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AGGIORNAMENTI PREGRESSI mese di APRILE 2017

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aggiornamento al 04.04.2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AGGIORNAMENTO AL 04.04.2017

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Non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali:
il Consiglio di Stato sconfessa il TAR.

EDILIZIA PRIVATAParziali difformità: le violazioni entro il 2% sono irrilevanti.
Il comma 2-ter dell'art. 34 del D.P.R.n. 380/2001 -a norma del quale "non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali"- non contiene una definizione normativa della parziale difformità, ma prevede una franchigia vera e propria.
Il che a significare non che ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale, ma al contrario che le violazioni contenute entro tale limite sono irrilevanti.

In tal senso si esprime la Sez. VI del Consiglio di Stato nella sentenza 30.03.2017 n. 1481 in fattispecie nella quale si trattava di difformità consistenti nell'altezza esterna del fabbricato e interna del piano sottotetto, dovuta -ad avviso della ricorrente- di una copertura del tetto a doppia falda diversa da quella in progetto per la quale era stata presentata istanza per ottenere la sanatoria dell'abuso ai sensi dell'art. 34 T.U. 06.06.2001 n. 380 e, subordinatamente alla sanatoria, il recupero abitativo del piano sottotetto, ai sensi della specifica l.r. 15.11.2007 n. 33 della Puglia, ricevendo un diniego.
In primo grado il TAR aveva respinto il ricorso proposto contro il diniego ritenendo che l'intervento si dovesse considerare realizzato in difformità non parziale, ma totale dal titolo abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio detto la sanzione non demolitoria, di cui all'art. 34, comma 2, T.U. 380/2001 non fosse applicabile.
I giudici d'appello hanno invece ritenuto che:
   • la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria va valutata nella fase esecutiva del procedimento di repressione dell'abuso, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: è per tal motivo che la norma viene a costituire, in sostanza, un'ipotesi ulteriore di sanatoria, denominata di solito "fiscalizzazione dell'abuso";
   • l'amministrazione, tenuta a decidere sull'istanza della ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l'abuso costituisse effettivamente una "parziale difformità", e in caso positivo se effettivamente non potesse essere demolito senza pregiudizio per la parte conforme;
   • la norma del comma 2-ter non contiene una definizione normativa della parziale difformità, ma prevede una franchigia. In altre parole, intende stabilire non che ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale, ma al contrario che le violazioni contenute entro tale limite sono irrilevanti;
   • in tal senso, è anzitutto un argomento letterale: il testo della norma, contenuta nell'articolo dedicato appunto alle conseguenze della "parziale difformità", stabilisce quando la stessa "non si ha", e quindi un caso in cui l'abuso esula;
   • nello stesso senso, è anche l'argomento storico: la norma è stata aggiunta in un momento successivo, con l'art. 5 del decreto legge 70/2011, cd. "Decreto sviluppo", il cui dichiarato scopo è "liberalizzare le costruzioni private", scopo rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a difformità, anche fra le più lievi;
   • a identico risultato conduce l'argomento logico sistematico: se effettivamente il comma 2-ter contenesse la nozione normativa di parziale difformità, ne seguirebbe che sarebbe abuso, e comporterebbe in via principale l'ordine di rimessione in pristino, ogni difformità rispetto alle misure di progetto, anche la più lieve, con risultati pratici assurdi, di moltiplicazione e complicazione del contenzioso.
La decisione conferma le conclusioni a cui eravamo giunti in questo commento al novellato art. 34: "Parziali difformità ex art. 34 TUE: la soglia del 2% secondo il DL Sviluppo", ossia che il legislatore nazionale, cui spetta dettare i principi fondamentali e generali dell'attività edilizia (art. 1 DPR 380/2001), ha ritenuto di non assoggettare a sanzione alcuna le variazioni al titolo comprese nella misura del 2% per altezza, distacchi, cubatura o superficie (commento tratto da e link a http://studiospallino.blogspot.it).
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MASSIMA
... per la riforma della sentenza 16.09.2015 n. 1251 del TAR Puglia-Bari, Sez. III, resa fra le parti, con la quale è stato respinto il ricorso per l’annullamento del provvedimento 25.06.2014 prot. n. 11.21992 del Comune di Corato, di reiezione dell’istanza proposta dalla Fe.Im. S.r.l. per la sanatoria del recupero a fini abitativi di vani sottotetto non abitabili siti a Corato, via ... 28 interni 36 e 37;
...
La ricorrente appellante è un’impresa di costruzioni che ha realizzato, in Comune di Corato (Ba), una lottizzazione denominata “Pandorea”, alla quale si accede per il viale omonimo, composta da varie unità abitative all’interno di villette di varia tipologia, sia unifamiliari sia plurifamiliari.
Per due di queste unità, di cui all’epoca dei fatti era ancora proprietaria, site all’interno di una villetta quadrifamiliare, al numero 28, interni 36 e 38, le veniva contestata una difformità nell’altezza esterna del fabbricato e interna del piano sottotetto, dovuta a suo dire all’impiego di una copertura del tetto a doppia falda diversa da quella in progetto.
Precisamente, secondo il provvedimento impugnato, di cui subito, al posto di una copertura di latero-cemento, priva di elementi a vista e caratterizzata da uno spessore del solaio finito pari a 0,20 mt, veniva impiegata, asseritamente per un migliore isolamento termico, una copertura di legno lamellare con elementi a vista, costituiti da travi e arcarecci di sostegno, spessa 0,375 metri, cui si aggiungono altri 0.165 metri per lo spessore delle travi; l’altezza risultava quindi incrementata del maggior spessore della diversa copertura (doc. 1 in primo grado ricorrente appellante, provvedimento impugnato, ove la descrizione dell’opera).
A fronte di ciò, la ricorrente appellante ha presentato al Comune istanza contestuale per ottenere la sanatoria dell’abuso ai sensi dell’art. 34 T.U. 06.06.2001 n.380 e, subordinatamente alla sanatoria, il recupero abitativo del piano sottotetto, ai sensi della specifica l.r. 15.11.2007 n. 33, ricevendo un diniego con il provvedimento meglio indicato in epigrafe (doc. 1 in primo grado ricorrente appellante, cit.)
Con la sentenza di cui pure in epigrafe, il TAR ha respinto il ricorso proposto contro il diniego predetto, ed ha in sintesi ritenuto che l’intervento si dovesse considerare realizzato in difformità non parziale, ma totale dal titolo abilitativo, che pertanto la sanatoria, meglio detto la sanzione non demolitoria, di cui all’art. 34, comma 2, T.U. 380/2001 non fosse applicabile, ma si desse luogo alla sola demolizione, e che per conseguenza, trattandosi di opera abusiva non sanabile, il recupero abitativo del sottotetto fosse precluso.
...
1. L’appello è fondato e va accolto, per le ragioni e nei limiti di seguito esposti.
...
7. Tutto ciò posto, il primo motivo di appello è fondato e va accolto.
In proposito, va ricordato quanto detto in premesse, ovvero che la ricorrente appellante presentò al Comune un’istanza dall’oggetto duplice: in primo luogo, l’applicazione della sanzione non pecuniaria di cui all’art. 34 T.U. 380/2001, poi il recupero abitativo del sottotetto creato con l’abuso. Vanno quindi, per chiarezza, richiamate le norme di riferimento, incominciando dalla prima.
8. L’art. 34 in questione dispone per quanto interessa al comma 1 che “gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell'ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso”.
Alla regola fa un’eccezione al comma 2, stabilendo che “quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione” pecuniaria, commisurata nel caso che interessa, di immobile abitativo, al doppio del costo di produzione.
Infine, al comma 2-ter, aggiunto con d.l. 13.05.2011 n. 70, prevede che “
ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali”.
9.
La giurisprudenza ha chiarito –per tutte, la sentenza della Sezione 12.04.2013 n. 2001- che la possibilità di applicare la sanzione pecuniaria va valutata nella fase esecutiva del procedimento di repressione dell’abuso, successiva ed autonoma rispetto all’ordine di demolizione: è per tal motivo che la norma viene a costituire, in sostanza, un’ipotesi ulteriore di sanatoria, denominata di solito “fiscalizzazione dell’abuso”.
10.
Da ciò segue, secondo logica, che l’amministrazione, tenuta a decidere sull’istanza della ricorrente appellante, doveva valutare anzitutto se l’abuso costituisse effettivamente una “parziale difformità”, e in caso positivo se effettivamente non potesse essere demolito senza pregiudizio per la parte conforme.
11. In concreto, nel provvedimento impugnato in primo grado, l’amministrazione stessa si è fermata al primo punto, per ragioni tuttavia errate. Contrariamente a quanto ritenuto dal Giudice di primo grado, infatti, la norma sopra riportata del comma 2-ter non contiene una definizione normativa della parziale difformità, ma prevede una franchigia. In altre parole, intende stabilire non che ogni violazione eccedente il 2% considerato costituisce difformità totale, ma al contrario che le violazioni contenute entro tale limite sono irrilevanti.
12.
In tal senso, è anzitutto un argomento letterale: il testo della norma, contenuta nell’articolo dedicato appunto alle conseguenze della “parziale difformità”, stabilisce quando la stessa “non si ha”, e quindi un caso in cui l’abuso esula.
13.
Nello stesso senso, è anche l’argomento storico: la norma, come si è visto, è stata aggiunta in un momento successivo, con l’art. 5 del decreto legge 70/2011, cd. “Decreto sviluppo”, il cui dichiarato scopo è “liberalizzare le costruzioni private”, scopo rispetto al quale è congruo un regime, appunto, di franchigia, volto ad alleggerire gli oneri che gravano sul privato i costi della sanzione applicata a qualsiasi a difformità, anche fra le più lievi.
14. Infine,
ad identico risultato conduce l’argomento logico-sistematico: se effettivamente il comma 2-ter contenesse la nozione normativa di parziale difformità, ne seguirebbe che sarebbe abuso, e comporterebbe in via principale l’ordine di rimessione in pristino, ogni difformità rispetto alle misure di progetto, anche la più lieve, con risultati pratici assurdi, di moltiplicazione e complicazione del contenzioso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 30.03.2017 n. 1481 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

E questo è il censurato pronunciamento del TAR:

EDILIZIA PRIVATALa sanzione alternativa alla demolizione, nella prassi frequentemente definita come “sanatoria ex art. 34 dpr 380/2001”, è contemplata solo per le opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, se la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Il requisito richiesto, pertanto, è duplice:
- la difformità solo parziale e non totale;
- il pregiudizio per la parte eseguita in conformità, in caso di demolizione.
Se entrambi i presupposti indicati non sussistono la demolizione è ineludibile.

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Non ricorre la fattispecie della parziale difformità, posto che anche a voler considerare corrette le misurazioni dell’altezza del sottotetto effettuate dalla parte ricorrente, il 2% è abbondantemente superato (si verte, infatti, nell’ordine –approssimativamente- del 10% di aumento).
La dimensione dell’incremento è tale da configurare una variazione essenziale, ai sensi dell'articolo 32, D.P.R. n. 380/2001
Ai sensi di una consolidata giurisprudenza, a norma degli articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
Precipitato logico di tali principi, è l’esclusione della “sanatoria” invocata (quando l’altezza realizzata superi di più del 2% quella progettata,) irrilevante essendo che vi sia pregiudizio in caso di demolizione.
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... per l'annullamento:
- del diniego di sanatoria a firma del Dirigente del Settore Urbanistica, Sezione Edilizia Privata ed Economica del Comune di Corato, recante il prot. 11.21992 del 25.06.2014, notificato alla ricorrente in data 30.06.2014 e con il quale è stata rigettata in via definitiva l’istanza di sanatoria inoltrata dalla Fe.Im. s.r.l., ai sensi e per gli effetti dell’art. 34, comma 2, del D.P.R. 380/2001, nonché contestualmente, ai sensi e per gli effetti della L.R. Puglia n. 33/2007 per il recupero ai fini abitativi del vano sottotetto (cfr istanza presentata in data 3006 2014, protocollata al n. 3673 ed identificata come pratica edilizia n. 15/2014),
- ove lesivi degli interessi della società ricorrente, dei seguenti atti presupposti e/o connessi, richiamati ob relationem nel summenzionato provvedimento ancorché trattasi di atti del tutto sconosciuti e mai notificati alla Fe.Im. srl: a) ordinanza di demolizione dirigenziale n. 39/2012 del 27.03.2012; b) ordinanza dirigenziale n. 3 1/2012 del 26.03.2012;
- di ogni altro atto, connesso, presupposto e/o consequenziale a quello impugnato, ancorché non conosciuto, ivi compresi, ove occorra ed ove lesivi degli interessi del ricorrente, le eventuali ulteriori relazioni istruttorie endoprocedimentali, la proposta del responsabile del procedimento con riserva, in ogni caso, di formulare in merito ed ove necessario appositi motivi aggiunti;
- nonché per l’accertamento del diritto della ricorrente, con la consequenziale condanna del Comune di Corato, ad ottenere ad ottenere il rilascio della sanatoria de qua, conformemente a quanto richiesto con l’istanza/pratica edilizia recante il n. 15/2014.
...
La società odierna ricorrente ha realizzato, sulla scorta dei titoli edilizi rilasciatile in virtù di un piano di lottizzazione regolarmente approvato, un fabbricato destinato a civile abitazione composto da quattro unità abitative (la ricorrente non precisa, in ricorso, quanti piani fuori terra contempli il progetto, ma dagli allegati grafici prodotti, verosimilmente si tratta di edificio ad un piano f.t. e sottotetto –in progetto- non abitabile, sito in v. ... n. 28, identificato al foglio 48, p.lla 717).
In sede di realizzazione del manufatto, il piano sottotetto è stato edificato, per due delle unità immobiliari (interni n. 36 en. 38 identificati, catastalmente dai subalterni 3 e 4) con maggiore altezza rispetto a quella di progetto (dalle fotografie prodotte si evince chiaramente che il sottotetto è già utilizzato a vani abitativi).
La società ha, pertanto, inoltrato una richiesta di “sanatoria” (rectius: di applicazione di sanzione non demolitoria) ai sensi e per gli effetti dell'art. 34, comma 2, del D.P.R. n. 380/2001, ritenendo che le difformità realizzate fossero lievi e assoggettabili alla normativa invocata.
Contestualmente, nell'istanza di che trattasi, ha anche richiesto, ai sensi della L.R. n. 33/2007, cosi come modificata dall'art. 1 della L.R. n. 38/2013, il recupero, ai fini abitativi, del vano sottotetto; il tutto, comunque, sempre previa definizione di sanatoria, ai sensi del summenzionato art. 34, comma 2.
Con il provvedimento impugnato, il Comune ha negato l’applicazione della sanzione pecuniaria e, conseguentemente escluso la possibilità del recupero a fini abitativi del sottotetto, in quanto, pacificamente, la normativa regionale la esclude in caso di opere abusive.
...
Il ricorso non è fondato.
La questione su cui le parti controvertono va risolta esclusivamente in punto di diritto.
Recita l’art. 34 cit., rubricato “Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire”: “1. Gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire sono rimossi o demoliti a cura e spese dei responsabili dell'abuso entro il termine congruo fissato dalla relativa ordinanza del dirigente o del responsabile dell'ufficio. Decorso tale termine sono rimossi o demoliti a cura del comune e a spese dei medesimi responsabili dell'abuso.
2. Quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione, stabilito in base alla legge 27.07.978, n. 392, della parte dell'opera realizzata in difformità dal permesso di costruire, se ad uso residenziale, e pari al doppio del valore venale, determinato a cura della agenzia del territorio, per le opere adibite ad usi diversi da quello residenziale.
2-bis. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche agli interventi edilizi di cui all'articolo 22, comma 3, eseguiti in parziale difformità dalla segnalazione certificata di inizio attività (1).
2-ter. Ai fini dell'applicazione del presente articolo, non si ha parziale difformità del titolo abilitativo in presenza di violazioni di altezza, distacchi, cubatura o superficie coperta che non eccedano per singola unità immobiliare il 2 per cento delle misure progettuali (2)
.”
In estrema sintesi la sanzione alternativa alla demolizione, nella prassi frequentemente definita come “sanatoria ex art. 34”, è contemplata solo per le opere realizzate in parziale difformità dal permesso di costruire, se la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità.
Il requisito richiesto, pertanto, è duplice:
   - la difformità solo parziale e non totale;
   - il pregiudizio per la parte eseguita in conformità, in caso di demolizione.
Se entrambi i presupposti indicati non sussistono la demolizione è ineludibile.
Non ricorre la fattispecie della parziale difformità, posto che anche a voler considerare corrette le misurazioni dell’altezza del sottotetto effettuate dalla parte ricorrente, il 2% è abbondantemente superato (si verte, infatti, nell’ordine –approssimativamente- del 10% di aumento).
La dimensione dell’incremento è tale da configurare una variazione essenziale, ai sensi dell'articolo 32, D.P.R. n. 380/2001
Ai sensi di una consolidata giurisprudenza, (Cons. St. Sez. IV, 27.11.1010, n. 8260; 10.04.2009, n. 2227, Sez. V, 21.03.2011, n. 1726), a norma degli articoli 31 e 32 DPR n. 380/2001, si verificano difformità totale del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un'opera diversa da quella prevista dall'atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell'opera.
Precipitato logico di tali principi, è l’esclusione della “sanatoria” invocata (quando l’altezza realizzata superi di più del 2% quella progettata,) irrilevante essendo che vi sia pregiudizio in caso di demolizione.
Tale circostanza è tranciante e dirimente e non può che porre fine al dibattito delle parti.
Risulta, infatti, del tutto irrilevante la motivazione esposta nel provvedimento (che, pure, dà piena contezza di tale elemento ostativo), atteso che il diniego impugnato ha natura vincolata, sicché anche ai sensi dell’art. 21-ocites l. n. 241/1990, l’atto impugnato è esente da ogni censura.
E’ peraltro, evidente che, risultando l’opera abusiva, non potrà trovare applicazione la normativa regionale invocata sul recupero dei sottotetti.
Del tutto irrilevante, infine, è l’eventuale sanatoria concessa per analoghe costruzioni, la quale, ben lungi dal fornire elemento a sostegno della illegittimità dell’atto impugnato, può al più rivelare pregresse illegittimità dell’operato dell’Ente su cui deve valutarsi l’esercizio dei poteri di rimozione in autotutela (TAR Puglia-Bari, Sez. III, sentenza 16.09.2015 n. 1251 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

 

IN EVIDENZA

EDILIZIA PRIVATA: Motivazione dell’ordinanza di demolizione adottata a distanza di anni dall’abuso che non è stato commesso dall’attuale titolare: rimessione all’Adunanza plenaria.
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Edilizia – Abusi – Ordinanza di demolizione – Motivazione – Necessità – Ordinanza adottata a distanza di anni dall’abuso che non è stato commesso dall’attuale titolare – Rimessione all’Adunanza plenaria.
Deve essere rimessa all’Adunanza plenaria la questione se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo debba essere congruamente motivata sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio (1).
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   (1) Ha chiarito la Sezione che sulla questione si sono formati due orientamenti giurisprudenziali.
Secondo il primo maggioritario orientamento l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa (Cons. St., sez. VI, 10.05.2016, n. 1774; id. 11.12.2013, n. 5943; id. 23.10.2015, n. 4880; id., sez. V, 11.07.2014, n. 4892; id., sez. IV, 04.05.2012, n. 2592).
Ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto (Cons. St., sez. VI, 05.01.2015, n. 13).
Un secondo orientamento (Cons. St., sez. IV, 04.02.2014, n. 1016) individua “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi” (Cons. St., sez. VI, 14.08.2015, n. 3933): considerazioni che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte dell’Amministrazione: Cons. St., sez. V, 09.09.2013, n. 4470, in un caso peraltro in cui la buona fede è stata esclusa), sulla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del provvedimento sanzionatorio (in tal senso, anche Cons. St., sez. VI, 18.05.2015, n. 2512; id., sez. V, 15.07.2013, n. 3847).
Nella stessa scia, è stato sottolineato -in relazione a “semplici difformità” della costruzione dal titolo edificatorio sussistente- che il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto all’amministrazione sia nei confronti del dante causa (Cons. St., sez. V, 15.07.2013, n. 3847, seguìta da id. 24.11.2013, n. 2013 e id., sez. IV, 04.03.2014, n. 1016; la medesima decisione richiama V, 29.05.2006, n. 3270, che, pur facendo riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici difformità”) (Consiglio di Stato, Sez. VI, ordinanza 24.03.2017 n. 1337 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
1. La sentenza appellata ha respinto il ricorso proposto dai sig.ri Ba.Fi., An. e Fa. per l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Fiumicino prot. n. 14889 del 26.02.2014 con cui era stata ingiunta la demolizione delle opere edili abusivamente realizzate sull’immobile sito in quel Comune, località Isola Sacra, via ... n. 81-83.
Per quel che qui rileva, il ricorso è stato respinto alla luce di quell’orientamento giurisprudenziale ex multis: Consiglio di Stato, Sez. IV, 11.01.2011, n. 79) secondo il quale “
l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare”.
Propongono ricorso in appello gli interessati evidenziando come, nonostante l’edificio fosse stato ultimato nel 1982, e sin da quel momento l’Amministrazione fosse a conoscenza dell’esistenza dello stesso, l’ordinanza era stata notificata soltanto a ben 32 anni dall’ultimazione del fabbricato in argomento. Tale inerzia aveva ingenerato una posizione di affidamento rispetto alla quale l’amministrazione avrebbe avuto l’onere di una congrua motivazione in ordine all’interesse pubblico prevalente che giustificasse il sacrificio dei ricorrenti i quali, peraltro, semplicemente ereditando la proprietà dell’edificio nel 2009, dalla dante causa Fi.Co., risultavano addirittura estranei a qualsivoglia realizzazione abusiva.
Veniva, quindi, in altri termini lamentato che, nonostante il notevole lasso di tempo trascorso tra la commissione dell’abuso e la risposta sanzionatoria, con il conseguente affidamento medio tempore maturato dagli attuali proprietari, l’Amministrazione comunale non avesse dato conto alcuno, con idonea motivazione, delle ragioni di attualità, concretezza e specificità del pubblico interesse, diverso dal mero ripristino della legalità, sotteso al provvedimento sanzionatorio.
A sostegno del ricorso in appello gli interessati invocano la pronuncia della IV Sezione (04.02.2014, n. 1016) secondo la quale: “
Il provvedimento di rimozione dell’abuso è atto dovuto e prescinde dall’attuale possesso del bene e dalla coincidenza del proprietario con il realizzatore dell’abuso medesimo; pertanto, le sanzioni in materia edilizia sono legittimamente adottate nei confronti dei proprietari attuali degli immobili, a prescindere dalla modalità con cui l’abuso è stato consumato, salvo i casi in cui sia pacifico che:
   a) l’acquirente ed attuale proprietario del manufatto, destinatario del provvedimento di rimozione, non è responsabile dell’abuso;
   b) l’alienazione non sia avvenuta al solo fine di eludere il successivo esercizio dei poteri repressivi;
   c) tra la realizzazione dell’abuso, il successivo acquisto, e, più ancora, l’esercizio da parte dell’autorità dei poteri repressivi, sia intercorso un lasso temporale ampio
”.
Tale pronuncia costituisce l’esempio più approfondito di quel filone giurisprudenziale che valorizza il decorso del tempo come elemento influente sulla legittimità del provvedimento sanzionatorio.
2. In effetti, nella giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, sembrano potersi individuare sul tema due orientamenti giurisprudenziali, ancorché non sempre compiutamente esplicitati.
Secondo il primo orientamento, che parrebbe maggioritario,
l’ordinanza di demolizione di un manufatto abusivo è legittimamente adottata senza alcuna particolare motivazione e indipendentemente dal lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso, dovendosi escludere in radice ogni legittimo affidamento in capo al responsabile dell’abuso o al di lui avente causa (VI, 10.05.2016 n. 1774; VI, 11.12.2013 n. 5943; VI, 23.10.2015 n. 4880; V, 11.07.2014 n. 4892; IV, 04.05.2012 n. 2592). E si è precisato che ammettere la sostanziale estinzione di un abuso edilizio per decorso del tempo significherebbe configurare una sorta di sanatoria extra ordinem, di fatto, che potrebbe operare anche quando l’interessato non abbia inteso (o potuto) avvalersi del corrispondente istituto legislativamente previsto (VI, 05.01.2015 n. 13).
3. E’ tuttavia presente un secondo orientamento giurisprudenziale, che, conforme a quello invocato dagli appellanti (IV, 04.02.2014, n. 1016), pur consapevole del prevalente indirizzo contrario,
individua tuttavia “casi-limite in cui può pervenirsi a considerazioni parzialmente difformi (VI, 14.08.2015 n. 3933): considerazioni che fanno leva sul lasso temporale intercorso dalla commissione dell’abuso (o della sua conoscenza da parte dell’Amministrazione: V, 09.09.2013 n. 4470, in un caso peraltro in cui la buona fede è stata esclusa), sulla buona fede del soggetto destinatario dell’ordinanza di demolizione diverso dal responsabile dell’abuso e sull’assenza, per mezzo del trasferimento del bene, di un intento volto a eludere la comminatoria del provvedimento sanzionatorio (in tal senso, anche VI, 18.05.2015 n. 2512; V, 15.07.2013 n. 3847).
Nella stessa scia, è stato sottolineato -ma, si badi, in relazione a “semplici difformità” della costruzione dal titolo edificatorio sussistente- che il decorso del tempo incide sulla certezza dei rapporti giuridici e può incidere significativamente con le possibilità di difesa dell’interessato sia rispetto all’amministrazione sia nei confronti del dante causa (V, 15.07.2013 n. 3847, seguìta da V, 24.11.2013 n. 2013 e IV, 04.03.2014 n. 1016; la medesima decisione richiama V, 29.05.2006 n. 3270, che, pur facendo riferimento alla rilevanza della tipologia dell’abuso, non limita il principio della rilevanza dell’affidamento alle “semplici difformità”).
4. Gli appellanti, in punto di fatto, evidenziano che i requisiti richiesti dall’orientamento a loro favorevole si riscontrano nel caso in esame:
   a) gli attuali proprietari dell’immobile, destinatari del provvedimento demolitorio, hanno acquistato il diritto reale de quo per successione ereditaria dalla dante causa Co.Fi., unica responsabile dell’abuso avvenuto nel 1982;
   b) la modalità di trasferimento della proprietà mortis causa evidentemente esclude qualsivoglia intento finalistico elusivo dell’esercizio dei poteri repressivi spettanti all’autorità amministrativa competente;
   c) tra la realizzazione dell’edificio in argomento e l’ordinanza di demolizione sono trascorsi ben 32 anni.
5.
Sussiste dunque un contrasto tra quel filone giurisprudenziale (richiamato dalla sentenza qui appellata) che ritiene ininfluente il decorso del tempo e quell’orientamento (invocato dagli appellanti) che, a determinate condizioni, richiede invece una specifica motivazione in ordine all’adozione di un provvedimento sanzionatorio.
Il Collegio ritiene comunque di dover osservare che,
nell’arco temporale decorrente dalla commissione dell’abuso (anno 1982) e l’adozione del provvedimento impugnato (anno 2014) sono intervenuti ben tre condoni edilizi disciplinati dalle leggi 28.02.1985, n. 47, 23.12.1994, n. 724 e 24.11.2003, n. 326.
Dagli elementi di fatto forniti dagli appellanti si desume che
la loro dante causa non ha ritenuto di avvalersi delle facoltà concesse dalle leggi richiamate e di ottenere il condono per l’immobile abusivamente realizzato, previa corresponsione delle somme dovute a titolo di oblazione stabilite dalla normativa sopra citata. Invero, nella prospettazione degli appellanti, il trasferimento mortis causa dell’immobile assorbirebbe l’omissione della presentazione delle domande di condono, realizzando una sorta di sanatoria extra ordinem, formatasi per il mero decorso del tempo (sia pure prolungato), ed esonerando ratione temporis gli appellanti da una presentazione, sia pur tardiva delle stesse (ammesso che -osserva la Sezione- una tale evenienza sia possibile).
Il Collegio ritiene ancora di dover evidenziare che la sussistenza di un interesse pubblico attuale era richiesto dalla giurisprudenza per l’annullamento (in autotutela) di un preesistente provvedimento valutato in seguito illegittimo. La giurisprudenza invocata dagli appellanti estende, quindi, con una radicale innovazione di sistema, al “fatto illecito” (quale deve considerarsi una costruzione realizzata senza titolo abilitativo) quel che originariamente era richiesto solo per un “atto illegittimo”.
E’ peraltro vero che un lasso di tempo straordinariamente lungo tra la commissione dell’abuso (da parte di terzi) e la sanzione, tempo intercorso anche a causa dell’inerzia serbata dall’amministrazione, potrebbe essere ritenuto in sé idoneo a giustificare un affidamento da parte del soggetto estraneo alla commissione dell’abuso; affidamento che, se non può certo elidere in radice il potere sanzionatorio, ne richiede una giustificazione in termini di attualità e concretezza, in relazione, oltre che al tempo, alla consistenza dell’abuso medesimo e ad altre circostanze fattuali che si assumano rilevanti.
In conclusione, il Collegio, ai sensi dell’articolo 99 c.p.a., rimette l’affare all’Adunanza plenaria, perché possa essere decisa la seguente questione: “
Se l’ordinanza di demolizione di immobile abusivo (nella specie, trasferito mortis causa) debba essere congruamente motivato sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale al ripristino della legalità violata quando il provvedimento sanzionatorio intervenga a una distanza temporale straordinariamente lunga dalla commissione dell’abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi del provvedimento sanzionatorio”.

UTILITA'

INCARICHI PROGETTUALI: Lavori Pubblici: “on-line la Guida alla redazione dei bandi per i Servizi di Architettura e di Ingegneria.
On-line sul portale del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori la Guida alla redazione dei Bandi da adottare nei Concorsi di Idee e di Progettazione e nelle procedure di affidamento dei Servizi di Architettura e Ingegneria, in relazione all’importo stimato del corrispettivo ed alla tipologia delle opere da realizzare.
L’obiettivo principale di questa iniziativa -spiega Rino La Mendola, Vicepresidente del Consiglio Nazionale e Coordinatore del Dipartimento Lavori Pubblici- è quello di offrire alle stazioni appaltanti gli strumenti necessari per adottare le più corrette procedure di affidamento, riducendo notevolmente i tempi di predisposizione degli atti di gara, nel pieno rispetto del nuovo quadro normativo, determinato dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo 50/2016.”
La Guida potrà essere adottata dalle stazioni appaltanti, non solo per l’affidamento dei Servizi di Architettura e Ingegneria, ma anche e soprattutto per bandire Concorsi di progettazione, che riteniamo lo strumento ideale per selezionare il miglior progetto ed il professionista da incaricare per le fasi successive della progettazione.”
In particolare, le pubbliche amministrazioni ed i committenti privati che intendano bandire un concorso, potranno fruire di una piattaforma informatica, che il Consiglio Nazionale degli Architetti attiverà già dal prossimo mese di Aprile, la quale sarà in grado di garantire l’anonimato dei partecipanti ed una notevole riduzione dei costi e dei tempi di svolgimento delle procedure concorsuali.
La Guida costituisce un’attività di supporto all’Osservatorio Nazionale sui Servizi di Architettura e Ingegneria (ONSAI), già lanciato lo scorso mese di gennaio dallo stesso Consiglio Nazionale per un periodo di sperimentazione, che si concluderà a fine marzo.
Dunque, ad aprile, l’Osservatorio funzionerà a pieno regime, con l’obiettivo di alimentare, attraverso l’uso della piattaforma informatica del Consiglio Nazionale, uno scambio di informazioni, tra gli Ordini provinciali, sulle criticità dei bandi pubblicati affinché venga attivato, dall’Ordine competente per territorio, un confronto con le stazioni appaltanti interessate, finalizzato al superamento delle stesse criticità; ulteriore obiettivo, quello di offrire agli architetti italiani un servizio utile a valutare preliminarmente l’opportunità di partecipare alle diverse procedure di affidamento (28.03.2017 - link a www.awn.it).

VARIIl leasing immobiliare abitativo.
Detrazione fiscale del 19% a valere sui canoni di leasing fino a 8 mila euro annui e sul prezzo di riscatto fino 20 mila euro.
Sono questi gli incentivi concessi ai giovani sotto i 35 anni e con reddito annuo non superiore a 55 mila euro, che intendono approfittare dei vantaggi economici e fiscali offerti dal leasing immobiliare abitativo. Minori, ma pur sempre interessanti, sono gli incentivi a favore dei soggetti con età uguale o superiore a 35 anni, ai quali spetta la detraibilità pari al 19% dei canoni di leasing (fino a un importo massimo di 4 mila euro annui) e la detraibilità pari al 19% del prezzo del riscatto (fino a un importo massimo di 10 mila euro). (...continua) (articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017).

GURI - GUUE - BURL (e anteprima)

EDILIZIA PRIVATA: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 03.04.2017 "Approvazione dei criteri per l’accertamento delle infrazioni e l’irrogazione delle sanzioni di cui all’art. 27 della legge regionale n. 24/2006 e s.m.i. conseguenti alla trasgressione delle disposizioni relative agli attestati di prestazione energetica degli edifici», in attuazione della dgr 5900 del 28.11.2016" (decreto D.U.O. 29.03.2017 n. 3490).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 14 del 03.04.2017 "Criteri di finanziamento di interventi di rimozione amianto da strutture pubbliche. monitoraggio dell’attivazione dei servizi di rimozione e smaltimento amianto in matrice compatta proveniente da utenze domestiche" (deliberazione G.R. 13.03.2017 n. 6337).

PATRIMONIO: B.U.R. Lombardia, serie ordinaria n. 13 del 31.03.2017, "Approvazione del bando «Criteri e procedure per concessione ai comuni di contributi una tantum a fondo perduto per la rimozione del cemento-amianto esistente in pubblici edifici»" (decreto D.S. 17.03.2017 n. 2949).

EDILIZIA PRIVATA: G.U. 28.03.2017 n. 73 "Approvazione dei modelli unici per la realizzazione, la connessione e l’esercizio di impianti di microcogenerazione ad alto rendimento e di microcogenerazione alimentati da fonti rinnovabili" (Ministero dello Sviluppo Economico, decreto 16.03.2017).

