nel dlgs sui Vigili del
fuoco.
Stretta sull'omissione della presentazione Scia per l'avvio
di attività d'impresa industriale soggette ai controlli di
prevenzione incendi. L'omissione della presentazione della
Scia o della richiesta di rinnovo periodico della conformità
antincendio costerà al titolare dell'impresa l'arresto fino
a un anno e la sanzione pecuniaria da 258 euro a 2.582 euro.
Tutto questo è previsto nello schema di dlgs concernente le
nuove funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili
del fuoco (Atto
del Governo n. 394 - Schema di decreto
legislativo recante modifiche al decreto legislativo
08.03.2006, n. 139, concernente le funzioni e i compiti del
Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché al decreto
legislativo 13.10.2005, n. 217, concernente l'ordinamento
del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, e
altre norme per l'ottimizzazione delle funzioni del Corpo
nazionale dei vigili del fuoco), esaminato in prima lettura dal consiglio dei
ministri il 23.02.2017, quindi trasmesso alla
presidenza del consiglio lo scorso 28 febbraio.
Il decreto è
attuativo dell'articolo 8 della legge 07.08.2015, n. 124,
che ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti
legislativi in materia di riorganizzazione
dell'amministrazione dello Stato. Un provvedimento di
particolare rilevanza che, in coerenza con la visione
sistematica recata dalla delega, procede alla revisione e al
riassetto della normativa che disciplina le funzioni e i
compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco in materia
di soccorso pubblico, prevenzione incendi e protezione
civile.
Dall'atto autorizzatorio alla Scia. Con il dpr 151/2011, è
stata raccordata la disciplina sui procedimenti di
prevenzione incendi con l'avvenuta introduzione della
segnalazione certificata di inizio attività (Scia), in modo
da garantire certezza giuridica al quadro normativo e
coniugare l'esigenza di semplificazione con quella di tutela
della pubblica incolumità.
Le modifiche all'articolo 16
dello schema di dlgs al vaglio di palazzo Chigi, a partire
dalla rubrica del medesimo, puntano ad attuare i cambiamenti
intervenuti nelle procedure di prevenzione incendi. Si è
passati infatti da un regime di tipo autorizzatorio, dove il
rilascio del certificato di prevenzione incendi, a valle di
una specifica procedura amministrativa, costituiva
condizione necessaria per l'esercizio delle attività
soggette a un regime di controlli a posteriori esercitati a
seguito della presentazione della Scia.
Chiunque, nelle
certificazioni e dichiarazioni rese ai fini della
presentazione della Scia o della richiesta di rinnovo
periodico della conformità antincendio, attesti fatti non
rispondenti al vero è punito con la reclusione da tre mesi a
tre almi e con la multa da 103 a 516 euro. La stessa pena si
applica a chi falsifica o altera le certificazioni e
dichiarazioni medesime.
Qualora l'esito dei controlli rilevi la mancanza dei
requisiti previsti dalla normativa di prevenzione incendi,
la conseguenza non è più il mancato rilascio del certificato
di prevenzione incendi e, quindi, l'impossibilità di avviare
un'attività non in sicurezza dal punto di vista antincendio,
ma l'adozione di provvedimenti di urgenza per la messa in
sicurezza delle opere relative a un'attività già avviata a
seguito della Scia.
In relazione a insediamenti industriali e attività di tipo
complesso, il comando dei vigili del fuoco può acquisire le
valutazioni del comitato tecnico regionale per la
prevenzione incendi, ed avvalersi, per le visite tecniche,
di esperti in materia designati dal comitato stesso
(articolo ItaliaOggi del 04.03.2017). |
APPALTI: Appalti,
18 mesi per «salvare» i vecchi progetti.
Lavori pubblici. Le correzioni al nuovo Codice.
Più tempo per svuotare i cassetti delle
Pa dai vecchi progetti definitivi messi in fuorigioco
dall’entrata in vigore del nuovo codice.
È questa la novità
di maggior rilievo tra quelle previste dalla nuova bozza del
decreto correttivo della riforma appalti che il governo deve
licenziare entro il 19 aprile.
Tra aggiustamenti puramente formali e cambi di rotta più
sostanziali il provvedimento nato per correggere in corsa le
criticità emerse in fase di prima attuazione cresce di
dimensioni mentre assume un assetto via via più stabile. La
bozza è stata arricchita con i suggerimenti arrivati dal
mercato nelle consultazioni e affronta le ultime limature in
vista del giro di pareri. Ora siamo arrivati a 119 articoli
che impattano su un codice che ne conta 220.
Insieme al subappalto, la revisione del divieto di appalto
integrato (possibilità di affidare l’ultimo miglio della
progettazione all’impresa che esegue i lavori) è uno dei
punti chiave del Correttivo. L’ultima versione conferma
alcune “sblindature”. Si potranno assegnare lavori su
progetto definitivo (anziché esecutivo) per le opere ad alto
tasso di tecnologia, per le urgenze, per le manutenzioni, in
nuovi casi di partenariato pubblico-privato e per le
urbanizzazioni.
La novità è che acquista più spazio la “sanatoria” concessa
alle amministrazioni spiazzate dall’entrata in vigore
repentina del Dlgs 50/2016 che impone di assegnare i lavori
solo al termine dell’intero sviluppo del progetto, con
l’obiettivo di concedere meno margini possibili alla
lievitazione dei prezzi a cantieri in corso. Per evitare la
“morte in culla” di decine di progetti (anche se un numero
preciso non c’è o non è stato comunicato) il governo ha
deciso di riaprire i termini chiusi da un giorno all’altro
10 mesi fa.
Le Pa che in questo periodo hanno custodito il proprio
progetto definitivo avranno ora 18 mesi di tempo (la bozza
precedente si fermava a un anno) per metterlo in gara senza
bisogno di finirlo. Il termine partirà dall’entrata in
vigore del Correttivo, dunque la finestra dovrebbe rimanere
aperta fino a ottobre 2018. Sul subappalto viene confermato
lo spostamento del tetto del 30%. Non si calcolerà più
sull’intero ammontare del contratto ma solo sui lavori
prevalenti. Il Correttivo non incide però sulla natura del
subappalto. Concedere la possibilità di assegnare quote di
lavori a valle del contratto principale resta una facoltà
delle Pa. Mentre rimane in piedi l’obbligo di escludere il
titolare del contratto per carenze di requisiti del
subappaltatore.
L’ultima bozza contiene poi anche altre novità. Tra queste
l’addio, per i costruttori, alla possibilità di ottenere
l’attestato Soa di qualificazione al mercato pubblico in
prestito da un’altra impresa; l’obbligo, per le Pa, di
emettere i certificati di pagamento entro 45 giorni dal
rilascio dei Sal; l’aumento del numero di imprese da
invitare alla procedura negoziata senza bando; la
possibilità di ricorrere ai general contractor solo oltre
100 milioni.
Nei prossimi giorni il Correttivo è atteso al valzer dei
pareri –Commissioni parlamentari, Consiglio di Stato,
Conferenza unificata– prima di tornare a Palazzo Chigi per
l’ok finale. Soprattutto in Parlamento non si annuncia un
cammino facile. Stefano Esposito, relatore che ha svolto un
ruolo da protagonista nella riforma, si riserva di «studiare
il testo finale», ma non manca di anticipare un giudizio:
«Negativo, in base a quello che ho letto in questi giorni».
«Su questa riforma ho messo la faccia –attacca il senatore
Pd– se qualcuno ha deciso di smantellarla lo farà senza di
me». Valutazioni più prudenti arrivano dalla Camera, dove
comunque si annuncia un esame rigoroso del rispetto dei
criteri di delega. «Ci concentreremo sui 5-10 punti chiave
–spiega la relatrice in pectore Raffaella Mariani (Pd)–:
centralità del progetto, subappalto, lavori in house,
qualificazione delle stazioni appaltanti» (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI
LOCALI: Riforma
p.a., parola ai cittadini. Valuteranno i risultati. Ma
occhio a possibili distorsioni. Come
la legge Brunetta anche il dlgs Madia punta sulla customer
satisfaction degli utenti.
Obbligatoria la soddisfazione dei cittadini come elemento
della valutazione dei risultati delle pubbliche
amministrazioni.
È questo uno degli elementi di maggiore spicco della riforma
Madia del dlgs 150/2009 in tema di riconoscimento dei premi
alle amministrazioni più produttive, che ha iniziato con
l'invio alla Camera (Atto
del Governo n. 391 - Schema di decreto
legislativo recante modifiche al decreto legislativo
27.10.2009, n. 150, in attuazione dell'articolo 17, comma 1,
lettera r), della legge 07.08.2015, n. 124), avvenuto mercoledì, scorso il suo
complesso iter verso l'approvazione definitiva, prevista per
la primavera.
Il testo della riforma introduce nella «legge Brunetta» un
nuovo articolo 19-bis, espressamente dedicato alla
partecipazione diretta dei cittadini al processo di
valutazione.
I cittadini singoli o associati, quindi, avvalendosi di
strumenti di rilevazione della soddisfazione da attivare
obbligatoriamente, potranno dire la loro sul grado di
efficienza delle amministrazioni, anche comunicandolo
direttamente ai soggetti preposti, cioè gli organismi
indipendenti di valutazione.
Questi potranno stabilire le modalità di contatto con i
cittadini, ma soprattutto dovranno tenere conto di risultati
delle segnalazioni ricevute, per determinare la spettanza e
l'ammontare dei premi di risultato.
Molti tra i primi commentatori hanno enfatizzato questo
aspetto della riforma di Marianna Madia, mettendo l'accento
sulla circostanza che finalmente i cittadini potranno, se
non proprio «dare le pagelle» ad amministrazioni e
dipendenti, almeno condizionare in modo significativo i
risultati dei processi di valutazione.
A ben vedere, tuttavia, la riforma Madia è più un
rafforzamento di quanto già esiste che una vera e propria
novità.
Sul rilievo delle indagini di soddisfazione ai fini della
rilevazione dei risultati si era già soffermato proprio il
dlgs 150/2009, che all'articolo 8, comma 1, lettera c),
dispone che il sistema di valutazione si basi sulla
«rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari
delle attività e dei servizi anche attraverso modalità
interattive».
Molti ricorderanno, probabilmente, anche il progetto
«Mettiamoci la faccia», attivato nel 2010 dalla Funzione
pubblica, per volere dell'allora ministro Renato Brunetta.
Si trattava delle famose «faccine», gli emoticons di colore
verde, giallo e rosso, da mettere a disposizione dei
cittadini su appositi monitor nelle sedi degli uffici, per
spingerli ad esprimere i loro giudizi sulla capacità delle
varie amministrazioni di risolvere i loro problemi.
Il progetto, per la verità, non ha avuto moltissima fortuna.
Le amministrazioni ad aderire furono poche e da diversi
anni, ormai, risulta sostanzialmente chiuso.
Da qui l'idea della riforma Madia, che è appunto nella
sostanza un tentativo di rilanciare l'idea della «customer
satisfaction» come strumento di valutazione, tuttavia già
esistente, anche se non operante.
Proprio l'esperienza passata dovrebbe insegnare che la
semplice previsione astratta dell'obbligo di utilizzare la
rilevazione del grado di soddisfazione dei cittadini non è
sufficiente, perché le amministrazioni davvero le
utilizzino. Il testo della riforma Madia è nella forma
certamente più imperativo, ma l'articolo 8, comma 1, lettera
c), del dlgs 150/2009 (per altro, non modificato dalla
riforma) era già di per sé molto chiaro.
Non si può fare a meno di sottolineare, comunque, che la
riforma Madia pare troppo attenta al «come» si valuta e non
a «cosa» valutare. Giusto chiedere anche ai destinatari
dell'azione amministrativa una valutazione, ma occorrerebbe
intendersi su cosa.
Il sistema, poi, rischia di scontare distorsioni derivanti
da forme organizzate di cittadini. Come è noto esiste il
sito
www.romafaschifo.com, un sito organizzatissimo nel
rilevare e stigmatizzare i tanti problemi della vita nella
Capitale. È facile immaginare che la comunità organizzata
che alimenta il sito potrebbe influenzare in modo decisivo
(e probabilmente non certo benevolo) qualsiasi indagine di
rilevazione del gradimento. Simili distorsioni potrebbero
replicarsi presso altri enti. I sistemi di valutazione
dovrebbero allora essere capaci di fare una «tara» dei
giudizi, ma mancano totalmente elementi e standard operativi
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2017). |
PATRIMONIO: Fondo
amianto al rush finale. Domande online entro il 30/3. Per il
2017 ci sono 6 mln. I chiarimenti del ministero
dell'ambiente. Finanziamenti solo per gli edifici pubblici.
Gli incarichi di progettazione già conferiti non sono
ammissibili, ciascun ente può presentare una sola domanda di
finanziamento, la progettazione deve riferirsi ad edifici
pubblici di proprietà e destinati allo svolgimento
dell'attività dell'ente.
Sono questi alcuni dei chiarimenti che il ministero
dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha
fornito in merito alla procedura di accesso al finanziamento
della progettazione preliminare e definitiva di interventi
di bonifica di edifici pubblici contaminati da amianto di
cui all'art. 56, comma 7, della legge 28.12.2015, n. 221.
Il fondo ha una dotazione finanziaria di 5,536 milioni di
euro per l'anno 2016 e di 6,018 milioni di euro per ciascuno
degli anni 2017 e 2018, per uno stanziamento complessivo di
oltre 17 milioni di euro. La procedura di accesso telematico
al fondo rimarrà a disposizione sul sito
www.amiantopa.minambiente.ancitel.it fino al 30.03.2017.
Accesso consentito alle pubbliche
amministrazioni
Possono fare domanda di accesso al Fondo le amministrazioni
pubbliche con riferimento ad interventi relativi ad edifici
pubblici di proprietà e destinati allo svolgimento
dell'attività dell'ente. Ciascun ente può presentare una
sola domanda di partecipazione in ragione d'anno. La domanda
può essere riferita anche ad interventi in uno o più edifici
o unità locali.
La domanda di ammissione al finanziamento
potrà essere riferita ad interventi relativi a singoli
edifici, all'interno della stessa struttura, nonché più
unità locali all'interno dello stesso edificio, purché
rientranti nei requisiti di ammissibilità. Ciascun
intervento riferito al singolo edificio o alla singola unità
locale sarà autonomamente valutato ai fini dell'ammissione
in graduatoria e, pertanto, la relativa richiesta di
finanziamento dovrà essere inserita separatamente
all'interno dell'applicativo.
Finanziabili i costi di progettazione fino
a 15 mila euro
Il fondo è finalizzato a finanziare i costi per la
progettazione preliminare e definitiva degli interventi di
bonifica mediante rimozione e smaltimento dell'amianto e dei
manufatti in cemento-amianto su edifici e strutture
pubbliche insistenti nel territorio nazionale. Sono
finanziabili i costi di progettazione preliminare e
definitiva degli interventi fino al limite massimo di 15
mila euro a domanda per singola pubblica amministrazione,
anche se riferita a interventi relativi a più edifici o
unità locali.
Per progettazione preliminare e definitiva si
intendono i livelli di progettazione inferiori al progetto
esecutivo e comunque finalizzati e necessari alla redazione
dello stesso. Il finanziamento può coprire integralmente o
parzialmente i costi di progettazione preliminare e
definitiva degli interventi. Non sono invece finanziabili
gli eventuali costi relativi alla posa in opera del
materiale sostitutivo.
Priorità a edifici collocati in aree
sensibili
Sono considerati prioritari gli interventi relativi ad
edifici pubblici collocati all'interno, nei pressi o
comunque entro un raggio non superiore a 100 metri da asili,
scuole, parchi gioco, strutture di accoglienza
socio-assistenziali, ospedali, impianti sportivi, nonché gli
interventi relativi ad edifici pubblici per i quali esistono
segnalazioni da parte di enti di controllo sanitario e/o di
tutela ambientale e/o di altri enti e amministrazioni in
merito alla presenza di amianto.
Avranno priorità anche gli
interventi relativi ad edifici pubblici per i quali si
prevede un progetto cantierabile in 12 mesi dall'erogazione
del contributo, nonché gli interventi relativi ad edifici
pubblici collocati all'interno di un Sito di interesse
nazionale e/o inseriti nella mappatura dell'amianto ai sensi
del decreto ministeriale n. 101 del 18.03.2003.
Domanda telematica entro il 30.03.2017
Gli enti interessati a ricevere il finanziamento devono
registrarsi, compilare e presentare il modulo di domanda
esclusivamente attraverso l'utilizzo dell'applicativo
disponibile sul portale dedicato raggiungibile all'indirizzo
www.amiantopa.minambiente.ancitel.it
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Sisma,
incarichi non cumulabili. Evitare conflitti di interesse fra
imprese e progettisti. I rilievi del
presidente Anac sul decreto legge relativo agli interventi
urgenti per i terremotati.
Evitare possibili conflitti di interesse fra direttore dei
lavori e impresa per gli interventi di ricostruzione dopo
terremoto del Centro Italia; mantenere il principio di non
cumulabilità di incarichi; negativo il ripristino
dell'appalto integrato anche se per ragioni di urgenza ha
una sua logica.
Sono questi alcuni dei passaggi più significativi
dell'intervento del 28 febbraio del presidente dell'Autorità
nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, alla
commissione ambiente della camera sul decreto-legge
09.02.2017 n. 8 recante «nuovi interventi urgenti in favore
delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016 e
del 2017».
Cantone ha premesso che gli interventi posti in essere dal
decreto sono giustificati «da un lato dalla logica
dell'emergenza connessa al sisma e dall'altro dal clamore
mediatico, che hanno reso necessario intervenire sulla
disciplina prevista dal codice degli appalti».
In generale il presidente dell'Authority ha espresso una
valutazione positiva su tutti gli aspetti disciplinati dal
decreto che, fra le altre cose prevede che il commissario
straordinario promuova un piano per dotare, in tempi brevi,
i comuni interessati dagli eventi sismici di studi di
microzonazione sismica di livello III, sulla base di
incarichi conferiti a esperti iscritti o che abbiano
presentato domanda di iscrizione all'elenco speciale dei
professionisti.
Il decreto prescrive inoltre che l'affidamento degli
incarichi di progettazione, per importi inferiori alle
soglie di rilevanza europea, avvenga mediante procedure
negoziate con almeno cinque professionisti iscritti
nell'elenco speciale. Il testo stabilisce poi che i comuni e
le province interessate, in luogo dei soggetti attuatori,
possano predisporre ed inviare i progetti degli interventi
di ricostruzione pubblica al commissario straordinario.
Proprio su questo profilo (affidamenti) si è soffermato
Cantone evidenziando l'importanza di prevedere
l'individuazione di esperti per le operazioni di controllo e
di assicurare un minimo di rotazione tra questi.
Sulla disposizione che consente la trattativa privata senza
bando (ammessa in ragione della sussistenza di condizioni di
estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili
dall'amministrazione aggiudicatrice che non consente di
rispettare i termini per le procedure aperte o per le
procedure ristrette o per le procedure competitive con
negoziazione), Cantone nota che la disposizione «dovrebbe
servire a sbloccare la fase di emergenza anche se non si è
capito perché non sono state applicate le deroghe previste
dal codice dei contratti».
Rispetto alla costruzione delle scuole e al ripristino
dell'appalto integrato, il presidente Anac ha evidenziato
che «si ripristina un istituto che il codice ha fatto bene
ad escludere; tuttavia la necessità dell'appalto integrato
ha senso in una logica del tutto eccezionale».
Sulla disposizione inerente alla non cumulabilità degli
incarichi e l'incompatibilità tra direttore dei lavori e gli
incarichi avuti rispetto alla ditta esecutrice negli ultimi
tre anni, Cantone ha precisato che l'unico controllo
possibile nell'attuale sistema è quello del direttore dei
lavori e che va mantenuta l'incompatibilità anche perché non
deve essere il direttore dei lavori a scegliere l'impresa.
Per Cantone è importante scoraggiare questi legami anche
perché se non c'è legame tra direttore e imprese si può
garantire una maggiore partecipazione alle imprese. Vi è
lavoro per molti progettisti e imprese, ha concluso Cantone,
occorre approfittare dell'occasione per far crescere il
tessuto imprenditoriale soprattutto di quelle zone
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
INCARICHI PROGETTUALI: Servizi
di ingegneria, vietati accordi quadro.
Nella nuova bozza del decreto correttivo del codice
appalti.
Nel work in progress del decreto correttivo del codice dei
contratti pubblici spunta il divieto di accordi quadro per
servizi di ingegneria e architettura; un anno di tempo in
più per mandare in appalto i progetti definitivi approvati
entro il 19.04.2016; sale a 15 il numero delle imprese da
invitare nelle procedure negoziate per i lavori. Sono queste
alcune delle novità contenute nel nuovo testo dello schema
di decreto correttivo del decreto 50.
Va però precisato, che la nuova versione non sembra essere
del tutto consolidata, anche se dalla sua lettura ci si può
fare una prima idea dell'orientamento rispetto alle
numerosissime proposte di modifica della bozza avanzate in
sede di consultazione pubblica (durata cinque giorni dal
venerdì 17 al mercoledì 22 febbraio). Poco rilievo ha avuto,
infatti, l'approvazione dello schema in via preliminare
avvenuta il 24 febbraio «salvo intese», una formula che
consente ai tecnici di continuare a lavorare, come
effettivamente sta avvenendo senza sosta.
Con tutta probabilità di modifiche ne arriveranno altre; poi
si dovrà vedere cosa uscirà dai pareri parlamentari, dal
Consiglio di stato e dalla conferenza unificata.
In sede di parlamentare è emerso che i relatori che
seguirono la legge delega e il decreto delegato (Raffaella
Mariani e Stefano Esposito) hanno già informalmente
rappresentato la volontà di emettere un parere congiunto.
Nel merito sono state già avanzate delle forti perplessità
su alcuni punti (nel dibattito seguito all'audizione del
ministro Delrio) che per adesso il testo in circolazione
sembra però confermare.
È il caso della disciplina dell'appalto integrato per il
quale due modifiche sembravano essere state aggiunte
rispetto alla versione posta in consultazione: l'obbligo di
motivare, nella determina a contrarre, i casi di netta
prevalenza tecnologica o innovativa e di estrema urgenza che
consentono di affidare i lavori sulla base del progetto
definitivo, nonché la possibilità di mandare in gara i
progetti già approvati al 19.04.2016 fino a un anno dopo
(si deve intendere un anno dopo l'approvazione del decreto
correttivo quindi entro, presumibilmente, fine aprile 2018).
Sempre per l'appalto integrato un'ulteriore apertura viene
prevista per le opere di urbanizzazione a scomputo che potrò
essere quindi essere affidate sul progetto definitivo.
Un'altra disposizione introdotta dall'ultima versione
riguarda la materia dei prezziari: si chiarisce che per
definire il costo dei materiali da costruzione e degli
impianti si utilizzano i prezziari regionali aggiornati
annualmente con l'accortezza che quelli in vigore al 31
dicembre si possono utilizzare per ulteriori sei mesi se il
progetto posto a base di gara è stato approvato entro il 30
giugno.
Ancorché soggetto ad una valutazione politica, il nuovo
schema prevede inoltre l'inapplicabilità della disciplina
degli accordi quadro agli incarichi di ingegneria e
architettura, strumento che invece nelle direttive non
limitazioni di sorta. Salirebbe inoltre a 15 il numero delle
imprese da invitare nelle procedure negoziate per
l'affidamento di lavori
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ATTI AMMINISTRATIVI:
Semplificazioni, primi passi. Bene la conferenza di servizi
abbreviata ma le Pa monitorate sono ancora poche.
Dopo 11 tentativi di riforma in 27 anni, dalla legge Bassanini a oggi,
decolla una conferenza di servizi tutta nuova, approvata, in attuazione
della delega della legge Madia sulla Pa, con il decreto 127/2015.
Sono passati 7 mesi dall’entrata in
vigore, lo scorso 29 luglio, e si può tentare un primo bilancio del decollo
del nuovo strumento che dovrebbe tagliare drasticamente i tempi di
approvazione di progetti pubblici e privati, infrastrutturali e industriali.
Sulla carta, ci sono in effetti soluzioni che dovrebbero sciogliere molti
dei nodi passati: la «conferenza semplificata» (senza riunione) diviene la
modalità ordinaria per ridurre nettamente numero e complessità delle
“convocazioni”; il silenzio-assenso dovrebbe consentire di superare la
trappola della “non decisione” che ha sempre rallentato i processi
decisionali; il «rappresentante unico» sarà il solo soggetto abilitato a
esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la posizione di tutte
le Pa rappresentate; i termini temporali divengono certi, fra 45 e 90
giorni, con il taglio dei tempi morti e del labirinto delle convocazioni; il
ruolo crescente dell’informatica dematerializza la conferenza.
Va aggiunto che il silenzio-assenso, autentico grimaldello che azzera le
meline delle amministrazioni inerti, si applicherà, sia pure con tempi
leggermente più lunghi, anche alle amministrazioni di tutela ambientale,
paesistica, culturale, di salute pubblica (con l’eccezione dei casi previsti
da norme Ue), con il risultato di abbattere un altro dei grandi fattori di
resistenza a una chiusura delle conferenze in tempi certi e rapidi.
Ma tutto questo funzionerà quando imprese e cittadini proponenti progetti
scenderanno nella battaglia quotidiana contro la burocrazia dei tempi
infiniti? Ha cominciato a funzionare? Un primo monitoraggio lo ha svolto
l’Ufficio semplificazione del dipartimento Funzione pubblica, responsabile
dell’attuazione della norma. Il quadro si può riassumere così: dove le
amministrazioni locali si sono attivate, dove hanno svolto anche raccolta
dati, la conferenza di servizi «modello Madia» sta già funzionando. È un
dato importante perché conferma che gli strumenti messi in campo hanno una
loro robusta efficacia.
I numeri in possesso della Funzione pubblica vanno in questa direzione: su
199 conferenze convocate nel periodo agosto 2016-gennaio 2017 da 23 enti
locali che hanno trasmesso i dati, 162 sono andate con la corsia veloce
della conferenza preliminare. Significa oltre l’80 per cento. Un buon
risultato di sicuro, considerando che i tempi blindati per chiudere questo
tipo di conferenza è di 45 giorni. La Funzione pubblica aggiunge che di
queste 199 conferenze monitorate 87 si sono già concluse.
Anche i casi specifici segnalati dalla Funzione pubblica (alcuni sono
riportati nell’articolo in basso) raccontano la messa in moto di esperienze
positive: l’ottimo esempio della Regione Sardegna, con le istruzioni
impartite il 02.08.2016 che hanno confermato l’investimento avviato in
precedenza sul funzionamento degli sportelli unici per le attività
produttive, sulla piattaforma telematica unica per la gestione delle
pratiche e delle conferenze e hanno inserito vecchie esperienze virtuose nel
nuovo modello. Il risultato accentua gli spetti positivi: su 918 conferenze
convocate nella Regione Sardegna da agosto 2016 424 sono già concluse con
esito positivo e 36 con esito negativo. Su un campione di 307 conferenze,
sempre in Sardegna, il 96% sono avvenuto con la forma «semplificata».
Bisogna subito aggiungere, per evitare di dare un quadro distorto ed
eccessivamente ottimistico, che le amministrazioni più solerti a inviare i
dati sono certamente anche quelle che si sono attivate per prime con la
nuova conferenza e che resta vasta, viceversa, la “zona d’ombra” che ancora
non si riesce a monitorare o in cui, più semplicemente, le amministrazioni
pubbliche sono rimaste inattive o fanno resistenza al nuovo.
Non possiamo ancora sapere cosa ci sia in questa zona d’ombra, anche se
persistono lamentele di imprese danneggiate dal ripetersi delle vecchie
meline che fanno pensare a resistenza ancora molto diffuse: permessi di
costruire per cui il parere della Soprintendenza arriva oltre i termini e
viene ugualmente acquisito dal comune (che avrebbe dovuto certificare il
silenzio-assenso); allungamento dei tempi -che sarebbero di 45 giorni dalla
ricezione- da parte del comune per sottoporre progetti in area vincolata al
parere della commissione edilizia e della Sovrintendenza; ritardi nell’invio
all’impresa proponente della convocazione della conferenza quando proprio il
rispetto dei tempi dovrebbe essere il segno più forte del nuovo corso.
Uno degli obiettivi che il governo si è dato è di accelerare la formazione
dei funzionari pubblici incaricati di sovrintendere a queste procedure
usando anche i Pon Governance e Formazione. L’altro obiettivo è di estendere
il monitoraggio rapidamente e di coinvolgere sempre più anche le imprese e
le loro associazioni. In questa difficile sfida del decollo della nuova
conferenza di servizi, anche in collegamento con la «Scia 2», la
segnalazione di difficoltà, resistenze, anomalie è certamente utile per dare
impulso alla messa a regime e per sbaragliare quelle resistenze che ancora
si annidano nella interpretazione della norma
(articolo
Il Sole 24 Ore del 02.03.2017 - tratto da
www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Sismabonus
più difficile in casa. Di fatto interventi possibili
sull’intero edificio ma raramente in un appartamento.
Immobili. L’agevolazione prevista dalla legge di Bilancio ha
trovato attuazione con le linee guida che sono state rese
note ieri.
Con la legge
di Bilancio 2017, approvata il 21.12.2016, veniva
sancito il ruolo del bonus antisismico, oggi detto “Sismabonus”,
come opportunità per stimolare un piano volontario dei
cittadini, con forti incentivi statali, di valutazione e
prevenzione nazionale del rischio sismico degli edifici.
Il decreto ministeriale del Mit, attivo a partire ieri, è lo
strumento attuativo che istituisce le linee guida e indica
le modalità per l’attestazione dell’efficacia degli
interventi da parte di professionisti abilitati.
Le linee guida inserite nel decreto affrontano il tema
della classificazione del rischio sismico delle costruzioni
esistenti con un nuovo approccio, che va a coniugare da una
parte il rispetto del valore della salvaguardia della vita
umana (mediante i livelli di sicurezza previsti dalla
vigenti norme tecniche per le costruzioni) e dall’altra la
considerazione delle possibili perdite economiche e delle
perdite sociali (in base a robuste stime convenzionali
basate anche sui dati della ricostruzione post sisma Abruzzo
2009).
Le stesse linee guida consentono di attribuire a un edificio
una specifica classe di rischio sismico, mediante un unico
parametro che tenga conto sia della sicurezza sia degli
aspetti economici. Sono state individuate otto classi di
rischio sismico: da A+ (meno rischio), ad A, B, C, D, E, F e
G (più rischio). La nomenclatura è affine a quella adottata
in ambito comunitario per definire la prestazione energetica
di edifici o elettrodomestica.
Tra le spese detraibili per la realizzazione degli
interventi finalizzati alla riduzione della classe di
rischio sismico, sia su singoli immobili che su condomini
vengono incluse anche le spese che dovranno essere sostenute
per ottenere la classificazione e verifica sismica degli
immobili fatte da parte di professionisti abilitati.
Cosa bisogna fare per accedere all’incentivo:
-
il proprietario che intende accedere al beneficio, incarica
un professionista della valutazione della classe di rischio
e della predisposizione del progetto di intervento;
-
il professionista individua la classe di rischio della
costruzione nello stato di fatto prima dell’intervento;
- il professionista progetta l’intervento di riduzione del
rischio sismico e determina la classe di rischio della
costruzione a seguito del completamento dell’intervento;
- il professionista assevera i valori delle classi di rischio
e l’efficacia dell’intervento;
-
il proprietario può procedere ai primi pagamenti delle
fatture ricevute;
- il direttore dei lavori e il collaudatore statico attestano
al termine dell’intervento la conformità come da progetto.
Va sottolineato che il “sismabonus” non è cumulabile con
agevolazioni spettanti per le medesime finalità, sulla base
di norme speciali per interventi in aree colpite da eventi
sismici.
Per i soli lavori condominiali, viene prevista la
possibilità di cedere la detrazione fiscale alle imprese
esecutrici o a soggetti privati ma con esclusione esplicita
degli istituti di credito e degli intermediari finanziari.
È ammessa a favore del cessionario che riceve il credito la
facoltà di successiva rivendita dello stesso beneficio.
Si deve però considerare che, a differenza degli altri
interventi di ristrutturazione edilizia o di
riqualificazione energetica, dove tecnicamente è possibile
operare su singole unità immobiliari anche in un contesto
“condominiale”, l’intervento di messa in sicurezza
antisismica risultata essere difficilmente praticabile in
una analoga condizione immobiliare. Sembra infatti
complicato immaginare un intervento che migliori la classe
sismica di un immobile, che per sua natura è collegato
strutturalmente ad un altro, senza coinvolgere quest’ultimo.
Le linee guida sono sicuramente perfettibili, ma si tratta
comunque di un importante cambio di passo sia per i
professionisti che per la società civile nell’approccio al
rischio sismico. Con un periodo di affinamento progressivo e
un riscontro sereno e obiettivo a seguito dell’attuazione si
potranno sicuramente migliorare alcuni elementi che però ad
oggi non diminuiscono la fondamentale portata del
provvedimento (articolo Il Sole 24 Ore del 02.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Seminterrati
abitabili in Lombardia. Leggi
regionali. Approvata la legge che consente l’agibilità di
porzioni immobiliari interrate con adeguati sistemi di
illuminazione e ricambio di aria.
Tutti giù per terra.
Con la legge regionale approvata martedì dal Consiglio
regionale lombardo (progetto di legge 258, presentato da
Fabio Altitonante nel 2015) si aprono prospettive
decisamente ampie per chi decide di usare come abitazioni i
seminterrati.
La norma, in attesa di pubblicazione sul Burl e non ancora
in vigore, ha superato la presentazione di ben 46
emendamenti (ne sono stati approvati solo alcuni, di cui
alcuni incisivi di Iolanda Nanni del M5S e di Viviana
Beccalossi di F.d’I.) e prevede, in sostanza, che nei
seminterrati recuperati si potranno realizzare uffici,
appartamenti e attività commerciali.
Il seminterrato viene definito come il piano di un edificio
anche solo parzialmente interrato e il cui soffitto si trova
a una «quota superiore» rispetto al terreno in aderenza
all’edificio» (anche solo di pochi centimetri). È prevista
un’altezza minima del locale di 2,40 metri.
Non occorre, però, che ci siano finestre: «La novità -dice Altitonante- è che le norme di aeroilluminazione potranno
essere garantite anche con impianti e attrezzature
tecnologiche». Quindi anche un locale quasi completamente
sotterraneo potrà ospitare alloggi, negozi o uffici, purché
esistano impianti di illuminazione e di riciclo dell’aria,
nonché igienico-sanitari, sufficienti a rispettare le norme
vigenti. I Comuni devono inviare alle Asl copia del
certificato di agibilità in modo che possano essere fatti
tempestivamente i controlli.
Il recupero non è soggetto a preventiva adozione di piano
attuativo o permesso di costruire; se sono previste opere
edili si chiederà il normale titolo edilizio del caso,
altrimenti basterà la comunicazione preventiva al Comune.
I Comuni, entro 120 giorni dalla legge, potranno limitare
gli ambiti territoriali dove effettuare gli interventi per
esigenze di tutela paesaggistica, rischio idrogeologico e
difesa del suolo. Trascorsi i 120 giorni potranno ugualmente
intervenire in caso di alluvioni o a seguito specifiche
analisi di rischio idrogeologico. Una volta scelta la
destinazione d’uso, questa non potrà essere più cambiata per
dieci anni.
La norma riguarda i seminterrati già realizzati alla data di
entrata in vigore della legge, posti in edifici che siano
serviti da opere di urbanizzazione primaria. Attenzione:
trascorsi cinque anni dall’ultimazione, anche i seminterrati
in edifici costruiti dopo la legge potranno essere
regolarizzati. Quindi, dato che il seminterrato come tale
non fa volumetria, sfuggirebbe “ex post” ai limiti imposti
dai Comuni. I quali avrebbero però un rimedio: inserire
nelle norme urbanistiche la previsione del computo
volumetrico dei seminterrati una volta resi agibili.
«La legge è impostata come una liberalizzazione e non come
una sanatoria edilizia -precisa Achille Colombo Clerici,
presidente di Assoedilizia.- E consente di andare incontro
ai bisogni delle famiglie». Di fatto, è difficile verificare
un uso irregolare di fatto di questi locali precedente alla
norma.
Qualche problema di adattamento si avrà in condominio: per
l’uso più intenso degli spazi comuni (scale e androni), per
la necessaria revisione delle tabelle millesimali e per gli
eventuali limiti contenuti nei regolamenti condominiali
contrattuali (articolo Il Sole 24 Ore del 02.03.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dirigenti
con esclusività. L'avvocato civico non può fare altri
lavori. Risposta del Cnf a una questione posta
dall'Associazione dei comuni.
Dirigenti dell'avvocatura civica solo con vincolo di
esclusività. In caso contrario, scatta la cancellazione
dall'elenco speciale degli avvocati dipendenti di enti
pubblici e la perdita dell'incarico.
Lo afferma il Consiglio nazionale forense, con la
nota
28.02.2017 n. 28109 di prot. all'Associazione nazionale che
riunisce i comuni italiani, in risposta all'interpretazione
data dall'Anci dell'art. 1, comma 221, della legge n.
208/2015.
La legge di Stabilità 2016 prevede infatti che possa essere
attribuito l'incarico dirigenziale ai dirigenti
dell'avvocatura civica senza il vincolo di trattazione
esclusiva degli affari legali dell'ente. Quindi, il
professionista è libero di accettare anche un altro incarico
dirigenziale. Tale disposizione si scontra però con il nuovo
ordinamento forense (legge n. 247/2012), che all'art. 23
prevede il vincolo di esclusività quale condizione
«necessaria e inderogabile» ai fini dell'iscrizione
nell'albo degli avvocati.
L'interpretazione di Anci e Cnf si
scontrano in particolare sulla prevalenza o meno della legge
forense rispetto a quanto previsto dalla legge di Stabilità.
Secondo il Consiglio nazionale, l'art. 23 della legge
247/2012 «è norma speciale in quanto deroga al regime delle
incompatibilità tra pubblico impiego ed esercizio della
professione di avvocato dalla stessa legge disciplinato». Di
conseguenza, la norma prevale sulla legge di Stabilità del
2016. Per cui, afferma il Cnf, «il venir meno del requisito
dell'esclusività non consente la permanenza del dipendente
nell'elenco speciale annesso all'albo professionale degli
avvocati». Secondo Anci, al contrario, la previsione di cui
all'art. 1, comma 221, della legge n. 208/2015 «si porrebbe
in rapporto di specialità rispetto alla disciplina generale»
contenuta nel nuovo ordinamento forense, «per cui il
soggetto potrebbe conservare l'iscrizione nell'elenco
speciale e, conseguentemente, lo jus postulandi».
Il
Consiglio nazionale, a suffragio della propria tesi,
richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 91/2013,
che si fonda sul «consolidato orientamento della Corte di
cassazione, che attribuisce alla deroga prevista» dal
vecchio e dal nuovo ordinamento forense «carattere di norma
eccezionale, stante appunto la sua natura derogatoria
rispetto al principio generale di incompatibilità».
Nella
stessa sentenza viene ribadito, sottolinea il Cnf, che «gli
avvocati dipendenti di enti pubblici sono abilitati alla
trattazione degli affari legali dell'ente stesso, a
condizione che siano incardinati in un ufficio legale
stabilmente costituito e siano incaricati in forma esclusiva
dello svolgimento di tali funzioni». L'ente deve quindi
costituire un ufficio legale autonomo nell'ambito della
propria pianta organica e inquadrare gli addetti all'ufficio
legale «in via esclusiva allo svolgimento delle funzioni
legali di competenza, in piena libertà e autonomia».
Inoltre, prosegue il parere del Cnf, la natura speciale
della norma contenuta nella riforma forense, e quindi la sua
inderogabilità, è confermata anche dallo stesso comma 221,
«con particolare riguardo alla esplicita clausola di
esclusione dell'applicabilità della previsione di cui
all'art. 1, comma 5 della legge n. 190/2012, che consente
per l'effetto una deroga al principio della rotazione degli
incarichi dirigenziali nei settori di amministrazione
particolarmente esposti alla corruzione, ove le dimensioni
dell'ente non consentano di rispettarlo».
La norma contenuta
nella legge di Stabilità, conclude il Cnf, non può quindi
essere interpretata «nel senso di consentire una deroga
ai suddetti requisiti diretti ad assicurare l'indipendenza e
la libertà dell'avvocato»
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Dipendenti
p.a., reintegra zoppa. Il decreto sul pubblico impiego
arriva in parlamento.
La reintegra assicurata ai dipendenti pubblici in caso di
licenziamento illegittimo dalla riforma Madia dimentica il
coordinamento con le disposizioni che obbligano ad applicare
la stessa disciplina prevista per il lavoro privato, nel
quale non è più prevista.
Lo schema di decreto correttivo approvato dal consiglio dei
ministri e appena depositato alla Camera per i pareri
(Atto
del Governo n. 393 - Schema di decreto
legislativo recante modifiche e integrazioni al testo unico
del pubblico impiego, di cui al decreto legislativo
30.03.2001 n. 165)
interviene sulla complessa vicenda dell'applicazione della
cosiddetta «tutela reale» contro i licenziamenti
illegittimi, un tempo assicurata sia ai dipendenti pubblici,
sia a quelli privati assunti da imprese con più di 15
dipendenti.
A seguito della riforma Fornero (legge 92/2012)
e del dlgs 23/2015, come è noto, la tutela reale,
consistente nella reintegrazione, è stata di fatto
eliminata, in particolare per i dipendenti assunti
successivamente alla vigenza della riforma del Jobs act. Si
è posto il problema dell'estensione di queste riforme al
lavoro pubblico, anche per la circostanza che non è mai
stato emanato il decreto di «armonizzazione» previsto sin
dal 2012.
La titolare di palazzo Vidoni, Marianna Madia, ha
sempre affermato che per i dipendenti pubblici dovesse
continuare ad applicarsi l'articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori. In realtà, si è scatenata la solita querelle
interpretativa, sia in dottrina, sia in giurisprudenza,
anche per le pronunce contraddittorie della Cassazione.
Infatti, prima gli ermellini hanno affermato che la riforma Fornero si applica anche al lavoro pubblico, poi lo hanno
negato. Lo schema di riforma Madia risolve il problema. Non
con una conferma dell'applicazione dell'articolo 18 nel
testo antecedente alla riforma Fornero (soluzione indicata
da alcune pronunce della Cassazione, ma oggettivamente molto
criticabile perché giunge a negare la vigenza di una norma
solo per una parte dei suoi destinatari), bensì con
l'introduzione di una vera e propria disciplina nuova.
Si
prevede, quindi, che «il giudice, con la sentenza con la
quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna
l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel
posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria
commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il
calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al
periodo dal giorno del licenziamento fino a quello
dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore
abbia percepito per lo svolgimento di altre attività
lavorative.
Il datore di lavoro è condannato, altresì, per
il medesimo periodo, al versamento dei contributi
previdenziali e assistenziali». Se la disposizione,
introdotta nel corpo dell'articolo 63, comma 2, del dlgs
165/2001 avrà il merito di fare chiarezza sulla questione,
tuttavia lo schema di decreto, se non corretto nei passaggi
successivi all'approvazione in consiglio dei ministri,
rischia di lasciare strascichi di incertezza interpretativa.
Infatti, lo schema non abolisce, come sarebbe necessario, la
previsione dell'articolo 51, comma 2, del medesimo dlgs
165/2001, ai sensi del quale «La legge 20.05.1970,
n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica
alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei
dipendenti».
Proprio tale norma, che prevede, come si nota,
un'estensione automatica al lavoro pubblico delle norme
dello Statuto dei lavoratori e anche delle loro modifiche, è
all'origine dei contrasti interpretativi ricordati prima e
alla base della più corretta visione, secondo la quale le
modifiche intervenute in questi anni sono da considerare
operanti anche per i dipendenti pubblici.
Allo scopo di
eliminare ogni possibile ulteriore margine di incertezza, è
indispensabile, quindi, che il testo finale del decreto di
riforma del dlgs 165/2001 abolisca o modifichi l'art. 51,
comma 2, in modo da armonizzarlo con la nuova disciplina
della reintegra
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2017). |
LAVORI PUBBLICI: Appalti,
gare entro un anno per salvare i vecchi progetti.
Lavori pubblici. Mini-condono per i piani
definitivi nel Correttivo.
Sale a quota cento
articoli (erano 84) e guadagna qualche altra decina di
correzioni, rispetto alle 245 della prima versione, il testo
del decreto correttivo della riforma appalti uscito dalla
fase di consultazione degli operatori. La nuova bozza è
frutto del lavoro condotto nelle ultime ore per inserire nel
provvedimento, approvato «salvo intese» dal Consiglio dei
ministri di giovedì scorso, le proposte arrivate dal mercato
e dagli altri ministeri coinvolti (a partire dall’Economia)
. Un passaggio che ha arricchito di diverse novità il testo
anche se l'impianto complessivo viene sostanzialmente
confermato.
Le novità principali riguardano due aspetti molto discussi
delle riforma entrata in vigore ad aprile 2016. Al primo
punto c’è la correzione di rotta rispetto al divieto
assoluto di affidare ai costruttori anche lo sviluppo finale
del progetto (il progetto esecutivo) insieme all'esecuzione
delle opere. Il «correttivo» interviene per modificare
almeno parzialmente questa impostazione.
La prima novità è il mini-condono per le amministrazioni che
avevano già un progetto pronto al momento di entrata in
vigore della riforma che ha sancito, senza alcuna fase
transitoria, il divieto di appalto integrato. L’ultima bozza
concede ancora la possibilità di tirare i progetti fuori dai
cassetti e andare in appalto. Ma con due nuove limitazioni.
La prima è che vengono tagliati fuori i progetti
preliminari. Il via libera riguarderà soltanto gli enti che,
al 19 aprile 2016, avevano già approvato un progetto
definitivo.
La seconda novità è che per approfittare di questa
possibilità gli enti dovranno essere in grado di bandire le
gare entro un anno (presumibilmente a partire dall’entrata
in vigore del decreto correttivo, anche se il testo non è
del tutto chiaro su questo punto). Confermata la possibilità
di bandire le gare su progetto definitivo per le opere di
manutenzione, fino all’arrivo di un decreto che definirà
nuove forme di progettazione semplificata per questo tipo di
interventi.
Così come viene confermata anche la possibilità, inserita
già nelle prime bozze, di assegnare ai costruttori una quota
di progettazione per le opere ad alto tasso di tecnologia o
innovazione e nelle eventualità di estrema urgenza. Per
questi due casi viene però ora introdotto l’obbligo di
motivare la scelta «nella determina a contrarre». Inoltre,
vengono escluse dal divieto di appalto integrato anche le
opere di urbanizzazione eseguite dalle imprese a scomputo
degli oneri di costruzione.
La seconda grande novità del nuovo testo riguarda la
disciplina del subappalto. La bozza conferma che il tetto al
30% dovrà essere calcolato sull'importo della categoria
prevalente e non più sull'intero ammontare del contratto.
L'ultimo testo fa però marcia indietro sulla misura che
cancellava l’obbligo di escludere il titolare dell’appalto a
causa della carenza di requisiti di un suo subappaltatore.
Il testo uscito dalla consultazione introduce poi diverse
novità a favore delle micro, piccole e medie imprese. Come
la riduzione del 50% della garanzie da presentare a corredo
delle offerte e la cancellazione dell’obbligo di presentare
una fidejussione a garanzia dell’esecuzione in caso di
aggiudicazione. Cresce poi il numero delle imprese da
invitare alle procedure negoziate senza bando. Per gli
appalti compresi tra 40mila e 150mila euro si passa da un
minimo di 5 a un minimo di 15 imprese. Tra 150mila euro e un
milione gli inviti dovranno essere almeno 20 invece che 10.
Sul fronte della progettazione, resta invece da sottoporre
alle ultime valutazioni la richiesta dei professionisti di
escludere gli accordi quadro per assegnare i servizi di
architettura e ingegneria.
Prima dell’approvazione finale il testo, ancora
evidentemente da limare, dovrà superare l’esame del
Consiglio di Stato, della Conferenza Unificata e delle
Commissioni parlamentari, dove si annuncia un esame rigoroso
del rispetto dei criteri consegnati con la delega
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Lombardia,
ok alla legge per recuperare i seminterrati.
Via libera alla legge per il recupero dei vani e dei locali
seminterrati esistenti, approvata a maggioranza dal
Consiglio regionale della Lombardia.
Ieri è stato votato il testo definitivo del
progetto di legge 258, pensata per facilitare la ristrutturazione di spazi già
esistenti ma non sfruttati, da adibire ad uso abitativo,
commerciale o terziario.
I seminterrati da recuperare non potranno essere inferiori
di 2,40 metri, stabilisce il provvedimento, abbassando di
0,30 metri il parametro relativo all'altezza. In caso di
aumento del carico urbanistico, vi è l'obbligo di creare
nuovi spazi per parcheggi e servizi, permettendo in caso di
impossibilità di monetizzarli. Esentati dal versamento del
costo di costruzione solo i seminterrati con una superficie
lorda non superiore ai 200 metri quadrati se adibita a uso
abitativo e non superiore ai 100 metri quadrati se per altri
usi, che costituiscono pertinenza diretta di unità
immobiliari.
Entro il termine di 4 mesi dall'entrata in vigore i comuni
dovranno disporre l'esclusione di parti del territorio
dall'applicazione della legge per esigenze legate alla
tutela del paesaggio, al rischio idrogeologico e alla difesa
del suolo. Superata la scadenza i luoghi da escludere
potranno essere aggiornati in caso di nuovi eventi
alluvionali o in seguito a specifiche analisi di rischio
geologico e idrogeologico.
Rimangono preclusi gli spazi oggetto di attività di
bonifica, in corso o già effettuate, e i luoghi dove siano
presenti fenomeni di risalita della falda acquifera. Gli
interventi, da effettuare nel rispetto di tutte le
prescrizioni igienico-sanitarie, saranno possibili solo sui
seminterrati legittimamente realizzati alla data di entrata
in vigore della legge e solo dove siano posti in strutture
servite da tutte le urbanizzazioni primarie.
Per quanto riguarda gli immobili realizzati dopo l'entrata
in vigore della legge, sarà necessario attendere almeno 5
anni per poter applicare questo provvedimento. Inoltre nei
dieci anni successivi al conseguimento dell'agibilità i vani
e i locali seminterrati non potranno essere oggetto di
mutamento di destinazione d'uso, pena il pagamento di un
corrispettivo come previsto nella legge n. 12/2005
(articolo ItaliaOggi dell'01.03.2017). |
APPALTI: Codice
appalti migliorabile. La p.a. deve poter scegliere il
progetto e non il produttore. Il
presidente della Fondazione Inarcassa, Andrea Tomasi, sullo
schema di decreto correttivo.
Pubblicato circa due settimane fa, lo schema di decreto
correttivo del nuovo Codice Appalti (dlgs. 50/2016), dopo
una prima informativa in Consiglio dei ministri, è stato
sottoposto a una breve fase di consultazione pubblica.
Attualmente il testo, a seguito dell'esame preliminare da
parte del Cdm, è in attesa della trasmissione in Parlamento
al fine dell'espressione dei pareri delle commissioni
competenti.