NOTE, CIRCOLARI E COMUNICATI

APPALTI: Oggetto: Interpello n. 954-15/2017 - Articolo 11, comma 1, lett. a), legge 27.07.2000, n. 212 - COMUNE DI FIRENZE (Agenzia delle Entrate, interpello n. 954-15/2017).
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...il Comune di Firenze chiede chiarimenti in riferimento all'applicazione dell'imposta di bollo di cui all'art. 2, della Tariffa, parte prima, allegata al DPR 26.10.1972, n. 642, in relazione ai suddetti contratti di acquisto di beni e servizi conclusi per corrispondenza, per i quali la procedura negoziata è stata effettuata avvalendosi delle funzionalità del mercato elettronico SIGEME. (...continua).

EDILIZIA PRIVATA - TRIBUTI - VARI: OGGETTO: Consultazione delle banche dati ipotecaria e catastale relativa a beni immobili dei quali il soggetto richiedente risulta titolare, anche in parte, del diritto di proprietà o di altri diritti reali di godimento (Agenzia delle Entrate, circolare 24.03.2017 n. 3/E).

COMPETENZE PROGETTUALI: Oggetto: competenze professionali nelle attività di pianificazione, progettazione, direzione lavori e consulenza nel settore forestale. Consiglio di Stato n. 952/2017. Assenza di competenze esclusive (Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati, nota 21.03.2017 n. 1338 di prot.).

ENTI LOCALI: Oggetto: incarichi gratuiti a soggetti in quiescenza. Art. 5, comma 9, del decreto legge 06.07.2012 n. 95, convertito, con modificazioni, in legge 07.08.2012, n. 135. Obbligo assicurativo Inail (INAIL, nota 08.03.2017 n. 4856 di prot.).

AMBIENTE-ECOLOGIAOggetto: Art. 10 del d.m. 13.10.2016, n. 264, Regolamento recante Criteri per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti - elenco pubblico istituito presso le Camere di commercio territorialmente competenti - Chiarimenti interpretativi (Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio  del Mare, nota 03.03.2017 n. 3084 di prot.).

PUBBLICO IMPIEGO: Oggetto: attribuzione di incarichi dirigenziali al dirigente dell'avvocatura civica "senza vincolo di esclusività"; comunicazioni ANCI 11.01.2017 (Prot. 4/VSG/SD/AB/ag-17) e 07.02.2017 (Prot. 12/VSG/SD/ag-17) (Consiglio Nazionale Forense, nota 28.02.2017 n. 28109 di prot.).

ATTI AMMINISTRATIVI: Oggetto: Diritto di accesso a dati e documenti - Art. 5 d.lgs. 33/2013, come modificato dall'art. 6 del d.lgs. n. 97/2016. regime provvisorio ai fini delle esclusioni e dei limiti all'accesso generalizzato (Avvocatura Generale dello Stato, circolare n. 61/2016).

CORTE DEI CONTI

INCENTIVO FUNZIONI TECNICHEIl "termine” lavori a base d’asta “utilizzata nel secondo comma, è da intendere in senso atecnico e quindi non soltanto per lavori ma anche per servizi e forniture. Infatti, l’art. 102 del decreto legislativo 50/2016 dispone che il responsabile unico del procedimento controlla l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore dell’esecuzione del contratto e che i contratti pubblici sono soggetti a collaudo per i lavori, e a verifica di conformità per i servizi e le forniture e disciplina una serie di attività e di adempimenti (non tutti) che sono comuni ad ogni tipo di appalto e che in base all’oggetto dell’appalto, saranno conseguentemente previste le diverse figure professionali che dovranno svolgere quelle attività destinatarie dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113 e la cui quantificazione avrà una disciplina regolamentare.”.
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Il menzionato art. 113 riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”.

L’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa.
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Con la nota in epigrafe, il Sindaco del comune di Mascalucia (CT) ha chiesto un parere in ordine all’interpretazione dell’art. 113 del decreto legislativo n. 50 del 18.04.2016, recante il nuovo Codice dei contratti pubblici e, in particolare, se i previsti incentivi per lo svolgimento di funzioni tecniche possano essere riconosciuti oltre che per gli appalti di lavori anche per quelli di servizi e forniture.
In caso di risposta affermativa, con un secondo quesito, il Sindaco ha chiesto alla Corte di esprimersi circa la possibilità di includere o meno tra i suddetti servizi sia quelli relativi all’attività di pianificazione urbanistica che quelli di coordinamento per la sicurezza in fase di progettazione e/o di esecuzione, laddove svolta da dipendenti dell’Ente.
...
Con riferimento al primo quesito formulato dall’ente, il Collegio ritiene di non doversi discostare dall’orientamento espresso sul punto da altre sezioni di controllo (cfr. Sezione controllo Puglia parere 13.12.2016 n. 204; Sezione controllo Veneto parere 07.09.2016 n. 353; Sezione controllo Lombardia parere 05.07.2016 n. 184 e parere 16.11.2016 n. 333), ovvero che l’interpretazione logico sistematica dei commi 2 e 3 dell’art. 113 conduce alla conclusione per cui
il termine” lavori a base d’asta “utilizzata nel secondo comma, è da intendere in senso atecnico e quindi non soltanto per lavori ma anche per servizi e forniture. Infatti, l’art. 102 del decreto legislativo 50/2016 dispone che il responsabile unico del procedimento controlla l’esecuzione del contratto congiuntamente al direttore dell’esecuzione del contratto e che i contratti pubblici sono soggetti a collaudo per i lavori, e a verifica di conformità per i servizi e le forniture e disciplina una serie di attività e di adempimenti (non tutti) che sono comuni ad ogni tipo di appalto e che in base all’oggetto dell’appalto, saranno conseguentemente previste le diverse figure professionali che dovranno svolgere quelle attività destinatarie dell’incentivo di cui al comma 2 dell’art. 113 e la cui quantificazione avrà una disciplina regolamentare.” (Sezione controllo Lombardia parere 16.11.2016 n. 333).
Con riferimento al secondo quesito, l’ente chiede se sia possibile includere tra i servizi per i quali corrispondere l’incentivo per funzioni tecniche anche quelli relativi all’attività di pianificazione urbanistica e di coordinamento per la sicurezza in fase di progettazione e/o di esecuzione, laddove svolta da dipendenti dell’Ente.
In proposito, deve rilevarsi che
il menzionato art. 113 riconosce l’incentivo “esclusivamente” per le “attività di programmazione della spesa per investimenti, per la verifica preventiva dei progetti, di predisposizione e di controllo delle procedure di bando e di esecuzione dei contratti pubblici, di responsabile unico del procedimento, di direzione dei lavori ovvero direzione dell’esecuzione e di collaudo tecnico-amministrativo ovvero di verifica di conformità, di collaudatore statico”.
L’avverbio “esclusivamente” esprime con chiarezza l’intenzione del legislatore di riconoscere il compenso incentivante limitatamente alle attività espressamente previste, ove effettivamente svolte dal dipendente pubblico, sicché l’elencazione contenuta nella norma deve considerarsi tassativa (così anche deliberazione Sezione Puglia cit., che richiama Sezione delle Autonomie, deliberazione 13.05.2016 n. 18, laddove, in via incidentale, sottolinea che la nuova disposizione ha abolito “gli incentivi alla progettazione previsti dal previgente art. 93, comma 7-ter, introducendo nuove forme di incentivazione per funzioni tecniche … svolte dai dipendenti esclusivamente per le attività di programmazione della spesa per investimenti e per la verifica preventiva dei progetti e, più in generale, per le attività tecnico-burocratiche, prima non incentivate”).
Sotto questo specifico profilo, ossia quello della individuazione dei limiti entro i quali le attività svolte dai pubblici dipendenti possono ricevere una specifica remunerazione,
la disciplina degli incentivi, derogatoria rispetto al principio di onnicomprensività della retribuzione, tra l’altro, è da considerarsi di stretta interpretazione e non suscettibile di estensione analogica.
P.Q.M.
La Sezione di controllo per la Regione siciliana
esprime parere favorevole con riferimento al primo quesito e non favorevole con riferimento al secondo (Corte dei Conti, Sez. controllo Sicilia, parere 30.03.2017 n. 71).

PATRIMONIO - PUBBLICO IMPIEGOStrisce pedonali non possono essere verdi. Paga il funzionario.
Come prescrive il Codice della strada, i colori utilizzati per gli attraversamenti pedonali sono regolamentati in maniera perentoria e tale colorazione deve essere applicata su tutto il territorio nazionale. Pertanto, qualora un comune dovesse disporre diversamente, la spesa sostenuta per l'acquisto della vernice colorata, in luogo di quella tradizionale, costituisce un danno erariale.

È quanto ha messo nero su bianco la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per il Veneto, nel testo della sentenza 14.03.2017 n. 38 con cui ha condannato un funzionario tecnico di un comune del padovano per aver disposto, su 55 attraversamenti pedonali in città, una colorazione non consentita.
Il collegio della magistratura contabile ha infatti sottolineato come il regolamento attuativo del Codice della strada dispone, all'articolo 145, che gli attraversamenti pedonali devono essere evidenziati sulla carreggiata mediante zebrature con strisce bianche parallele alla direzione di marcia e che nessun altro segno è consentito. Ne deriva che la colorazione verde, apposta sul fondo stradale degli attraversamenti pedonali, è palesemente contraria alle disposizioni del Codice della strada.
La Corte ha altresì richiamato il dm 27/04/2006 del Ministero delle infrastrutture, con cui si ribadisce che la colorazione delle strisce pedonali sia uniforme sull'intero territorio nazionale e che, in caso di violazione, la responsabilità ricade sugli enti proprietari delle strade (articolo ItaliaOggi del 18.03.2017).
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MASSIMA
2. L'odierno giudizio è finalizzato all'accertamento della pretesa risarcitoria avanzata dal Procuratore regionale in ordine al
danno erariale di € 1.155,00, asseritamente arrecato al Comune di San Martino di Lupari (PD) da Gi.St.Ba., responsabile dell'Area tecnica-manutenzioni, in relazione alla realizzazione, nel territorio comunale, di attraversamenti pedonali su manto stradale di colorazione non consentita.
3. Dagli atti di causa si evince che il convenuto, con le determinazioni contrassegnate dai numeri 199/2008, 119/2009, 123/2010, 138/2010, 169/2010, 74/2012, 113/2012, 122/2012 e 148/2012, assunte nella qualità di responsabile di Area, aveva fatto realizzare n. 55 attraversamenti pedonali su manto stradale di colorazione verde; come da comunicazione dello stesso funzionario, la differenza di spesa, effettuata al fine di realizzare il passaggio pedonale su fondo verde, anziché sul fondo stradale non colorato, ammonta a € 21,00 per ciascun attraversamento e, pertanto, ad € 1.155,00 in totale.
Rileva il Collegio che l'art. 40 del codice della strada (D.lgs. 30.04.1992 n. 285) nel disciplinare la segnaletica orizzontale, costituita da strisce, frecce e scritte poste sulla pavimentazione stradale per regolare la circolazione stradale, per guidare gli utenti e per fornire prescrizioni circa il comportamento da seguire, rinvia al regolamento per quanto riguarda le forme, le dimensioni, i colori, i simboli e le caratteristiche dei segnali orizzontali.
Lo stesso Codice (art. 45) vieta, tuttavia, l'impiego di segnaletica stradale non conforme a quella stabilita dal codice stesso, dal Regolamento o dai decreti e dalle direttive ministeriali.
Il Regolamento, approvato con DPR 16.12.1992 n. 495, espressamente stabilisce che i colori dei segnali orizzontali sono il bianco, il giallo, l'azzurro e il giallo alternato con il nero (art. 137, comma 5); che gli attraversamenti pedonali sono evidenziati sulla carreggiata mediante zebrature con strisce bianche parallele alla direzione di marcia (art. 145); che nessun altro segno è consentito sulle carreggiate stradali soggette a pubblico transito, all'infuori di quanto previsto dalle norme in questione (art. 155).
Da ciò deriva che la colorazione verde, apposta sul fondo stradale dell'attraversamento pedonale, deve ritenersi contraria alle precise disposizioni poste dal Codice della strada e dal Regolamento.

Peraltro,
il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con il decreto ministeriale 27.04.2006 n. 777 (II° direttiva sulla corretta ed uniforme applicazione delle norme del codice della strada in materia di segnaletica e criteri per l'istallazione e la manutenzione), ha espressamente ribadito (punto 5) sia la cogenza della normativa stradale in ordine alla colorazione degli attraversamenti pedonali, sia la necessità che la colorazione sia uniforme sull'intero territorio nazionale; ha, inoltre, segnalato le responsabilità ricadenti sugli enti proprietari delle strade in caso di violazione delle anzidette disposizioni.
Tali prescrizioni costituivano peraltro oggetto della circolare 1/2001 della Prefettura di Padova, inviata a tutti i Sindaci della Provincia, in cui si richiamavano le disposizioni normative, la direttiva ministeriale e la normativa europea (UN 1436 del 2004) in ordine al divieto di utilizzare colorazioni diverse da quelle espressamente previste.
Tanto premesso,
il Collegio ritiene che la maggiore spesa effettuata dal Comune per la realizzazione degli attraversamenti pedonali colorati costituisca danno erariale in quanto non solo contraria alle disposizioni di legge ma anche di nessuna utilità per l'amministrazione stessa e la Comunità amministrata.
4.
Tale danno è addebitabile al signor Gi.St.Ba., per avere adottato la scelta di apporre una colorazione non consentita, in frontale contrasto con le disposizioni di legge sopra richiamate.
Ritiene, al riguardo, il Collegio che la condotta antigiuridica addebitata al convenuto sia supportata dalla colpa grave. La valutazione della sussistenza dell'elemento psicologico, nella intensità prevista dalla legge, va effettuata attraverso un giudizio di rimproverabilità per l'atteggiamento antidoveroso della volontà che sarebbe stato possibile non assumere, con valutazione ex ante, in base ai criteri della prevedibilità ed evitabilità della serie causale produttiva del danno (teoria della concezione normativa della colpevolezza).

Nel caso di specie,
il convenuto, per la sua qualificazione professionale (responsabile dell'Area tecnica-manutenzioni del Comune), avrebbe potuto certamente rilevare l'antigiuridicità della scelta effettuata, solo verificando le chiare disposizioni normative in materia, alla luce della modifica cromatica che andava a introdurre nella segnaletica orizzontale posta nel territorio dell'Ente locale, sicuramente innovativa rispetto ad una tradizionale coloratura.
Peraltro, nel periodo di tempo in cui tale innovazione venne introdotta (2008-2012) era intervenuta, ancorché non ve ne fosse necessità, anche una specifica circolare chiarificatrice della Prefettura di Padova. In buona sostanza,
sarebbe bastato un minimo di diligenza da parte del funzionario e un approfondimento sulla questione per valutare la portata delle disposizioni normative e per ricercare, ove non in possesso della Amministrazione, le direttive fornite dal competente Ministero nella materia de qua.
5. Per tutto quanto precede, il Collegio condanna il signor Gi.St.Ba. al pagamento, in favore del Comune di San Martino di Lupari (PD), della somma di € 1.155,00, comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre agli interessi legali calcolati dalla data di pubblicazione della sentenza sino al soddisfo.
6. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dei Conti
Sezione Giurisdizionale regionale per il Veneto
definitivamente pronunciando,
condanna BA.Gi.St. al pagamento, in favore del Comune di San Martino di Lupari (PD), della somma complessiva di € 1.155,00, comprensiva di rivalutazione monetaria, oltre interessi legali dalla data della sentenza sino all'effettivo pagamento.

PUBBLICO IMPIEGOP.a., resta il vincolo sui posti da dirigente.
Il vincolo di indisponibilità dei posti dirigenziali introdotto dalla legge di stabilità 2016 è ancora pienamente vigente, malgrado la parziale bocciatura della legge Madia da parte della Consulta e la conclusione delle procedure di ricollocamento dei lavoratori in esubero delle province.

Lo ha affermato la Corte Emilia Romagna nella parere 28.02.2017 n. 23, analizzando la portata dell'art. 1, comma 219, della legge 208/2015 alla luce del sopravvenuto quadro normativo e giurisprudenziale.
Tale disposizione ha congelato i posti da dirigente nelle p.a. vacanti alla data del 15.10.2015, con una misura espressamente collegata alla emanazione dei decreti delegati di cui agli art. 8, 11 e 17 della legge 124/2015, nonché alla conclusione dei procedimenti di mobilità previsti per il personale della province.
Tuttavia, i predetti articoli della legge Madia sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi (Corte cost. 251/2016) per cui il termine per l'esercizio della delega risulterebbe scaduto. Nel frattempo, anche le mobilità imposte dalla riconfigurazione degli enti di area vasta sono state completate.
Pertanto, un comune ha chiesto alla sezione emiliana se da tutto ciò possa discendere il venire meno del blocco. Come prevedibile, la Corte ha dato risposta negativa, affermando che il comma 219 è da considerarsi tuttora in vigore.
In questa prospettiva, il parere rammenta che la sentenza della Consulta non ha determinato alcun vuoto normativo, per cui la delega non solo non è scaduta ma, entro il termine stabilito, è tuttora legittimamente esercitabile da parte del governo a legislazione vigente, assumendo non il parere della Conferenza unificata bensì conseguendo l'intesa con la Conferenza stato-regioni.
Anche il Consiglio di stato, del resto, nel recente parere reso in data 09/01/2017, su apposita richiesta della presidenza del consiglio dei ministri, si è espresso in tal senso e la medesima linea interpretativa è stata sostenuta anche dalla Corte dei conti Lombardia per affermare (deliberazione n. 6/2017/Par) la piena validità del tetto al salario accessorio imposto dal comma 236 della stessa legge 208 (articolo ItaliaOggi del 07.03.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOTurnover, giro di vite dalla Corte conti.
Turnover limitato negli enti locali. La Corte dei conti, sezione regionale di controllo della Lombardia, col parere 15.02.2017 n. 23, torna sulla sfortunata questione dell'utilizzo dei «resti assunzionali», cioè le risorse utilizzabili negli anni precedenti per assunzioni, ma non consumate, fornendo un'interpretazione estremamente restrittiva, complicando ulteriormente una materia da sempre resa di difficile attuazione proprio dalle contraddittorie indicazioni della magistratura contabile.
Secondo il parere della sezione Lombardia, «al fine di calcolare la capacità assunzionale bisogna prendere come riferimento la percentuale indicata per l'anno in cui si intende avviare la procedura di assunzione, a prescindere da quale fosse la percentuale indicata nell'anno a cui si riferiscono le cessazioni intervenute (ossia i cosiddetti resti)». Questa indicazione finisce per stringere moltissimo le maglie delle assunzioni. Si prenda il caso dei comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti. Ai sensi dell'articolo 1, comma 228, della legge 208/2015, possono assumere nel limite del 25% del costo delle cessazioni del personale non avente qualifica dirigenziale, cessato nel 2016.
Secondo la chiave di lettura suggerita dalla sezione Lombardia, tuttavia, questa limitata percentuale non varrebbe solo per calcolare il turnover sull'anno precedente, ma anche per determinare l'ammontare dei resti assunzionali del triennio 2013-2015, sul quale «spalmare» questa limitata percentuale. Nonostante, invece, per ciascuno di tali anni il turnover sull'anno precedente fosse superiore (il 40% nel 2013 ed il 60% negli anni 2014-2015, con alcune possibilità di innalzamento per i comuni virtuosi).
Nei confronti degli enti con popolazione inferiore ai 10.000 abitanti, il cui rapporto dipendenti-popolazione dell'anno 2016 sia inferiore al rapporto medio dipendenti-popolazione per classe demografica, come definito triennalmente con il decreto del Ministro dell'interno di cui all'articolo 263, comma 2, del dlgs 267/20000, paradossalmente, invece, l'indicazione della sezione Lombardia potrebbe anche rivelarsi vantaggiosa, in quanto detti comuni potrebbero utilizzare il 75% come parametro per il conteggio del turnover del triennio 2013-2015 e, quindi, ottenere spazi maggiori di quelli fissati dalla legge. Secondo il parere della sezione Lombardia, i «resti assunzionali» devono essere presi in considerazione «solo per determinare l'entità del budget di spesa su cui va parametrata la capacità assunzionale che deve necessariamente essere rispettosa della percentuale fissata dal legislatore per l'anno in cui si intende a procedere con la nuova assunzione».
Quanto disposto dalla sezione Lombardia genera estrema confusione negli enti, che si trovano per l'ennesima volta spiazzati da interpretazioni contraddittorie della magistratura contabile: infatti, la Sezione regionale di controllo per il Veneto era giunta a conclusioni diametralmente opposte col parere 31.08.2012, n. 534. In effetti, la contraddittorietà ed incoerenza delle conseguenze derivanti dal parere 23/2017 della sezione Lombardia ne rendono estremamente debole l'impianto.
Il nuovo caos si aggiunge ad una situazione estremamente complicata, dovuta da un lato appunto alle continue modifiche alle regole sul turnover e, dall'altro, ad interpretazioni spesso sfortunate della Corte dei conti, come quella sul significato dell'articolo 3, comma 5, del dl 90/2014, che ha appunto consentito il cumulo delle risorse assunzionali, non correttamente considerato dalla sezione autonomie come rivolto alla programmazione futura con deliberazione 27/2014, dalla quale però la sezione non ha mai voluto recedere, costringendo il legislatore a prevedere espressamente l'utilizzabilità dei resti passati, come vuole la logica, attraverso il dl 79/2015 (articolo ItaliaOggi dell'01.03.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGODalla Corte dei conti prezioso assist sul taglio.
Dalla Corte dei conti dell'Umbria arriva un prezioso assist agli enti locali sui tagli alle risorse per il salario accessorio del personale. Secondo i giudici contabili, è possibile (e anzi quasi doveroso) disapplicare i criteri di calcolo indicati dalla Ragioneria generale dello Stato per quantificare le decurtazioni derivanti dalle cessazioni intervenute nell'anno precedente. Si tratta di un'apertura importante, che può tradursi in un insperato incremento delle risorse disponibili.

Tutto ruota intorno al comma 236 della legge 208/2015, che ha imposto di contenere il fondo entro il tetto massimo del 2015 e di decurtarlo in ragione delle cessazioni di personale. Tale obbligo vale nelle more dell'adozione dei decreti legislativi attuativi della legge Madia e la Corte dei conti della Puglia ne ha confermato pochi giorni fa la piena vigenza (parere 20.01.2017 n. 2).
Per il taglio proporzionale alle cessazioni esistono due metodi di calcolo, quello della Rgs e quello della Corte dei conti Lombardia (delibera n. 324/2011). Il primo (ribadito con la circolare n. 12/2016) comporta, però, un ingiustificato incremento della riduzione, poiché calcola la riduzione sommando alle cessazioni 2016 anche le cessazioni 2015 (pro quota, ossia meta del loro valore medio annuo).
Il sistema alternativo, più correttamente, tiene conto della data di cessazione dei dipendenti in considerazione del diritto dei cessati all'attribuzione del trattamento accessorio per il periodo di permanenza in servizio nell'anno solare di cessazione: pertanto, il fondo è ridotto solo dei ratei stipendiali effettivamente non corrisposti, rinviando il taglio della rimanente quota all'anno successivo.
La novità significativa della delibera della Corte dei conti Umbria è che non si limita a ribadire la vigenza di questo secondo metodo, ma lo considera preferibile in quanto «più aderente alla realtà».
Per tale motivo, considerato che il taglio proporzionale impone sempre il confronto con i presenti nel 2015, in sede di riclassificazione del fondo 2017 gli enti potranno utilizzare tale sistema per recuperare l'eventuale maggior taglio prodotto dal metodo della Rgs nel calcolo dei cessati del 2016 e aumentare così le risorse disponibili del fondo (articolo ItaliaOggi del 21.02.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO  IMPIEGOPersonale, spesa alleggerita. Possibile escludere dal tetto gli arretrati dovuti ai legali. Secondo la Corte conti Puglia devono essere ricompresi tra gli oneri straordinari.
Gli enti locali possono escludere dal tetto alla spesa di personale gli arretrati dovuti agli avvocati dell'ente a titolo di compensi professionali, in quanto nel conto economico costituiscono «componenti straordinari di costo», che devono essere ricompresi tra gli oneri straordinari alla voce «altri costi».

L'affermazione, contenuta nel recente parere 13.12.2016 n. 200 della Corte dei Conti Puglia, è importante, oltre che per il chiarimento puntuale che reca, anche in un'ottica di sistema.
Infatti, la magistratura contabile pugliese, riprendendo la linea interpretativa inaugurata della Sezione delle Autonomie nella delibera n. 16/2016, cerca di porre rimedio all'effetto distorsivo che il nuovo principio della competenza potenziata produce nel calcolo della spesa di personale.
Come ribadisce la stessa Corte Conti Puglia, infatti, anche nel sistema contabile armonizzato il computo della spesa deve considerare solo il dato degli impegni in contabilità finanziaria, quale risulta a consuntivo. L'armonizzazione, tuttavia, ha modificato la fase dell'impegno che si continua a registrare nell'esercizio di competenza, ma con imputazione all'anno di esigibilità. In tale anno, pertanto, la spesa impegnata risulta incrementata anche delle «quote» di competenza di anni precedenti (non liquidate in quegli esercizi) e questo può incidere negativamente proprio sul rispetto del vincolo del tetto massimo.
L'ente può violare il limite per effetto della registrazione contabile della spesa, senza che ciò corrisponda ad un effettivo incremento dei costi di personale. Tale effetto, invece, non si produce nel conto economico che «corregge» l'imputazione della spesa impegnata secondo il principio di competenza economica (registra i costi con modalità simili alla competenza giuridica della contabilità finanziaria ante dlgs 118).
Come accennato, la Sezione delle Autonomie aveva affermato lo stesso principio ma in riferimento agli arretrati del rinnovo contrattuale che nel nuovo sistema gravano per intero sull'anno di sottoscrizione del contratto, ma che non si calcolano ai fini del rispetto del tetto per espressa previsione del limite di cui ai comma 557 e 562 della l. 296/2006.
La novità della delibera della Corte pugliese, dunque, sta nell'aver ribadito la soluzione anche per gli arretrati di voci incluse nel vincolo di spesa, così rafforzando l'indicazione operativa dettata dalle autonomie.
In sostanza, gli enti potranno calcolare la spesa di personale rettificando il dato della spesa desunto dalla contabilità finanziaria con la contabilità economica. D'altronde lo stesso legislatore utilizza tale sistema per il calcolo degli indici di sana gestione allegati al bilancio di previsione e al consuntivo. Il nuovo metodo di calcolo può dunque risultare prezioso, tanto più che il più recente orientamento della Corte è particolarmente rigoroso in ordine alle spese da computare nel calcolo ed esclude le sole voci oggetto di una deroga espressa di legge (articolo ItaliaOggi del 10.02.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOMini-enti, più flessibilità sulle posizioni organizzative.
Ai fini del rispetto del tetto sul salario accessorio, è possibile considerare unitariamente le risorse di bilancio destinate al finanziamento delle indennità di posizione con il fondo risorse decentrate.

Il chiarimento arriva dalla Corte dei conti Piemonte e agevola i piccoli comuni privi di dirigenza, superando l'orientamento più restrittivo della Ragioneria generale dello Stato.
Il comma 236 della legge 208/2015 ha nuovamente imposto un tetto all'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento economico accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, delle pubbliche amministrazioni, che non può superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2015 ed è comunque automaticamente ridotto in misura proporzionale alla riduzione del personale in servizio, tenendo conto del personale assumibile ai sensi della normativa vigente.
Al riguardo, è pacifico che l'obbligo di contenimento si applichi anche alle indennità di posizione organizzativa (P.o.) dei comuni privi di dirigenza, benché finanziate con risorse di bilancio e non con il fondo decentrato (cfr. Corte dei conti – sezione delle autonomie, deliberazione n. 26/2014, nonché sezioni regionali di controllo Lombardia n. 123/2016 e Abruzzo n. 58/2016).
Tuttavia, secondo la Rgs, questo principio imporrebbe anche di applicare il vincolo separatamente alle risorse che finanziano le P.o. e al fondo del salario accessorio del restante personale (così la nota n. 63898 del 2015). Ne deriverebbe l'impossibilità di compensare eventuali aumenti delle risorse destinate alle P.o. con riduzioni di (altre) poste del fondo decentrato: di fatto, l'ente non potrebbe costituire nuove P.o. o aumentare l'indennità di quelle in carica (anche in caso di cessazioni, dovendo ridurre le risorse destinate alle P.o. del valore P.o. cessata).
In forza di tale interpretazione, per tutto il periodo di durata del vincolo per le (sole) P.o. continuerebbe a valere il divieto di aumento stipendiale dell'art. 9, comma 1, del dl 78/2010, ormai non più in vigore: l'indennità di ciascuna P.o. resterebbe bloccata al valore che aveva nel 2015 (tetto massimo), salva riduzione dell'indennità di altra po. L'evidente disparità di trattamento richiedeva un intervento correttivo arrivato ora con il parere 29.11.2016 n. 135 della Corte dei conti Piemonte.
Anche nel 2017, dunque, è possibile variare la retribuzione di posizione delle P.o. in carica o conferire nuovi incarichi anche se solo previa riduzione di altre poste iscritte nel fondo risorse decentrate destinato alla generalità dei lavoratori dell'ente.
Si ricorda che mentre la costituzione del fondo è atto di competenza unilaterale dell'ente, le modalità di impiego delle risorse è attribuita alla contrattazione decentrata. Sarà pertanto necessario ottenere il consenso delle organizzazioni sindacali all'operazione che riduce l'accessorio del restante personale (salvo agire in applicazione dell'art. 40, comma 3-ter, dlgs 165/2001) (articolo ItaliaOggi del 10.02.2017).

DOTTRINA E CONTRIBUTI

AMBIENTE-ECOLOGIA: E. Lo Monte, Art. 659 c.p.: una fattispecie contro il disturbo delle persone che finisce per disturbare solo il giudice - Cassazione Penale, Sez. III, 07.02.2017 n. 5613 (aprile 2017 - tratto da www.giurisprudenzapenale.com).
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L’Autore commenta una recente pronuncia della III sezione in tema di Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (art. 659 c.p.), fattispecie la cui oggettività giuridica tutelata, secondo un’autorevole tesi dottrinale, confortata da un concorde orientamento giurisprudenziale, anche risalente, va individuata nell’ordine pubblico, considerato nello specifico aspetto della pubblica tranquillità o della quiete pubblica.
Le disposizioni di cui all’art. 659 c.p. sono finalizzate alla salvaguardia della quiete pubblica, quale prospettazione dell’ordine pubblico materiale parametrato, nel caso di specie, sulla pace pubblica o sulla pacifica convivenza. Ed infatti, l’ordine pubblico, nella sua accezione materiale, nel senso di pubblica tranquillità è assunto ad oggetto di tutela in diverse fattispecie del codice penale (ad esempio, agli artt. 654, 655, 657, 659, 660) che, non a caso, non presentano particolari problemi di tipo interpretativo.
Resta il problema della collocazione codicistica di tali fattispecie, come del resto di molte delle contravvenzioni all’interno del codice penale. Il percorso argomentativo svolto dal supremo Collegio conferma questa lettura della fattispecie criminosa e si muove in linea con precedenti orientamenti.

EDILIZIA PRIVATA: La semplificazione amministrativa dei regimi edilizi - D.LGS. 25.11.2016 N. 222 (SCIA 2) (ANCI, marzo 2017).
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Semplificazione amministrativa, maggiore dialogo dei Comuni con i cittadini e le imprese, interventi di edilizia più veloci e regole più chiare. Il decreto Madia sulla semplificazione in materia edilizia (d.lgs. 222/2016, cosiddetto Scia2) porta con sé un potenziale di alto valore, soprattutto appunto sulla semplificazione. Un tema sul quale l’Anci punta molto, cercando di supportare l’evoluzione delle normative soprattutto nei Comuni più piccoli, dove la competenza e la propensione all’innovazione è più difficile. E’ anche in quest’ottica che nasce il sesto quaderno tecnico dell’Anci, dedicato proprio allo Scia2 e consultabile gratuitamente sul sito istituzionale dell’Associazione.
Accanto a un necessario inquadramento delle nuove norme sugli interventi di edilizia nelle città, il quaderno offre agli amministratori e agli 8 mila Municipi una modulistica aggiornata su tutti i tipi di adempimento necessari a seconda della fattispecie di intervento edilizio. Chiarendo, inoltre, una delle maggiori innovazioni che il decreto apporta, ovvero quella del regime amministrativo da adottare per i singoli interventi. Che, in alcuni casi, possono ora essere effettuati anche senza dare comunicazione al Comune: l’installazione di pannelli solari e fotovoltaici o la pavimentazione del giardino condominiale –magari con installazione di giochi per bambini– sono solo alcuni degli esempi in tal senso.
L’ambizione del quaderno, dunque, non è solo quella di dare ai Comuni uno strumento utile a favorire la regolarità di tutte le procedure. Attraverso la stesura di linee guida chiare e definite, infatti, si incrementa anche l’opportunità concreta di potenziare e semplificare il dialogo tra amministrazione, cittadini e imprese.
Le indicazioni, gli schemi e la modulistica presenti nella pubblicazione tengono conto anche del nuovo regolamento di semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche.

PUBBLICO IMPIEGO: Affondo populista sulla trasparenza per i dirigenti pubblici (26.03.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

APPALTI: Appalti: eterno vai e vieni della norma sullo scorporo dei costi del personale (25.03.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

PUBBLICO IMPIEGO: Quello strano no agli obblighi di trasparenza per gli uffici in staff alla politica (25.03.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: M. Timo, Considerazioni sull’ambito di applicazione della legge 241/1990 (25.03.2017 - tratto da www.giustizia-amministrativa.it).
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Sommario: 1. Premessa; 2.1. I rapporti della legge 241 con altre disposizioni normative: la legge statale; 2.2. (Segue) la legge regionale; 3. Osservazioni conclusive.