Il provvedimento dovrà essere approvato in via definitiva
entro il 19 aprile.
Il correttivo è frutto del lavoro della Cabina di regia
istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri e
presieduta da Roberto Cerreto che, da poco a capo del
dipartimento Affari giuridici e legislativi, proseguirà il
lavoro svolto da Antonella Manzione.
Come riportato nella relazione illustrativa, le modifiche
proposte mirano a perfezionare l'impianto normativo senza
intaccarlo, con lo scopo di migliorarne l'omogeneità, la
chiarezza e l'adeguatezza, in modo da perseguire
efficacemente l'obiettivo dello sviluppo del settore che la
stessa legge delega si era prefissata.
Parametri e concorsi di progettazione. Lo schema tocca 84
articoli su 220 e prevede, nota molto positiva,
l'obbligatorietà dell'applicazione del Decreto Parametri per
la determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara
negli appalti per l'affidamento dei servizi di ingegneria e
architettura ed una tutela economica per i progettisti, il
cui pagamento non potrà essere subordinato all'ottenimento,
da parte della stazione appaltante, del finanziamento
dell'opera progettata.
«Accogliamo con grande soddisfazione l'obbligatorietà del
riferimento ai parametri tariffari ai fini
dell'individuazione dell'importo a base d'asta.
Riteniamo che si tratti di un passo fondamentale e
imprescindibile per restituire dignità alla fase progettuale
e garantire economicità, proporzionalità e parità di
trattamento tra gli operatori», commenta Andrea Tomasi,
presidente di Fondazione Inarcassa.
Lo schema di decreto prevede, inoltre, una riduzione di
lavoro, e quindi dei costi, a carico dei partecipanti ai
concorsi di progettazione - che non saranno più tenuti a
presentare piani di fattibilità tecnica ed economica prima
dell'approvazione della graduatoria, ma non contempla
l'affidamento obbligatorio della progettazione esecutiva al
professionista vincitore del concorso.
A tal proposito, il presidente Tomasi afferma: «consideriamo
prioritario quanto disciplinato agli artt. 152 e ss. del
nuovo Codice degli appalti in materia di concorsi di
progettazione. L'obiettivo è far sì che tale procedura
diventi, da attività ritenuta meramente culturale, e quasi
accademica, una delle modalità per l'affidamento dei servizi
di ingegneria e architettura», con assoluta pari dignità di
una qualsiasi altra modalità di gara.
Infatti, dopo il successo ottenuto a seguito dei concorsi di
progettazione indetti per la ricostruzione del «Science
Centre» e per la ristrutturazione del corpo centrale dell'ex
biblioteca della stazione zoologica «Anton Dhorn» di Napoli,
Fondazione Inarcassa ha di recente lanciato un altro
importante concorso per la realizzazione di una scuola
primaria a Riccione, secondo i principi della rigenerazione
urbana sostenibile. In entrambi i casi la procedura
utilizzata per il bando di progettazione è risultata
vincente, ottenendo risultati ben oltre le aspettative.
Nello specifico, Fondazione Inarcassa insiste per una
modifica innovativa dei concorsi di progettazione
strutturati in due fasi. La prima fase, detta anche di
prequalificazione, andrebbe a coincidere con la
presentazione di un'idea del progetto futuro da parte di
tutti gli architetti e gli ingegneri liberi professionisti
senza che sia loro richiesta la presentazione di specifici
requisiti, in modo da consentire anche ai giovani
professionisti di accedere alle nuove opportunità di lavoro.
Solo ai partecipanti alla seconda fase, ove si chiede la
presentazione di un progetto di fattibilità, invece, viene
chiesta la presentazione dei requisiti normativamente
previsti.
Il contributo più rilevante introdotto dalla Fondazione per
la prima volta in Italia, come peraltro dimostrato dalle
esperienze sopra citate, riguarda sempre l'assegnazione
diretta dell'incarico al vincitore del concorso di
progettazione. In particolare, al primo classificato
dovrebbe deve essere sempre assegnato l'incarico per la
stesura delle successive fasi di progettazione. L'importo
dell'appalto di servizi di ingegneria e architettura viene
fissato già nel bando di concorso. In questo modo, i
concorsi di progettazione appaiono come lo strumento idoneo
per l'affidamento dell'incarico dei servizi di ingegneria e
architettura e in quanto tale trova giusta e corretta
collocazione nel Codice degli appalti.
Invece, la disamina è differente per quanto attiene ai
concorsi di idee, disciplinati dall'articolo 156 del nuovo
Codice degli appalti, non potendo essere ritenuti una
procedura finalizzata all'affidamento dei servizi di
architettura e ingegneria. I concorsi di idee, infatti,
rappresentano lo strumento per acquisire soluzioni e idee di
indirizzo per la stazione appaltante. Pertanto, al vincitore
di tale tipologia di concorso dovrebbe essere assegnato
solamente un premio la cui entità dovrebbe essere
assolutamente proporzionata all'importanza dell'idea
richiesta dal bando e agli elaborati progettuali richiesti.
L'inserimento nel Codice di tale procedura, però, non
finalizzata al conferimento di una appalto di servizi di
ingegneria e architettura, non appare come elemento
significativo e decisivo.
«Auspichiamo che una più attenta riflessione del Governo su
questi aspetti e una disponibilità ad accogliere le nostre
sollecitazioni», conclude sul punto Tomasi, «il legislatore
pensi a quanto sia più corretto e utile per le p.a. poter
scegliere in base al prodotto (progetto) anziché al
produttore. Non sempre la tipologia delle opere pubbliche si
presta a questa procedura, ma ove vi sia questa possibilità,
crediamo che vada assolutamente perseguita».
Appalto integrato. Inoltre, il correttivo reintroduce la
possibilità di procedere all'appalto integrato, cioè la
possibilità che all'impresa di costruzione sia affidata
anche parte della progettazione, per le manutenzioni e nel
caso in cui i progetti siano stati validati prima
dell'entrata in vigore del nuovo Codice appalti. Infine,
accorda alle stazioni appaltanti il ricorso all'affidamento
dell'esecuzione di lavori e della progettazione esecutiva,
nei casi in cui l'elemento tecnologico o innovativo sia
nettamente prevalente rispetto all'importo complessivo dei
lavori o qualora ricorrano i presupposti di urgenza.
«Le numerose deroghe che consentono l'appalto integrato sono
un elemento fortemente negativo», commenta Andrea Tomasi,
«ci si riferisce soprattutto alla fattispecie che giustifica
l'appalto integrato nei casi d'urgenza. Questa previsione
verrebbe a produrre una eccessiva discrezionalità perché
quasi sempre le Amministrazioni agiscono nell'urgenza e,
anche l'apparente limitazione che prevede l'attivazione
dell'inizio lavori entro 30 giorni dall'appalto, risulta
essere facilmente aggirabile con la procedura della consegna
dei lavori in carenza di contratto. Procedura questa
assolutamente usuale. L'eliminazione dell'appalto integrato
era l'unica previsione in linea con la dichiarazione di
principio che il legislatore aveva spesso palesato in ordine
alla centralità del progetto. Ahimè, il comma 1-ter fa, di
fatto, rientrare dalla finestra quanto, correttamente e
seriamente, era stato messo alla porta.
Nel complesso»,
conclude il presidente Tomasi, «il testo introduce alcune
novità positive ma restano anche diverse criticità quali, ad
esempio, una specifica e puntuale definizione dell'offerta
economicamente più vantaggiosa nel caso degli appalti di
servizi di ingegneria e architettura, depotenziando, come da
noi chiesto, la componente economica o le validità temporali
dei requisiti. Siamo fiduciosi in un ponderato ripensamento
magari anche dopo un positivo confronto con il ministro
Delrio»
(articolo ItaliaOggi dell'01.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
CONDOMINIO -
EDILIZIA PRIVATA: Appalti,
solidarietà sulle retribuzioni. Obbligo anche per i
contributi omessi nel limite di due anni dalla fine
dell’opera.
Responsabilità. Il coinvolgimento del condominio nel saldo
dei debiti «di lavoro» quando l’impresa non ce la fa.
A dare il “la” ai
lavori di manutenzione è la delibera condominiale, con la
quale il condominio, per tramite dell’amministratore,
stipula un contratto d’appalto con un’impresa che si
obbliga, dietro compenso, a eseguire gli interventi
concordati, utilizzando la propria forza lavoro, quindi i
propri dipendenti. Ma cosa succede nel caso in cui –per
svariati motivi– l’azienda appaltatrice si trovi
nell’impossibilità di retribuire i dipendenti?
In questo frangente è prevista la “responsabilità solidale”,
per cui ricade sul condominio stesso, in qualità di
committente, il dovere di pagare il lavoratore, una volta
venga dimostrato che l’azienda appaltatrice non ha i mezzi
per farlo.
I riferimenti normativi sono l’articolo 1676 del Codice
civile e l’articolo 29 del Dlgs 276/2003. Mentre il primo
prevede la possibilità per i dipendenti dell’appaltatore di
proporre azione diretta nei confronti del committente per
ottenere quanto dovuto ma solo fino alla concorrenza
dell’eventuale debito che il committente ha verso
l’appaltatore, ben più ampia e incisiva è la responsabilità
contenuta nell’articolo 29, dove viene affermato che il
committente è obbligato in solido con l’appaltatore e
eventuali subappaltatori, entro il limite di due anni dalla
cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i
trattamenti retributivi, comprese le quote di Tfr, i
contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in
relazione al periodi di appalto.
Obiettivo della “responsabilità solidale” è evitare una
potenziale dispersione delle responsabilità, che la
particolare struttura dell’appalto potrebbe incentivare.
Per scongiurare il rischio che il condominio debba
rispondere in solido con i dipendenti dell’appaltatore,
l’amministratore prenderà alcuni accorgimenti (obbligatori
secondo il Dlgs 81/2008, articolo 26) quali la verifica
dell’iscrizione alla Camera di Commercio e la verifica dei
requisiti organizzativi e strutturali dell’impresa
appaltatrice e degli eventuali subappaltatori.
Inoltre, sarà necessario verificare che l’azienda sia in
possesso di un documento Durc regolare. Il Durc costituisce
un documento essenziale per l’amministratore che voglia
tutelarsi, poiché garantisce in merito all’assolvimento
degli adempimenti nei confronti degli istituti previdenziali
e assicurativi (Inps e Inail). Ma va detto che nemmeno tale
documento può dare delle certezze assolute: prima di tutto,
la sua data di emissione non coincide per forza con le date
di svolgimento dei lavori (e tra i due periodi, potrebbe
intanto essere cambiato qualcosa).
In secondo luogo, come anche evidenziato dall’interpello
3/2010 del 02.04.2010 del ministero del Lavoro «le verifiche
effettuate ai fini del rilascio del Durc sono riconducibili
all’unicità del rapporto previdenziale tra impresa
richiedente ed Ente rilasciante», dunque un’impresa che
abbia un debito derivante da un vincolo di responsabilità
solidale, ma che sia in regola con i versamenti
contributivi, potrà comunque ottenere il Durc.
Il condominio potrà però richiedere anche copia dell’ultimo
F24 o dei cedolini paga dei dipendenti, così da verificare
l’effettiva retribuzione, fermo restando che, non essendoci
obbligo di legge riguardo il fornire tale documentazione,
l’appaltatore potrà rifiutarsi di mostrarla (ma questo non è
un bel segnale). Il consiglio è dunque quello di evitare
quelle società appaltatrici che giocano al ribasso,
proponendo al condominio prezzi troppo concorrenziali, che
potrebbero dipendere da un servizio scarso o da uno
scorretto inquadramento del lavoratore.
Si tenga conto che un appalto genuino dovrebbe avere un
costo superiore rispetto all’assunzione diretta, perché al
costo medio orario di circa 14,79 euro del personale
dipendente da impresa di pulizia andrà sommato il compenso
dovuto dal condominio all’azienda per la fornitura e
gestione del servizio (articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO - VARI: A
chi imbratta i muri si può imporre la ripulitura.
Lotta al degrado. Le misure del decreto legge
14/2017.
Il decreto legge 14
del 20.02.2017 disciplina la promozione della sicurezza
integrata e definisce (articolo 4) la sicurezza urbana quale
bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro
delle città da perseguire con interventi di riqualificazione
e recupero delle aree o dei siti più degradati,
l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione
sociale, la prevenzione delle criminalità, in particolare di
tipo predatorio, la promozione del rispetto della legalità e
l’affermazione dei più elevati livelli di coesione sociale e
convivenza civile.
È prevista (articolo 11) una procedura rafforzata da parte
del prefetto, nella determinazione delle modalità esecutive
di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, concernenti
occupazioni arbitrarie di immobili, sentito il Comitato
provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, per
emettere le disposizioni per prevenire il pericolo di
turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica. La durata
della sospensione dell’attività dei pubblici esercizi, in
caso di reiterata inosservanza delle ordinanze della
pubblica autorità, è aumentata a giorni 15.
Il questore (articolo 13) può disporre il divieto di accesso
ai pubblici locali o a esercizi analoghi ovvero di
stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi nei
confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o
confermata in grado di appello nel corso degli ultimi anni
per la vendita o la cessione di sostanze stupefacenti o
psicotrope (sanzionate dall’articolo 73 del Dpr 309/1990).
Il divieto non può avere durata inferiore a un anno, né
superiore a cinque. Per tali soggetti, se condannati negli
ultimi tre anni con sentenza definitiva, il questore può
disporre, per la durata massima di due anni, l’obbligo di
presentazione due volte alla settimana nei locali delle
forze di polizia,l’obbligo di rientrare e di uscirne entro
una certa ora nella propria abitazione, il divieto di
allontanarsi dal comune di residenza, l’obbligo di comparire
in un un ufficio o in un comando di polizia negli orari di
entrata ed uscita dagli istituti scolastici.
Tali divieti possono essere disposti anche nei confronti di
soggetti minori di 18 anni che hanno compiuto il
quattordicesimo anno di età e il provvedimento è notificato
a coloro che esercitano la responsabilità genitoriale. La
violazione degli obblighi è sanzionata con il pagamento di
una somma da 10mila a 40mila euro e con la sospensione della
patente di guida da sei mesi a un anno.
Nel caso di condanna per la commissione del reato di cui
all’articolo 73 del Dpr 309/1990 (produzione, detenzione e
spaccio di droga) commesso all’interno o nelle vicinanze di
un locale di pubblico esercizio, il giudice può subordinare
la concessione della sospensione condizionale della pena, in
base all’articolo 163 del Codice penale, al divieto di
accedere in locali pubblici e pubblici esercizio
specificamente individuati.
Al reato di cui all’articolo 639 del Codice penale
(Deturpazione o imbrattamento di cose altrui) è aggiunta la
facoltà (articolo 16) per il giudice di imporre al
condannato, in base all’articolo 165 del Codice penale,
l’obbligo di ripristino e di ripulitura dei luoghi ovvero,
qualora ciò non sia possibile, l’obbligo di sostenere le
spese o a rimborsare quelle sostenute o, se il condannato
non si oppone, la prestazione di attività non retribuita a
favore della collettività per un tempo determinato comunque
non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le
modalità indicate nella sentenza di condanna (articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: L'obiettivo
è la semplificazione. Le ricadute positive sui
professionisti e sui cittadini. Le nuove procedure di
autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve
entità.
È stato adottato con decreto del presidente della repubblica
il regolamento di semplificazione delle procedure per
l'autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve
entità, approvato dal consiglio dei ministri il 20.01.2017.
Dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale le norme
saranno immediatamente efficaci nelle regioni a statuto
ordinario, mentre in quelle a statuto speciale e nelle
province autonome di Trento e Bolzano dovranno essere
adottate opportune norme di coordinamento, nelle more delle
quali continueranno ad applicarsi le disposizioni regionali
o provinciali vigenti.
L'approvazione del dpr è stata accolta con favore dal
Consiglio nazionale geometri e geometri laureati: nelle
parole del consigliere Cesare Galbiati «il provvedimento era
atteso da tempo, e poter finalmente procedere ad alcune
opere senza ottenere la preventiva autorizzazione
paesaggistica va nella direzione della semplificazione
autentica, che favorisce la competitività e frena il
contenzioso, con ricadute positive sui professionisti
tecnici e sui cittadini».
Domanda.
Consigliere Galbiati, qual è l'ambito di ricaduta delle
misure previste dal regolamento?
Risposta. È opportuno precisare che la semplificazione
riguarda le opere di edilizia minori in aree soggette a
variegati vincoli di natura ambientale, mentre esclude
quelli sugli immobili sottoposti a tutela per vincoli di
bene culturale ex legge 1089/39. Negli allegati A e B del
decreto sono individuati in maniera puntuale 31 interventi
totalmente esclusi dall'obbligo di ottenere l'autorizzazione
paesaggistica, e 42 invece soggetti ad autorizzazione
paesaggistica semplificata perché considerati di lieve
impatto ambientale. Naturalmente, l'esclusione dell'obbligo
di autorizzazione paesaggistica non incide su altre
discipline di settore, quale in particolare la disciplina
dei titoli abilitativi edilizi.
D. Quali sono le novità più importanti?
R. Ne segnalo una di particolare rilevanza: viene
introdotta, per la prima volta in materia paesaggistica, una
tolleranza costruttiva nelle misure di tutti gli edifici
(del 2% per «altezza, distacchi, cubatura, superficie
coperta o traslazioni dell'area di sedime») similmente a
quanto già introdotto in campo urbanistico qualche anno
addietro. Concetto più volte richiesto da noi tecnici di
settore e sicuramente di grande utilità pratica.
D. In sintesi, cosa cambia nell'applicazione delle
procedure?
R. Sono introdotte una serie di semplificazioni per il
rinnovo delle autorizzazioni e per le procedure, sia dal
punto di vista documentale che nell'iter procedurale: la
nuova procedura semplificata si potrà concludere entro 40
giorni (contro i 65 previsti da quella attuale, di cui al
dpr 139/2010), e in ogni caso tassativamente entro 60 giorni
dal ricevimento della domanda da parte dell'amministrazione
referente.
È previsto un modello unificato per la presentazione
dell'istanza e un modello per la relazione paesaggistica
semplificata; una volta ottenuta, l'autorizzazione
paesaggistica sarà efficace per un periodo di cinque anni,
trascorso il quale sarà necessario provvedere ad una nuova
richiesta
(articolo ItaliaOggi del 28.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Testo
da migliorare. Il codice contratti.
Lo scorso 23 febbraio il Consiglio dei ministri ha
approvato, in via preliminare, il dlgs correttivo del Codice
dei contratti (Atto
del Governo n. 397 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
È un passaggio propedeutico alla raccolta dei
pareri delle Commissioni parlamentari competenti e della
Conferenza stato-regioni, in vista della scadenza della
delega fissata al 19 aprile. Circa i contenuti della bozza
in consultazione, le professioni tecniche esprimono una
moderata soddisfazione per il recepimento di alcune istanze,
unitamente all'introduzione di alcune novità, tra le quali:
- il futuro obbligo di utilizzo del decreto «Parametri» (dm
17/06/2016) per determinare i corrispettivi da porre a base
di gara negli appalti per l'affidamento dei servizi di
ingegneria e architettura;
- le Stazioni Appaltanti dovranno sempre pagare i
professionisti, anche nell'eventualità in cui esse non
ricevano, in seguito, i finanziamenti per l'opera
progettata;
nei contratti non si potrà più inserire alcuna clausola che
subordini il pagamento del progettista all'ottenimento delle
risorse finanziarie richieste dall'ente;
- le gare per l'affidamento di interventi di manutenzione
potranno essere bandite sulla base di un progetto
semplificato, i cui contenuti saranno definiti con un
decreto del Consiglio superiore dei lavori pubblici (Cslp).
Per definire il livello di semplificazione, la norma dovrà
tenere conto del tipo di manutenzione (ordinaria o
straordinaria), della complessità e dell'importo dei lavori;
il progetto di fattibilità tecnica potrà essere redatto in
due fasi. In tal caso, le alternative progettuali saranno
definite solo nella prima fase, con evidente semplificazione
e riduzione dei costi per le indagini e gli studi necessari
alla definizione economica dell'intervento; potranno
continuare ad operare i direttori tecnici in possesso di
titolo conseguito sulla base dell'esperienza.
Di contro, non si condivide la reiterazione, seppure con
diversa formulazione, della possibilità assegnata al
Responsabile unico del provvedimento (Rup) di svolgere anche
le attività di progettista o direttore dei lavori: si
tratta, evidentemente, dell'attribuzione in capo allo stesso
soggetto delle funzioni di controllore e controllato.
Sorgono dubbi sullo scorporo del costo della manodopera, che
è un elemento proprio dell'organizzazione di ciascuna
impresa, strettamente correlato alla produttività e
difficilmente valutabile in fase di progettazione; così come
su quello che si può definire uno «sdoganamento»
dell'appalto integrato, con la possibilità di affidare
progetto esecutivo e lavori per quelle amministrazioni che,
alla data dell'entrata in vigore del codice, avevano già
approvato il definitivo. Nell'impossibilità, tra l'altro, di
avere evidenza certa del loro numero.
Infine, non si può fare a meno di sottolineare un certo
disappunto per la ridotta tempistica concessa alla
consultazione pubblica: se l'obiettivo è ottenere dai
portatori di interesse contributi fattivi e non formali su
articolati di grande complessità, i tempi non possono essere
compatibili con quelli di incombenti
(articolo ItaliaOggi del 28.02.201). |
EDILIZIA PRIVATA: Le
procedure corrette per ogni tipo di intervento. Regioni e
Comuni possono aumentare ma non ridurre le semplificazioni.
Titoli abilitativi. Gli iter amministrativi dopo le novità
introdotte dal decreto Scia2.
Anche se non è
stato ancora varato il decreto ministeriale che elenca le
principali opere edilizie e individua, per ognuna di esse,
la categoria di intervento in cui ricade e il regime
giuridico a cui è sottoposta (il termine è scaduto l’8
febbraio scorso), il riassetto dei titoli edilizi previsto
dal decreto Scia2 è comunque pienamente operativo.
È utile
quindi, in attesa del decreto che definirà il glossario
unico e dovrà essere varato dal ministero delle
Infrastrutture e dei trasporti (di concerto con quello della
Semplificazione), ricapitolare le procedure da seguire per
la realizzazione dei diversi tipi di intervento.
Le norme
Il Dlgs 222/2016 (il cosiddetto Scia2) ha individuato le
tipologie degli interventi assoggettati a permesso di
costruire, alla segnalazione certificata di inizio attività
(Scia), alla comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila)
e quelli realizzabili in edilizia libera. Il decreto Scia2
ha anche definito i procedimenti amministrativi applicabili
alle attività commerciali.
Ed è stato sempre il Dlgs Scia2 a prevedere che entro 60
giorni dalla sua entrata in vigore (scattata il l’11.12.2016) il ministero delle Infrastrutture varasse il
decreto con il glossario unico. Il decreto è in elaborazione
e dovrà poi ottenere il via libera dalla Conferenza
unificata.
La mancata emanazione di quest’atto ministeriale non
ostacola però l’operatività del Dlgs 222/2016. Anche,
nell’edilizia, le semplificazioni introdotte dal decreto
Scia2 per velocizzare e rendere più snelle le procedure
amministrative per la realizzazione dei lavori, sono già
operative.
Il Dlgs 222/2016 ha infatti cancellato la Cil (comunicazione
inizio lavori) e trasferito tutti gli interventi per i quali
era prevista nell’ambito dell’attività edilizia libera
ampliandone l’ambito di applicazione. Ha inoltre allungato
la lista delle opere per le quali può essere applicata la
Scia (si veda Il Sole 24 Ore del 19.12.2016).
Le altre autorizzazioni
Ma per alcuni interventi questo non è sufficiente. Così, non
tutte le opere per la cui realizzazione è richiesta la Cila
o la Scia possono essere iniziate immediatamente dopo la
presentazione della documentazione negli uffici del Comune.
Quando la realizzazione dell’intervento è subordinata anche
alla decisione di un altro ente, il titolo abilitativo
produce i suoi effetti solo dopo che esso ha dato il via
libera. È il caso di alcuni lavori edilizi destinati ad
ospitare attività con elevati profili di rischio o che
devono essere localizzati in aree particolarmente sensibili.
Tra i primi rientrano, per esempio, gli interventi relativi
a immobili in cui devono essere realizzate attività
assoggettate ai procedimenti amministrativi relativi alla
prevenzione degli incendi (ex Dpr 151/2011). I depositi di
gas comburenti compressi e liquefatti in serbatoi fissi e
mobili con una capacità superiore a tre metri cubi, oppure
un’officina che impiega fino a cinque addetti nelle
operazioni di saldatura e taglio di metalli con gas
infiammabili possono essere realizzate con Scia, ma solo
dopo che le autorità che ne hanno la facoltà hanno
rilasciato le autorizzazioni relative alla prevenzione
incendi.
La stessa subordinazione dell’efficacia del titolo
abilitativo all’ottenimento delle relative autorizzazioni
opera anche per il ricorso alla Cila o alla Scia nella
realizzazione di interventi in zone classificate a media e
alta sismicità o che modificano lo stato dei luoghi o
l’aspetto esteriore di edifici localizzati in zone
sottoposte a tutela paesaggistica.
L’allegato al Dlgs 222/2016 indica le attività edilizie per
la cui realizzazione oltre al titolo abilitativo è
necessario acquisire altri titoli di legittimazione.
Le Regioni
Una data importante per l’attuazione del decreto legislativo
è quella del prossimo 30 giugno. Le Regioni e gli enti
locali hanno tempo fino ad allora per adeguare le loro
normative alle disposizioni del decreto.
Regioni ed enti locali nel modificare i loro regimi
amministrativi in materia di titoli abilitavi, possono
prevedere ulteriori livelli di semplificazione. Non possono,
invece ridurre i livelli di semplificazione e le garanzie
assicurate a cittadini, imprese e professionisti previste
dal decreto Scia2.
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Moduli standard pronti a fine giugno.
L’attuazione. Il ministero delle Semplificazione sta
mettendo a punto i modelli unificati previsti dal decreto
Scia1.
Per i moduli
unificati e standardizzati sui titoli abilitativi alla
realizzazione degli interventi edilizi bisogna aspettare
fino al 30 giugno. Al ministero della Semplificazione stanno
lavorando alla messa a punto dei modelli previsti dal Dlgs
126/2016.
L’emanazione di questo Dlgs, correntemente noto come Scia1,
per distinguerlo da quello definito Scia 2 (vedi l’articolo
in alto), dà attuazione all’articolo 5 della legge 124/2015,
sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione. Con
l’adozione dei moduli unificati, per ogni tipologia di
titolo abilitativo, devono essere definiti dettagliatamente
e in modo esaustivo i contenuti delle istanze che i
progettisti devono presentare ai Comuni, le modalità di
presentazione dei dati richiesti e la documentazione da
allegare.
I moduli per presentare le istanze, le comunicazioni e le
segnalazioni alla Pa devono essere formulati in modo che il
privato possa ricevere le eventuali comunicazioni dal Comune
al suo domicilio digitale. Prima dell’emanazione, i moduli
unificati devono passare al vaglio della conferenza
unificata. La loro disponibilità dovrebbe evitare che i
Comuni procedano in ordine sparso e che gli architetti, gli
ingegneri e i geometri che progettano in più comuni debbano
seguire procedure diverse. In attesa dei nuovi modelli
unificati, ogni Comune continuerà a seguire le procedure in
uso.
Soprattutto per dare certezza agli utenti sui dati da
fornire e sulla documentazione da allegare, i Comuni
dovranno pubblicare, sui loro siti internet, la modulistica
unificata. La responsabilità di questo obbligo ricade sul
dipendente pubblico responsabile del procedimento. Visto le
sanzioni alle quali va incontro (sospensione dal servizio e
dalla paga), in caso non lo faccia, deve stare anche attento
a cosa pubblica. Nel corso dell’istruttoria di una pratica,
egli può, naturalmente, chiedere l’integrazione
dell’eventuale documentazione mancante, ma solo di quella
prevista nell’elenco pubblicato sul sito; la stessa cosa
vale per le tutte le altre informazioni.
Nel frattempo presso il dipartimento della Funzione pubblica
opera un help-desk per dare supporto e informazioni e
raccogliere segnalazioni sia dall’interno delle pubbliche
amministrazioni sia dai cittadini che dagli operatori del
settore (articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sottoprodotti,
istruzioni all'uso. Albo e documentazione ad hoc per le
imprese interessate. Il ministero dell'ambiente detta i
criteri per gestire le biomasse fuori dal regime dei
rifiuti.
Iscrizione in appositi elenchi delle Camere di commercio,
tracciamento fino all'utilizzo finale dei residui prodotti e
tenuta di apposita documentazione che dimostri il rispetto
delle prescrizioni del Codice ambientale sui sottoprodotti.
Queste, in estrema sintesi, le regole che, in base al nuovo
dm ambiente 13.10.2016 n. 264 (G.U. 15.02.2017,
n. 38), permetteranno alle imprese di dimostrare con
maggiore agilità davanti alle competenti Istituzioni la
legittima gestione in deroga al regime dei rifiuti dei
residui vegetali e animali destinati alla produzione di
energia.
La portata delle nuove regole.
Il nuovo regolamento in vigore dal 02/03/2017 va inquadrato
nelle gerarchicamente superiori norme ex articolo 184-bis,
comma 1, del Codice ambientale (dlgs 152/2006) in base alle
quali non costituiscono rifiuti ma «sottoprodotti» le
sostanze e gli oggetti che rispettano quattro precise
condizioni, ossia: (lettera a) sono originate da processi di
produzione di cui costituiscono parte integrante ma il cui
scopo primario non è la loro generazione; (lettera b) deve
essere certo che saranno utilizzati nello stesso o in
successivo processo di produzione o di utilizzazione da
parte del produttore o di terzi: (lettera c) possono essere
utilizzati direttamente senza alcun ulteriore trattamento
diverso dalla «normale pratica industriale»; (lettera d)
l'ulteriore utilizzo è legale, ossia le sostanze e gli
oggetti soddisfano i relativi requisiti di prodotto e non
sono dannosi per ambiente e salute.
Dopo aver così disposto,
il medesimo articolo 184-bis, comma 2, del dlgs 152/2006
legittima il Minambiente ad adottare con decreto «misure per
stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare
affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano
considerati sottoprodotti e non rifiuti». È in tale contesto
che arriva il nuovo dm 264/2016, testualmente titolato quale
«regolamento recante criteri indicativi per agevolare la
dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la
qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non
come rifiuti».
Il neo provvedimento detta nell'articolato le
disposizioni che declinano le citate quattro condizioni ex dlgs 152/2006 e nell'allegato dei criteri relativi alla
particolare categoria di residui coincidenti con alcune
biomasse. Ed è proprio in relazione a queste sole ultime
«specifiche tipologie» di residui, stante il limite posto
dal menzionato articolo 184-bis dlgs 152/2006 alla potestà
del Dicastero, che appare essere circoscritta la portata del
nuovo decreto ministeriale (nonostante, dunque, il tenore
generale del suo titolo).
Sebbene lo stesso dm 264/2016
precisi avere il rispetto dei criteri da esso recati mero
valore indicativo al fine di dimostrare il rispetto delle
condizioni ex dlgs 152/2006 appare tuttavia plausibile
ritenere che sul piano concreto il loro ossequio potrà avere
davanti agli Organi di controllo maggiore evidenza rispetto
all'osservanza di altre e diverse modalità probatorie cui
gli operatori sono comunque ex lege ammessi.
Le biomasse.
L'ambito applicativo dei «criteri indicativi» recati dal dm
264/2016 riguarda le biomasse residuali individuate dal suo
allegato 1 per provenienza, trattamenti ammessi e utilizzi
consentiti. Il novero coincide sostanzialmente con i residui
di origine animale e vegetale ivi elencati in corrispondenza
della relativa normativa Ue di settore, oggetto delle
attività di normale pratica industriale consentite (come
lavaggio, essiccatura, insufflazione di aria, raffinazione,
triturazione, omogeneizzazione, fermentazione naturale,
centrifugazione, disidratazione, sedimentazione e
chiarificazione), il tutto in funzione degli utilizzi
ammessi (produzione di energia tramite impiego in impianti
di produzione di biogas o combustione diretta).
Le regole gestionali.
Gli operatori che vorranno avvantaggiarsi della
«presunzione» di legalità garantita dal dm 264/2016 dovranno
rispettare una serie di prescrizioni che coincidono
sostanzialmente con: l'accennata iscrizione (senza oneri
economici) negli appositi elenchi pubblici istituiti presso
le Camere di commercio territorialmente competenti;
l'istituzione di un sistema di gestione dei residui che ne
garantisca e dimostri, dalla produzione all'utilizzo, la
compatibilità con le citate quattro condizioni ex dlgs
152/2006; il rispetto di determinate regole di deposito e
trasporto; la conservazione della contrattualistica sottesa
alle attività di gestione; la tenuta di una documentazione
ad hoc consistente in una scheda tecnica (identificativa di
produttore, sottoprodotti e filiera di utilizzo) e in una
dichiarazione di conformità (certificante le qualità del
sottoprodotto in caso di cessione a terzi).
L'origine dei sottoprodotti.
In relazione alla prima delle sopra esposte condizioni ex
dlgs 152/2006, il dm 264/2016 reca disposizioni sia generali
che particolari. Sotto il primo profilo viene precisato che
dal regime di favore riservato ai sottoprodotti sono esclusi
i residui derivanti da attività di «consumo». I criteri di
carattere particolare sono invece da rintracciarsi
nell'allegato 1 del regolamento, laddove si indicano le
origini ammissibili per le specifiche categorie di residui
vegetali e animali.
La certezza dell'utilizzo.
Tale prova potrà per il minambiente essere data: in caso di
utilizzo nel medesimo ciclo di produzione, tramite la
dimostrazione (anche documentale) dell'esistenza del citato
sistema di gestione controllata dei residui (dalla loro
produzione al loro effettivo riutilizzo passando per le
operazioni intermedie di deposito e trasporto); in caso di
utilizzo in cicli diversi da quello di produzione, tramite
la dimostrazione della preventiva individuazione di attività
o dell'impianto di destinazione, sulla base di validi
contratti (che evidenzino oggetto della fornitura, durata
del rapporto, modalità di consegna, vantaggio economico per
produttore) o, in loro mancanza, delle schede tecniche di
dichiarazione e conformità allegate al dm (da tenersi
secondo le modalità dei registri Iva o comunque numerate e
vidimate presso le Camere di commercio).
Deposito e
trasporto, in particolare, dovranno essere condotti nel
rispetto delle norme tecniche di settore (e comunque
assicurando standard minimi di tutela della salute e
dell'ambiente), avvenire in tempistiche congrue risultanti
dalla citata «dichiarazione» allegata al dm. In caso di
utilizzo in diverso ciclo, la responsabilità del produttore
o del cessionario termineranno con la consegna del
sottoprodotto a terzi.
L'utilizzo diretto e la normale pratica
industriale. In
base al dlgs 152/2006 gli unici trattamenti compatibili con
lo status di sottoprodotto sono quelli coincidenti con la
«normale pratica industriale», che il dm 264/2016 declina
per la specifica categoria di residui, con un occhio di
favore per i residui che restano nel ciclo che li ha
generati. Infatti, solo se effettuate nel ciclo di
produzione del residuo saranno considerate «Npi» anche le
attività e le operazioni finalizzate a dare agli stessi
residui i requisiti di compatibilità ambientale e di salute.
Standard di prodotto ed eco-qualità.
La prova di tali condizioni dovrà essere fornita dal
produttore mediante la predisposizione, la conservazione e
l'aggiornamento dell'apposita e citata scheda tecnica
allegata al dm; scheda che in caso di cessione dei residui
per utilizzo in altro ciclo produttivo, dovrà essere altresì
integrata dalla dichiarazione di conformità indicata dallo
stesso allegato
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: P.a.,
lavoro flessibile al bando. Stop alle collaborazioni,
contratti a termine per 36 mesi.
RIFORMA MADIA/ Molte le misure contro la precarizzazione del
pubblico impiego.
La riforma Madia irrigidisce il lavoro flessibile nella
pubblica amministrazione. Le modifiche del pacchetto (Atto
del Governo n. 393 - Schema di decreto
legislativo recante modifiche e integrazioni al testo unico
del pubblico impiego, di cui al decreto legislativo
30.03.2001, n. 165) che
interessa il testo unico del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche, il dlgs 165/2001, sono
caratterizzate dal chiaro intento di limitare quanto più
possibile l'utilizzo dei contratti di lavoro diversi da
quelli a tempo indeterminato, come misura di prevenzione
contro la precarizzazione, che si accompagna e coordina con
l'ennesima ondata di stabilizzazioni prevista.
Collaborazioni.
La riforma modifica l'articolo 7 del dlgs 165/2001, dedicato
proprio alle collaborazioni, introducendo un comma 5-bis, ai
sensi del quale «è fatto divieto vieta alle amministrazioni
pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si
concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente
personali, continuative e le cui modalità di esecuzione
siano organizzate dal committente anche con riferimento ai
tempi e al luogo di lavoro».
È un divieto dal contenuto
sostanzialmente identico a quello previsto nell'articolo 2,
comma 4, del dlgs 81/2015 (Jobs act) la cui applicazione è
stata, però, rinviata al primo gennaio 2018 dall'articolo 1,
comma 8, del dl 244/2016. Poiché la riforma del dlgs 165/2001
dovrebbe entrare in vigore, se tutto andrà come previsto,
tra maggio e giugno, il nuovo comma 5-bis dell'articolo 7
avrà l'effetto di anticipare il divieto di utilizzare le
collaborazioni nella p.a.
Rimane confermata l'impossibilità
di estendere alla p.a. la «conversione» delle collaborazioni
in lavoro subordinato, ammessa, invece, dal dlgs 81/2015
come «sanzione» per i datori che utilizzino impropriamente
lo strumento.
Solo lavoro autonomo.
Inoltre, la riforma cancella dall'articolo 7, comma 6, il
riferimento ad incarichi «di natura occasionale» o
«coordinata e continuativa». Resta la sola possibilità di
affidare incarichi di lavoro autonomo vero e proprio,
caratterizzati, quindi, dall'assenza di un forte potere di
coordinamento ed ingerenza operativa da parte del
committente.
Non a caso, tra gli elementi del contratto
attraverso i quali predeterminare la prestazione da rendere
attraverso gli incarichi di collaborazione, la riforma
cancella il riferimento al «luogo» di espletamento della
prestazione, eliminando, dunque, un tipico elemento di
coordinamento, incompatibile con la pronunciata autonomia
lavorativa richiesta dalla riforma.
La violazione delle
regole sulle collaborazioni per lo svolgimento di funzioni
ordinarie o l'utilizzo dei soggetti incaricati come
lavoratori subordinati è causa di responsabilità
amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti
Tempo determinato.
A differenza del settore privato, nel quale il dlgs 81/2015
ha messo a regime la cancellazione dell'obbligo di
specificare le ragioni giustificative del ricorso ai
contratti a tempo determinato (e di somministrazione), la
riforma Madia conferma che nella p.a. il tempo determinato è
«causale».
Deve, cioè, essere sorretto da una causa
giustificativa, consistente (come nel vigente regime) per
comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o
eccezionale. Nel tentativo di disporre un certo grado di
armonizzazione del regime del lavoro pubblico con quello
privato, il ritocco al comma 2 dell'articolo 36 del dlgs
165/2001 dispone che i contratti di lavoro subordinato a
tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto
degli articoli 19 e seguenti del dlgs 81/2015.
In poche
parole, dunque, si estendono al lavoro pubblico: il limite
massimo alla durata dei contratti di lavoro di 36 mesi
(includente anche precedenti somministrazioni di lavoro); la
possibilità di prolungare di altri 12 mesi i contratti
mediante accordo scritto avanti alla direzione territoriale
del lavoro; la disciplina delle proroghe e dei rinnovi; il
numero complessivo dei contratti, non superiore al 20% del
numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1°
gennaio dell'anno di assunzione.
Resta irrisolta la
questione del cumulo di contratti a termine dovuti al fatto
che un medesimo lavoratore partecipi e vinca ripetutamente
concorsi. Non persuade anche la limitazione del numero dei
contratti a termine, considerando che nel privato è un
rimedio all'acausalità dei contratti, mentre nel pubblico
non solo rimane la causalità, ma vi sono anche limiti di
spesa di cui tenere conto
(articolo ItaliaOggi del 25.02.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - VARI: Pec,
revoca d'ufficio.
L'informativa del Registro imprese relativa alla revoca o
alla cessazione dell'indirizzo Pec di un'impresa non più
attiva deve avvenire d'ufficio. E la notifica del
provvedimento di cancellazione va effettuata mediante
pubblicazione dello stesso sull'albo camerale della Cciaa;
pubblicazione che resta effettiva per sette giorni
consecutivi. Alla scadenza, inizieranno a decorrere 15
giorni, entro cui l'impresa individuale o collettiva
(articolo 2192 c.c.), che ha subito la cancellazione della
Pec potrà presentare ricorso.
A dettare i tempi è il Tribunale delle imprese della Cciaa
di Milano, con il
provvedimento 11.02.2017 n.
cronologico 515/2017.
Il ministero dello Sviluppo economico (direttiva
Mise-Mingiustizia del 28.03.2015), ha stabilito che le
imprese costituite in forma societaria e le imprese
individuali attive e non soggette alla procedura concorsuale
debbano munirsi di casella di posta elettronica certificata,
iscrivere il relativo indirizzo nel registro imprese e
mantenere la casella attiva nel tempo.
L'ufficio del
Registro imprese, da parte sua, è tenuto a verificare, con
modalità automatizzate, se siano attive le caselle di posta
elettronica certificata relative agli indirizzi iscritti nel
registro. In caso negativo, l'ufficio camerale, deve
invitare le imprese interessate a presentare la domanda di
iscrizione di un nuovo indirizzo di posta elettronica
certificata.
L'iscrizione al Registro imprese dell'indirizzo
di posta elettronica certificata di un'impresa è
legittimamente effettuata solo se l'indirizzo Pec è nella
titolarità esclusiva della medesima impresa; questo
costituisce il requisito indispensabile per garantire la
validità delle comunicazioni e delle notificazioni
effettuate con modalità telematiche.
Prima di procedere
all'iscrizione di un indirizzo Pec, la Cdc dovrà verificare,
tramite consultazione elenchi (di cui all'art. 16-ter del dl
n. 179/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
221/2012), che l'indirizzo Pec non risulti già assegnato ad
altra impresa. In questo caso, dovrà invitare il richiedente
ad indicare un nuovo indirizzo Pec, pena il rigetto della
domanda d'iscrizione
(articolo ItaliaOggi del 25.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Rifiuti
organici, gestione collettiva del compostaggio.
Forte spinta verso l'uso del compostaggio dei rifiuti
organici di comunità, modalità innovativa di gestione dei
rifiuti urbani biodegradabili. La gestione comunitaria del
rifiuto organico (frutta e verdura, scarti di cibo, fondi di
caffè, etc), permetterà di introdurre un percorso
«eco-innovativo» aggiuntivo nel sistema.
È con decreto del 26.12.2016 n. 266 (pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24.02.2017) che il
ministero dell'ambiente semplifica le procedure autorizzative.
L'attività di compostaggio di comunità viene
intrapresa dall'organismo collettivo, previo invio di una
segnalazione certificata di inizio attività al comune
territorialmente competente, che ne darà comunicazione
all'azienda affidataria del servizio di gestione dei rifiuti
urbani. La Scia, firmata dal responsabile, sarà inviata,
tramite raccomandata con avviso di ricevimento. Contiene il
regolamento sull'organizzazione dell'attività di
compostaggio, adottato dall'organismo collettivo, vincolante
per le utenze conferenti. I contenuti minimi del regolamento
sono indicati nell'allegato 2 del decreto in Gazzetta.
Per
la riduzione della tassa rifiuti e dell'eventuale computo
del compostaggio di comunità nella percentuale di raccolta
differenziata da parte dei comuni, il responsabile
dell'apparecchiatura dovrà comunicare entro il 31 gennaio di
ogni anno, al comune territorialmente competente, nelle
modalità definite dallo stesso comune, le quantità in peso,
relative all'anno solare precedente: dei rifiuti conferiti,
del compost prodotto, degli scarti e del compost che non
rispetta le specifiche caratteristiche richieste
(articolo ItaliaOggi del 25.02.2017). |
APPALTI: Appalti,
qualificazione imprese sugli ultimi dieci anni di attività.
Lavori pubblici. Primo ok «salvo intese» al
decreto che corregge il nuovo Codice - Gentiloni: contributo
alla ripresa.
Primo ostacolo
superato «salvo intese» per il correttivo della riforma
appalti. Il Consiglio dei ministri ha dato l’ok preliminare
al provvedimento
(Atto
del Governo n. 397 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50)
incaricato di correggere le criticità
rilevate in questi primi dieci mesi di applicazione del Dlgs
50/2016.
L’obiettivo, come ha ricordato il premier Paolo Gentiloni al termine della riunione del Governo, è «dare un
contributo alla ripresa degli appalti e dei lavori pubblici
di cui molto abbiamo bisogno».
Nei prossimi giorni, per il correttivo già sottoposto a una
fase consultazione, comincerà la fase di raccolta dei pareri
istituzionali. L’iter della legge delega prevede un
passaggio al Consiglio di Stato e alla Conferenza unificata
(pareri in 20 giorni) oltre alle Commissioni parlamentari
che dovranno esprimersi in 30 giorni. Al termine, il secondo
esame in Consiglio dei ministri. Il tutto deve concludersi
entro il 19 aprile: pena la decadenza della delega.
La bozza esaminata ieri dal Governo è stata approvata «salvo
intese». Formula di rito che indica che esistono dei punti
da limare. Bisogna, infatti, tenere conto che il
provvedimento dovrà essere arricchito con i risultati della
consultazione sulla prima versione del decreto aperta da
Palazzo Chigi venerdì 17 febbraio e chiusa nella notte di
mercoledì 22. Dal mercato sono arrivate centinaia di
osservazioni. Ora devono essere valutate e selezionate.
Elemento che sposta inevitabilmente in avanti di qualche
giorno il momento in cui il provvedimento assumerà la sua
veste finale per cominciare il giro dei pareri.
Nel merito, il decreto apporta circa 245 correzioni al nuovo
codice, tentando di dare una risposta organica alle
difficoltà segnalate da imprese e operatori. Per rispondere
alla crisi del settore il decreto recupera innanzitutto le
agevolazioni che fino al 2015 hanno permesso alle imprese
edili di qualificarsi prendendo in considerazione gli ultimi
dieci anni di attività. Periodo che il nuovo codice invece
dimezzava a cinque. E vengono fatti salvi i direttori
tecnici che hanno maturato i requisiti sul campo. Sulla base
di una richiesta dell’Autorità Anticorruzione il rating
destinato a valutare la “reputazione” dei costruttori non
sarà più obbligatorio, ma rilasciato a richiesta delle
imprese. Mentre le stazioni appaltanti potranno usarlo per
assegnare punteggi bonus in gara.
Il decreto interviene poi sulla rigida separazione tra
progetto e lavori (appalto integrato) tentando di inserire
elementi di flessibilità. Di sicuro, come ha confermato in
una recente audizione il ministro delle Infrastrutture
Graziano Delrio, verrà riaperta una finestra per le
amministrazioni che avevano già pronto un progetto
preliminare o definitivo al momento di entrata in vigore
della riforma. In questi casi si potrà andare in gara senza
arrivare al dettaglio esecutivo. Ok al progetto definitivo
anche per gli interventi di semplice manutenzione.
Semplificazioni anche per i subappalti. L’obbligo di
indicare una terna di nomi con l’offerta diventerà una
facoltà da indicare nei bandi. Mentre il tetto del 30% ai subaffidamenti sarà calcolato sui lavori prevalenti e non
sull’intero importo del contratto. Negli appalti superiori
al milione almeno il presidente di commissione dovrà essere
esterno alla Pa e scelto dall’albo Anac (articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
APPALTI: Manutenzione
con meno carte. Una progettazione semplificata per i lavori
più leggeri. Il consiglio dei
ministri ha approvato in via preliminare il correttivo del
Codice contratti.
Una progettazione semplificata per i lavori di manutenzione,
ad esclusione degli interventi di manutenzione che prevedono
il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle
opere. Si allenta il divieto di appaltare i lavori sulla
base di progetti diversi da quello esecutivo: una apertura è
prevista per i progetti preliminari e definitivi approvati
dalle stazioni appaltanti prima del 19.04.2016 (quando entrò
in vigore il decreto 50/2016 - Codice dei contratti
pubblici). Così come si potrà prescindere dall'avvenuta
redazione del progetto esecutivo per ragioni di estrema
urgenza derivante da eventi imprevedibili per
l'amministrazione aggiudicatrice e ad essa non imputabili.
È stato approvato ieri in via preliminare dal consiglio dei
ministri lo schema del primo decreto correttivo del codice
dei contratti pubblici (Atto
del Governo n. 397 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive
del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) che dovrà essere portato a termine
entro il 19 aprile e sul quale si è svolta nei giorni scorsi
(dalle 20 di venerdì 17 alle 24 di mercoledì 22 febbraio) la
consultazione pubblica dei rappresenti degli operatori
economici.
Il testo, che con tutta probabilità non differirà
molto da quello sottoposto alla consultazione, sarà adesso
trasmesso agli organi che per legge devono rendere i pareri.
In base alla legge delega 11/2016 deve essere inviato quindi
alla Conferenza unificata, al Consiglio di stato e alle
Commissioni parlamentari competenti per materia (ambiente e
lavori pubblici rispettivamente di Camera e Senato).
Alla
Conferenza unificata e al Consiglio di stato vengono dati 20
giorni per varare il parere, al Parlamento 30 giorni. Il
tutto entro la scadenza del 18 aprile. Complessivamente il
lavoro non è affatto semplice come è risultato chiaro anche
dal dibattito parlamentare svoltosi la scorsa settimana
presso le commissioni riunite quando il ministro delle
infrastrutture Graziano Delrio ha annunciato le principali
novità del testo che, anche nel documento messo in
consultazione pubblica sono state confermate. Una notevole
apertura riguarda la possibilità di appaltare i lavori con
il solo progetto definitivo in caso di netta prevalenza
dell'elemento tecnologico o innovativo.
Viene definita una
soglia minima superata la quale è possibile procedere
all'affidamento a contraente generale (almeno 150 milioni) e
si toccano materie molto delicate come il subappalto, che
sembrerebbe «facoltativo» cioè spetterebbe alle stazioni
appaltanti decidere per ogni gara se ammetterlo o vietarlo;
una disposizione molto controversa sulla quale il settore
delle imprese è particolarmente critico. In generale, sulla
disciplina del subappalto si è discusso e si discuterà
ancora anche per quanto riguarda la proposta, contenuta nel
documento posto in consultazione pubblica, di tornare al
limite del 30% sulla sola categoria prevalente è stato
previsto perché, ha affermato Delrio una settimana fa, «c'è
una sentenza della Corte europea».
Per i servizi tecnici ormai sembrano consolidate le
disposizioni che rendono vincolante il cosiddetto «decreto
parametri» che definisce la base di gara per gli affidamenti
di ingegneria e architettura e quelle che impediscono di
subordinare il pagamento dei corrispettivi all'ottenimento
del finanziamento dell'opera e, infine, quelle che vietano
il pagamento dei corrispettivi con forme di sponsorizzazioni
o con rimborsi di qualsiasi natura.
Sul rating di impresa il Governo aveva già scelto di
renderlo facoltativo e di rivedere l'attuale esclusivo
collegamento del rating di impresa alla qualificazione, in
luogo di un suo inserimento tra gli elementi di valutazione
dell'offerta qualitativa. È stato portato al 49% il tetto
del contributo pubblico nelle operazioni di finanza di
progetto e per la qualificazione delle imprese si è portato
a dieci anni l'arco temporale di considerazione dei
requisiti e da tre a cinque anni il periodo per valutare la
cifra d'affari in lavori quando si tratti di appalti oltre i
20 milioni.
Per i requisiti di ammissione alla gara si specifica che in
caso di consorzi e raggruppamenti temporanei si possa
indicare le percentuali di possesso in capo ai consorziati o
ai raggruppati, con la precisazione che la mandataria in
ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le
prestazioni in misura maggioritaria. Eliminato il soccorso
istruttorio a pagamento in ragione della causa pregiudiziale
innanzi alla Corte di giustizia per contrasto con i principi
di concorrenza previsti dal Trattato europeo
(articolo ItaliaOggi del 25.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
ENTI LOCALI: Più
tempo alle partecipate. Fino al 31 luglio si possono
adeguare gli statuti. Il decreto
correttivo del dlgs 175/2016 approvato dal Consiglio dei
ministri.
Tempo fino al 31/07/2017 per adeguare gli statuti delle
società partecipate alle previsioni del dlgs 175/2016. I cda
potranno rimanere a 3 o 5 membri con semplice delibera
motivata dell'assemblea ordinaria trasmessa alla Corte dei
conti. In merito al decreto del Ministero dell'economia e
della finanza (Mef) che doveva imporre un limite ai compensi
massimi di amministratori e manager delle società
controllate, esso dovrà essere adottato previa intesa con la
Conferenza Unificata.
Sono alcune delle principali modifiche che potrebbero essere
apportate al dlgs 175/2016 dallo «Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive al
decreto legislativo 19.08.2016 n. 175, recante testo
unico in materia di società a partecipazione pubblica»
approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri, ma
che ora dovrà ripercorrere il previsto iter legislativo (Atto
del Governo n. 404 - Schema di decreto
legislativo recante disposizioni integrative e correttive al
testo unico in materia di società a partecipazione pubblica,
di cui al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175) (si
veda ItaliaOggi dello scorso 18 febbraio, pag. 32).
Il
decreto correttivo sarà emanato sulla base della delega
contenuta nell'art. 16, c. 7, della legge n. 124/2015, il
quale prevede che entro 12 mesi dalla data di entrata in
vigore dei decreti il governo possa adottare uno o più
decreti legislativi recanti disposizioni integrative e
correttive.
Proroga dei termini per gli adeguamenti statutari. Nelle
società a controllo pubblico l'attuale art. 26, comma 1 del dlgs 175/2016 prevede che le società vigenti alla data di
entrata in vigore del decreto (23/09/2016 ndr) adeguino i
propri statuti alle previsioni del dlgs 175.
Tali modifiche
riguardano, soprattutto le disposizioni di cui all'art. 11,
c. 9 (delegabilità della gestione della società ad un solo
amministratore, l'esclusione della carica di vicepresidente,
salvo la gratuità della funzione, il divieto di
corrispondere gettoni di presenza o premi di risultato
deliberati dopo lo svolgimento dell'attività, il divieto di
corrispondere tfm ai componenti degli organi sociali, il
divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle
norme generali in tema di società).
Nella pratica sembra che
anche in virtù dell'incertezza normativa determinata dalla
sentenza della Corte costituzionale 25/11/2016 n. 251, che
ha posto il decreto in commento a rischio di
incostituzionalità, tali adeguamenti sono stati effettuati
entro il termine previsto del 31/12/2016 da pochissime
società, con il rischio per gli amministratori che non
avessero provveduto a convocare l'assemblea straordinaria,
di essere assoggettati alle sanzioni di cui all'art. 2631
c.c. (si veda ItaliaOggi del 6 gennaio). Tale rischio
dovrebbe essere scongiurato dalla prevista proroga dei
termini di adeguamento statutario al 31/07/2017.
Torna il cda. Le attuali disposizioni dell'art. 11, c. 3, del dlgs 175 prevedono che con apposito dcpm, su proposta del
Mef, entro il mese di marzo, fossero definiti i criteri in
base ai quali, per specifiche ragioni di adeguatezza
amministrativa (presumibilmente nelle società grandi e
complesse) l'assemblea possa deliberare che il cda sia
costituito da 3 o 5 membri. Al di fuori di tali situazioni
la società avrebbe dovuto provvedere alla nomina di un
amministratore unico.
Ora pur permanendo nel comma 2
dell'art. 11, la norma base che vuole, in dette società, la
nomina di un amministratore unico, viene cancellata la
previsione secondo la quale, con dcpm si sarebbero dovute
determinare le specifiche situazioni in cui si sarebbe
potuto nominare il cda, il che, di fatto, avrebbe imposto
l'amministratore monocratico in tutte le altre situazioni
non espressamente previste.
Con l'emendamento all'art. 11,
si dispone di contro che «L'assemblea della società a
controllo pubblico con delibera motivata con riguardo a
specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo
conto delle esigenze di contenimento dei costi, può disporre
che la società sia amministrata da un consiglio di
amministrazione composto da tre o cinque membri... la
delibera è trasmessa alla sezione della Corte dei Conti
competente...».
In altri termini, mentre le attuali
disposizioni prevedono situazioni oggettive in cui si
potrebbe derogare dall'organo amministrativo monocratico, il
testo modificato lascerebbe la decisione all'assemblea che
dovrà giustificare l'organo collegiale e inviare alla corte
dei conti la motivata delibera di nomina, con, si ritiene, i
previsti emolumenti.
Tetto ai manager. Viene chiarito che il decreto Mef con il
quale saranno definiti indicatori dimensionali quantitativi
e qualitativi, al fine di individuare fino a cinque fasce
per la classificazione delle società a controllo pubblico e
i criteri di determinazione della remunerazione degli
amministratori di tali società (nonché ai dirigenti e ai
dipendenti), mediante la previsione di limiti massimi di
remunerazione proporzionati alla dimensione dell'impresa,
verrà adottato, nel caso di società controllate dalla
regione o da enti locali, previa intesa con la Conferenza
unificata, ai sensi dell'art. 8, c. 6, della legge n.
131/2003. Fino ad allora restano in vigore i limiti vigenti
(articolo ItaliaOggi del 25.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Fascicolo
del fabbricato, professionisti senza delega.
La semplificazione della p.a. attraverso la delega ai
professionisti di compiti e funzioni pubbliche non passerà
attraverso il fascicolo di fabbricato.
La commissione lavoro della camera ha infatti approvato un
emendamento all'articolo 5 del ddl lavoro autonomo (Atto
Camera n.
4135 - Misure per la tutela del lavoro
autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire
l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro
subordinato) che modifica la norma introdotta al Senato con
l'obiettivo di alleggerire l'attività delle amministrazioni
pubbliche e ridurre i tempi di produzione riconoscendo un
ruolo di sussidiarietà alle professioni ordinistiche.
L'articolo 5 così come approvato dal senato delega infatti
il governo ad adottare, entro 12 mesi dalla data di entrata
in vigore della legge, uno o più decreti legislativi
attraverso i quali saranno individuati gli atti delle
amministrazioni pubbliche che possono essere rimessi anche
ai professionisti nonché il riconoscimento del ruolo
sussidiario delle professioni, «demandando ai professionisti
l'assolvimento di compiti e funzioni finalizzati alla
deflazione del contenzioso giudiziario e a introdurre
semplificazioni in materia di certificazione
dell'adeguatezza dei fabbricati alle norme di sicurezza ed
energetiche, anche attraverso l'istituzione del fascicolo
del fabbricato».
La commissione lavoro di Montecitorio ha approvato gli
articoli del ddl fino al 10, accantonando per il momento la
norma contenuta nell'articolo 6, quella relativa
all'attivazione di sistemi di welfare «integrativo» da parte
delle Casse di previdenza dei liberi professionista. Casse
che ieri hanno aspramente criticato la decisione della
Commissione di dichiarare inammissibile l'emendamento,
presentato dall'On. Boccadutri, nel quale si chiedeva di
porre fine a «una palese disparità di trattamento tra gli
orfani dei lavoratori dipendenti e gli orfani dei liberi
professionisti».
Nella Legge di Bilancio 2017, spiega una
nota dell'Adepp, è prevista un'esclusione delle quote di
pensione in favore dei superstiti, fino ad un limite di
1.000 euro, dal reddito imponibile ai fini Irpef per i
lavoratori dipendenti, pubblici o privati, o per i
lavoratori iscritti alla Gestione separata dell'Inps, senza
far alcun riferimento agli iscritti presso gli altri Enti di
previdenza obbligatoria di primo pilastro.
Questo significa,
denunciano gli enti privati, «che chi ha perso un genitore
libero professionista si troverà a pagare almeno 230 euro di
tasse in più all'anno rispetto a chi ha avuto lo stesso
lutto in casa, ma ha avuto la fortuna di essere figlio di un
dipendente»
(articolo ItaliaOggi del 25.02.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: Fascicolo
del fabbricato, linea guida del Cnpi.
È pensabile acquistare un frigorifero senza il relativo
libretto di uso e garanzia? No. Però si continuano a
comprare le abitazioni senza sapere nulla di cosa c'è
dentro, di quale sia lo stato degli impianti o di cosa sono
fatti i muri.
Proprio a questa asimmetria informativa cerca di rispondere
la nuova "Linee
Guida 03 - 01.02.2017" «Il fascicolo del fabbricato. Per
una cultura della prevenzione e della sicurezza integrata»
realizzata dalla commissione Fascicolo del fabbricato
istituita all'interno del Consiglio nazionale dei periti
industriali.
Il documento punta quindi a sensibilizzare l'opinione
pubblica sull'opportunità di dotarsi di uno strumento
fondamentale per una corretta e programmata opera di
prevenzione e di manutenzione, nel tempo, di tutti i
fabbricati.
Il testo contiene una breve descrizione del Fascicolo del
fabbricato, dei compiti a cui è chiamato ad assolvere, e del
suo ruolo determinante ai fini della prevenzione e perciò
della sicurezza
(articolo ItaliaOggi del 25.02.2017). |
ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
lavoro nella p.a. cambia pelle. Congelati i fondi del
salario accessorio, rafforzati i Ccnl.
Il consiglio dei ministri ha approvato la maxi riforma
Madia del pubblico impiego.
Ennesimo congelamento dei fondi contrattuali, rafforzamento
della contrattazione collettiva e nuove regole per rientrare
dagli sforamenti ai tetti del salario accessorio. Sono il
piatto forte dell'ultima versione del decreto legislativo di
riforma del dlgs 165/2001 (attuativo dell'articolo 17 della
legge delega Madia) approvato ieri in via preliminare dal
consiglio dei ministri.
Fondo contrattuale. Nonostante il ministro della Funzione
pubblica, Marianna Madia abbia polemizzato con l'ex titolare
di palazzo Vidoni, Renato Brunetta, sul congelamento dei
contratti, è proprio la bozza di riforma a confermare per
l'ennesima volta il blocco dei fondi del salario accessorio.
Una delle disposizioni transitorie previste dal decreto
vuole ottenere l'armonizzazione dei trattamenti economici
accessori dei vari comparti. Allo scopo, nelle more del
conseguimento di questo obiettivo, si prevede che dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse
destinate annualmente al trattamento accessorio del
personale, anche di livello dirigenziale, delle p.a. non
possa superare il corrispondente importo determinato per
l'anno 2016.
È una norma «gemella» di quella contenuta
nell'articolo 1, comma 236, della legge 208/2015, che a sua
volta ha contenuti analoghi a quelli dell'articolo 9, comma
2-bis, del dl 78/2010, a conferma che le ricette in tema di
personale sono sempre le stesse. Lo schema di riforma ha,
tuttavia, il pregio di precisare che il nuovo tetto al
salario accessorio, fissato nel 2016, vale anche per la
dirigenza e decorre dall'01.01.2017, superando così i problemi
interpretativi che pone l'articolo 1, comma 236, della legge
205/2016.
Forza normativa dei Ccnl. I Ccnl potranno derogare non solo
le leggi che introducano in futuro previsioni concernenti il
lavoro pubblico, ma anche quelle che nel passato abbiano già
regolato le materie che la nuova formulazione dell'articolo
40, comma 1, del dlgs 165/2001 attribuirà alla ritrovata
forza normativa dei contratti collettivi nazionali di
lavoro.
La contrattazione collettiva, in particolare, potrà
disciplinare integralmente il rapporto di lavoro, sia sul
piano giuridico che economico, oltre alle relazioni
sindacali. Tuttavia, il nuovo testo dell'articolo 40, comma
1, indica materie sulle quali i Ccnl non potranno
intervenire: organizzazione degli uffici, partecipazione
sindacale ai sensi dell'articolo 9 del dlgs 165/2001;
prerogative dei dirigenti quali privati datori di lavoro
(tra cui, in particolare, la «micro organizzazione» degli
uffici e del personale loro assegnato; conferimento e revoca
degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui
all'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23.10.1992, n. 421 (competenze degli organi, «macro
organizzazione», concorsi, dotazioni organiche e
incompatibilità dei dipendenti pubblici).
Vi saranno, poi,
materie come sanzioni disciplinari, valutazione delle
prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento
accessorio e mobilità, nelle quali la contrattazione
collettiva sarà consentita con poteri di deroga affievoliti,
perché la contrattazione dovrà rispettare i limiti previsti
dalle norme di legge. Dunque, i contratti collettivi
potranno in parte occuparsi della mobilità volontaria.
Sicuramente sarà di loro competenza disporre clausole che
impediscono incrementi della consistenza complessiva delle
risorse destinate ai trattamenti economici accessori,
qualora i dati sulle assenze, a livello di amministrazione o
di sede di contrattazione integrativa, rilevati a
consuntivo, evidenzino scostamenti significativi sugli
standard in particolare nei giorni agganciati a riposi e
festività e in periodi di particolare picco di lavoro.
Ancora, i Ccnl stabiliranno le condotte e le corrispondenti
sanzioni disciplinari per i casi di ripetute e
ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le
giornate festive e di riposo settimanale, nonché con
riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in
determinati periodi nei quali è necessario assicurare
continuità nell'erogazione dei servizi all'utenza. Sempre i
Ccnl dovranno occuparsi della razionalizzazione e della
semplificazione delle regole riguardanti la costituzione e
la destinazione dei fondi destinati alla contrattazione
integrativa. Con la possibilità, oggettivamente piuttosto
strana, di consolidare le risorse variabili, sia pure
limitata alle sole amministrazioni in regola con i vincoli
di contenimento della spesa.
Sforamento dei tetti del salario accessorio. La riforma
interviene sul «salva Roma», il dl 16/2014. Viene modificato
in parte l'articolo 4, comma 1, che consente di recuperare
eventuali sforamenti ai tetti dei fondi per la
contrattazione decentrata
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it). |
GIURISPRUDENZA |
URBANISTICA:
Obbligo di provvedere sull’istanza di ritipizzazione di
un’area e vincoli conformativi.
---------------
●
Silenzio della P.A. – Obbligo di provvedere – Istanza di
ritipizzazione di un’area – Non sussiste.
●
Urbanistica – Piano regolatore – Vincoli - Carattere
conformativo – Individuazione.
●
Non è configurabile in capo al Comune un obbligo di
provvedere sull’istanza del privato volta alla
ritipizzazione di un’area, chiedendosi l’adozione di un atto
a contenuto generale, la cui adozione rientra nella
discrezionalità dell’Amministrazione (1).
●
Il carattere conformativo dei vincoli non dipende
dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti
urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, per natura
e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare
tale carattere ove gli stessi vincoli siano inquadrabili
nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di
parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni,
nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti,
in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i
beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche
intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con
un'opera pubblica; di contro, il vincolo, se incide su beni
determinati, in funzione non già di una generale
destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera
pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la
proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato
alla relativa espropriazione (2).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che l’istituto sotteso alla domanda
azionata non può trovare applicazione allorquando si sia in
presenza di atti a contenuto generale rimessi alla scelta
discrezionale dell'Amministrazione e rispetto alla quale non
sia configurabile un interesse qualificato del privato tale
da poter rivendicare l'esistenza di un obbligo per l'Ente di
procedere all'adozione di atti a contenuto pianificatorio (Cons.
St., sez. IV, 11.12.2014, n. 6081).
(2) Ha chiarito il Tar che i vincoli di destinazione urbanistica
sono soggetti a decadenza solo se sono preordinati
all'espropriazione o comportano l’identificazione e dunque
se svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo
sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile
rispetto alla sua destinazione naturale, diminuendone in
modo significativo il valore di scambio; di conseguenza, la
destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde
pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà
privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un
vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo,
che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente
alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico,
che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale (Cons.
St., sez. IV, 08.09.2015, n. 4155) (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 31.03.2017 n. 499
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
5.1. In ogni caso, oltre ad avere ragionevolmente
motivato il proprio diniego a provvedere in ragione
dell’imminente approvazione del nuovo atto di pianificazione
generale del territorio (POC) all’interno del quale anche
attraverso lo strumento partecipativo delle osservazioni
l’interessata potrà far valere le sue ragioni, il Comune
nelle sue difese nega che sussista il presupposto per
l’invocata riqualificazione giuridica dell’area di proprietà
della ricorrente.
E ciò in quanto, contrariamente a quanto sostenuto con il
ricorso, il vincolo che la ricorrente assume essere di
natura espropriativa, non sarebbe affatto scaduto,
trattandosi, invece, di un vincolo di carattere conformativo.
La tesi merita adesione.
Secondo la ricorrente il vincolo a servizi esistente
sull’area per effetto del RU del 2005 avrebbe cessato di
essere efficace per effetto del decorso del quinquennio ai
sensi dell’art. 55, co. 5, l.reg. n. 1/2005 secondo cui “Le
previsioni di cui al comma 4 ed i conseguenti vincoli
preordinati alla espropriazione sono dimensionati sulla base
del quadro previsionale strategico per i cinque anni
successivi alla loro approvazione; perdono efficacia nel
caso in cui, alla scadenza del quinquennio dall'approvazione
del regolamento o dalla modifica che li contempla, non siano
stati approvati i conseguenti piani attuativi o progetti
esecutivi”.
L’affermazione non può essere seguita.
Costituisce principio consolidato l’assunto per cui
il carattere conformativo dei vincoli non dipende
dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti
urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, per natura
e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare
tale carattere ove gli stessi vincoli siano inquadrabili
nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di
parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni,
nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti,
in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i
beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche
intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con
un'opera pubblica; di contro, il vincolo, se incide su beni
determinati, in funzione non già di una generale
destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera
pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la
proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato
alla relativa espropriazione
(Cons. Stato, sez. IV, 24.08.2016 n. 3684; id., sez. IV,
30.07.2012, n. 4321).
Si è in tal senso precisato che i vincoli
di destinazione urbanistica sono soggetti a decadenza solo
se sono preordinati all'espropriazione o comportano
l’identificazione e dunque se svuotano il contenuto del
diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto
da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione
naturale, diminuendone in modo significativo il valore di
scambio; di conseguenza la destinazione ad attrezzature
ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano
regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta
l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma
solo di un vincolo conformativo, che è funzionale
all'interesse pubblico generale conseguente alla
zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che
definisce i caratteri generali dell'edificabilità in
ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio
comunale (Cons.
St., sez. IV, 09.12.2015, n. 558; Id., 08.09.2015, n. 4155).
Ne consegue che la destinazione impressa
alla proprietà della ricorrente (attrezzature pubbliche e di
quartiere) non può essere ritenuta di natura espropriativa,
con la conseguenza che non era configurabile alcun obbligo
per il Comune di provvedere a rimodulare ex novo tale
destinazione per sua natura di durata indeterminata
(TAR Toscana, sez. III, 07.01.2015 n. 7). |
APPALTI SERVIZI:
Iscrizione ad albi per l’affidamento di appalti servizi,
sottoscrizione dell’offerta e termine per chiudere il
procedimento di gara.
---------------
●
Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi –
Iscrizione abilitativa – Non è condizione per la
partecipazione alla gara ma per l’esecuzione dell’appalto.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerta – Sottoscrizione – Omessa
sottoscrizione di un socio amministratore della società –
Conseguenza.
●
Contratti della
Pubblica amministrazione – Offerta – Termine di
vincolatività dell’offerta - Art. 11, comma 6, d.lgs. n. 163
del 2006 – Non è termine per concludere il procedimento di
gara.
●
In sede di appalto servizi, in presenza di norme
di settore che prevedono una specifica idoneità per
l'esecuzione di determinate prestazioni richieste
dall'appalto, quale ad esempio l'iscrizione ad albi o
registri, la richiesta del relativo possesso rileva
esclusivamente come requisito da dimostrare in fase di
esecuzione e non come condizione per la partecipazione alla
gara.
●
Qualora lo Statuto della società concorrente ad
una gara pubblica preveda che l’offerta deve essere firmata
da entrambi i soci amministratori, la firma di uno solo di
questi concretizza una incompleta sottoscrizione
dell’offerta e dei relativi allegati, originando una non
corretta spendita del potere, in una sorta di fattispecie a
formazione progressiva che avrebbe dovuto concludersi con la
firma dell’altro socio amministratore e che invece si è
interrotta con la sottoscrizione apposta da uno solo dei due
(1).
●
Il termine di 180 giorni entro il quale, ai sensi
dell’art. 11, comma 6, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 l'offerta è
vincolante non costituisce una scadenza entro cui il
procedimento di aggiudicazione deve concludersi, ma indica
un lasso di tempo entro il quale l’offerta si presume
conservi la propria remuneratività e trascorso il quale
l’interessato può scegliere di liberarsi dal vincolo per il
solo effetto del venire meno di tale presunzione (2).
---------------
(1)
Tale situazione, ad avviso del Tar, non è assimilabile alla
mancanza della sottoscrizione, o alla sottoscrizione di un
soggetto privo di procura, costituendo invece un caso di
mancato perfezionamento di una fattispecie a formazione
progressiva o di incompleta sottoscrizione che non preclude
la riconoscibilità della provenienza dell’offerta e non
comporta un’incertezza assoluta sulla stessa (ai fini di cui
all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163), il che
induce a ritenere il vizio sanabile mediante il soccorso
istruttorio e non idoneo a cagionare l’immediata ed
automatica estromissione dalla procedura selettiva (Cons.
St., sez. V, 10.09.2014, n. 4595;
Tar Lazio, sez. I, 16.06.2016, n. 6923).
(2) Ha chiarito il Tar che la ratio dell’art. 11, comma 6,
d.lgs. 12.04.2006, n. 163 è di mantenere ferma l’offerta per
tutto il periodo di presumibile durata della gara; il citato
art. 11 fissa un limite temporale posto non nell’interesse
dell’Amministrazione ma dell’impresa offerente, con la
conseguenza che, una volta scaduto il termine di efficacia
posto dal bando o dalla legge, le offerte non possono
automaticamente considerarsi inefficaci, in assenza di una
univoca manifestazione di volontà in tal senso da parte
degli interessati.
La non perentorietà del termine di cui all’art. 11 del
Codice dei contratti pubblici discende dall’assenza di
comminatorie di preclusioni o decadenze a carico
dell’Amministrazione per il suo eventuale superamento, dopo
il quale permane la potestà di chiedere ai concorrenti il
differimento dell’impegno; d’altro canto, l’accoglimento
della richiesta è rimesso alla libera volontà
dell’offerente.
La legge prevede in capo a quest’ultimo il diritto
potestativo di svincolarsi dall’offerta quando sia decorso
un certo periodo di tempo dalla celebrazione della gara,
così garantendo la conservazione della remuneratività
dell’offerta fino al momento dell’aggiudicazione. Il
concorrente può pertanto validamente svincolarsi dalla
propria offerta, senza soggiacere ad un onere di motivazione
o ad un termine per l’esercizio di tale diritto (TAR
Toscana, Sez. I,
sentenza 31.03.2017 n. 496
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul
decreto correttivo del nuovo codice dei contratti pubblici.
Lo schema di correttivo modifica 119 dei 220 articoli del
codice e interviene dopo solo un anno; mentre il codice non
è stato ancora completato con tutti gli atti attuativi
previsti, pari a 53 (ad oggi, ne sono stati varati 11
espressamente previsti dal codice, e 4 non espressamente
previsti, e sono in corso di adozione altri 9 atti
attuativi).
Il Consiglio di Stato, oltre a rendere il parere
sull’originario schema di codice, ha reso sinora, altri 16
pareri sui vari atti attuativi.
Il parere individua anzitutto i limiti formali e sostanziali
del potere correttivo:
a) il mancato recepimento di una parte della delega entro il
termine di scadenza consuma definitivamente il relativo
potere, e tale mancato esercizio non può essere recuperato
in sede di adozione di decreti correttivi;
b) con il correttivo sono consentite “integrazioni e correzioni”
(anche rilevanti), a seguito di un periodo di
“sperimentazione applicativa”;
c) lo strumento del correttivo non può costituire una sorta di
‘nuova riforma’, pur rispettosa della delega originaria, che
modifichi le scelte di fondo operate in sede di primo
esercizio della delega, attuando un’opzione di intervento
radicalmente diversa da quella del decreto legislativo
oggetto di correzione.
Gli interventi correttivi ed integrativi richiesti dal
decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere
classificati in quattro categorie principali.
a) eliminazione di refusi ed errori materiali;
b) coordinamento “esterno” del codice appalti con altri ambiti
normativi, e implementazione delle abrogazioni espresse di
fonti normative non più attuali;
c) eliminazione di errori formali e sostanziali di recepimento
delle direttive europee e di attuazione della legge delega;
d) rimedio a difficoltà insorte nella prima applicazione dei nuovi
istituti, come emerso dalle audizioni, dal dibattito
dottrinale e dalla prima giurisprudenza.
L’ultimo obiettivo non può essere pienamente centrato dallo
schema di correttivo del codice appalti in esame.
Infatti, non essendo stato completato il quadro degli atti
attuativi, una buona parte del codice non ha ancora avuto
pratica applicazione, e non è stato possibile cogliere a
pieno le criticità applicative da correggere.
Questo limite si coglie nella scheda VIR (verifica di
impatto della regolazione) che appare spesso lacunosa perché
non analizza le criticità applicative sulla base di un lasso
temporale e dati statistici sufficienti.
L’obiettivo non viene centrato anche perché il correttivo
interviene dopo un periodo troppo breve di applicazione
delle nuove regole: le leggi possono essere corrette solo
dopo un congruo periodo di applicazione, che deve essere
almeno di due anni.
Il Consiglio di Stato auspica –si legge nel parere– che il
Parlamento possa portare a due anni il termine, ora annuale,
per le correzioni del codice.
Allo stato, essendo previsto un unico decreto correttivo,
esso è anche l’occasione unica per apportare tutte le
modifiche necessarie per la migliore riuscita della riforma.
Il Consiglio di Stato auspica poi che la legislazione sugli
appalti pubblici abbia maggiore stabilità e non venga di
continuo modificata, come la precedente (cambiata oltre 50
volte), perché il settore ha bisogno di regole chiare e
certe.
Società in house
Si auspica un migliore coordinamento tra il codice dei
contratti pubblici e il testo unico sulle società pubbliche.
Progetti e progettisti
Deve esservi un coordinamento, rimesso al livello politico,
tra i prezziari regionali per i lavori pubblici e i prezzi
standard determinati dall’ANAC.
Deve esservi maggiore chiarezza sul criterio di scomputo dei
costi della manodopera dal costo dell’appalto soggetto a
ribasso d’asta.
Vanno valorizzate le professionalità interne alle pubbliche
amministrazioni, fissando la priorità della progettazione
interna rispetto a quella esterna, già prevista dal codice
del 2006.
Va riconsiderata l’introduzione dell’obbligo, per i
progettisti dipendenti pubblici, di iscrizione all’Ordine
professionale, in assenza di una riflessione più ampia di
carattere ordinamentale, sulla legge professionale.
Non può imporsi in modo cogente alle stazioni appaltanti
l’utilizzo degli onorari professionali approvati con decreto
ministeriale.
Contratti sotto soglia
Un numero minimo troppo alto di imprese da invitare rischia
di vanificare le esigenze di semplificazione.
In nome della celerità e semplificazione non può essere
sacrificata la necessità di un rigoroso controllo
sull’assenza di condanne penali e interdittive antimafia per
l’affidatario di contratti sotto soglia.
Qualificazione delle stazioni appaltanti
I casi di stazioni appaltanti qualificate ex lege
sono tassativi e non vanno ampliati.
Anche le articolazioni territoriali di una stazione
appaltante qualificata devono avere un’organizzazione
proporzionata e dedicata, per poter gestire gare di appalto.
Qualificazione degli operatori economici
La qualificazione deve essere affidata ad un vero e proprio
regolamento e non a linee guida.
La qualificazione non deve essere cartolare ma effettiva:
può essere attribuita per prestazioni effettivamente
eseguite, in un arco temporale ragionevole.
Nei consorzi, e in caso di subappalto, occorre evitare di
attribuire la qualificazione per prestazioni non eseguite in
proprio.
Appare irragionevole attribuire la qualificazione per
esperienze pregresse molto remote nel tempo, salva la
possibilità di una disciplina transitoria per esigenze
congiunturali.
Il rating di impresa va meglio coordinato con quello di
legalità, anche in relazione alla funzione premiale di
entrambi.
La gratuità del soccorso istruttorio, voluta dalla legge
delega, non esclude la possibilità che sia addossato al
concorrente il costo del servizio, anche in funzione di
deterrenza di condotte negligenti.
Appalti misti di progettazione ed
esecuzione
Alcune delle nuove ipotesi di appalto misto di progettazione
ed esecuzione, sebbene in astratto consentite dalle
direttive europee, non sembrano trovare piena rispondenza
nella legge delega.
Commissari di gara esterni
Una commissione di gara esterna non è necessaria quando il
criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso.
Non è condivisibile l’articolazione regionale dell’albo dei
commissari di gara, perché non assicura gli obiettivi della
riforma (commissari non radicati nel territorio in funzione
di prevenzione della corruzione).
Garanzie
E’ corretto prevedere esoneri e riduzioni delle garanzie per
contratti sotto i 40.000 euro per agevolare le piccole e
medie imprese, ma va stabilito se il beneficio è cumulabile
o no con altri in tema di garanzie.
E’ corretto ripristinare il vincolo di solidarietà tra
garanti e l’escussione della garanzia anche in caso di fatto
meramente colposo dell’aggiudicatario.
Aggiudicazione al prezzo più basso e
offerte anomale
Fermo il rispetto della delega che privilegia
l’aggiudicazione secondo criteri qualitativi rispetto
all’aggiudicazione al prezzo più basso, quest’ultima non può
prescindere da un corretto progetto esecutivo.
Consentire, in nome dell’urgenza, l’appalto integrato in
combinato disposto con il prezzo più basso, potrebbe tradire
gli obiettivi della riforma degli appalti, quanto a qualità
delle prestazioni e divieto di varianti.
Il sorteggio del criterio di determinazione della soglia di
anomalia è utile a fugare il rischio di collusioni nelle
gare aggiudicate al prezzo più basso.
Il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, a
sua volta, richiede stazioni appaltanti qualificate, e può
presentare il rischio di un’eccessiva discrezionalità non
facilmente controllabile.
Non va elevata la soglia di individuazione delle offerte
anomale.
Non vanno introdotti automatismi eccessivi nell’esclusione
delle offerte anomale, in ogni caso preclusi per gli appalti
di interesse transfrontaliero.
Subappalto
Considerate le specificità del contesto nazionale, è
preferibile non rimuovere gli attuali limiti al subappalto,
nonostante le direttive in astratto lo consentano.
I casi di terna obbligatoria dei subappaltatori devono
essere stabiliti dal codice e non rimessi totalmente alle
stazioni appaltanti.
Vanno fissati senza automatismi assoluti i casi in cui può
essere vietato il subappalto in favore di un originario
concorrente alla gara, demandando preferibilmente a linee
guida dell’ANAC i criteri orientativi della discrezionalità
delle stazioni appaltanti.
Vanno fissati limiti chiari all’utilizzo dei lavori
subappaltati per la qualificazione dell’appaltatore.
Appalti nei servizi sociali
Va mantenuta la scelta proconcorrenziale del codice che
assoggetta gli appalti nei servizi sociali alle regole
comuni, con poche deroghe, e non va ampliato il regime di
sottrazione alla concorrenza.
Appalti della protezione civile
Gli appalti della protezione civile mediante affidamento
diretto presuppongono una situazione di urgenza qualificata,
subordinata a una declaratoria di emergenza, e non possono
essere ammessi in situazioni fronteggiabili in via
ordinaria, o in cui non vi sia una declaratoria dello stato
di emergenza da parte della Presidenza del Consiglio dei
Ministri.
Concessioni e concessioni autostradali
Non può essere elevata dal 30% al 49% la percentuale del
concorso pubblico al rischio del concessionario, né quella
dei contratti di partenariato pubblico-privato (PPPC).
Non possono essere previste deroghe agli obblighi di
esternalizzazione dei concessionari autostradali, per le
manutenzioni ordinarie e gli affidamenti di importo
inferiore a 150.000 euro, perché in contrasto con la legge
delega.
Va rispettato anche nella sostanza il principio di delega
che richiede il tempestivo avvio delle gare in relazione
alle concessioni autostradali scadute o in scadenza e per
l’effetto, entro il termine massimo assegnato, i bandi di
gara vanno non solo predisposti, ma pubblicati.
Tutela giurisdizionale
Si assicuri la piena conoscibilità della motivazione e il
pieno accesso agli atti di gara in tempo utile per la loro
autonoma impugnazione giurisdizionale.
Il rito accelerato in materia di appalti necessita di
ulteriore sperimentazione e applicazione prima di eventuali
correzioni.
Abrogazioni
I principi di semplificazione, chiarezza e certezza delle
regole impongono che sia incrementato l’elenco delle
abrogazioni espresse e che vi sia un migliore coordinamento
del codice con altre fonti normative (Consiglio
di Stato, commissione speciale,
parere 30.03.2017 n. 782 -
commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
INCARICHI PROGETTUALI:
Responsabilità per crollo edificio: esente il progettista
rispettoso delle regole vigenti all'epoca
Cassazione: in caso di crollo di un
edificio il progettista responsabile
è penalmente imputabile solamente per il mancato rispetto
delle norme tecniche vigenti al momento del suo intervento.
Oggetto del
pronunciamento della Corte di Cassazione è il crollo di un
edificio avvenuto il 01.07.2004. Il fabbricato era in
origine costituito da un piano seminterrato e da un piano
terreno rialzato, realizzati tra il 1961 e il 1962 ed aventi
destinazione residenziale; successivamente furono realizzati
in sopraelevazione due ulteriori piani; tra il 1964 e il
1965, venne effettuato l'ampliamento del piano terra, su
denuncia per opere edilizie presentata da un geometra.
Tra i molteplici interventi eseguiti nel tempo sulla
struttura, un sicuro antecedente causale del crollo è
costituito dai lavori di ampliamento del piano terreno
eseguiti a cura del geometra nel 1964, mentre non è emerso
in modo chiaro un altrettanto sicuro rilievo causale delle
opere realizzate, sempre a cura del suddetto geometra, in
epoca successiva nel 1988.
Con la
sentenza 27.03.2017 n. 15138,
la IV Sez. penale della Corte di Cassazione ricorda che,
posto che il geometra nel caso in esame si poneva come
garante in rapporto a eventuali rischi derivanti dai lavori
eseguiti nel 1964 per la stabilità dell'immobile, “la
titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in
presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito
di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il
principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della
sussistenza della violazione –da parte del garante medesimo–
di una regola cautelare (generica o specifica), sia della
prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la
regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta
concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del
nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e
l'evento dannoso”.
All'epoca della realizzazione dei lavori di ampliamento del
piano terreno, largamente antecedenti l'emanazione del
decreto ministeriale 20.11.1987, erano vigenti regole
tecniche del tutto diverse in tema di carichi massimi, tali
da rendere l'operato del geometra esente da censure in
quanto rispettoso delle regole vigenti a quel tempo,
qualificabili come norme cautelari.
Dunque, la Cassazione ha chiarito che in caso di crollo di
un edificio il progettista responsabile è penalmente
imputabile solamente per il mancato rispetto delle norme
tecniche vigenti al momento del suo intervento (commento
tratto da www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI:
La V.i.a., in quanto finalizzata alla tutela
preventiva dell'interesse pubblico, presenta profili
particolarmente elevati di discrezionalità amministrativa,
che sottraggono al sindacato giurisdizionale le scelte
effettuate dall'amministrazione
Il principio di precauzione impone che quando sussistono
incertezze riguardo all'esistenza o alla portata di rischi
per la salute umana, possono essere adottate misure di
protezione senza dover attendere che siano pienamente
dimostrate l'effettiva esistenza e la gravità di tali
rischi.
Il giudizio di compatibilità ambientale, pur reso sulla base
di oggettivi criteri di misurazione pienamente esposti al
sindacato del giudice, è attraversato da profili
particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa
sul piano dell'apprezzamento degli interessi pubblici in
rilievo e della loro ponderazione rispetto all'interesse
dell'esecuzione dell'opera; apprezzamento che è sindacabile
dal giudice amministrativo, nella pienezza della cognizione
del fatto, soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o
travisamento dei fatti, nel caso in cui l'istruttoria sia
mancata o sia stata svolta in modo inadeguato e risulti
perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale
riconosciuto all'Amministrazione.
In altri termini, non può disconoscersi che le valutazioni
tecniche complesse rese in sede di V.i.a. sono censurabili
per macroscopici vizi di irrazionalità proprio in
considerazione del fatto che le scelte dell'amministrazione,
che devono essere fondate su criteri di misurazione
oggettivi e su argomentazioni logiche, non si traducono in
un mero a meccanico giudizio tecnico, in quanto la
valutazione d'impatto ambientale, in quanto finalizzata alla
tutela preventiva dell'interesse pubblico, presenta profili
particolarmente elevati di discrezionalità amministrativa,
che sottraggono al sindacato giurisdizionale le scelte
effettuate dall'amministrazione che non siano manifestamente
illogiche e incongrue.
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Legittimamente due opere distinte, anche se tra loro
connesse, sono sottoposte a v.i.a. autonoma; la ratio
della giurisprudenza che pretende in determinati casi una
V.i.a. unica riposa soltanto sulla esigenza di evitare
artificiosi frazionamenti dell'opera volti a sottrarre
quest'ultima dall'esame ambientale.
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Il c.d. "principio di precauzione", di derivazione
comunitaria, impone che "quando sussistono incertezze
riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la
salute delle persone, possono essere adottate misure di
protezione senza dover attendere che siano pienamente
dimostrate l'effettiva esistenza e la gravità di tali
rischi: il principio di precauzione, infatti, lungi dal
vietare l'adozione di qualsiasi misura in mancanza di
certezza scientifica quanto all'esistenza o alla portata di
un rischio sanitario, può, all'opposto, giustificare
l'adozione, da parte del legislatore dell'Unione, di misure
di protezione quand'anche permangano in proposito incertezze
scientifiche.".
L'obbligo giuridico di assicurare un "elevato livello di
tutela ambientale" (con l'adozione delle migliori
tecnologie disponibili) in applicazione del richiamato
principio di precauzione ha trovato ampio riconoscimento,
ancorché sia menzionato nel Trattato soltanto in relazione
alla politica ambientale, da parte degli organi comunitari
anche nel settore della salute: qualora sussistano
incertezze riguardo all'esistenza o alla portata di rischi
per la salute delle persone, le istituzioni comunitarie
possono adottare misure di tutela senza dover attendere che
siano approfonditamente dimostrate la realtà e la gravità di
tali rischi.
Detto principio generale integra, quindi, un criterio
orientativo generale e di larga massima che deve
caratterizzare non soltanto le attività normative, ma prima
ancora quelle amministrative, come prevede espressamente
l'art. 1 della l. n. 241/1990, ove si stabilisce che "L'attività
amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è
retta ... dai principi dell'ordinamento comunitario".
Pertanto, in coerenza con l'affermato principio, deve
riconoscersi all'Amministrazione il potere di adottare ogni
provvedimento ritenuto idoneo a prevenire rischi anche solo
potenziali alla salute.
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Il terminale di ricezione del gasdotto dell'Adriatico non
rientra tra le opere assoggettabili alla normativa "Seveso"
di cui al d.Lgs. n. 334 del 1999 e pertanto non è necessario
il previo rilascio del NOF (nulla osta di fattibilità) da
parte del competente Comitato tecnico regionale (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
sentenza 27.03.2017 n. 1392 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ENTI
LOCALI - VARI: La
benedizione pasquale nelle scuole va fatta fuori l’orario
delle lezioni.
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Religione - Religione cattolica – Benedizione pasquale -
Nelle scuole - Va fatta fuori l’orario delle lezioni.
La “benedizione pasquale” nelle
scuole deve essere effettuata fuori l'orario delle lezioni,
non potendo in alcun modo incidere sullo svolgimento della
didattica e della vita scolastica in generale, e ciò non
diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che,
oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli
organi di autonomia delle singole scuole anche senza una
formale delibera (1).
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(1) Ha chiarito il Consiglio di Stato che la
benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto
all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le
famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste
risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità,
senza necessità di particolari preparativi. Il fine di tale
rito è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei
luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta
correlazione con le persone che a tale titolo li
frequentano. Non avrebbe senso infatti la benedizione dei
soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle
relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda
risolversi in una pratica di superstizione.
Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in
quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe
senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove;
e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si
svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e
fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa
minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il
sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur
appartenente alla medesima comunità, non condivida quel
medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento,
non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.
Ha aggiunto la Sezione che non può logicamente attribuirsi
al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni
stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti
impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre
diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun
nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della
volontarietà e della facoltatività della partecipazione
nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è
rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento
nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di
lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o
meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo
religioso (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.03.2017 n. 1388 - commento tratto da
e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Legittima
la benedizione pasquale all'interno delle scuole.
E' legittima la deliberazione con cui il Consiglio di
istituto dell’Istituto comprensivo ha disposto di concedere
l’apertura dei locali scolastici per le benedizioni
pasquali, richieste dai parroci del territorio, con le
modalità ivi indicate: - la benedizione pasquale dovrà
avvenire in orario extra scolastico; - gli alunni dovranno
essere accompagnati dai familiari, o comunque da un adulto
che se ne assume l’onere della sorveglianza.
La benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto
all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le
famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste
risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità,
senza necessità di particolari preparativi.
Il fine di tale rito, per chi ne condivide l’intimo
significato e ne accetta la pratica, è anche quello di
ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si
lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le
persone che a tale titolo li frequentano.
Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali,
senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità
di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una
pratica di superstizione.
Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in
quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe
senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove;
e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si
svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e
fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa
minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il
sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur
appartenente alla medesima comunità, non condivida quel
medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento,
non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.
Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale” nelle
scuole non possa in alcun modo incidere sullo svolgimento
della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò
non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche”
che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate
dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza
una formale delibera.
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Non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni
pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni
annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore
rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non
aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si
tenga conto della volontarietà e della facoltatività della
partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che
nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di
autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico,
ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più
completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi
inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.
Ed ancora, c’è da chiedersi come sia possibile che un
(minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie e le
attività scolastiche, sia del tutto legittimo o tollerabile
se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti ad
attività “parascolastiche” diverse da quella di cui
trattasi, ad esempio di natura culturale o sportiva, o anche
semplicemente ricreativa, mentre si trasformi, invece, in un
non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento
di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori
dell’orario scolastico.
Va aggiunto che, per un elementare principio di non
discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa
di un’attività, una valenza negativa tale da renderla
vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una
fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere,
sarebbe ritenuta ammissibile e legittima.
Del resto, la stessa Costituzione, all’art. 20, nello
stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di
religione o di culto d’una associazione od istituzione non
possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…)
per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di
attività», pone un divieto di un trattamento deteriore,
sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto
tali.
Ovviamente, la partecipazione ad una qualsiasi
manifestazione o rito religiosi (sia nella scuola che in
altre sedi) non può che essere facoltativa e libera, non
potendo non godere, solo perché tale, di minori spazi di
libertà e di minore rispetto di quelli che sono riconosciuti
a manifestazioni di altro genere, nonché tollerante nei
confronti di chi esprime sentimenti e fedi diverse, ovvero
di chi non esprime o manifesta alcuna fede.
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Negli atti impugnati i parametri ora indicati sono tutti
rigorosamente rispettati, essendo garantita la libertà di
partecipare all’evento in orario non scolastico, senz’alcuna
forma di contrapposizione con altri credo religiosi o con
qualsivoglia diversa ideologia.
---------------
Resta da verificare se i
provvedimenti impugnati siano espressione di una determinata
potestà, riconducibile ad una categoria rispondente al
normale principio di tipicità degli atti amministrativi.
Al riguardo può richiamarsi l’art. 96, quarto comma, del
D.Lgs. 16.04.1994, n. 297, secondo cui gli edifici
scolastici possono essere utilizzati fuori dell’orario del
servizio scolastico per attività che realizzino la funzione
della scuola come centro di promozione culturale, sociale e
civile.
Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla
realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia
libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò
avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del
servizio scolastico e previa delibera dell’organo
competente, ai sensi del precedente art. 10 del D.Lgs. del
1994, n. 297 cit., ivi indicato nel Consiglio di Circolo o
di Istituto.
Ed è appena il caso di ricordare che, nella prassi oggi
invalsa, le competenze di tali organi scolastici sono intese
in senso non certamente restrittivo, bensì estensivo o
comunque elastico e flessibile, quanto alla tipologia ed
alla natura delle attività “parascolastiche”,
“extrascolastiche”, o comunque “complementari”, che gli
stessi organi possono liberamente ed autonomamente
programmare o autorizzare.
Del resto, il D.P.R. 08.03.1999, n. 275 (regolamento recante
norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche,
ai sensi dell’art. 21 della L. 15.03.1997, n. 59), all’art.
4, relativo all’autonomia didattica, dispone: «Le
istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di
insegnamento, della libertà di scelta educativa delle
famiglie e delle finalità generali del sistema (…)
concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi
funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e
alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e
valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di
ciascuno adottando tutte le iniziative utili al
raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal
modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali
organi, ed ammettendo esplicitamente, con l’espressione
«riconoscono e valorizzano le diversità», tutte quelle
iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità
unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati
gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od
appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o
culturale, in un clima di reciproca comprensione,
conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo
in relazione al fenomeno sempre più rilevante
dell’immigrazione e della conseguente necessità di
integrazione.
---------------
... per la riforma della
sentenza 09.02.2017 n. 166 del TAR Emilia
Romagna-Bologna, resa tra le parti, che ha accolto il
ricorso n. 155/2015 per l’annullamento:
●
della deliberazione n. 50/2015 in data 09.02. 2015, con cui
il Consiglio di istituto dell’Istituto comprensivo n. 20 di
Bologna ha disposto di concedere l’apertura dei locali
scolastici di tutti e tre i plessi dell’I.C. 20 per le
benedizioni pasquali richieste dai parroci del territorio,
con le modalità ivi indicate: (la benedizione pasquale dovrà
avvenire in orario extra scolastico; - gli alunni dovranno
essere accompagnati dai familiari, o comunque da un adulto
che se ne assume l’onere della sorveglianza);
●
nonché per l’annullamento della deliberazione n. 52/2015 in
data 12.03.2015 (e relativo verbale) con cui il Consiglio di
Istituto dell’Istituto comprensivo n. 20 di Bologna ha
disposto di <<aprire i locali scolastici nelle date
proposte (...)>>; della determinazione prot. n. 0001754
A/35 in data 11.03.2015 con cui il Dirigente scolastico ha
disposto la <<concessione di un locale scolastico, ai
parroci che ne hanno fatto specifica richiesta, Parrocchia
SS. Trinità, S. Giuliano e S. Maria della Misericordia, per
l’espletamento di attività di benedizione pasquale senza
fini di lucro nelle giornate riportate in apposita
convenzione nonché di tre convenzioni sottoscritte in data
13.03.2015 con i tre parroci richiedenti>> (impugnate
con <<motivi aggiunti>> depositati il 19.05.2015).
...
1. È opportuno premettere che i provvedimenti impugnati sono
stati adottati a seguito di apposite istanze, la prima delle
quali era stata la lettera 27.12.2014 di tre parroci rivolta
al Dirigente scolastico e al Presidente del Consiglio di
Istituto dell’Istituto comprensivo n. 20 di Bologna, in via
..., n. 3 (comprendente la scuola primaria Ca., la scuola
primaria Fo. e la scuola secondaria di primo grado Ro. de’
Pa.), per chiedere il benestare a celebrare la benedizione
pasquale per gli alunni della scuola al termine delle
lezioni di uno dei giorni precedenti le vacanze pasquali,
radunando gli alunni che volessero parteciparvi in un
conveniente locale (salone o palestra).
L’istanza era stata accolta a maggioranza dal Consiglio
d’Istituto (verbale del 09.01.2015), con alcune prescrizioni
(le benedizioni sarebbero state limitate, all’interno delle
scuole primarie, ad orario extra scolastico e alla sola
presenza del personale docente, ATA ed amministrativo, senza
la presenza dei bambini; all’interno delle scuole Ro., ad
orario extra scolastico, alla libera presenza anche dei
ragazzi che intendessero parteciparvi, sotto la sorveglianza
del docente di religione).
Nella successiva seduta del 09.02.2015 era adottata
deliberazione n. 50/2015 con la quale il consiglio
d’Istituto deliberava a maggioranza, con 13 voti favorevoli,
1 astenuto e 2 contrari, di autorizzare l’apertura dei
locali scolastici di tutti e tre i plessi dell’I.C. 20 per
le benedizioni pasquali richieste dai parroci del
territorio, a condizione che la benedizione pasquale fosse
impartita in orario extra scolastico e gli alunni fossero
accompagnati dai familiari, o comunque da un adulto in
funzione di sorveglianza.
Dopo la presentazione di un primo ricorso al TAR e di
un’istanza di autotutela, la dirigente scolastica, con
propria determinazione prot. 1754 A/35 del 11.03.2015,
concedeva un locale scolastico ai parroci che ne avevano
fatto specifica richiesta, “per l’espletamento
dell’attività di benedizione pasquale senza fini di lucro
nelle giornate riportate in apposita convenzione”.
Con la deliberazione n. 52/2015 del 12.03.2015
l’Amministrazione decideva di aprire i seguenti locali
scolastici: Ro. il 21 marzo ore 13,15 in aula magna; Fo. il
20 marzo ore 16,45 nell’atrio; Ca. il 21 marzo in aula
magna. Dopo la stipula delle convenzioni, avvenuta il
seguente 13 marzo, le benedizioni erano celebrate nelle date
20 e 21.03.2015, come del resto riportato dalla stampa
dell’epoca (Resto del Carlino del 21.03.2015: “Pasqua, la
scuola gioca d’anticipo. La benedizione arriva prima del TAR”;
New York Times del 23.03.2015; ANSA del 24.03.2015).