APPALTI: S. Tuccillo, Le raccomandazioni vincolanti dell’ANAC tra ambivalenze sistematiche e criticità applicative (Riflessioni a margine del Regolamento ANAC sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici) (22.03.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. Premessa 2. La disciplina normativa e le interpretazioni possibili 3. Sul potere di autotutela della stazione appaltante 4. La natura della raccomandazione vincolante e il rapporto con il potere sanzionatorio 5. Il Regolamento ANAC sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici: lo “strappo nel cielo di carta” o l’ennesima conferma dell’esorbitanza dei poteri dell’Autorità anticorruzione?

APPALTI SERVIZI: F. Midiri, I servizi pubblici locali privi di interesse economico fra legislatore nazionale e giurisprudenza europea (22.03.2017 - tratto da www.federalismi.it).
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Sommario: 1. I servizi di interesse economico generale ed i servizi privi di interesse economico nella recente legislazione 2. Il modello dei SIEG derivato dalla giurisprudenza europea e la nozione di servizio di interesse economico generale nel testo unico sui servizi pubblici locali di interesse economico 3. La nozione di servizio pubblico locale non di interesse economico che emerge dal testo unico 4. Le deroghe della giurisprudenza comunitaria al regime concorrenziale dei SIEG sulla base dei principi di sussidiarietà e solidarietà 5. Il principio di sussidiarietà orizzontale come criterio per identificare i servizi privi di interesse economico ed il loro ambito di operatività.

PUBBLICO IMPIEGO: San Remo: reintegrato per vizi di forma uno degli assenteisti (18.03.2017 - link a http://luigioliveri.blogspot.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: C. Bianco e F. Radicetti, Profili normativi e problematici dell’Accesso civico - Nota a Cons. St., Sez. IV, sentenza 12.08.2016 n. 3631 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2016).
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SOMMARIO: 1. Cenni sull’origine dell’istituto e sulla sua introduzione nell’ordinamento italiano - 2. Diritto d’accesso e accesso civico: presupposti e coesistenza dei due istituti - 3. Profili problematici per l’individuazione dei limiti all’accesso civico e rinvio al soft law quale possibile strumento di soluzione - 4. Possibile evoluzione dell’istituto.

ATTI AMMINISTRATIVI: A. Contaldo e F. Peluso, La Posta Elettronica Certificata nella pratica amministrativa (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2016).
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SOMMARIO: 1. introduzione - 2. La Pec nell’ordinamento giuridico - 2.1. Cenni sulla PEC nell’evoluzione della digitalizzazione della P.a. - 2.2. alcune problematiche giuridiche della PEC - 3. La Posta Elettronica Certificata nell’ambito internazionale - 4. il funzionamento del sistema di Posta Elettronica Certificata - 5. i vantaggi derivanti dall’uso della PEC.

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: G. Fabrizi, Scissione ope legis del rapporto organico e responsabilità del funzionario per il contratto stipulato in violazione delle norme di contabilità pubblica dell’Ente. Improponibilità dell’azione ex art. 2041 cod. civ. nei confronti della P.A. - Nota a Cassazione Civile, Sez. I, sentenza 04.01.2017 n. 80 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2016).
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Relativamente all'attività contrattuale condotta dall'amministratore o funzionario in violazione delle regole di contabilità in merito alla gestione degli enti locali, si applica l’art. 23 del d.lgs. n. 66/1989 (oggi confluito nell’art. 191 del TUEL, d.lgs. n. 267/2000) che prevede l’imputazione dei relativi effetti alla sfera giuridica del funzionario e non dell’Ente comunale.
Si realizza una vera e propria frattura o scissione ope legis del rapporto di immedesimazione organica tra i suddetti agenti e la Pubblica Amministrazione, con conseguente esclusione della riferibilità a quest'ultima delle iniziative adottate al di fuori delle norme di contabilità pubblica.
Da ciò deriva l’improponibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento ex art. 2041 cod. civ. nei confronti del Comune. (...continua).

LAVORI PUBBLICI: S. Trivelloni, Attività di protezione civile tra contratti di appalto, affidamenti in house ed accordi fra pubbliche amministrazioni ex art. 15, L. 07.08.1990, n. 241 ed art. 6 L. 24.02.1992, n. 225, alla luce dell’entrata in vigore del d.Lgs. 18.04.2016, n. 50 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 4/2016).
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SOMMARIO: Premessa - 1. onerosità della prestazione - 2. requisito soggettivo: nozione di operatore economico - 3. requisito oggettivo. la deroga di cui agli artt. 17, 9 e 158 del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 - 4. in house providing - 5. la cooperazione tra soggetti pubblici.

APPALTI: G. Gambardella e C. A. Mauro, Il soccorso istruttorio dopo l’entrata in vigore del D.lgs. n. 50 del 18.04.2016. Vecchie e nuove problematiche (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2016).
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SOMMARIO: 1. Origini del soccorso istruttorio - 2. I principi del soccorso istruttorio - 3. Tassatività delle cause di esclusione nel codice degli appalti pubblici, con particolare riferimento all’analisi degli articoli 46 e 38 dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 50 del 18.04.2016 - 4. Conclusioni.

ATTI AMMINISTRATIVI - PUBBLICO IMPIEGO: M. Gerardo, Anticorruzione e trasparenza nella pubblica amministrazione. Profili giuridici, economici ed informatici (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2016).
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SOMMARIO: 1. Introduzione - 2. Aspetti della disciplina della trasparenza strumentali alla prevenzione della corruzione e degli illeciti nella p.a. - 3. (Segue) Presupposti affinché la disciplina sulla trasparenza possa efficacemente operare - 4. “Aspetto statico” dell’attività rivolta alla prevenzione della corruzione - 5. “Aspetto dinamico” dell’attività rivolta alla prevenzione della corruzione - 6. Gestione informatica dei dati.

APPALTI SERVIZI: D. Andracchio, Lo «Stato-Autoproduttore» - Dalle origini giurisprudenziali alla codificazione dell’in house providing (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2016).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La cura concreta degli interessi pubblici e l’ampia discrezionalità della p.a. nella scelta degli «strumenti»: esternalizzazione, partenariato pubblico-privato e in house providing. La sequenza logica “interessi pubblici-mezzi-strumenti” - 3. Le origini giurisprudenziali dell’in house providing e i requisiti del «controllo analogo» e della «attività prevalentemente svolta in favore dell’ente pubblico» - 4. La dubbia natura dell’in house providing: «ordinarietà» versus «derogatorietà» - 5. Critica alla «derogatorietà». Le tre ragioni che giustificano la configurazione dell’in house providing come modello organizzatorio ordinario: la incostituzionalità dei limiti all’utilizzo della autoproduzione, i vincoli di finanza pubblica imposti dal Patto di Stabilità Interno (P.S.I.) e il principio di auto-organizzazione amministrativa - 6. L’in house providing nelle nuove direttive appalti e il processo di «positivizzazione-integrazione» dei requisiti dell’istituto: il carattere misto della nuova autoproduzione - 7. I nuovi requisiti del «controllo analogo» e della «attività prevalente» come elaborati nelle nuove direttive in materia di appalti e di concessioni: l’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative della struttura in house e lo svolgimento di un’attività pubblica nella misura dell’oltre 80 % - 8. Le fattispecie di autoproduzione disciplinate nelle nuove direttive in materia di appalti e di concessioni: in house verticale ed invertito, in house orizzontale, in house frazionato e la cooperazione pubblico-pubblico non istituzionalizzata - 9. La «forma giuridica» dell’in house providing prima e dopo l’adozione delle direttive europee. Società in mano pubblica, fondazioni pubbliche e associazioni no profit - 10. Considerazioni conclusive: le questioni affrontate dalla più recente giurisprudenza amministrativa in tema di in house providing e il nuovo Codice degli appalti pubblici.

APPALTI: A. Mezzotero e D. Romei, Gli effetti dell’annullamento dell’aggiudicazione sul contratto (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2016).
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SOMMARIO: 1. Premessa - 2. La tesi dell’annullabilità del contratto - 3. La tesi della nullità del contratto - 4. La tesi dell’inefficacia del contratto - 5. La tesi della caducazione automatica del contratto - 6. La soluzione accolta dal legislatore - 7. Le sanzioni alternative 8. I profili risarcitori.

PUBBLICO IMPIEGO: F. Scardino, L’uso illegittimo dell’autovettura di servizio - Nota a Cassazione penale, Sez. VI, sentenza 31.03.2016 n. 13038 (Rassegna Avvocatura dello Stato n. 2/2016).

PUBBLICO IMPIEGO: M. De Paolis, Reato di concussione per costrizione e per induzione (Azienditalia n. /2015).
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Il reato di concussione, nella duplice forma della costrizione e dell’induzione, costituisce un delitto particolarmente grave in quanto lede il prestigio della PA con il venir meno delle regole di lealtà dei propri dipendenti e contemporaneamente danneggia l’integrità patrimoniale dei soggetti privati che vedono anche coartata la libertà di espressione.

EDILIZIA PRIVATA: M. Panato, Semplificazione amministrativa: innovazioni, profili applicativi e orientamenti interpretativi (Azienditalia n. 11/2015).
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Anche in campo urbanistico ed edilizio il legislatore tenta, da tempo, di introdurre nuovi meccanismi di semplificazione amministrativa. In particolare con i decreti c.d. Sviluppo Italia, Cresci Italia e Sblocca Italia e, recentissimamente, con la legge n. 124/2015 "Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche", sono state introdotte nuove norme sul procedimento amministrativo (tra cui la modifica degli art. 21-quinquies e 21-nonies della legge n. 241/1990) ed in materia più prettamente edilizia, con modifiche anche dei titoli abilitativi.
Altre innovazioni, invece, hanno interessato gli strumenti ed i metodi di governo del territorio. Da questo sono derivati nuovi adempimenti per gli enti locali, ma anche procedimenti (parzialmente) più snelli e la possibilità per i Comuni di farsi promotori di politiche per il recupero edilizio.

ATTI AMMINISTRATIVI - CONSIGLIERI COMUNALI: M. De Paolis, Atto di alta amministrazione, politico e a movente politico (Azienditalia n. 11/2015).
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Nell’ambito dell’attività svolta dalle Pubbliche Amministrazioni un momento particolarmente rilevante è rappresentato dalla nomina degli organi di vertice a cui si provvede attraverso l’atto di alta amministrazione al quale si affiancano gli atti politici utilizzati per inviare direttive e gli atti a movente politico che sono atti amministrativi al pari degli atti di alta amministrazione.

APPALTI: V. Giannotti, Le tutele del terzo in caso di debiti fuori bilancio: analisi delle responsabilità (Azienditalia n. 10/2015).
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Spetta al Consiglio comunale il riconoscimento dei debiti fuori bilancio e in caso di non riconoscimento, si è aperta nella giurisprudenza civile una dicotomia di soluzioni, entrambe dettate dalle Sezioni Unite della Cassazione. Il discrimine nasce dalla tutela riconosciuta al terzo, rivolta nei confronti dell’Amministrazione a livello sussidiario, per tutti i debiti nascenti prima delle disposizioni introdotte nel D.L. n. 66/1989, mentre per i debiti sorti successivamente la responsabilità è attribuibile al funzionario o amministratore che li abbia contratti.
Intento dell’articolo è fornire un’adeguata ricostruzione degli istituti riguardanti i debiti fuori bilancio così come attualmente delineati dalla giurisprudenza di legittimità, ivi compreso il recente passaggio anche della giurisprudenza amministrativa.

PATRIMONIO: M. Pollini, Il contratto di manutenzione degli immobili (Azienditalia n. 10/2015).
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La vigente normativa in materia di manutenzione degli immobili da parte della Pubblica Amministrazione è orientata alla riduzione degli spazi utilizzati e dei relativi costi. L’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC), con la Determina n. 7 del 28.04.2015, ha dettato le Linee guida per l’affidamento del servizio di manutenzione degli immobili stessi.
Nel presente lavoro vengono richiamate le principali norme in materia e, con riferimento alle suddette Linee guida e con spunti dello scrivente, sono presi in considerazione gli aspetti più rilevanti della tematica, dalla programmazione al controllo dell’esecuzione del servizio.

A.N.AC. (già AUTORITA' VIGILANZA CONTRATTI PUBBLICI)

INCARICHI PROGETTUALI: Oggetto: Indicazioni operative a seguito dell'entrata in vigore del Decreto 02.12.2016, n. 263 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (Regolamento recante definizione dei requisiti che devono possedere gli operatori economici per l'affidamento dei servizi di architettura e ingegneria e individuazione dei criteri per garantire la presenza di giovani professionisti, in forma singola o associata, nei gruppi concorrenti ai bandi relativi a incarichi di progettazione, concorsi di progettazione e di idee, ai sensi dell'articolo 24, commi 2 e 5, del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) (comunicato del Presidente 22.03.2017 - link a www.anticorruzione.it).

APPALTI: Vigilanza sui contratti pubblici. Pubblicati i nuovi moduli per la presentazione degli esposti.
Pubblicati i nuovi moduli per la presentazione di esposti in calce al "Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici - regolamento 15.02.2017" e nella sezione modulistica "Presentazione di esposti alle vigilanze" (27.03.2017 - link a www.anticorruzione.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGO: Linee guida recanti indicazioni sull’attuazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 «Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali» come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016 (determinazione 08.03.2017 n. 241 - link a www.anticorruzione.it).
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Il Consiglio dell’ANAC ha approvato nella seduta dell’08.03.2017, dopo la consultazione pubblica, le Linee guida sull’applicazione dell’art. 14 del d.lgs. 33/2013 Obblighi di pubblicazione concernenti i titolari di incarichi politici, di amministrazione, di direzione o di governo e i titolari di incarichi dirigenziali, come modificato dall’art. 13 del d.lgs. 97/2016.
Alla luce delle modifiche introdotte dal d.lgs. 97/2016, le Linee guida forniscono indicazioni e chiarimenti sull’attuazione delle misure di trasparenza contenute nell’art. 14, oggi riferite ad un novero di soggetti più ampio rispetto al testo previgente.
Le Linee guida entrano in vigore il giorno successivo alla pubblicazione sulla G.U. e sostituiscono integralmente la delibera numero 144 del 07.10.2014.

APPALTIBando ko nonostante preannuncio. Delibera anac.
Un bando per appalto integrato pubblicato dopo l'entrata in vigore del decreto 50/2016 è illegittimo anche se la stazione appaltante aveva effettuato la preinformazione prima del 19.04.2016.

Lo precisa l'Autorità nazionale anticorruzione con la delibera 01.03.2017 n. 212 che, a seguito di una segnalazione dell'Associazione delle società di ingegneria (Oice), ha affrontato il tema della legittimità di un bando per appalto integrato emesso dall'Azienda ospedaliera di Padova.
Secondo l'Oice la procedura doveva ritenersi non più applicabile al momento della pubblicazione del bando e del disciplinare di gara, ancorché la pubblicazione fosse stata proceduta da un avviso di preinformazione. A questa tesi si era contrapposta la stazione appaltante segnalando che il bando era comunque legittimo perché preceduto da un avviso di preinformazione pubblicato precedentemente all'entrata in vigore del codice (19.04.2016).
La materia era regolata dall'art. 216, comma 1, del dlgs 50/2016 che prevede che il nuovo Codice si applichi alle procedure e ai contratti per le quali i bandi e avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente sono pubblicati successivamente alla sua entrata in vigore.
La delibera chiarisce che «per avvisi pubblicati con una delle forme di pubblicità obbligatorie indicate dall'articolo 66 del dlgs 163/2006 di cui al comunicato Anac dell'11.05.2016 devono intendersi gli avvisi che la stazioni appaltanti hanno l'obbligo di pubblicare all'atto di indizione di una procedura di scelta del contraente». Pertanto, dice la delibera Anac, «la pubblicazione dell'avviso di preinformazione comunque non è obbligatoria ed è necessaria soltanto qualora le s.a. ricorrano alla facoltà loro concessa di ridurre i termini di ricezione delle offerte».
Quindi, dal momento che la gara il cui bando di indizione è pubblicato in data successiva all'entrata in vigore del dlgs 50/2016, esso ricade nell'ambito di applicazione del nuovo codice anche se il relativo avviso di preinformazione è stato pubblicato prima del 19.04.2016 (articolo ItaliaOggi del 18.03.2017).

APPALTISanzioni Anac solo per i casi più gravi. Codice appalti. L’effetto delle raccomandazioni.
Ispezioni, alert e sanzioni (salate) per chi non si adegua. Ma anche una sorta di "bollino blu" per premiare gli enti capaci di distinguersi per la buona amministrazione.
Sono il "bastone e la carota" al centro del nuovo regolamento (regolamento 15.02.2017 sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici) con cui l’Anticorruzione disciplina la «raccomandazione vincolante»: uno dei poteri di vigilanza più delicati concessi dal nuovo codice appalti all’Autorità di Raffaele Cantone.
In ballo c’è la possibilità per l’Anac di intervenire in tempo (quasi) reale sulla gestione delle gare pubbliche, intimando ai funzionari di correggere in corsa gli atti o le procedure illegittime. Sotto la minaccia di sanzioni pesantissime per chi non si adegua alla "raccomandazione": la forchetta oscilla tra 250 e 25mila euro, a carico dei dirigenti pubblici. Un potere molto rilevante, mirato a dare strumenti efficaci (e tempestivi) per combattere corruzione e illegalità nel mercato (da oltre cento miliardi all’anno) degli appalti. Di qui la scelta di delimitarne in modo rigoroso gli ambiti di applicazione. La «raccomandazione vincolante» scatterà soltanto a fronte del rischio di gravi violazioni delle norme. Inoltre, bisognerà garantire sempre il contraddittorio con stazioni appaltanti e dirigenti coinvolti dal procedimento.
Il regolamento, che ha recepito molte osservazioni mosse dal Consiglio di Stato, stabilisce innanzitutto che la vigilanza prenderà il via sulla base dell’attività ispettiva dell’Anac, ma anche tenendo conto delle segnalazioni inviate agli uffici di Via Minghetti a Roma, oltre che nei casi in cui le Pa verranno colte in fallo sull’applicazione dei protocolli di «vigilanza collaborativa» o rifiuteranno di adeguarsi a un parere di «precontenzioso vincolante».
Precise anche le direttive sulle segnalazioni: dovranno essere presentate seguendo il modello allegato al regolamento (preferibilmente tramite Pec) e dovranno essere firmate. Quelle anonime saranno scartate. Mentre nel caso di denunce frutto della soffiata di un «whistleblower» verrà garantita la tutela dell’identità del dipendente.
L’attivazione del potere di raccomandazione è limitata alle violazioni più gravi. Tra queste: l’affidamento di contratti senza bando quando le norme prescrivono di dare pubblicità all’appalto; la firma del contratto senza attendere i canonici 35 giorni dall’aggiudicazione («stand still»); la mancata esclusione di concorrenti privi dei requisiti morali per contrattare con la Pa; il frazionamento artificioso dell’appalto per ridurre l'importo al di sotto delle soglie che impongono la gara; l’avvio di appalti di partenariato senza trasferimento di rischi operativi sui privati; l’abuso di ricorso alle deroghe previste in caso di urgenza o dalle norme di protezione civile.
Fuori dai casi più gravi l’Anac potrà adottare un atto di raccomandazione non vincolante, dunque privo di sanzioni. Quanto ai tempi, il procedimento dovrà partire entro 60 giorni dalla segnalazione e nessun "fascicolo" potrà essere aperto a contratto già avviato. Nel corso del procedimento sono previste audizioni e deposito di memorie, oltre che la possibilità di ispezioni.
Gli enti destinatari di una raccomandazione vincolante avranno 15 giorni per comunicare all’Anac le loro intenzioni. Per chi non si adegua scatteranno le multe. Ma sono previsti anche i casi di segnalazione in positivo delle Pa che hanno messo in pratica «buone pratiche amministrative»: una sorta di "bollino blu" rilasciato dall’Authority
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

LAVORI PUBBLICI: Ribassi, come scoprire se lo sconto è congruo. Parere dell'Anac sui criteri per determinare le percentuali.
La verifica della congruità di un ribasso presentato nell'ambito di lavori affidati in house da una concessionaria, deve essere effettuata rispetto ad appalti omogenei dal punto di vista sia del prezzario applicato, sia delle tipologie di lavorazioni oggetto del contratto da affidare.
È quanto ha affermato l'Autorità nazionale anticorruzione nel parere sulla normativa 11.01.2017 n. 8 - rif. AG 53/2016/AP .
Il parere dell'Autorità nasce da una richiesta avanzata dall'Enac (Ente nazionale per l'aviazione civile) un anno fa con la quale veniva chiesto il parere dell'organismo di regolazione vigilanza in merito al criterio da seguire nella determinazione della percentuale di ribasso in una fattispecie di affidamento diretto di lavori ad impresa collegata ex art. 218 dlgs n. 163/2006, allora vigente e oggi riprodotto nell'art. 7 del dlgs n. 50/2016.
Nel caso specifico era prevista una remunerazione in tariffa secondo le previsioni del contratto di programma, mediante applicazione di un ribasso, che possa ritenersi congruo, a partire dal prezzario di riferimento, aggiornato ai sensi dell'art. 133, comma 8, del dlgs n. 163/2006 e appositamente validato da un organismo di certificazione.
Le percentuali di ribasso proposte dal concessionario erano pari a 21,29%, 23,69% e 25,67% e si articolavano per soglie di valore dell'appalto calcolate prendendo in considerazione i ribassi ottenuti in gare per infrastrutture di volo, con importo a base d'asta superiore a 150 mila euro, aggiudicate e contrattualizzate nel periodo 2010-2014, i cui lavori si erano conclusi entro il 2014, in 14 aeroporti italiani con Wlu (work load unit) superiore a 3 milioni l'anno.
Ad avviso dell'Enac le percentuali non sarebbero state congrue se confrontate con le medie di ribasso calcolate dalla stessa Enac sui ribassi registrati negli ultimi cinque anni sul territorio nazionale (che darebbero dati più alti del 3, 8 e 3 per cento) e da qui la richiesta di parere formulata ad Anac per capire quale potesse essere il corretto metodo di calcolo per la determinazione delle percentuali.
Il parere dell'Anac premette una considerazione generale relativa alla variabilità dei ribassi presentati in gara che sono «chiaramente influenzati in modo decisivo dalla base d'asta dell'appalto, la quale è a sua volta frutto dell'applicazione del prezzario di riferimento alle singole lavorazioni che compongono l'appalto stesso». Nel merito, le indicazioni fornite dall'Autorità sono nel senso di fare riferimento a precedenti appalti in cui sia stato utilizzato lo stesso prezzario e, considerando nel caso specifico che il prezzario era stato aggiornato da poco, occorreva «particolare cautela nel confrontare ribassi la cui entità dipende ovviamente dal prezzario di riferimento applicato».
Andava quindi ben verificato il grado di confrontabilità. Particolare attenzione andava prestata anche alla significatività del campione di riferimento e alla tipologia di lavori oggetto degli appalti esaminati: dovevano essere appalti analoghi, in termini di lavorazioni oggetto del contratto, a quelle dell'affidamento in esame. Infine, il metodo di calcolo deve sempre garantire un numero significativo di osservazioni ma, al tempo stesso, non troppo ampio, al fine di consentire l'utilizzo di dati tra loro confrontabili (articolo ItaliaOggi del 24.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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OGGETTO: proposta di affidamento diretto ad impresa collegata di lavori per la realizzazione di infrastrutture aeroportuali – congruità del ribasso da applicare al prezzario adottato –- richiesta di parere.
AG 53/2016/AP
Infrastrutture aeroportuali – affidamento diretto a impresa collegata – ribasso – criterio di calcolo di ribasso congruo.
La percentuale di ribasso da applicare agli affidamenti diretti di lavori aeroportuali ex art. 7 del d.lgs. n. 50/2016 è calcolata correttamente quando è determinata tenendo conto di un insieme di appalti omogeneo sia sotto il profilo del prezzario applicato che della tipologia di lavorazioni oggetto del contratto.
Occorre altresì che l’arco temporale di riferimento dei dati utilizzati per il calcolo sia sufficiente a garantire un numero significativo di osservazioni ma, al tempo stesso, non troppo ampio, al fine di consentire l’utilizzo di dati tra loro confrontabili.

Articolo 7 del d.lgs. 50/2016

QUESITI & PARERI

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla divisione ereditaria di edifici ricadenti in zona agricola che comporti la realizzazione di edifici plurifamiliari come causa di esclusione della lottizzazione abusiva - Comune di Montopoli di Sabina (Regione Lazio, nota 28.03.2017 n. 159695 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Oggetto: Parere in merito alla verifica della legittimità delle preesistenze nell'ambito dei procedimenti di accertamento di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. 42/2004 (Regione Lazio, nota 28.03.2017 n. 159563 di prot.).

URBANISTICA: Oggetto: Parere in merito all'ammissibilità della procedura di variante urbanistica di cui all'art. 8 del d.P.R. 160/2010 per gli esercizi che svolgono attività di somministrazione di alimenti e bevande (Regione Lazio, nota 28.03.2017 n. 158854 di prot.).

EDILIZIA PRIVATA: Le distanze tra edifici e le superfici coperte.
DOMANDA:
Definizione di superficie coperta, definizione di distanze, definizione di bow window. Le NTA del PRG vigente di questo comune definiscono la superficie coperta quale la massima sezione orizzontale del fabbricato con esclusione di scale a giorno, di aggetti a giorno, di bow window e di porticati purché in tutti i casi menzionati ci si trovi senza sovrastante costruzione e interessanti non più di ml. 1,50.
Inoltre, sempre le NTA, stabiliscono che le distanze dalle strade e dai confini devono essere misurate dall'ingombro della superficie coperta, così come sopra definita, quindi ad esclusione delle scale a giorno, di aggetti a giorno, di bow window, ecc. …..
Si chiede se possa essere positivamente valutata una istanza nella quale viene proposto un “bow window”, ovvero un allargamento aggettante verso l’esterno di un solo piano del fabbricato rispetto la muratura perimetrale portante per 1,50 mt., lasciando libera tale sporgenza da sovrastanti e sottostanti costruzioni in rispetto delle NTA sopra riportate.
Tale allargamento aggettante sarebbe comunque parte integrante degli ambienti interni dell’edificio, senza distinzione o separazione tra la parte “aggettante – bow window” e la rimanente parte interna delle stanze.
In conseguenza di ciò il fabbricato proposto avrebbe una parte, ovvero quella definita “bow window”, che oltre a non essere calcolata ai fini della superficie coperta, sarebbe anche posta ad una distanza dai confini e dalle strade inferiore ai 5 metri.
RISPOSTA:
Si ritiene opportuno premettere che per “bow window” si intende quel tipo di balcone chiuso sporgente per uno o più piani dalla facciata di un edificio, e interamente unito, mediante una grande apertura, all’ambiente interno corrispondente, del quale costituisce parte integrante.
Ciò premesso si rileva che le distanze previste dall’art. 9 del DM n. 1444 sono in genere ritenute inderogabili trattandosi di norme di interesse pubblico sotto il profilo igienico-sanitario e tali sono state considerate anche in giurisprudenza per quanto riguarda in particolare i bow windows (v. TAR Lombardia, Milano, n. 2187/2011).
E’ stato inoltre affermato che per il calcolo della distanza legale tra gli edifici è necessario valutare la tipologia dei manufatti: al riguardo con l’ordinanza del n. 424 del 27.01.2010, il Consiglio di Stato ha stabilito, in sostanziale conferma di quella cit. del TAR, che ai fini del calcolo delle distanze legali dai confini: “devono computarsi le parti dell’edificio quali scale, terrazze e corpi avanzati che, seppur non corrispondano a volumi abitativi coperti, siano destinati ad estendere e ampliare la consistenza del fabbricato; mentre non sono computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano una funzione meramente ornamentale, di rifinitura o accessoria di limitata entità, come le mensole, i cornicioni, le grondaie e simili”.
Il Consiglio di Stato ha anche ribadito, richiamandosi alla sentenza della Cassazione Civile n. 19544/2009, che il limite di tre metri previsto dall’art. 873 c.c. come distanza minima dalle costruzioni, non può essere derogato da fonti normative secondarie quali i regolamenti comunali. Resta invece ammissibile per queste fonti secondarie “stabilire distanze maggiori” ai sensi del comma 7 e 9 dell’art. 873 c.c. seconda parte e/o anche determinare “punti di riferimento, per la misurazione delle distanze, diversi da quelli indicati dal codice civile, escludendo taluni elementi della costruzione dal calcolo delle più ampie distanze previste in sede regolamentare”.
Viene infatti precisato che gli oggetti presenti sull'edificio non possono considerarsi meri elementi decorativi, al contrario, estendendo il volume edificatorio, e che quindi costituiscono corpo di fabbrica e, come tali, da dover essere conteggiati nel calcolo della distanza (link a
www.ancirisponde.ancitel.it).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Parità di genere per tutti. Anche nei comuni sotto i 3 mila abitanti. Il principio non ha valore programmatico ma è precettivo per gli enti.
Un ente locale con popolazione inferiore a 3 mila abitanti deve conformarsi, nella composizione della giunta comunale, alla vigente normativa in tema di parità di genere? È ammissibile la delega a un consigliere comunale?

La legge n. 56 del 07.04.2014, all'art. 1, comma 137, ha disciplinato la materia per i soli comuni con popolazione superiore ai 3 mila abitanti stabilendo, affinché sia rispettato il principio della parità di genere, un preciso quorum del 40%; per i comuni al di sotto di tale soglia demografica occorre richiamare l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo n. 267/2000.
Tale articolo prevede che gli statuti comunali e provinciali stabiliscono norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali non elettivi del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti. La citata disposizione è stata modificata dall'art. 1, comma 1, della legge n. 215 del 2012 che ha sostituito il verbo «promuovere» con il verbo «garantire» ed ha aggiunto alla espressione «organi collegiali» la dicitura «non elettivi».
Ai sensi del comma 2 dell'art. 1 della citata legge n. 215 del 2012 è previsto che gli enti locali, entro sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, adeguino i propri statuti e regolamenti alle disposizioni del comma 3 dell'art. 6 del richiamato Tuel. L'art. 2, comma 1, lett. b) della citata legge n. 215/2012 ha modificato l'art. 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000, disponendo che il sindaco ed il presidente nella provincia nominino i componenti della giunta «nel rispetto del principio di pari opportunità tra donne e uomini, garantendo la presenza di entrambi i sessi».
La citata normativa va letta alla luce dell'art. 51 della Costituzione, come modificato dalla legge costituzionale n. 1/2003, che ha riconosciuto dignità costituzionale al principio della promozione delle pari opportunità tra donne e uomini. Nel caso dei comuni rientranti nella suddetta fascia demografica, pertanto, devono trovare applicazione le disposizioni contenute nei citati articoli 6, comma 3, e 46, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e nella legge n. 215/2012.
Tali disposizioni, recependo i principi sulle pari opportunità dettati dall'art. 51 della Costituzione, dall'art. 1 del decreto legislativo dell'11.04.2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità) e dall'art. 23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, non hanno un mero valore programmatico, ma carattere precettivo, finalizzato a rendere effettiva la partecipazione di entrambi i sessi, in condizioni di pari opportunità, alla vita istituzionale degli enti territoriali.
Ferma restando la necessità dell'adeguamento statutario da parte dell'ente, le richiamate disposizioni normative sulla parità di genere risultano immediatamente applicabili, anche in carenza di una espressa previsione statutaria. Risulterebbe, infine, ammissibile la delega (interorganica) a un consigliere comunale a condizione che il suo contenuto sia coerente con la funzione istituzionale dell'organo cui si riferisce e purché sia sancita all'interno dello statuto nell'ambito dell'autonomia esercitabile ai sensi dell'art. 6 del decreto legislativo n. 267/2000 (articolo ItaliaOggi del 17.03.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Riunioni senza ostacoli. Vietato sindacare la richiesta di convocazione. Il potere sostitutivo del prefetto garantisce i diritti dei consiglieri.
Quando viene attivato il potere sostitutivo del prefetto previsto dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000?

Nel caso di specie, alcuni consiglieri comunali di minoranza hanno depositato presso il comune una mozione ed una interrogazione contestualmente alla istanza di convocazione ai sensi dell'art. 39, comma 2, del decreto legislativo n. 267/2000 e, a causa del mancato riscontro della richiesta nei termini indicati dalla legge, hanno chiesto l'attivazione del potere sostitutivo del prefetto ex art. 39, comma 5, del citato Tuel.
Ai sensi della normativa regolamentare sul funzionamento del consiglio comunale è previsto che le interrogazioni e le mozioni presentate al protocollo dell'ente dovranno essere iscritte all'ordine del giorno in occasione della convocazione della prima adunanza del consiglio successiva alla loro presentazione. Inoltre, la medesima fonte normativa prevede che la convocazione richiesta ex citato art. 39, comma 2, «deve contenere in allegato, per ciascun argomento indicato da iscrivere all'ordine del giorno, il relativo schema di deliberazione».
Ad avviso del sindaco, in base al combinato disposto delle citate norme regolamentari, sarebbe escluso che la richiesta di convocazione formulata da un quinto dei consiglieri possa avere ad oggetto atti di sindacato ispettivo, dovendo ciascuna richiesta essere, indefettibilmente, corredata dal relativo «schema di deliberazione».
Orbene, il diritto ex art. 39, comma 2, «è tutelato in modo specifico dalla legge con la previsione severa ed eccezionale della modificazione dell'ordine delle competenze mediante intervento sostitutorio del prefetto in caso di mancata convocazione del consiglio comunale in un termine emblematicamente breve di venti giorni» (Tar Puglia, sez. 1, 25.07.2001, n. 4278). L'orientamento che vede riconosciuto e definito «il potere dei consiglieri di chiedere la convocazione del Consiglio medesimo» come «diritto» dal legislatore è, quindi, ormai ampiamente consolidato (sentenza Tar Puglia, Lecce, sez. I del 04.02.2004, n. 124).
Circa la questione della sindacabilità dei motivi che determinano i consiglieri a chiedere la convocazione straordinaria dell'assemblea, secondo l'orientamento prevalente al presidente del Consiglio spetta solo la verifica formale della richiesta prescritto numero di consiglieri, non potendo comunque sindacarne l'oggetto.
La giurisprudenza in materia si è da tempo espressa affermando che, in caso di richiesta di convocazione del consiglio da parte di un quinto dei consiglieri, «al presidente del consiglio comunale spetta soltanto la verifica formale che la richiesta provenga dal prescritto numero di soggetti legittimati, mentre non può sindacarne l'oggetto, poiché spetta allo stesso consiglio nella sua totalità la verifica circa la legalità della convocazione e l'ammissibilità delle questioni da trattare, salvo che non si tratti di oggetto che, in quanto illecito, impossibile o per legge manifestamente estraneo alle competenze dell'assemblea in nessun caso potrebbe essere posto all'ordine del giorno» (Tar Piemonte, n. 268/1996, Tar Sardegna, n. 718 del 2003 ).
Il Tar Sardegna, con la sentenza n. 718 del 2003, ha respinto un ricorso avverso un provvedimento prefettizio ex art. 39, comma 5, del citato decreto legislativo in quanto, ad avviso del giudice amministrativo, il prefetto non poteva esimersi dal convocare d'autorità il consiglio comunale, «essendosi verificata l'ipotesi di cui all'art. 39 del Tuel n. 267/2000».
Inoltre, si è sostenuto che appartiene ai poteri sovrani dell'assemblea decidere in via pregiudiziale che un dato argomento inserito nell'ordine del giorno non debba essere discusso (questione pregiudiziale) ovvero se ne debba rinviare la discussione (questione sospensiva) Peraltro, l'art. 43 del Tuel demanda alla potestà statutaria e regolamentare dei comuni e delle province la disciplina delle modalità di presentazione delle interrogazioni, delle mozioni e di ogni altra istanza di sindacato ispettivo proposta dai consiglieri, nonché delle relative risposte, che devono comunque essere fornite entro trenta giorni.
Al riguardo, qualora l'intenzione dei proponenti non sia diretta a provocare una delibera in merito del consiglio comunale, bensì a porre in essere un atto di sindacato ispettivo, si potrebbe ipotizzare, ai sensi dell'art. 42, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, che rientri nella competenza del Consiglio comunale in qualità di «organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo» anche la trattazione di «questioni» che, pur non rientrando nell'elencazione del comma 2 del medesimo art. 42, attengono comunque al suddetto ambito di controllo.
Del resto, la dizione legislativa che parla di «questioni» e non di deliberazioni o di atti fondamentali, conforta nel ritenere che la trattazione di argomenti non rientranti nella previsione del citato comma 2, dell'art. 42, non debba necessariamente essere subordinata alla successiva adozione di provvedimenti da parte del consiglio comunale. Sulla base di tali argomentazioni, pertanto, il prefetto è tenuto alla applicazione della normativa prevista dall'art. 39, comma 5, del decreto legislativo n. 267/2000, invitando il sindaco a voler provvedere alla convocazione del richiesto consiglio comunale.
Nella fattispecie in esame, l'ente potrebbe valutare l'opportunità di modificare la normativa regolamentare dal momento che la stessa, limitando all'esame delle «deliberazioni» la possibilità di accedere all'istituto previsto dall'art. 39, comma 2, citato, restringe il perimetro dei diritti riconosciuti ai consiglieri comunali (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Consiglieri, accesso 2.0. Possono entrare nei sistemi informatici interni. Il Viminale conferma: non ci sono motivi per respingere la richiesta.
Un consigliere comunale può chiedere di accedere al sistema informatico interno, anche contabile, dell'ente?

Premesso che la materia dovrebbe trovare apposita disciplina regolamentare, secondo il consolidato orientamento del ministero dell'interno, «non paiono sussistere elementi ostativi all'accoglimento della richiesta».
In merito, il Tar Sardegna, con sentenza n. 29/2007, ha affermato, tra l'altro, che è consentito prendere visione del protocollo generale senza alcuna esclusione di oggetti e notizie riservate e di materie coperte da segreto, posto che i consiglieri comunali sono tenuti al segreto ai sensi dell'art. 43 del decreto legislativo n. 267/2000; in tal senso anche il Tar Lombardia, Brescia che, con sentenza 01.03.2004, n. 163, ha ritenuto non ammissibile imporre ai consiglieri l'onere di specificare in anticipo l'oggetto degli atti che intendono visionare giacché trattasi di informazioni di cui gli stessi possono disporre solo in conseguenza dell'accesso.
Pertanto, la previa visione dei vari protocolli (dei quali il protocollo informatico rappresenta una innovazione tecnologica prevista, tra l'altro, dall'art. 17 del decreto legislativo n. 82/2005 e successive modificazioni - codice dell'amministrazione digitale) è necessaria per potere individuare gli estremi degli atti sui quali si andrà ad esercitare l'accesso vero e proprio.
Risulta utile richiamare il parere del 22.02.2011 con il quale la Commissione per l'accesso ai documenti amministrativi ha osservato che, ai sensi della vigente normativa (dpr 20.10.1998, n. 428, dpcm 31.10.2000, dpr 28.12.2000 n. 445, dpcm 14.10.2003) ogni comune deve provvedere a realizzare il protocollo informatico, a cui possono liberamente accedere i consiglieri comunali, i quali, pertanto, possono prendere visione in via informatica di tutte le determinazioni e le delibere adottate dall'ente; ciò in ottemperanza al principio generale di economicità dell'azione amministrativa, che riduce allo stretto necessario la redazione in forma cartacea dei documenti amministrativi.
Rafforzano l'orientamento favorevole già espresso i seguenti ulteriori pareri della commissione per l'accesso ai documenti amministrativi:
- parere del 03.02.2009, con il quale è stato precisato che «il ricorso a supporti magnetici o l'accesso al sistema informatico interno dell'ente, ove operante, sono strumenti di accesso certamente consentiti al consigliere comunale che favorirebbero la tempestiva acquisizione delle informazioni richieste senza aggravare l'ordinaria attività amministrativa»;
- parere del 16.03.2010 con il quale è stata ribadita l'accessibilità del consigliere comunale al sistema informatico dell'ente tramite utilizzo di apposita password, ove operante, ferma restando la responsabilità della segretezza della password di cui il consigliere è stato messo a conoscenza a tali fini (art. 43, comma 2, Tuel);
- parere del 25.05.2010 con cui la Commissione ha rimarcato il diritto del consigliere di accedere anche al protocollo informatico (articolo ItaliaOggi del 03.03.2017).

CONSIGLIERI COMUNALIOSSERVATORIO VIMINALE/ Statuto, il sindaco vota. Va ricompreso ai fini del calcolo del quorum. Quando la legge vuole escludere il primo cittadino lo dice espressamente.
È legittima la deliberazione con la quale il consiglio comunale ha approvato una modifica allo statuto dell'ente considerando anche il voto del sindaco nel computo del quorum funzionale previsto dall'art. 6, comma 4, del decreto legislativo n. 267/2000?

Premesso che non si riscontrano sul punto univoci orientamenti giurisprudenziali (cfr. Tar Puglia sentenza 1301/2004, Tar Lazio, sez. II-ter, sentenza n. 497/2011 e Tar Lombardia sentenza n. 1604/2011), l'art. 6, comma 4 del Tuel dispone che «gli statuti sono deliberati dai rispettivi consigli con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati. Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche alle modifiche statutarie».
La normativa ha previsto un «procedimento aggravato» per l'approvazione delle norme statutarie, nonché delle relative modifiche, sia disponendo che, in caso di mancata approvazione dei due terzi dell'assemblea, si debba ripetere la votazione entro 30 giorni, sia prescrivendo che lo statuto sia approvato se ottiene per due volte, in sedute successive, il voto favorevole della maggioranza assoluta dei membri assegnati al collegio. L'approvazione dello statuto, pertanto, attesa la natura di atto normativo «fondamentale» sua propria (comma 2, art. 6 cit.), comporta che su di esso converga il più elevato numero di consensi attraverso un'ampia discussione e comparazione d'interessi da parte della maggioranza e dell'opposizione consiliare.
Tale particolare esigenza ha determinato, conseguentemente, la previsione di maggioranze speciali disponendo che i quorum, rispettivamente della prima e delle altre votazioni, siano ragguagliati ai due terzi o alla maggioranza assoluta non dei votanti, ma dei consiglieri assegnati.
Pertanto, l'iter deliberativo di approvazione dello statuto e delle sue modifiche comporta che in sede di prima votazione la delibera sia approvata con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati ivi compreso il sindaco, che è componente del consiglio comunale ai sensi dell'art. 37 del citato testo unico.
Infatti, nelle ipotesi in cui l'ordinamento non ha inteso computare il sindaco, o il presidente della provincia, nel quorum richiesto per la validità di una seduta, lo ha indicato espressamente usando la formula «senza computare a tal fine il sindaco ed il presidente della provincia» (articolo ItaliaOggi del 24.02.2017).

APPALTI: Procedimento per il pagamento dei debiti fuori bilancio di Roma Capitale di competenza della Gestione Commissariale (parere 04.08.2016-369240, AL 25906/16 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2016).

LAVORI PUBBLICI: Applicabilità e misura della penale contrattuale in caso di informazione di interdittiva antimafia sopravvenuta nel corso dell’esecuzione o a ultimazione dei lavori (parere 27.06.2016-309204, AL 48015/2015 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2016).

APPALTI SERVIZI: La revisione dei prezzi negli appalti di servizi (parere 11.05.2016-229719, AL 10949/16 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2016).

PATRIMONIO: Spending review: la riduzione del 15% dei canoni per le locazioni passive anche alle ipotesi in cui proprietario dell’immobile sia una p.a. (parere 09.05.2016-226080, AL 37970/2012 - Rassegna Avvocatura dello Stato n. 3/2016).

NEWS

EDILIZIA PRIVATAScure sull'impresa senza Scia. L'omissione costa l'arresto e sanzioni fino a 2.582 euro. INDUSTRIA/ La stretta (anche per chi è senza bollino antincendio) nel dlgs sui Vigili del fuoco.
Stretta sull'omissione della presentazione Scia per l'avvio di attività d'impresa industriale soggette ai controlli di prevenzione incendi. L'omissione della presentazione della Scia o della richiesta di rinnovo periodico della conformità antincendio costerà al titolare dell'impresa l'arresto fino a un anno e la sanzione pecuniaria da 258 euro a 2.582 euro.

Tutto questo è previsto nello schema di dlgs concernente le nuove funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco (Atto del Governo n. 394 - Schema di decreto legislativo recante modifiche al decreto legislativo 08.03.2006, n. 139, concernente le funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, nonché al decreto legislativo 13.10.2005, n. 217, concernente l'ordinamento del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, e altre norme per l'ottimizzazione delle funzioni del Corpo nazionale dei vigili del fuoco), esaminato in prima lettura dal consiglio dei ministri il 23.02.2017, quindi trasmesso alla presidenza del consiglio lo scorso 28 febbraio.
Il decreto è attuativo dell'articolo 8 della legge 07.08.2015, n. 124, che ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in materia di riorganizzazione dell'amministrazione dello Stato. Un provvedimento di particolare rilevanza che, in coerenza con la visione sistematica recata dalla delega, procede alla revisione e al riassetto della normativa che disciplina le funzioni e i compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco in materia di soccorso pubblico, prevenzione incendi e protezione civile.
Dall'atto autorizzatorio alla Scia. Con il dpr 151/2011, è stata raccordata la disciplina sui procedimenti di prevenzione incendi con l'avvenuta introduzione della segnalazione certificata di inizio attività (Scia), in modo da garantire certezza giuridica al quadro normativo e coniugare l'esigenza di semplificazione con quella di tutela della pubblica incolumità.
Le modifiche all'articolo 16 dello schema di dlgs al vaglio di palazzo Chigi, a partire dalla rubrica del medesimo, puntano ad attuare i cambiamenti intervenuti nelle procedure di prevenzione incendi. Si è passati infatti da un regime di tipo autorizzatorio, dove il rilascio del certificato di prevenzione incendi, a valle di una specifica procedura amministrativa, costituiva condizione necessaria per l'esercizio delle attività soggette a un regime di controlli a posteriori esercitati a seguito della presentazione della Scia.
Chiunque, nelle certificazioni e dichiarazioni rese ai fini della presentazione della Scia o della richiesta di rinnovo periodico della conformità antincendio, attesti fatti non rispondenti al vero è punito con la reclusione da tre mesi a tre almi e con la multa da 103 a 516 euro. La stessa pena si applica a chi falsifica o altera le certificazioni e dichiarazioni medesime.
Qualora l'esito dei controlli rilevi la mancanza dei requisiti previsti dalla normativa di prevenzione incendi, la conseguenza non è più il mancato rilascio del certificato di prevenzione incendi e, quindi, l'impossibilità di avviare un'attività non in sicurezza dal punto di vista antincendio, ma l'adozione di provvedimenti di urgenza per la messa in sicurezza delle opere relative a un'attività già avviata a seguito della Scia.
In relazione a insediamenti industriali e attività di tipo complesso, il comando dei vigili del fuoco può acquisire le valutazioni del comitato tecnico regionale per la prevenzione incendi, ed avvalersi, per le visite tecniche, di esperti in materia designati dal comitato stesso (articolo ItaliaOggi del 04.03.2017).

APPALTIAppalti, 18 mesi per «salvare» i vecchi progetti. Lavori pubblici. Le correzioni al nuovo Codice.
Più tempo per svuotare i cassetti delle Pa dai vecchi progetti definitivi messi in fuorigioco dall’entrata in vigore del nuovo codice.
È questa la novità di maggior rilievo tra quelle previste dalla nuova bozza del decreto correttivo della riforma appalti che il governo deve licenziare entro il 19 aprile.
Tra aggiustamenti puramente formali e cambi di rotta più sostanziali il provvedimento nato per correggere in corsa le criticità emerse in fase di prima attuazione cresce di dimensioni mentre assume un assetto via via più stabile. La bozza è stata arricchita con i suggerimenti arrivati dal mercato nelle consultazioni e affronta le ultime limature in vista del giro di pareri. Ora siamo arrivati a 119 articoli che impattano su un codice che ne conta 220.
Insieme al subappalto, la revisione del divieto di appalto integrato (possibilità di affidare l’ultimo miglio della progettazione all’impresa che esegue i lavori) è uno dei punti chiave del Correttivo. L’ultima versione conferma alcune “sblindature”. Si potranno assegnare lavori su progetto definitivo (anziché esecutivo) per le opere ad alto tasso di tecnologia, per le urgenze, per le manutenzioni, in nuovi casi di partenariato pubblico-privato e per le urbanizzazioni.
La novità è che acquista più spazio la “sanatoria” concessa alle amministrazioni spiazzate dall’entrata in vigore repentina del Dlgs 50/2016 che impone di assegnare i lavori solo al termine dell’intero sviluppo del progetto, con l’obiettivo di concedere meno margini possibili alla lievitazione dei prezzi a cantieri in corso. Per evitare la “morte in culla” di decine di progetti (anche se un numero preciso non c’è o non è stato comunicato) il governo ha deciso di riaprire i termini chiusi da un giorno all’altro 10 mesi fa.
Le Pa che in questo periodo hanno custodito il proprio progetto definitivo avranno ora 18 mesi di tempo (la bozza precedente si fermava a un anno) per metterlo in gara senza bisogno di finirlo. Il termine partirà dall’entrata in vigore del Correttivo, dunque la finestra dovrebbe rimanere aperta fino a ottobre 2018. Sul subappalto viene confermato lo spostamento del tetto del 30%. Non si calcolerà più sull’intero ammontare del contratto ma solo sui lavori prevalenti. Il Correttivo non incide però sulla natura del subappalto. Concedere la possibilità di assegnare quote di lavori a valle del contratto principale resta una facoltà delle Pa. Mentre rimane in piedi l’obbligo di escludere il titolare del contratto per carenze di requisiti del subappaltatore.
L’ultima bozza contiene poi anche altre novità. Tra queste l’addio, per i costruttori, alla possibilità di ottenere l’attestato Soa di qualificazione al mercato pubblico in prestito da un’altra impresa; l’obbligo, per le Pa, di emettere i certificati di pagamento entro 45 giorni dal rilascio dei Sal; l’aumento del numero di imprese da invitare alla procedura negoziata senza bando; la possibilità di ricorrere ai general contractor solo oltre 100 milioni.
Nei prossimi giorni il Correttivo è atteso al valzer dei pareri –Commissioni parlamentari, Consiglio di Stato, Conferenza unificata– prima di tornare a Palazzo Chigi per l’ok finale. Soprattutto in Parlamento non si annuncia un cammino facile. Stefano Esposito, relatore che ha svolto un ruolo da protagonista nella riforma, si riserva di «studiare il testo finale», ma non manca di anticipare un giudizio: «Negativo, in base a quello che ho letto in questi giorni».
«Su questa riforma ho messo la faccia –attacca il senatore Pd– se qualcuno ha deciso di smantellarla lo farà senza di me». Valutazioni più prudenti arrivano dalla Camera, dove comunque si annuncia un esame rigoroso del rispetto dei criteri di delega. «Ci concentreremo sui 5-10 punti chiave –spiega la relatrice in pectore Raffaella Mariani (Pd)–: centralità del progetto, subappalto, lavori in house, qualificazione delle stazioni appaltanti»
(articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIRiforma p.a., parola ai cittadini. Valuteranno i risultati. Ma occhio a possibili distorsioni. Come la legge Brunetta anche il dlgs Madia punta sulla customer satisfaction degli utenti.
Obbligatoria la soddisfazione dei cittadini come elemento della valutazione dei risultati delle pubbliche amministrazioni.

È questo uno degli elementi di maggiore spicco della riforma Madia del dlgs 150/2009 in tema di riconoscimento dei premi alle amministrazioni più produttive, che ha iniziato con l'invio alla Camera (Atto del Governo n. 391 - Schema di decreto legislativo recante modifiche al decreto legislativo 27.10.2009, n. 150, in attuazione dell'articolo 17, comma 1, lettera r), della legge 07.08.2015, n. 124), avvenuto mercoledì, scorso il suo complesso iter verso l'approvazione definitiva, prevista per la primavera.
Il testo della riforma introduce nella «legge Brunetta» un nuovo articolo 19-bis, espressamente dedicato alla partecipazione diretta dei cittadini al processo di valutazione.
I cittadini singoli o associati, quindi, avvalendosi di strumenti di rilevazione della soddisfazione da attivare obbligatoriamente, potranno dire la loro sul grado di efficienza delle amministrazioni, anche comunicandolo direttamente ai soggetti preposti, cioè gli organismi indipendenti di valutazione.
Questi potranno stabilire le modalità di contatto con i cittadini, ma soprattutto dovranno tenere conto di risultati delle segnalazioni ricevute, per determinare la spettanza e l'ammontare dei premi di risultato.
Molti tra i primi commentatori hanno enfatizzato questo aspetto della riforma di Marianna Madia, mettendo l'accento sulla circostanza che finalmente i cittadini potranno, se non proprio «dare le pagelle» ad amministrazioni e dipendenti, almeno condizionare in modo significativo i risultati dei processi di valutazione.
A ben vedere, tuttavia, la riforma Madia è più un rafforzamento di quanto già esiste che una vera e propria novità.
Sul rilievo delle indagini di soddisfazione ai fini della rilevazione dei risultati si era già soffermato proprio il dlgs 150/2009, che all'articolo 8, comma 1, lettera c), dispone che il sistema di valutazione si basi sulla «rilevazione del grado di soddisfazione dei destinatari delle attività e dei servizi anche attraverso modalità interattive».
Molti ricorderanno, probabilmente, anche il progetto «Mettiamoci la faccia», attivato nel 2010 dalla Funzione pubblica, per volere dell'allora ministro Renato Brunetta. Si trattava delle famose «faccine», gli emoticons di colore verde, giallo e rosso, da mettere a disposizione dei cittadini su appositi monitor nelle sedi degli uffici, per spingerli ad esprimere i loro giudizi sulla capacità delle varie amministrazioni di risolvere i loro problemi.
Il progetto, per la verità, non ha avuto moltissima fortuna. Le amministrazioni ad aderire furono poche e da diversi anni, ormai, risulta sostanzialmente chiuso.
Da qui l'idea della riforma Madia, che è appunto nella sostanza un tentativo di rilanciare l'idea della «customer satisfaction» come strumento di valutazione, tuttavia già esistente, anche se non operante.
Proprio l'esperienza passata dovrebbe insegnare che la semplice previsione astratta dell'obbligo di utilizzare la rilevazione del grado di soddisfazione dei cittadini non è sufficiente, perché le amministrazioni davvero le utilizzino. Il testo della riforma Madia è nella forma certamente più imperativo, ma l'articolo 8, comma 1, lettera c), del dlgs 150/2009 (per altro, non modificato dalla riforma) era già di per sé molto chiaro.
Non si può fare a meno di sottolineare, comunque, che la riforma Madia pare troppo attenta al «come» si valuta e non a «cosa» valutare. Giusto chiedere anche ai destinatari dell'azione amministrativa una valutazione, ma occorrerebbe intendersi su cosa.
Il sistema, poi, rischia di scontare distorsioni derivanti da forme organizzate di cittadini. Come è noto esiste il sito www.romafaschifo.com, un sito organizzatissimo nel rilevare e stigmatizzare i tanti problemi della vita nella Capitale. È facile immaginare che la comunità organizzata che alimenta il sito potrebbe influenzare in modo decisivo (e probabilmente non certo benevolo) qualsiasi indagine di rilevazione del gradimento. Simili distorsioni potrebbero replicarsi presso altri enti. I sistemi di valutazione dovrebbero allora essere capaci di fare una «tara» dei giudizi, ma mancano totalmente elementi e standard operativi (articolo ItaliaOggi del 03.03.2017).

PATRIMONIOFondo amianto al rush finale. Domande online entro il 30/3. Per il 2017 ci sono 6 mln. I chiarimenti del ministero dell'ambiente. Finanziamenti solo per gli edifici pubblici.
Gli incarichi di progettazione già conferiti non sono ammissibili, ciascun ente può presentare una sola domanda di finanziamento, la progettazione deve riferirsi ad edifici pubblici di proprietà e destinati allo svolgimento dell'attività dell'ente.

Sono questi alcuni dei chiarimenti che il ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare ha fornito in merito alla procedura di accesso al finanziamento della progettazione preliminare e definitiva di interventi di bonifica di edifici pubblici contaminati da amianto di cui all'art. 56, comma 7, della legge 28.12.2015, n. 221.
Il fondo ha una dotazione finanziaria di 5,536 milioni di euro per l'anno 2016 e di 6,018 milioni di euro per ciascuno degli anni 2017 e 2018, per uno stanziamento complessivo di oltre 17 milioni di euro. La procedura di accesso telematico al fondo rimarrà a disposizione sul sito www.amiantopa.minambiente.ancitel.it fino al 30.03.2017.
Accesso consentito alle pubbliche amministrazioni
Possono fare domanda di accesso al Fondo le amministrazioni pubbliche con riferimento ad interventi relativi ad edifici pubblici di proprietà e destinati allo svolgimento dell'attività dell'ente. Ciascun ente può presentare una sola domanda di partecipazione in ragione d'anno. La domanda può essere riferita anche ad interventi in uno o più edifici o unità locali.
La domanda di ammissione al finanziamento potrà essere riferita ad interventi relativi a singoli edifici, all'interno della stessa struttura, nonché più unità locali all'interno dello stesso edificio, purché rientranti nei requisiti di ammissibilità. Ciascun intervento riferito al singolo edificio o alla singola unità locale sarà autonomamente valutato ai fini dell'ammissione in graduatoria e, pertanto, la relativa richiesta di finanziamento dovrà essere inserita separatamente all'interno dell'applicativo.
Finanziabili i costi di progettazione fino a 15 mila euro
Il fondo è finalizzato a finanziare i costi per la progettazione preliminare e definitiva degli interventi di bonifica mediante rimozione e smaltimento dell'amianto e dei manufatti in cemento-amianto su edifici e strutture pubbliche insistenti nel territorio nazionale. Sono finanziabili i costi di progettazione preliminare e definitiva degli interventi fino al limite massimo di 15 mila euro a domanda per singola pubblica amministrazione, anche se riferita a interventi relativi a più edifici o unità locali.
Per progettazione preliminare e definitiva si intendono i livelli di progettazione inferiori al progetto esecutivo e comunque finalizzati e necessari alla redazione dello stesso. Il finanziamento può coprire integralmente o parzialmente i costi di progettazione preliminare e definitiva degli interventi. Non sono invece finanziabili gli eventuali costi relativi alla posa in opera del materiale sostitutivo.
Priorità a edifici collocati in aree sensibili
Sono considerati prioritari gli interventi relativi ad edifici pubblici collocati all'interno, nei pressi o comunque entro un raggio non superiore a 100 metri da asili, scuole, parchi gioco, strutture di accoglienza socio-assistenziali, ospedali, impianti sportivi, nonché gli interventi relativi ad edifici pubblici per i quali esistono segnalazioni da parte di enti di controllo sanitario e/o di tutela ambientale e/o di altri enti e amministrazioni in merito alla presenza di amianto.
Avranno priorità anche gli interventi relativi ad edifici pubblici per i quali si prevede un progetto cantierabile in 12 mesi dall'erogazione del contributo, nonché gli interventi relativi ad edifici pubblici collocati all'interno di un Sito di interesse nazionale e/o inseriti nella mappatura dell'amianto ai sensi del decreto ministeriale n. 101 del 18.03.2003.
Domanda telematica entro il 30.03.2017
Gli enti interessati a ricevere il finanziamento devono registrarsi, compilare e presentare il modulo di domanda esclusivamente attraverso l'utilizzo dell'applicativo disponibile sul portale dedicato raggiungibile all'indirizzo www.amiantopa.minambiente.ancitel.it (articolo ItaliaOggi del 03.03.2017).

LAVORI PUBBLICISisma, incarichi non cumulabili. Evitare conflitti di interesse fra imprese e progettisti. I rilievi del presidente Anac sul decreto legge relativo agli interventi urgenti per i terremotati.
Evitare possibili conflitti di interesse fra direttore dei lavori e impresa per gli interventi di ricostruzione dopo terremoto del Centro Italia; mantenere il principio di non cumulabilità di incarichi; negativo il ripristino dell'appalto integrato anche se per ragioni di urgenza ha una sua logica.

Sono questi alcuni dei passaggi più significativi dell'intervento del 28 febbraio del presidente dell'Autorità nazionale anticorruzione (Anac), Raffaele Cantone, alla commissione ambiente della camera sul decreto-legge 09.02.2017 n. 8 recante «nuovi interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016 e del 2017».
Cantone ha premesso che gli interventi posti in essere dal decreto sono giustificati «da un lato dalla logica dell'emergenza connessa al sisma e dall'altro dal clamore mediatico, che hanno reso necessario intervenire sulla disciplina prevista dal codice degli appalti».
In generale il presidente dell'Authority ha espresso una valutazione positiva su tutti gli aspetti disciplinati dal decreto che, fra le altre cose prevede che il commissario straordinario promuova un piano per dotare, in tempi brevi, i comuni interessati dagli eventi sismici di studi di microzonazione sismica di livello III, sulla base di incarichi conferiti a esperti iscritti o che abbiano presentato domanda di iscrizione all'elenco speciale dei professionisti.
Il decreto prescrive inoltre che l'affidamento degli incarichi di progettazione, per importi inferiori alle soglie di rilevanza europea, avvenga mediante procedure negoziate con almeno cinque professionisti iscritti nell'elenco speciale. Il testo stabilisce poi che i comuni e le province interessate, in luogo dei soggetti attuatori, possano predisporre ed inviare i progetti degli interventi di ricostruzione pubblica al commissario straordinario. Proprio su questo profilo (affidamenti) si è soffermato Cantone evidenziando l'importanza di prevedere l'individuazione di esperti per le operazioni di controllo e di assicurare un minimo di rotazione tra questi.
Sulla disposizione che consente la trattativa privata senza bando (ammessa in ragione della sussistenza di condizioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice che non consente di rispettare i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione), Cantone nota che la disposizione «dovrebbe servire a sbloccare la fase di emergenza anche se non si è capito perché non sono state applicate le deroghe previste dal codice dei contratti».
Rispetto alla costruzione delle scuole e al ripristino dell'appalto integrato, il presidente Anac ha evidenziato che «si ripristina un istituto che il codice ha fatto bene ad escludere; tuttavia la necessità dell'appalto integrato ha senso in una logica del tutto eccezionale».
Sulla disposizione inerente alla non cumulabilità degli incarichi e l'incompatibilità tra direttore dei lavori e gli incarichi avuti rispetto alla ditta esecutrice negli ultimi tre anni, Cantone ha precisato che l'unico controllo possibile nell'attuale sistema è quello del direttore dei lavori e che va mantenuta l'incompatibilità anche perché non deve essere il direttore dei lavori a scegliere l'impresa.
Per Cantone è importante scoraggiare questi legami anche perché se non c'è legame tra direttore e imprese si può garantire una maggiore partecipazione alle imprese. Vi è lavoro per molti progettisti e imprese, ha concluso Cantone, occorre approfittare dell'occasione per far crescere il tessuto imprenditoriale soprattutto di quelle zone (articolo ItaliaOggi del 03.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

INCARICHI PROGETTUALIServizi di ingegneria, vietati accordi quadro. Nella nuova bozza del decreto correttivo del codice appalti.
Nel work in progress del decreto correttivo del codice dei contratti pubblici spunta il divieto di accordi quadro per servizi di ingegneria e architettura; un anno di tempo in più per mandare in appalto i progetti definitivi approvati entro il 19.04.2016; sale a 15 il numero delle imprese da invitare nelle procedure negoziate per i lavori. Sono queste alcune delle novità contenute nel nuovo testo dello schema di decreto correttivo del decreto 50.
Va però precisato, che la nuova versione non sembra essere del tutto consolidata, anche se dalla sua lettura ci si può fare una prima idea dell'orientamento rispetto alle numerosissime proposte di modifica della bozza avanzate in sede di consultazione pubblica (durata cinque giorni dal venerdì 17 al mercoledì 22 febbraio). Poco rilievo ha avuto, infatti, l'approvazione dello schema in via preliminare avvenuta il 24 febbraio «salvo intese», una formula che consente ai tecnici di continuare a lavorare, come effettivamente sta avvenendo senza sosta.
Con tutta probabilità di modifiche ne arriveranno altre; poi si dovrà vedere cosa uscirà dai pareri parlamentari, dal Consiglio di stato e dalla conferenza unificata.
In sede di parlamentare è emerso che i relatori che seguirono la legge delega e il decreto delegato (Raffaella Mariani e Stefano Esposito) hanno già informalmente rappresentato la volontà di emettere un parere congiunto. Nel merito sono state già avanzate delle forti perplessità su alcuni punti (nel dibattito seguito all'audizione del ministro Delrio) che per adesso il testo in circolazione sembra però confermare.
È il caso della disciplina dell'appalto integrato per il quale due modifiche sembravano essere state aggiunte rispetto alla versione posta in consultazione: l'obbligo di motivare, nella determina a contrarre, i casi di netta prevalenza tecnologica o innovativa e di estrema urgenza che consentono di affidare i lavori sulla base del progetto definitivo, nonché la possibilità di mandare in gara i progetti già approvati al 19.04.2016 fino a un anno dopo (si deve intendere un anno dopo l'approvazione del decreto correttivo quindi entro, presumibilmente, fine aprile 2018).
Sempre per l'appalto integrato un'ulteriore apertura viene prevista per le opere di urbanizzazione a scomputo che potrò essere quindi essere affidate sul progetto definitivo.
Un'altra disposizione introdotta dall'ultima versione riguarda la materia dei prezziari: si chiarisce che per definire il costo dei materiali da costruzione e degli impianti si utilizzano i prezziari regionali aggiornati annualmente con l'accortezza che quelli in vigore al 31 dicembre si possono utilizzare per ulteriori sei mesi se il progetto posto a base di gara è stato approvato entro il 30 giugno.
Ancorché soggetto ad una valutazione politica, il nuovo schema prevede inoltre l'inapplicabilità della disciplina degli accordi quadro agli incarichi di ingegneria e architettura, strumento che invece nelle direttive non limitazioni di sorta. Salirebbe inoltre a 15 il numero delle imprese da invitare nelle procedure negoziate per l'affidamento di lavori (articolo ItaliaOggi del 03.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ATTI AMMINISTRATIVI: Semplificazioni, primi passi. Bene la conferenza di servizi abbreviata ma le Pa monitorate sono ancora poche.
Dopo 11 tentativi di riforma in 27 anni, dalla legge Bassanini a oggi, decolla una conferenza di servizi tutta nuova, approvata, in attuazione della delega della legge Madia sulla Pa, con il decreto 127/2015.