Da quanto riferito dalle parti, risulta che i provvedimenti
impugnati (autorizzazioni alla celebrazione delle
benedizioni pasquali del marzo 2015) hanno avuto esecuzione,
non essendo stati all’epoca sospesi, ma soltanto
successivamente annullati con la sentenza appellata, poi
sospesa in via cautelare con il decreto presidenziale
07.03.2016 n. 763.
Nella successiva Pasqua del 2016, nel corso dell’anno
scolastico 2015/2016, l’Istituto comprensivo 20 di Bologna
ha nuovamente posto la questione all’o.d.g. della riunione
del Consiglio di Istituto del 22.03.2016, ma
l’Amministrazione scolastica ha deliberato di non concedere
i locali per lo svolgimento della benedizione.
Quanto sinora precisato, può chiarire che l’interesse
processuale delle parti ad ottenere una pronuncia del
Consiglio di Stato nella controversia ha ormai carattere
soltanto morale, dato che l’eventuale annullamento ora per
allora degli atti qui impugnati non potrebbe avere altro
risultato, se non quello implicito di costituire anche un
precedente, non essendo stata presentata alcuna altra
domanda accessoria oltre quella di annullamento.
2. Com’è noto, la benedizione pasquale è un rito religioso,
rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e
le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste
risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità,
senza necessità di particolari preparativi.
Il fine di tale rito, per chi ne condivide l’intimo
significato e ne accetta la pratica, è anche quello di
ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si
lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le
persone che a tale titolo li frequentano.
Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali,
senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità
di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una
pratica di superstizione.
Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in
quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe
senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove;
e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si
svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e
fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa
minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il
sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur
appartenente alla medesima comunità, non condivida quel
medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento,
non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.
Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale”
nelle scuole non possa in alcun modo incidere sullo
svolgimento della didattica e della vita scolastica in
generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche”
che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate
dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza
una formale delibera.
3. È appena il caso di rilevare che non può logicamente
attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le
limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai
provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto
ad altre diverse attività “parascolastiche” non
aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si
tenga conto della volontarietà e della facoltatività della
partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che
nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di
autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico,
ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più
completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi
inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.
Ed ancora, c’è da chiedersi come sia possibile che un
(minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie e le
attività scolastiche, sia del tutto legittimo o tollerabile
se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti ad
attività “parascolastiche” diverse da quella di cui
trattasi, ad esempio di natura culturale o sportiva, o anche
semplicemente ricreativa, mentre si trasformi, invece, in un
non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento
di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori
dell’orario scolastico.
Va aggiunto che, per un elementare principio di non
discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa
di un’attività, una valenza negativa tale da renderla
vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una
fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere,
sarebbe ritenuta ammissibile e legittima.
Del resto, la stessa Costituzione, all’art. 20, nello
stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di
religione o di culto d’una associazione od istituzione non
possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…)
per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di
attività», pone un divieto di un trattamento deteriore,
sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto
tali.
Ovviamente, la partecipazione ad una qualsiasi
manifestazione o rito religiosi (sia nella scuola che in
altre sedi) non può che essere facoltativa e libera, non
potendo non godere, solo perché tale, di minori spazi di
libertà e di minore rispetto di quelli che sono riconosciuti
a manifestazioni di altro genere, nonché tollerante nei
confronti di chi esprime sentimenti e fedi diverse, ovvero
di chi non esprime o manifesta alcuna fede.
Negli atti impugnati i parametri ora indicati sono tutti
rigorosamente rispettati, essendo garantita la libertà di
partecipare all’evento in orario non scolastico, senz’alcuna
forma di contrapposizione con altri credo religiosi o con
qualsivoglia diversa ideologia.
4. Resta da verificare se i provvedimenti impugnati siano
espressione di una determinata potestà, riconducibile ad una
categoria rispondente al normale principio di tipicità degli
atti amministrativi.
Al riguardo può richiamarsi l’art. 96, quarto comma, del
D.Lgs. 16.04.1994, n. 297, secondo cui gli edifici
scolastici possono essere utilizzati fuori dell’orario del
servizio scolastico per attività che realizzino la funzione
della scuola come centro di promozione culturale, sociale e
civile.
Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla
realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia
libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò
avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del
servizio scolastico e previa delibera dell’organo
competente, ai sensi del precedente art. 10 del D.Lgs. del
1994, n. 297 cit., ivi indicato nel Consiglio di Circolo o
di Istituto.
Ed è appena il caso di ricordare che, nella prassi oggi
invalsa, le competenze di tali organi scolastici sono intese
in senso non certamente restrittivo, bensì estensivo o
comunque elastico e flessibile, quanto alla tipologia ed
alla natura delle attività “parascolastiche”, “extrascolastiche”,
o comunque “complementari”, che gli stessi organi
possono liberamente ed autonomamente programmare o
autorizzare.
Del resto, il D.P.R. 08.03.1999, n. 275 (regolamento recante
norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche,
ai sensi dell’art. 21 della L. 15.03.1997, n. 59), all’art.
4, relativo all’autonomia didattica, dispone: «Le
istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di
insegnamento, della libertà di scelta educativa delle
famiglie e delle finalità generali del sistema (…)
concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi
funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e
alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e
valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di
ciascuno adottando tutte le iniziative utili al
raggiungimento del successo formativo», intendendosi in
tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di
tali organi, ed ammettendo esplicitamente, con l’espressione
«riconoscono e valorizzano le diversità», tutte
quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla
generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a
determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici
interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico,
religioso o culturale, in un clima di reciproca
comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi
tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più
rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di
integrazione.
Per i profili sin qui esaminati, dunque, i
provvedimenti impugnati appaiono legittimi,
non risultando fondati non soltanto i motivi attinenti alle
denunciate violazioni di legge, ma anche i motivi di ricorso
riferiti all’incompetenza, al difetto di motivazione ed
all’eccesso di potere.
Attesa l’evidente novità delle questioni affrontate,
all’integrale riforma della sentenza appellata ed al rigetto
del ricorso di primo grado ora disposti, non può che
conseguire l’integrale compensazione delle spese di entrambi
i gradi di giudizio.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, Sesta Sezione, accoglie l’appello indicato
in epigrafe e, per l’effetto, rigetta il ricorso di primo
grado (Consiglio
di Stato, Sez. VI,
sentenza 27.03.2017 n. 1388 - link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI:
Valutazione con mero punteggio numerico delle offerte di
gara dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta –
Offerta economicamente più vantaggiosa – Valutazione –
Punteggio numerico – Art. 95, commi 8 e 9, d.lgs. n. 50 del
2016 – Sufficienza – Condizione.
Ai sensi dell’art. 95, commi 8 e 9,
d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il punteggio numerico assegnato
agli elementi di valutazione dell’offerta economicamente più
vantaggiosa integra una sufficiente motivazione allorché
siano prefissati con chiarezza e adeguato grado di dettaglio
i criteri di valutazione, prevedenti un minimo ed un
massimo; viceversa, in assenza della predisposizione di
subcriteri o di griglie di valutazione particolarmente
dettagliate, la Commissione di gara può supplire al deficit
motivazionale, insito nel punteggio numerico abbinato a
criteri preventivi di giudizio non sufficientemente
specifici, esplicitando le ragioni dell’attribuzione del
punteggio stesso (1).
---------------
(1) Si tratta di
conclusione che trova conferma anche nelle le “Linee
Guida n. 2 dell’ ANAC “di attuazione del d.lgs. 18.04.2016,
n. 50 recanti offerta economicamente più vantaggiosa” del
21.09.2016, n. 1005″, le quali prevedono che “in
relazione a ciascun criterio o sub-criterio di valutazione
la stazione appaltante deve indicare gli specifici profili
oggetto di valutazione, in maniera analitica e concreta. Con
riferimento a ciascun criterio o sub-criterio devono essere
indicati i relativi descrittori che consentono di definire i
livelli qualitativi attesi e di correlare agli stessi un
determinato punteggio, assicurando la trasparenza e la
coerenza delle valutazioni” (TAR
Piemonte, Sez. I,
sentenza 27.03.2017 n. 414
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
MASSIMA
3.1. In termini generali va osservato che, secondo la
concorde giurisprudenza di primo e secondo grado,
il punteggio numerico assegnato agli elementi di
valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa
integra una sufficiente motivazione allorché siano
prefissati con chiarezza e adeguato grado di dettaglio i
criteri di valutazione, prevedenti un minimo ed un massimo;
in questo caso, infatti, sussiste comunque la possibilità di
ripercorrere il percorso valutativo e quindi di controllare
la logicità e la congruità del giudizio tecnico
(cfr., TAR Umbria, sez. I, 11.09.2015, n. 365; TAR Salerno,
sez. II, 12.03.2014, n. 567; (TAR Piemonte, sez. II,
15.11.2013, n. 1207; Cons. Stato, sez. V, 17.01.2011 n. 222;
sez. V, 16.06.2010 n. 3806; 11.05.2007 n. 2355; 09.04.2010
n. 1999).
Viceversa, in assenza della predisposizione
di sub-criteri o di griglie di valutazione particolarmente
dettagliate, la Commissione di gara può supplire al deficit
motivazionale, insito nel punteggio numerico abbinato a
criteri preventivi di giudizio non sufficientemente
specifici, esplicitando le ragioni dell'attribuzione del
punteggio stesso: sicché, pur ammettendosi che la mancata
predeterminazione di parametri precisi e puntuali possa far
sì che l'assegnazione dei punteggi in forma esclusivamente
numerica determini un deficit motivazionale, nondimeno si
ammette che a tale carenza la stazione appaltante possa
rimediare illustrando le ragioni della valutazione
effettuata, in relazione ai vari elementi in cui si articola
ciascun criterio
(Cons. Stato, sez. VI, 08.03.2012, n. 1332 e 18.04.2013, n.
2142; TAR Milano, III, 16.10.2012, n. 2537; TAR Umbria,
02.11.2011, n. 355).
In senso conforme a questa impostazione si pongono sia le
previsioni contenute all’art. 95, commi 8 e 9, d.lgs.
50/2016; sia le "Linee Guida n. 2 dell'ANAC "di
attuazione del D.lgs. 18.04.2016 n. 50 recanti offerta
economicamente più vantaggiosa" del 21.09.2016 n. 1005",
le quali prevedono che "in relazione a
ciascun criterio o sub-criterio di valutazione la stazione
appaltante deve indicare gli specifici profili oggetto di
valutazione, in maniera analitica e concreta. Con
riferimento a ciascun criterio o sub-criterio devono essere
indicati i relativi descrittori che consentono di definire i
livelli qualitativi attesi e di correlare agli stessi un
determinato punteggio, assicurando la trasparenza e la
coerenza delle valutazioni". |
LAVORI PUBBLICI:
Attestazione SOA vicina alla scadenza: le condizioni per
partecipare alla gara.
CGA Sicilia: nel caso in cui la verifica consegua esito
positivo, l’aggiornamento retroagisce al momento della
precedente scadenza.
L'impresa la cui attestazione Soa è
prossima alla naturale scadenza può comunque partecipare
alla gara, purché chieda preventivamente all’Organismo di
attestazione di procedere alla verifica della sua posizione
e di provvedere al conseguente aggiornamento o rinnovamento
dell’attestato. Nel caso in cui la verifica consegua esito
positivo, l’aggiornamento retroagisce al momento della
precedente scadenza.
Lo ha precisato il CGARS nella
sentenza 24.03.2017 n. 132.
Il CGA Sicilia ricorda che “in forza del c.d. 'principio
di continuità dei requisiti' (C.S., Ad. Pl., 20.07.2015 n.
8), le ditte aggiudicatarie di appalti pubblici hanno
l’obbligo di mantenere il possesso dei requisiti di idoneità
per l’intero periodo corrente dalla data di scadenza della
domanda di partecipazione alla gara fino alla conclusione
dei lavori (o alla completa esecuzione del contratto).
Corollario di tale principio è che anche le 'attestazioni di
qualità' rilasciate dai competenti organismi di
accreditamento (le cc.dd. 's.o.a.') devono mantenere (ed
essere in grado di dispiegare) la loro efficacia certatoria
per l’intero periodo in questione.
Secondo il
disposto degli artt. 76 e 77 del DPR n.2017 del 2010
(Regolamento per l’esecuzione del precedente codice dei
contratti pubblici, normativa applicabile alla fattispecie
ratione temporis), l’efficacia delle predette attestazioni
dura cinque anni, ed alla scadenza del terzo anno (c.d.
“scadenza intermedia”) l’impresa ha l’onere di sottoporsi ad
una verifica in ordine alla permanenza dei requisiti.
Al riguardo, la giurisprudenza ritiene ed afferma
costantemente da tempo risalente che l’impresa che si avvede
che l’efficacia della sua attestazione di qualità è prossima
alla naturale scadenza (nel senso che tale scadenza si
verificherà automaticamente e fisiologicamente, per il
decorso del tempo, dopo la data fissata dal bando per la
presentazione delle domande di ammissione alla procedura),
può comunque partecipare alla gara, purché abbia chiesto (o
chieda) preventivamente (stipulando all’uopo il relativo
contratto d’incarico) all’Organismo di attestazione (che ha
rilasciato l’attestazione) di procedere alla verifica della
sua posizione e di provvedere al conseguente “aggiornamento”
(o “rinnovamento”) dell’attestato in questione. Ed in tal
caso ove la verifica consegua esito positivo (id est:
favorevole per l’impresa richiedente) l’aggiornamento
retroagisce al momento della precedente scadenza, in modo
che non vi sia alcuna soluzione di continuità fra le
attestazioni” (commento tratto da www.casaeclima.com). |
EDILIZIA PRIVATA: Edilizia
in zone sismiche sempre sotto vigilanza.
Incostituzionale la disposizione che sottrae ad ogni forma
di vigilanza e controllo alcuni interventi edilizi
realizzati in zone sismiche, non tipizzati dalla
legislazione statale di riferimento.
Questo emerge dalla
sentenza
24.03.2017 n. 60, emessa ieri dalla Corte
costituzionale in merito al ricorso promosso dal presidente
del Consiglio dei ministri contro la regione Abruzzo.
Il ricorrente aveva invitato la Consulta a pronunciarsi
sulla legittimità costituzionale degli art. 5 e 7 della
legge regionale 12/2015, che apportava «Modifiche alla legge
regionale 11.08.2011, n. 28 (Norme per la riduzione del
rischio sismico e modalità di vigilanza e controllo su opere
e costruzioni in zone sismiche)», introducendo un art.
19-bis. Entrambe le disposizioni sarebbero state in
contrasto con l'art. 117, terzo comma, della Costituzione,
nelle materie di legislazione concorrente della «protezione
civile» e del «governo del territorio».
Mentre dichiara
inammissibile la questione in merito all'art. 5 e all'art. 7
nella parte in cui amplia l'art. 19-bis della legge 28 con
il comma 3, la Corte individua un contrasto fra il dettame
costituzionale e il comma 2, lett. d), dell' art. 19-bis,
che rimandava a un regolamento della giunta la definizione
delle «opere minori» e di «quelle prive di rilevanza ai fini
della pubblica incolumità», tutte strutture da considerare
estranee sia al procedimento di autorizzazione preventiva
che al preavviso.
Ma queste due categorie di immobili,
sottolinea nella sentenza, non esistono nella disciplina
statale per l'edilizia in zone a rischio sisma. Le regioni
non possono che allinearsi ai principi stabiliti dallo
normativa statale, che detta i parametri a cui attenersi
agli art. 65, 93 e 94 del dpr 380/2001, conclude la Consulta
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2017). |
ENTI
LOCALI
- VARI:
Compartecipazione del Comune al costo delle prestazioni
sociosanitarie e sociali connesse a ricoveri stabili.
---------------
●
Sanità pubblica – Assistenza sanitaria – Ricoveri stabili
presso strutture residenziali – Oneri a carico del Comune -
Art. 6, comma 4, l. n. 328 del 2000 – Individuazione.
●
Sanità pubblica –
Assistenza sanitaria – Ricoveri stabili presso strutture
residenziali – Oneri a carico del Comune - Art. 6, comma 4,
l. n. 328 del 2000 – Obbligo – Conseguenza.
●
Ai sensi dell’art. 6, comma 4, l. 08.11.2000, n.
328 l’obbligo a carico del Comune di assumere gli
adempimenti connessi al ricovero stabile di soggetti che
nello stesso Comune avevano la residenza prima del ricovero,
sorge nel momento in cui si verificano le condizioni per
procedere alla erogazione del contributo, momento che si
verifica quando la situazione economica della persona
assistita si deteriora a tale punto da non potersi
permettere di corrispondere la retta alla casa di riposo con
le proprie risorse economiche; ne consegue che per le
prestazioni sociali non vale quanto stabilito dalla legge
per le prestazioni sanitarie, cioè l’assunzione in via
principale e diretta della spesa a carico dell’ente pubblico
(1).
●
L'obbligazione di assistenza ex art. 6, comma 4,
l. 08.11.2000, n. 328 a carico del Comune connessa al
ricovero stabile di soggetti, che nel Comune stesso avevano
la residenza prima del ricovero, sorge in considerazione
soltanto delle condizioni oggettive e soggettive del
soggetto bisognoso (stato di necessità e assenza di mezzi
propri), senza che possa avere alcuna rilevanza la relativa
eziologia, che non è mai idonea a scriminare la
responsabilità del civilmente obbligato (2).
---------------
(1) Ha ricordato il Tar che ai sensi dell’art. 2, comma 1, d.P.C.M.
05.12.2013, n. 159 "La determinazione e l'applicazione
dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni
sociali agevolate, nonché della definizione del livello di
compartecipazione al costo delle medesime, costituisce
livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'art.
117, secondo comma, lett. m), Cost., fatte salve le
competente regionali in materia di normazione,
programmazione e gestione delle politiche sociali e
sociosanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni".
Dunque, non solo l’accesso, ma anche la compartecipazione al
costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali è stabilito
avendo come base la disciplina statale sull’indicatore della
situazione economica equivalente (Isee).
Il reddito dell’assistito ai fini dell’accesso ed ai fini
della determinazione della compartecipazione non può essere
definito dal Comune avendo per oggetto elementi diversi.
Per quanto riguarda poi la definizione del c.d. minimo
vitale, cioè di quella parte del reddito personale che non
debba essere computato ai fini della determinazione della
compartecipazione alla retta, perché destinato a soddisfare
altre esigenze esistenziali fondamentali, deve escludersi
che il potere comunale di determinazione sia assoluto.
Infatti l’art. 24, comma 1, lett. g), l. n. 328 del 2000
delega il Governo un decreto legislativo recante norme per
il riordino degli assegni e delle indennità spettanti ai
sensi delle leggi 10.02.1962, n. 66, 26.05.1970, n. 381,
27.05.1970, n. 382, 30.03.1971, n. 118, e 11.02.1980, n. 18,
che preveda il riconoscimento degli emolumenti anche ai
disabili o agli anziani ospitati in strutture residenziali,
in termini di pari opportunità con i soggetti non
ricoverati, disponendo l'utilizzo di parte degli emolumenti
come partecipazione alla spesa per l'assistenza fornita,
ferma restando la conservazione di una quota, pari al 50 per
cento del reddito minimo di inserimento di cui all'art. 23,
a diretto beneficio dell'assistito.
(2) Ha ricordato il Tar che in questa materia va ritenuta
quell'assoluta uguaglianza tra bisognosi, malati o meno che
siano, che costituisce l'unica vera uguaglianza assoluta tra
soggetti. Ad impegnare gli obbligati, congiunti o ente
pubblico, è lo stato oggettivo di necessità -di cura come di
assistenza- per nulla influenzato dalla causa del suo
insorgere.. Neppure rilevano le ragioni della situazione di
indigenza, se colposa e dolosa (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 23.03.2017 n. 697
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
----------------
MASSIMA
3. Venendo al merito il primo motivo di ricorso è
parzialmente fondato.
2.1 L'art. 38, primo comma, della Costituzione, sancisce il
principio di solidarietà sociale, stabilendo che lo Stato
(da intendersi nel suo più ampio significato, ossia con
riferimento ai vari livelli di governo) deve garantire il
mantenimento e l'assistenza sociale ai soggetti indigenti ed
inabili allo svolgimento di una proficua attività
lavorativa.
In applicazione di tale principio l’art. 6, comma 4, della
legge 328 del 2000 stabilisce che “Per i soggetti per i
quali si renda necessario il ricovero stabile presso
strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la
residenza prima del ricovero, previamente informato, assume
gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica”.
Secondo la giurisprudenza una interpretazione ragionevole
dell’art. 6, c. 4, della L. 328/2000 è nel senso che
l’obbligo a carico del Comune sorge nel momento in cui si
verificano le condizioni per procedere alla erogazione del
contributo, momento che si verifica quando la situazione
economica della persona assistita si deteriora «a tale
punto da non potersi permettere di corrispondere la retta
alla casa di riposo con le proprie risorse economiche»
(Cons. Stato Sez. III, 10/01/2017, n. 46; Cons. St., sez.
III, 23.08.2012, n. 4594).
Deve quindi escludersi che per le prestazioni sociali valga
quanto stabilito dalla legge per le prestazioni sanitarie,
cioè l’assunzione in via principale e diretta della spesa a
carico dell’ente pubblico.
In merito alla definizione della condizione economica
dell’assistito l'art. 2, co. 1, del d.P.C.M. n. 159/2013
prevede che "La determinazione e l'applicazione
dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni
sociali agevolate, nonché della definizione del livello di
compartecipazione al costo delle medesime, costituisce
livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo
117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, fatte
salve le competente regionali in materia di normazione,
programmazione e gestione delle politiche sociali e
sociosanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni".
A sua volta l’art. 8, c. 2, della Legge Regionale 12.03.2008,
n. 3 stabilisce che <<L’accesso agevolato alle
prestazioni sociosanitarie e sociali e il relativo livello
di compartecipazione al costo delle medesime è stabilito dai
comuni nel rispetto della disciplina statale sull’indicatore
della situazione economica equivalente e dei criteri
ulteriori, che tengano conto del bisogno assistenziale,
stabiliti con deliberazione della Giunta regionale>>.
Sia la norma statale che quella regionale stabiliscono
chiaramente che non solo l’accesso, ma anche la
compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie
e sociali è stabilito avendo come base la disciplina statale
sull’indicatore della situazione economica equivalente.
La norma regionale stabilisce inoltre che criteri ulteriori
sono definiti dalla Giunta regionale. Deve quindi escludersi
che il reddito dell’assistito ai fini dell’accesso ed ai
fini della determinazione della compartecipazione possa
essere definito dal Comune avendo per oggetto elementi
diversi.
Per quanto riguarda poi la definizione del c.d. minimo
vitale, cioè di quella parte del reddito personale che non
debba essere computato ai fini della determinazione della
compartecipazione alla retta, perché destinato a soddisfare
altre esigenze esistenziali fondamentali, deve escludersi
che il potere comunale di determinazione sia assoluto.
Infatti l’art. 24, 1° comma, lett. g), L. n. 328/2000 delega
il Governo un decreto legislativo recante norme per il
riordino degli assegni e delle indennità spettanti ai sensi
delle leggi 10.02.1962, n. 66, 26.05.1970, n. 381,
27.05.1970, n. 382, 30.03.1971, n. 118, e 11.02.1980, n. 18, e successive modificazioni che preveda il
riconoscimento degli emolumenti anche ai disabili o agli
anziani ospitati in strutture residenziali, in termini di
pari opportunità con i soggetti non ricoverati, prevedendo
l'utilizzo di parte degli emolumenti come partecipazione
alla spesa per l'assistenza fornita, ferma restando la
conservazione di una quota, pari al 50 per cento del reddito
minimo di inserimento di cui all'articolo 23, a diretto
beneficio dell'assistito.
2.2 Il regolamento del Comune di Vimodrone ha stabilito che
l’intervento del Comune ha luogo solo nel caso in cui il
richiedente non sia titolare di depositi bancari e/o postali
e assicurativi, ovvero di risparmi in qualunque forma
posseduti, che dovranno essere prioritariamente destinati
all'assunzione in proprio dell'onere del ricovero. Solo a
esaurimento di tali importi o al raggiungimento della cifra
non superiore a € 5.000,00, il Comune si riserva di valutare
l’ammissibilità della domanda.
La norma regolamentare è illegittima non nella parte in cui
stabilisce che l’assistito deve destinare le sue risorse
all'assunzione in proprio dell'onere del ricovero, ma nella
fissazione del limite dell’indigenza. Infatti se è vero che
l'obbligazione pubblica di assistenza sorge in
considerazione soltanto delle condizioni oggettive e
soggettive del soggetto bisognoso (stato di necessità e
assenza di mezzi propri), la fissazione del limite
dell’indigenza totale o di quello astratto della somma di
euro 5.000 è in contrasto con la quantificazione del minimo
vitale effettuato dall’art. 24, 1° comma, lett. g), L. n.
328/2000.
A ciò si aggiunge il fatto che il calcolo della “base
imponibile” sulla quale viene determinato il minimo vitale
si pone in contrasto con la disciplina statale e regionale
che fanno riferimento ai redditi rilevanti ai fini ISEE non
solo per l’accesso ma anche per determinare in concreto il
quantum dell’obbligazione di compartecipazione alla retta.
Il primo motivo di ricorso va quindi accolto con conseguente
annullamento dell’art. 21, c. 14, del Regolamento comunale
nella parte in cui stabilisce che <<Solo a esaurimento di
tali importi o al raggiungimento della cifra non superiore a
€ 5.000,00, il Comune si riserva di valutare l’ammissibilità
della domanda>> (in tal senso anche Tar Lombardia Milano,
sez. III, 11.03.2010, n. 570; Tar Lombardia Milano, sez. III, 12/07/2012, n. 1986).
...
4. Il terzo motivo di ricorso è parzialmente fondato.
4.1 I ricorrenti in primo luogo lamentano l’illegittimità
dell’art. 21, co. 13, del Regolamento, nella parte in cui
prevede che "13. Sono esclusi dal beneficio di cui al
presente articolo coloro che abbiano trasferito, nei due
anni precedenti la domanda di intervento, a qualsiasi titolo
la proprietà immobiliare adibita ad abitazione principale o
di qualunque altro immobile".
In merito occorre rilevare che l'art. 38, primo comma, della
Costituzione, sancisce il principio di solidarietà sociale,
stabilendo che lo Stato (da intendersi nel suo più ampio
significato, ossia con riferimento ai vari livelli di
governo) deve garantire il mantenimento e l'assistenza
sociale ai soggetti indigenti ed inabili allo svolgimento di
una proficua attività lavorativa.
E’ del tutto pacifico in dottrina e giurisprudenza che
l'obbligazione di assistenza sorge in considerazione
soltanto delle condizioni oggettive e soggettive del
soggetto bisognoso (stato di necessità e assenza di mezzi
propri), senza che possa avere alcuna rilevanza la relativa
eziologia, che non è mai idonea a scriminare la
responsabilità del civilmente obbligato. In questa materia
va ritenuta quell'assoluta uguaglianza tra bisognosi, malati
o meno che siano, che costituisce l'unica vera uguaglianza
assoluta tra soggetti. Ad impegnare gli obbligati, congiunti
o ente pubblico, è lo stato oggettivo di necessità -di cura
come di assistenza- per nulla influenzato dalla causa del
suo insorgere.
In secondo luogo la clausola, oltre ad introdurre un
illegittimo esame relativo alle ragioni della situazione di
indigenza non distingue neppure tra indigenza colposa e
dolosa, in quanto la vendita di un immobile può dipendere
dalle più svariate ragioni, non solo quelle di sottrarsi al
pagamento della retta di ricovero.
Ne consegue che l’art. 21, co. 13, del Regolamento è
illegittimo in quanto scrimina in relazione alle cause che
hanno determinato la situazione di indigenza e modifica
l’obbligo legale di assistenza subordinandolo ad una
condizione non prevista dalla legge e va quindi annullato.
4.2 In secondo luogo i ricorrenti contestano l’art. 21, c. 14,
del Regolamento per gli stessi motivi già rilevati nel primo
motivo, al quale si rinvia.
4.3 In terzo luogo i ricorrenti contestano l’art. 21, c. 12,
del Regolamento nella parte in cui stabilisce che “la
contribuzione comunale deve intendersi quale anticipazione
di quanto dovuto dal cittadino beneficiario, con conseguente
titolo, da parte del Comune, di rivalersi sulla futura
eredità”.
In merito la giurisprudenza (Cassazione Civile n.
19642/2014; Civile Sent. n. 22776/2016) sostiene che <<la
diversa regola della erogazione gratuita delle prestazioni,
da parte del servizio sanitario nazionale, a tutti i
cittadini entro livelli di assistenza uniformi definiti con
il piano sanitario nazionale (artt. 1, 3, 19, 53 e 63 dalla
legge n. 833/1978), ha comportato un forte ridimensionamento
dell'ambito di applicazione della rivalsa ex art. 1 della
legge n. 1580/1931, ma -come ha ancora rilevato Cass. n.
4460/2003- non lo ha cancellato del tutto, potendo
l'istituto continuare a trovare applicazione con riguardo a
quelle ipotesi, indubbiamente residuali, in cui la gratuità
non sussista, ipotesi alle quali per l'appunto si
riferiscono tutti i precedenti di questa Corte in cui è
stata ritenuta la perdurante vigenza della norma pur dopo
l'attuazione della riforma. E tra tali casi deve farsi
rientrare certamente anche quello relativo alle spese socio
assistenziali, derivanti dalla attività di sorveglianza e di
assistenza non sanitaria resa in favore di un soggetto
anziano ultrasessantacinquenne, trattandosi di spese non
riconducibili alle prestazioni del Servizio Sanitario
secondo le previsioni della legge n. 833/1978, ma
sicuramente inquadrabili nella previsione dell'art. 1 della
L. n. 1580/1931. Alla luce di tali principi deve
ritenersi che le attività socio assistenziali dirette in via
prevalente alla tutela della salute del cittadino siano a
totale carico del servizio sanitario e che ne rimangano
escluse quelle di natura esclusivamente assistenziale>>.
Ne consegue che la norma non può ritenersi
illegittima in quanto riferita alla prestazioni di natura
esclusivamente assistenziale erogate dal Comune.
5. Il quarto motivo di ricorso è fondato.
I ricorrenti contestano l’art. 21, c. 16, ove prevede che "16.
In applicazione dei principi di buona fede, correttezza e
collaborazione, l'utente o chi ne rappresenta gli interessi,
nei casi e nei modi previsti dalla legge, detratta una quota
mensile per le minute spese del ricoverato stesso, fino a un
valore massimo non superiore a € 100 mensili”.
La norma è illegittima nella parte in cui definisce un
limite massimo inderogabile per contrasto con l'art. 14, co.
2, della 1. n. 328/2000.
L'art. 14, c. 1, della 1. n. 328/2000 stabilisce che "per
realizzare la piena integrazione delle persone disabili di
cui all'art. 3 L 104/1992, i Comuni, d'intesa con le aziende
unità sanitarie locali, sono tenuti, su richiesta
dell'interessato, a predisporre un progetto individuale".
Il secondo comma precisa che "il progetto individuale
comprende, oltre alla valutazione diagnostico funzionale, le
prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del
Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona a cui
provvede il comune in forma diretta o accreditata, con
particolare riferimento al recupero e all'integrazione
sociale, nonché le misure economiche necessarie per il
superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed
esclusione sociale”.
Poiché la legge rimette al progetto individuale la
definizione anche dei profili economici relativi alla
condizione personale del malato, deve ritenersi che questo
sia il luogo deputato dalla legge a definire le
disponibilità economiche del ricoverato in considerazione
delle sue condizioni di salute e di trattamento, che si
differenziano a seconda della struttura di ricovero.
L’art. 21, c. 6, va quindi annullato nella parte in cui
stabilisce che la disponibilità economica per soddisfare le
c.d. esigenze vitali mensili non possano superare nel
massimo euro 100,00.
6. Il quinto motivo di ricorso è fondato.
I ricorrenti contestano l'art. 21, co. 8, del gravato
Regolamento nella parte in cui prevede che "8. Per i
residenti nel comune di Vimodrone, condizioni per accedere
all'integrazione della retta sono: <...> - la struttura
dovrà essere stata concordata con l'Amministrazione
Comunale; ‹...>" e "l'utente si deve rendere disponibile a
disporre del suo patrimonio in accordo con l'Ente locale e
per generare la liquidità necessaria per provvedere al
pagamento dei costi del servizio".
La prima parte di detta previsione regolamentare è
illegittima in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza
(Cons. Stato Sez. III, 10/01/2017, n. 46), la pretesa
comunale di imporre alla persona richiedente una previa
concertazione circa la struttura appropriata presso la quale
ricoverarsi, al fine di ottenere l’integrazione economica
della retta da parte del Comune, è illegittima perché
contrastante, a livello della legislazione nazionale, non
solo con l’art. 6, comma 4, della l. n. 328 del 2000 (che
prevede la sola previa informazione del Comune, come ora si
dirà), ma anche, a livello di legislazione regionale
lombarda, con gli artt. 2 e 7 della L.R. n. 3 del 2008, che
garantisce la libertà di scelta dell’assistito, salvo il
limite dell’appropriatezza.
La suddetta pronuncia ha poi
chiarito che <<l’appropriatezza del ricovero, che compete
all’autorità sanitaria, non può essere messa in discussione
dal Comune chiamato ex lege all’integrazione della retta,
come questa Sezione ha chiarito in numerose pronunce (v., ad
esempio, Cons. St., sez. III, 10.07.2012, n. 4085)>>.
La seconda parte della norma, relativa all’obbligo di
mantenere liquido ed esigibile il patrimonio necessario al
pagamento della retta, è illegittima in quanto
l’obbligazione del privato di pagare la retta di ricovero ha
titolo diverso da quella del Comune ed intercorre tra
soggetti diversi, per cui il Comune non può definirne il
contenuto o stabilire forme di garanzia patrimoniale.
7. Il sesto motivo è parzialmente fondato.
Con tale motivo i ricorrenti contestano per eccesso di
potere l'art. 21, co. 6, del gravato Regolamento, secondo il
quale "6. L'intervento del Comune ha luogo solo nel caso in
cui il richiedente, con i propri redditi, e il patrimonio
mobiliare e immobiliare disponibile, non sia in grado di
pagare interamente la retta richiesta per l'accoglimento
nella struttura idonea a soddisfare le sue necessità
assistenziali. Tale retta non dovrà, comunque, superare
l'importo complessivo di 1.700,00 mensili".
Sulla legittimità del primo periodo abbiamo già detto in
precedenza.
E’ invece illegittima la parte in cui il regolamento
definisce il limite massimo di 1.700,00 euro mensili di
contributo. Infatti l'art. 38, primo comma, della
Costituzione, nello stabilire che lo Stato (da intendersi
nel suo più ampio significato, ossia con riferimento ai vari
livelli di governo) deve garantire il mantenimento e
l'assistenza sociale ai soggetti indigenti ed inabili allo
svolgimento di una proficua attività lavorativa, definisce
un’obbligazione di risultato e non di mezzi.
In questa materia, si ribadisce, va ritenuta quell'assoluta
uguaglianza tra bisognosi, malati o meno che siano, che
costituisce l'unica vera uguaglianza assoluta tra soggetti.
Ad impegnare gli obbligati, congiunti o ente pubblico, è lo
stato oggettivo di necessità -di cura come di assistenza-
per nulla influenzato non solo dalla causa del suo
insorgere, ma anche dalla misura necessaria a garantire
<<un’esistenza libera e dignitosa>>, secondo il dettame
dell’art. 36 della Costituzione, applicabile anche agli
inabili in forza dell’art. 3 della medesima Carta, che
garantisce pari dignità sociale a tutti i cittadini.
In definitiva quindi l'art. 21, co. 6, del gravato Regolamento
va annullato nella parte in cui stabilisce che <<Tale retta
non dovrà, comunque, superare l'importo complessivo di
1.700,00 mensili>>.
8. L’annullamento delle norme regolamentari si estende anche
agli atti di definizione della retta del signor -OMISSIS- e
comporta l’obbligo di rideterminazione da parte del Comune. |
ENTI LOCALI:
Disciplina regolamentare delle sale da gioco.
---------------
●
Giochi – Sale da gioco – Localizzazione – Competenza –
Individuazione.
●
Giochi – Sale da gioco – Orari di apertura –
Regolamentazione – Competenza – Individuazione.
●
Giochi – Sale da gioco – Variazione del numero e della
tipologia degli apparecchi – Scia – Non occorre.
●
Giochi – Sale da gioco – Trasferimento della proprietà o
della gestione di azienda e/o di sub ingresso –
Autorizzazione – Necessità.
●
Le disposizioni sui limiti di distanza imposti alle sale da
gioco sono dirette al perseguimento di finalità
prevalentemente di carattere socio-sanitario; lo Stato ha il
compito di fissare i principi generali che ispirano la
materia, dettati dalla riduzione e dal contrasto
all’attività del gioco d’azzardo; mentre le Regioni e gli
enti locali hanno il potere di disciplinarne le concrete
modalità, avuto riguardo, da un lato, agli obiettivi
programmati a livello nazionale, e, dall’altro, alle
caratteristiche peculiari del territorio entro cui le
attività del gioco sono destinate ad incidere (1).
●
Nel regolamentare l’attività di raccolta delle sale da
gioco, l’art. 50, comma 7, t.u. 18.08.2000, n. 267
attribuisce al Consiglio comunale il compito di delineare
gli indirizzi di carattere generale in tema di orari, sul
cui tracciato il Sindaco esercita il proprio potere
discrezionale teso a fissare un orario più o meno contenuto
nell’ambito delle fasce orario predeterminate dal consiglio
medesimo, in coerenza con l’interesse pubblico perseguito.
Ben può il Consiglio comunale dettare criteri rigidi e
restrittivi, tanto da vincolare in misura stringente la
discrezionalità devoluta al Sindaco, senza tuttavia
obliterare l’esercizio del potere sindacale, che può
nondimeno esercitarsi nell’ambito delle fasce orarie
determinate dal regolamento comunale (2).
●
E’ illegittima la previsione del regolamento che introduce
l’obbligo di presentare allo Sportello unico delle attività
produttive (SUAP) una segnalazione certificata di inizio
attività (Scia) per la variazione del numero e della
tipologia degli apparecchi nelle sale giochi, imposto anche
ad un soggetto già autorizzato, non essendo aderente al
tenore dell’art. 19, l. 07.08.1990, n. 241, in quanto la
scia appare invero sovradimensionata laddove si tratti di
comunicare all’amministrazione variazioni che si verificano
nella conduzione dell’attività commerciale, le quali,
tuttavia, non abbiano alcuna incidenza sui requisiti
previsti dalle normative di legge e regolamentare per
iniziare o proseguire l’attività medesima.
●
E’ legittimo il regolamento che richiede agli
operatori economici delle sale da gioco di munirsi
obbligatoriamente dell'autorizzazione comunale nei casi di
trasferimento della proprietà o della gestione di azienda
e/o di sub ingresso non sono confliggenti con i principi di
adeguatezza, ragionevolezza e proporzionalità.
Ed infatti, la necessità di munirsi dell'autorizzazione
comunale, in aggiunta a quella del questore, ex art. 88
TULPS, da richiedere per motivi legati all’ordine ed alla
sicurezza pubblici, risponde alla diversa finalità di
sottoporre gli operatori economici a specifici controlli in
ordine ai requisiti di carattere morale di cui gli stessi
devono essere in possesso.
Appare quindi del tutto comprensibile che, in considerazione
del pericolo di infiltrazione mafiosa, nell’ambito del gioco
lecito, la verifica da parte del comune non si limiti ai
soli locali già in esercizio, ma si estenda anche ai
requisiti soggettivi degli operatori che gestiscono o
subentrano nell’attività del gioco d’azzardo.
---------------
(1) Ha chiarito il Tar che l’obiettivo può ben essere realizzato
mediante l’adozione di un testo regolamentare. In Campania,
il riferimento, nell’art. 1, comma 201, l.reg. n. 16 del
2014, a “previsioni urbanistico-territoriali” allude
essenzialmente al carattere, al contenuto ed alle finalità
delle prescrizioni e non comporta anche il rinvio al
complesso iter procedimentale per la formazione o la
variazione di uno strumento urbanistico.
La previsione regolamentare in questione risponde alla ben
chiara finalità di realizzare un contemperamento
dell'interesse privato dei titolari al mantenimento degli
apparecchi da gioco leciti e quello pubblico ad un controllo
continuo e periodico in un settore sensibile, per i suoi
rilevanti effetti sociali e sulla salute.
Ha aggiunto il Tar che le previsioni regolamentari che
estendono l’applicazione delle previsioni regolamentari
sull’attività di raccolta delle sale da gioco a tutti gli
operatori del settore, ivi compresi quelli già operanti, non
implica una retroattività delle disposizioni, ma è piuttosto
finalizzata ad escludere situazioni franche da una verifica
periodica, con la sottrazione totale dei soggetti già
autorizzati da ogni possibilità di controllo e verifica
successiva, con inammissibile incisione sui principi di
imparzialità e di par condicio tra operatori del settore. La
loro efficacia anche ai soggetti già autorizzati risponde
alla giustificabile esigenza di bilanciare l’interesse alla
salvaguardia delle attività economiche con quella legata
alla prevenzione delle ludopatie la quale rientra
nell'ambito delle esigenze di tutela della salute, in linea
con i principi fissati dall’art. 32 Cost..
(2) Giova richiamare
Cons. St., sez. V, 20.10.2015, n. 4794 secondo
cui non condivisibile “la tesi che l'art. 50, comma 7,
d.lgs. n. 267 del 2000 possa essere interpretato nel senso
che la competenza del Sindaco non riguardi anche la materia
dei giochi, atteso che la disposizione gli attribuisce
espressamente il compito di coordinare e riorganizzare,
sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e
nell'ambito di eventuali criteri fissati dalla Regione, gli
orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e
dei servizi pubblici. Dalla particolare ampiezza della
nozione di 'pubblico esercizio' contenuta nella
disposizione, deve ritenersi che rientrino senz'altro nella
nozione anche le attività di intrattenimento espletate
all'interno delle sale giochi e degli esercizi in cui siano
stati installati apparecchi di 'gioco lecito': il connotato
tipizzante di un pubblico esercizio è la fruibilità delle
attività ivi svolte da parte della collettività
indifferenziata, i cui componenti siano ammessi a
parteciparvi. Le sale giochi e gli esercizi dotati di
apparecchiature da gioco, in quanto locali ove si svolge
l'attività attualmente consentita dalla legge, sono
qualificabili, seguendo l'elencazione contenuta nell'art.
50, comma 7, d.lgs. n. 267 del 2000, come 'pubblici
esercizi', di talché per dette sale il Sindaco può
esercitare il proprio potere regolatorio, anche quando si
tratti dell'esercizio del gioco d'azzardo, quando le
relative determinazioni siano funzionali ad esigenze di
tutela della salute e della quiete pubblica" (TAR
Campania-Napoli, Sez. III,
sentenza 22.03.2017 n. 1567
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI SERVIZI: Revisione
dei prezzi nei contratti afferenti ai cd. settori speciali e
rimessione alla Corte di giustizia.
---------------
Contratti della Pubblica amministrazione – Revisione
prezzi – Settori speciali - Servizio di pulizia dei locali
di una stazione ferroviaria – Esclusione Rimessione alla
Corte di giustizia
Sono rimesse alla Corte di giustizia
dell’Unione Europea le questioni se:
a) se sia conforme al diritto dell’Unione Europea (in particolare
con gli articoli 3, co. 3, TUE, artt. 26, 56/58 e 101 TFUE,
art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea)
ed alla Direttiva n. 17/2004 l’interpretazione del diritto
interno che escluda la revisione dei prezzi nei contratti
afferenti ai cd. settori speciali, con particolare riguardo
a quelli con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la
stessa Direttiva, ma legati a questi ultimi da un nesso di
strumentalità (nel caso di specie, appalto del servizio di
pulizia dei locali di una stazione ferroviaria);
b) se la Direttiva n. 17/2004 (ove si ritenga che l’esclusione
della revisione dei prezzi in tutti i contratti stipulati ed
applicati nell’ambito dei cd. settori speciali discenda
direttamente da essa), sia conforme ai principi dell’Unione
Europea (in particolare, agli artt. 3, comma 1 TUE, 26,
56/58 e 101 TFUE, art. 16 Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea), “per l’ingiustizia, la
sproporzionatezza, l’alterazione dell’equilibrio
contrattuale e, pertanto, delle regole di un mercato
efficiente” (1).
---------------
(1)
Ha chiarito il Consiglio di Stato che l’assoggettabilità
dell’affidamento di un servizio alla disciplina dettata per
i settori speciali non può essere desunta sulla base di un
criterio solo soggettivo, relativo cioè al fatto che ad
affidare l’appalto sia un ente operante nei settori
speciali, ma anche in applicazione di un parametro di tipo
oggettivo, attento alla riferibilità del servizio
all’attività speciale; e ciò ai sensi dell’art. 217, d.lgs.
12.04.2006, n. 163 (che riproduce l’art. 20 della direttiva
2004/17/CE), a tenore del quale la disciplina dei settori
speciali non si applica agli appalti che gli enti
aggiudicatori aggiudicano per scopi diversi dall’esercizio
delle loro attività di cui agli artt. da 208 a 213 o per
l’esercizio di tali attività in un Paese terzo, in
circostanze che non comportino lo sfruttamento materiale di
una rete o di un’area geografica all’interno della Comunità.
Ha poi aggiunto, con riferimento al caso sottoposto al
proprio esame, che posta la previsione dei servizi di
pulizia degli edifici e di gestione delle proprietà
immobiliari negli allegati di entrambe le direttive europee
(n. 17/2004, che coordina le procedure di appalto degli enti
erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono
servizi di trasporto e servizi postali, e n. 18/2004,
relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione
degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di
servizi), l’assoggettabilità dell’affidamento del servizio
di pulizia alla disciplina dettata per i settori speciali
non può essere desunta sulla base di un criterio solo
soggettivo, relativo cioè al fatto che ad affidare l’appalto
sia un ente operante nei settori speciali, ma anche in
applicazione di un parametro di tipo oggettivo, attento alla
riferibilità della pulizia all’attività speciale. Ha quindi
chiarito che la pulizia rientra nella normativa dei settori
speciali quando è funzionale a detta attività, il che si
verifica qualora si tratti di proprietà immobiliari ed
edifici che costituiscano parte integrante delle reti di
produzione, distribuzione e trasporto indicate negli artt.
208 e ss. d.lgs. n. 163 del 2006.
Con precipuo riferimento al servizio di pulizia delle
stazioni, impianti, uffici ed officine dislocati. questi
riguardano elementi necessari facenti parte della rete di
trasporto ferroviario, deve ritenersi rientrare nella
normativa dei settori speciali in quanto strettamente
funzionale a detta attività di trasporto ferroviario, dal
momento che detto servizio, lungi dal costituire un servizio
antecedente, collaterale od aggiuntivo al servizio di
trasporto, attiene proprio all’adeguato svolgimento di detto
servizio, interessando esso proprietà immobiliari ed edifici
che costituiscono elementi necessari della rete di trasporto
ferroviario, visto che il servizio di trasporto (in
particolare, di passeggeri), che è svolto con inizio nelle
stazioni di accesso ai mezzi di trasporto (e che, dunque, si
avvale di uffici, impianti ed officine a queste ed alla rete
connessi) non può prescindere da un servizio di pulizia che
assicuri condizioni igienico-sanitarie adeguate, non solo a
coloro che operano nel servizio trasporti medesimo, ma anche
a tutti coloro (i passeggeri) che del servizio trasporti
costituiscono gli utenti.
Quanto poi alla rimessione alla Corte di giustizia, il
rinvio era stato chiesto dall’appellante secondo cui la
disciplina nazionale, nella parte in cui porta ad escludere
la revisione dei prezzi nel settore dei trasporti e,
segnatamente, anche nei relativi contratti di pulizia, viola
la direttiva 31.03.2004, n. 17.
Essa “risulta una disciplina ultronea e ingiustificata
rispetto a quella comunitaria, ingiustamente sproporzionata
e tale da porre l’impresa “ausiliaria” (aggiudicataria di
un’attività quale quella di pulizia) in posizione di
soggezione e di debolezza nei confronti dell’impresa (essa
sì) esercente il servizio pubblico”, producendosi in tal
modo “un ingiusto e sproporzionato disequilibrio
contrattuale”, per effetto della disciplina legislativa
italiana che “finisce per alterare le regole di
funzionamento del mercato”.
Stante la richiesta di parte il rinvio pregiudiziale alla
Corte di giustizia dell’Unione Europea, sia di
interpretazione che di validità, si rende necessario, da
parte del giudice di ultima istanza, alla luce di quanto
affermato dalla consolidata giurisprudenza della stessa
Corte di giustizia (ex plurimis, in ordine al rinvio
pregiudiziale, sez. IV, 18.07.2013 C-136/12 laddove essa
precisa, par. 25, che: “...qualora non esista alcun
ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice
nazionale, quest'ultimo è, in linea di principio, tenuto a
rivolgersi alla Corte ai sensi dell'art. 267, terzo comma,
TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione di
interpretazione del predetto Trattato”; in ordine al
rinvio di validità, nel senso dell’obbligatorietà assoluta
del medesimo, Corte giust. comm. ue 06.12.2005, C-461/03;
21.03.2000, C-6/99) (Consiglio
di Stato, Sez. IV,
ordinanza 22.03.2017 n. 1297
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it). |
ENTI
LOCALI - VARI: Menu
vegano a scuola. Il no del comune deve essere motivato. Il
Tar di Bolzano dà ragione alla mamma munita di certificato.
Sì al menu vegano per l'alunno della scuola dell'infanzia.
Il comune non può negare la dieta senza carne, pesce, uova,
latte e derivati al bambino che l'ha seguita fin dalla
nascita senza spiegare le «ragioni giuridiche» del suo
rifiuto.
È escluso che l'ente possa limitarsi a indicare
l'elenco tassativo dei quattro menu alternativi a quello
standard che offre ai bimbi dei suoi asili: ogni
provvedimento dell'amministrazione deve infatti essere
motivato e mai essa «è libera di agire secondo arbitrio».
È quanto emerge dalla
sentenza
22.03.2017 n. 107,
pubblicata dalla Sez. autonoma di Bolzano del TRGA.
Addentellato mancante.
Vittoria per la mamma altoatesina difesa dall'avvocato Ca.Pr.. È un certificato medico del pediatra che consiglia
di escludere gli alimenti indicati dalla dieta del bambino
perché potrebbero avere «effetti non favorevoli», visto che
in famiglia il piccolo è stato abituato così. Il
provvedimento dell'ente locale è annullato per carenza di
motivazione perché a fondamento del niet non risulta posta
alcuna previsione normativa o regolamentare.