Sono passati 7 mesi dall’entrata in vigore, lo scorso 29 luglio, e si può tentare un primo bilancio del decollo del nuovo strumento che dovrebbe tagliare drasticamente i tempi di approvazione di progetti pubblici e privati, infrastrutturali e industriali.
Sulla carta, ci sono in effetti soluzioni che dovrebbero sciogliere molti dei nodi passati: la «conferenza semplificata» (senza riunione) diviene la modalità ordinaria per ridurre nettamente numero e complessità delle “convocazioni”; il silenzio-assenso dovrebbe consentire di superare la trappola della “non decisione” che ha sempre rallentato i processi decisionali; il «rappresentante unico» sarà il solo soggetto abilitato a esprimere definitivamente in modo univoco e vincolante la posizione di tutte le Pa rappresentate; i termini temporali divengono certi, fra 45 e 90 giorni, con il taglio dei tempi morti e del labirinto delle convocazioni; il ruolo crescente dell’informatica dematerializza la conferenza.
Va aggiunto che il silenzio-assenso, autentico grimaldello che azzera le meline delle amministrazioni inerti, si applicherà, sia pure con tempi leggermente più lunghi, anche alle amministrazioni di tutela ambientale, paesistica, culturale, di salute pubblica (con l’eccezione dei casi previsti da norme Ue), con il risultato di abbattere un altro dei grandi fattori di resistenza a una chiusura delle conferenze in tempi certi e rapidi.
Ma tutto questo funzionerà quando imprese e cittadini proponenti progetti scenderanno nella battaglia quotidiana contro la burocrazia dei tempi infiniti? Ha cominciato a funzionare? Un primo monitoraggio lo ha svolto l’Ufficio semplificazione del dipartimento Funzione pubblica, responsabile dell’attuazione della norma. Il quadro si può riassumere così: dove le amministrazioni locali si sono attivate, dove hanno svolto anche raccolta dati, la conferenza di servizi «modello Madia» sta già funzionando. È un dato importante perché conferma che gli strumenti messi in campo hanno una loro robusta efficacia.
I numeri in possesso della Funzione pubblica vanno in questa direzione: su 199 conferenze convocate nel periodo agosto 2016-gennaio 2017 da 23 enti locali che hanno trasmesso i dati, 162 sono andate con la corsia veloce della conferenza preliminare. Significa oltre l’80 per cento. Un buon risultato di sicuro, considerando che i tempi blindati per chiudere questo tipo di conferenza è di 45 giorni. La Funzione pubblica aggiunge che di queste 199 conferenze monitorate 87 si sono già concluse.
Anche i casi specifici segnalati dalla Funzione pubblica (alcuni sono riportati nell’articolo in basso) raccontano la messa in moto di esperienze positive: l’ottimo esempio della Regione Sardegna, con le istruzioni impartite il 02.08.2016 che hanno confermato l’investimento avviato in precedenza sul funzionamento degli sportelli unici per le attività produttive, sulla piattaforma telematica unica per la gestione delle pratiche e delle conferenze e hanno inserito vecchie esperienze virtuose nel nuovo modello. Il risultato accentua gli spetti positivi: su 918 conferenze convocate nella Regione Sardegna da agosto 2016 424 sono già concluse con esito positivo e 36 con esito negativo. Su un campione di 307 conferenze, sempre in Sardegna, il 96% sono avvenuto con la forma «semplificata».
Bisogna subito aggiungere, per evitare di dare un quadro distorto ed eccessivamente ottimistico, che le amministrazioni più solerti a inviare i dati sono certamente anche quelle che si sono attivate per prime con la nuova conferenza e che resta vasta, viceversa, la “zona d’ombra” che ancora non si riesce a monitorare o in cui, più semplicemente, le amministrazioni pubbliche sono rimaste inattive o fanno resistenza al nuovo.
Non possiamo ancora sapere cosa ci sia in questa zona d’ombra, anche se persistono lamentele di imprese danneggiate dal ripetersi delle vecchie meline che fanno pensare a resistenza ancora molto diffuse: permessi di costruire per cui il parere della Soprintendenza arriva oltre i termini e viene ugualmente acquisito dal comune (che avrebbe dovuto certificare il silenzio-assenso); allungamento dei tempi -che sarebbero di 45 giorni dalla ricezione- da parte del comune per sottoporre progetti in area vincolata al parere della commissione edilizia e della Sovrintendenza; ritardi nell’invio all’impresa proponente della convocazione della conferenza quando proprio il rispetto dei tempi dovrebbe essere il segno più forte del nuovo corso.
Uno degli obiettivi che il governo si è dato è di accelerare la formazione dei funzionari pubblici incaricati di sovrintendere a queste procedure usando anche i Pon Governance e Formazione. L’altro obiettivo è di estendere il monitoraggio rapidamente e di coinvolgere sempre più anche le imprese e le loro associazioni. In questa difficile sfida del decollo della nuova conferenza di servizi, anche in collegamento con la «Scia 2», la segnalazione di difficoltà, resistenze, anomalie è certamente utile per dare impulso alla messa a regime e per sbaragliare quelle resistenze che ancora si annidano nella interpretazione della norma
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATASismabonus più difficile in casa. Di fatto interventi possibili sull’intero edificio ma raramente in un appartamento.
Immobili. L’agevolazione prevista dalla legge di Bilancio ha trovato attuazione con le linee guida che sono state rese note ieri.

Con la legge di Bilancio 2017, approvata il 21.12.2016, veniva sancito il ruolo del bonus antisismico, oggi detto “Sismabonus”, come opportunità per stimolare un piano volontario dei cittadini, con forti incentivi statali, di valutazione e prevenzione nazionale del rischio sismico degli edifici.
Il decreto ministeriale del Mit, attivo a partire ieri, è lo strumento attuativo che istituisce le linee guida e indica le modalità per l’attestazione dell’efficacia degli interventi da parte di professionisti abilitati.
Le linee guida inserite nel decreto affrontano il tema della classificazione del rischio sismico delle costruzioni esistenti con un nuovo approccio, che va a coniugare da una parte il rispetto del valore della salvaguardia della vita umana (mediante i livelli di sicurezza previsti dalla vigenti norme tecniche per le costruzioni) e dall’altra la considerazione delle possibili perdite economiche e delle perdite sociali (in base a robuste stime convenzionali basate anche sui dati della ricostruzione post sisma Abruzzo 2009).
Le stesse linee guida consentono di attribuire a un edificio una specifica classe di rischio sismico, mediante un unico parametro che tenga conto sia della sicurezza sia degli aspetti economici. Sono state individuate otto classi di rischio sismico: da A+ (meno rischio), ad A, B, C, D, E, F e G (più rischio). La nomenclatura è affine a quella adottata in ambito comunitario per definire la prestazione energetica di edifici o elettrodomestica.
Tra le spese detraibili per la realizzazione degli interventi finalizzati alla riduzione della classe di rischio sismico, sia su singoli immobili che su condomini vengono incluse anche le spese che dovranno essere sostenute per ottenere la classificazione e verifica sismica degli immobili fatte da parte di professionisti abilitati.
Cosa bisogna fare per accedere all’incentivo:
- il proprietario che intende accedere al beneficio, incarica un professionista della valutazione della classe di rischio e della predisposizione del progetto di intervento;
- il professionista individua la classe di rischio della costruzione nello stato di fatto prima dell’intervento;
- il professionista progetta l’intervento di riduzione del rischio sismico e determina la classe di rischio della costruzione a seguito del completamento dell’intervento;
- il professionista assevera i valori delle classi di rischio e l’efficacia dell’intervento;
- il proprietario può procedere ai primi pagamenti delle fatture ricevute;
- il direttore dei lavori e il collaudatore statico attestano al termine dell’intervento la conformità come da progetto.
Va sottolineato che il “sismabonus” non è cumulabile con agevolazioni spettanti per le medesime finalità, sulla base di norme speciali per interventi in aree colpite da eventi sismici.
Per i soli lavori condominiali, viene prevista la possibilità di cedere la detrazione fiscale alle imprese esecutrici o a soggetti privati ma con esclusione esplicita degli istituti di credito e degli intermediari finanziari.
È ammessa a favore del cessionario che riceve il credito la facoltà di successiva rivendita dello stesso beneficio.
Si deve però considerare che, a differenza degli altri interventi di ristrutturazione edilizia o di riqualificazione energetica, dove tecnicamente è possibile operare su singole unità immobiliari anche in un contesto “condominiale”, l’intervento di messa in sicurezza antisismica risultata essere difficilmente praticabile in una analoga condizione immobiliare. Sembra infatti complicato immaginare un intervento che migliori la classe sismica di un immobile, che per sua natura è collegato strutturalmente ad un altro, senza coinvolgere quest’ultimo.
Le linee guida sono sicuramente perfettibili, ma si tratta comunque di un importante cambio di passo sia per i professionisti che per la società civile nell’approccio al rischio sismico. Con un periodo di affinamento progressivo e un riscontro sereno e obiettivo a seguito dell’attuazione si potranno sicuramente migliorare alcuni elementi che però ad oggi non diminuiscono la fondamentale portata del provvedimento
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATASeminterrati abitabili in Lombardia. Leggi regionali. Approvata la legge che consente l’agibilità di porzioni immobiliari interrate con adeguati sistemi di illuminazione e ricambio di aria.
Tutti giù per terra. Con la legge regionale approvata martedì dal Consiglio regionale lombardo (progetto di legge 258, presentato da Fabio Altitonante nel 2015) si aprono prospettive decisamente ampie per chi decide di usare come abitazioni i seminterrati.
La norma, in attesa di pubblicazione sul Burl e non ancora in vigore, ha superato la presentazione di ben 46 emendamenti (ne sono stati approvati solo alcuni, di cui alcuni incisivi di Iolanda Nanni del M5S e di Viviana Beccalossi di F.d’I.) e prevede, in sostanza, che nei seminterrati recuperati si potranno realizzare uffici, appartamenti e attività commerciali.
Il seminterrato viene definito come il piano di un edificio anche solo parzialmente interrato e il cui soffitto si trova a una «quota superiore» rispetto al terreno in aderenza all’edificio» (anche solo di pochi centimetri). È prevista un’altezza minima del locale di 2,40 metri.
Non occorre, però, che ci siano finestre: «La novità -dice Altitonante- è che le norme di aeroilluminazione potranno essere garantite anche con impianti e attrezzature tecnologiche». Quindi anche un locale quasi completamente sotterraneo potrà ospitare alloggi, negozi o uffici, purché esistano impianti di illuminazione e di riciclo dell’aria, nonché igienico-sanitari, sufficienti a rispettare le norme vigenti. I Comuni devono inviare alle Asl copia del certificato di agibilità in modo che possano essere fatti tempestivamente i controlli.
Il recupero non è soggetto a preventiva adozione di piano attuativo o permesso di costruire; se sono previste opere edili si chiederà il normale titolo edilizio del caso, altrimenti basterà la comunicazione preventiva al Comune.
I Comuni, entro 120 giorni dalla legge, potranno limitare gli ambiti territoriali dove effettuare gli interventi per esigenze di tutela paesaggistica, rischio idrogeologico e difesa del suolo. Trascorsi i 120 giorni potranno ugualmente intervenire in caso di alluvioni o a seguito specifiche analisi di rischio idrogeologico. Una volta scelta la destinazione d’uso, questa non potrà essere più cambiata per dieci anni.
La norma riguarda i seminterrati già realizzati alla data di entrata in vigore della legge, posti in edifici che siano serviti da opere di urbanizzazione primaria. Attenzione: trascorsi cinque anni dall’ultimazione, anche i seminterrati in edifici costruiti dopo la legge potranno essere regolarizzati. Quindi, dato che il seminterrato come tale non fa volumetria, sfuggirebbe “ex post” ai limiti imposti dai Comuni. I quali avrebbero però un rimedio: inserire nelle norme urbanistiche la previsione del computo volumetrico dei seminterrati una volta resi agibili.
«La legge è impostata come una liberalizzazione e non come una sanatoria edilizia -precisa Achille Colombo Clerici, presidente di Assoedilizia.- E consente di andare incontro ai bisogni delle famiglie». Di fatto, è difficile verificare un uso irregolare di fatto di questi locali precedente alla norma.
Qualche problema di adattamento si avrà in condominio: per l’uso più intenso degli spazi comuni (scale e androni), per la necessaria revisione delle tabelle millesimali e per gli eventuali limiti contenuti nei regolamenti condominiali contrattuali
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.03.2017).

PUBBLICO IMPIEGODirigenti con esclusività. L'avvocato civico non può fare altri lavori. Risposta del Cnf a una questione posta dall'Associazione dei comuni.
Dirigenti dell'avvocatura civica solo con vincolo di esclusività. In caso contrario, scatta la cancellazione dall'elenco speciale degli avvocati dipendenti di enti pubblici e la perdita dell'incarico.

Lo afferma il Consiglio nazionale forense, con la nota 28.02.2017 n. 28109 di prot. all'Associazione nazionale che riunisce i comuni italiani, in risposta all'interpretazione data dall'Anci dell'art. 1, comma 221, della legge n. 208/2015.
La legge di Stabilità 2016 prevede infatti che possa essere attribuito l'incarico dirigenziale ai dirigenti dell'avvocatura civica senza il vincolo di trattazione esclusiva degli affari legali dell'ente. Quindi, il professionista è libero di accettare anche un altro incarico dirigenziale. Tale disposizione si scontra però con il nuovo ordinamento forense (legge n. 247/2012), che all'art. 23 prevede il vincolo di esclusività quale condizione «necessaria e inderogabile» ai fini dell'iscrizione nell'albo degli avvocati.
L'interpretazione di Anci e Cnf si scontrano in particolare sulla prevalenza o meno della legge forense rispetto a quanto previsto dalla legge di Stabilità. Secondo il Consiglio nazionale, l'art. 23 della legge 247/2012 «è norma speciale in quanto deroga al regime delle incompatibilità tra pubblico impiego ed esercizio della professione di avvocato dalla stessa legge disciplinato». Di conseguenza, la norma prevale sulla legge di Stabilità del 2016. Per cui, afferma il Cnf, «il venir meno del requisito dell'esclusività non consente la permanenza del dipendente nell'elenco speciale annesso all'albo professionale degli avvocati». Secondo Anci, al contrario, la previsione di cui all'art. 1, comma 221, della legge n. 208/2015 «si porrebbe in rapporto di specialità rispetto alla disciplina generale» contenuta nel nuovo ordinamento forense, «per cui il soggetto potrebbe conservare l'iscrizione nell'elenco speciale e, conseguentemente, lo jus postulandi».
Il Consiglio nazionale, a suffragio della propria tesi, richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 91/2013, che si fonda sul «consolidato orientamento della Corte di cassazione, che attribuisce alla deroga prevista» dal vecchio e dal nuovo ordinamento forense «carattere di norma eccezionale, stante appunto la sua natura derogatoria rispetto al principio generale di incompatibilità».
Nella stessa sentenza viene ribadito, sottolinea il Cnf, che «gli avvocati dipendenti di enti pubblici sono abilitati alla trattazione degli affari legali dell'ente stesso, a condizione che siano incardinati in un ufficio legale stabilmente costituito e siano incaricati in forma esclusiva dello svolgimento di tali funzioni». L'ente deve quindi costituire un ufficio legale autonomo nell'ambito della propria pianta organica e inquadrare gli addetti all'ufficio legale «in via esclusiva allo svolgimento delle funzioni legali di competenza, in piena libertà e autonomia».
Inoltre, prosegue il parere del Cnf, la natura speciale della norma contenuta nella riforma forense, e quindi la sua inderogabilità, è confermata anche dallo stesso comma 221, «con particolare riguardo alla esplicita clausola di esclusione dell'applicabilità della previsione di cui all'art. 1, comma 5 della legge n. 190/2012, che consente per l'effetto una deroga al principio della rotazione degli incarichi dirigenziali nei settori di amministrazione particolarmente esposti alla corruzione, ove le dimensioni dell'ente non consentano di rispettarlo».
La norma contenuta nella legge di Stabilità, conclude il Cnf, non può quindi essere interpretata «nel senso di consentire una deroga ai suddetti requisiti diretti ad assicurare l'indipendenza e la libertà dell'avvocato» (articolo ItaliaOggi del 02.03.2017).

PUBBLICO IMPIEGODipendenti p.a., reintegra zoppa. Il decreto sul pubblico impiego arriva in parlamento.
La reintegra assicurata ai dipendenti pubblici in caso di licenziamento illegittimo dalla riforma Madia dimentica il coordinamento con le disposizioni che obbligano ad applicare la stessa disciplina prevista per il lavoro privato, nel quale non è più prevista.

Lo schema di decreto correttivo approvato dal consiglio dei ministri e appena depositato alla Camera per i pareri  (Atto del Governo n. 393 - Schema di decreto legislativo recante modifiche e integrazioni al testo unico del pubblico impiego, di cui al decreto legislativo 30.03.2001 n. 165) interviene sulla complessa vicenda dell'applicazione della cosiddetta «tutela reale» contro i licenziamenti illegittimi, un tempo assicurata sia ai dipendenti pubblici, sia a quelli privati assunti da imprese con più di 15 dipendenti.
A seguito della riforma Fornero (legge 92/2012) e del dlgs 23/2015, come è noto, la tutela reale, consistente nella reintegrazione, è stata di fatto eliminata, in particolare per i dipendenti assunti successivamente alla vigenza della riforma del Jobs act. Si è posto il problema dell'estensione di queste riforme al lavoro pubblico, anche per la circostanza che non è mai stato emanato il decreto di «armonizzazione» previsto sin dal 2012.
La titolare di palazzo Vidoni, Marianna Madia, ha sempre affermato che per i dipendenti pubblici dovesse continuare ad applicarsi l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. In realtà, si è scatenata la solita querelle interpretativa, sia in dottrina, sia in giurisprudenza, anche per le pronunce contraddittorie della Cassazione.
Infatti, prima gli ermellini hanno affermato che la riforma Fornero si applica anche al lavoro pubblico, poi lo hanno negato. Lo schema di riforma Madia risolve il problema. Non con una conferma dell'applicazione dell'articolo 18 nel testo antecedente alla riforma Fornero (soluzione indicata da alcune pronunce della Cassazione, ma oggettivamente molto criticabile perché giunge a negare la vigenza di una norma solo per una parte dei suoi destinatari), bensì con l'introduzione di una vera e propria disciplina nuova.
Si prevede, quindi, che «il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative.
Il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali». Se la disposizione, introdotta nel corpo dell'articolo 63, comma 2, del dlgs 165/2001 avrà il merito di fare chiarezza sulla questione, tuttavia lo schema di decreto, se non corretto nei passaggi successivi all'approvazione in consiglio dei ministri, rischia di lasciare strascichi di incertezza interpretativa. Infatti, lo schema non abolisce, come sarebbe necessario, la previsione dell'articolo 51, comma 2, del medesimo dlgs 165/2001, ai sensi del quale «La legge 20.05.1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti».
Proprio tale norma, che prevede, come si nota, un'estensione automatica al lavoro pubblico delle norme dello Statuto dei lavoratori e anche delle loro modifiche, è all'origine dei contrasti interpretativi ricordati prima e alla base della più corretta visione, secondo la quale le modifiche intervenute in questi anni sono da considerare operanti anche per i dipendenti pubblici.
Allo scopo di eliminare ogni possibile ulteriore margine di incertezza, è indispensabile, quindi, che il testo finale del decreto di riforma del dlgs 165/2001 abolisca o modifichi l'art. 51, comma 2, in modo da armonizzarlo con la nuova disciplina della reintegra (articolo ItaliaOggi del 02.03.2017).

LAVORI PUBBLICIAppalti, gare entro un anno per salvare i vecchi progetti. Lavori pubblici. Mini-condono per i piani definitivi nel Correttivo.
Sale a quota cento articoli (erano 84) e guadagna qualche altra decina di correzioni, rispetto alle 245 della prima versione, il testo del decreto correttivo della riforma appalti uscito dalla fase di consultazione degli operatori. La nuova bozza è frutto del lavoro condotto nelle ultime ore per inserire nel provvedimento, approvato «salvo intese» dal Consiglio dei ministri di giovedì scorso, le proposte arrivate dal mercato e dagli altri ministeri coinvolti (a partire dall’Economia) . Un passaggio che ha arricchito di diverse novità il testo anche se l'impianto complessivo viene sostanzialmente confermato.
Le novità principali riguardano due aspetti molto discussi delle riforma entrata in vigore ad aprile 2016. Al primo punto c’è la correzione di rotta rispetto al divieto assoluto di affidare ai costruttori anche lo sviluppo finale del progetto (il progetto esecutivo) insieme all'esecuzione delle opere. Il «correttivo» interviene per modificare almeno parzialmente questa impostazione.
La prima novità è il mini-condono per le amministrazioni che avevano già un progetto pronto al momento di entrata in vigore della riforma che ha sancito, senza alcuna fase transitoria, il divieto di appalto integrato. L’ultima bozza concede ancora la possibilità di tirare i progetti fuori dai cassetti e andare in appalto. Ma con due nuove limitazioni. La prima è che vengono tagliati fuori i progetti preliminari. Il via libera riguarderà soltanto gli enti che, al 19 aprile 2016, avevano già approvato un progetto definitivo.
La seconda novità è che per approfittare di questa possibilità gli enti dovranno essere in grado di bandire le gare entro un anno (presumibilmente a partire dall’entrata in vigore del decreto correttivo, anche se il testo non è del tutto chiaro su questo punto). Confermata la possibilità di bandire le gare su progetto definitivo per le opere di manutenzione, fino all’arrivo di un decreto che definirà nuove forme di progettazione semplificata per questo tipo di interventi.
Così come viene confermata anche la possibilità, inserita già nelle prime bozze, di assegnare ai costruttori una quota di progettazione per le opere ad alto tasso di tecnologia o innovazione e nelle eventualità di estrema urgenza. Per questi due casi viene però ora introdotto l’obbligo di motivare la scelta «nella determina a contrarre». Inoltre, vengono escluse dal divieto di appalto integrato anche le opere di urbanizzazione eseguite dalle imprese a scomputo degli oneri di costruzione.
La seconda grande novità del nuovo testo riguarda la disciplina del subappalto. La bozza conferma che il tetto al 30% dovrà essere calcolato sull'importo della categoria prevalente e non più sull'intero ammontare del contratto. L'ultimo testo fa però marcia indietro sulla misura che cancellava l’obbligo di escludere il titolare dell’appalto a causa della carenza di requisiti di un suo subappaltatore.
Il testo uscito dalla consultazione introduce poi diverse novità a favore delle micro, piccole e medie imprese. Come la riduzione del 50% della garanzie da presentare a corredo delle offerte e la cancellazione dell’obbligo di presentare una fidejussione a garanzia dell’esecuzione in caso di aggiudicazione. Cresce poi il numero delle imprese da invitare alle procedure negoziate senza bando. Per gli appalti compresi tra 40mila e 150mila euro si passa da un minimo di 5 a un minimo di 15 imprese. Tra 150mila euro e un milione gli inviti dovranno essere almeno 20 invece che 10. Sul fronte della progettazione, resta invece da sottoporre alle ultime valutazioni la richiesta dei professionisti di escludere gli accordi quadro per assegnare i servizi di architettura e ingegneria.
Prima dell’approvazione finale il testo, ancora evidentemente da limare, dovrà superare l’esame del Consiglio di Stato, della Conferenza Unificata e delle Commissioni parlamentari, dove si annuncia un esame rigoroso del rispetto dei criteri consegnati con la delega
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

EDILIZIA PRIVATALombardia, ok alla legge per recuperare i seminterrati.
Via libera alla legge per il recupero dei vani e dei locali seminterrati esistenti, approvata a maggioranza dal Consiglio regionale della Lombardia.

Ieri è stato votato il testo definitivo del
progetto di legge 258, pensata per facilitare la ristrutturazione di spazi già esistenti ma non sfruttati, da adibire ad uso abitativo, commerciale o terziario.
I seminterrati da recuperare non potranno essere inferiori di 2,40 metri, stabilisce il provvedimento, abbassando di 0,30 metri il parametro relativo all'altezza. In caso di aumento del carico urbanistico, vi è l'obbligo di creare nuovi spazi per parcheggi e servizi, permettendo in caso di impossibilità di monetizzarli. Esentati dal versamento del costo di costruzione solo i seminterrati con una superficie lorda non superiore ai 200 metri quadrati se adibita a uso abitativo e non superiore ai 100 metri quadrati se per altri usi, che costituiscono pertinenza diretta di unità immobiliari.
Entro il termine di 4 mesi dall'entrata in vigore i comuni dovranno disporre l'esclusione di parti del territorio dall'applicazione della legge per esigenze legate alla tutela del paesaggio, al rischio idrogeologico e alla difesa del suolo. Superata la scadenza i luoghi da escludere potranno essere aggiornati in caso di nuovi eventi alluvionali o in seguito a specifiche analisi di rischio geologico e idrogeologico.
Rimangono preclusi gli spazi oggetto di attività di bonifica, in corso o già effettuate, e i luoghi dove siano presenti fenomeni di risalita della falda acquifera. Gli interventi, da effettuare nel rispetto di tutte le prescrizioni igienico-sanitarie, saranno possibili solo sui seminterrati legittimamente realizzati alla data di entrata in vigore della legge e solo dove siano posti in strutture servite da tutte le urbanizzazioni primarie.
Per quanto riguarda gli immobili realizzati dopo l'entrata in vigore della legge, sarà necessario attendere almeno 5 anni per poter applicare questo provvedimento. Inoltre nei dieci anni successivi al conseguimento dell'agibilità i vani e i locali seminterrati non potranno essere oggetto di mutamento di destinazione d'uso, pena il pagamento di un corrispettivo come previsto nella legge n. 12/2005 (articolo ItaliaOggi dell'01.03.2017).

APPALTICodice appalti migliorabile. La p.a. deve poter scegliere il progetto e non il produttore. Il presidente della Fondazione Inarcassa, Andrea Tomasi, sullo schema di decreto correttivo.
Pubblicato circa due settimane fa, lo schema di decreto correttivo del nuovo Codice Appalti (dlgs. 50/2016), dopo una prima informativa in Consiglio dei ministri, è stato sottoposto a una breve fase di consultazione pubblica. Attualmente il testo, a seguito dell'esame preliminare da parte del Cdm, è in attesa della trasmissione in Parlamento al fine dell'espressione dei pareri delle commissioni competenti.
Il provvedimento dovrà essere approvato in via definitiva entro il 19 aprile.
Il correttivo è frutto del lavoro della Cabina di regia istituita presso la presidenza del Consiglio dei ministri e presieduta da Roberto Cerreto che, da poco a capo del dipartimento Affari giuridici e legislativi, proseguirà il lavoro svolto da Antonella Manzione.
Come riportato nella relazione illustrativa, le modifiche proposte mirano a perfezionare l'impianto normativo senza intaccarlo, con lo scopo di migliorarne l'omogeneità, la chiarezza e l'adeguatezza, in modo da perseguire efficacemente l'obiettivo dello sviluppo del settore che la stessa legge delega si era prefissata.
Parametri e concorsi di progettazione. Lo schema tocca 84 articoli su 220 e prevede, nota molto positiva, l'obbligatorietà dell'applicazione del Decreto Parametri per la determinazione dei corrispettivi da porre a base di gara negli appalti per l'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura ed una tutela economica per i progettisti, il cui pagamento non potrà essere subordinato all'ottenimento, da parte della stazione appaltante, del finanziamento dell'opera progettata.
«Accogliamo con grande soddisfazione l'obbligatorietà del riferimento ai parametri tariffari ai fini dell'individuazione dell'importo a base d'asta.
Riteniamo che si tratti di un passo fondamentale e imprescindibile per restituire dignità alla fase progettuale e garantire economicità, proporzionalità e parità di trattamento tra gli operatori», commenta Andrea Tomasi, presidente di Fondazione Inarcassa.
Lo schema di decreto prevede, inoltre, una riduzione di lavoro, e quindi dei costi, a carico dei partecipanti ai concorsi di progettazione - che non saranno più tenuti a presentare piani di fattibilità tecnica ed economica prima dell'approvazione della graduatoria, ma non contempla l'affidamento obbligatorio della progettazione esecutiva al professionista vincitore del concorso.
A tal proposito, il presidente Tomasi afferma: «consideriamo prioritario quanto disciplinato agli artt. 152 e ss. del nuovo Codice degli appalti in materia di concorsi di progettazione. L'obiettivo è far sì che tale procedura diventi, da attività ritenuta meramente culturale, e quasi accademica, una delle modalità per l'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura», con assoluta pari dignità di una qualsiasi altra modalità di gara.
Infatti, dopo il successo ottenuto a seguito dei concorsi di progettazione indetti per la ricostruzione del «Science Centre» e per la ristrutturazione del corpo centrale dell'ex biblioteca della stazione zoologica «Anton Dhorn» di Napoli, Fondazione Inarcassa ha di recente lanciato un altro importante concorso per la realizzazione di una scuola primaria a Riccione, secondo i principi della rigenerazione urbana sostenibile. In entrambi i casi la procedura utilizzata per il bando di progettazione è risultata vincente, ottenendo risultati ben oltre le aspettative.
Nello specifico, Fondazione Inarcassa insiste per una modifica innovativa dei concorsi di progettazione strutturati in due fasi. La prima fase, detta anche di prequalificazione, andrebbe a coincidere con la presentazione di un'idea del progetto futuro da parte di tutti gli architetti e gli ingegneri liberi professionisti senza che sia loro richiesta la presentazione di specifici requisiti, in modo da consentire anche ai giovani professionisti di accedere alle nuove opportunità di lavoro. Solo ai partecipanti alla seconda fase, ove si chiede la presentazione di un progetto di fattibilità, invece, viene chiesta la presentazione dei requisiti normativamente previsti.
Il contributo più rilevante introdotto dalla Fondazione per la prima volta in Italia, come peraltro dimostrato dalle esperienze sopra citate, riguarda sempre l'assegnazione diretta dell'incarico al vincitore del concorso di progettazione. In particolare, al primo classificato dovrebbe deve essere sempre assegnato l'incarico per la stesura delle successive fasi di progettazione. L'importo dell'appalto di servizi di ingegneria e architettura viene fissato già nel bando di concorso. In questo modo, i concorsi di progettazione appaiono come lo strumento idoneo per l'affidamento dell'incarico dei servizi di ingegneria e architettura e in quanto tale trova giusta e corretta collocazione nel Codice degli appalti.
Invece, la disamina è differente per quanto attiene ai concorsi di idee, disciplinati dall'articolo 156 del nuovo Codice degli appalti, non potendo essere ritenuti una procedura finalizzata all'affidamento dei servizi di architettura e ingegneria. I concorsi di idee, infatti, rappresentano lo strumento per acquisire soluzioni e idee di indirizzo per la stazione appaltante. Pertanto, al vincitore di tale tipologia di concorso dovrebbe essere assegnato solamente un premio la cui entità dovrebbe essere assolutamente proporzionata all'importanza dell'idea richiesta dal bando e agli elaborati progettuali richiesti. L'inserimento nel Codice di tale procedura, però, non finalizzata al conferimento di una appalto di servizi di ingegneria e architettura, non appare come elemento significativo e decisivo.
«Auspichiamo che una più attenta riflessione del Governo su questi aspetti e una disponibilità ad accogliere le nostre sollecitazioni», conclude sul punto Tomasi, «il legislatore pensi a quanto sia più corretto e utile per le p.a. poter scegliere in base al prodotto (progetto) anziché al produttore. Non sempre la tipologia delle opere pubbliche si presta a questa procedura, ma ove vi sia questa possibilità, crediamo che vada assolutamente perseguita».
Appalto integrato. Inoltre, il correttivo reintroduce la possibilità di procedere all'appalto integrato, cioè la possibilità che all'impresa di costruzione sia affidata anche parte della progettazione, per le manutenzioni e nel caso in cui i progetti siano stati validati prima dell'entrata in vigore del nuovo Codice appalti. Infine, accorda alle stazioni appaltanti il ricorso all'affidamento dell'esecuzione di lavori e della progettazione esecutiva, nei casi in cui l'elemento tecnologico o innovativo sia nettamente prevalente rispetto all'importo complessivo dei lavori o qualora ricorrano i presupposti di urgenza.
«Le numerose deroghe che consentono l'appalto integrato sono un elemento fortemente negativo», commenta Andrea Tomasi, «ci si riferisce soprattutto alla fattispecie che giustifica l'appalto integrato nei casi d'urgenza. Questa previsione verrebbe a produrre una eccessiva discrezionalità perché quasi sempre le Amministrazioni agiscono nell'urgenza e, anche l'apparente limitazione che prevede l'attivazione dell'inizio lavori entro 30 giorni dall'appalto, risulta essere facilmente aggirabile con la procedura della consegna dei lavori in carenza di contratto. Procedura questa assolutamente usuale. L'eliminazione dell'appalto integrato era l'unica previsione in linea con la dichiarazione di principio che il legislatore aveva spesso palesato in ordine alla centralità del progetto. Ahimè, il comma 1-ter fa, di fatto, rientrare dalla finestra quanto, correttamente e seriamente, era stato messo alla porta.
Nel complesso», conclude il presidente Tomasi, «il testo introduce alcune novità positive ma restano anche diverse criticità quali, ad esempio, una specifica e puntuale definizione dell'offerta economicamente più vantaggiosa nel caso degli appalti di servizi di ingegneria e architettura, depotenziando, come da noi chiesto, la componente economica o le validità temporali dei requisiti. Siamo fiduciosi in un ponderato ripensamento magari anche dopo un positivo confronto con il ministro Delrio» (articolo ItaliaOggi dell'01.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

CONDOMINIO - EDILIZIA PRIVATAAppalti, solidarietà sulle retribuzioni. Obbligo anche per i contributi omessi nel limite di due anni dalla fine dell’opera.
Responsabilità. Il coinvolgimento del condominio nel saldo dei debiti «di lavoro» quando l’impresa non ce la fa.

A dare il “la” ai lavori di manutenzione è la delibera condominiale, con la quale il condominio, per tramite dell’amministratore, stipula un contratto d’appalto con un’impresa che si obbliga, dietro compenso, a eseguire gli interventi concordati, utilizzando la propria forza lavoro, quindi i propri dipendenti. Ma cosa succede nel caso in cui –per svariati motivi– l’azienda appaltatrice si trovi nell’impossibilità di retribuire i dipendenti?
In questo frangente è prevista la “responsabilità solidale”, per cui ricade sul condominio stesso, in qualità di committente, il dovere di pagare il lavoratore, una volta venga dimostrato che l’azienda appaltatrice non ha i mezzi per farlo.
I riferimenti normativi sono l’articolo 1676 del Codice civile e l’articolo 29 del Dlgs 276/2003. Mentre il primo prevede la possibilità per i dipendenti dell’appaltatore di proporre azione diretta nei confronti del committente per ottenere quanto dovuto ma solo fino alla concorrenza dell’eventuale debito che il committente ha verso l’appaltatore, ben più ampia e incisiva è la responsabilità contenuta nell’articolo 29, dove viene affermato che il committente è obbligato in solido con l’appaltatore e eventuali subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di Tfr, i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodi di appalto.
Obiettivo della “responsabilità solidale” è evitare una potenziale dispersione delle responsabilità, che la particolare struttura dell’appalto potrebbe incentivare.
Per scongiurare il rischio che il condominio debba rispondere in solido con i dipendenti dell’appaltatore, l’amministratore prenderà alcuni accorgimenti (obbligatori secondo il Dlgs 81/2008, articolo 26) quali la verifica dell’iscrizione alla Camera di Commercio e la verifica dei requisiti organizzativi e strutturali dell’impresa appaltatrice e degli eventuali subappaltatori.
Inoltre, sarà necessario verificare che l’azienda sia in possesso di un documento Durc regolare. Il Durc costituisce un documento essenziale per l’amministratore che voglia tutelarsi, poiché garantisce in merito all’assolvimento degli adempimenti nei confronti degli istituti previdenziali e assicurativi (Inps e Inail). Ma va detto che nemmeno tale documento può dare delle certezze assolute: prima di tutto, la sua data di emissione non coincide per forza con le date di svolgimento dei lavori (e tra i due periodi, potrebbe intanto essere cambiato qualcosa).
In secondo luogo, come anche evidenziato dall’interpello 3/2010 del 02.04.2010 del ministero del Lavoro «le verifiche effettuate ai fini del rilascio del Durc sono riconducibili all’unicità del rapporto previdenziale tra impresa richiedente ed Ente rilasciante», dunque un’impresa che abbia un debito derivante da un vincolo di responsabilità solidale, ma che sia in regola con i versamenti contributivi, potrà comunque ottenere il Durc.
Il condominio potrà però richiedere anche copia dell’ultimo F24 o dei cedolini paga dei dipendenti, così da verificare l’effettiva retribuzione, fermo restando che, non essendoci obbligo di legge riguardo il fornire tale documentazione, l’appaltatore potrà rifiutarsi di mostrarla (ma questo non è un bel segnale). Il consiglio è dunque quello di evitare quelle società appaltatrici che giocano al ribasso, proponendo al condominio prezzi troppo concorrenziali, che potrebbero dipendere da un servizio scarso o da uno scorretto inquadramento del lavoratore.
Si tenga conto che un appalto genuino dovrebbe avere un costo superiore rispetto all’assunzione diretta, perché al costo medio orario di circa 14,79 euro del personale dipendente da impresa di pulizia andrà sommato il compenso dovuto dal condominio all’azienda per la fornitura e gestione del servizio
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIA - PATRIMONIO - VARIA chi imbratta i muri si può imporre la ripulitura. Lotta al degrado. Le misure del decreto legge 14/2017.
Il decreto legge 14 del 20.02.2017 disciplina la promozione della sicurezza integrata e definisce (articolo 4) la sicurezza urbana quale bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città da perseguire con interventi di riqualificazione e recupero delle aree o dei siti più degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione delle criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione del rispetto della legalità e l’affermazione dei più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile.
È prevista (articolo 11) una procedura rafforzata da parte del prefetto, nella determinazione delle modalità esecutive di provvedimenti dell’autorità giudiziaria, concernenti occupazioni arbitrarie di immobili, sentito il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, per emettere le disposizioni per prevenire il pericolo di turbative per l’ordine e la sicurezza pubblica. La durata della sospensione dell’attività dei pubblici esercizi, in caso di reiterata inosservanza delle ordinanze della pubblica autorità, è aumentata a giorni 15.
Il questore (articolo 13) può disporre il divieto di accesso ai pubblici locali o a esercizi analoghi ovvero di stazionamento nelle immediate vicinanze degli stessi nei confronti delle persone condannate con sentenza definitiva o confermata in grado di appello nel corso degli ultimi anni per la vendita o la cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope (sanzionate dall’articolo 73 del Dpr 309/1990).
Il divieto non può avere durata inferiore a un anno, né superiore a cinque. Per tali soggetti, se condannati negli ultimi tre anni con sentenza definitiva, il questore può disporre, per la durata massima di due anni, l’obbligo di presentazione due volte alla settimana nei locali delle forze di polizia,l’obbligo di rientrare e di uscirne entro una certa ora nella propria abitazione, il divieto di allontanarsi dal comune di residenza, l’obbligo di comparire in un un ufficio o in un comando di polizia negli orari di entrata ed uscita dagli istituti scolastici.
Tali divieti possono essere disposti anche nei confronti di soggetti minori di 18 anni che hanno compiuto il quattordicesimo anno di età e il provvedimento è notificato a coloro che esercitano la responsabilità genitoriale. La violazione degli obblighi è sanzionata con il pagamento di una somma da 10mila a 40mila euro e con la sospensione della patente di guida da sei mesi a un anno.
Nel caso di condanna per la commissione del reato di cui all’articolo 73 del Dpr 309/1990 (produzione, detenzione e spaccio di droga) commesso all’interno o nelle vicinanze di un locale di pubblico esercizio, il giudice può subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena, in base all’articolo 163 del Codice penale, al divieto di accedere in locali pubblici e pubblici esercizio specificamente individuati.
Al reato di cui all’articolo 639 del Codice penale (Deturpazione o imbrattamento di cose altrui) è aggiunta la facoltà (articolo 16) per il giudice di imporre al condannato, in base all’articolo 165 del Codice penale, l’obbligo di ripristino e di ripulitura dei luoghi ovvero, qualora ciò non sia possibile, l’obbligo di sostenere le spese o a rimborsare quelle sostenute o, se il condannato non si oppone, la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa, secondo le modalità indicate nella sentenza di condanna
 (articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2017).

EDILIZIA PRIVATAL'obiettivo è la semplificazione. Le ricadute positive sui professionisti e sui cittadini. Le nuove procedure di autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità.
È stato adottato con decreto del presidente della repubblica il regolamento di semplificazione delle procedure per l'autorizzazione paesaggistica per gli interventi di lieve entità, approvato dal consiglio dei ministri il 20.01.2017.
Dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale le norme saranno immediatamente efficaci nelle regioni a statuto ordinario, mentre in quelle a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e Bolzano dovranno essere adottate opportune norme di coordinamento, nelle more delle quali continueranno ad applicarsi le disposizioni regionali o provinciali vigenti.
L'approvazione del dpr è stata accolta con favore dal Consiglio nazionale geometri e geometri laureati: nelle parole del consigliere Cesare Galbiati «il provvedimento era atteso da tempo, e poter finalmente procedere ad alcune opere senza ottenere la preventiva autorizzazione paesaggistica va nella direzione della semplificazione autentica, che favorisce la competitività e frena il contenzioso, con ricadute positive sui professionisti tecnici e sui cittadini».
Domanda.
Consigliere Galbiati, qual è l'ambito di ricaduta delle misure previste dal regolamento?
Risposta. È opportuno precisare che la semplificazione riguarda le opere di edilizia minori in aree soggette a variegati vincoli di natura ambientale, mentre esclude quelli sugli immobili sottoposti a tutela per vincoli di bene culturale ex legge 1089/39. Negli allegati A e B del decreto sono individuati in maniera puntuale 31 interventi totalmente esclusi dall'obbligo di ottenere l'autorizzazione paesaggistica, e 42 invece soggetti ad autorizzazione paesaggistica semplificata perché considerati di lieve impatto ambientale. Naturalmente, l'esclusione dell'obbligo di autorizzazione paesaggistica non incide su altre discipline di settore, quale in particolare la disciplina dei titoli abilitativi edilizi.
D. Quali sono le novità più importanti?
R. Ne segnalo una di particolare rilevanza: viene introdotta, per la prima volta in materia paesaggistica, una tolleranza costruttiva nelle misure di tutti gli edifici (del 2% per «altezza, distacchi, cubatura, superficie coperta o traslazioni dell'area di sedime») similmente a quanto già introdotto in campo urbanistico qualche anno addietro. Concetto più volte richiesto da noi tecnici di settore e sicuramente di grande utilità pratica.
D. In sintesi, cosa cambia nell'applicazione delle procedure?
R. Sono introdotte una serie di semplificazioni per il rinnovo delle autorizzazioni e per le procedure, sia dal punto di vista documentale che nell'iter procedurale: la nuova procedura semplificata si potrà concludere entro 40 giorni (contro i 65 previsti da quella attuale, di cui al dpr 139/2010), e in ogni caso tassativamente entro 60 giorni dal ricevimento della domanda da parte dell'amministrazione referente.
È previsto un modello unificato per la presentazione dell'istanza e un modello per la relazione paesaggistica semplificata; una volta ottenuta, l'autorizzazione paesaggistica sarà efficace per un periodo di cinque anni, trascorso il quale sarà necessario provvedere ad una nuova richiesta (articolo ItaliaOggi del 28.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTITesto da migliorare. Il codice contratti.
Lo scorso 23 febbraio il Consiglio dei ministri ha approvato, in via preliminare, il dlgs correttivo del Codice dei contratti (Atto del Governo n. 397 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50).
È un passaggio propedeutico alla raccolta dei pareri delle Commissioni parlamentari competenti e della Conferenza stato-regioni, in vista della scadenza della delega fissata al 19 aprile. Circa i contenuti della bozza in consultazione, le professioni tecniche esprimono una moderata soddisfazione per il recepimento di alcune istanze, unitamente all'introduzione di alcune novità, tra le quali:
   - il futuro obbligo di utilizzo del decreto «Parametri» (dm 17/06/2016) per determinare i corrispettivi da porre a base di gara negli appalti per l'affidamento dei servizi di ingegneria e architettura;
   - le Stazioni Appaltanti dovranno sempre pagare i professionisti, anche nell'eventualità in cui esse non ricevano, in seguito, i finanziamenti per l'opera progettata;
nei contratti non si potrà più inserire alcuna clausola che subordini il pagamento del progettista all'ottenimento delle risorse finanziarie richieste dall'ente;
   - le gare per l'affidamento di interventi di manutenzione potranno essere bandite sulla base di un progetto semplificato, i cui contenuti saranno definiti con un decreto del Consiglio superiore dei lavori pubblici (Cslp). Per definire il livello di semplificazione, la norma dovrà tenere conto del tipo di manutenzione (ordinaria o straordinaria), della complessità e dell'importo dei lavori; il progetto di fattibilità tecnica potrà essere redatto in due fasi. In tal caso, le alternative progettuali saranno definite solo nella prima fase, con evidente semplificazione e riduzione dei costi per le indagini e gli studi necessari alla definizione economica dell'intervento; potranno continuare ad operare i direttori tecnici in possesso di titolo conseguito sulla base dell'esperienza.
Di contro, non si condivide la reiterazione, seppure con diversa formulazione, della possibilità assegnata al Responsabile unico del provvedimento (Rup) di svolgere anche le attività di progettista o direttore dei lavori: si tratta, evidentemente, dell'attribuzione in capo allo stesso soggetto delle funzioni di controllore e controllato.
Sorgono dubbi sullo scorporo del costo della manodopera, che è un elemento proprio dell'organizzazione di ciascuna impresa, strettamente correlato alla produttività e difficilmente valutabile in fase di progettazione; così come su quello che si può definire uno «sdoganamento» dell'appalto integrato, con la possibilità di affidare progetto esecutivo e lavori per quelle amministrazioni che, alla data dell'entrata in vigore del codice, avevano già approvato il definitivo. Nell'impossibilità, tra l'altro, di avere evidenza certa del loro numero.
Infine, non si può fare a meno di sottolineare un certo disappunto per la ridotta tempistica concessa alla consultazione pubblica: se l'obiettivo è ottenere dai portatori di interesse contributi fattivi e non formali su articolati di grande complessità, i tempi non possono essere compatibili con quelli di incombenti (articolo ItaliaOggi del 28.02.201).

EDILIZIA PRIVATALe procedure corrette per ogni tipo di intervento. Regioni e Comuni possono aumentare ma non ridurre le semplificazioni.
Titoli abilitativi. Gli iter amministrativi dopo le novità introdotte dal decreto Scia2.

Anche se non è stato ancora varato il decreto ministeriale che elenca le principali opere edilizie e individua, per ognuna di esse, la categoria di intervento in cui ricade e il regime giuridico a cui è sottoposta (il termine è scaduto l’8 febbraio scorso), il riassetto dei titoli edilizi previsto dal decreto Scia2 è comunque pienamente operativo.
È utile quindi, in attesa del decreto che definirà il glossario unico e dovrà essere varato dal ministero delle Infrastrutture e dei trasporti (di concerto con quello della Semplificazione), ricapitolare le procedure da seguire per la realizzazione dei diversi tipi di intervento.
Le norme
Il Dlgs 222/2016 (il cosiddetto Scia2) ha individuato le tipologie degli interventi assoggettati a permesso di costruire, alla segnalazione certificata di inizio attività (Scia), alla comunicazione di inizio lavori asseverata (Cila) e quelli realizzabili in edilizia libera. Il decreto Scia2 ha anche definito i procedimenti amministrativi applicabili alle attività commerciali.
Ed è stato sempre il Dlgs Scia2 a prevedere che entro 60 giorni dalla sua entrata in vigore (scattata il l’11.12.2016) il ministero delle Infrastrutture varasse il decreto con il glossario unico. Il decreto è in elaborazione e dovrà poi ottenere il via libera dalla Conferenza unificata.
La mancata emanazione di quest’atto ministeriale non ostacola però l’operatività del Dlgs 222/2016. Anche, nell’edilizia, le semplificazioni introdotte dal decreto Scia2 per velocizzare e rendere più snelle le procedure amministrative per la realizzazione dei lavori, sono già operative.
Il Dlgs 222/2016 ha infatti cancellato la Cil (comunicazione inizio lavori) e trasferito tutti gli interventi per i quali era prevista nell’ambito dell’attività edilizia libera ampliandone l’ambito di applicazione. Ha inoltre allungato la lista delle opere per le quali può essere applicata la Scia (si veda Il Sole 24 Ore del 19.12.2016).
Le altre autorizzazioni
Ma per alcuni interventi questo non è sufficiente. Così, non tutte le opere per la cui realizzazione è richiesta la Cila o la Scia possono essere iniziate immediatamente dopo la presentazione della documentazione negli uffici del Comune.
Quando la realizzazione dell’intervento è subordinata anche alla decisione di un altro ente, il titolo abilitativo produce i suoi effetti solo dopo che esso ha dato il via libera. È il caso di alcuni lavori edilizi destinati ad ospitare attività con elevati profili di rischio o che devono essere localizzati in aree particolarmente sensibili.
Tra i primi rientrano, per esempio, gli interventi relativi a immobili in cui devono essere realizzate attività assoggettate ai procedimenti amministrativi relativi alla prevenzione degli incendi (ex Dpr 151/2011). I depositi di gas comburenti compressi e liquefatti in serbatoi fissi e mobili con una capacità superiore a tre metri cubi, oppure un’officina che impiega fino a cinque addetti nelle operazioni di saldatura e taglio di metalli con gas infiammabili possono essere realizzate con Scia, ma solo dopo che le autorità che ne hanno la facoltà hanno rilasciato le autorizzazioni relative alla prevenzione incendi.
La stessa subordinazione dell’efficacia del titolo abilitativo all’ottenimento delle relative autorizzazioni opera anche per il ricorso alla Cila o alla Scia nella realizzazione di interventi in zone classificate a media e alta sismicità o che modificano lo stato dei luoghi o l’aspetto esteriore di edifici localizzati in zone sottoposte a tutela paesaggistica.
L’allegato al Dlgs 222/2016 indica le attività edilizie per la cui realizzazione oltre al titolo abilitativo è necessario acquisire altri titoli di legittimazione.
Le Regioni
Una data importante per l’attuazione del decreto legislativo è quella del prossimo 30 giugno. Le Regioni e gli enti locali hanno tempo fino ad allora per adeguare le loro normative alle disposizioni del decreto.
Regioni ed enti locali nel modificare i loro regimi amministrativi in materia di titoli abilitavi, possono prevedere ulteriori livelli di semplificazione. Non possono, invece ridurre i livelli di semplificazione e le garanzie assicurate a cittadini, imprese e professionisti previste dal decreto Scia2.

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Moduli standard pronti a fine giugno. L’attuazione. Il ministero delle Semplificazione sta mettendo a punto i modelli unificati previsti dal decreto Scia1.
Per i moduli unificati e standardizzati sui titoli abilitativi alla realizzazione degli interventi edilizi bisogna aspettare fino al 30 giugno. Al ministero della Semplificazione stanno lavorando alla messa a punto dei modelli previsti dal Dlgs 126/2016.
L’emanazione di questo Dlgs, correntemente noto come Scia1, per distinguerlo da quello definito Scia 2 (vedi l’articolo in alto), dà attuazione all’articolo 5 della legge 124/2015, sulla riorganizzazione della pubblica amministrazione. Con l’adozione dei moduli unificati, per ogni tipologia di titolo abilitativo, devono essere definiti dettagliatamente e in modo esaustivo i contenuti delle istanze che i progettisti devono presentare ai Comuni, le modalità di presentazione dei dati richiesti e la documentazione da allegare.
I moduli per presentare le istanze, le comunicazioni e le segnalazioni alla Pa devono essere formulati in modo che il privato possa ricevere le eventuali comunicazioni dal Comune al suo domicilio digitale. Prima dell’emanazione, i moduli unificati devono passare al vaglio della conferenza unificata. La loro disponibilità dovrebbe evitare che i Comuni procedano in ordine sparso e che gli architetti, gli ingegneri e i geometri che progettano in più comuni debbano seguire procedure diverse. In attesa dei nuovi modelli unificati, ogni Comune continuerà a seguire le procedure in uso.
Soprattutto per dare certezza agli utenti sui dati da fornire e sulla documentazione da allegare, i Comuni dovranno pubblicare, sui loro siti internet, la modulistica unificata. La responsabilità di questo obbligo ricade sul dipendente pubblico responsabile del procedimento. Visto le sanzioni alle quali va incontro (sospensione dal servizio e dalla paga), in caso non lo faccia, deve stare anche attento a cosa pubblica. Nel corso dell’istruttoria di una pratica, egli può, naturalmente, chiedere l’integrazione dell’eventuale documentazione mancante, ma solo di quella prevista nell’elenco pubblicato sul sito; la stessa cosa vale per le tutte le altre informazioni.
Nel frattempo presso il dipartimento della Funzione pubblica opera un help-desk per dare supporto e informazioni e raccogliere segnalazioni sia dall’interno delle pubbliche amministrazioni sia dai cittadini che dagli operatori del settore
(articolo Il Sole 24 Ore del 27.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

AMBIENTE-ECOLOGIASottoprodotti, istruzioni all'uso. Albo e documentazione ad hoc per le imprese interessate. Il ministero dell'ambiente detta i criteri per gestire le biomasse fuori dal regime dei rifiuti.
Iscrizione in appositi elenchi delle Camere di commercio, tracciamento fino all'utilizzo finale dei residui prodotti e tenuta di apposita documentazione che dimostri il rispetto delle prescrizioni del Codice ambientale sui sottoprodotti.

Queste, in estrema sintesi, le regole che, in base al nuovo dm ambiente 13.10.2016 n. 264 (G.U. 15.02.2017, n. 38), permetteranno alle imprese di dimostrare con maggiore agilità davanti alle competenti Istituzioni la legittima gestione in deroga al regime dei rifiuti dei residui vegetali e animali destinati alla produzione di energia.
La portata delle nuove regole. Il nuovo regolamento in vigore dal 02/03/2017 va inquadrato nelle gerarchicamente superiori norme ex articolo 184-bis, comma 1, del Codice ambientale (dlgs 152/2006) in base alle quali non costituiscono rifiuti ma «sottoprodotti» le sostanze e gli oggetti che rispettano quattro precise condizioni, ossia: (lettera a) sono originate da processi di produzione di cui costituiscono parte integrante ma il cui scopo primario non è la loro generazione; (lettera b) deve essere certo che saranno utilizzati nello stesso o in successivo processo di produzione o di utilizzazione da parte del produttore o di terzi: (lettera c) possono essere utilizzati direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla «normale pratica industriale»; (lettera d) l'ulteriore utilizzo è legale, ossia le sostanze e gli oggetti soddisfano i relativi requisiti di prodotto e non sono dannosi per ambiente e salute.
Dopo aver così disposto, il medesimo articolo 184-bis, comma 2, del dlgs 152/2006 legittima il Minambiente ad adottare con decreto «misure per stabilire criteri qualitativi o quantitativi da soddisfare affinché specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti». È in tale contesto che arriva il nuovo dm 264/2016, testualmente titolato quale «regolamento recante criteri indicativi per agevolare la dimostrazione della sussistenza dei requisiti per la qualifica dei residui di produzione come sottoprodotti e non come rifiuti».
Il neo provvedimento detta nell'articolato le disposizioni che declinano le citate quattro condizioni ex dlgs 152/2006 e nell'allegato dei criteri relativi alla particolare categoria di residui coincidenti con alcune biomasse. Ed è proprio in relazione a queste sole ultime «specifiche tipologie» di residui, stante il limite posto dal menzionato articolo 184-bis dlgs 152/2006 alla potestà del Dicastero, che appare essere circoscritta la portata del nuovo decreto ministeriale (nonostante, dunque, il tenore generale del suo titolo).
Sebbene lo stesso dm 264/2016 precisi avere il rispetto dei criteri da esso recati mero valore indicativo al fine di dimostrare il rispetto delle condizioni ex dlgs 152/2006 appare tuttavia plausibile ritenere che sul piano concreto il loro ossequio potrà avere davanti agli Organi di controllo maggiore evidenza rispetto all'osservanza di altre e diverse modalità probatorie cui gli operatori sono comunque ex lege ammessi.
Le biomasse. L'ambito applicativo dei «criteri indicativi» recati dal dm 264/2016 riguarda le biomasse residuali individuate dal suo allegato 1 per provenienza, trattamenti ammessi e utilizzi consentiti. Il novero coincide sostanzialmente con i residui di origine animale e vegetale ivi elencati in corrispondenza della relativa normativa Ue di settore, oggetto delle attività di normale pratica industriale consentite (come lavaggio, essiccatura, insufflazione di aria, raffinazione, triturazione, omogeneizzazione, fermentazione naturale, centrifugazione, disidratazione, sedimentazione e chiarificazione), il tutto in funzione degli utilizzi ammessi (produzione di energia tramite impiego in impianti di produzione di biogas o combustione diretta).
Le regole gestionali. Gli operatori che vorranno avvantaggiarsi della «presunzione» di legalità garantita dal dm 264/2016 dovranno rispettare una serie di prescrizioni che coincidono sostanzialmente con: l'accennata iscrizione (senza oneri economici) negli appositi elenchi pubblici istituiti presso le Camere di commercio territorialmente competenti; l'istituzione di un sistema di gestione dei residui che ne garantisca e dimostri, dalla produzione all'utilizzo, la compatibilità con le citate quattro condizioni ex dlgs 152/2006; il rispetto di determinate regole di deposito e trasporto; la conservazione della contrattualistica sottesa alle attività di gestione; la tenuta di una documentazione ad hoc consistente in una scheda tecnica (identificativa di produttore, sottoprodotti e filiera di utilizzo) e in una dichiarazione di conformità (certificante le qualità del sottoprodotto in caso di cessione a terzi).
L'origine dei sottoprodotti. In relazione alla prima delle sopra esposte condizioni ex dlgs 152/2006, il dm 264/2016 reca disposizioni sia generali che particolari. Sotto il primo profilo viene precisato che dal regime di favore riservato ai sottoprodotti sono esclusi i residui derivanti da attività di «consumo». I criteri di carattere particolare sono invece da rintracciarsi nell'allegato 1 del regolamento, laddove si indicano le origini ammissibili per le specifiche categorie di residui vegetali e animali.
La certezza dell'utilizzo. Tale prova potrà per il minambiente essere data: in caso di utilizzo nel medesimo ciclo di produzione, tramite la dimostrazione (anche documentale) dell'esistenza del citato sistema di gestione controllata dei residui (dalla loro produzione al loro effettivo riutilizzo passando per le operazioni intermedie di deposito e trasporto); in caso di utilizzo in cicli diversi da quello di produzione, tramite la dimostrazione della preventiva individuazione di attività o dell'impianto di destinazione, sulla base di validi contratti (che evidenzino oggetto della fornitura, durata del rapporto, modalità di consegna, vantaggio economico per produttore) o, in loro mancanza, delle schede tecniche di dichiarazione e conformità allegate al dm (da tenersi secondo le modalità dei registri Iva o comunque numerate e vidimate presso le Camere di commercio).
Deposito e trasporto, in particolare, dovranno essere condotti nel rispetto delle norme tecniche di settore (e comunque assicurando standard minimi di tutela della salute e dell'ambiente), avvenire in tempistiche congrue risultanti dalla citata «dichiarazione» allegata al dm. In caso di utilizzo in diverso ciclo, la responsabilità del produttore o del cessionario termineranno con la consegna del sottoprodotto a terzi.
L'utilizzo diretto e la normale pratica industriale. In base al dlgs 152/2006 gli unici trattamenti compatibili con lo status di sottoprodotto sono quelli coincidenti con la «normale pratica industriale», che il dm 264/2016 declina per la specifica categoria di residui, con un occhio di favore per i residui che restano nel ciclo che li ha generati. Infatti, solo se effettuate nel ciclo di produzione del residuo saranno considerate «Npi» anche le attività e le operazioni finalizzate a dare agli stessi residui i requisiti di compatibilità ambientale e di salute.
Standard di prodotto ed eco-qualità. La prova di tali condizioni dovrà essere fornita dal produttore mediante la predisposizione, la conservazione e l'aggiornamento dell'apposita e citata scheda tecnica allegata al dm; scheda che in caso di cessione dei residui per utilizzo in altro ciclo produttivo, dovrà essere altresì integrata dalla dichiarazione di conformità indicata dallo stesso allegato (articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOP.a., lavoro flessibile al bando. Stop alle collaborazioni, contratti a termine per 36 mesi. RIFORMA MADIA/ Molte le misure contro la precarizzazione del pubblico impiego.
La riforma Madia irrigidisce il lavoro flessibile nella pubblica amministrazione. Le modifiche del pacchetto (Atto del Governo n. 393 - Schema di decreto legislativo recante modifiche e integrazioni al testo unico del pubblico impiego, di cui al decreto legislativo 30.03.2001, n. 165) che interessa il testo unico del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, il dlgs 165/2001, sono caratterizzate dal chiaro intento di limitare quanto più possibile l'utilizzo dei contratti di lavoro diversi da quelli a tempo indeterminato, come misura di prevenzione contro la precarizzazione, che si accompagna e coordina con l'ennesima ondata di stabilizzazioni prevista.
Collaborazioni. La riforma modifica l'articolo 7 del dlgs 165/2001, dedicato proprio alle collaborazioni, introducendo un comma 5-bis, ai sensi del quale «è fatto divieto vieta alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro».
È un divieto dal contenuto sostanzialmente identico a quello previsto nell'articolo 2, comma 4, del dlgs 81/2015 (Jobs act) la cui applicazione è stata, però, rinviata al primo gennaio 2018 dall'articolo 1, comma 8, del dl 244/2016. Poiché la riforma del dlgs 165/2001 dovrebbe entrare in vigore, se tutto andrà come previsto, tra maggio e giugno, il nuovo comma 5-bis dell'articolo 7 avrà l'effetto di anticipare il divieto di utilizzare le collaborazioni nella p.a.
Rimane confermata l'impossibilità di estendere alla p.a. la «conversione» delle collaborazioni in lavoro subordinato, ammessa, invece, dal dlgs 81/2015 come «sanzione» per i datori che utilizzino impropriamente lo strumento.
Solo lavoro autonomo. Inoltre, la riforma cancella dall'articolo 7, comma 6, il riferimento ad incarichi «di natura occasionale» o «coordinata e continuativa». Resta la sola possibilità di affidare incarichi di lavoro autonomo vero e proprio, caratterizzati, quindi, dall'assenza di un forte potere di coordinamento ed ingerenza operativa da parte del committente.
Non a caso, tra gli elementi del contratto attraverso i quali predeterminare la prestazione da rendere attraverso gli incarichi di collaborazione, la riforma cancella il riferimento al «luogo» di espletamento della prestazione, eliminando, dunque, un tipico elemento di coordinamento, incompatibile con la pronunciata autonomia lavorativa richiesta dalla riforma.
La violazione delle regole sulle collaborazioni per lo svolgimento di funzioni ordinarie o l'utilizzo dei soggetti incaricati come lavoratori subordinati è causa di responsabilità amministrativa per il dirigente che ha stipulato i contratti
Tempo determinato. A differenza del settore privato, nel quale il dlgs 81/2015 ha messo a regime la cancellazione dell'obbligo di specificare le ragioni giustificative del ricorso ai contratti a tempo determinato (e di somministrazione), la riforma Madia conferma che nella p.a. il tempo determinato è «causale».
Deve, cioè, essere sorretto da una causa giustificativa, consistente (come nel vigente regime) per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale. Nel tentativo di disporre un certo grado di armonizzazione del regime del lavoro pubblico con quello privato, il ritocco al comma 2 dell'articolo 36 del dlgs 165/2001 dispone che i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato possono essere stipulati nel rispetto degli articoli 19 e seguenti del dlgs 81/2015.
In poche parole, dunque, si estendono al lavoro pubblico: il limite massimo alla durata dei contratti di lavoro di 36 mesi (includente anche precedenti somministrazioni di lavoro); la possibilità di prolungare di altri 12 mesi i contratti mediante accordo scritto avanti alla direzione territoriale del lavoro; la disciplina delle proroghe e dei rinnovi; il numero complessivo dei contratti, non superiore al 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione.
Resta irrisolta la questione del cumulo di contratti a termine dovuti al fatto che un medesimo lavoratore partecipi e vinca ripetutamente concorsi. Non persuade anche la limitazione del numero dei contratti a termine, considerando che nel privato è un rimedio all'acausalità dei contratti, mentre nel pubblico non solo rimane la causalità, ma vi sono anche limiti di spesa di cui tenere conto (articolo ItaliaOggi del 25.02.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - VARIPec, revoca d'ufficio.
L'informativa del Registro imprese relativa alla revoca o alla cessazione dell'indirizzo Pec di un'impresa non più attiva deve avvenire d'ufficio. E la notifica del provvedimento di cancellazione va effettuata mediante pubblicazione dello stesso sull'albo camerale della Cciaa; pubblicazione che resta effettiva per sette giorni consecutivi. Alla scadenza, inizieranno a decorrere 15 giorni, entro cui l'impresa individuale o collettiva (articolo 2192 c.c.), che ha subito la cancellazione della Pec potrà presentare ricorso.

A dettare i tempi è il Tribunale delle imprese della Cciaa di Milano, con il provvedimento 11.02.2017 n. cronologico 515/2017.
Il ministero dello Sviluppo economico (direttiva Mise-Mingiustizia del 28.03.2015), ha stabilito che le imprese costituite in forma societaria e le imprese individuali attive e non soggette alla procedura concorsuale debbano munirsi di casella di posta elettronica certificata, iscrivere il relativo indirizzo nel registro imprese e mantenere la casella attiva nel tempo.
L'ufficio del Registro imprese, da parte sua, è tenuto a verificare, con modalità automatizzate, se siano attive le caselle di posta elettronica certificata relative agli indirizzi iscritti nel registro. In caso negativo, l'ufficio camerale, deve invitare le imprese interessate a presentare la domanda di iscrizione di un nuovo indirizzo di posta elettronica certificata.
L'iscrizione al Registro imprese dell'indirizzo di posta elettronica certificata di un'impresa è legittimamente effettuata solo se l'indirizzo Pec è nella titolarità esclusiva della medesima impresa; questo costituisce il requisito indispensabile per garantire la validità delle comunicazioni e delle notificazioni effettuate con modalità telematiche.
Prima di procedere all'iscrizione di un indirizzo Pec, la Cdc dovrà verificare, tramite consultazione elenchi (di cui all'art. 16-ter del dl n. 179/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221/2012), che l'indirizzo Pec non risulti già assegnato ad altra impresa. In questo caso, dovrà invitare il richiedente ad indicare un nuovo indirizzo Pec, pena il rigetto della domanda d'iscrizione (articolo ItaliaOggi del 25.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIARifiuti organici, gestione collettiva del compostaggio.
Forte spinta verso l'uso del compostaggio dei rifiuti organici di comunità, modalità innovativa di gestione dei rifiuti urbani biodegradabili. La gestione comunitaria del rifiuto organico (frutta e verdura, scarti di cibo, fondi di caffè, etc), permetterà di introdurre un percorso «eco-innovativo» aggiuntivo nel sistema.

È con decreto del 26.12.2016 n. 266 (pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24.02.2017) che il ministero dell'ambiente semplifica le procedure autorizzative.
L'attività di compostaggio di comunità viene intrapresa dall'organismo collettivo, previo invio di una segnalazione certificata di inizio attività al comune territorialmente competente, che ne darà comunicazione all'azienda affidataria del servizio di gestione dei rifiuti urbani. La Scia, firmata dal responsabile, sarà inviata, tramite raccomandata con avviso di ricevimento. Contiene il regolamento sull'organizzazione dell'attività di compostaggio, adottato dall'organismo collettivo, vincolante per le utenze conferenti. I contenuti minimi del regolamento sono indicati nell'allegato 2 del decreto in Gazzetta.
Per la riduzione della tassa rifiuti e dell'eventuale computo del compostaggio di comunità nella percentuale di raccolta differenziata da parte dei comuni, il responsabile dell'apparecchiatura dovrà comunicare entro il 31 gennaio di ogni anno, al comune territorialmente competente, nelle modalità definite dallo stesso comune, le quantità in peso, relative all'anno solare precedente: dei rifiuti conferiti, del compost prodotto, degli scarti e del compost che non rispetta le specifiche caratteristiche richieste (articolo ItaliaOggi del 25.02.2017).