Anche in sede
giurisdizionale il comune non è in grado di motivare il
diniego: inutile per l'amministrazione invocare la delibera
della giunta, limitandosi ad affermare di non avere «alcun
obbligo di fornire un menu vegano ai bambini iscritti nei
suoi asili» senza indicare alcuna norma o atto come
addentellato: «tanto basta a rendere illegittimo il
provvedimento», scrivono i giudici amministrativi.
Scelte etiche.
La sentenza cita la legge regionale del Trentino-Alto Adige
ma il principio applicato è analogo alla normativa nazionale
sull'obbligo di motivazione dei provvedimenti
amministrativi: l'ente «deve sempre operare secondo la
legge», altrimenti non può provvedere esercitando il suo
potere.
«Tanto le norme costituzionali italiane, quanto le
linee guida del ministero della salute del 2010», osserva
l'avvocato Pr., «garantiscono e tutelano il diritto dei
cittadini di esigere il rispetto delle loro scelte etiche,
anche in ambito alimentare. Di fronte a diritti di rango
costituzionale nulla possono le delibere comunali». Al
comune non resta che pagare le spese di lite
(articolo ItaliaOggi del 24.03.2017). |
APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Il
reato di illecita turbativa può configurarsi anche nel caso
di affidamento diretto.
La scelta di procedere con affidamento
diretto di un servizio comunale è fase del processo
decisionale dell’ente locale, in cui si può concretizzare il
reato previsto dall’articolo 353-bis del Codice penale, che
colpisce appunto l’eventuale turbativa nell’individuazione
del miglior offerente da parte della Pa.
La norma tutela, infatti, la «libertà del procedimento di
scelta del contraente», non solo dalla manipolazione del
bando di gara, ma anche di «atto equipollente», e cioè anche
in assenza di gara.
---------------
4. Com'è noto, l'art. 353 cod. pen., la cui
rubrica recita "Turbata libertà degli incanti",
punisce chiunque, mediante le condotte alternative ivi
indicate -ossia "con violenza o minaccia, o con doni,
promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti"- "impedisce
o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni
private per conto di pubbliche amministrazioni, ovvero ne
allontana gli offerenti".
Donde l'agevole individuazione dell'oggetto
della condotta, che si risolve, in via di gravità
decrescente, nell'impedimento della gara, intendendosi per
tale anche la sua sospensione per un apprezzabile periodo di
tempo; nell'allontanamento da essa di taluno degli
offerenti, ovvero, ancora, nel turbamento della gara
medesima, solitamente inteso dalla giurisprudenza in senso
ampio, sì da ricomprendervi ogni manifestazione in concreto
idonea ad alterare l'esito della gara, pur in difetto della
realizzazione di un esito siffatto
(cfr. Cass. Sez. 6, sent. n. 40304/2014; n. 41365/2013, Rv.
256276; n. 28970/2013, Rv. 255625; n. 12821/2013, Rv.
254906).
Evidente, pertanto, è il bene giuridico
tutelato, che va ravvisato nella salvaguardia della libertà
di iniziativa economica, attraverso la quale si realizza
l'interesse della P.A. alla individuazione del contraente
più competente alle condizioni economiche migliori, pur
dovendosi ribadire che, ferma l'indubbia e stretta
correlazione fra i due beni, non necessariamente alla
lesione del primo deve seguire quella effettiva del secondo,
come nel caso del mero "turbamento" che non abbia
tuttavia prodotto la reale alterazione del risultato
(cfr. le sentenza sopra citate) e, per
l'effetto, cagionato un danno patrimoniale a carico della
P.A., in tal senso dovendosi intendere la qualificazione del
reato in esame, talora ricorrente, come reato di pericolo,
che lascia pur sempre fermo l'imprescindibile verificarsi
dell'evento, in senso naturalistico, quale sopra descritto,
nelle forme alternative individuate dal legislatore.
Logico corollario di quanto precede è che
l'operatività della tutela apprestata dalla disposizione in
esame presuppone l'esistenza di una gara (quale che sia la
denominazione formale della procedura avviata) e, dunque, di
un bando o di un atto equipollente che abbia fatto luogo
alla sua indizione.
4.1 L'art. 353-bis cod. pen.
-che è norma di recente conio, in quanto introdotta con
legge n. 136/2010, con la denominazione di "Turbata
libertà del procedimento di scelta del contraente"-
presenta carattere residuale ("Salvo che il fatto
costituisca più grave reato ...") e sanziona chiunque,
sulla scorta delle medesime condotte indicate dal precedente
art. 353 -quindi "con violenza o minaccia, o con doni,
promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti"- "turba
il procedimento amministrativo diretto a stabilire il
contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di
condizionare le modalità di scelta del contrente da parte
della pubblica amministrazione".
Identico, quindi -come discende altresì dalla collocazione
sistematica delle due norme- è il bene giuridico tutelato
rispetto a quello oggetto della fattispecie di cui all'art.
353 cod. pen., poiché anche in questo caso la norma è
diretta a colpire i comportamenti che, incidendo
illecitamente sulla libera dialettica economica, mettono a
repentaglio l'interesse della P.A. di poter contrarre con il
miglior offerente.
Non così, invece, per ciò che concerne il momento di
operatività della tutela apprestata dalle due disposizioni,
che, nell'un caso (art. 353 cod. pen.) -come già si è
avuto modo di dire- richiede l'esistenza di una gara,
comunque denominata; laddove, nell'altro caso (art.
353-bis cod. pen.), esso viene anticipato nel tempo -quando
un bando (o altro atto equivalente) non sia stato adottato,
anche ove la relativa procedura sia stata avviata senza
essere però approdata al suo esito finale- nella
consapevolezza che gli interessi meritevoli di tutela (come
sopra specificati) possono essere lesi non solo da condotte
successive ad un bando il cui contenuto sia stato
determinato nel pieno rispetto della legalità, ma anche da
comportamenti precedenti in grado di avere influenza sulla
formazione di detto contenuto.
5. Fin qui la disamina compiuta trova piena rispondenza
nella decisione adottata dal Tribunale distrettuale della
cautela.
Sennonché occorre considerare che l'art.
353-bis cod. pen. non circoscrive affatto il novero delle
procedure tutelate, laddove l'art. 353 le indica
specificamente nei pubblici incanti e nelle licitazioni
private (ferma restando la già richiamata e consolidata
interpretazione, nel senso della sufficienza della presenza
di una gara, comunque denominata).
Anzi, la lettera della norma si riferisce al "contenuto
del bando o di altro atto equipollente", dovendosi
intendere per tale ogni atto che -così come recita la
rubrica della norma- abbia l'effetto di avviare la procedura
di scelta del contraente, venendo così in considerazione,
sulla scorta di un'interpretazione di segno ampio,
pienamente conforme alla ratio legis, anche la
deliberazione a contrarre qualora la stessa, per effetto
della illecita turbativa, non preveda l'espletamento di
alcuna gara, bensì l'affidamento diretto ad un determinato
soggetto economico.
Ed in tal senso si è già espressa la giurisprudenza di
legittimità, a tale riguardo venendo in considerazione
quanto leggesi nella parte motiva della sentenza n. 43800
del 23.10.2012 (sez. 6 - non massimata) e, più di recente,
in Sez. 6, sent. n. 1 del 02.12.2014 - dep. 02.01.2015, Rv.
262917, ove appunto si afferma,
alla stregua delle medesime argomentazioni sopra illustrate,
non esservi dubbio che, nella nozione di "atto
equipollente" di cui alla norma in esame, "rientra
qualunque provvedimento alternativo al bando di gara,
adottato per la scelta del contraente, ivi inclusi,
pertanto, quelli statuenti l'affidamento diretto" (nella
fattispecie, la Corte ha ritenuto tale "una delibera di
proroga di contratto di appalto di servizi già in corso").
Le considerazioni che precedono risultano poi, se possibile,
ancor più pregnanti rispetto alla vicenda in esame, ove si
consideri che il capo d'incolpazione sub m) è esplicito nel
significare come la procedura di
affidamento diretto sia stata avviata in violazione della
normativa stabilita dall'allora vigente "codice degli
appalti" (d.lgs. n. 163/2006): ciò su cui il
provvedimento del g.i.p. ampiamente si sofferma
(v. pagg. 344 e ss. del provvedimento genetico, in
particolare 346 e ss.) e che sembra trovare
condivisione nella valutazione del Tribunale, che parla di "sospetto
favoritismo per la ditta TE.", salvo poi scolorare per
effetto della non corretta considerazione di ordine
giuridico di cui si è detto
(Corte di Cassazione, Sez. VI penale,
sentenza 20.03.2017 n. 13432). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Bonifica
dell'area, non è competenza del curatore. Tar Trento.
Non è il curatore che deve bonificare dall'amianto l'area a
rischio, un tempo occupata dalla società fallita. O meglio:
non può essere il comune a ordinare d'urgenza all'organo
concorsuale i lavori per rimuovere i materiali contenenti la
fibra-killer.
E ciò perché vale il principio eurounitario
«chi inquina paga» e manca la prova che sia avvenuto dopo la
declaratoria di insolvenza della società il superamento dei
limiti di concentrazione dell'asbesto previsti dalle tabelle
della normativa. Non bisogna dimenticare, infatti, che la
curatela non risulta autorizzata all'esercizio provvisorio
dell'azienda ex articolo 104 l.fall.
Con
sentenza
20.03.2017 n. 93 il TRGA
Trentino Alto Adige-Trento ha accolto il ricorso della
professionista che si vede intimare dal sindaco opere di
messa in sicurezza per oltre 220 mila euro, non sostenibili
in base all'attivo patrimoniale.
L'ordine di bonifica, in
realtà, riguarda un'attività anteriore alla dichiarazione di
fallimento, che non può essere in alcun modo ricondotta al
curatore. L'amianto è presente in dosi massicce nel
capannone a partire dalla copertura e si presume che
l'accomandatario della sas fallita sia a conoscenza dei
materiali impiegati nella costruzione della struttura: il
socio, fra l'altro, è stato subito nominato custode della
struttura dal tribunale e senza successo il comune ha
tentato in primis di ottenere la bonifica dall'imprenditore.
Inutile dunque per l'amministrazione prendersela con il
curatore senza accertare il profilo soggettivo del dolo o
della colpa nella condotta commissiva o omissiva
(articolo ItaliaOggi del 23.03.2017). |
CONSIGLIERI REGIONALI:
Sulla finalità del diritto di accesso ad atti e
documenti delle società partecipate dalla Regione da parte
di un consigliere regionale.
Il diritto di accedere ad atti e documenti delle società
partecipate dalla Regione da parte di un consigliere
regionale è direttamente funzionale non tanto ad un
interesse personale del consigliere, quanto alla cura di un
interesse pubblico connesso al mandato conferito.
I consiglieri hanno, infatti, un non condizionato diritto di
accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità
all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di
permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza
e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per
esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza
del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del
Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli
rappresentanti del corpo elettorale locale; il diritto di
accesso riconosciuto ai consiglieri, pertanto, ha una
ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto
di accesso ai documenti amministrativi che è riconosciuto a
chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto
e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente
tutelata e collegata al documento al quale è chiesto
l'accesso" (artt. 22 e ss. della l. n. 241 del 1990).
A differenza dei soggetti privati, il consigliere non è
tenuto a motivare la richiesta, né l'Ente ha titolo per
sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e
l'esercizio del mandato, altrimenti gli organi
dell'amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi
stessi l'ambito del controllo sul proprio operato.
Inoltre, il diritto di avere dall'Ente tutte le informazioni
che siano utili all'espletamento del mandato non incontra
alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in
quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del
segreto.
Gli unici limiti all'esercizio di tale diritto si rinvengono
nel fatto che l'esercizio del diritto stesso avvenga in modo
da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici
dell'Ente e che non si sostanzi in richieste assolutamente
generiche o meramente emulative, fermo restando che la
sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e
approfonditamente vagliata in concreto al fine di non
introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al
diritto di accesso dei consiglieri (TAR Lombardia-Milano,
Sez. I,
sentenza 17.03.2017 n. 656 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
APPALTI:
Sull'ipotesi in cui l'obbligo di indicazione
separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato
specificato dalla legge di gara, per le gare bandite
anteriormente all'entrata in vigore del c.d. Codice degli
appalti (d.lgs. n. 50/2016).
Alla luce della normativa dell'Ue, per le gare bandite
anteriormente all'entrata in vigore del c.d. Codice degli
appalti e delle concessioni (d.lgs. 18.04.2016, n. 50),
nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei
costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla
legge di gara e non sia in contestazione che dal punto di
vista sostanziale l'offerta rispetti i costi minimi di
sicurezza aziendale, l'esclusione del concorrente non può
essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato
a regolarizzare l'offerta dalla stazione appaltante nel
doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio.
Inoltre, analogamente, ostano all'esclusione di un offerente
dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a
seguito dell'inosservanza, da parte di detto offerente,
dell'obbligo di indicare separatamente nell'offerta i costi
aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui
mancato rispetto è sanzionato con l'esclusione dalla
procedura e che non risulta espressamente dai documenti di
gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da
un'interpretazione di tale normativa e dal meccanismo
diretto a colmare, con l'intervento del giudice nazionale di
ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti.
I principi della parità di trattamento e di proporzionalità
devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano
al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di
rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro
un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice
(Consiglio di Stato, Sez. V,
sentenza 14.03.2017 n. 1166 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
ENTI LOCALI: Partecipate,
ok al Tu. Anzi no. Dubbi sui poteri del premier e dei
governatori regionali. Parere
favorevole del Consiglio di stato al decreto correttivo. Ma
restano molti punti critici.
Un'occasione mancata. Questo è il giudizio che il Consiglio
di stato dà del decreto correttivo al Testo unico Madia
sulle società partecipate. Il provvedimento si limita
infatti a dare esecuzione alla sentenza n. 251/2016 della
Corte costituzionale che ha bocciato il T.u. (dlgs 175/2016)
nella parte in cui non prevedeva l'intesa con le regioni, ma
il semplice parere.
Palazzo Spada accoglie favorevolmente la previsione della
necessità dell'intesa in Conferenza unificata con le
regioni, intesa che peraltro sanerà tutte le disposizioni
già vigenti così da assicurare la certezza dei rapporti in
corso. Tuttavia, secondo i giudici amministrativi, il
decreto non risolve le problematiche originarie del Testo
unico che sono emerse subito dopo la sua entrata in vigore.
Nel
parere 14.03.2017 n. 638
(Schema di decreto legislativo concernente "Disposizioni
integrative e correttive al decreto legislativo 19.08.2016,
n. 175, recante testo unico in materia di società a
partecipazione pubblica"), che inaugura il nuovo giro di osservazioni sui decreti Madia-bis, palazzo Spada punta il dito sui difetti originari
del T.u. a cui il governo avrebbe potuto porre rimedio con i
decreti correttivi. Invece, dice il Consiglio di stato, non
solo questo non è avvenuto, ma in alcuni punti il testo è
stato ulteriormente peggiorato.
È il caso, per esempio, della norma, molto discussa, che
attribuisce al presidente del consiglio il potere di
escludere singole società dall'applicazione della riforma
con un semplice provvedimento amministrativo. Palazzo Spada,
aveva già messo in guardia da una possibile violazione del
principio di legalità e aveva espresso dubbi sulla coerenza
di una disposizione del genere con la legge delega (legge n.
124/2015). Con il correttivo, però, il governo ha fatto
peggio e ha esteso tale potere derogatorio anche ai
presidenti delle regioni. Una modifica definita «grave»,
secondo il Cds, «perché consentirebbe a un'autorità
regionale di derogare, con un suo provvedimento, a una
disciplina statale generale propria dell'ordinamento
civile».
Altro punto debole, secondo il Cds, si rinviene le
disposizioni sulla responsabilità degli amministratori delle
società partecipate che secondo palazzo Spada continuano a
generare incertezze sul riparto di competenze tra giudice
civile e giudice contabile. Un'altra contraddizione
irrisolta del decreto correttivo riguarda la fallibilità
delle società pubbliche, prevista dal T.u., che mal si
concilia, secondo il Consiglio di stato, con la norma che
impone alle amministrazioni locali partecipanti di
accantonare nel bilancio un importo pari al risultato
negativo non immediatamente ripianato delle società in
house. A giudizio del Cds ciò «negherebbe in radice la
possibilità per le società in house di fallire» e potrebbe
risolversi anche in un indebito aiuto di stato. Ma l'elenco
delle correzioni suggerite non finisce qui.
Sarebbe necessario, si legge nel parere, unificare la
disciplina in tema di enti in house (oggi collocata, con
qualche difformità, sia nel T.u. sulle società partecipate
sia nel codice dei contratti pubblici) e chiarirne
soprattutto gli aspetti relativi alle modalità di scelta del
socio privato. Bisognerebbe poi specificare con chiarezza
che il Codice appalti (dlgs 50/2016) si applica anche agli
acquisti di beni e servizi da parte delle società pubbliche.
E infine sarebbe cruciale irrobustire i poteri di
intervento, di controllo e di monitoraggio del ministero
della Funzione pubblica contro le elusioni della riforma
soprattutto nella fase transitoria che dovrà essere portata
a termine entro il 30.06.2017. Come si ricorderà, (si
veda ItaliaOggi del 18/02/2017) il decreto correttivo ha
fatto slittare dal 23.03. al 30.06.2017 il termine per la
ricognizione delle partecipazioni possedute, propedeutica
alla razionalizzazione.
Slitterà al 30.06.2017 anche il termine entro il quale le
società a controllo pubblico dovranno effettuare la
ricognizione del personale in servizio, per individuare
eventuali esuberi. Per l'adeguamento degli statuti ci sarà
tempo fino al 31.07.2017
(articolo ItaliaOggi del 15.03.2017). |
APPALTI: Avvalimento
infragruppo, basta una dichiarazione.
Legittimo senza depositare il contratto.
L'avvalimento fra società appartenenti allo stesso gruppo di
imprese è legittimo anche senza produzione del contratto di
avvalimento; è sufficiente una dichiarazione che attesti il
legame societario di partecipazione fra gruppo e società
ausliaria.
È quanto ha precisato il TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano
con la
sentenza 14.03.2017 n. 99
che esamina una fattispecie in cui il ricorrente contestava
la validità dell'avvalimento da parte di un gruppo
imprenditoriale (Tüv Süd) che non aveva depositato il
relativo contratto di avvalimento, con il quale la Tüv Süd
NL si obbliga a mettere a disposizione della capogruppo le
proprie prestazioni.
Il collegio giudicante, dopo avere inquadrato il caso
nell'ambito della disciplina dettata dall'articolo 89 del
codice dei contratti pubblici (decreto 50/2016), smentisce
la tesi del ricorrente affermando che «è pacifico che non è
necessaria la stipulazione di un contratto di avvalimento,
ma è sufficiente che l'impresa capogruppo dimostri il legame
societario intercorrente tra essa stessa e l'impresa
ausiliaria».
In passato infatti la giurisprudenza aveva già
accordato un regime probatorio e documentale semplificato in
favore delle imprese appartenenti al medesimo gruppo
societario che possono quindi partecipare alla gara per
l'affidamento di un contratto pubblico con una semplice
dichiarazione attestante il legame con la società di cui si
utilizzano i requisiti di partecipazione.
Questo regime,
precisa la giurisprudenza citata dai giudici di Bolzano,
vale per tutte le imprese del gruppo e quindi sarebbe
illegittimo limitarne la portata alle sole imprese
ausiliarie controllanti o direttamente partecipanti e ancora
capogruppo; in altre parole non sussistono limiti di tipo
soggettivo perché quel che conta è il controllo direzionale
societario tra capogruppo e partecipata.
E l'avvalimento infragruppo è ammesso qualunque sia la
posizione nel gruppo, controllata o controllante. Si tratta
di una posizione assolutamente in linea con la
giurisprudenza comunitaria che già nel 1994 (sentenza
Ballast Noedam groep) e poi nel 1999 (sent. C-176) ammise
l'utilizzo dei requisiti di una società del gruppo, aprendo
la strada alla codificazione di questa possibilità nelle
direttiva Ue 2004/18
(articolo ItaliaOggi del 24.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA: In
sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio,
segnatamente, in sede di esame sull’effettiva disponibilità
giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio,
sussiste bensì l’obbligo per il Comune di verificare il
rispetto da parte dell’istante dei presupposti privatistici,
ma soltanto alla condizione che tali presupposti siano
effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non
contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente
locale si traduca in una semplice presa d’atto dei
presupposti medesimi, senza necessità di procedere ad
un’accurata e approfondita disanima dei rapporti
civilistici.
---------------
Il Comune procedente legittimamente si è limitato a prendere
atto della sussistenza, in astratto, del diritto di
proprietà, senza necessità di procedere ad un'accurata e
approfondita disanima dei rapporti civilistici.
Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la
necessità di procedere a una particolare istruttoria
civilistica, rientrando la presenza di eventuali limiti alla
proprietà o la supposta pretesa di lesioni di diritti
soggettivi nell’ambito delle controversie tra privati, che
gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi,
senza riflessi sulla legittimità degli atti autorizzatori
dell’esercizio dello “ius edificandi”.
Com’è noto, il titolo abilitativo viene rilasciato con
salvezza dei diritti dei terzi, in base all’articolo 11,
comma 3, del testo unico numero 380 del 2001, in quanto la
funzione del permesso di costruire è quella di rimuovere un
ostacolo alla libera esplicazione del diritto ad edificare
del privato, per cui esso definisce unicamente i rapporti
tra l’amministrazione e il privato richiedente in ordine
allo svolgimento dell’attività oggetto del provvedimento, ma
non ha efficacia nei confronti dei terzi.
Ne consegue che il terzo che si ritenga danneggiato
dall’esecuzione dell’opera, nonostante il rilascio del
permesso di costruire, ben può agire ricorrendo al giudice
ordinario per la tutela delle proprie situazioni di diritto
soggettivo.
Ciò anche nell’ipotesi, verificatasi nella fattispecie
concreta, in cui l’estensione delle opere realizzate possa
essere stata determinata, indirettamente, dall’esercizio del
diritto di proprietà su un’area non interamente appartenente
ai costruttori.
---------------
A giudizio del Collegio, la censura è infondata.
Per un condivisibile orientamento della giurisprudenza, in
sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio,
segnatamente, in sede di esame sull’effettiva disponibilità
giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio,
sussiste bensì l’obbligo per il Comune di verificare il
rispetto da parte dell’istante dei presupposti privatistici,
ma soltanto alla condizione che tali presupposti siano
effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non
contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente
locale si traduca in una semplice presa d’atto dei
presupposti medesimi, senza necessità di procedere ad
un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici
(v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 28.09.2012,
n. 5128; Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2011, n. 6731; Cons.
Stato, Sez. IV, 04.05.2010, n. 2546; Cons. Stato, Sez. VI,
21.11.2016 n. 4861).
Nella fattispecie, la società controinteressata, nel
presentare la domanda di concessione edilizia, ha allegato
gli atti di acquisto del fondo sul quale intendeva
costruire.
In particolare, per quanto riguarda la contestata particella
numero 237, la società immobiliare ha esibito l’atto
notarile del 19.07.2001, numero di repertorio 3130, di
acquisto, per complessivi metri quadrati 1080, delle aree
distinti al catasto alle particelle numero 237, numero 381 e
numero 912, ad essa vendute dalla società “Costruzioni in
ferro e metalli”, cui le stesse erano pervenute in virtù
di scrittura privata autenticata da notaio il 06.07.1974,
numero di repertorio 79102.
In tali atti non vi era traccia della strada privata su cui
il condominio ricorrente ha inteso fondare il ricorso, né
era stata fino ad allora contestata la proprietà della
particella corrispondente nei confronti dei privati danti
causa della società immobiliare.
Ne deriva che il Comune procedente legittimamente si è
limitato a prendere atto della sussistenza, in astratto, del
diritto di proprietà, senza necessità di procedere ad
un'accurata e approfondita disanima dei rapporti
civilistici.
Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la
necessità di procedere a una particolare istruttoria
civilistica, rientrando la presenza di eventuali limiti alla
proprietà o la supposta pretesa di lesioni di diritti
soggettivi nell’ambito delle controversie tra privati, che
gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi,
senza riflessi sulla legittimità degli atti autorizzatori
dell’esercizio dello “ius edificandi”.
Com’è noto, il titolo abilitativo viene rilasciato con
salvezza dei diritti dei terzi, in base all’articolo 11,
comma 3, del testo unico numero 380 del 2001, in quanto la
funzione del permesso di costruire è quella di rimuovere un
ostacolo alla libera esplicazione del diritto ad edificare
del privato, per cui esso definisce unicamente i rapporti
tra l’amministrazione e il privato richiedente in ordine
allo svolgimento dell’attività oggetto del provvedimento, ma
non ha efficacia nei confronti dei terzi.
Ne consegue che il terzo che si ritenga danneggiato
dall’esecuzione dell’opera, nonostante il rilascio del
permesso di costruire, ben può agire ricorrendo al giudice
ordinario per la tutela delle proprie situazioni di diritto
soggettivo.
Ciò anche nell’ipotesi, verificatasi nella fattispecie
concreta, in cui l’estensione delle opere realizzate possa
essere stata determinata, indirettamente, dall’esercizio del
diritto di proprietà su un’area non interamente appartenente
ai costruttori.
Sotto questo profilo, dunque, deve essere esclusa la
illegittimità del provvedimento impugnato, salve le azioni
anche risarcitorie esperibili dai soggetti privati
ingiustamente danneggiati
(TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis,
sentenza 13.03.2017 n. 3432 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
LAVORI PUBBLICI: P.f.,
non è vincolante il pubblico interesse. Nessun obbligo di
gara per la p.a..
In un project finance la dichiarazione di pubblico interesse
non vincola la stazione appaltante all'avvio della gara per
affidare la concessione.
Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V con la
sentenza 13.03.2017 n. 1139
in merito alla natura e agli effetti delle valutazioni
realizzate dall'amministrazione procedente nell'ambito delle
procedure di project financing che si caratterizzano per la
loro discrezionalità di tipo tecnico e di tipo
amministrativo.
Ricorda la sentenza che era già stato chiarito che, anche
una volta dichiarata di pubblico interesse una proposta di
realizzazione di lavori pubblici e individuato quindi il
promotore privato, l'amministrazione non è per ciò stesso
tenuta a dare corso alla procedura di gara per l'affidamento
della relativa concessione. La scelta è espressione di
discrezionalità amministrativa oggetto di valutazioni
concernenti l'effettiva esistenza di un interesse pubblico
alla realizzazione dell'opera che sfuggono al sindacato
giurisdizionale amministrativo.
I giudici hanno chiarito che ciò non significa che,
all'indomani dell'individuazione del promotore (e quindi
della proposta considerata come di pubblico interesse),
residui in capo all'amministrazione un'incondizionata
facoltà di recesso della procedura; ciò sarebbe contrario ai
generali canoni di ragionevolezza e buona fede.
Deve però essere chiaro, dice la sentenza, che nell'ambito
delle procedure di finanza di progetto grava tanto
sull'amministrazione quanto sul soggetto proponente l'onere
di collaborare in modo pieno al fine di individuare
soluzioni giuridicamente e finanziariamente sostenibili.
Ne consegue che non si possono far gravare soltanto
sull'amministrazione le conseguenze della negativa
conclusione della procedura laddove il proponente, pur se
consapevole delle criticità connesse ad alcuni aspetti
qualificanti della proposta, abbia nondimeno insistito (e in
modo consapevole) su tali aspetti, in tal modo contribuendo
in modo determinante al giudizio negativo infine espresso
dal Cipe e alla scelta per una diversa opzione realizzativa
(articolo ItaliaOggi del 17.03.2017).
---------------
MASSIMA
2. In primo luogo occorre confermare la correttezza del
richiamo operato dal primo Giudice all’orientamento secondo
cui,
nella materia della finanza di progetto ai sensi degli
articoli 153 e seguenti del decreto legislativo 12.04.2006,
n. 163 (nonché in relazione alla particolare forma di
finanza di progetto di cui all’articolo 175 del medesimo ‘Codice’
per le cc.dd. ‘grandi opere’), risulta legittima
l’esclusione del progetto presentato dal promotore nel caso
di –legittima– valutazione negativa in ordine anche ad uno
soltanto dei parametri di valutazione, spettando invero
all’amministrazione procedente
(e in ultima analisi al CIPE)
stabilire se il progetto proposto risulti in generale idoneo
a soddisfare l’interesse pubblico al cui perseguimento la
procedura è nel suo complesso finalizzata
(è stata correttamente richiamata al riguardo la sentenza di
questo Consiglio 25.06.2010, n. 4084).
Allo stesso modo la sentenza in epigrafe ha correttamente
richiamato l’orientamento secondo cui
le valutazioni realizzate dall’amministrazione procedente
nell’ambito delle procedure di project financing sono
caratterizzate sia da una discrezionalità di tipo tecnico
(in relazione alle complesse valutazioni inerenti gli
aspetti economico-finanziari, progettuali e ambientali delle
proposte), sia da una discrezionalità di tipo amministrativo
(in relazione alle valutazioni relative al più adeguato
perseguimento dell’interesse pubblico e alla scelta fra le
diverse opzioni a tal fine percorribili, ivi compresa la
c.d. ‘opzione zero’).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha recentemente
chiarito che,
anche una volta dichiarata di pubblico interesse una
proposta di realizzazione di lavori pubblici ed individuato
quindi il promotore privato, l'amministrazione non è per ciò
stesso tenuta a dare corso alla procedura di gara per
l'affidamento della relativa concessione.
La scelta in questione costituisce infatti una tipica
manifestazione di discrezionalità amministrativa nella quale
sono implicate ampie valutazioni in ordine all'effettiva
esistenza di un interesse pubblico alla realizzazione
dell'opera, tali da non potere essere rese coercibili
nell'ambito del giudizio di legittimità che si svolge in
sede giurisdizionale amministrativa
(in tal senso: Cons. Stato, V, 21.06.2016, n. 2719. In
termini analoghi: III, 20.03.2014, n. 1365).
La premessa in questione, invero riferita ad orientamenti
ben noti e consolidati, si rende invece necessaria in quanto
numerosi degli argomenti profusi (anche) nella presente sede
dalla parte appellante sembrano far coincidere l’obbligo per
l’amministrazione procedente di esaminare la proposta del
promotore in modo corretto e adeguato con una sorta di
immanente obbligo di assentire comunque la proposta,
determinando in caso contrario una sorta di responsabilità
in re ipsa a carico dell’amministrazione stessa.
La richiamata prospettazione sembra quindi voler innestare a
carico dell’amministrazione una sorta di immanente
responsabilità per il caso di mancata approvazione del
progetto, senza apparentemente considerare che, nella
particolare disciplina della finanza di progetto, tale
evenienza (pur se non fisiologica, né auspicabile)
rappresenta pur sempre una delle opzioni in campo e che
spetta allo stesso modo all’amministrazione e al promotore
il compito di porre in essere ogni sforzo al fine di
scongiurare tale (comunque possibile) esito.
Non si intende con ciò dire che, all’indomani
dell’individuazione del promotore (e quindi della proposta
considerata come ‘di pubblico interesse’), residui in
capo all’amministrazione un’incondizionata facoltà di
recesso ad nutum della procedura (il che risulterebbe
evidentemente contrario ai generali canoni di ragionevolezza
e buona fede che connotano anche questo settore
dell’ordinamento).
Si intende però chiarire che,
nell’ambito delle procedure del tipo di quella per cui è
causa, grava tanto sull’amministrazione quanto sul soggetto
proponente l’onere di collaborare in modo pieno al fine di
individuare soluzioni giuridicamente e finanziariamente
sostenibili.
Ne consegue che non si possono far gravare soltanto
sull’amministrazione le conseguenze della negativa
conclusione della procedura laddove il proponente, pur se
consapevole delle criticità connesse ad alcuni aspetti
qualificanti della proposta, abbia nondimeno insistito (e in
modo consapevole) su tali aspetti, in tal modo contribuendo
in modo determinante al giudizio negativo infine espresso
dal CIPE e alla scelta per una diversa opzione realizzativa. |
EDILIZIA PRIVATA: Riguardo
ai caratteri del gazebo in questione, esteso circa 110 mq,
il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento secondo cui
i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze
permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo
stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico
urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del
manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di
opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.:
gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini
contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad
essere reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Infatti, la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo
del possesso del permesso di costruire, postula un uso
specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua
stagionalità, la quale non esclude la destinazione del
manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e
contingenti, ma permanenti nel tempo.
Sotto tale aspetto, per le sue caratteristiche tipologiche e
funzionali, nonché in considerazione del regime temporale
della relativa utilizzazione il manufatto per cui è causa è
riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del
comma 1 dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001, a tenore del
quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le
installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere che siano usati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, non possono comunque essere considerati
manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può
essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità
dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato
ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo
complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il
carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura
destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di
somministrazione.
---------------
1. Con istanza del 05.05.2013 la signora An.Ma.Ma. ha
chiesto al Sindaco di Mangone di essere autorizzata
all’installazione stagionale di un gazebo rimovibile con
telo plastificato.
Con nota del 12.06.2003 il Responsabile del Servizio presso
l’Ufficio Tecnico del Comune di Mangone ha comunicato alla
ricorrente il “diniego della domanda di autorizzazione
edilizia”, ritenuta in contrasto con l’art. 8, lett. d),
del Piano di fabbricazione del Comune di Magone, in quanto
non rispettosa delle distanze dai confini e dalle strade.
Nonostante tale diniego, l’odierna ricorrente ha ugualmente
effettuato il montaggio del gazebo nella proprietà privata
del suocero Cr.Ma..
2. In data 03.07.2003 è stata notificata al Cr. ordinanza di
ingiunzione-demolizione della tendostruttura, in quanto
realizzata abusivamente, in assenza della prescritta
autorizzazione edilizia.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti hanno l’annullamento
del provvedimenti, per i vizi di violazione di legge, con
riferimento all’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione
del Comune di Mangone e all’art. 10 della L. 47/1985, nonché
per eccesso di potere per presupposto erroneo, travisamento
del fatto e illogicità.
Il gazebo in questione non sarebbe una costruzione,
trattandosi di struttura precaria e facilmente smontabile.
Non sarebbe stato, pertanto, necessario un provvedimento
autorizzativo, che, tuttavia, è stato negato.
...
7. Il ricorso principale è infondato e deve essere
rigettato.
Riguardo ai caratteri del gazebo in questione, esteso circa
110 mq, il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento –da
quale non si rinvengono elementi per discostarsi– secondo
cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare
esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad
alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del
carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà
strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e
l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non
precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo
uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo
destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto
stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la
precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso
del permesso di costruire, postula un uso specifico e
temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità,
la quale non esclude la destinazione del manufatto al
soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti,
ma permanenti nel tempo (in tal senso: Cons. Stato, VI,
03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 22.12.2007, n. 6615).
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue
caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in
considerazione del regime temporale della relativa
utilizzazione il manufatto per cui è causa sia riconducibile
alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1
dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001, a tenore del quale
sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le
installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e
di strutture di qualsiasi genere che siano usati come
abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi,
magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare
esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento
secondo cui non possono comunque essere considerati
manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente
temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante
nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può
essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons.
Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; id., VI, 12.02.2011, n. 986;
id., V, 12.12.2009, n. 7789; id., V, 24.02.2003, n. 986;
id., V, 24.02.1996, n. 226).
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità
dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato
ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo
complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il
carattere ontologicamente “non temporaneo” di una
struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale
e di somministrazione (in tal senso: Cons. Stato, VI,
03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 23.07.2009, n. 4673).
Tanto premesso, deve ritenersi legittimo l’operato
dell’Amministrazione intimata che ha correttamente
configurato come costruzione il manufatto in oggetto e ha,
pertanto, negato il titolo abilitativo in quanto l’opera non
era conforme al Programma di fabbricazione del Comune per il
mancato rispetto delle distanze dei confini e delle strade.
Alla legittimità del diniego dell’autorizzazione consegue la
legittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata in
quanto l’opera è stata eseguita in assenza della prescritta
concessione edilizia
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.03.2017 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
EDILIZIA PRIVATA:
L’inottemperanza all’ordine di demolizione non
può essere giustificata dalla circostanza che le opere
abusive siano state oggetto di sequestro adottato
dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette
è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di
eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio
dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime
al patrimonio del Comune.
Altresì, il ricorso con cui è stato impugnato l’atto di
determinazione di sgombero ed acquisizione al patrimonio
comunale è ugualmente infondato in quanto tale provvedimento
si configura come atto dovuto una volta accertata
l’inottemperanza all’ordine di demolizione.
---------------
1. Con istanza del 05.05.2013 la signora An.Ma.Ma. ha
chiesto al Sindaco di Mangone di essere autorizzata
all’installazione stagionale di un gazebo rimovibile con
telo plastificato.
Con nota del 12.06.2003 il Responsabile del Servizio presso
l’Ufficio Tecnico del Comune di Mangone ha comunicato alla
ricorrente il “diniego della domanda di autorizzazione
edilizia”, ritenuta in contrasto con l’art. 8, lett. d),
del Piano di fabbricazione del Comune di Magone, in quanto
non rispettosa delle distanze dai confini e dalle strade.
Nonostante tale diniego, l’odierna ricorrente ha ugualmente
effettuato il montaggio del gazebo nella proprietà privata
del suocero Cr.Ma..
2. In data 03.07.2003 è stata notificata al Cr. ordinanza di
ingiunzione-demolizione della tendostruttura, in quanto
realizzata abusivamente, in assenza della prescritta
autorizzazione edilizia.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti hanno l’annullamento
del provvedimenti, per i vizi di violazione di legge, con
riferimento all’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione
del Comune di Mangone e all’art. 10 della L. 47/1985, nonché
per eccesso di potere per presupposto erroneo, travisamento
del fatto e illogicità.
Il gazebo in questione non sarebbe una costruzione,
trattandosi di struttura precaria e facilmente smontabile.
Non sarebbe stato, pertanto, necessario un provvedimento
autorizzativo, che, tuttavia, è stato negato.
...
8. Deve rilevarsi l’infondatezza del motivo di cui al primo
ricorso per motivi aggiunti con cui è stato impugnato il
verbale di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di
demolizione, con cui si è rilevato che tale atto non può
essere adottato in pendenza di ricorso avverso l’ordinanza
di demolizione. In assenza di provvedimento giurisdizionale
di sospensione tale ultimo atto esplica pienamente i suoi
effetti, per cui il destinatario è tenuto a eseguirlo.
Per identiche ragioni analoghe è infondato il secondo
motivo, con cui i ricorrenti hanno dedotto che l’eventuale
demolizione del manufatto comprometterebbe il proprio
diritto di difesa da esercitare in sede di giudizio penale e
di giudizio amministrativo.
Del tutto infondato il rilievo secondo cui, in presenza di
sequestro, non era possibile procedere alla demolizione.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato che
l’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere
cioè giustificata dalla circostanza che le opere abusive
siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità
giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre
possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire
l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di
diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del
Comune (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2016 n.
335).
9. Il secondo ricorso per motivi aggiunti, con cui è stato
impugnato l’atto di determinazione di sgombero ed
acquisizione al patrimonio comunale, è ugualmente infondato
in quanto tale provvedimento si configura come atto dovuto
una volta accertata l’inottemperanza all’ordine di
demolizione
(TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I,
sentenza 13.03.2017 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: L'ineleggibilità
si annulla in cinque giorni.
Le dimissioni dal rapporto di servizio con la p.a. del
candidato consigliere regionale che versi in una situazione
di ineleggibilità hanno effetto, se non accettate prima
dall'amministrazione, dal quinto giorno successivo alla
presentazione anziché immediatamente.
Lo ha ribadito la Corte Costituzionale con la sentenza
10.03.2017 n. 56 depositata
ieri in cancelleria.
Nella pronuncia la Consulta ha ritenuto non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma
5, della legge n. 154/1981 sollevata dalla Corte d'appello di
Catanzaro chiamata a pronunciarsi sulla decadenza di un
consigliere regionale della Calabria.
Per la Consulta la
norma è legittima perché contempera la regola generale in
base alla quale per la cessazione da cariche o uffici
pubblici è richiesta la presa d'atto ovvero l'accettazione
da parte della p.a., con l'esigenza che l'interessato sia
posto nelle condizioni di rimuovere la causa di
ineleggibilità con atti e comportamenti propri senza che
questi possano essere vanificati dall'inerzia o dai ritardi
della p.a.
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: In
merito al licenziamento per giusta causa di un dipendente
pubblico per la violazione del sistema di rilevazione delle
presenze.
Costituisce falsa attestazione della
presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in
essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il
dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione
presso la quale il dipendente presta attività lavorativa
circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso.
Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la
propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta.
---------------
Da ciò discende che l'esame verrà limitato alle censure
adeguatamente illustrate nel motivo, con il quale il
ricorrente, oltre a riproporre questioni già prospettate
nella prima censura, addebita sostanzialmente alla sentenza
impugnata la violazione del principio della immutabilità, a
suo dire violato perché l'addebito originario si riferiva
alla sola sovrapposizione degli orari e non menzionava la
falsa attestazione della presenza in servizio, fatto,
questo, posto a fondamento del recesso per giusta causa.
La censura è infondata.
Nel procedimento disciplinare la
contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono
alla formulazione dell'accusa nel processo penale, né si
ispira ad uno schema precostituito e a una regola assoluta e
astratta, "ma si modella in relazione ai principi di
correttezza che informano un rapporto interpersonale che già
esiste tra le parti, ed è funzionalmente e teleologicamente
finalizzata alla esclusiva soddisfazione dell'interesse
dell'incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa"
(Cass. 30.12.2009 n. 27842).
Dalla finalità che la contestazione realizza questa Corte ha
tratto la conseguenza che non interferisce con il principio
della immutabilità la diversa qualificazione giuridica del
fatto addebitato, giacché il diritto di difesa è leso solo
qualora a fondamento dell'atto di recesso vengano poste
circostanze diverse da quelle addebitate, in relazione alle
quali il lavoratore non sia stato in grado di rappresentare
la propria posizione.
L'indagine comparativa che il giudice del merito è chiamato
ad effettuare non deve, pertanto, arrestarsi alla
formulazione letterale dei due atti a confronto, ma deve
riguardare gli aspetti sostanziali della condotta e deve
considerare che una circostanza in tanto può essere ritenuta
"nuova" in quanto la stessa esuli dall'originario
atto di incolpazione. Ciò non si verifica allorquando il
fatto in relazione al quale il licenziamento viene intimato
può essere ricompreso nella contestazione, della quale
costituisce specificazione, effettuata all'esito del
procedimento disciplinare e delle difese svolte
dall'incolpato.
Il ricorso, per sostenere la violazione del principio della
immutabilità, fa leva solo sul tenore letterale dei due
atti, lì dove, al contrario, la Corte territoriale ha
correttamente valorizzato la funzione della contestazione,
rilevando che all'esito della proceduta la ASL aveva
individuato l'ipotesi normativa applicabile alla
fattispecie, senza violare in alcun modo il diritto di
difesa del Di Fo., che aveva interloquito su tutti gli
aspetti della vicenda, e senza modificare la materialità del
fatti, in quanto la "falsa attestazione della presenza in
servizio" era sostanzialmente corrispondente alla
sovrapposizione di orari originariamente contestata.
Le conclusioni alle quali il giudice di appello è pervenuto,
incensurabili in sede di legittimità quanto al giudizio di
fatto, risultano rispettose dei principi di diritto sopra
enunciati, con conseguente infondatezza del motivo di
ricorso.
3 - Non sussiste la denunciata violazione dell'art.
55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, giacché la
interpretazione data alla norma dalla sentenza impugnata è
conforme alla giurisprudenza di questa Corte, alla quale il
Collegio intende dare continuità (Cass. nn. 17637, 17259,
24574 del 2016).
E' stato, infatti, affermato che la chiara
formulazione della disposizione (nel testo applicabile
ratione temporis alla vicenda dedotta in giudizio,
realizzatasi prima delle modifiche introdotte dall'art. 3,
c. 1, del D.Lgs. 116/2016) e anche la sua ratio,
evincibile dall'obiettivo, enunciato nel comma 1 dell'art.
67 del D.Lgs. n. 150 del 2009, di "potenziamento del
livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare
i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo",
inducono a ritenere che la registrazione effettuata
attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione della
presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se
nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata e in
uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio,
mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui
miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il
lavoratore è presente in ufficio.
La condotta che si compendia
nell'allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare,
mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica,
i periodi di assenza economicamente apprezzabili è, infatti,
idonea oggettivamente a indurre in errore l'amministrazione
di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e
costituisce, altresì, condotta penalmente rilevante ai sensi
del c. 1 dell'art. 55-quinquies del D.Lgs n. 165 del 2001.
3.1 - Questa Corte ha anche evidenziato che utili elementi a
conforto della esegesi accolta possono desumersi dall'art.
3, c. 1, del D.Lgs. n. 116 del 2016.
Tale norma ha introdotto nell'art. 55-quater il comma 1-bis
che dispone "costituisce falsa
attestazione della presenza in servizio qualunque modalità
fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per
far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno
l'amministrazione presso la quale il dipendente presta
attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro
dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia
agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la
condotta fraudolenta".
E' certo innegabile che l'intervento additivo, sicuramente
non qualificabile come fonte di interpretazione autentica,
non ha efficacia retroattiva; è nondimeno indiscutibile la
potestà del legislatore di produrre norme aventi finalità
chiarificatrici, idonee, sia pure senza vincolare per il
passato, ad orientare l'interprete nella lettura di norme
preesistenti, in applicazione del principio di unità ed
organicità dell'ordinamento giuridico (Cass. SSUU n.
18353/2014).
Del tutto correttamente,
pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto
che nella fattispecie dedotta in giudizio ricorresse
l'ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio
con modalità fraudolente, essendo "incontestato che il Di
Fo., pur risultando continuativamente in servizio, di fatto
si allontanava negli orari di visita presso la struttura
convenzionata, senza procedere alla timbratura della scheda
magnetica, così attestando falsamente la propria presenza
sul luogo di lavoro"
(Corte di Cassazione, Sez. lavoro,
sentenza 09.03.2017 n. 6099). |
APPALTI:
Sul principio di rotazione nelle procedure di
affidamento di servizi definite semplificate, ex art. 36 del
DLgs n. 50/2016.
L'orientamento
della giurisprudenza in relazione alle procedure di
affidamento di servizi, ex art. 36 del DLgs n. 50/2016,
definite "semplificate", è nel senso del
riconoscimento dell'ampia discrezionalità
dell'Amministrazione anche nella fase dell'individuazione
delle ditte da consultare e, quindi, della negazione della
sussistenza di un diritto in capo a qualsiasi operatore del
settore ad essere invitato alla procedura. Inoltre la
marcata discrezionalità che connota la predetta procedura è
temperata da alcuni princìpi, tra i quali la trasparenza
come antidoto preventivo a comportamenti arbitrari e, più in
generale, alla questione "corruzione" e la rotazione
funzionale ad assicurare l'avvicendamento delle imprese
affidatarie per evitare che il carattere discrezionale della
scelta si traduca in uno strumento di favoritismo.
Se è vero che il principio di rotazione nella procedura di
cottimo fiduciario non ha una valenza precettiva assoluta
nel senso di vietare alle stazioni appaltanti, sempre e
comunque, l'aggiudicazione all'affidatario del servizio
uscente -il combinato disposto dagli artt. 36, I c. e 30, I
c. del codice degli appalti pone, infatti, sullo stesso
piano i principi di concorrenza e di rotazione, per cui, di
primo acchito, non parrebbe sussistano ostacoli ad invitare
(anche) il gestore uscente del servizio a prendere parte al
nuovo confronto concorrenziale, e ciò alla stregua del
criterio della massima partecipazione-, la previsione di
tale principio, tuttavia, a meno di non volerne vanificare
la sua valenza, privilegia indubbiamente l'affidamento a
soggetti diversi da quelli che in passato hanno svolto il
servizio stesso, e ciò con l'evidente scopo di evitare la
formazione di rendite di posizione e conseguire, così,
un'effettiva concorrenza (che sarebbe altresì frustrata
dalla posizione di vantaggio in cui si trova l'operatore
uscente, a perfetta conoscenza della strutturazione del
servizio da espletare).
La rotazione, che nei contratti sotto soglia è la regola e
non l'eccezione, si configura come strumento idoneo a
perseguire l'effettività del principio di concorrenza e, per
essere efficace e reale, comporta, sussistendone i
presupposti (e cioè l'esistenza di diversi operatori del
settore), l'esclusione dall'invito di coloro che siano
risultati aggiudicatari di precedenti procedure dirette
all'assegnazione di un appalto avente lo stesso oggetto di
quello da aggiudicare.
L'episodica, mancata applicazione del principio di rotazione
non vale ex se, in linea di massima, ad inficiare gli
esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia
conclusa con l'aggiudicazione in favore di un soggetto già
in precedenza affidatario del servizio e sia comprovato che
la gara sia stata effettivamente competitiva, si sia svolta
nel rispetto dei principi di trasparenza e di imparzialità e
si sia conclusa con l'individuazione dell'offerta più
vantaggiosa per la stazione appaltante (TAR Campania-Napoli,
Sez. II,
sentenza 08.03.2017 n. 1336 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
EDILIZIA PRIVATA: Circa
la produzione tardiva del DURC va
evidenziato che il comma 9 dell’art. 82 della L.R. n. 1/2005
prescrive l’obbligo per il committente di inoltrare lo
stesso DURC, contestualmente alla comunicazione di inizio
dei lavori.
La sua mancata produzione costituisce una causa ostativa
all’inizio dei lavori, mentre il comma 12 dell’art. 82
sancisce che la violazione dell’obbligo sopra citato
costituisce una causa di sospensione dell’efficacia del
permesso di costruire.
Ne consegue che a fronte di un DURC che conteneva
un’indicazione erronea circa la data di inizio delle opere,
l’Amministrazione comunale non poteva che sospendere i
lavori relativi al permesso di costruire sopra citato.
Nemmeno può condividersi l’impostazione in base alla quale
la produzione tardiva del DURC, poi integrato, avrebbe reso
il permesso di costruire nuovamente efficace.
Tale impostazione, invero, contrasta con il contenuto
dell’art. 15 del Dpr 380/2001 nella parte in cui sancisce la
decadenza automatica nell’eventualità del mancato inizio dei
lavori entro un anno dal rilascio del permesso di costruire.
Costituisce infatti orientamento consolidato che la
declaratoria di decadenza del permesso di costruire è un
provvedimento avente carattere strettamente vincolato,
avendo una natura ricognitiva del venir meno degli effetti
del permesso di costruire.
----------------
E' dirimente constatare che sussistono elementi di prova e
circostanze del tutto univoche a conferma del fatto che i
lavori non fossero effettivamente iniziati entro il termine
di legge.
La ricorrente, nell’intento di comprovare l’avvenuto inizio
dei lavori, deposita la fattura di un’impresa dalla quale si
evince che fossero state commissionate l’esecuzione delle
seguenti opere: "formazione del cantiere presso lo
stabilimento consistenti in uno sbancamento, recinzioni del
terreno, nonché formazione del ponteggio a telai
prefabbricati lungo il lato ovest del fabbricato. Fornitura
di materiale arido di riempimento”.
Anche laddove si volesse attribuire rilievo decisivo a detta
documentazione è evidente che le opere realizzate sono del
tutto insufficienti ad integrare quella radicale
trasformazione dei luoghi richiesta dalla Giurisprudenza.
Si è affermato, infatti, che al fine di impedire la
decadenza del permesso di costruire l'avvio delle opere deve
essere reale ed effettivo, manifestazione di un serio e
comprovato intento di esercitare il diritto ad edificare, e
non solo apparente o fittizio, volto al solo scopo di
evitare la temuta perdita di efficacia del titolo, con
conseguente irrilevanza, della ripulitura del sito,
dell'approntamento del cantiere e dei materiali occorrenti
per l'esecuzione dei lavori nell'immobile, dello sbancamento
del terreno.
Si consideri, ancora, che dalle foto satellitari
riconducibili alle date del 30.08.2006 e del 24.09.2008,
depositate dall’Amministrazioni comunale, è emersa
l’assoluta identità dei luoghi senza che fosse possibile
evincere (anche nel periodo di tempo più recente)
l’esistenza di opere o anche solo di macchinari e
recinzioni, queste ultime necessariamente propedeutiche allo
svolgimento dei lavori di cui si tratta.
----------------
Con il presente ricorso si è impugnato il provvedimento del
Comune di Capannori del 13.04.2010 (prot. n. 23894) con cui
è stata dichiarata la decadenza del permesso di costruire n.
C03/0296, rilasciato in data 10.02.2006, unitamente alla
decadenza della successiva variante a detto permesso,
rilasciata in data 06.12.2006 (n. P06/0332V).
Il permesso di costruire n. C03/0296 rilasciato nei
confronti della società S. di Pi.Mo. & snc in data
10.02.2006 ha ad oggetto la realizzazione di un “intervento
di sostituzione edilizia consistente nella demolizione e
ricostruzione con diversa articolazione e collocazione di
fabbricato ad uso artigianale”.
Il provvedimento di decadenza è stato preceduto
dall’ordinanza n. 722/09 del 07.12.2009 con la quale il
Comune di Capannori ha disposto la sospensione dei lavori
del complesso immobiliare de quo in considerazione del fatto
che la comunicazione di inizio lavori, intervenuta solo in
data 09.07.2009, sarebbe stata corredata da un D.U.R.C.
riportante una data di inizio successiva al termine di legge
e sarebbe risultata carente della notifica preliminare ai
sensi dell’art. 11 del d.lgs. 494/1996.
A detta ordinanza di sospensione dei lavori è seguita
l’emanazione del provvedimento del 13.04.2010 (prot. n.
23894) con cui è stata dichiarata la decadenza del permesso
di costruire, provvedimento quest’ultimo che risulta
motivato in considerazione del fatto che i lavori
autorizzati non sarebbero iniziati entro i termini previsti
dall’art. 15 del D.P.R. 380/2001 e dall’art. 77, comma 3,
della L. Reg. del 03.01.2005, n. 1.
...
1. Il ricorso va respinto.
1.1 Sono infondati sia il primo che il secondo motivo (le
cui argomentazioni consentono una trattazione unitaria) con
i quali si sostiene che, contrariamente a quanto affermato
dal Comune di Capannori, la produzione tardiva del DURC e la
mancata notifica preliminare dello stesso, non
costituirebbero delle circostanze idonee ad influire sulla
caducazione del permesso di costruire.
Si rileva, altresì, che i lavori sarebbero iniziati entro il
termine del 02.02.2007, così come evincibile dalla fattura
n. 124 emessa dalla ditta Ca. in data 31.12.2008.
1.2 Per quanto concerne la produzione tardiva del DURC va
evidenziato che il comma 9 dell’art. 82 della L.R. n. 1/2005
prescrive l’obbligo per il committente di inoltrare lo
stesso DURC, contestualmente alla comunicazione di inizio
dei lavori.
La sua mancata produzione costituisce una causa ostativa
all’inizio dei lavori, mentre il comma 12 dell’art. 82
sancisce che la violazione dell’obbligo sopra citato
costituisce una causa di sospensione dell’efficacia del
permesso di costruire.
Ne consegue che a fronte di un DURC che conteneva
un’indicazione erronea circa la data di inizio delle opere,
l’Amministrazione comunale non poteva che sospendere i
lavori relativi al permesso di costruire sopra citato.
Nemmeno può condividersi l’impostazione in base alla quale
la produzione tardiva del DURC, poi integrato con la
documentazione prodotta in data 10.12.2009, avrebbe reso il
permesso di costruire nuovamente efficace.
Tale impostazione, invero, contrasta con il contenuto
dell’art. 15 del Dpr 380/2001 nella parte in cui sancisce la
decadenza automatica nell’eventualità del mancato inizio dei
lavori entro un anno dal rilascio del permesso di costruire.
Costituisce infatti orientamento consolidato che la
declaratoria di decadenza del permesso di costruire è un
provvedimento avente carattere strettamente vincolato,
avendo una natura ricognitiva del venir meno degli effetti
del permesso di costruire (Cons. Stato Sez. IV, 28.09.2016,
n. 4007).
1.3 Ciò premesso è comunque dirimente constatare che
sussistono elementi di prova e circostanze del tutto
univoche a conferma del fatto che i lavori non fossero
effettivamente iniziati entro il gennaio 2007.
1.4 La ricorrente, nell’intento di comprovare l’avvenuto
inizio dei lavori, deposita la fattura di un’impresa dalla
quale si evince che fossero state commissionate l’esecuzione
delle seguenti opere: "formazione del cantiere presso lo
stabilimento sito in via Spada Loc. Corte Pinelli
consistenti in uno sbancamento, recinzioni del terreno,
nonché formazione del ponteggio a telai prefabbricati lungo
il lato ovest del fabbricato. Fornitura di materiale arido
di riempimento”.
Anche laddove si volesse attribuire rilievo decisivo a detta
documentazione è evidente che le opere realizzate sono del
tutto insufficienti ad integrare quella radicale
trasformazione dei luoghi richiesta dalla Giurisprudenza.
Si è affermato, infatti, che al fine di impedire la
decadenza del permesso di costruire l'avvio delle opere deve
essere reale ed effettivo, manifestazione di un serio e
comprovato intento di esercitare il diritto ad edificare, e
non solo apparente o fittizio, volto al solo scopo di
evitare la temuta perdita di efficacia del titolo, con
conseguente irrilevanza, della ripulitura del sito,
dell'approntamento del cantiere e dei materiali occorrenti
per l'esecuzione dei lavori nell'immobile, dello sbancamento
del terreno (da ultimo TAR Piemonte Torino Sez. II,
06.10.2016, n. 1243).
1.5 Si consideri, ancora, che dalle foto satellitari
riconducibili alle date del 30.08.2006 e del 24.09.2008,
depositate dall’Amministrazioni comunale, è emersa
l’assoluta identità dei luoghi senza che fosse possibile
evincere (anche nel periodo di tempo più recente)
l’esistenza di opere o anche solo di macchinari e
recinzioni, queste ultime necessariamente propedeutiche allo
svolgimento dei lavori di cui si tratta.
Peraltro, parte ricorrente, a fronte della documentazione
fornita dall’Amministrazione comunale, si è limitata a
contestarne la validità, affermando ad esempio che le opere
realizzate riguardassero l’interno della struttura, senza
per questo fornire un minimo riscontro a dette affermazioni.
1.6 Va poi evidenziato che in relazione alla medesima area e
agli stessi fabbricati la ricorrente ha presentato, in data
29.02.2008, una richiesta per l’approvazione di un piano
attuativo finalizzato alla realizzazione di un complesso
residenziale con recupero delle volumetrie.
A tale richiesta è stato allegato un rilievo dello stato dei
fabbricati e dei luoghi nel quale viene rappresentata una
situazione plano-volumetrica invariata rispetto alla
situazione originaria del complesso edilizio.
1.7 Infine, a conferma di un inizio dei lavori successivo
alla scadenza del permesso di costruire, non può non avere
giusto rilievo la circostanza che la comunicazione di inizio
dei lavori è stata presenta solo il 09.07.2009, oltre due
anni e mezzo dopo il termine di scadenza dell’inizio dei
lavori.
1.8 Tanto basta a ritenere l’infondatezza dei motivi
all’esame.
2. Il ricorso va dunque respinto
(TAR Toscana, Sez. III,
sentenza 06.03.2017 n. 352 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
APPALTI: Doppia
riparametrazione solo se prevista nel bando.
Relativa ai punteggi di offerte in gara.
La doppia riparametrazione dei punteggi, in sede di
valutazione delle offerte di una gara pubblica, è
facoltativa; le linee guida Anac 2/2016 recepiscono tale
orientamento e quindi soltanto se prevista nel bando di gara
la doppia riparametrazione è applicabile.
Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater con la
sentenza 03.03.2017 n. 3081 che
affronta il tema della cosiddetta doppia riparametrazione.
Si tratta di un'operazione matematica che consente, una
volta definiti i punteggi per i singoli sub-criteri tecnici,
di riparametrare quello attribuito alla migliore offerta
tecnica presentata al punteggio massimo previsto dalla legge
di gara per tale offerta, scongiurando l'alterazione dei
punteggi che deriva fisiologicamente dall'attribuzione del
punteggio massimo stabilito per l'offerta economica al
miglior ribasso.
Nella vicenda oggetto di esame da parte dei giudici si
discuteva se la stazione appaltante fosse obbligata a
seguire tale procedura, e i giudici negano tale assunto
rilevando innanzitutto che le Linee guida Anac del 21.09.2016 risultano attuative del nuovo codice dei
contratti che, però, non poteva trovare applicazione alla
gara bandita il 15.04.2016 prima della sua entrata in
vigore e che si è svolta in applicazione del codice De Lise
del 2006 e del dpr n. 207 del 2010.
Il Consiglio di stato ha
rilevato, inoltre, che, comunque, le Linee guida «non hanno
fatto altro, per questa specifica problematica, che recepire
il portato della giurisprudenza sulla questione della doppia
riparametrazione nel caso della valutazione degli elementi
qualitativi e quantitativi secondo il criterio dell'offerta
più vantaggiosa».
La giurisprudenza, in particolare, aveva
osservato che nel sistema degli appalti pubblici «nessuna
norma di carattere generale impone, per le gare da
aggiudicare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa,
l'obbligo della stazione appaltante di attribuire alla
migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo
previsto dalla lex specialis, mediante il criterio della
doppia riparametrazione».
Invece, la riparametrazione ha la funzione di ristabilire
l'equilibrio fra i diversi elementi qualitativi e
quantitativi previsti per la valutazione dell'offerta «solo
se, e secondo quanto, voluto e disposto dalla stazione
appaltante con il bando, con la conseguenza che l'operazione
di parametrazione deve essere espressamente prevista dalla
legge di gara per poter essere applicata»
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2017).
---------------
MASSIMA
2.2.2 Anche la ridetta censura, sostanzialmente rivolta
a criticare la mancata applicazione da parte della stazione
appaltante del criterio della doppia riparametrazione che
scongiura l’alterazione dei punteggi che deriva
fisiologicamente dall’attribuzione del punteggio massimo
stabilito per l’offerta economica al miglior ribasso, rimane
non condivisibile.
L’AIFA, nella sua memoria di costituzione, contesta la
doverosità della doppia riparametrazione, citando a tal
proposito le Linee Guida ANAC del 21.09.2016 sull’offerta
economicamente più vantaggiosa e che in sostanza
stabiliscono come una seconda riparametrazione sia del tutto
facoltativa per la stazione appaltante oltre al fatto che
deve essere espressamente prevista dal bando.
Rilevando che le Linee Guida del 21.09.2016 risultano
attuative del d.lgs. 18.07.2016, n. 50 che non può trovare
applicazione alla gara in esame, atteso che essa è stata
bandita il 15.04.2016 prima della sua entrata in vigore e si
è svolta dunque in applicazione del d.lgs. n. 163 del 2006 e
del Regolamento di attuazione di cui al d.P.R. n. 207 del
2010,
è tuttavia da rilevare che le Linee Guida non hanno fatto
altro, per questa specifica problematica, che recepire il
portato della giurisprudenza sulla questione della doppia
riparametrazione nel caso della valutazione degli elementi
qualitativi e quantitativi secondo il criterio dell’offerta
più vantaggiosa.
In particolare da ultimo il Consiglio di Stato, prima della
entrata in vigore della nuova disciplina in materia di
appalti pubblici (sezione V, 27.01.2016, n. 266) ha
osservato: “che nel sistema degli
appalti pubblici nessuna norma di carattere generale impone,
per le gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta più
vantaggiosa, l’obbligo della stazione appaltante di
attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il
punteggio massimo previsto dalla lex specialis, mediante il
criterio della doppia riparametrazione”
e cita il precedente specifico della medesima sezione in
data 25.02.2014, n. 899.
Nel prosieguo osserva pure che: “Nelle
gare da aggiudicarsi con detto criterio la riparametrazione
ha quindi la funzione di ristabilire l’equilibrio fra i
diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti per la
valutazione dell’offerta solo se, e secondo quanto, voluto e
disposto dalla stazione appaltante con il bando, con la
conseguenza che l’operazione di parametrazione deve essere
espressamente prevista dalla legge di gara per poter essere
applicata
(Consiglio di Stato, sez. V, 13.01.2014, n. 85)
e non può tradursi in una modalità di apprezzamento delle
offerte facoltativamente introdotta dalla commissione
giudicatrice
(Consiglio di Stato, sez. IV, 20.02.2014, n. 802)”.
Poiché, dunque, nel caso in esame il criterio della doppia
riparametrazione non era previsto dalla lex specialis
non può essere invocato quale metodo doverosamente
applicabile dalla Commissione di gara per ripristinare un
ritenuto dislivello nella valutazione degli elementi
qualitativi e quantitativi dell’offerta,
con conseguente reiezione del secondo motivo di doglianza.
2.3 Col terzo mezzo parte ricorrente fa valere la violazione
e falsa applicazione degli articoli 3, 83, 84, 86 e 87
D.LGS. n. 163/2006, difetto di istruttoria, violazione dei
principi di trasparenza, non discriminazione,
proporzionalità e ragionevolezza, eccesso di potere per
manifesto sviamento.
2.3.1 L’interessata sostiene che gli atti indicati in
epigrafe appaiono viepiù manifestamente illegittimi alla
luce della circostanza che l’offerta dell’aggiudicataria è
palesemente insostenibile sul piano economico e non avrebbe
pertanto potuto superare positivamente il sub procedimento
di verifica dell’anomalia, non avendo indicato le voci di
costo relative alle attività di restituzione del materiale
archiviato ed il costo relativo ad alcune figure
professionali.
2.3.2. Anche detto motivo di ricorso non è condivisibile.
Con esso la società uscente in sostanza si oppone alle
modalità con le quali la stazione appaltante ha ritenuto
congrua l’offerta della controinteressata pur in presenza di
profili di anomalia e quindi introduce quel sindacato sulla
discrezionalità tecnica dell’amministrazione che, come noto,
intanto può essere sottoposto al giudice in quanto ne venga
dimostrata la abnorme illogicità e irragionevolezza delle
scelte, dedotte da parte ricorrente, secondo la pur costante
giurisprudenza sull’argomento: “Il
sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in sede
di verifica di anomalia delle offerte è circoscritto ai soli
casi di manifesta e macroscopica erroneità o
irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità
che connota dette valutazioni, come tali riservate alla
stazione appaltante cui compete il più ampio margine di
apprezzamento.”
(C. Stato, sez. V, 23.01.2017, n. 258 ed anche sulla
impossibilità per il giudice di sostituirsi alla
amministrazione nelle valutazioni discrezionali: C. Stato,
III, 13.12.2016, n. 5232 ed anche 25.11.2016, n. 4990).
Nel caso in esame è da rilevare che dal tenore letterale del
verbale del 26.07.2016, relativo alla valutazione di
congruità dell’offerta, è stato osservato che “tenuto
conto dell’importo a base d’asta…e avuto riguardo
all’offerta economica e ai relativi costi della sicurezza e
del lavoro ivi indicati da Co., i quali appaiono prima facie
poco in linea con le analoghe voci di costo indicate dagli
altri offerenti,..”, rilevato che non ricorrevano i
presupposti di cui all’art. 86, comma 2, del d.lgs. n.
163/2006 e cioè non essendo i punti relativi alle offerte
tecnica ed economica superiori ai 4/5 dei corrispondenti
punti massimi previsti dal bando di gara, dunque il RUP
aveva deciso ugualmente di sottoporre l’offerta di Co. alla
verifica di congruità ai sensi del successivo comma 3 del
medesimo art. 86.
Dalla analisi della documentazione offerta dalla
controinteressata ne era emerso che il costo del lavoro
risultava superiore ai minimi del contratto dei
Metalmeccanici applicato dalla ridetta, che i costi della
sicurezza apparivano congrui in relazione all’attività di
informazione, formazione e addestramento dei lavoratori
essendo espletate all’interno della società e che tutte le
restanti voci di cui alla tabella inserita nelle
giustificazioni di Co. apparivano coerenti e giustificate
adeguatamente.
In ordine poi alla mancata indicazione del costo del lavoro
di alcune figure professionali (responsabile del contratto,
responsabile del servizio, responsabile operations,
responsabile sicurezza dati e responsabile della privacy),
pure insistita con memoria per l’udienza odierna, tali
costi, ribadisce l’AIFA, sono stati specificati tra i “Costi
infrastruttura aziendale (IT, Commerciale, Amministrativo,
Help Desk,etc) pari ad euro 20.022,07” all’interno dei
quali sono indicate dette figure.
Ne risulta dunque che la censura è smentita in fatto dal
verbale di verifica di congruità del 26.07.2016, sicché allo
stato non risultano dimostrate le pur dedotte
sproporzionalità ed irragionevolezza delle scelte operate. |
AMBIENTE-ECOLOGIA:
Il curatore fallimentare non è obbligato a smaltire i
rifiuti su immobile di proprietà del fallito.
----------------
Inquinamento –
Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei luoghi –
Ingiunzione – Indirizzata al curatore fallimentare –
Esclusione.
Nei confronti del Fallimento non è
ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto
dall’art. 194, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, della
legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino
che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del
responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa
(1).
----------------
(1) Ha chiarito il Tar che il Fallimento non può essere
considerato un “subentrante”, ossia un successore,
dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La
società dichiarata fallita, invero, conserva la propria
soggettività giuridica e rimane titolare del proprio
patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur
sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti,
subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art.
42, r.d. 16.03.1942, n. 267: “La sentenza che dichiara il
fallimento, priva dalla sua data il fallito
dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni
esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”;
art. 44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i
pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di
fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”).
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità
dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla
titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus publicum
rivestito dagli organi della procedura (art. 31, r.d. n. 267
del 1942: “Il curatore ha l'amministrazione del
patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della
procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del
comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso
attribuite”).
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo
sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito
(cfr. l’art. 72, r.d. n. 267 del 1942), in via generale “non
è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per
l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cass.
civ., sez. I, 23.06.1980, n. 3926) (TAR
Lombardia-Milano, Sez. III,
sentenza 03.03.2017 n. 520
- commento tratto da e link a
www.giustizia-amministrativa.it).
---------------
MASSIMA
2. Il ricorso è fondato.
Nel caso in questione non è contestato che il fenomeno di
produzione dei rifiuti sia connesso all’esercizio di
un’attività economica da parte della società fallita e di
altre società, che si è verificata prima della nomina del
curatore fallimentare (in tal senso è chiara la relazione
dell’ARPA). A sua volta il curatore fallimentare non è stato
autorizzato a svolgere attività d’impresa né l’ha svolta in
concreto.
In merito agli obblighi dei curatori la giurisprudenza ha
chiarito che, fatta salva la eventualità di univoca,
autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare
sull’abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può
essere destinataria, a titolo di responsabilità di
posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela
dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento
omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando
tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla
responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via,
alcun dovere del curatore di adottare particolari
comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria
degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti
(TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 05.01.2016).
Deve quindi escludersi una responsabilità del curatore del
fallimento ai sensi del terzo comma dell'art. 192 d.lgs.
152/2006 secondo il quale l’autore della condotta di
abbandono incontrollato di rifiuti “è tenuto a procedere
alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei
rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido
con il proprietario e con i titolari di diritti reali o
personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione
sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli
accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti
interessati, dai soggetti preposti al controllo”. Infatti
egli non è l’autore della condotta di abbandono
incontrollato di rifiuti né titolare di diritti reali o
personali di godimento sull'area.
Neppure tale responsabilità può derivare dall’art. 192,
comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006 che recita: “Qualora la
responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad
amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai
sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido
la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei
diritti della persona stessa, secondo le previsioni del
decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche,
delle società e delle associazioni.”
Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez.
V, sentenza 30.06.2014 n. 3274) ai fini di un’eventuale
applicazione della norma appena trascritta si pone la
questione di stabilire se il Fallimento possa essere
considerato alla stregua di un soggetto “subentrato nei
diritti” della società fallita.
Orbene, il Fallimento non può essere reputato un
“subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta
alla procedura fallimentare.
La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria
soggettività giuridica e rimane titolare del proprio
patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur
sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti,
subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art.
42 R.D. n. 267/1942: “La sentenza che dichiara il
fallimento, priva dalla sua data il fallito
dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni
esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art.
44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da
lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono
inefficaci rispetto ai creditori”).
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità
dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di
disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla
titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di
legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito
dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: “Il
curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e
compie tutte le operazioni della procedura sotto la
vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori,
nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”).
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo
sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito
(cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è
rappresentante, né successore del fallito, ma terzo
subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per
l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cassazione
civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926).
Più ampiamente, la Suprema Corte ha difatti osservato quanto
segue: “Il fatto che alla curatela sia affidata
l'amministrazione del patrimonio del fallito, per fini
conservativi predisposti alla liquidazione dell'attivo ed
alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta
affatto che sul curatore incomba l'adempimento di obblighi
facenti carico originariamente all'imprenditore, ancorché
relativi a rapporti tuttavia pendenti all'inizio della
procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti
che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n.. 267, siano
esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è
ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle
situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito.
… Poiché in linea generale, come ricordato, il curatore,
nell'espletamento della pubblica funzione, non si pone come
successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non
incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti
volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia
stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della
procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento
avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa
qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli
stessi dipendenti, o di alcuni di essi.”.
Per quanto esposto, dunque, nei confronti del Fallimento non
è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo
potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto
dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit., della legittimazione
passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo
stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del
proprietario versante in dolo o colpa.
In definitiva il ricorso va accolto con conseguente
annullamento dell’atto impugnato. |
APPALTI: Sequestro
per intero per tutti. Appalti illeciti/Corte di cassazione.
Nell'ambito di un appalto illecito, il sequestro può
scattare per l'intero profitto a carico di ciascun
partecipante a prescindere dalla sua quota nell'affare.
È quanto ha sancito la Corte di Cassazione -Sez. VI penale-
che, con la
sentenza 02.03.2017 n.
10448, ha confermato la misura, respingendo il
ricorso di un imprenditore.
Inutile il tentativo della difesa di far annullare il
sequestro. È ormai consolidato per i Supremi giudici che a
ciascun partecipante può essere sequestrato l'intero
profitto.
Insomma per la terza sezione penale merita piena
condivisione la decisione del tribunale sul punto della
sequestrabilità dell'intero profitto del reato nei confronti
anche di uno solo dei concorrenti; l'ordinanza impugnata ha
fatto infatti corretta applicazione dei principi di diritto
enunciati dalla Corte di legittimità; le osservazioni
critiche del ricorrente non sembrano poi cogliere nel segno,
posto che il tema in questione è stato enunciato dalle
Sezioni unite in termini generali come principio di valenza
astratta e onnicomprensiva tutte le volte in cui più persone
concorrano in un reato che ha prodotto un profitto
sequestrabile, purché, naturalmente, l'entità di quanto
sottoposto a vincolo non sia duplicata.
Questo principio può ormai dirsi affermato in quanto ha
trovato ulteriori conferme in pronunce successive a quella
della Sezioni unite in questione dove si è enunciato lo
stesso principio di diritto senza alcun accenno a una sua
valenza residuale rispetto a ipotesi di accertamento della
pertinenza concreta «pro quota» del profitto stesso a
questo o quell'indagato
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2017). |
LAVORI PUBBLICI:
Allorché il rapporto di concessione sia risolto
per inadempimento del soggetto concedente il concessionario
avrà diritto al rimborso, laddove invece il fatto sia
imputabile al concessionario, nulla gli è dovuto.
Qualora il rapporto di concessione sia risolto per
inadempimento del soggetto concedente ovvero quest'ultimo
revochi la concessione per motivi di pubblico interesse,
sono rimborsati al concessionario:
a) il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al
netto degli ammortamenti, ovvero, nel caso in cui l'opera
non abbia ancora superato la fase di collaudo, i costi
effettivamente sostenuti dal concessionario;
b) le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in
conseguenza della risoluzione;
c) un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno,
pari al 10 per cento del valore delle opere ancora da
eseguire ovvero della parte del servizio ancora da gestire
valutata sulla base del piano economico-finanziario.
Il diritto a vedersi riconosciuto il valore delle opere
eseguite presuppone quindi l'imputabilità
all'amministrazione aggiudicatrice della risoluzione,
imputabilità il cui scrutinio, nel caso di specie, è
tuttavia precluso in ragione dell'omessa impugnazione sia
della delibera, sia della mancata sollecitazione, in
pendenza del rapporto, di qualsiasi forma di revisione del
piano economico finanziario volta al ripristino delle
condizioni di equilibrio e della corretta allocazione del
rischio di gestione (che, nello schema della concessione di
lavori pubblici, deve permanere fisiologicamente a carico
del concessionario) alterate da sopravvenienze o da fatti
non riconducibili al concessionario medesimo.
In altri termini, l'inoppugnabilità dei provvedimenti
amministrativi concernenti l'approvazione del piano
economico, della progettazione, della convezione stipulata
con l'ATI concessionaria, nonché la mancata sollecitazione
dell'esercizio dei poteri discrezionali di autotutela e
l'inerzia serbata dalla concessionaria a fronte delle
discrepanze tra progettazione preliminare e le effettive
condizioni del cantiere non consentono, a rapporto ormai
risolto, di svolgere alcuna valutazione comparativa degli
addebiti reciprocamente ascritti, valutazione comparativa
che, peraltro, non si sarebbe potuta risolvere se non nel
senso della maggior gravità del notevole ritardo accumulato
rispetto al termine prefissato e dell'esecuzione solo
parziale delle opere affidate rispetto alla supposta
imputabilità al Comune dei fattori che avrebbero alterato
l'equilibrio economico della concessione, e della loro
incidenza causale nel rendere insostenibile l'onere
finanziario assunto dalla ATI concessionaria.
Pertanto, nel caso di specie, il decreto ingiuntivo deve
essere revocato, perché la norma applicabile esclude
l'insorgenza di qualsiasi credito, anche di natura
indennitaria, in capo al concessionario inadempiente.
Va invece rigettata la domanda riconvenzionale risarcitoria
svolta dall'amministrazione opponente, non avendo il comune
specificamente provato le puntuali conseguenze patrimoniali
dannose derivanti dalla mancata ultimazione dell'opera nel
termine contrattualmente previsto né dalla sua
indisponibilità (TRIBUNALE di Treviso, Sez. III civile,
sentenza 02.03.2017 n. 494 - link a
www.dirittodeiservizipubblici.it). |
VARI: Condannato
chi tiene gli animali in condizioni stressanti.
Una sentenza della corte di cassazione
(destinata a far discutere) applica l'art. 727 c.p..
La Suprema corte sottolinea l'importanza della cura della
psicologia degli animali. Rischia infatti una condanna
penale ai sensi dell'articolo 727 c.p. chi li tiene in
condizioni molto stressanti.
Con una sentenza destinata a scuotere gli animi (sentenza
01.03.2017 n. 10009 della Corte di Cassazione, Sez.
III penale) è stata infatti confermata
la condanna a carico di una donna che deteneva in un
magazzino chiuso alcuni esemplari di gatto selvatico. Ma non
è tutto. Non solo la custode non aveva rispettato la natura
e l'indole degli animali ma li aveva detenuti in scarse
condizioni igieniche. Il tutto aveva reso i gatti fobici
rispetto alle visite degli ispettori dall'Asl e comunque
molto stressati.
A nulla è valso il tentativo della difesa della donna di
smontare l'impianto accusatorio sostenendo l'assenza di
malattie fisiche.
Infatti, la terza sezione penale, confermando e rendendo
definitiva la condanna emessa dal tribunale di Busto Arsizio
ha chiarito come l'articolo 727 del codice penale tuteli
anche il solo patimento psicologico dell'animale.
Nelle motivazioni si legge infatti che la disposizione,
rubricata appunto, «abbandono di animali», punisce, al comma
2, la condotta di colui il quale «detiene animali in
condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di
gravi sofferenze».
E non basta: il reato in questione è integrato dalla
condotta, anche occasionale e non riferibile al proprietario
di detenzione degli animali con modalità tali da arrecare
agli stessi gravi sofferenze, incompatibili con la loro
natura, avuto riguardo, per le specie più note, al
patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le
altre, alle acquisizioni delle scienze naturali. Dunque, «ai
fini dell'integrazione del reato in esame non è necessario
che l'animale riporti una lesione all'integrità fisica,
potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri
patimenti».
Nel caso sottoposto all'esame della Corte i gatti avevano
riportato delle affezioni respiratorie per le scarse
condizioni igieniche ma gli Ermellini dicono a chiare
lettere che andava punito il forte disagio degli animali,
particolarmente reattivi e fobici.
Sotto questo profilo, si legge ancora in sentenza, assume
ben poco rilievo la circostanza che, come correttamente
sottolineato dal ricorso della donna, non sia stata
adeguatamente ricostruita l'eziologia dell'Aids felina,
richiamata, per la prima volta, dal giudice di merito nella
sentenza come dato di fatto adeguatamente riscontrato, sia
pure per alcuni soltanto degli esemplari, e apoditticamente
posto in relazione alla situazione di stress e di
promiscuità degli animali.
Infatti, «la già sottolineata
condizione dei felini doveva ritenersi sufficiente a
integrare la fattispecie contestata, indipendentemente dalla
eventuale presenza della malattia»
(articolo ItaliaOggi del 02.03.2017).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato.
2.
L'art. 727 cod. pen., rubricato "abbandono di animali",
punisce, al comma 2, la condotta di colui il quale "detiene
animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e
produttive di gravi sofferenze".
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
il reato in questione è integrato dalla condotta, anche
occasionale e non riferibile al proprietario
(Sez. 3, Ordinanza n. 6415 del 18/01/2006, dep. 21/02/2006,
Bollecchino, Rv. 233307),
di detenzione degli animali con modalità tali da arrecare
agli stessi gravi sofferenze, incompatibili con la loro
natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad
esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune
esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni
delle scienze naturali
(Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014, dep. 17/02/2015, Garnero,
Rv. 262529; Sez. 3, n. 37859 del 4/06/2014, dep. 16/09/2014,
Rainoldi e altro, Rv. 260184).
Dunque,
ai fini dell'integrazione del reato in esame non è
necessario che l'animale riporti una lesione all'integrità
fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in
meri patimenti
(Sez. 3, n. 175 del 13/11/2007, dep. 07/01/2008, Mollaian,
Rv. 238602),
la cui inflizione sia non necessaria in rapporto alle
esigenze della custodia e dell'allevamento dello stesso
(Sez. 3, n. 28700 del 20/05/2004, dep. 01/07/2004,
Fiorentino, Rv. 229431).
La condotta in esame, peraltro, può essere integrata anche
con una condotta colposa del soggetto agente
(Sez. 3, n. 21744 del 26/04/2005, dep. 09/06/2005, P.M. in
proc. Duranti ed altri, Rv. 231652),
trattandosi di contravvenzione non necessariamente dolosa
(Sez. 3, n. 32837 del 16/06/2005, dep. 2/09/2005, Vella, Rv.
232196).
3. La sentenza impugnata si è mossa nell'ambito della
menzionata cornice giurisprudenziale di riferimento,
esplicitando, in maniera puntuale, le ragioni per le quali i
fatti emersi all'esito dell'approfondita istruttoria sono
stati ritenuti sussumibili nella fattispecie contestata.
Le censure mosse dalla ricorrente, invero, configurano, in
diversi passaggi, il tentativo di accreditare ipotesi
alternative di ricostruzione degli elementi di fatto della
vicenda.
E' il caso, innanzitutto, dell'allegazione secondo cui
alcuni dei gatti rinvenuti nel locale sarebbero stati
animali domestici, sicché la circostanza che essi fossero
custoditi in un ambiente chiuso, non configurerebbe alcuna
violazione della loro natura. Ed è il caso dell'affermazione
secondo cui la fobia manifestata da alcuni dei felini in
occasione dell'accesso del personale della A.S.L. sarebbe
potuta essere riconducibile non ad una condizione di
sofferenza dei gatti, quanto piuttosto alla loro natura di
animali selvatici.
E' di tutta evidenza come tali prospettazioni, fondate su
congetture o ipotetiche ricostruzioni della vicenda
fattuale, non possano ammettersi in una sede quale quella
del giudizio di legittimità, funzionalmente deputata al
controllo sulla logicità del percorso argomentativo seguito
dai giudici di merito per giustificare la propria decisione.
Costituisce, infatti, principio ormai consolidato alla
elaborazione di questa Corte quello secondo cui al giudice
di legittimità non è consentito ipotizzare alternative
opzioni ricostruttive della vicenda fattuale, sovrapponendo
la propria valutazione delle risultanze processuali a quella
compiuta nei precedenti gradi, saggiando la tenuta logica
della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un
raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed
eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno
(Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; in
termini v. Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv.
250362). |
PUBBLICO IMPIEGO: Licenziamenti
sugli atti del Gip. Il ministero può utilizzare la prova
penale nell’iter disciplinare. Pubblica amministrazione. Per
la Cassazione non è necessaria un’autonoma valutazione dei
fatti.
È legittimo il licenziamento del
dipendente pubblico se vengono utilizzate per rimando le
motivazioni del procedimento penale aperto sui medesimi
addebiti.
Lo ha stabilito la Sez. lavoro della Corte di Cassazione (sentenza
01.03.2017 n. 5284) annullando la decisione della
Corte d’appello di Roma che aveva avallato la reintegra di
una dipendente del ministero delle Politiche agricole,
licenziata con il semplice “rimando” al capo di imputazione
formulato dal Gip per motivare il provvedimento cautelare a
carico della donna.
L’insufficienza motivazionale ottenuta per questa via era
stata sottolineata già in prima battuta dal tribunale
capitolino, che aveva dichiarato l’illegittimità del
licenziamento e ordinato, come prassi, la reintegra nel
posto di lavoro e il pagamento risarcitorio delle mancate
retribuzioni e dei contributi non versati nel periodo tra
l’interruzione del rapporto e la sua ripresa “comandata”.
Secondo la corte territoriale, e all’esito di una
ricognizione normativa (dallo Statuto dei lavoratori -legge
300/1970- alla Fornero, legge 92 del 2012), non sarebbe
ammesso in sede di procedimento disciplinare il mero rinvio
“per relationem” agli atti del procedimento penale, ma
occorrerebbe invece «procedere all’autonoma fase istruttoria
comprovando le contestazioni addebitate al lavoratore».
Sulla base di questo assunto, i giudici dei due gradi di
merito avevano censurato il licenziamento della dipendente
ministeriale -formalizzato nell’aprile di quattro anni fa-
e condannato il ministero alla reintegra nel posto di lavoro
e alle restituzioni nei confronti della donna ingiustamente
licenziata.
Ma la necessità di una autonoma valutazione e motivazione
dei fatti tali da giustificare il licenziamento da parte del
datore di lavoro -in questo caso pubblico- è stata
confutata alla radice dai giudici di legittimità. Secondo la
Cassazione, infatti, non esiste alcuna norma che imponga
alla Pubblica amministrazione di procedere ad un’autonoma
istruttoria ai fini della contestazione disciplinare.
Soprattutto, ciò non è previsto dal testo unico sul pubblico
impiego applicabile ratione temporis (il Dlgs 165/2001)
tantomeno nella norma che regola i rapporti tra i due tipi
di procedimento (l’articolo 55-ter). E quindi, come già
affermato dalla Sezione lavoro (758/2006; 19183/2016) la Pa
è libera di valutare autonomamente gli atti del processo
penale e di «ritenere che i medesimi forniscano, senza
bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti
elementi di contestazione di illeciti disciplinari al
proprio dipendente». Tra l’altro, argomenta la Suprema
corte, la prova delle condotte oggetto della contestazione
devono essere fornite dal datore non tanto nella procedura
disciplinare ma piuttosto nella successiva ed eventuale fase
di impugnativa giudiziale.
Quanto poi all’“aggiornamento” del versante penale e delle
sue conseguenze sulla sanzione disciplinare, fanno testo le
disposizioni del dlgs 165/2011: in caso di successivo
proscioglimento penale, la parte potrà riassumere il
disciplinare entro sei mesi per chiedere l’allineamento
della decisione (p.es. l’annullamento della sanzione
irrogata su quelle basi probatorie).
Ma vale anche la conclusione simmetrica, vale a dire la
riapertura di un disciplinare archiviato senza sanzione se
il versante penale si è successivamente concluso con
l’affermazione di responsabilità sui medesimi fatti (articolo Il Sole 24 Ore del 02.03.2017). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Agronomi,
no a competenza esclusiva in ambito forestale.
Agronomi senza esclusive nel settore forestale.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, -Sez. V- con la
sentenza 01.03.2017 n. 952,
resa nota ieri, con cui palazzo Spada è tornato nuovamente
sulla qualificazione delle competenze degli agronomi nel
settore della progettazione e pianificazione forestale, dopo
la sentenza n. 426/2017 del mese scorso.
In particolare, rende noto il Collegio degli agrotecnici, la
sentenza stabilisce che le competenze forestali sono proprie
anche degli iscritti nell'albo degli agrotecnici e degli
agrotecnici laureati, con le competenze «interferenti»
tra le due categorie che devono essere definite dai giudici
del supremo organo della magistratura amministrativa.
In via generale il Consiglio di stato chiarisce che
l'iscrizione nell'albo degli agronomi non prevede competenze
riservate, ma solo comuni con altre categorie di
professionisti. Nel settore agrario nessuno degli albi
operanti ha competenze riservate, ma solamente tipiche e
perciò comuni ad altre professioni sia del settore agrario
sia non agrario.
La vicenda prende spunto da un ricorso promosso, e
inizialmente vinto (sentenza Tar Toscana n. 196/2015), dagli
ordini degli agronomi della Toscana, che avevano impugnato
un bando del comune di Montecatini Terme che affidava alla
facoltà di agraria dell'università di Pisa un incarico per
la «manutenzione del patrimonio arboreo comunale».
I ricorrenti avevano contestato quell'affidamento sostenendo
che le relative attività riservate in via esclusiva agli
iscritti nell'albo degli agronomi e forestali, con
proibizione per altri di svolgerle. In prima istanza, il Tar
aveva dato loro ragione, mentre in seguito il collegio
nazionale degli agrotecnici si è costituito in appello al
Consiglio di stato insieme al dipartimento di scienze
agrarie dell'università di Pisa.
I giudici hanno chiarito che «le attività
professionali... meglio specificate dall'art. 2 della legge
n. 3 del 1976, non risultano attribuite, alla stregua di
un'interpretazione letterale della norma, e in ragione della
sua ampiezza, anche in forza di una sua interpretazione
funzionale, in modo esclusivo ai dottori agronomi e
forestali.»
La sentenza prosegue affermando che l'art. 2 l. n. 3 del
1976 «non contiene una siffatta o similare clausola di
riserva esclusiva alla competenza dei dottori agronomi e
forestali. Riserva che, d'altro canto, difficilmente poteva
ipotizzarsi, attesa l'estrema latitudine e differenziazione
delle competenze enucleate dalla previsione»
(articolo ItaliaOggi del 22.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
---------------
MASSIMA
3. - Con il primo motivo di appello si deduce
l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto
che vi sia corrispondenza tra le prestazioni affidate dal
Comune di Montecatini all’Università di Pisa e le attività
professionali previste dall’art. 2 della legge n. 3 del
1976, e che le stesse siano riservate dalla legge alla
competenza esclusiva dei dottori agronomi e dei dottori
forestali.
Il motivo è fondato e meritevole di accoglimento.
In primo luogo, occorre precisare che
le attività professionali «volte a valorizzare e gestire
i processi produttivi agricoli, zootecnici e forestali, a
tutelare l’ambiente e, in generale, le attività riguardanti
il mondo rurale», meglio specificate dall’art. 2 della
legge n. 3 del 1976, non risultano attribuite, alla stregua
di un’interpretazione letterale della norma, ed in ragione
della sua ampiezza, anche in forza di una sua
interpretazione funzionale, in modo esclusivo ai dottori
agronomi e forestali.
Sotto tale profilo, può essere utile evidenziare, a titolo
esemplificativo, la differenza tra la norma in esame e
quella dell’art. 2 della legge 31.12.2012, n, 247, relativa
alla disciplina della professione di avvocato, il cui quinto
comma precisa specificamente che «sono attività esclusive
dell’avvocato, fatti salvi i casi espressamente previsti
dalla legge, l’assistenza, la rappresentanza e la difesa nei
giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle
procedure arbitrali rituali».
L’art. 2 della legge n. 3 del 1976, oggetto di disamina, non
contiene una siffatta o similare clausola di riserva
esclusiva alla competenza dei dottori agronomi e
forestali. Riserva che, d’altro canto, difficilmente
poteva ipotizzarsi, attesa l’estrema latitudine e
differenziazione delle competenze enucleate dalla
previsione, che vanno dalla direzione, gestione delle
imprese agrarie alla progettazione, direzione sorveglianza
dei lavori relativi alle costruzioni rurali, alle operazioni
dell’estimo, ai lavori ed incarichi relativi alla
coltivazione delle piante, ai lavori catastali, alla
valutazione e liquidazione degli usi civici, alle analisi
fisico-chimico-microbiologiche del suolo, alle ricerche di
mercato, alla progettazione dei lavori relativi al verde
pubblico.
Così, ancora a titolo esemplificativo, è la giurisprudenza a
porre in evidenza che
appartiene ad entrambe le categorie dei periti agrari
e dei dottori agronomi o forestali la cura di boschi
o foreste, rinvenendo il discrimine tra le competenze degli
uni e degli altri, oltre che nel dato quantitativo, in
quello qualitativo determinato dalla finalità degli
interventi stessi
(così Cons. Stato, III, 03.08.2015, n. 3816).
Analogamente, emergono interferenze con le competenze
professionali di architetti ed ingegneri
(art. 51 r.d. 23.10.1925, n. 2537),
come pure degli agrotecnici
(art. 11 della legge 06.06.1986, n. 251).
In ogni caso, occorre aggiungere che non vi è totale
sovrapponibilità tra le prestazioni oggetto dell’affidamento
all’appellante e le attività professionali indicate
nell’art. 2 della legge n. 3 del 1976, in quanto le prime
descrivono servizi relativi ad attività propedeutiche e di
supporto alla manutenzione ordinaria e straordinaria del
verde pubblico, concentrandosi prevalentemente nell’analisi
speditiva massale della popolazione arborea e nel supporto
alla stesura di un capitolato di affidamento della gestione
razionale ed ecocompatibile del verde pubblico. |
APPALTI: Niente
pareggio di bilancio, l'impresa resta fuori dalla gara.
L'impresa è fuori dalla gara senza pareggio di bilancio
negli ultimi tre anni. Ragionevole la condizione di
equilibrio finanziario imposta dal bando: i partecipanti
devono avere la capacità di adempiere al contratto, l'ente
che chiede il servizio può tutelarsi ingerendosi dei conti.
È quanto emerge dalla
sentenza
01.03.2017 n. 81,
pubblicata dalla I Sez. del TAR Friuli Venezia Giulia.
Anche le imprese, dunque, come gli Stati, hanno il loro
fiscal compact da rispettare altrimenti sono fuori, sia pure
soltanto dalla gara d'appalto e non dall'Unione europea. Nel
bando per l'aggiudicazione di un servizio è ragionevole la
clausola che esclude le società i cui bilanci non sono
almeno in pareggio negli ultimi tre esercizi, al netto delle
imposte.
E ciò perché, specie in tempi di crisi, le amministrazioni
devono tutelarsi assicurandosi che si candida a gestire il
servizio abbia poi la capacità per adempiere al contratto:
il nuovo codice affida alle stesse stazioni appaltanti il
compito di individuare gli indici economici e finanziari più
adatti per stabilirlo. Quando l'amministrazione mette a gara
servizi e forniture, poi, ben può ficcare il naso nei conti
dei privati che partecipano alla procedura pubblica.
Bocciato quindi il ricorso della società: resta fuori dalla
gara da 600 mila euro per gestire trentasei mesi di
ristorazione scolastica nel comune. Il bilancio 2015
risultava in perdita di quasi 45 milioni
(articolo ItaliaOggi dell'11.03.2017).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene di poter prescindere
dall’apprezzamento della fondatezza o meno dell’eccezione
preliminare di rito sollevata dalla difesa del Comune,
atteso che il ricorso è, in ogni caso, destituito di
fondamento.
Invero, nel rammentare che il bando di gara prevedeva, tra i
requisiti di capacità economica e finanziaria condizionanti
la partecipazione alla gara stessa, il possesso del pareggio
di bilancio al netto delle imposte negli ultimi tre esercizi
(pt. III.2.2 del bando di gara) e che dalla documentazione
presentata dalla ricorrente a corredo della domanda di
partecipazione risultava che il bilancio relativo all’anno
2015 era in forte perdita per € 44.846.345,00, pare potersi
affermare che il seggio di gara ha fatto buon governo della
detta disposizione della lex specialis, peraltro di
per sé scevra da qualsivoglia illogicità o irragionevolezza
e per nulla violativa dell’art. 83, comma 8, del d.lgs. n.
50/2016.
Gli operatori economici interessati a
partecipare alle gare pubbliche, oltre a non trovarsi in
stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione
d'attività, di amministrazione controllata o di concordato
preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da
una procedura della stessa natura prevista da leggi e
regolamenti nazionali, devono possedere, infatti, la
capacità economica e finanziaria necessaria ad assicurare
l’osservanza delle obbligazioni contrattuali.
Ad avviso del Collegio, in un periodo
economicamente critico, come quello attuale, in cui la
solidità patrimoniale e finanziaria di molte aziende è messa
seriamente in pericolo, non può prescindersi, a maggior
ragione, da una puntuale e rigorosa verifica dello stato di
salute delle imprese partecipanti alle gare di appalto
pubbliche, in quanto accertamento funzionale allo
svolgimento positivo degli appalti stessi e ciò a
prescindere dalle capacità tecniche e professionali, che
pure devono essere possedute.
La necessità di affidare il contratto a
soggetti che dimostrino, tra le altre, anche la capacità
economica e finanziaria idonea a garantire l'esecuzione
delle prestazioni oggetto dello stesso costituisce, infatti,
un fondamentale principio ricavabile dalla complessiva
disciplina dell'affidamento di pubblici appalti e l’apertura
al mercato e alla concorrenza non può mai spingersi sino al
punto di compromettere o comunque mettere seriamente in
pericolo la regolare esecuzione del contratto.
L’art. 83 del (nuovo) codice appalti, come
del resto già il previgente art. 41 del d.lgs. n 163/2006,
lascia, peraltro, libertà alle stazioni appaltanti di
individuare nella legge di gara gli indici di capacità
economica più adatti, col solo limite della “attinenza”
e “proporzionalità” all’oggetto dell’appalto, nella
ricerca di un costante bilanciamento con l’interesse
pubblico “ad avere il più ampio numero di potenziali
partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e
rotazione” (vedi art. 83, comma 2).
Per gli appalti di servizi e forniture, ai fini della
verifica del possesso dei requisiti di capacità economica e
finanziaria, le stazioni appaltanti, nel bando di gara,
possono richiedere, tra l’altro, che “gli operatori
economici forniscano informazioni riguardo ai loro conti
annuali che evidenzino in particolare i rapporti tra
attività e passività” (vedi art. 83, comma 4, lett. b).
Avuto riguardo alla durata (36 mesi), alla tipologia del
servizio (servizio di ristorazione scolastica), al valore (€
603.389,75) e, in genere, alle obbligazioni contrattuali cui
l’impresa aggiudicataria sarà chiamata a far fronte con i
propri mezzi, non solo tecnici e professionali, ma anche,
appunto, finanziari, non pare, dunque,
sproporzionata e/o irragionevole la disposizione, contenuta
nella lex specialis di gara, di condizionare la
partecipazione degli operatori economici interessati alla
dimostrazione del possesso del pareggio di bilancio al netto
delle imposte negli ultimi tre esercizi. Anzi, tale
disposizione pare espressione di legittimo esercizio di
potere discrezionale, declinato, peraltro, nel rispetto
delle norme di legge.
Né, del resto, l’applicazione fatta nel
caso oggetto di esame della detta disposizione può essere
ritenuta artifizio per limitare la concorrenza (art. 30,
comma 2, d.lgs. n. 50/2016), essendo palese che una così
consistente posta negativa a bilancio porta legittimamente a
dubitare della sussistenza di quei requisiti minimi di
capacità economica e finanziaria necessari per ottemperare
in maniera regolare e qualitativamente adeguata alle
prestazioni previste nel capitolato d’appalto, anche,
eventualmente, sostenendone anticipatamente i relativi costi
di esecuzione.
Al riguardo, deve, invero, convenirsi con la difesa del
Comune, laddove pone l’accento sul fatto che il bilancio
2015 della ricorrente era in forte perdita per €
44.846.345,00 e che la dichiarazione integrativa resa dalla
medesima a sua giustificazione (accantonamento prudenziale a
copertura di una sanzione amministrativa pecuniaria di €
56.190.090,00 irrogata a C. da AGCM) non modifica, in ogni
caso, da un punto di vista civilistico la connotazione del
bilancio come un bilancio in perdita, come si ritrae
agevolmente dalla piana lettura dello stato patrimoniale e
del conto economico di C. redatti conformemente allo schema
di cui agli artt. 2424 e 2425 C.C., nei quali risulta
iscritto un fondo rischi ad integrale copertura della
sanziona dianzi indicata, che ha determinato necessariamente
una corrispondente voce passiva e la conseguente perdita
registrata sia nello stato patrimoniale che nel conto
economico dell’esercizio.
Al di là, quindi, di ogni plausibile giustificazione
formale, il bilancio 2015 di C. è, dunque,
un bilancio giuridicamente in passivo, preclusivo, a par
bando, alla sua partecipazione alla gara di che trattasi. |
APPALTI: Offerta
incompleta, addio soccorso istruttorio. Appalti/sentenza del
tribunale amministrativo regionale della Liguria
Addio soccorso istruttorio per l'offerta tecnica ed
economica incompleta con il nuovo codice degli appalti
pubblici. La nuova norma, infatti, è più restrittiva della
precedente: impedisce di integrare la documentazione
necessaria a provare la sussistenza delle caratteristiche
imposte dal capitolato a pena di esclusione. E
l'estromissione dalla gara decisa dalla stazione appaltante
risulta dunque legittima.