APPALTIAppalti, qualificazione imprese sugli ultimi dieci anni di attività. Lavori pubblici. Primo ok «salvo intese» al decreto che corregge il nuovo Codice - Gentiloni: contributo alla ripresa.
Primo ostacolo superato «salvo intese» per il correttivo della riforma appalti. Il Consiglio dei ministri ha dato l’ok preliminare al provvedimento (Atto del Governo n. 397 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) incaricato di correggere le criticità rilevate in questi primi dieci mesi di applicazione del Dlgs 50/2016.
L’obiettivo, come ha ricordato il premier Paolo Gentiloni al termine della riunione del Governo, è «dare un contributo alla ripresa degli appalti e dei lavori pubblici di cui molto abbiamo bisogno».
Nei prossimi giorni, per il correttivo già sottoposto a una fase consultazione, comincerà la fase di raccolta dei pareri istituzionali. L’iter della legge delega prevede un passaggio al Consiglio di Stato e alla Conferenza unificata (pareri in 20 giorni) oltre alle Commissioni parlamentari che dovranno esprimersi in 30 giorni. Al termine, il secondo esame in Consiglio dei ministri. Il tutto deve concludersi entro il 19 aprile: pena la decadenza della delega.
La bozza esaminata ieri dal Governo è stata approvata «salvo intese». Formula di rito che indica che esistono dei punti da limare. Bisogna, infatti, tenere conto che il provvedimento dovrà essere arricchito con i risultati della consultazione sulla prima versione del decreto aperta da Palazzo Chigi venerdì 17 febbraio e chiusa nella notte di mercoledì 22. Dal mercato sono arrivate centinaia di osservazioni. Ora devono essere valutate e selezionate. Elemento che sposta inevitabilmente in avanti di qualche giorno il momento in cui il provvedimento assumerà la sua veste finale per cominciare il giro dei pareri.
Nel merito, il decreto apporta circa 245 correzioni al nuovo codice, tentando di dare una risposta organica alle difficoltà segnalate da imprese e operatori. Per rispondere alla crisi del settore il decreto recupera innanzitutto le agevolazioni che fino al 2015 hanno permesso alle imprese edili di qualificarsi prendendo in considerazione gli ultimi dieci anni di attività. Periodo che il nuovo codice invece dimezzava a cinque. E vengono fatti salvi i direttori tecnici che hanno maturato i requisiti sul campo. Sulla base di una richiesta dell’Autorità Anticorruzione il rating destinato a valutare la “reputazione” dei costruttori non sarà più obbligatorio, ma rilasciato a richiesta delle imprese. Mentre le stazioni appaltanti potranno usarlo per assegnare punteggi bonus in gara.
Il decreto interviene poi sulla rigida separazione tra progetto e lavori (appalto integrato) tentando di inserire elementi di flessibilità. Di sicuro, come ha confermato in una recente audizione il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, verrà riaperta una finestra per le amministrazioni che avevano già pronto un progetto preliminare o definitivo al momento di entrata in vigore della riforma. In questi casi si potrà andare in gara senza arrivare al dettaglio esecutivo. Ok al progetto definitivo anche per gli interventi di semplice manutenzione.
Semplificazioni anche per i subappalti. L’obbligo di indicare una terna di nomi con l’offerta diventerà una facoltà da indicare nei bandi. Mentre il tetto del 30% ai subaffidamenti sarà calcolato sui lavori prevalenti e non sull’intero importo del contratto. Negli appalti superiori al milione almeno il presidente di commissione dovrà essere esterno alla Pa e scelto dall’albo Anac
(articolo Il Sole 24 Ore del 24.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

APPALTIManutenzione con meno carte. Una progettazione semplificata per i lavori più leggeri. Il consiglio dei ministri ha approvato in via preliminare il correttivo del Codice contratti.
Una progettazione semplificata per i lavori di manutenzione, ad esclusione degli interventi di manutenzione che prevedono il rinnovo o la sostituzione di parti strutturali delle opere. Si allenta il divieto di appaltare i lavori sulla base di progetti diversi da quello esecutivo: una apertura è prevista per i progetti preliminari e definitivi approvati dalle stazioni appaltanti prima del 19.04.2016 (quando entrò in vigore il decreto 50/2016 - Codice dei contratti pubblici). Così come si potrà prescindere dall'avvenuta redazione del progetto esecutivo per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili per l'amministrazione aggiudicatrice e ad essa non imputabili.

È stato approvato ieri in via preliminare dal consiglio dei ministri lo schema del primo decreto correttivo del codice dei contratti pubblici (Atto del Governo n. 397 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 18.04.2016, n. 50) che dovrà essere portato a termine entro il 19 aprile e sul quale si è svolta nei giorni scorsi (dalle 20 di venerdì 17 alle 24 di mercoledì 22 febbraio) la consultazione pubblica dei rappresenti degli operatori economici.
Il testo, che con tutta probabilità non differirà molto da quello sottoposto alla consultazione, sarà adesso trasmesso agli organi che per legge devono rendere i pareri. In base alla legge delega 11/2016 deve essere inviato quindi alla Conferenza unificata, al Consiglio di stato e alle Commissioni parlamentari competenti per materia (ambiente e lavori pubblici rispettivamente di Camera e Senato).
Alla Conferenza unificata e al Consiglio di stato vengono dati 20 giorni per varare il parere, al Parlamento 30 giorni. Il tutto entro la scadenza del 18 aprile. Complessivamente il lavoro non è affatto semplice come è risultato chiaro anche dal dibattito parlamentare svoltosi la scorsa settimana presso le commissioni riunite quando il ministro delle infrastrutture Graziano Delrio ha annunciato le principali novità del testo che, anche nel documento messo in consultazione pubblica sono state confermate. Una notevole apertura riguarda la possibilità di appaltare i lavori con il solo progetto definitivo in caso di netta prevalenza dell'elemento tecnologico o innovativo.
Viene definita una soglia minima superata la quale è possibile procedere all'affidamento a contraente generale (almeno 150 milioni) e si toccano materie molto delicate come il subappalto, che sembrerebbe «facoltativo» cioè spetterebbe alle stazioni appaltanti decidere per ogni gara se ammetterlo o vietarlo; una disposizione molto controversa sulla quale il settore delle imprese è particolarmente critico. In generale, sulla disciplina del subappalto si è discusso e si discuterà ancora anche per quanto riguarda la proposta, contenuta nel documento posto in consultazione pubblica, di tornare al limite del 30% sulla sola categoria prevalente è stato previsto perché, ha affermato Delrio una settimana fa, «c'è una sentenza della Corte europea».
Per i servizi tecnici ormai sembrano consolidate le disposizioni che rendono vincolante il cosiddetto «decreto parametri» che definisce la base di gara per gli affidamenti di ingegneria e architettura e quelle che impediscono di subordinare il pagamento dei corrispettivi all'ottenimento del finanziamento dell'opera e, infine, quelle che vietano il pagamento dei corrispettivi con forme di sponsorizzazioni o con rimborsi di qualsiasi natura.
Sul rating di impresa il Governo aveva già scelto di renderlo facoltativo e di rivedere l'attuale esclusivo collegamento del rating di impresa alla qualificazione, in luogo di un suo inserimento tra gli elementi di valutazione dell'offerta qualitativa. È stato portato al 49% il tetto del contributo pubblico nelle operazioni di finanza di progetto e per la qualificazione delle imprese si è portato a dieci anni l'arco temporale di considerazione dei requisiti e da tre a cinque anni il periodo per valutare la cifra d'affari in lavori quando si tratti di appalti oltre i 20 milioni.
Per i requisiti di ammissione alla gara si specifica che in caso di consorzi e raggruppamenti temporanei si possa indicare le percentuali di possesso in capo ai consorziati o ai raggruppati, con la precisazione che la mandataria in ogni caso deve possedere i requisiti ed eseguire le prestazioni in misura maggioritaria. Eliminato il soccorso istruttorio a pagamento in ragione della causa pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia per contrasto con i principi di concorrenza previsti dal Trattato europeo (articolo ItaliaOggi del 25.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

ENTI LOCALIPiù tempo alle partecipate. Fino al 31 luglio si possono adeguare gli statuti. Il decreto correttivo del dlgs 175/2016 approvato dal Consiglio dei ministri.
Tempo fino al 31/07/2017 per adeguare gli statuti delle società partecipate alle previsioni del dlgs 175/2016. I cda potranno rimanere a 3 o 5 membri con semplice delibera motivata dell'assemblea ordinaria trasmessa alla Corte dei conti. In merito al decreto del Ministero dell'economia e della finanza (Mef) che doveva imporre un limite ai compensi massimi di amministratori e manager delle società controllate, esso dovrà essere adottato previa intesa con la Conferenza Unificata.
Sono alcune delle principali modifiche che potrebbero essere apportate al dlgs 175/2016 dallo «Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19.08.2016 n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica» approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri, ma che ora dovrà ripercorrere il previsto iter legislativo (Atto del Governo n. 404 - Schema di decreto legislativo recante disposizioni integrative e correttive al testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, di cui al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175) (si veda ItaliaOggi dello scorso 18 febbraio, pag. 32).
Il decreto correttivo sarà emanato sulla base della delega contenuta nell'art. 16, c. 7, della legge n. 124/2015, il quale prevede che entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore dei decreti il governo possa adottare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni integrative e correttive.
Proroga dei termini per gli adeguamenti statutari. Nelle società a controllo pubblico l'attuale art. 26, comma 1 del dlgs 175/2016 prevede che le società vigenti alla data di entrata in vigore del decreto (23/09/2016 ndr) adeguino i propri statuti alle previsioni del dlgs 175.
Tali modifiche riguardano, soprattutto le disposizioni di cui all'art. 11, c. 9 (delegabilità della gestione della società ad un solo amministratore, l'esclusione della carica di vicepresidente, salvo la gratuità della funzione, il divieto di corrispondere gettoni di presenza o premi di risultato deliberati dopo lo svolgimento dell'attività, il divieto di corrispondere tfm ai componenti degli organi sociali, il divieto di istituire organi diversi da quelli previsti dalle norme generali in tema di società).
Nella pratica sembra che anche in virtù dell'incertezza normativa determinata dalla sentenza della Corte costituzionale 25/11/2016 n. 251, che ha posto il decreto in commento a rischio di incostituzionalità, tali adeguamenti sono stati effettuati entro il termine previsto del 31/12/2016 da pochissime società, con il rischio per gli amministratori che non avessero provveduto a convocare l'assemblea straordinaria, di essere assoggettati alle sanzioni di cui all'art. 2631 c.c. (si veda ItaliaOggi del 6 gennaio). Tale rischio dovrebbe essere scongiurato dalla prevista proroga dei termini di adeguamento statutario al 31/07/2017.
Torna il cda. Le attuali disposizioni dell'art. 11, c. 3, del dlgs 175 prevedono che con apposito dcpm, su proposta del Mef, entro il mese di marzo, fossero definiti i criteri in base ai quali, per specifiche ragioni di adeguatezza amministrativa (presumibilmente nelle società grandi e complesse) l'assemblea possa deliberare che il cda sia costituito da 3 o 5 membri. Al di fuori di tali situazioni la società avrebbe dovuto provvedere alla nomina di un amministratore unico.
Ora pur permanendo nel comma 2 dell'art. 11, la norma base che vuole, in dette società, la nomina di un amministratore unico, viene cancellata la previsione secondo la quale, con dcpm si sarebbero dovute determinare le specifiche situazioni in cui si sarebbe potuto nominare il cda, il che, di fatto, avrebbe imposto l'amministratore monocratico in tutte le altre situazioni non espressamente previste.
Con l'emendamento all'art. 11, si dispone di contro che «L'assemblea della società a controllo pubblico con delibera motivata con riguardo a specifiche ragioni di adeguatezza organizzativa e tenendo conto delle esigenze di contenimento dei costi, può disporre che la società sia amministrata da un consiglio di amministrazione composto da tre o cinque membri... la delibera è trasmessa alla sezione della Corte dei Conti competente...».
In altri termini, mentre le attuali disposizioni prevedono situazioni oggettive in cui si potrebbe derogare dall'organo amministrativo monocratico, il testo modificato lascerebbe la decisione all'assemblea che dovrà giustificare l'organo collegiale e inviare alla corte dei conti la motivata delibera di nomina, con, si ritiene, i previsti emolumenti.
Tetto ai manager. Viene chiarito che il decreto Mef con il quale saranno definiti indicatori dimensionali quantitativi e qualitativi, al fine di individuare fino a cinque fasce per la classificazione delle società a controllo pubblico e i criteri di determinazione della remunerazione degli amministratori di tali società (nonché ai dirigenti e ai dipendenti), mediante la previsione di limiti massimi di remunerazione proporzionati alla dimensione dell'impresa, verrà adottato, nel caso di società controllate dalla regione o da enti locali, previa intesa con la Conferenza unificata, ai sensi dell'art. 8, c. 6, della legge n. 131/2003. Fino ad allora restano in vigore i limiti vigenti (articolo ItaliaOggi del 25.02.2017).

EDILIZIA PRIVATAFascicolo del fabbricato, professionisti senza delega.
La semplificazione della p.a. attraverso la delega ai professionisti di compiti e funzioni pubbliche non passerà attraverso il fascicolo di fabbricato.

La commissione lavoro della camera ha infatti approvato un emendamento all'articolo 5 del ddl lavoro autonomo (Atto Camera n. 4135 - Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l'articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato) che modifica la norma introdotta al Senato con l'obiettivo di alleggerire l'attività delle amministrazioni pubbliche e ridurre i tempi di produzione riconoscendo un ruolo di sussidiarietà alle professioni ordinistiche.
L'articolo 5 così come approvato dal senato delega infatti il governo ad adottare, entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi attraverso i quali saranno individuati gli atti delle amministrazioni pubbliche che possono essere rimessi anche ai professionisti nonché il riconoscimento del ruolo sussidiario delle professioni, «demandando ai professionisti l'assolvimento di compiti e funzioni finalizzati alla deflazione del contenzioso giudiziario e a introdurre semplificazioni in materia di certificazione dell'adeguatezza dei fabbricati alle norme di sicurezza ed energetiche, anche attraverso l'istituzione del fascicolo del fabbricato».
La commissione lavoro di Montecitorio ha approvato gli articoli del ddl fino al 10, accantonando per il momento la norma contenuta nell'articolo 6, quella relativa all'attivazione di sistemi di welfare «integrativo» da parte delle Casse di previdenza dei liberi professionista. Casse che ieri hanno aspramente criticato la decisione della Commissione di dichiarare inammissibile l'emendamento, presentato dall'On. Boccadutri, nel quale si chiedeva di porre fine a «una palese disparità di trattamento tra gli orfani dei lavoratori dipendenti e gli orfani dei liberi professionisti».
Nella Legge di Bilancio 2017, spiega una nota dell'Adepp, è prevista un'esclusione delle quote di pensione in favore dei superstiti, fino ad un limite di 1.000 euro, dal reddito imponibile ai fini Irpef per i lavoratori dipendenti, pubblici o privati, o per i lavoratori iscritti alla Gestione separata dell'Inps, senza far alcun riferimento agli iscritti presso gli altri Enti di previdenza obbligatoria di primo pilastro.
Questo significa, denunciano gli enti privati, «che chi ha perso un genitore libero professionista si troverà a pagare almeno 230 euro di tasse in più all'anno rispetto a chi ha avuto lo stesso lutto in casa, ma ha avuto la fortuna di essere figlio di un dipendente» (articolo ItaliaOggi del 25.02.2017).

EDILIZIA PRIVATAFascicolo del fabbricato, linea guida del Cnpi.
È pensabile acquistare un frigorifero senza il relativo libretto di uso e garanzia? No. Però si continuano a comprare le abitazioni senza sapere nulla di cosa c'è dentro, di quale sia lo stato degli impianti o di cosa sono fatti i muri.

Proprio a questa asimmetria informativa cerca di rispondere la nuova "Linee Guida 03 - 01.02.2017" «Il fascicolo del fabbricato. Per una cultura della prevenzione e della sicurezza integrata» realizzata dalla commissione Fascicolo del fabbricato istituita all'interno del Consiglio nazionale dei periti industriali.
Il documento punta quindi a sensibilizzare l'opinione pubblica sull'opportunità di dotarsi di uno strumento fondamentale per una corretta e programmata opera di prevenzione e di manutenzione, nel tempo, di tutti i fabbricati.
Il testo contiene una breve descrizione del Fascicolo del fabbricato, dei compiti a cui è chiamato ad assolvere, e del suo ruolo determinante ai fini della prevenzione e perciò della sicurezza (articolo ItaliaOggi del 25.02.2017).

ENTI LOCALI - PUBBLICO IMPIEGOIl lavoro nella p.a. cambia pelle. Congelati i fondi del salario accessorio, rafforzati i Ccnl. Il consiglio dei ministri ha approvato la maxi riforma Madia del pubblico impiego.
Ennesimo congelamento dei fondi contrattuali, rafforzamento della contrattazione collettiva e nuove regole per rientrare dagli sforamenti ai tetti del salario accessorio. Sono il piatto forte dell'ultima versione del decreto legislativo di riforma del dlgs 165/2001 (attuativo dell'articolo 17 della legge delega Madia) approvato ieri in via preliminare dal consiglio dei ministri.
Fondo contrattuale. Nonostante il ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia abbia polemizzato con l'ex titolare di palazzo Vidoni, Renato Brunetta, sul congelamento dei contratti, è proprio la bozza di riforma a confermare per l'ennesima volta il blocco dei fondi del salario accessorio.
Una delle disposizioni transitorie previste dal decreto vuole ottenere l'armonizzazione dei trattamenti economici accessori dei vari comparti. Allo scopo, nelle more del conseguimento di questo obiettivo, si prevede che dal 01.01.2017, l'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio del personale, anche di livello dirigenziale, delle p.a. non possa superare il corrispondente importo determinato per l'anno 2016.
È una norma «gemella» di quella contenuta nell'articolo 1, comma 236, della legge 208/2015, che a sua volta ha contenuti analoghi a quelli dell'articolo 9, comma 2-bis, del dl 78/2010, a conferma che le ricette in tema di personale sono sempre le stesse. Lo schema di riforma ha, tuttavia, il pregio di precisare che il nuovo tetto al salario accessorio, fissato nel 2016, vale anche per la dirigenza e decorre dall'01.01.2017, superando così i problemi interpretativi che pone l'articolo 1, comma 236, della legge 205/2016.
Forza normativa dei Ccnl. I Ccnl potranno derogare non solo le leggi che introducano in futuro previsioni concernenti il lavoro pubblico, ma anche quelle che nel passato abbiano già regolato le materie che la nuova formulazione dell'articolo 40, comma 1, del dlgs 165/2001 attribuirà alla ritrovata forza normativa dei contratti collettivi nazionali di lavoro.
La contrattazione collettiva, in particolare, potrà disciplinare integralmente il rapporto di lavoro, sia sul piano giuridico che economico, oltre alle relazioni sindacali. Tuttavia, il nuovo testo dell'articolo 40, comma 1, indica materie sulle quali i Ccnl non potranno intervenire: organizzazione degli uffici, partecipazione sindacale ai sensi dell'articolo 9 del dlgs 165/2001; prerogative dei dirigenti quali privati datori di lavoro (tra cui, in particolare, la «micro organizzazione» degli uffici e del personale loro assegnato; conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali, nonché quelle di cui all'articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23.10.1992, n. 421 (competenze degli organi, «macro organizzazione», concorsi, dotazioni organiche e incompatibilità dei dipendenti pubblici).
Vi saranno, poi, materie come sanzioni disciplinari, valutazione delle prestazioni ai fini della corresponsione del trattamento accessorio e mobilità, nelle quali la contrattazione collettiva sarà consentita con poteri di deroga affievoliti, perché la contrattazione dovrà rispettare i limiti previsti dalle norme di legge. Dunque, i contratti collettivi potranno in parte occuparsi della mobilità volontaria.
Sicuramente sarà di loro competenza disporre clausole che impediscono incrementi della consistenza complessiva delle risorse destinate ai trattamenti economici accessori, qualora i dati sulle assenze, a livello di amministrazione o di sede di contrattazione integrativa, rilevati a consuntivo, evidenzino scostamenti significativi sugli standard in particolare nei giorni agganciati a riposi e festività e in periodi di particolare picco di lavoro.
Ancora, i Ccnl stabiliranno le condotte e le corrispondenti sanzioni disciplinari per i casi di ripetute e ingiustificate assenze dal servizio in continuità con le giornate festive e di riposo settimanale, nonché con riferimento ai casi di ingiustificate assenze collettive in determinati periodi nei quali è necessario assicurare continuità nell'erogazione dei servizi all'utenza. Sempre i Ccnl dovranno occuparsi della razionalizzazione e della semplificazione delle regole riguardanti la costituzione e la destinazione dei fondi destinati alla contrattazione integrativa. Con la possibilità, oggettivamente piuttosto strana, di consolidare le risorse variabili, sia pure limitata alle sole amministrazioni in regola con i vincoli di contenimento della spesa.
Sforamento dei tetti del salario accessorio. La riforma interviene sul «salva Roma», il dl 16/2014. Viene modificato in parte l'articolo 4, comma 1, che consente di recuperare eventuali sforamenti ai tetti dei fondi per la contrattazione decentrata (articolo ItaliaOggi del 24.02.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).

GIURISPRUDENZA

URBANISTICA: Obbligo di provvedere sull’istanza di ritipizzazione di un’area e vincoli conformativi.
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Silenzio della P.A. – Obbligo di provvedere – Istanza di ritipizzazione di un’area – Non sussiste.
Urbanistica – Piano regolatore – Vincoli - Carattere conformativo – Individuazione.
Non è configurabile in capo al Comune un obbligo di provvedere sull’istanza del privato volta alla ritipizzazione di un’area, chiedendosi l’adozione di un atto a contenuto generale, la cui adozione rientra nella discrezionalità dell’Amministrazione (1).
Il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, per natura e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare tale carattere ove gli stessi vincoli siano inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con un'opera pubblica; di contro, il vincolo, se incide su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione (2).
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   (1) Ha ricordato il Tar che l’istituto sotteso alla domanda azionata non può trovare applicazione allorquando si sia in presenza di atti a contenuto generale rimessi alla scelta discrezionale dell'Amministrazione e rispetto alla quale non sia configurabile un interesse qualificato del privato tale da poter rivendicare l'esistenza di un obbligo per l'Ente di procedere all'adozione di atti a contenuto pianificatorio (Cons. St., sez. IV, 11.12.2014, n. 6081).
   (2) Ha chiarito il Tar che i vincoli di destinazione urbanistica sono soggetti a decadenza solo se sono preordinati all'espropriazione o comportano l’identificazione e dunque se svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, diminuendone in modo significativo il valore di scambio; di conseguenza, la destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale (Cons. St., sez. IV, 08.09.2015, n. 4155) (TAR Toscana, Sez. I, sentenza 31.03.2017 n. 499 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
5.1. In ogni caso, oltre ad avere ragionevolmente motivato il proprio diniego a provvedere in ragione dell’imminente approvazione del nuovo atto di pianificazione generale del territorio (POC) all’interno del quale anche attraverso lo strumento partecipativo delle osservazioni l’interessata potrà far valere le sue ragioni, il Comune nelle sue difese nega che sussista il presupposto per l’invocata riqualificazione giuridica dell’area di proprietà della ricorrente.
E ciò in quanto, contrariamente a quanto sostenuto con il ricorso, il vincolo che la ricorrente assume essere di natura espropriativa, non sarebbe affatto scaduto, trattandosi, invece, di un vincolo di carattere conformativo.
La tesi merita adesione.
Secondo la ricorrente il vincolo a servizi esistente sull’area per effetto del RU del 2005 avrebbe cessato di essere efficace per effetto del decorso del quinquennio ai sensi dell’art. 55, co. 5, l.reg. n. 1/2005 secondo cui “Le previsioni di cui al comma 4 ed i conseguenti vincoli preordinati alla espropriazione sono dimensionati sulla base del quadro previsionale strategico per i cinque anni successivi alla loro approvazione; perdono efficacia nel caso in cui, alla scadenza del quinquennio dall'approvazione del regolamento o dalla modifica che li contempla, non siano stati approvati i conseguenti piani attuativi o progetti esecutivi”.
L’affermazione non può essere seguita.
Costituisce principio consolidato l’assunto per cui
il carattere conformativo dei vincoli non dipende dalla collocazione in una specifica categoria di strumenti urbanistici, ma soltanto dai requisiti oggettivi, per natura e struttura, dei vincoli stessi, ricorrendo in particolare tale carattere ove gli stessi vincoli siano inquadrabili nella zonizzazione dell'intero territorio comunale o di parte di esso, sì da incidere su di una generalità di beni, nei confronti di una pluralità indifferenziata di soggetti, in funzione della destinazione dell'intera zona in cui i beni ricadono e in ragione delle sue caratteristiche intrinseche o del rapporto, per lo più spaziale, con un'opera pubblica; di contro, il vincolo, se incide su beni determinati, in funzione non già di una generale destinazione di zona, ma della localizzazione di un'opera pubblica, la cui realizzazione non può coesistere con la proprietà privata, deve essere qualificato come preordinato alla relativa espropriazione (Cons. Stato, sez. IV, 24.08.2016 n. 3684; id., sez. IV, 30.07.2012, n. 4321).
Si è in tal senso precisato che
i vincoli di destinazione urbanistica sono soggetti a decadenza solo se sono preordinati all'espropriazione o comportano l’identificazione e dunque se svuotano il contenuto del diritto di proprietà incidendo sul godimento del bene, tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua destinazione naturale, diminuendone in modo significativo il valore di scambio; di conseguenza la destinazione ad attrezzature ricreative, sportive e a verde pubblico, data dal piano regolatore ad aree di proprietà privata, non comporta l'imposizione sulle stesse di un vincolo espropriativo, ma solo di un vincolo conformativo, che è funzionale all'interesse pubblico generale conseguente alla zonizzazione, effettuata dallo strumento urbanistico, che definisce i caratteri generali dell'edificabilità in ciascuna delle zone in cui è suddiviso il territorio comunale (Cons. St., sez. IV, 09.12.2015, n. 558; Id., 08.09.2015, n. 4155).
Ne consegue che
la destinazione impressa alla proprietà della ricorrente (attrezzature pubbliche e di quartiere) non può essere ritenuta di natura espropriativa, con la conseguenza che non era configurabile alcun obbligo per il Comune di provvedere a rimodulare ex novo tale destinazione per sua natura di durata indeterminata (TAR Toscana, sez. III, 07.01.2015 n. 7).

APPALTI SERVIZI: Iscrizione ad albi per l’affidamento di appalti servizi, sottoscrizione dell’offerta e termine per chiudere il procedimento di gara.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Appalto servizi – Iscrizione abilitativa – Non è condizione per la partecipazione alla gara ma per l’esecuzione dell’appalto.
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Sottoscrizione – Omessa sottoscrizione di un socio amministratore della società – Conseguenza.
Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Termine di vincolatività dell’offerta - Art. 11, comma 6, d.lgs. n. 163 del 2006 – Non è termine per concludere il procedimento di gara.
In sede di appalto servizi, in presenza di norme di settore che prevedono una specifica idoneità per l'esecuzione di determinate prestazioni richieste dall'appalto, quale ad esempio l'iscrizione ad albi o registri, la richiesta del relativo possesso rileva esclusivamente come requisito da dimostrare in fase di esecuzione e non come condizione per la partecipazione alla gara.
Qualora lo Statuto della società concorrente ad una gara pubblica preveda che l’offerta deve essere firmata da entrambi i soci amministratori, la firma di uno solo di questi concretizza una incompleta sottoscrizione dell’offerta e dei relativi allegati, originando una non corretta spendita del potere, in una sorta di fattispecie a formazione progressiva che avrebbe dovuto concludersi con la firma dell’altro socio amministratore e che invece si è interrotta con la sottoscrizione apposta da uno solo dei due (1).
Il termine di 180 giorni entro il quale, ai sensi dell’art. 11, comma 6, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 l'offerta è vincolante non costituisce una scadenza entro cui il procedimento di aggiudicazione deve concludersi, ma indica un lasso di tempo entro il quale l’offerta si presume conservi la propria remuneratività e trascorso il quale l’interessato può scegliere di liberarsi dal vincolo per il solo effetto del venire meno di tale presunzione (2).
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   (1) Tale situazione, ad avviso del Tar, non è assimilabile alla mancanza della sottoscrizione, o alla sottoscrizione di un soggetto privo di procura, costituendo invece un caso di mancato perfezionamento di una fattispecie a formazione progressiva o di incompleta sottoscrizione che non preclude la riconoscibilità della provenienza dell’offerta e non comporta un’incertezza assoluta sulla stessa (ai fini di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. 12.04.2006, n. 163), il che induce a ritenere il vizio sanabile mediante il soccorso istruttorio e non idoneo a cagionare l’immediata ed automatica estromissione dalla procedura selettiva (Cons. St., sez. V, 10.09.2014, n. 4595; Tar Lazio, sez. I, 16.06.2016, n. 6923).
   (2) Ha chiarito il Tar che la ratio dell’art. 11, comma 6, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 è di mantenere ferma l’offerta per tutto il periodo di presumibile durata della gara; il citato art. 11 fissa un limite temporale posto non nell’interesse dell’Amministrazione ma dell’impresa offerente, con la conseguenza che, una volta scaduto il termine di efficacia posto dal bando o dalla legge, le offerte non possono automaticamente considerarsi inefficaci, in assenza di una univoca manifestazione di volontà in tal senso da parte degli interessati.
La non perentorietà del termine di cui all’art. 11 del Codice dei contratti pubblici discende dall’assenza di comminatorie di preclusioni o decadenze a carico dell’Amministrazione per il suo eventuale superamento, dopo il quale permane la potestà di chiedere ai concorrenti il differimento dell’impegno; d’altro canto, l’accoglimento della richiesta è rimesso alla libera volontà dell’offerente.
La legge prevede in capo a quest’ultimo il diritto potestativo di svincolarsi dall’offerta quando sia decorso un certo periodo di tempo dalla celebrazione della gara, così garantendo la conservazione della remuneratività dell’offerta fino al momento dell’aggiudicazione. Il concorrente può pertanto validamente svincolarsi dalla propria offerta, senza soggiacere ad un onere di motivazione o ad un termine per l’esercizio di tale diritto (
TAR Toscana, Sez. I, sentenza 31.03.2017 n. 496 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Il Consiglio di Stato ha reso il parere sul decreto correttivo del nuovo codice dei contratti pubblici.
Lo schema di correttivo modifica 119 dei 220 articoli del codice e interviene dopo solo un anno; mentre il codice non è stato ancora completato con tutti gli atti attuativi previsti, pari a 53 (ad oggi, ne sono stati varati 11 espressamente previsti dal codice, e 4 non espressamente previsti, e sono in corso di adozione altri 9 atti attuativi).
Il Consiglio di Stato, oltre a rendere il parere sull’originario schema di codice, ha reso sinora, altri 16 pareri sui vari atti attuativi.
Il parere individua anzitutto i limiti formali e sostanziali del potere correttivo:
   a) il mancato recepimento di una parte della delega entro il termine di scadenza consuma definitivamente il relativo potere, e tale mancato esercizio non può essere recuperato in sede di adozione di decreti correttivi;
   b) con il correttivo sono consentite “integrazioni e correzioni” (anche rilevanti), a seguito di un periodo di “sperimentazione applicativa”;
   c) lo strumento del correttivo non può costituire una sorta di ‘nuova riforma’, pur rispettosa della delega originaria, che modifichi le scelte di fondo operate in sede di primo esercizio della delega, attuando un’opzione di intervento radicalmente diversa da quella del decreto legislativo oggetto di correzione.
Gli interventi correttivi ed integrativi richiesti dal decreto legislativo n. 50 del 2016 possono essere classificati in quattro categorie principali.
   a) eliminazione di refusi ed errori materiali;
   b) coordinamento “esterno” del codice appalti con altri ambiti normativi, e implementazione delle abrogazioni espresse di fonti normative non più attuali;
   c) eliminazione di errori formali e sostanziali di recepimento delle direttive europee e di attuazione della legge delega;
   d) rimedio a difficoltà insorte nella prima applicazione dei nuovi istituti, come emerso dalle audizioni, dal dibattito dottrinale e dalla prima giurisprudenza.
L’ultimo obiettivo non può essere pienamente centrato dallo schema di correttivo del codice appalti in esame.
Infatti, non essendo stato completato il quadro degli atti attuativi, una buona parte del codice non ha ancora avuto pratica applicazione, e non è stato possibile cogliere a pieno le criticità applicative da correggere.
Questo limite si coglie nella scheda VIR (verifica di impatto della regolazione) che appare spesso lacunosa perché non analizza le criticità applicative sulla base di un lasso temporale e dati statistici sufficienti.
L’obiettivo non viene centrato anche perché il correttivo interviene dopo un periodo troppo breve di applicazione delle nuove regole: le leggi possono essere corrette solo dopo un congruo periodo di applicazione, che deve essere almeno di due anni.
Il Consiglio di Stato auspica –si legge nel parere– che il Parlamento possa portare a due anni il termine, ora annuale, per le correzioni del codice.
Allo stato, essendo previsto un unico decreto correttivo, esso è anche l’occasione unica per apportare tutte le modifiche necessarie per la migliore riuscita della riforma.
Il Consiglio di Stato auspica poi che la legislazione sugli appalti pubblici abbia maggiore stabilità e non venga di continuo modificata, come la precedente (cambiata oltre 50 volte), perché il settore ha bisogno di regole chiare e certe.
Società in house
Si auspica un migliore coordinamento tra il codice dei contratti pubblici e il testo unico sulle società pubbliche.
Progetti e progettisti
Deve esservi un coordinamento, rimesso al livello politico, tra i prezziari regionali per i lavori pubblici e i prezzi standard determinati dall’ANAC.
Deve esservi maggiore chiarezza sul criterio di scomputo dei costi della manodopera dal costo dell’appalto soggetto a ribasso d’asta.
Vanno valorizzate le professionalità interne alle pubbliche amministrazioni, fissando la priorità della progettazione interna rispetto a quella esterna, già prevista dal codice del 2006.
Va riconsiderata l’introduzione dell’obbligo, per i progettisti dipendenti pubblici, di iscrizione all’Ordine professionale, in assenza di una riflessione più ampia di carattere ordinamentale, sulla legge professionale.
Non può imporsi in modo cogente alle stazioni appaltanti l’utilizzo degli onorari professionali approvati con decreto ministeriale.
Contratti sotto soglia
Un numero minimo troppo alto di imprese da invitare rischia di vanificare le esigenze di semplificazione.
In nome della celerità e semplificazione non può essere sacrificata la necessità di un rigoroso controllo sull’assenza di condanne penali e interdittive antimafia per l’affidatario di contratti sotto soglia.
Qualificazione delle stazioni appaltanti
I casi di stazioni appaltanti qualificate ex lege sono tassativi e non vanno ampliati.
Anche le articolazioni territoriali di una stazione appaltante qualificata devono avere un’organizzazione proporzionata e dedicata, per poter gestire gare di appalto.
Qualificazione degli operatori economici
La qualificazione deve essere affidata ad un vero e proprio regolamento e non a linee guida.
La qualificazione non deve essere cartolare ma effettiva: può essere attribuita per prestazioni effettivamente eseguite, in un arco temporale ragionevole.
Nei consorzi, e in caso di subappalto, occorre evitare di attribuire la qualificazione per prestazioni non eseguite in proprio.
Appare irragionevole attribuire la qualificazione per esperienze pregresse molto remote nel tempo, salva la possibilità di una disciplina transitoria per esigenze congiunturali.
Il rating di impresa va meglio coordinato con quello di legalità, anche in relazione alla funzione premiale di entrambi.
La gratuità del soccorso istruttorio, voluta dalla legge delega, non esclude la possibilità che sia addossato al concorrente il costo del servizio, anche in funzione di deterrenza di condotte negligenti.
Appalti misti di progettazione ed esecuzione
Alcune delle nuove ipotesi di appalto misto di progettazione ed esecuzione, sebbene in astratto consentite dalle direttive europee, non sembrano trovare piena rispondenza nella legge delega.
Commissari di gara esterni
Una commissione di gara esterna non è necessaria quando il criterio di aggiudicazione è quello del prezzo più basso.
Non è condivisibile l’articolazione regionale dell’albo dei commissari di gara, perché non assicura gli obiettivi della riforma (commissari non radicati nel territorio in funzione di prevenzione della corruzione).
Garanzie
E’ corretto prevedere esoneri e riduzioni delle garanzie per contratti sotto i 40.000 euro per agevolare le piccole e medie imprese, ma va stabilito se il beneficio è cumulabile o no con altri in tema di garanzie.
E’ corretto ripristinare il vincolo di solidarietà tra garanti e l’escussione della garanzia anche in caso di fatto meramente colposo dell’aggiudicatario.
Aggiudicazione al prezzo più basso e offerte anomale
Fermo il rispetto della delega che privilegia l’aggiudicazione secondo criteri qualitativi rispetto all’aggiudicazione al prezzo più basso, quest’ultima non può prescindere da un corretto progetto esecutivo.
Consentire, in nome dell’urgenza, l’appalto integrato in combinato disposto con il prezzo più basso, potrebbe tradire gli obiettivi della riforma degli appalti, quanto a qualità delle prestazioni e divieto di varianti.
Il sorteggio del criterio di determinazione della soglia di anomalia è utile a fugare il rischio di collusioni nelle gare aggiudicate al prezzo più basso.
Il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, a sua volta, richiede stazioni appaltanti qualificate, e può presentare il rischio di un’eccessiva discrezionalità non facilmente controllabile.
Non va elevata la soglia di individuazione delle offerte anomale.
Non vanno introdotti automatismi eccessivi nell’esclusione delle offerte anomale, in ogni caso preclusi per gli appalti di interesse transfrontaliero.
Subappalto
Considerate le specificità del contesto nazionale, è preferibile non rimuovere gli attuali limiti al subappalto, nonostante le direttive in astratto lo consentano.
I casi di terna obbligatoria dei subappaltatori devono essere stabiliti dal codice e non rimessi totalmente alle stazioni appaltanti.
Vanno fissati senza automatismi assoluti i casi in cui può essere vietato il subappalto in favore di un originario concorrente alla gara, demandando preferibilmente a linee guida dell’ANAC i criteri orientativi della discrezionalità delle stazioni appaltanti.
Vanno fissati limiti chiari all’utilizzo dei lavori subappaltati per la qualificazione dell’appaltatore.
Appalti nei servizi sociali
Va mantenuta la scelta proconcorrenziale del codice che assoggetta gli appalti nei servizi sociali alle regole comuni, con poche deroghe, e non va ampliato il regime di sottrazione alla concorrenza.
Appalti della protezione civile
Gli appalti della protezione civile mediante affidamento diretto presuppongono una situazione di urgenza qualificata, subordinata a una declaratoria di emergenza, e non possono essere ammessi in situazioni fronteggiabili in via ordinaria, o in cui non vi sia una declaratoria dello stato di emergenza da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Concessioni e concessioni autostradali
Non può essere elevata dal 30% al 49% la percentuale del concorso pubblico al rischio del concessionario, né quella dei contratti di partenariato pubblico-privato (PPPC).
Non possono essere previste deroghe agli obblighi di esternalizzazione dei concessionari autostradali, per le manutenzioni ordinarie e gli affidamenti di importo inferiore a 150.000 euro, perché in contrasto con la legge delega.
Va rispettato anche nella sostanza il principio di delega che richiede il tempestivo avvio delle gare in relazione alle concessioni autostradali scadute o in scadenza e per l’effetto, entro il termine massimo assegnato, i bandi di gara vanno non solo predisposti, ma pubblicati.
Tutela giurisdizionale
Si assicuri la piena conoscibilità della motivazione e il pieno accesso agli atti di gara in tempo utile per la loro autonoma impugnazione giurisdizionale.
Il rito accelerato in materia di appalti necessita di ulteriore sperimentazione e applicazione prima di eventuali correzioni.
Abrogazioni
I principi di semplificazione, chiarezza e certezza delle regole impongono che sia incrementato l’elenco delle abrogazioni espresse e che vi sia un migliore coordinamento del codice con altre fonti normative (Consiglio di Stato, commissione speciale, parere 30.03.2017 n. 782 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