È quanto emerge dalla
sentenza
28.02.2017 n. 145, pubblicata dalla
II Sez. del TAR Liguria.
Forma e sostanza
Bocciato il ricorso dell'impresa che non ha potuto
partecipare all'aggiudicazione della procedura a evidenza
pubblica: si tratta della fornitura di sistemi antidecubito
per i pazienti dell'Asl regionale e l'azienda non ha
prodotto subito i certificati che dimostrano come il
materiale delle parti imbottite sia ignifugo.
Il deposito successivo delle attestazioni non può salvare la
società dall'estromissione: oggi il soccorso istruttorio non
è più quello previsto dall'articolo 46, comma 1-ter, del
decreto legislativo 163/06 che ben ammetteva di correre ai
ripari per l'offerta incompleta, tranne nel caso di assoluta
incertezza sul contenuto o sulla provenienza. Ora invece la
norma ex articolo 83, comma 9, del decreto legislativo
50/2016 ammette che la sanatoria può avvenire soltanto per
elementi formali. E la carenza addebitata all'impresa è
invece questione di sostanza perché riguarda un elemento
essenziale come la resistenza al fuoco del prodotto dal
noleggiare all'Asl.
Nessuna contraddizione
Inutile per l'operatore economico lamentare che l'azienda
sanitaria prima abbia chiesto alla concorrente di dimostrare
che i materiali sono ignifughi e poi abbia comunque
estromesso la società dalla procedura: non si configura
un'ipotesi di contraddittorietà dell'azione amministrativa;
si tratta invero di un puro scrupolo della commissione
chiamata ad aggiudicare l'appalto, che può aver cercato di
agevolare in qualche modo l'interlocutore.
Sarebbe stato semmai illegittimo l'invito della commissione
a dimostrare ex post il possesso di requisiti non
adeguatamente documentati in sede di offerta, in contrasto
all'articolo 83, comma 9, del decreto legislativo 50/2016.
All'azienda non resta che pagare le spese di giudizio
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017). |
APPALTI SERVIZI: Coperture
assicurative, si può andare per gradi.
Livello adeguato per l'aggiudicatario.
È illogica la richiesta di produrre in sede di offerta il
contratto di assicurazione per la responsabilità civile
professionale con un massimale rapportato al valore
dell'appalto, trattandosi di richiesta da applicare al solo
aggiudicatario.
È quanto ha affermato il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con la
sentenza 27.02.2017 n. 282 in merito
alla nuova disposizione del codice dei contratti pubblici in
materia polizza di responsabilità civile professionale.
Si
tratta dell'articolo 83, comma 4-c, del decreto 50/2016 che
ha introdotto la possibilità per le stazioni appaltanti di
chiedere, a dimostrazione della capacità economica e
finanziaria negli appalti di servizi e forniture, un livello
adeguato di copertura assicurativa contro i rischi
professionali. Per fare ciò la norma impone che sia
accertata, ancora al momento della presentazione
dell'offerta, una condizione che in realtà sarà necessaria
solo per lo svolgimento dell'attività, ossia un adempimento
che produrrà effetti solo per l'aggiudicatario.
La sentenza chiarisce che il livello adeguato di copertura
assicurativa può essere raggiunto anche per gradi, e con una
pluralità di strumenti negoziali. Pertanto, si deve
escludere che la norma richieda necessariamente
l'allegazione di un nuovo contratto di assicurazione, con un
massimale già adeguato al valore dell'appalto perché «tra
più interpretazioni possibili in base alla lettera della
norma deve essere preferita quella che impone il costo
minore per gli operatori economici, evitando la creazione di
ostacoli impropri alla partecipazione».
La produzione di un nuovo contratto di assicurazione viene
ritenuta onerosa per i concorrenti, ma soprattutto del tutto
superflua nel corso della gara. Se quindi vi è la certezza
che la copertura assicurativa richiesta dal bando o dal
disciplinare di gara sarà presente al momento
dell'aggiudicazione, e che l'attivazione della suddetta
copertura dipende solo dalla volontà dell'aggiudicatario, e
non dall'assenso di terzi, l'interesse pubblico può dirsi
tutelato, e di conseguenza risulta indifferente lo strumento
negoziale che ha reso possibile il risultato (nel caso
specifico l'incremento del massimale della polizza già
stipulata per la responsabilità civile professionale)
(articolo ItaliaOggi del 03.03.2017).
----------------
MASSIMA
10. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si
possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla copertura assicurativa
11.
L’art. 83, comma 4-c, del Dlgs. 50/2016 consente alle
stazioni appaltanti di chiedere, a dimostrazione della
capacità economica e finanziaria negli appalti di servizi e
forniture, un livello adeguato di copertura assicurativa
contro i rischi professionali. La formula normativa impone
che sia accertata, ancora al momento della presentazione
dell’offerta, una condizione che in realtà sarà necessaria
solo per lo svolgimento dell’attività, ossia un adempimento
che produrrà effetti solo per l’aggiudicatario.
12. Poiché tra più interpretazioni possibili in base alla
lettera della norma deve essere preferita quella che impone
il costo minore per gli operatori economici, evitando la
creazione di ostacoli impropri alla partecipazione,
si
ritiene che il livello adeguato di copertura assicurativa
possa essere raggiunto anche per gradi, e con una pluralità
di strumenti negoziali.
Pertanto,
si deve escludere che la norma richieda
necessariamente l’allegazione di un nuovo contratto di
assicurazione, con un massimale già adeguato al valore
dell’appalto. La produzione di un simile documento, onerosa
per i concorrenti, sarebbe del tutto superflua nel corso
della gara, mentre assume la massima importanza al termine
della stessa, quando occorre tutelare l’interesse pubblico
all’immediato avvio del servizio o della fornitura.
13. Dal lato dei concorrenti, questo significa che
l’esclusione dalla gara è una sanzione ragionevole e
proporzionata solo quando la stazione appaltante sia esposta
al rischio di selezionare un aggiudicatario non in grado di
attivare immediatamente la copertura assicurativa. Al
contrario, se vi è la certezza che la copertura assicurativa
richiesta dal bando o dal disciplinare di gara sarà presente
al momento dell’aggiudicazione, e che l’attivazione della
suddetta copertura dipende solo dalla volontà
dell’aggiudicatario, e non dall’assenso di terzi,
l’interesse pubblico può dirsi tutelato, e di conseguenza
risulta indifferente lo strumento negoziale che ha reso
possibile il risultato.
14.
La clausola di incremento del massimale riferita alla
polizza già stipulata dalla cooperativa ricorrente rientra
perfettamente in tale schema, perché, come si è visto, non
lascia spazio a ulteriori contrattazioni con la compagnia di
assicurazione. L’attivazione della garanzia con il massimale
richiesto è una potestà rimessa esclusivamente alla parte
contraente una volta verificatasi l’aggiudicazione.
Sul soccorso istruttorio
15. L’art. 5 del disciplinare di gara, che richiede il
possesso di una copertura assicurativa contro i rischi
professionali di importo non inferiore a quello a quello a
base di gara, può essere interpretato come una mera
riformulazione dell’art. 83, comma 4-c, del Dlgs. 50/2016.
Non vi è quindi alcun ostacolo all’allegazione di un impegno
della compagnia di assicurazione, diretto o attestato dal
broker, per la futura stipula o integrazione, a semplice
richiesta del concorrente interessato, di una polizza con le
caratteristiche richieste.
16.
Se le espressioni utilizzate nel disciplinare di gara
fossero state più esplicite nel senso di imporre
l’allegazione di un nuovo contratto di assicurazione con un
certo massimale, questo avrebbe costituito un aggravio della
posizione dei concorrenti rispetto alla disciplina di legge,
e dunque si sarebbe verificata l’ipotesi di nullità parziale
prevista dall’art. 83, comma 8, del Dlgs. 50/2016.
17. In questo quadro,
il soccorso istruttorio invocato dalla
cooperativa ricorrente appare inutile, in quanto la stazione
appaltante avrebbe dovuto semplicemente riconoscere
l’idoneità della clausola di incremento del massimale,
rinunciando alla pretesa di ottenere dai concorrenti un
contratto di assicurazione già sottoscritto.
Sulla prova della capacità economica e finanziaria
18. Quanto sopra esposto è sufficiente ad assicurare alla
cooperativa ricorrente il reingresso nella gara. Occorre
tuttavia sottolineare, proseguendo nell’esame dei motivi di
ricorso, che
tale risultato viene conseguito esclusivamente
grazie all’impegno assunto dalla compagnia di assicurazione
relativamente all’incremento del massimale della polizza
contro i rischi professionali.
19.
Questo requisito non era alternativo alle dichiarazioni
bancarie, parimenti richieste dal disciplinare di gara a
dimostrazione della capacità economica e finanziaria.
L’allegato XVII del Dlgs. 50/2016, infatti, nello stabilire
l’elenco delle referenze valide come mezzi di prova,
specifica che è possibile utilizzare una o più di tali
referenze. La stessa precisazione è contenuta nell’art. 86,
comma 4, del Dlgs. 50/2016.
La scelta è rimessa alla stazione appaltante, che può quindi
esigere anche una pluralità di mezzi di prova, sommando
diversi gruppi o diverse voci all’interno dello stesso
gruppo, come è avvenuto nel caso in esame (le dichiarazioni
bancarie e la copertura assicurativa contro i rischi
professionali sono inserite nello stesso gruppo di
referenze).
Il limite è solo quello (implicito) della ragionevolezza, e
dunque la stazione appaltante dovrà astenersi dal richiedere
mezzi di prova ridondanti. Nello specifico, tuttavia, la
previsione della copertura assicurativa contro i rischi
professionali appare giustificata dalla particolare
delicatezza e complessità delle prestazioni erogate in una
comunità protetta.
20. Non sarebbe stata utile come requisito sostitutivo la
polizza riferita alla responsabilità civile in ambito
extraprofessionale. In effetti, se si considera che il
servizio è rivolto a soggetti fragili, si deve ritenere che
la stazione appaltante, individuando come necessaria la
copertura assicurativa contro i rischi professionali, abbia
correttamente esercitato la propria discrezionalità.
Sulla procedura di gara
21.
Non sembra infine esservi alcun profilo di violazione
dell’art. 30 del Dlgs. 50/2016 e del principio di
trasparenza per il fatto che la valutazione della
documentazione amministrativa sia avvenuta in seduta
riservata
(v. verbale del 24-26.10.2016),
dopo che in seduta
pubblica
(v. verbale del 13.10.2016)
era stata constatata la
completezza della suddetta documentazione.
22. In realtà,
tale procedura è perfettamente legittima
(oltre che conforme all’art. 16 del disciplinare di gara),
in quanto distingue le fasi che richiedono la pubblicità
(per consentire il controllo sul contenuto materiale delle
offerte da parte di tutti i concorrenti) e le fasi che
invece possono svolgersi anche senza la presenza del
pubblico, in quanto dedicate alla qualificazione delle
irregolarità di documenti ormai identificati e non più
esposti al rischio di sostituzioni o manipolazioni.
Conclusioni
23. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il
conseguente annullamento degli atti impugnati, per i profili
sopra esposti, e la riammissione della cooperativa
ricorrente alla gara. La pronuncia favorevole su questo
punto non lascia margini alla richiesta di risarcimento per
equivalente, peraltro introdotta solo in via subordinata.
24. Tenendo conto dell’attività interpretativa resa
necessaria dalla formulazione dell’art. 83, comma 4-c, del
Dlgs. 50/2016, e considerando, da un lato, la ridotta
attività processuale imposta dal rito ex art. 120, commi
2-bis e 6-bis cpa, e dall’altro la reiezione della domanda
risarcitoria, appare giustificata l’integrale compensazione
delle spese di giudizio. |
EDILIZIA PRIVATA: Antisismica
speciale per tutti gli edifici in aree a rischio.
La speciale disciplina antisismica si applica a tutte le
costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la
pubblica incolumità, e realizzate in zone delle quali sia
dichiarata la sismicità. A prescindere dai materiali e dalle
relative strutture, nonché dalla natura precaria o
permanente dell'intervento. Con l'obbligatorietà della
comunicazione al genio civile per consentire il controllo
preventivo da parte della pubblica amministrazione di tutte
le costruzioni realizzate in zone sismiche.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione,
Sez. III penale,
sentenza 24.02.2017
n. 9126 (udienza del 16/11/2016) sulla disciplina
antisismica delle costruzioni.
Il fatto in sintesi.
Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto ordinava la
demolizione dell'abusivo realizzato attorno ad un immobile.
I proprietari della costruzione avevano realizzato infatti
una recinzione di mq 1.282, in zona sismica ed in assenza
del necessario preavviso e della preventiva autorizzazione
del genio civile. I responsabili dell'intervento sostenevano
che il muro non necessitava di alcuna armatura perché non
aveva la funzione di contenimento e sostegno di altre
strutture.
I giudici ritenevano al contrario integrata la violazione
dell'articolo 606, comma 1, lett. b), cpp, perché sul
cordolo di cemento armato gli imputati avevano apposto dei
blocchi di calcestruzzo e non dei mattoni forati. Gli
imputati sottolineavano che il termine «forati» non deve e
non può essere inteso come sinonimo di «mattone forato», ma
come termine generico indicante qualsiasi blocco di
costruzione che al suo interno sia cavo e privo di armatura.
Per gli stessi motivi ritenevano non necessaria alcuna
comunicazione preventiva alle autorità competenti.
I giudici, sostenevano che il preavviso e il rispetto delle
norme antisismiche erano obbligatori dal momento che per la
costruzione del muro erano stati utilizzati blocchi di
calcestruzzo. Il reato antisismico, sussiste nel caso di
opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento
dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti
allo sportello unico e senza la preventiva autorizzazione
scritta del competente ufficio tecnico della regione, a
nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle
relative strutture ovvero la natura precaria
dell'intervento.
L'articolo 93 del dpr del 2001 n. 380 prescrive, tra
l'altro, che nelle zone sismiche, chiunque intenda procedere
a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a
darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a
trasmettere al competente ufficio tecnico della regione
copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere
allegato.
L'art. 94 del medesimo dpr n. 380 del 2001 prescrive poi che
nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza
la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio
tecnico della regione
(articolo ItaliaOggi del 25.03.2017). |
EDILIZIA PRIVATA:
Costruzione di un muro di recinzione - Modifica
dell'assetto urbanistico - Interventi di nuova costruzione -
Permesso di costruire - Necessità - Giurisprudenza - Art. 5
L. Regione Sicilia n. 37/1985 - Artt. 3, 44, 64, 65, 71, 72,
93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
La costruzione di un muro di recinzione richiede per la sua
realizzazione il preventivo rilascio del permesso di
costruire quando, avuto riguardo alla sua struttura e alla
estensione dell'area, esso sia tale dal modificare l'assetto
urbanistico del territorio, rientrando in tal caso negli
interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3, lett. e),
d.P.R. n. 380 del 2001 (Cass. Sez. 3, n. 4755 del
13/12/2007, Romano; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014,
Langella, concernente un muro in cemento armato avente
spessore di cm. 25 ed un'altezza di circa metri 1,80).
Sicché, allorquando il muro di recinzione sia, per
struttura, estensione e consistenza, idoneo a determinare
una modifica dell'assetto urbanistico del territorio, esso
non può neppure essere considerato pertinenza del fondo di
un edificio adibito ad abitazione attorno al quale sia stato
realizzato, richiedendo ugualmente, per la incidenza della
sua realizzazione sul territorio, il permesso di costruire
per poter essere realizzato (Sez. 3, n. 41518 del
22/10/2010, Bove; conf. Sez. 3, n. 35898 del 14/05/2008,
Russo).
Nella specie, è stata esclusa anche la sufficienza della
autorizzazione rilasciata all'imputato ai sensi dell'art. 5
l. Regione Sicilia n. 37 del 1985, che consente, tra
l'altro, la realizzazione di recinzioni, con esclusione di
quelle dei fondi rustici di cui al successivo art. 6, in
forza della sola autorizzazione del sindaco, che
sostituisce, in tali ipotesi, la concessione, dovendo
intendersi la nozione di recinzione richiamata da tale
disposizione come riferita ad opere che non determinino una
trasformazione durevole del territorio, per le quali,
invece, occorre il permesso di costruire (Corte
di Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.02.2017 n. 8693
- link a
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EDILIZIA PRIVATA:
Parziale demolizione delle opere abusive o
parziale rimessione in pristino - Estinzione degli illeciti
urbanistici - Esclusione - Inapplicabilità analogica della
disciplina sui reati paesaggistici - Recupero degli illeciti
minori - Art. 181, c. 1-quinquies, d.lgs. n. 42/2004.
La parziale demolizione delle opere abusive o la parziale
rimessione in pristino non determinano l'estinzione degli
illeciti urbanistici, non essendo prevista una siffatta
causa di estinzione di tali reati, che si perfezionano con
la realizzazione delle condotte tipiche, e dunque con la
costruzione delle opere in assenza dei prescritti permessi e
autorizzazioni, non essendo applicabile analogicamente la
disciplina dettata in materia di reati paesaggistici
dall'art. 181, comma 1-quinquies, d.lgs. n. 42 del 2004, che
ha una funzione premiale, diretta ad incentivare il recupero
degli illeciti minori e a far riacquistare alla zona
vincolata il suo originario pregio estetico.
L'eventuale parziale demolizione delle opere abusive
rileverà, dunque, in sede esecutiva, nella individuazione
delle opere residue da demolire in attuazione dell'ordine
impartito con la sentenza di condanna, ma è priva di rilievo
in ordine alla sussistenza degli illeciti urbanistici
ascritti all'imputato, perfezionatisi con la realizzazione
delle opere ed in relazione ai quali non opera alcuna causa
estintiva per effetto della parziale demolizione delle opere
abusive (Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 22.02.2017 n. 8693
- link a
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APPALTI: Ribaltone
sul soccorso istruttorio e quote Ati.
Il Cds contraddice il Tar Lazio.
Non è sanabile con il soccorso istruttorio l'erronea
indicazione della percentuale di partecipazione nei
raggruppamenti temporanei di imprese, anche se singolarmente
le imprese raggruppate possiedono singolarmente anche il
100% dei requisiti.
È questo il principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez.
VI, con la
sentenza 21.02.2017 n. 773
che ha ribaltato il giudizio di primo grado del Tar Lazio
(sentenza n. 4384/2012).
In primo grado si era stabilito che, a prescindere dalla
indicazione corretta delle quote da parte delle imprese
raggruppate, quello che rilevava era il fatto che entrambe
le imprese raggruppate fossero qualificate anche per il 100%
dei lavori da eseguire e che ciò scongiurava il rischio che
una di essere eseguisse attività per le quali non fosse
qualificata.
A fronte di una illogica indicazione di
ripartizione quote che non raggiungeva il 100% da parte di
un Ati fra imprese singolarmente e integralmente
qualificate, la stazione appaltante, prima di procedere
all'esclusione, avrebbe però dovuto ricorrere al potere di
chiedere chiarimenti ex art. 46, comma 1, dlgs n. 163/2006,
anche al fine del rispetto del principio di massima
partecipazione alle pubbliche gare.
Il Consiglio di stato ha ribaltato la situazione: «L'indicazione
delle quote di partecipazione che cumulativamente non
raggiungono il 100% viola l'art. 37, commi 4 e 13, dlgs n.
163/2006 nel caso di forniture o servizi nell'offerta devono
essere specificate le parti del servizio o della fornitura
che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti
o consorziati... I concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento».
Questo elemento è tale da comportare l'incertezza assoluta
sul contenuto dell'offerta e, quindi, diversamente da quanto
affermato in primo grado, preclude l'esercizio del potere di
soccorso istruttorio di cui all'art. 46, comma 1-bis, dlgs
n. 163/2006. Per il Consiglio di Stato, lungi da operare una
mera rettifica, il soccorso istruttorio si sarebbe infatti
tradotto nell'integrazione postuma di uno degli elementi
costitutivi dell'offerta in palese violazione della par
condicio concorrenti
(articolo ItaliaOggi del 24.02.2017).
---------------
MASSIMA
6. Con unico motivo, l’Università denuncia l’errore di
giudizio in cui sarebbe incorso il Tar nell’interpretare
l’art. 37, commi 4 e 13, d.lgs. 163/2006 che, secondo il
consolidato orientamento giurisprudenziale richiamato in
memoria, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza
appellata, non opererebbe alcuna distinzione in ordine alle
doverose indicazioni delle quote percentuali di
partecipazione in diretta connessione alle prestazioni da
eseguirsi nella percentuale corrispondente alla quota di
partecipazione al raggruppamento.
L’offerta come formulata, denuncia ancora l’Università,
sarebbe affetta da radicale nullità per indeterminatezza del
soggetto che esegue le prestazioni contrattuali sì da non
consentire la sanatoria ex post né l’esercizio del soccorso
istruttorio.
7. Il motivo d’appello è fondato.
7.1
L’indicazione delle quote di partecipazione che
cumulativamente non raggiungono il 100% viola l’art. 37,
commi 4 e 13, d.lgs. n. 163/2006 a mente del quale: “Nel
caso di forniture o servizi nell’offerta devono essere
specificate le parti del servizio o della fornitura che
saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o
consorziati…. I concorrenti riuniti in raggruppamento
temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale
corrispondente alla quota di partecipazione al
raggruppamento.”
Contrariamente a quanto supposto dall’ATI ricorrente, e in
parte avallato dal Tar,
la norma non opera alcuna distinguo fra indicazione
incompleta e mancata indicazione delle quote.
Viceversa
la corretta indicazione delle quote –al pari della mancata
indicazione– obbedisce ad un’esigenza sostanziale: la
stazione appaltante deve preventivamente conoscere la
(quota)-parte dei lavori da eseguirsi da ciascuna impresa “associanda”.
Esigenza necessaria ed assicurata dalla corrispondenza
biunivoca tra quota di qualificazione e quota di
partecipazione all’a.t.i. e tra quota di partecipazione e
quota di esecuzione
(cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 11.05.2011,
n. 2804; Id, sez. V, 18.08.2009 n. 5098; Id, sez. V,
14.01.2009 n. 9).
L’erronea indicazione di quote solo sul piano del fatto
–dell’accadimento storico– diverge dalla mancata indicazione
di esse. Sul piano giuridico, in ragione della medesima
ratio sostanziale sottesa all’onere, la conseguenza è
però la stessa: la nullità dell’offerta per indeterminatezza
dei soggetti che assumono le obbligazioni relative
all’esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto
d’appalto.
7.2
Va da sé che l’incertezza assoluta sul contenuto
dell’offerta preclude l’esercizio del potere di soccorso
istruttorio di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n.
163/2006.
Lungi da operare una mera rettifica, nel caso in esame, il
soccorso istruttorio si tradurrebbe nell’integrazione
postuma di uno degli elementi costitutivi dell’offerta in
palese violazione della par condicio concorrenti
(cfr., Cons. Stato, sez. III, 01.03.2012, n. 493; Id., sez.
V, 08.02.2011 n. 846).
È appena il caso d’aggiungere che
l’attinta conclusione trova significativo avallo di diritto
positivo nel nuovo codice dei contratti di cui al d.lgs. n.
50/2016 laddove, pur estendendo rispetto al precedente
codice i confini applicativi del soccorso istruttorio, lo
esclude (cfr. art. 80 ss.) in radice nei casi –come quello
in esame– d’incertezza soggettiva dell’offerta.
8. Conclusivamente l’appello deve essere accolto. |
EDILIZIA PRIVATA:
Intervento di manutenzione straordinaria - Mutamento d'uso
urbanisticamente rilevante - Passaggio a diversa categoria
funzionale - Permesso di costruire - Necessità -
Fattispecie: da uso residenziale a quella turistico -
ricettiva - Artt. 22, 23 e 44 d.P.R. 380/2001 - Art. 181
d.lgs. 42/2004.
Costituisce "mutamento d'uso
urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo di un
immobile o di una singola unità immobiliare diversa da
quella originaria, ancorché non accompagnata da opere
edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione
dell'immobile o dell'unità ad una diversa categoria
funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma
primo, d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 12904 del
03/12/2015, dep. 31/03/2016, Postiglione)
(Corte di
Cassazione, Sez. III penale,
sentenza 20.02.2017 n. 7964 -
link a
www.ambientediritto.it). |
COMPETENZE PROGETTUALI: Lavori
viari a ingegneri.
È di pertinenza esclusiva degli ingegneri la progettazione
di opere viarie non connesse ai singoli fabbricati. Deve
dunque essere annullata l'aggiudicazione della gara
d'appalto laddove il bando prevedeva l'affiancamento di un
architetto nella progettazione esecutiva. E ciò perché il
contributo dell'altra categoria professionale non risulta
necessario quando i lavori riguardano opere di
urbanizzazione primaria. L'impresa che è stata esclusa
ottiene dunque il risarcimento del lucro cessante e del
danno curriculare.
È quanto emerge dalla
sentenza
20.02.2017 n. 1023,
pubblicata dalla I Sez. del Tar Campania-Napoli.
È illegittimo il bando nella parte in cui impone di
associare un architetto ai concorrenti privi della
qualificazione Soa per la progettazione delle classi e della
categoria indicate. Il discrimine fra le competenze degli
ingegneri e degli architetti sta ancora rappresentato dalle
norme di cui agli articoli 51 e 52 del regio decreto
2537/1925.
E nell'esclusiva responsabilità dei primi non rientrano solo
la progettazione delle opere necessarie all'estrazione e
lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e quella
delle costruzioni industriali. All'ingegnere competono anche
le opere che riguardano viabilità, acquedotti, depuratori,
condotte fognarie e impianti di illuminazione, a meno non
siano di pertinenza di singoli edifici civili.
Nella specie si tratta di opere di un comparto del piano di
insediamenti produttivi del comune. Comune e impresa
aggiudicataria pagano le spese processuali all'azienda
ingiustamente estromessa
(articolo ItaliaOggi del 21.03.2017). |
APPALTI SERVIZI: Appalti,
addio al capitolato. Tar Toscana.
Stop al capitolato d'appalto. L'impresa che si candida a
gestire il servizio per conto dell'ente fa annullare il
bando di gara nella parte in cui prevede la lista dei
lavoratori da assumere in caso di aggiudicazione: la
«clausola sociale» prevista dal nuovo codice dei contratti
pubblici impone soltanto la priorità di riassorbire il
personale uscente, mentre l'obbligo di mantenere i livelli
occupazionali risulta contrario ai principi eurounitari in
materia di libertà d'impresa.
È quanto emerge dalla
sentenza
13.02.2017 n. 231,
pubblicata dalla III Sez. del TAR Toscana.
Bocciato il bando di gara predisposto dall'ente regionale
per il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti
sanitari. Non si può imporre a chi subentrerà nello
svolgimento dell'appalto di assumere in blocco tutto il
personale già utilizzato dall'impresa uscente, peraltro
riproducendone alla lettera inquadramento e orario di
lavoro. E ciò anche perché nella nuova gara determinate
prestazioni risultano eliminate dal bando mentre alcuni
ospedali non sono più interessati dal servizio.
È vero: la
direttiva 24/2014/Ue prevede che anche gli appalti pubblici
abbiano una specifica attenzione alle esigenze sociali. Ma
l'art. 50 del dlgs 50/2016 non può essere interpretato nel
senso di imporre l'assorbimento di tutto il personale
impiegato in precedenza: la clausola sociale risulta
comunque una facoltà del bando di gara e la stabilità
occupazionale costituisce un obiettivo che non può essere
trasformato in un rigido obbligo proprio in base ai principi
eurounitari di libera iniziativa economica.
In effetti, osservano i giudici amministrativi, il nuovo
codice dei contratti pubblici non ha fatto altro che
recepire la giurisprudenza formatasi in materia. La
necessità di salvaguardare i livelli occupazionali, che pure
è un obiettivo dell'ordinamento, deve essere armonizzata con
l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore che
subentra nella gestione del servizio.
Dunque deve essere escluso ogni obbligo automatico e
generalizzato di assunzione a tempo indeterminato del
personale già utilizzato dalla precedente impresa
affidataria. Spese di giudizio compensate
(articolo ItaliaOggi del 10.03.2017). |
PUBBLICO IMPIEGO: Un
segno sullo scritto? Deve essere anomalo perché possa essere
annullato il concorso. Il Tar
toscana ha così riammesso un elaborato della prova di
matematica.
Negli elaborati scritti di un concorso un segno, per essere
considerato elemento di identificazione, deve assumere un
carattere «oggettivamente e incontestabilmente» anomalo e
non conta se, in concreto, la Commissione sia stata o meno
in condizione di riconoscerne effettivamente l'autore.
Lo ha sancito il Tar Toscana, Sez. I con la
sentenza 13.02.2017 n. 230.
Nel caso in esame un candidato aveva
chiesto l'annullamento della graduatoria risultante dalla
correzione della prova scritta di matematica, classe di
concorso A-26, nella parte in cui l'elaborato scritto del
ricorrente non era stato corretto con la motivazione
«l'elaborato presenta evidenti segni identificativi»,
impedendo al medesimo di proseguire nelle successive prove
orali per la classe di concorso.
Più precisamente, il ricorrente aveva lamentato che dal
lapidario giudizio di «evidenti segni di identificazione»
presenti nell'elaborato non si riusciva a comprendere quali
fossero tali segni, né in quale parte dell'elaborato si
trovassero. Inoltre, neppure si riusciva a comprendere se
tali segni assumessero i caratteri dell'astrattezza e
oggettività richiesti dalla giurisprudenza per dare concreto
rilievo al principio dell'anonimato.
Il Tar accoglie il ricorso e annulla l'esclusione dal
concorso del ricorrente. L'«evidente» segno identificativo
nella fattispecie, infatti, era l'aver indicato, nell'ambito
del quesito n. 1 dell'elaborato, la città dove era ubicato
il Liceo Scientifico ove aveva prestato servizio il
candidato. E secondo il collegio l'idoneità del segno deve
consistere nell'astratta idoneità a fungere da elemento di
identificazione, ma solo quando la particolarità riscontrata
assuma un carattere «oggettivamente e incontestabilmente»
anomalo, rispetto alle ordinarie modalità di elaborazione
del pensiero in forma scritta, a nulla rilevando che in
concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano
stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente
l'autore dell'elaborato.
Questa prima condizione, quindi, non può sussistere:
l'indicazione del Liceo scientifico non assume questi
connotati, sia in relazione al contenuto della traccia del
quesito, sia in mancanza di prove circa la assoluta evidenza
identificativa di quanto indicato.
Quanto all'elemento psicologico, infine, si è escluso che
possa esserci un automatismo tra astratta possibilità di
riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato,
«dovendo emergere elementi atti a provare, anche qui in modo
oggettivo ed inequivoco, l'intenzionalità del concorrente di
rendersi riconoscibile». Nella fattispecie, secondo la
sentenza, appare evidente come difetti anche questo
ulteriore requisito trattandosi di una indicazione
perfettamente plausibile e giustificabile alla luce della
traccia del quesito
(articolo ItaliaOggi del 28.02.2017).
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MASSIMA
6 – D’altra parte, il principio di
anonimato (espressione del valore dell’imparzialità e buon
andamento) va applicato con intelligenza, proporzionalità e
correlazione con l’altro fondamentale principio di massima
partecipazione possibile, a sua volta correlato con due
valori anch’essi di rango costituzionale: quello del lavoro
e quello del buon andamento, sotto l’altro profilo
dell’ampliamento della platea dei partecipanti per innalzare
la possibilità statistica di scegliere i migliori: sicché
non ogni “segno” astrattamente idoneo al
riconoscimento può assurgere a causa escludente.
7 - La giurisprudenza, infatti, ha
delineato i confini entro i quali opera la regola
dell'anonimato, individuando nell'idoneità del segno di
riconoscimento e nel suo utilizzo intenzionale, i due
elementi costitutivi della fattispecie legale.
8 - Quanto all'idoneità del segno, essa
consiste, sì, nell'astratta idoneità del segno a fungere da
elemento di identificazione, ma solo quando la particolarità
riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e
incontestabilmente” anomalo, rispetto alle ordinarie
modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione
dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando
che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa
siano stati o meno in condizione di riconoscere
effettivamente l'autore dell'elaborato"
(Cons. St., Sez. V, 11.01.2013, n. 102; nello stesso senso
Cons. St., Sez. V, 20.10.2008, n. 5114; Cons. St., Sez. IV,
20.09.2006, n. 5511).
Questa prima condizione (oggettività, incontestabilità,
irrilevanza di conoscenze personali) non sussiste nella
specie: l’indicazione del Liceo scientifico di Livorno non
assume i riportati connotati, sia in relazione al contenuto
della traccia del quesito, sia in mancanza di prove circa la
assoluta evidenza identificativa di quanto indicato (per un
caso analogo cfr. Cons. St., sez. V, 17/01/2014, n. 202).
9 - Quanto all’elemento psicologico della
fattispecie, si è escluso che possa operare un automatismo
tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione
della regola dell'anonimato, dovendo emergere elementi atti
a provare, anche qui in modo oggettivo ed inequivoco,
l'intenzionalità del concorrente di rendersi riconoscibile
(cfr. Cons. St., sez. V, 17/01/2014, n. 202; idem,
01.04.2011, n. 2025). Nella fattispecie, appare evidente
come difetti anche questo ulteriore requisito, trattandosi,
come più volte detto, di indicazione perfettamente
plausibile e giustificabile alla luce della traccia del
quesito.
10 – Peraltro e per concludere, la prova
più evidente della mancanza di una valenza identificativa
della collocazione logistica della risposta sta nel fatto
che il Collegio, pur ad un’attenta lettura dell’elaborato
fatta in preparazione e discussione dell’udienza camerale,
non era riuscito a capire quale fosse il “segno evidente”
di riconoscimento.
11 - Il ricorso va conclusivamente accolto, con conseguente
definitivo annullamento degli atti impugnati e relativa
condanna alle spese di giudizio. |
PUBBLICO IMPIEGO: Se
si guarisce prima del termine si deve tornare al lavoro.
Licenziamenti. Altrimenti cade il vincolo
fiduciario.
È legittimo il licenziamento per giusta
causa di un lavoratore che, in malattia per un infortunio
alla caviglia, viene sorpreso a lavorare nell’azienda di
famiglia nonostante fosse già completamente guarito.
Così si è
pronunciata la Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con
sentenza 10.02.2017 n. 3630,
compiendo un significativo passo in avanti rispetto
all’orientamento prevalente sul punto.
Nel caso di specie il lavoratore era stato ripreso da un
investigatore privato mentre aiutava la moglie nella
rosticceria di quest’ultima, riscaldando e vendendo i
prodotti, facendo le pulizie e persino scaricando la legna.
Il datore aveva quindi avviato un procedimento disciplinare
nei suoi confronti, contestando lo svolgimento di attività
extra-lavorativa durante il periodo di malattia; in seguito,
nonostante il lavoratore avesse negato tali accadimenti
durante la fase delle giustificazioni, la società gli aveva
intimato il licenziamento.
Sulla questione della sanzione applicabile al dipendente che
svolga attività presso terzi durante la malattia lo stato
dell’arte prevede che la stessa possa giustificare il
recesso datoriale in relazione alla violazione dei doveri
generali di correttezza e buona fede e degli specifici
obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, ma solo
qualora tale attività possa pregiudicare o ritardare la
guarigione e, quindi, il rientro in servizio del dipendente
(da ultimo, Cassazione 18507/2016).
La Corte d’appello, ribaltando la sentenza del tribunale che
aveva invalidato il licenziamento, ha ritenuto di dover
effettuare una valutazione complessiva della situazione di
fatto, valorizzando, in particolare, la perizia medica
d’ufficio svolta in primo grado, dalla quale emergeva che il
lavoratore, nei giorni in cui aveva lavorato per la moglie,
era completamente guarito e, pertanto, nuovamente in grado
di svolgere le proprie mansioni.
Per il giudice di secondo grado, se da un lato è vero che
questo accertamento permette di escludere a priori che lo
svolgimento dell’attività extra-lavorativa avesse inciso
sullo stato di salute del dipendente, è altresì da
considerare che in quelle giornate contestate quest’ultimo
avrebbe dovuto fornire la prestazione lavorativa al datore.
Infatti l’indicazione del periodo di riposo prescritto nel
certificato di malattia ha solo una valenza prognostica e
non legittima il lavoratore guarito prima del termine a non
rientrare al lavoro.
Il comportamento del dipendente, in violazione dell’obbligo
di diligenza previsto dall’articolo 2104 del codice civile,
è da ritenersi grave, in quanto incide sul dovere primario
dello stesso di svolgere la propria prestazione lavorativa,
e lesivo del vincolo fiduciario, visto il suo carattere
doloso derivante dalla negazione opposta durante il
procedimento disciplinare.
La Cassazione conferma il ragionamento del giudice di
appello, ribadendo la correttezza della scelta di
considerare la condotta del lavoratore nel suo complesso,
«senza limitarsi alla sola considerazione dell’incidenza
dell’attività lavorativa sui tempi di guarigione». Quanto al
diverso motivo di ricorso relativo all’impossibilità di
svolgere controlli difensivi tramite un investigatore
privato, la Corte si limita a ribadire l’orientamento per
cui tali verifiche sono legittime «anche in ragione del solo
sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di
esecuzione» (articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2017). |
ATTI
AMMINISTRATIVI - TRIBUTI: Notifiche,
la Pec non basta. Nulla la cartella di pagamento. È un pdf.
La Lapet sul valore probatorio della Posta elettronica
certificata.
Sulla invalidità delle notifiche delle cartelle di pagamento
tramite Posta elettronica certificata, ancora una volta la
Giurisprudenza si pronuncia in conformità alle osservazioni
Lapet.
A confermarlo la Commissione tributaria provinciale di
Savona che, con le recenti
sentenza 10.02.2017 n. 100/1/2017 e sentenza
10.02.2017 n. 101/1/2017, ha precisato che è nulla la
cartella di pagamento via Pec, in quanto il documento
allegato nella versione Pdf, non può essere considerato un
valido documento informatico, bensì una semplice copia
informatica e come tale priva di qualsivoglia valore
probatorio.
«È di tutta evidenza che una semplice copia non
può mai assumere un valore giuridico.
Il sistema Pec non può garantire infatti che il documento
allegato sia effettivamente l'originale», ha commentato il
presidente nazionale Roberto Falcone. Inoltre, la Pec non
garantisce neanche l'effettiva consegna al destinatario,
come invece avviene con la notifica a mezzo messo in quanto
pubblico ufficiale. I tributaristi concordano quindi che la
semplice disponibilità di un documento nella casella Pec,
non equivale all'avvenuta consegna del documento al
destinatario, il quale potrebbe non leggerla per svariate
ragioni. Senza considerare la conseguente incertezza sui
termini di decorrenza dell'atto ai fini della presentazione
di ricorso o appello.
«La notifica tramite Pec è pertanto
uno strumento costituzionalmente illegittimo poiché, in
termini di sistema, non garantisce alcuna libertà al
destinatario al fine di poter scegliere modalità, tempi e
dinamica di ricezione dell'atto o del documento informatico
ed eventualmente di poter esprimere rifiuto», ha aggiunto
Falcone. Ma veniamo ai fatti.
La vicenda trae origine da due
eventi collegati a una stessa srl di Savona a cui Equitalia
aveva notificato tramite Pec, una intimazione di pagamento
per presunte cartelle di pagamento notificate in precedenza.
La Società proponeva ricorso dinanzi la Commissione
tributaria provinciale di Savona, la quale accoglieva il
ricorso, nonostante l'Agente della riscossione avesse
dimostrato la notifica delle cartelle di pagamento ai sensi
dell'art. 26 del dpr n. 602 del 1973.
Secondo i giudici,
però, l'Agente della riscossione si era limitata ad allegare
il pdf della cartella alla Pec, non rispondendo così alle
caratteristiche necessarie per poter essere considerato un
documento informatico. La società, aveva, infatti,
predisposto una perizia in base alla quale il consulente
tecnico d'ufficio del tribunale, precisava che dall'esame
dei documenti inviati via Pec da Equitalia, si conclude che
gli stessi sono del tutto carenti di quelle procedure atte a
garantirne la genuina paternità, nonché mancanti della firma
informatica e/o digitale, e non rispondenti a criteri di
univocità ed immodificabilità, per cui non garantiscono il
valore di certezza e corrispondenza, peraltro confortato
dall'attestazione di conformità, del tutto assente, invece
previsti indefettibilmente dalle disposizioni normative.
«Ben venga l'intenzione del legislatore di incentivare
l'utilizzo dei sistemi informatici al fine di ottenere una
riduzione degli oneri sia per i contribuenti che per la
stessa pubblica amministrazione», ha precisato il
presidente, «tuttavia resta fondamentale garantire il
diritto di difesa del contribuente».
Al fine dunque di
assicurare una sempre maggiore compliance tra Pubblica
amministrazione e cittadino, il quale deve avere sempre
chiarezza e conoscenza dell'atto notificato, la Lapet torna
a suggerire, in aggiunta alla Pec, l'utilizzo della firma
elettronica digitale o il deposito elettronico dell'atto
presso soggetti terzi qualificati digitalmente
(articolo ItaliaOggi del 04.03.2017). |
TRIBUTI: Notifiche,
raccomandate informative. Contribuenti.
In caso di notifica dell'atto tributario a persona diversa
dal destinatario è obbligatorio l'invio e la ricezione della
lettera raccomandata «informativa» al contribuente. Non è
infatti sufficiente la sola spedizione.
Così la Corte di Cassazione, Sez. con
sentenza 03.02.2017 n. 2868.
I fatti del processo
- Il contenzioso fiscale nasceva dal
ricorso presentato dal contribuente avverso la cartella
esattoriale, in ordine alla quale lamentava la mancata
notifica dell'avviso di accertamento prodromico, in
violazione dell'art. 60, b-bis cit.
La citata norma dispone
infatti: «La notificazione degli avvisi e degli altri atti
che per legge devono essere notificati al contribuente è
eseguita» in virtù dell'art. 137 c.p.c. e seguenti, tuttavia
«con le seguenti modifiche», ossia la lettera b-bis)
stabilisce che «se il consegnatario non è il destinatario
dell'atto [ ] il messo dà notizia dell'avvenuta
notificazione dell'atto o dell'avviso, a mezzo di lettera
raccomandata».
La decisione
- Ebbene, secondo i giudici di Piazza Cavour,
«il tenore letterale della disposizione configura la
raccomandata informativa come un adempimento essenziale del
procedimento di notifica»: al pari della notifica per
irreperibilità relativa (art. 140 c.p.c.), anche
nell'ipotesi di cui alla lettera b-bis l'iter si perfeziona
quando sono stati «effettuati tutti gli adempimenti, incluso
l'inoltro al destinatario e l'effettiva ricezione della
raccomandata informativa del deposito dell'atto presso la
casa comunale, non essendone sufficiente la sola
spedizione».
In conclusione, in sede di notifica di un atto
tributario/esattivo, avvenuta a mani di soggetto diverso dal
destinatario, il messo è obbligato a trasmettere notizia
della notifica del provvedimento con invio e ricezione della
lettera informativa a favore del contribuente; in difetto,
il procedimento notificatorio si considera nullo, stante la
natura recettizia degli atti tributari (Cass. ss. uu. n.
19704/2015)
(articolo ItaliaOggi del 15.03.2017).
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MASSIMA
Il ricorso dell'Ufficio non è fondato e deve essere
rigettato con conseguente condanna del ricorrente al
pagamento delle spese.
L'art. 60 DPR n. 600 del 29.09.1973 per le notifiche degli
avvisi e degli altri atti che per legge devono essere
notificati al contribuente fa espresso rinvio alle norme
stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di
procedura civile ma ha previsto specifiche modifiche, nel
caso la notifica venga eseguita dai messi comunali o dai
messi speciali autorizzati dall'ufficio delle imposte
prevedendo che il messo deve fare sottoscrivere dal
consegnatario l'atto o l'avviso ovvero deve indicare i
motivi per i quali il consegnatario non ha sottoscritto e,
nel caso il consegnatario non sia il destinatario dell'atto
o dell'avviso, prevedendo alla lett. b)-bis , che il messo
consegni o depositi la copia dell'atto da notificare in
busta sigillata, su cui trascrive il numero cronologico
della notificazione, dandone atto nella relazione in calce
all'originale e alla copia dell'atto stesso.
Sulla busta non sono apposti segni o indicazioni dai quali
possa desumersi il contenuto dell'atto. Il consegnatario
deve sottoscrivere una ricevuta e il messo deve dare notizia
dell'avvenuta notificazione dell'atto o dell'avviso, a mezzo
di lettera raccomandata.
Il tenore letterale della disposizione configura la
raccomandata informativa come un adempimento essenziale del
procedimento di notifica: tale è l'orientamento
giurisprudenziale di questa Corte che, tenuto conto delle
pronunce della Corte Costituzionale n. 258 del 22.11.2012
relativa all'art. 26, comma 3 (ora 4), del d.P.R. n. 602 del
1973 e n. 3 del 2010 -che ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art. 140 c.p.c., nella parte in cui
prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario,
con la spedizione della raccomandata informativa, anziché
con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci
giorni dalla relativa spedizione- ha deciso che
nei casi di "irreperibilità cd. relativa" del
destinatario va applicato l'art. 140 c.p.c., in virtù del
combinato disposto del citato art. 26, ultimo comma, e
dell'art. 60, comma 1, alinea, del d.P.R. n. 600 del 1973,
sicché è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che
siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti,
incluso l'inoltro al destinatario e l'effettiva ricezione
della raccomandata informativa del deposito dell'atto presso
la casa comunale, non essendone sufficiente la sola
spedizione, Sez.
5, Sentenza n. 25079 del 26/11/2014 (Rv. 634229). |
VARI: Locali,
paga il titolare.
Il titolare dell'osteria all'estero per lavoro è comunque
responsabile penalmente di ciò che accade nel suo locale.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la
sentenza 27.01.2017 n. 3901
affermando il principio di diritto che in tema di disciplina
penale dei prodotti alimentari, la delega di funzioni può
operare quale limite della responsabilità penale del legale
rappresentante della impresa solo laddove le dimensioni
aziendali siano tali da giustificare la necessità di
decentrare alcuni compiti, mansioni specifiche e
responsabilità, ma non anche in caso di organizzazione a
struttura semplice comportante l'affidamento di fatto
dell'intera gestione a terzi.
Ciò in quanto tale situazione
non esclude la responsabilità in capo al legale
rappresentante. In caso contrario, la delega dell'intera
gestione finisce per essere uno strumento artificioso per
attribuire la responsabilità dal soggetto gravato di una
posizione di garanzia ad altro.
Nello specifico, il Collegio
ha affermato che se nell'ambito di grandi complessi
aziendali della ristorazione, la possibilità di trasferire
alcune funzioni e connesse responsabilità penali ad altri
soggetti qualificati in presenza di valida delega e che per
la validità della stessa non occorre la forma scritta, bensì
soltanto I requisiti della certezza e della chiarezza a
soggetto qualificato ed idoneo, il principio non può essere
applicato nella generalità dei casi.
In sostanza, la giurisprudenza di legittimità ammette che,
per necessità organizzative, sia utile una divisione dei
compiti tra i vari soggetti lavorativi, e che il titolare
dell'impresa, in presenza di una pluralità di adempimenti ai
quali non è in grado di ottemperare, possa trasferire alcune
sue funzioni e connesse responsabilità penali, a un
dipendente qualificato, autonomo e dotato di valida delega.
Ma è soltanto in questo caso che sul preposto grava il
compito di far rispettare le prescrizioni la cui
inosservanza è sanzionata penalmente
(articolo ItaliaOggi del 04.03.2017). |
TRIBUTI: Contributi
consortili, benefici da provare.
La sola inclusione del fondo del consorziato nel perimetro
di contribuenza non è sufficiente a determinare
l'assoggettamento al contributo; è, infatti, necessario che
sussista uno specifico beneficio derivante dalle opere
apprestate e tenute in buono stato manutentivo.
Sono le conclusioni che si leggono nella
sentenza 25.01.2017 n. 198/4/2017
emessa dalla IV Sez. della Commissione tributaria
provinciale di Lecce.
La Commissione fonda la decisione sulle indicazioni fornite
dalla Cassazione nella recente ordinanza n. 18458/2016 che
qui di seguito si riporta a stralcio: «il consorzio di
bonifica è esonerato dalla prova del beneficio fondiario
tutte le volte in cui sussista un piano di classifica,
approvato dalla competente autorità, recante i criteri di
riparto della contribuenza degli immobili compresi sia nel
perimetro consortile, sia nel comprensorio di bonifica.
Non
è perciò (...) onere del consorzio fornire la prova di avere
adempiuto a quanto indicato nel piano di classifica,
approvato dall'autorità regionale, dovendo intendersi
presunto il vantaggio diretto e immediato per i fondi del
consorziato in ragione della pacifica comprensione degli
immobili nel perimetro di intervento consortile e
dell'avvenuta approvazione dei piano di classifica, salva la
prova contraria del contribuente, da fornirsi mediante
dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o
anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il
fatto negativo dell'assenza di qualsivoglia beneficio
diretto e specifico per i fondi di proprietà del
contribuente».
L'indicata interpretazione della regola di
riparto ha ricevuto poi una ulteriore precisazione nelle
decisioni prese a sezioni unite dalla stessa cassazione, che
hanno circoscritto la presunzione di persistenza del diritto
dei consorzi, avente titolo nel provvedimento di perimetrazione, alla ipotesi in cui il consorziato non
contesti specificamente la legittimità del piano di
classificazione e riparto o la inesattezza del suo
contenuto.
Nello specifico caso trattato, la parte
ricorrente ha specificamente addotto una serie di elementi
dai quali può ritenersi dimostrato, quantomeno mediante
presunzioni, il fatto negativo dell'assenza di qualsivoglia
beneficio diretto e specifico per i fondi di proprietà. Il
collegio provinciale salentino, quindi, assoggetta la
debenza del tributo, a un effettivo vantaggio ricevuto dal
consorziato; nel caso in cui, alla contestazione specifica
del contribuente non faccia seguito una replica del
Consorzio, il ricorso dovrà essere accolto.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Commissione rileva: nel merito, il ricorso
appare fondato e, quindi, deve essere accolto, anche alla
luce della più recente ordinanza di Cassazione civile che
qui di seguito si riporta a stralcio (Cass. civ. Sez. V,
sent., 21/09/2016, n. 18458 (...)
L'indicata interpretazione della regola di riparto ha
ricevuto poi una ulteriore precisazione nelle decisioni
prese a sezioni unite, dinanzi richiamate, che hanno
circoscritto la presunzione di persistenza del diritto dei
consorzio, avente titolo nel provvedimento di perimetrazione,
alla ipotesi in cui il consorziato non contesti
specificamente la legittimità del piano di classificazione e
riparto o la inesattezza del suo contenuto: in tal caso,
infatti, venendo meno il presupposto che determina la
presunzione di legittimità della pretesa contributiva, viene
conseguentemente meno anche la giustificazione
dell'inversione dell'onere probatorio che fa gravare sul
consorziato la prova della difformità della pretesa rispetto
«all'an od quantum» dovuto in base ai criteri
stabiliti dagli atti amministrativi presupposti: ne consegue
che in detta ipotesi, non applicandosi la presunzione
derivante dall'inclusione nella perimetrazione, va applicata
la generale disciplina ex art. 2697 c.c., secondo cui colui
che intende far valere un diritto (il consorzio ) è tenuto a
fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa (...)
Ad avviso di questo Collegio si tratta di disposizioni che
non appaiono idonee a sostenere che, almeno per la regione
(...), la semplice inclusione nel perimetro di contribuenza
non sarebbe sufficiente a determinare l'assoggettamento al
contributo, essendo ulteriormente necessario il sussistere
di uno specifico beneficio derivante dalle opere apprestate
e tenute in buono stato manutentivo.
Alla vicenda oggetto del presente giudizio, la Commissione
osserva che parte ricorrente non si è limitata a una
generica contestazione circa la mancanza di benefici
derivanti dalle opere consortili, ma ha specificamente
addotto una serie di elementi dai quali può ritenersi
dimostrato, quantomeno mediante presunzioni, il fatto
negativo dell'assenza di qualsivoglia benefici diretto e
specifico per i fondi di proprietà del contribuente, situati
nel territorio dei comuni (...), per effetto della mancata
esecuzione da parte del Consorzio delle opere di bonifica e
manutenzione necessarie (...)
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017). |
INCARICHI PROFESSIONALI: Avvocato
vs cliente con le prove. Il legale deve giustificare
l'entità della parcella richiesta.
Una rassegna delle decisioni assunte dalla Cassazione e dal
Tar in materia di compensi.
L'ombra lunga della crisi mai come in questi anni si sta
facendo sentire anche nella professione legale e sempre più
sono le cause che vedono gli avvocati chiamare i loro
assistiti per farsi riconoscere dal giudice quanto gli è
dovuto per l'opera professionale prestata. Una serie di
recenti sentenze della Cassazione offrono una panoramica
abbastanza organica che certamente può offrire un valido
strumento al professionista nel suo quotidiano lavoro.
I
giudici della Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 24.01.2017 n.
1801, hanno ribadito come in tema di spese processuali, agli
effetti del dm 20/07/2012, n. 140, art. 41, i nuovi
parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei
professionisti, sono da applicare ogni qual volta la
liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo
alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si
riferisca al compenso spettante ad un avvocato che, a quella
data, non abbia ancora completato la propria prestazione
professionale.
Prova sull'avvocato.
Il discorso prende le mosse dalla somma che l'avvocato
asserisce di dover ricevere dal suo assistito. Sul punto la
Corte di cassazione (sez. II civile, sent. n. 26065 del
16/12/2016) ha affermato che per quanto riguarda il compenso
per prestazioni professionali, l'avvocato che agisca per
ottenere soddisfacimento di crediti inerenti all'attività
asseritamente prestata a favore del cliente, avrà l'onere di
dimostrare l'an del credito vantato e l'entità delle
prestazioni eseguite: e ciò anche per consentire la
determinazione quantitativa del compenso. Ed inoltre non
avrà rilevanza probatoria la parcella predisposta
dall'avvocato nell'ordinario giudizio di cognizione, né avrà
rilevanza vincolante il parere espresso dal Consiglio
dell'Ordine di appartenenza.
In particolare, in materia di
liquidazione degli onorari degli avvocati, prima della
abrogazione delle tariffe professionali ad opera del dl
24/01/2012, n. 1, il parere del Consiglio dell'Ordine era
volto solo ad attestare la conformità in astratto della
parcella alla tariffa, senza vincolo per il giudice circa
l'effettività della prestazione.
Mentre, perciò, ai fini
dell'emissione del decreto ingiuntivo a norma dell'art. 636 c.p.c., la prova dell'espletamento dell'opera e dell'entità
delle prestazioni può essere utilmente fornita con la
produzione della parcella e del relativo parere della
competente associazione professionale, tale documentazione
non è più sufficiente nel giudizio di opposizione, il quale
si svolge secondo le regole ordinarie della cognizione e
impone, quindi, al professionista, nella sua qualità di
attore, di fornire gli elementi dimostrativi della pretesa,
con la conseguenza che il giudice di merito non può assumere
come base di calcolo per la determinazione del compenso le
esposizioni di detta parcella contestate dal debitore.
Il valore della causa.
I giudici di piazza Cavour hanno, altresì evidenziato in una
più recente sentenza (sez. II civile, sentenza 25893/16 del
15/12) che al fine di determinare gli onorari a carico del
cliente sarà opportuno fare riferimento all'art. 6, c. 2,
della tariffa professionale approvata con il dm 127/2004,
che individua il valore della causa secondo le regole di cui
al codice di procedura civile.
Pertanto tale valore non
potrà essere determinato tenendo conto di quanto poi
effettivamente attribuito alla parte danneggiata che si
troverà a vincere il giudizio. Inoltre, nella stessa
sentenza gli Ermellini hanno osservato che è corretto che la
speciale procedura di liquidazione dei compensi per le
prestazioni giudiziali degli avvocati in materia civile,
regolata dagli art. 28 e ss. della legge 794/1942, non sia
applicabile quando la controversia riguardi non soltanto la
semplice determinazione della misura del corrispettivo
spettante al professionista, bensì anche altri oggetti di
accertamento e decisione, quali i presupposti stessi del
diritto al compenso, tra cui l'effettiva esecuzione delle
prestazioni.
Tar e compensi legali.
E infine, su quale fosse l'autorità giudiziaria chiamata a
decidere circa il compenso all'avvocato, è ormai pacifico
che i tribunali amministrativi regionali non hanno
competenze di merito circa il compenso dell'avvocato, poiché
tale compenso costituisce un diritto soggettivo.
È quanto
affermato dalle s.u. civili della Cassazione con sentenza
26907 del 23/6/2016.
Il diritto al compenso dei difensori,
nell'ambito di un procedimento amministrativo, ha natura di
diritto soggettivo e non può essere degradato ad interesse
legittimo, essendo estraneo alle competenze del Tar Il
difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello
Stato che proponga opposizione avverso il decreto di
pagamento dei compensi, contestando l'entità delle somme
liquidate, agisce in forza di una propria autonoma
legittimazione a tutela di un diritto soggettivo
patrimoniale, trattandosi di un giudizio autonomo -avente a
oggetto la controversia relativa alla spettanza e alla
liquidazione del compenso- e non consequenziale rispetto a
quello svoltosi davanti al Tar
(articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017). |
AMBIENTE-ECOLOGIA: Sulle
immissioni tolleranza zero. Danno biologico. Rumori molesti.
Il rumore del vicino
supera la normale tollerabilità? Se il “danno biologico” va
rigorosamente dimostrato
(Corte di Cassazione, Sez. II civile,
sentenza 12.01.2017 n. 661),
il risarcimento del
danno non patrimoniale scatta anche senza prova
dell’effettiva esistenza dei danni stessi: in questi termini
si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la
sentenza 20.01.2017 n. 1606
(relatore Antonio Scarpa).
Teatro della contesa, un cortile trevigiano: un fratello vi
esercita attività di lavorazione del ferro; l’altro vi abita
e ne subisce le immissioni, fin tanto che decide di
rivolgersi al Tribunale, che gli dà ragione. Le immissioni
superano di 3 dB il rumore di fondo, anche se solo in alcuni
giorni ed orari: il Tribunale ordina la cessazione delle
immissioni, l’inibizione all’uso di determinati macchinari e
il risarcimento dei danni.
La Corte d’Appello di Venezia conferma la condanna. E si
configura il reato di cui all’articolo 659 del Codice penale
(disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) e
scatta quindi l’obbligo di risarcire il danno non
patrimoniale, a norma dell’articolo 2059 del Codice civile.
La Corte di Cassazione, con sentenza 1606/2017, conferma i
due precedenti gradi e fa chiarezza nella materia:
a) in tema di immissioni, i rapporti tra privati proprietari di
fondi vicini vanno risolti sulla base dell’articolo 844 del
Codice civile, anche se vi siano norme più permissive che
disciplinino i rapporti con la pubblica amministrazione;
b) il limite di tollerabilità non è assoluto ma relativo alla
situazione ambientale, variabile da luogo a luogo e non può
prescindere dalla rumorosità di fondo;
c) solo un esperto, scelto dal giudice, è in grado di accertare
strumentalmente l’intensità dei suoni o delle emissioni di
vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le
persone, mentre i testimoni tendono ad esprimere giudizi
valutativi di tipo soggettivo;
d) il danno non patrimoniale da immissioni illecite è risarcibile
anche in assenza di un danno biologico documentato, «quando
sia riferibile alla lesione del diritto al normale
svolgimento della vita familiare all’interno della propria
abitazione e del diritto alla piena esplicazione delle
proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti
costituzionalmente garantiti».
L’accertata esposizione ad immissioni intollerabili, invece,
non costituisce di per sé prova dell’esistenza di danno agli
immobili limitrofi (articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2017).
---------------
MASSIMA
Ora, il ricorrente Er.Pa. si lamenta che la Corte
d'Appello abbia dato peso alle sole indagini svolte dal
consulente
tecnico d'ufficio e non abbia considerato le proprie
deduzioni di
prova testimoniale.
Vertendosi in giudizio relativo ad
immissioni
(nella specie di rumori ed esalazioni provocati dallo
svolgimento di
attività di officina fabbrile), i mezzi di prova esperibili
per accertare
il livello di normale tollerabilità previsto dall'art. 844
c.c.
costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica,
che
vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza
tecnica
d'ufficio con funzione "percipiente", in quanto soltanto un
esperto è
in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli
strumenti
di cui dispone, l'intensità dei suoni o delle emissioni di
vapori o gas,
nonché il loro grado di sopportabilità per le persone.
Mentre, in tale
materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto
quando
verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale
dei
deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi
(come tali
vietati ai testi: cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1245 del
04/03/1981;
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).
Essenzialmente, Er.Pa. si lamenta che prima il
CTU e
poi la Corte d'Appello non abbiano tenuto in debito conto
l'art. 16
Allegato A del Decreto Ministero dell'Ambiente 16.03.1998,
concernente le Tecniche di rilevamento e di misurazione
dell'inquinamento acustico, norma che, per il periodo
diurno, prende
in considerazione la presenza di rumore a tempo parziale nel
caso di
persistenza dello stesso per un tempo totale non superiore
ad un'ora
(quale si assume essere il caso per cui è causa) e
stabilisce una
diminuzione del valore del rumore ambientale di 3 dB(A).
Tale reiterata deduzione del ricorrente trascura il
consolidato
orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema, appunto,
di
immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo
alle
modalità di rilevamento o all'intensità dei rumori, da leggi
speciali o
regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico,
operando nei
rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri
meno rigorosi
di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art.
844 c.c., e non
regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati
proprietari di
fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell'art. 844
c.c., disciplina
che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve
attenersi,
rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla
tollerabilità
delle stesse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002;
Cass.
Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 2319 del 01/02/2011; Cass. Sez. 2,
Sentenza
n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5697 del
18/04/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del 17/01/2011).
I criteri dettati dal d.m. 16.03.1998 attengono,
piuttosto, al
superamento dei valori limite differenziali di immissione di
rumore
nell'esercizio o nell'impiego di sorgente di emissioni
sonore, di cui
all'art. 6, comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447, e
sono volti
a proteggere la salute pubblica mediante predisposizione di
apposito
illecito amministrativo (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n.
28386 del
22/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).
Perciò la Corte d'Appello di Venezia ha definito irrilevante
accertare per quante ore al giorno venissero utilizzati gli
strumenti
da lavoro rumorosi, ed ha invece stimato decisiva la
verifica,
confortata dalle risultanze peritali, che ogni singola
macchina
adoperata nell'officina fabbrile cagionasse un rumore
percepito
nell'abitazione dei vicini come eccedente di 3 db rispetto
al rumore
ambientale di fondo.
La sentenza impugnata ha correttamente
considerato, in sostanza, prive di significatività le
disposizioni
ministeriali sulle modalità di rilevamento dei rumori
cosiddetti "a
tempo parziale", valutando comunque illecite le immissioni
sulla
base di un giudizio di tollerabilità formulato ai sensi
dell'art. 844
c.c., tenendo presente, fra l'altro, la vicinanza dei luoghi
e i possibili
effetti dannosi per la salute delle immissioni.
Il limite di
tollerabilità
delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma
relativo
proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a
luogo,
secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli
abitanti, e
non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla
fascia
rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i
rumori
denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio
comparativo),
sicché la valutazione ex art. 844 c.c, diretta a stabilire
se i rumori
restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere
riferita,
da un lato, alla sensibilità dell'uomo medio e, dall'altro,
alla
situazione locale.
Spetta, pertanto, al giudice di merito
accertare in
concreto il superamento della normale tollerabilità e
individuare gli
accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito
della
stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di fatto,
sicché nel
giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di
Cassazione di
prendere direttamente in esame l'intensità, la durata, o la
frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una
diversa valutazione
di sopportabilità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17051 del
05/08/2011;
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010; Cass. Sez. 2,
Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).
Quanto al quinto motivo del ricorso di Er.Pa.,
questa
Corte intende dare continuità all'orientamento già da essa
espresso,
per il quale il danno non patrimoniale conseguente ad
immissioni
illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza
di un danno
biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del
diritto al
normale svolgimento della vita familiare all'interno della
propria
abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione
delle proprie
abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti
costituzionalmente
garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata
dall'art. 8 della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo, norma alla quale
il
giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd.
"comunitarizzazione" della Cedu (Cass. Sez. 3, Sentenza n.
20927
del 16/10/2015; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26899 del
19/12/2014).
La
Corte di Venezia ha proprio affermato l'esistenza di un
pregiudizio
alla libera e normale esplicazione della personalità ed alla
qualità
della vita di Br.Pa., Ma.Za., Ge.Pa. e
Al.Pa., pregiudizio riconducibile allo stress ed
al grave
disagio provocato dalle immissioni sonore provenienti dalla
vicina
officina e percepibili nell'abitazione di quelli.
II. Il sesto motivo del ricorso di Er.Pa.
denuncia il
vizio di motivazione e "la falsa applicazione dell'art. 659,
comma 1,
c.p. nella fattispecie concreta", non essendo stati superati
i limiti fissati dalla legge n. 447/1995. E' opportuno
l'esame congiunto di
tale sesto motivo del ricorso principale con il secondo
motivo del
ricorso incidentale di Br.Pa., Ma.Za., Ge.Pa. e
Al.Pa., che censura la violazione e/o falsa
applicazione
dell'art. 674 c.p. e l'omessa, insufficiente e
contraddittoria
motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la
stessa ha
negato la configurabilità di tale reato.
11.1. Al riguardo, la Corte di Venezia ha ritenuto nella
specie
ravvisabili gli estremi del reato di cui all'art. 659 c.p.
(Disturbo
delle occupazioni o del riposo delle persone), sussistendo
la
potenzialità del rumore ad investire tutti coloro che ne
sono a
contatto, mentre ha escluso la configurabilità dell'art. 674
c.p.
(Getto pericoloso di cose), non essendo verificata
l'attitudine del
materiale per la verniciatura utilizzato da Er.Pa. a
creare offesa o molestia.
Il sesto motivo del ricorso principale ed il secondo motivo
del
ricorso incidentale sono infondati in quanto
quel che rileva
ai fini
della risarcibilità del danno non patrimoniale a norma
dell'art. 2059
c.c., in relazione all'art. 185 c.p., non è che il fatto
illecito integri, in
concreto, un reato piuttosto che un altro, né occorre una
condanna
penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto
stesso sia
soltanto astrattamente previsto come reato, sicché è
sufficiente a tal
fine l'accertamento, da parte del giudice civile, della
sussistenza,
secondo la legge penale, degli elementi costitutivi di una
fattispecie incriminatrice (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13085 del
24/06/2015;
Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22020 del 19/10/2007).
La Corte d'Appello di Venezia ha dunque sostenuto l'astratta
configurabilità, a fini risarcitori, del reato cui al comma
primo
dell'art. 659, c.p., avendo accertato che l'attività di
officina veniva
svolta con modalità idonee a disturbare le occupazioni o il
riposo
delle persone, ovvero la pubblica quiete; ha invece negato
l'ipotizzabilità del reato di cui all'art 674 c.p., non
reputando
comprovata l'attitudine delle emissioni di gas, vapori o
fumi a
molestare persone.
Ciò è stato esplicitato dai giudici del
merito
mediante congrua motivazione sul convincimento maturato al
riguardo in base agli elementi probatori disponibili ed in
conformità
all'interpretazione che di tali due norme esprime questa
Corte (Cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 42026 del 18/09/2014; Cass. pen.
Sez. 3,
Sentenza n. 5735 del 21/01/2015; Cass. pen. Sez. 3, Sentenza
n. 760
del 10/12/2002; Cass. pen. Sez. 1, Sentenza n. 5215 del
07/04/1995).
I ricorrenti incidentali, peraltro, non
rivelano quale
interesse abbiano a che la condotta di Er.Pa.,
già
valutata dalla Corte d'Appello rilevante ai fini della
risarcibilità del
danno non patrimoniale perché riferibile al reato di cui
all'art. 659
c.p., sia invece qualificata come integrante il diverso
reato ex art.
674 c.p., potendo comprendersi l'invocazione di una diversa
qualificazione giuridica del fatto di reato rivolta al
giudice civile sol
quando da essa discendano conseguenze sotto il profilo del
diritto al
risarcimento, come, ad esempio, agli effetti della durata
della
prescrizione ex art. 2947, comma 3, c.c.. |
EDILIZIA PRIVATA: Impianti
pubblicitari, no doppioni. Placet p.a..
Il comune non può chiedere un titolo edilizio per un
impianto pubblicitario autorizzato ai sensi del codice della
strada. Duplicare il procedimento amministrativo non è
infatti necessario ed opportuno.
Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la
sentenza 19.01.2017 n. 244.
Un comune ha ordinato la demolizione di un impianto
pubblicitario perché realizzato in assenza del permesso di
costruire. Il Tar ha confermato la determinazione comunale
ma il Cds ha ribaltato la vicenda.
L'autorizzazione comunale per gli impianti pubblicitari ha
anche una valenza urbanistico-edilizia ed assolve, pertanto,
all'esigenza di tutela sottesa al rilascio di un ulteriore
titolo abilitativo rappresentato dal permesso di costruire.
In buona sostanza non è possibile duplicare un procedimento
di questo tipo richiedendo al soggetto interessato
all'installazione di un impianto pubblicitario sia una
licenza edilizia che una autorizzazione ex art. 23 codice
della strada. Anche se esistono pronunce contrarie che
risultano ormai superate
(articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017). |
TRIBUTI: Interrogatori
annunciati. Domande a sorpresa? Accertamento nullo.
Una sentenza della Ctp di Reggio Emilia a
tutela del contribuente.
L'interrogatorio a sorpresa del fisco rende nullo
l'accertamento. L'amministrazione finanziaria non può basare
le sue pretese su informazioni rese verbalmente da un
contribuente che, convocato per esibire alcuni documenti
contabili, non era stato informato prima delle domande.
Anche se il soggetto ha spontaneamente risposto ai quesiti.
Tale modalità di procedere, infatti, viola i principi di
collaborazione e buona fede richiesti dalla legge n.
212/2000.
È quanto stabilito dalla Ctp Reggio Emilia nella
sentenza 19.01.2017 n. 38/2/2017.
Il caso vedeva coinvolto un panificio, raggiunto dalla
richiesta dell'Agenzia delle entrate di produrre
documentazione contabile relativa all'anno 2010. Il legale
rappresentante del forno era invitato nella missiva «a
presentarsi personalmente presso l'ufficio». Durante
l'incontro, tuttavia, l'imprenditore era stato «sottoposto a
sorpresa a un vero e proprio interrogatorio», si legge nella
sentenza, «quattro pagine di domande preconfezionate con la
richiesta di numeri e percentuali di resa».
Da qui il ricorso della snc e dei suoi soci, fondato tra
l'altro sull'illegittima modalità di acquisizione di tali
informazioni, sulle quali poi l'ufficio aveva basato il
proprio accertamento induttivo. Tesi accolta dai giudici
emiliani. «L'Agenzia ha proceduto a un atto,
l'interrogatorio, della cui eventualità il legale
rappresentante non era stato edotto», osserva la Ctp, «con
ciò violando il principio di buona fede cui è tenuta la
p.a.».
La metodologia delle Entrate viene bocciata anche
alla luce del fatto che il contribuente «sia stato
esplicitamente invitato a presentarsi personalmente»,
prosegue la sentenza, «essendo l'utilizzo dell'avverbio
sintomo del fatto che l'Agenzia avesse già predisposto le
domande e volesse essere sicura che fosse il legale
rappresentante a presentarsi, onde poterlo “interrogare”, e
non un suo inviato».
Le informazioni ottenute dall'ufficio nelle risposte verbali
del contribuente, pertanto, sono da considerarsi «inutilizzabili».
Da qui l'annullamento dell'atto impugnato, con la condanna
dell'ufficio a rifondere all'impresa le spese del giudizio
(articolo ItaliaOggi del 24.03.2017). |
TRIBUTI: Entrate
locali, recupero entro 5 anni.
Il recupero del credito riguardante la tassa rifiuti è
soggetto al termine di prescrizione quinquennale poiché si
tratta di una prestazione periodica a carico del
contribuente. Dunque le azioni esecutive esperite da
Equitalia, o da altri soggetti incaricati dalle
amministrazioni comunali che riscuotono a mezzo ingiunzione,
non possono essere adottate oltre il termine di 5 anni, a
meno che non sia stato notificato un atto interruttivo della
prescrizione. Il termine quinquennale vale anche per le
ganasce fiscali. Infatti, è illegittimo il provvedimento di
fermo amministrativo emanato oltre i 5 anni, ancorché si
tratti di una misura cautelare. Questo breve termine
prescrizionale si applica a tutti i tributi e entrate locali
che si pagano ad anno o frazione di anno.
Lo ha affermato la Ctr di Roma, con la sentenza
17.01.2017 n. 47.
Nel caso in esame, tra la notifica della
cartella Tarsu e il provvedimento di fermo dell'autovettura
erano trascorsi più di 5 anni, senza che l'esattore avesse
emanato medio tempore un atto interruttivo della
prescrizione o un'intimazione di pagamento. Per i giudici
d'appello in questo caso non può essere invocato il termine
di prescrizione decennale.
Trattandosi di una prestazione
periodica va applicata la regola contenuta nell'articolo
2948 del codice civile, secondo cui il termine per
recuperare il credito si riduce a 5 anni per tutto ciò che
si paga periodicamente ad anno o in termini più brevi.
Secondo la commissione regionale, «la disposizione codicistica trova applicazione nella ipotesi di prestazioni
periodiche in relazione a una causa debendi continuativa,
mentre la medesima norma non trova applicazione nella
ipotesi di debito unico».
E questa regola vale non solo per
la Tari ma, per i giudici tributari, è applicabile più in
generale alle entrate locali che si pagano periodicamente,
poiché «non è revocabile in dubbio che i pagamenti dei
tributi locali di cui si tratta hanno cadenza annuale o in
termini più brevi, in ragione di mesi, con ciò rientrando,
sotto il profilo testuale, nella disposizione in parola».
Per fermare il termine quinquennale è necessario notificare
al debitore un atto interruttivo della prescrizione, che
blocchi il suo decorso e lo faccia ripartire da zero.
Peraltro l'articolo 50, comma 2, del dpr 602/1973 obbliga Equitalia o il concessionario della riscossione, dopo un
anno dalla notifica della cartella o dell'ingiunzione, a
emanare un'intimazione al debitore prima di avviare le
procedure esecutive
(articolo ItaliaOggi dell'01.03.2017). |
URBANISTICA: Il
termine per impugnare la variante ad un p.r.g. che non è
destinata a disciplinare l'intero territorio comunale, ma ha
un contenuto particolare che incide in concreto soltanto su
alcune aree, non decorre dalla pubblicazione (in genere
della delibera regionale di approvazione nel BUR) e neppure
dall'ultimo giorno della pubblicazione all'Albo Pretorio
dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei
documenti relativi al piano approvato, bensì dalla data in
cui risulta che l'interessato abbia acquisito la piena
conoscenza degli atti impugnati.
----------------
Sotto il profilo della pianificazione attuativa,
l’impugnativa appare ammissibile e tempestiva sia rispetto
al solo atto di approvazione sia a fronte della determina
conclusiva successiva alla conferenza di servizi:
- sotto il primo versante, in quanto l’impugnativa
della previa adozione costituisce pacifico esercizio
facoltativo, come più volte ribadito dalla giurisprudenza
condivisa dal Collegio a mente della quale “l'impugnazione
della delibera di adozione dello strumento urbanistico,
sebbene immediatamente lesiva, costituisce soltanto una
facoltà, in quanto i vizi ad essa riferibili possono essere
dedotti in sede di impugnazione della deliberazione di
approvazione”;
- sotto il secondo versante, in quanto costituisce
parimenti principio consolidato quello per cui la
determinazione della conferenza, anche se di tipo decisorio,
ha mera valenza endoprocedimentale, posto che solo la
determinazione adottata dall'Amministrazione competente
all'esito della Conferenza di Servizi, rappresenta il
provvedimento conclusivo del procedimento e impugnabile in
sede giurisdizionale.
---------------
Va ribadito con la migliore giurisprudenza che il termine
per impugnare il piano particolareggiato da parte dei
soggetti che da esso si reputano direttamente incisi
comincia a decorrere dalla notifica individuale ovvero dalla
piena conoscenza e non dalla sua pubblicazione all'albo
pretorio.
---------------
3.1 Sotto il profilo generale, va ribadito con la condivisa
e prevalente opinione giurisprudenziale che il termine per
impugnare la variante ad un p.r.g. che non è destinata a
disciplinare l'intero territorio comunale, ma ha un
contenuto particolare che incide in concreto soltanto su
alcune aree, non decorre dalla pubblicazione (in genere
della delibera regionale di approvazione nel BUR) e neppure
dall'ultimo giorno della pubblicazione all'Albo Pretorio
dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei
documenti relativi al piano approvato, bensì dalla data in
cui risulta che l'interessato abbia acquisito la piena
conoscenza degli atti impugnati (cfr. ex multis CdS
n. 922/2013 e 7502/2004); ciò in specie nei confronti dei
soggetti proprietari di aree diverse, sebbene limitrofe a
quelle direttamente disciplinate dalla variante di estremo
dettaglio, quale quella di specie.
3.2 Sotto il profilo della pianificazione attuativa, poi,
l’impugnativa appare ammissibile e tempestiva, sia rispetto
al solo atto di approvazione, sia a fronte della determina
conclusiva successiva alla conferenza di servizi: sotto il
primo versante, in quanto l’impugnativa della previa
adozione costituisce pacifico esercizio facoltativo, come
più volte ribadito dalla giurisprudenza condivisa dal
Collegio a mente della quale “l'impugnazione della
delibera di adozione dello strumento urbanistico, sebbene
immediatamente lesiva, costituisce soltanto una facoltà, in
quanto i vizi ad essa riferibili possono essere dedotti in
sede di impugnazione della deliberazione di approvazione”;
sotto il secondo versante, in quanto costituisce
parimenti principio consolidato quello per cui la
determinazione della conferenza, anche se di tipo decisorio,
ha mera valenza endoprocedimentale, posto che solo la
determinazione adottata dall'Amministrazione competente
all'esito della Conferenza di Servizi, rappresenta il
provvedimento conclusivo del procedimento e impugnabile in
sede giurisdizionale.
A quest’ultimo riguardo il principio si coniuga con l’altro,
a mente del quale la Conferenza di Servizi costituisce un
modulo organizzativo volto all'acquisizione dell'avviso di
tutte le Amministrazioni preposte alla cura dei diversi
interessi rilevanti, finalizzato all'accelerazione dei tempi
procedurali, mediante un esame contestuale di tutti gli
interessi pubblici coinvolti, per cui la Conferenza non si
identifica con un nuovo organo separato dai singoli
partecipanti, non trattandosi di organo collegiale oppure di
ufficio speciale della P.A..
Nel caso di specie, pertanto, l’impugnativa appare
ammissibile e tempestiva in relazione all’atto provinciale
di approvazione del p.u.o. sulla scorta delle indicazioni
emerse in sede di conferenza di servizi deliberante, di cui
l’atto provinciale stesso costituisce determinazione
conclusiva ai sensi della disciplina di cui all’art. 14-ter
legge 241 cit..
Inoltre, va ribadito con la migliore giurisprudenza che il
termine per impugnare il piano particolareggiato da parte
dei soggetti che da esso si reputano direttamente incisi
comincia a decorrere dalla notifica individuale ovvero dalla
piena conoscenza e non dalla sua pubblicazione all'albo
pretorio (Tar Lazio 3023/2011)
(TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 02.07.2013 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
Assume
rilievo di principio l’obbligo di previa sottoposizione a v.a.s. delle scelte urbanistiche,
comportanti per un comparto specifico il raddoppio delle
volumetrie rispetto al pregresso ed il pesante convolgimento
di elementi di rilevante impatto ambientale, a partire dalla
falda acquifera.
Al riguardo, ancora di recente, e rispetto ad un ordinamento
simile al nostro in tema di classificazione dei piani, la
Corte giustizia UE ha
avuto modo di precisare, in termini di principio rispetto ai
quali le eventuali previsioni di dettaglio contrarie
scontano l’obbligo di disapplicazione, che la nozione di
piani e programmi "previsti da disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative", di cui all'art. 2, lett.
a), della direttiva 2001/42, deve essere interpretata nel
senso che essa riguarda anche i piani regolatori
particolareggiati, come quello oggetto del procedimento
principale; ciò in quanto non può essere accolta
un'interpretazione che porterebbe ad escludere dall'ambito
di applicazione della direttiva 2001/42 tutti i piani e
programmi, segnatamente quelli riguardanti l'assetto del
territorio, per il solo motivo che una tale adozione non
avrebbe in ogni caso carattere obbligatorio.
In sostanza, la disciplina VAS (art. 3 della direttiva
2001/41/CE) impone agli Stati membri di attuare «piani e
programmi» che possono avere effetti significativi
sull'ambiente, sottoponendoli ad una valutazione ambientale.
Nel caso di specie l’impatto significativo sull’ambiente è
emerso sin dall’origine degli approfondimenti istruttori.
---------------
La VAS, quale processo a supporto dell'attività di gestione
del territorio e delle connesse scelte di programmazione e
di pianificazione, prima che queste vengano tradotte in
interventi diretti (autorizzazioni, concessioni ecc.), e non
quale strumento di verifica a posteriori delle scelte di
pianificazione, ben può radicarsi con lo strumento del piano
o programma urbanistico-territoriale.
Strumento mediante il quale le Autorità sono chiamate allo
studio organico del territorio, della gestione delle sue
risorse, all'obbligo preventivo di coinvolgimento di tutte
le parti, mediante l'avvio delle procedure di informazione e
di consultazione dell'opinione pubblica, in ordine a
qualsiasi decisione futura che inerisca un qualunque assetto
territoriale.
L'obiettivo essenziale della direttiva VAS consiste nel
sottoporre a valutazione ambientale, i piani e programmi che
possono avere effetti significativi sull'ambiente, durante
la loro elaborazione e prima della loro adozione. La VAS, al
pari di qualsiasi atto programmatico e strategico richiede
che siano esaminate le informazioni riguardanti gli aspetti
pertinenti allo stato attuale dell'ambiente e alla sua
evoluzione probabile, con o senza la previsione del piano o
del programma di riferimento, nonché alla decisione della
sua modifica o abrogazione.
È in questo contesto che la direttiva (art. 2) prevede
l'obbligo della VAS per qualsiasi piano e programma previsto
da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative,
elaborato e/o adottato da un'Autorità a livello nazionale,
regionale o locale per essere approvato mediante una
procedura legislativa dal Parlamento o dal Governo, financo
per qualsiasi modifica dei medesimi piani o programmi già
adottati.
Su tale ultimo richiamo normativo, la Corte di giustizia,
nell'ambito del decisum pregiudiziale, afferma che la VAS
trova applicazione anche in caso di modifica o abrogazione,
totale o parziale, dello strumento di pianificazione, nella
specie, del piano regolatore preso a riferimento. Ciò in
quanto anche il venir meno dell'efficacia, integrale o
parziale, della strumentazione di pianificazione in essere o
una sua modifica, può comportare la genesi o l'aumento degli
effetti significativi sull'ambiente. Di conseguenza, una
nuova VAS deve essere immediatamente apprestata prima di
procedere a deliberare le varianti della pianificazione in
essere.
La configurazione empirica della VAS, che emerge anche dalle
chiare indicazioni della Corte di Giustizia, consente di
avvalorare la sua connotazione quale impianto giuridico
sperimentale, tale da presentarsi particolarmente flessibile
e da assorbire e inglobare le diversificate metodologie di
impiego e di studio del territorio, ove accomunate allo
scopo di assicurare un controllo ex ante, in itinere ed ex
post dei possibili impatti ambientali. Sono sottoposti
all'obbligo della VAS tutti quegli strumenti urbanistici
muniti di «indicatori di performance», che verificano il
livello di conseguimento degli obiettivi assunti e generati
sulla città e sul territorio e che permettono di
quantificare se, quando e quanto gli obiettivi di piano
siano raggiunti.
La connotazione duttile e plasmabile della VAS è invece
assente in altri strumenti quali la VIA deputata a singoli
progetti, in cui è richiesto un approccio più circoscritto
ed unidirezionale. Nel caso di specie, peraltro, pur dinanzi
alla rilevanza della trasformazione ed all’impatto
sull’ambiente sono state omesse entrambe le valutazioni, e
si è svolta solo ex post la mera verifica screening.
---------------
4.3 A propria volta,
la normativa ambientale impone lo svolgimento di una serie
di verifiche preliminari. Sia quelle di dettaglio, solo in
seguito avviate e che hanno portato a modifiche tali da
rendere non coincidente quanto approvato a livello
urbanistico con quanto assentito a livello ambientale, sia
più generali in termini di valutazione ambientale
strategica.
In tale contesto sia normativo che fattuale, anche dinanzi
alle peculiarità della zona e dell’intervento, assume
rilievo parimenti di principio l’obbligo di previa
sottoposizione a v.a.s. delle scelte urbanistiche,
comportanti per un comparto specifico il raddoppio delle
volumetrie rispetto al pregresso ed il pesante convolgimento
di elementi di rilevante impatto ambientale, a partire dalla
falda acquifera.
Al riguardo, ancora di recente, e rispetto ad un ordinamento
simile al nostro in tema di classificazione dei piani, la
Corte giustizia UE (cfr. sez. IV, 22.03.2012, n. 567) ha
avuto modo di precisare, in termini di principio rispetto ai
quali le eventuali previsioni di dettaglio contrarie
scontano l’obbligo di disapplicazione, che la nozione di
piani e programmi "previsti da disposizioni legislative,
regolamentari o amministrative", di cui all'art. 2, lett.
a), della direttiva 2001/42, deve essere interpretata nel
senso che essa riguarda anche i piani regolatori
particolareggiati, come quello oggetto del procedimento
principale; ciò in quanto non può essere accolta
un'interpretazione che porterebbe ad escludere dall'ambito
di applicazione della direttiva 2001/42 tutti i piani e
programmi, segnatamente quelli riguardanti l'assetto del
territorio, per il solo motivo che una tale adozione non
avrebbe in ogni caso carattere obbligatorio.
In sostanza, la disciplina VAS (art. 3 della direttiva
2001/41/CE) impone agli Stati membri di attuare «piani e
programmi» che possono avere effetti significativi
sull'ambiente, sottoponendoli ad una valutazione ambientale.
Nel caso di specie l’impatto significativo sull’ambiente è
emerso sin dall’origine degli approfondimenti istruttori.
...
In via generale, come detto la disciplina VAS ex art. 3
della direttiva invocata impone agli Stati membri di attuare
«piani e programmi» che possono avere effetti
significativi sull'ambiente, sottoponendoli ad una
valutazione ambientale. Tale obbligo discende in termini
immediatamente precettivi sulla scorta dei principi predetti
e della normativa attuativa di cui al d.lgs. 152 del 2006,
la quale va intesa in tali termini. Le eventuali diverse
indicazioni di dettaglio –comprese quelle invocate dalle
difese resistenti- vanno esaminate in termini restrittivi
ovvero di disapplicazione per contrasto col principio.
L'art. 3, comma 2 della direttiva aggiunge che «fatto salvo
il par. 3 viene effettuata una valutazione ambientale per
tutti i piani e i programmi, che sono elaborati per i
settori agricolo, forestale, della pesca, energetico,
industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e
delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della
pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli,
e che definiscono il quadro di riferimento per
l'autorizzazione dei progetti elencati negli allegati I e II
della direttiva [85/337/CEE], o per i quali, in
considerazione dei possibili effetti sui siti, si ritiene
necessaria una valutazione ai sensi degli articoli 6 o 7
della direttiva 92/43/CEE».
Di conseguenza, gli Stati adempiono a tale obbligo (e non
facoltà), ponendo in essere tutte quelle modalità
organizzative opportune e apprestando le risorse necessarie,
per realizzare l'obiettivo indicato. Completa tale
adempimento la divulgazione dell'informazione ai cittadini,
in modo chiaro e trasparente, che tale attività è esercitata
mediante un atto vincolante, non facilmente modificabile, e
in attuazione di quella precisa normativa di rango primario
che trova applicazione.
A propria volta il paragrafo 3 prevede la possibilità di
esclusione per i piani che determinano l’uso di piccole
aree, pur dovendo a priori scontare la determinazione del
concetto di piccola area (e nel caso di specie rispetto al
contesto interessato l’area è tutt’altro che piccola),
unicamente in assenza di effetti significativi
sull’ambiente; questi ultimi invece sono ampiamente presenti
nel caso de quo, come emerso sin dall’origine a fronte delle
diverse problematiche idrogeologiche e geotecniche
evidenziate e non adeguatamente approfondite.
Con la sentenza della Corte di Giustizia, sopra richiamata,
anche lo strumento programmatico del «piano regolatore
particolareggiato» (esaminato nell'ordinamento belga),
può integrare la nozione di «piano e programma»
ricompreso nell'art. 2, tale da essere sottoposto
obbligatoriamente alle norme relative alla valutazione
ambientale strategica.
L'occasione della pronuncia pregiudiziale afferente allo
strumento urbanistico belga, attrae l'attenzione di tutti
gli ordinamenti statali, compreso il nostro che utilizza
metodologie programmatiche similari. Infatti, come
evidenziato in dottrina, nell'ordinamento belga, (preso di
riferimento nella sentenza in commento), il Code Bruxellois
de l'Aménagement du Territoire, modificato dalla legge del
2009 menziona tra le varie categorie di piani: il piano di
sviluppo regionale; il piano regolatore regionale; i piani
di sviluppo comunali; il piano regolatore particolareggiato
etc.
Nell'ordinamento italiano si possono richiamare, senza
presunzione di esaustività, il Piano regolatore generale (PRG),
il piano per l'edilizia economica e popolare (PEEP), i piani
di settore; il piano territoriale di coordinamento (PTC), i
piani territoriali paesistici (PTP), il piano di
fabbricazione (PdF), il piano particolareggiato esecutivo (PPE),
il piano esecutivo convenzionato (PEC), il piano per
insediamenti produttivi (PIP), il piano di recupero del
patrimonio edilizio esistente (PdR) e tutta una ulteriore
serie di piani di dettaglio, cui la fantasia dei legislatori
regionali ha dato nuova linfa. In Italia, tali strumenti
prendono avvio anche prima della legge quadro del
17.08.1942, n. 1150 (vd. i Piani paesistici che trovano la
loro fonte nella legge n. 1497 del 1939).
Una visione di insieme in sede dottrinale ha portato a
riassumere il fenomeno quale passaggio in quattro tappe:
a)
da un approccio territoriale generale con la legge quadro
1150/1942,
b)
alle leggi di supporto (167/1962; 765/1967; 865/1971;
10/1977; 431/1985, 142/1990 ecc.) per settori specifici
(edilizia popolare, standard, ecc.) sempre di respiro
statale,
c)
alla visione più circoscritta nell'ambito territoriale delle
singole Regioni dal 1972 così determinando nuove normative
per i vari settori dell'edilizia, dell'urbanistica e del
territorio per una gestione che dal governo centrale cede a
quello a regionale,
d)
alla rivalutazione del ruolo delle città e delle
peculiarità delle risorse che ineriscono all'area
territoriale, in senso stretto, determinando una visione più
capillare delle problematiche locali anche per contesti non
considerati oculatamente in precedenza (es. tutela del
paesaggio e della difesa dell'ambiente, ecc.).
In virtù dei principi espressi in sede sovranazionale
pertanto si apprende che la VAS, quale processo a supporto
dell'attività di gestione del territorio e delle connesse
scelte di programmazione e di pianificazione, prima che
queste vengano tradotte in interventi diretti
(autorizzazioni, concessioni ecc.), e non quale strumento di
verifica a posteriori delle scelte di pianificazione, ben
può radicarsi con lo strumento del piano o programma
urbanistico-territoriale.
Strumento mediante il quale le Autorità sono chiamate allo
studio organico del territorio, della gestione delle sue
risorse, all'obbligo preventivo di coinvolgimento di tutte
le parti, mediante l'avvio delle procedure di informazione e
di consultazione dell'opinione pubblica, in ordine a
qualsiasi decisione futura che inerisca un qualunque assetto
territoriale.
L'obiettivo essenziale della direttiva VAS consiste nel
sottoporre a valutazione ambientale, i piani e programmi che
possono avere effetti significativi sull'ambiente, durante
la loro elaborazione e prima della loro adozione. La VAS, al
pari di qualsiasi atto programmatico e strategico richiede
che siano esaminate le informazioni riguardanti gli aspetti
pertinenti allo stato attuale dell'ambiente e alla sua
evoluzione probabile, con o senza la previsione del piano o
del programma di riferimento, nonché alla decisione della
sua modifica o abrogazione.
È in questo contesto che la direttiva (art. 2) prevede
l'obbligo della VAS per qualsiasi piano e programma previsto
da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative,
elaborato e/o adottato da un'Autorità a livello nazionale,
regionale o locale per essere approvato mediante una
procedura legislativa dal Parlamento o dal Governo, financo
per qualsiasi modifica dei medesimi piani o programmi già
adottati.
Su tale ultimo richiamo normativo, la Corte di giustizia,
nell'ambito del decisum pregiudiziale, afferma che la
VAS trova applicazione anche in caso di modifica o
abrogazione, totale o parziale, dello strumento di
pianificazione, nella specie, del piano regolatore preso a
riferimento. Ciò in quanto anche il venir meno
dell'efficacia, integrale o parziale, della strumentazione
di pianificazione in essere o una sua modifica, può
comportare la genesi o l'aumento degli effetti significativi
sull'ambiente. Di conseguenza, una nuova VAS deve essere
immediatamente apprestata prima di procedere a deliberare le
varianti della pianificazione in essere.
La configurazione empirica della VAS, che emerge anche dalle
chiare indicazioni della Corte di Giustizia, consente di
avvalorare la sua connotazione quale impianto giuridico
sperimentale, tale da presentarsi particolarmente flessibile
e da assorbire e inglobare le diversificate metodologie di
impiego e di studio del territorio, ove accomunate allo
scopo di assicurare un controllo ex ante, in itinere ed
ex post dei possibili impatti ambientali. Sono
sottoposti all'obbligo della VAS tutti quegli strumenti
urbanistici muniti di «indicatori di performance»,
che verificano il livello di conseguimento degli obiettivi
assunti e generati sulla città e sul territorio e che
permettono di quantificare se, quando e quanto gli obiettivi
di piano siano raggiunti.
La connotazione duttile e plasmabile della VAS è invece
assente in altri strumenti quali la VIA deputata a singoli
progetti, in cui è richiesto un approccio più circoscritto
ed unidirezionale. Nel caso di specie, peraltro, pur dinanzi
alla rilevanza della trasformazione ed all’impatto
sull’ambiente sono state omesse entrambe le valutazioni, e
si è svolta solo ex post la mera verifica screening.
I principi richiamati appaiono invero già noti alla
giurisprudenza, sulla scorta della normativa invocata dagli
stessi ricorrenti. E’ stato statuito ad esempio (cfr. CdS
5715/2012 e Tar Sardegna 810/2012) che già ex art. 4 e ss.
d.lgs. n. 152/2006, devono essere sottoposti a v.a.s. i
piani e programmi che possano avere un impatto significativo
sull'ambiente e sul patrimonio culturale; non è allora
escluso che anche i piani attuativi possano essere
sottoposti a v.a.s. in presenza di particolari presupposti
da verificarsi in concreto, quali l'espressa volontà della
p.a. a sottoporre a detta procedura tale tipo di piano; e
all'attitudine del piano stesso a incidere sui profili
ambientali delle aree interessate.
Quindi, la normativa in materia di v.i.a. e di screening
ambientale si applica anche agli strumenti urbanistici
attuativi, purché sussistano tutte le condizioni ulteriori
richieste dalla disciplina vigente; la normativa comunitaria
e nazionale, infatti, prevede la necessità di un esame e
un'autorizzazione preventiva di progetti che comportino un
notevole impatto ambientale e, sotto tale profilo, è proprio
la pianificazione attuativa ad individuare (ed autorizzare)
con sufficiente grado di dettaglio -sul piano e qualitativo
e quantitativo- gli insediamenti da realizzare.
L’esame e la valutazione sul punto devono essere svolte e
ciò va fatto in via preventiva. Nel caso de quo,
invece, a fronte di un piano attuativo avente rilevante
impatto ambientale -come emerso in sede istruttoria ed
oggetto di considerazione rispetto ai precedenti motivi di
gravame-, non è stata svolta alcuna v.a.s. e la verifica
screening ha seguito l’approvazione definitiva del piano
attuativo, in termini illogici e contraddittori rispetto ai
principi sin qui richiamati.
A monte, la stessa variante di p.u.c., sia per le
peculiarità critiche della zona sotto i profili ambientali,
sia per il rilevante impatto derivante dal raddoppio delle
volumetrie precedenti, avrebbe a priori ed a maggior ragione
essere soggetto alla valutazione imposta dai principi
sovranazionali invocati. Nel caso de quo nessun livello di
piano è stato sottoposto alla necessaria valutazione,
cosicché neppure è possibile trarre spunti positivi sul
punto per il p.u.o. dalla verifica fatta in ambito variante
p.u.c.. Anche qui si conferma pertanto il trascinarsi di
carenze negli approfondimenti, non certo recuperabili nella
mera fase edilizia.
Al riguardo, a conferma dell’illogicità del percorso
seguito, è emerso (ma anche sul punto si è già svolto il
relativo approfondimento) che è stato oggetto di verifica
screening e modifica prescrittiva un p.u.o. non più
coincidente con quanto in precedenza approvato a livello
urbanistico. Da ciò la fondatezza delle censure dedotte sul
punto.
Infine, in termini più ampi ricostruttivi del sistema va
evidenziato che le considerazioni ed i principi di origine
sovranazionale hanno trovato di recente ulteriore conferma
da parte della Corte Costituzionale (cfr. sent n. 93 del
2013), la quale ha evidenziato la rilevanza della normativa
comunitaria in questione e la relativa prevalenza; in
dettaglio è stato ad esempio ribadito che dalla citata dir.
CE UE discende un preciso obbligo gravante su tutti gli
Stati membri di assoggettare a VIA non solo i progetti
indicati nell'allegato I, ma anche i progetti descritti
nell'allegato II, qualora si rivelino idonei a generare un
impatto ambientale importante, all'esito della procedura di
c.d. Screening.
Pertanto, la mancata considerazione dei predetti criteri
della dir. CE UE pone la normativa regionale ovvero quella
statale di dettaglio (come quelle invocate dalle difese
resistenti) in evidente contrasto con le indicazioni
comunitarie (TAR
Liguria, Sez. I,
sentenza 02.07.2013 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
URBANISTICA:
E' pacifico che in sede di osservazioni siano
state presentate modifiche (e quindi già di per sé con uno
strumento non corretto, illogicamente esteso oltre le
proprie riconosciute finalità) da parte dello stesso
soggetto proponente, il cui accoglimento per relationem ha
escluso la dovuta fase di pubblicazione e partecipazione in
ordine alle stesse previsioni modificative.
L’utilizzo scorretto di uno strumento fondamentale della
fase procedimentale di approvazione di un delicato strumento
urbanistico appare evidente, sia sotto il profilo
soggettivo, in quanto l’osservazione è propria dei
soggetti diversi dal proponente, sia sotto quello
oggettivo, avendo modificato ulteriormente il progetto
sulla scorta di previsioni nuove, su cui non si è svolto il
necessario iter sia in sede di pareri tecnici che
soprattutto di osservazioni dei soggetti interessati.
---------------
5.7 Infine, se per un verso sono infondati per genericità e
contrasto con gli atti prodotti da parte resistente le
contestazioni di cui al nono ed ultimo motivo del
ricorso principale circa i tempi dei lavori, di nuovo
fondati appaiono i rilievi di cui al settimo ed all’ottavo
motivo di gravame, con cui parte ricorrente lamenta che
la documentazione di p.u.o. avrebbe dovuto, contrariamente a
quanto avvenuto, essere uniformata alle prescrizioni
comunali prima dell’approvazione consiliare, e che la stessa
proponente ha fatto apportare modifiche presentando
osservazioni, ledendo così l’iter e le garanzie degli altri
soggetti legittimati a formulare osservazioni: ciò, sia
sulla scorta delle considerazioni svolte in sede di
inquadramento preliminare, sia a fronte delle emergenze
documentali.
Sotto il primo profilo, già in sede di esame generale
è emerso come l’approvazione definitiva non abbia ad oggetto
un unico e certo progetto, individuato tramite il
riferimento a chiari ed univoci elaborati, riguardando in
generale l’intervento cui peraltro risultano poi apportate
diverse modifiche di diversa provenienza. Tale situazione
avrebbe imposto la previa necessaria ricostruzione del
progetto come definito dall’iter, e non il mero rinvio
generico a diverse modifiche e prescrizioni, ponendo
l’obbligo di una consapevole valutazione complessiva finale.
Sotto il secondo profilo, che conferma oltretutto
come l’accelerazione dell’approvazione sia andata nella
specie a scapito del rispetto delle scansioni procedimentali
imposte per legge oltre che della completezza della
necessaria istruttoria, è pacifico che in sede di
osservazioni siano state presentate modifiche (e quindi già
di per sé con uno strumento non corretto, illogicamente
esteso oltre le proprie riconosciute finalità) da parte
dello stesso soggetto proponente, il cui accoglimento per
relationem ha escluso la dovuta fase di pubblicazione e
partecipazione in ordine alle stesse previsioni
modificative.
L’utilizzo scorretto di uno strumento fondamentale della
fase procedimentale di approvazione di un delicato strumento
urbanistico appare evidente, sia sotto il profilo
soggettivo, in quanto l’osservazione è propria dei
soggetti diversi dal proponente, sia sotto quello
oggettivo, avendo modificato ulteriormente il progetto
sulla scorta di previsioni nuove, su cui non si è svolto il
necessario iter sia in sede di pareri tecnici che
soprattutto di osservazioni dei soggetti interessati
(TAR Liguria, Sez. I,
sentenza 02.07.2013 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it). |
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