INCARICHI PROGETTUALI: Responsabilità per crollo edificio: esente il progettista rispettoso delle regole vigenti all'epoca
Cassazione: in caso di crollo di un edificio il progettista responsabile è penalmente imputabile solamente per il mancato rispetto delle norme tecniche vigenti al momento del suo intervento.
Oggetto del pronunciamento della Corte di Cassazione è il crollo di un edificio avvenuto il 01.07.2004. Il fabbricato era in origine costituito da un piano seminterrato e da un piano terreno rialzato, realizzati tra il 1961 e il 1962 ed aventi destinazione residenziale; successivamente furono realizzati in sopraelevazione due ulteriori piani; tra il 1964 e il 1965, venne effettuato l'ampliamento del piano terra, su denuncia per opere edilizie presentata da un geometra.
Tra i molteplici interventi eseguiti nel tempo sulla struttura, un sicuro antecedente causale del crollo è costituito dai lavori di ampliamento del piano terreno eseguiti a cura del geometra nel 1964, mentre non è emerso in modo chiaro un altrettanto sicuro rilievo causale delle opere realizzate, sempre a cura del suddetto geometra, in epoca successiva nel 1988.
Con la sentenza 27.03.2017 n. 15138, la IV Sez. penale della Corte di Cassazione ricorda che, posto che il geometra nel caso in esame si poneva come garante in rapporto a eventuali rischi derivanti dai lavori eseguiti nel 1964 per la stabilità dell'immobile, “la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione –da parte del garante medesimo– di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso”.
All'epoca della realizzazione dei lavori di ampliamento del piano terreno, largamente antecedenti l'emanazione del decreto ministeriale 20.11.1987, erano vigenti regole tecniche del tutto diverse in tema di carichi massimi, tali da rendere l'operato del geometra esente da censure in quanto rispettoso delle regole vigenti a quel tempo, qualificabili come norme cautelari.
Dunque, la Cassazione ha chiarito che in caso di crollo di un edificio il progettista responsabile è penalmente imputabile solamente per il mancato rispetto delle norme tecniche vigenti al momento del suo intervento (commento tratto da www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATA - LAVORI PUBBLICI: La V.i.a., in quanto finalizzata alla tutela preventiva dell'interesse pubblico, presenta profili particolarmente elevati di discrezionalità amministrativa, che sottraggono al sindacato giurisdizionale le scelte effettuate dall'amministrazione
Il principio di precauzione impone che quando sussistono incertezze riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute umana, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l'effettiva esistenza e la gravità di tali rischi.

Il giudizio di compatibilità ambientale, pur reso sulla base di oggettivi criteri di misurazione pienamente esposti al sindacato del giudice, è attraversato da profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa sul piano dell'apprezzamento degli interessi pubblici in rilievo e della loro ponderazione rispetto all'interesse dell'esecuzione dell'opera; apprezzamento che è sindacabile dal giudice amministrativo, nella pienezza della cognizione del fatto, soltanto in ipotesi di manifesta illogicità o travisamento dei fatti, nel caso in cui l'istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato e risulti perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all'Amministrazione.
In altri termini, non può disconoscersi che le valutazioni tecniche complesse rese in sede di V.i.a. sono censurabili per macroscopici vizi di irrazionalità proprio in considerazione del fatto che le scelte dell'amministrazione, che devono essere fondate su criteri di misurazione oggettivi e su argomentazioni logiche, non si traducono in un mero a meccanico giudizio tecnico, in quanto la valutazione d'impatto ambientale, in quanto finalizzata alla tutela preventiva dell'interesse pubblico, presenta profili particolarmente elevati di discrezionalità amministrativa, che sottraggono al sindacato giurisdizionale le scelte effettuate dall'amministrazione che non siano manifestamente illogiche e incongrue.
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Legittimamente due opere distinte, anche se tra loro connesse, sono sottoposte a v.i.a. autonoma; la ratio della giurisprudenza che pretende in determinati casi una V.i.a. unica riposa soltanto sulla esigenza di evitare artificiosi frazionamenti dell'opera volti a sottrarre quest'ultima dall'esame ambientale.
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Il c.d. "principio di precauzione", di derivazione comunitaria, impone che "quando sussistono incertezze riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l'effettiva esistenza e la gravità di tali rischi: il principio di precauzione, infatti, lungi dal vietare l'adozione di qualsiasi misura in mancanza di certezza scientifica quanto all'esistenza o alla portata di un rischio sanitario, può, all'opposto, giustificare l'adozione, da parte del legislatore dell'Unione, di misure di protezione quand'anche permangano in proposito incertezze scientifiche.".
L'obbligo giuridico di assicurare un "elevato livello di tutela ambientale" (con l'adozione delle migliori tecnologie disponibili) in applicazione del richiamato principio di precauzione ha trovato ampio riconoscimento, ancorché sia menzionato nel Trattato soltanto in relazione alla politica ambientale, da parte degli organi comunitari anche nel settore della salute: qualora sussistano incertezze riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, le istituzioni comunitarie possono adottare misure di tutela senza dover attendere che siano approfonditamente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi.
Detto principio generale integra, quindi, un criterio orientativo generale e di larga massima che deve caratterizzare non soltanto le attività normative, ma prima ancora quelle amministrative, come prevede espressamente l'art. 1 della l. n. 241/1990, ove si stabilisce che "L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta ... dai principi dell'ordinamento comunitario". Pertanto, in coerenza con l'affermato principio, deve riconoscersi all'Amministrazione il potere di adottare ogni provvedimento ritenuto idoneo a prevenire rischi anche solo potenziali alla salute.
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Il terminale di ricezione del gasdotto dell'Adriatico non rientra tra le opere assoggettabili alla normativa "Seveso" di cui al d.Lgs. n. 334 del 1999 e pertanto non è necessario il previo rilascio del NOF (nulla osta di fattibilità) da parte del competente Comitato tecnico regionale (Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 27.03.2017 n. 1392 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ENTI LOCALI - VARI: La benedizione pasquale nelle scuole va fatta fuori l’orario delle lezioni.
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Religione - Religione cattolica – Benedizione pasquale - Nelle scuole - Va fatta fuori l’orario delle lezioni.
La “benedizione pasquale” nelle scuole deve essere effettuata fuori l'orario delle lezioni, non potendo in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale, e ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera (1).
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     (1) Ha chiarito il Consiglio di Stato che la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi. Il fine di tale rito è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano. Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.
Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove; e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento, non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.
Ha aggiunto la Sezione che non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.03.2017 n. 1388 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
Legittima la benedizione pasquale all'interno delle scuole.
E' legittima la deliberazione con cui il Consiglio di istituto dell’Istituto comprensivo ha disposto di concedere l’apertura dei locali scolastici per le benedizioni pasquali, richieste dai parroci del territorio, con le modalità ivi indicate: - la benedizione pasquale dovrà avvenire in orario extra scolastico; - gli alunni dovranno essere accompagnati dai familiari, o comunque da un adulto che se ne assume l’onere della sorveglianza.
La benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi.
Il fine di tale rito, per chi ne condivide l’intimo significato e ne accetta la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano.
Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.
Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove; e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento, non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.
Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale” nelle scuole non possa in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.
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Non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.
Ed ancora, c’è da chiedersi come sia possibile che un (minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie e le attività scolastiche, sia del tutto legittimo o tollerabile se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti ad attività “parascolastiche” diverse da quella di cui trattasi, ad esempio di natura culturale o sportiva, o anche semplicemente ricreativa, mentre si trasformi, invece, in un non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori dell’orario scolastico.
Va aggiunto che, per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un’attività, una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima.
Del resto, la stessa Costituzione, all’art. 20, nello stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…) per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività», pone un divieto di un trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali.
Ovviamente, la partecipazione ad una qualsiasi manifestazione o rito religiosi (sia nella scuola che in altre sedi) non può che essere facoltativa e libera, non potendo non godere, solo perché tale, di minori spazi di libertà e di minore rispetto di quelli che sono riconosciuti a manifestazioni di altro genere, nonché tollerante nei confronti di chi esprime sentimenti e fedi diverse, ovvero di chi non esprime o manifesta alcuna fede.

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Negli atti impugnati i parametri ora indicati sono tutti rigorosamente rispettati, essendo garantita la libertà di partecipare all’evento in orario non scolastico, senz’alcuna forma di contrapposizione con altri credo religiosi o con qualsivoglia diversa ideologia.
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Resta da verificare se i provvedimenti impugnati siano espressione di una determinata potestà, riconducibile ad una categoria rispondente al normale principio di tipicità degli atti amministrativi.
Al riguardo può richiamarsi l’art. 96, quarto comma, del D.Lgs. 16.04.1994, n. 297, secondo cui gli edifici scolastici possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile.
Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del servizio scolastico e previa delibera dell’organo competente, ai sensi del precedente art. 10 del D.Lgs. del 1994, n. 297 cit., ivi indicato nel Consiglio di Circolo o di Istituto.
Ed è appena il caso di ricordare che, nella prassi oggi invalsa, le competenze di tali organi scolastici sono intese in senso non certamente restrittivo, bensì estensivo o comunque elastico e flessibile, quanto alla tipologia ed alla natura delle attività “parascolastiche”, “extrascolastiche”, o comunque “complementari”, che gli stessi organi possono liberamente ed autonomamente programmare o autorizzare.
Del resto, il D.P.R. 08.03.1999, n. 275 (regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della L. 15.03.1997, n. 59), all’art. 4, relativo all’autonomia didattica, dispone: «Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali organi, ed ammettendo esplicitamente, con l’espressione «riconoscono e valorizzano le diversità», tutte quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione.

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... per la riforma della sentenza 09.02.2017 n. 166 del TAR Emilia Romagna-Bologna, resa tra le parti, che ha accolto il ricorso n. 155/2015 per l’annullamento:
della deliberazione n. 50/2015 in data 09.02. 2015, con cui il Consiglio di istituto dell’Istituto comprensivo n. 20 di Bologna ha disposto di concedere l’apertura dei locali scolastici di tutti e tre i plessi dell’I.C. 20 per le benedizioni pasquali richieste dai parroci del territorio, con le modalità ivi indicate: (la benedizione pasquale dovrà avvenire in orario extra scolastico; - gli alunni dovranno essere accompagnati dai familiari, o comunque da un adulto che se ne assume l’onere della sorveglianza);
nonché per l’annullamento della deliberazione n. 52/2015 in data 12.03.2015 (e relativo verbale) con cui il Consiglio di Istituto dell’Istituto comprensivo n. 20 di Bologna ha disposto di <<aprire i locali scolastici nelle date proposte (...)>>; della determinazione prot. n. 0001754 A/35 in data 11.03.2015 con cui il Dirigente scolastico ha disposto la <<concessione di un locale scolastico, ai parroci che ne hanno fatto specifica richiesta, Parrocchia SS. Trinità, S. Giuliano e S. Maria della Misericordia, per l’espletamento di attività di benedizione pasquale senza fini di lucro nelle giornate riportate in apposita convenzione nonché di tre convenzioni sottoscritte in data 13.03.2015 con i tre parroci richiedenti>> (impugnate con <<motivi aggiunti>> depositati il 19.05.2015).
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1. È opportuno premettere che i provvedimenti impugnati sono stati adottati a seguito di apposite istanze, la prima delle quali era stata la lettera 27.12.2014 di tre parroci rivolta al Dirigente scolastico e al Presidente del Consiglio di Istituto dell’Istituto comprensivo n. 20 di Bologna, in via ..., n. 3 (comprendente la scuola primaria Ca., la scuola primaria Fo. e la scuola secondaria di primo grado Ro. de’ Pa.), per chiedere il benestare a celebrare la benedizione pasquale per gli alunni della scuola al termine delle lezioni di uno dei giorni precedenti le vacanze pasquali, radunando gli alunni che volessero parteciparvi in un conveniente locale (salone o palestra).
L’istanza era stata accolta a maggioranza dal Consiglio d’Istituto (verbale del 09.01.2015), con alcune prescrizioni (le benedizioni sarebbero state limitate, all’interno delle scuole primarie, ad orario extra scolastico e alla sola presenza del personale docente, ATA ed amministrativo, senza la presenza dei bambini; all’interno delle scuole Ro., ad orario extra scolastico, alla libera presenza anche dei ragazzi che intendessero parteciparvi, sotto la sorveglianza del docente di religione).
Nella successiva seduta del 09.02.2015 era adottata deliberazione n. 50/2015 con la quale il consiglio d’Istituto deliberava a maggioranza, con 13 voti favorevoli, 1 astenuto e 2 contrari, di autorizzare l’apertura dei locali scolastici di tutti e tre i plessi dell’I.C. 20 per le benedizioni pasquali richieste dai parroci del territorio, a condizione che la benedizione pasquale fosse impartita in orario extra scolastico e gli alunni fossero accompagnati dai familiari, o comunque da un adulto in funzione di sorveglianza.
Dopo la presentazione di un primo ricorso al TAR e di un’istanza di autotutela, la dirigente scolastica, con propria determinazione prot. 1754 A/35 del 11.03.2015, concedeva un locale scolastico ai parroci che ne avevano fatto specifica richiesta, “per l’espletamento dell’attività di benedizione pasquale senza fini di lucro nelle giornate riportate in apposita convenzione”.
Con la deliberazione n. 52/2015 del 12.03.2015 l’Amministrazione decideva di aprire i seguenti locali scolastici: Ro. il 21 marzo ore 13,15 in aula magna; Fo. il 20 marzo ore 16,45 nell’atrio; Ca. il 21 marzo in aula magna. Dopo la stipula delle convenzioni, avvenuta il seguente 13 marzo, le benedizioni erano celebrate nelle date 20 e 21.03.2015, come del resto riportato dalla stampa dell’epoca (Resto del Carlino del 21.03.2015: “Pasqua, la scuola gioca d’anticipo. La benedizione arriva prima del TAR”; New York Times del 23.03.2015; ANSA del 24.03.2015).
Da quanto riferito dalle parti, risulta che i provvedimenti impugnati (autorizzazioni alla celebrazione delle benedizioni pasquali del marzo 2015) hanno avuto esecuzione, non essendo stati all’epoca sospesi, ma soltanto successivamente annullati con la sentenza appellata, poi sospesa in via cautelare con il decreto presidenziale 07.03.2016 n. 763.
Nella successiva Pasqua del 2016, nel corso dell’anno scolastico 2015/2016, l’Istituto comprensivo 20 di Bologna ha nuovamente posto la questione all’o.d.g. della riunione del Consiglio di Istituto del 22.03.2016, ma l’Amministrazione scolastica ha deliberato di non concedere i locali per lo svolgimento della benedizione.
Quanto sinora precisato, può chiarire che l’interesse processuale delle parti ad ottenere una pronuncia del Consiglio di Stato nella controversia ha ormai carattere soltanto morale, dato che l’eventuale annullamento ora per allora degli atti qui impugnati non potrebbe avere altro risultato, se non quello implicito di costituire anche un precedente, non essendo stata presentata alcuna altra domanda accessoria oltre quella di annullamento.
2. Com’è noto, la benedizione pasquale è un rito religioso, rivolto all’incontro tra chi svolge il ministero pastorale e le famiglie o le altre comunità, nei luoghi in cui queste risiedono, caratterizzato dalla brevità e dalla semplicità, senza necessità di particolari preparativi.
Il fine di tale rito, per chi ne condivide l’intimo significato e ne accetta la pratica, è anche quello di ricordare la presenza di Dio nei luoghi dove si vive o si lavora, sottolineandone la stretta correlazione con le persone che a tale titolo li frequentano.
Non avrebbe senso infatti la benedizione dei soli locali, senza la presenza degli appartenenti alle relative comunità di credenti, non potendo tale vicenda risolversi in una pratica di superstizione.
Tale rito dunque, per chi intende praticarlo, ha senso in quanto celebrato in un luogo determinato, mentre non avrebbe senso (o, comunque, il medesimo senso) se celebrato altrove; e ciò spiega il motivo per cui possa chiedersi che esso si svolga nelle scuole, alla presenza di chi vi acconsente e fuori dall’orario scolastico, senza che ciò possa minimamente ledere, neppure indirettamente, il pensiero o il sentimento, religioso o no, di chiunque altro che, pur appartenente alla medesima comunità, non condivida quel medesimo pensiero e che dunque, non partecipando all’evento, non possa in alcun senso sentirsi leso da esso.
Deve quindi concludersi che la “benedizione pasquale” nelle scuole non possa in alcun modo incidere sullo svolgimento della didattica e della vita scolastica in generale. E ciò non diversamente dalle diverse attività “parascolastiche” che, oltretutto, possono essere programmate o autorizzate dagli organi di autonomia delle singole scuole anche senza una formale delibera.
3. È appena il caso di rilevare che non può logicamente attribuirsi al rito delle benedizioni pasquali, con le limitazioni stabilite nelle prescrizioni annesse ai provvedimenti impugnati, un trattamento deteriore rispetto ad altre diverse attività “parascolastiche” non aventi alcun nesso con la religione, soprattutto ove si tenga conto della volontarietà e della facoltatività della partecipazione nella prima ipotesi, ma anche che nell’ordinamento non è rinvenibile alcun divieto di autorizzare lo svolgimento nell’edificio scolastico, ovviamente fuori dell’orario di lezione e con la più completa libertà di parteciparvi o meno, di attività (ivi inclusi gli atti di culto) di tipo religioso.
Ed ancora, c’è da chiedersi come sia possibile che un (minimo) impiego di tempo sottratto alle ordinarie e le attività scolastiche, sia del tutto legittimo o tollerabile se rivolto a consentire la partecipazione degli studenti ad attività “parascolastiche” diverse da quella di cui trattasi, ad esempio di natura culturale o sportiva, o anche semplicemente ricreativa, mentre si trasformi, invece, in un non consentito dispendio di tempo se relativo ad un evento di natura religiosa, oltretutto rigorosamente al di fuori dell’orario scolastico.
Va aggiunto che, per un elementare principio di non discriminazione, non può attribuirsi alla natura religiosa di un’attività, una valenza negativa tale da renderla vietata o intollerabile unicamente perché espressione di una fede religiosa, mentre, se non avesse tale carattere, sarebbe ritenuta ammissibile e legittima.
Del resto, la stessa Costituzione, all’art. 20, nello stabilire che «il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative (…) per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività», pone un divieto di un trattamento deteriore, sotto ogni aspetto, delle manifestazioni religiose in quanto tali.
Ovviamente, la partecipazione ad una qualsiasi manifestazione o rito religiosi (sia nella scuola che in altre sedi) non può che essere facoltativa e libera, non potendo non godere, solo perché tale, di minori spazi di libertà e di minore rispetto di quelli che sono riconosciuti a manifestazioni di altro genere, nonché tollerante nei confronti di chi esprime sentimenti e fedi diverse, ovvero di chi non esprime o manifesta alcuna fede.
Negli atti impugnati i parametri ora indicati sono tutti rigorosamente rispettati, essendo garantita la libertà di partecipare all’evento in orario non scolastico, senz’alcuna forma di contrapposizione con altri credo religiosi o con qualsivoglia diversa ideologia.
4. Resta da verificare se i provvedimenti impugnati siano espressione di una determinata potestà, riconducibile ad una categoria rispondente al normale principio di tipicità degli atti amministrativi.
Al riguardo può richiamarsi l’art. 96, quarto comma, del D.Lgs. 16.04.1994, n. 297, secondo cui gli edifici scolastici possono essere utilizzati fuori dell’orario del servizio scolastico per attività che realizzino la funzione della scuola come centro di promozione culturale, sociale e civile.
Tra tali finalità può comprendersi quella rivolta alla realizzazione di un culto religioso, sempre che ne sia libera, volontaria e facoltativa la partecipazione, e ciò avvenga, come richiesto, al di fuori dell’orario del servizio scolastico e previa delibera dell’organo competente, ai sensi del precedente art. 10 del D.Lgs. del 1994, n. 297 cit., ivi indicato nel Consiglio di Circolo o di Istituto.
Ed è appena il caso di ricordare che, nella prassi oggi invalsa, le competenze di tali organi scolastici sono intese in senso non certamente restrittivo, bensì estensivo o comunque elastico e flessibile, quanto alla tipologia ed alla natura delle attività “parascolastiche”, “extrascolastiche”, o comunque “complementari”, che gli stessi organi possono liberamente ed autonomamente programmare o autorizzare.
Del resto, il D.P.R. 08.03.1999, n. 275 (regolamento recante norme in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, ai sensi dell’art. 21 della L. 15.03.1997, n. 59), all’art. 4, relativo all’autonomia didattica, dispone: «Le istituzioni scolastiche, nel rispetto della libertà di insegnamento, della libertà di scelta educativa delle famiglie e delle finalità generali del sistema (…) concretizzano gli obiettivi nazionali in percorsi formativi funzionali alla realizzazione del diritto ad apprendere e alla crescita educativa di tutti gli alunni, riconoscono e valorizzano le diversità, promuovono le potenzialità di ciascuno adottando tutte le iniziative utili al raggiungimento del successo formativo», intendendosi in tal modo evidentemente ampliare la sfera dell’autonomia di tali organi, ed ammettendo esplicitamente, con l’espressione «riconoscono e valorizzano le diversità», tutte quelle iniziative che si rivolgano, piuttosto che alla generalità unitariamente intesa degli studenti, soltanto a determinati gruppi di essi, individuati per avere specifici interessi od appartenenze, per esempio di carattere etico, religioso o culturale, in un clima di reciproca comprensione, conoscenza, accettazione e rispetto, oggi tanto più decisivo in relazione al fenomeno sempre più rilevante dell’immigrazione e della conseguente necessità di integrazione.
Per i profili sin qui esaminati, dunque,
i provvedimenti impugnati appaiono legittimi, non risultando fondati non soltanto i motivi attinenti alle denunciate violazioni di legge, ma anche i motivi di ricorso riferiti all’incompetenza, al difetto di motivazione ed all’eccesso di potere.
Attesa l’evidente novità delle questioni affrontate, all’integrale riforma della sentenza appellata ed al rigetto del ricorso di primo grado ora disposti, non può che conseguire l’integrale compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
P.Q.M.
il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sesta Sezione, accoglie l’appello indicato in epigrafe e, per l’effetto, rigetta il ricorso di primo grado (Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 27.03.2017 n. 1388 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI: Valutazione con mero punteggio numerico delle offerte di gara dell’offerta economicamente più vantaggiosa.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Offerta – Offerta economicamente più vantaggiosa – Valutazione – Punteggio numerico – Art. 95, commi 8 e 9, d.lgs. n. 50 del 2016 – Sufficienza – Condizione.
Ai sensi dell’art. 95, commi 8 e 9, d.lgs. 18.04.2016, n. 50, il punteggio numerico assegnato agli elementi di valutazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa integra una sufficiente motivazione allorché siano prefissati con chiarezza e adeguato grado di dettaglio i criteri di valutazione, prevedenti un minimo ed un massimo; viceversa, in assenza della predisposizione di subcriteri o di griglie di valutazione particolarmente dettagliate, la Commissione di gara può supplire al deficit motivazionale, insito nel punteggio numerico abbinato a criteri preventivi di giudizio non sufficientemente specifici, esplicitando le ragioni dell’attribuzione del punteggio stesso (1).
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   (1) Si tratta di conclusione che trova conferma anche nelle le “Linee Guida n. 2 dell’ ANAC “di attuazione del d.lgs. 18.04.2016, n. 50 recanti offerta economicamente più vantaggiosa” del 21.09.2016, n. 1005″, le quali prevedono che “in relazione a ciascun criterio o sub-criterio di valutazione la stazione appaltante deve indicare gli specifici profili oggetto di valutazione, in maniera analitica e concreta. Con riferimento a ciascun criterio o sub-criterio devono essere indicati i relativi descrittori che consentono di definire i livelli qualitativi attesi e di correlare agli stessi un determinato punteggio, assicurando la trasparenza e la coerenza delle valutazioni” (TAR Piemonte, Sez. I, sentenza 27.03.2017 n. 414 - commento tratto da e  link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3.1. In termini generali va osservato che, secondo la concorde giurisprudenza di primo e secondo grado,
il punteggio numerico assegnato agli elementi di valutazione dell'offerta economicamente più vantaggiosa integra una sufficiente motivazione allorché siano prefissati con chiarezza e adeguato grado di dettaglio i criteri di valutazione, prevedenti un minimo ed un massimo; in questo caso, infatti, sussiste comunque la possibilità di ripercorrere il percorso valutativo e quindi di controllare la logicità e la congruità del giudizio tecnico (cfr., TAR Umbria, sez. I, 11.09.2015, n. 365; TAR Salerno, sez. II, 12.03.2014, n. 567; (TAR Piemonte, sez. II, 15.11.2013, n. 1207; Cons. Stato, sez. V, 17.01.2011 n. 222; sez. V, 16.06.2010 n. 3806; 11.05.2007 n. 2355; 09.04.2010 n. 1999).
Viceversa,
in assenza della predisposizione di sub-criteri o di griglie di valutazione particolarmente dettagliate, la Commissione di gara può supplire al deficit motivazionale, insito nel punteggio numerico abbinato a criteri preventivi di giudizio non sufficientemente specifici, esplicitando le ragioni dell'attribuzione del punteggio stesso: sicché, pur ammettendosi che la mancata predeterminazione di parametri precisi e puntuali possa far sì che l'assegnazione dei punteggi in forma esclusivamente numerica determini un deficit motivazionale, nondimeno si ammette che a tale carenza la stazione appaltante possa rimediare illustrando le ragioni della valutazione effettuata, in relazione ai vari elementi in cui si articola ciascun criterio (Cons. Stato, sez. VI, 08.03.2012, n. 1332 e 18.04.2013, n. 2142; TAR Milano, III, 16.10.2012, n. 2537; TAR Umbria, 02.11.2011, n. 355).
In senso conforme a questa impostazione si pongono sia le previsioni contenute all’art. 95, commi 8 e 9, d.lgs. 50/2016; sia le "Linee Guida n. 2 dell'ANAC "di attuazione del D.lgs. 18.04.2016 n. 50 recanti offerta economicamente più vantaggiosa" del 21.09.2016 n. 1005", le quali prevedono che "
in relazione a ciascun criterio o sub-criterio di valutazione la stazione appaltante deve indicare gli specifici profili oggetto di valutazione, in maniera analitica e concreta. Con riferimento a ciascun criterio o sub-criterio devono essere indicati i relativi descrittori che consentono di definire i livelli qualitativi attesi e di correlare agli stessi un determinato punteggio, assicurando la trasparenza e la coerenza delle valutazioni".

LAVORI PUBBLICI: Attestazione SOA vicina alla scadenza: le condizioni per partecipare alla gara.
CGA Sicilia: nel caso in cui la verifica consegua esito positivo, l’aggiornamento retroagisce al momento della precedente scadenza.
L'impresa la cui attestazione Soa è prossima alla naturale scadenza può comunque partecipare alla gara, purché chieda preventivamente all’Organismo di attestazione di procedere alla verifica della sua posizione e di provvedere al conseguente aggiornamento o rinnovamento dell’attestato. Nel caso in cui la verifica consegua esito positivo, l’aggiornamento retroagisce al momento della precedente scadenza.
Lo ha precisato il CGARS nella sentenza 24.03.2017 n. 132.
Il CGA Sicilia ricorda che “in forza del c.d. 'principio di continuità dei requisiti' (C.S., Ad. Pl., 20.07.2015 n. 8), le ditte aggiudicatarie di appalti pubblici hanno l’obbligo di mantenere il possesso dei requisiti di idoneità per l’intero periodo corrente dalla data di scadenza della domanda di partecipazione alla gara fino alla conclusione dei lavori (o alla completa esecuzione del contratto).
Corollario di tale principio è che anche le 'attestazioni di qualità' rilasciate dai competenti organismi di accreditamento (le cc.dd. 's.o.a.') devono mantenere (ed essere in grado di dispiegare) la loro efficacia certatoria per l’intero periodo in questione.
Secondo il disposto degli artt. 76 e 77 del DPR n.2017 del 2010 (Regolamento per l’esecuzione del precedente codice dei contratti pubblici, normativa applicabile alla fattispecie ratione temporis), l’efficacia delle predette attestazioni dura cinque anni, ed alla scadenza del terzo anno (c.d. “scadenza intermedia”) l’impresa ha l’onere di sottoporsi ad una verifica in ordine alla permanenza dei requisiti.
Al riguardo, la giurisprudenza ritiene ed afferma costantemente da tempo risalente che l’impresa che si avvede che l’efficacia della sua attestazione di qualità è prossima alla naturale scadenza (nel senso che tale scadenza si verificherà automaticamente e fisiologicamente, per il decorso del tempo, dopo la data fissata dal bando per la presentazione delle domande di ammissione alla procedura), può comunque partecipare alla gara, purché abbia chiesto (o chieda) preventivamente (stipulando all’uopo il relativo contratto d’incarico) all’Organismo di attestazione (che ha rilasciato l’attestazione) di procedere alla verifica della sua posizione e di provvedere al conseguente “aggiornamento” (o “rinnovamento”) dell’attestato in questione. Ed in tal caso ove la verifica consegua esito positivo (id est: favorevole per l’impresa richiedente) l’aggiornamento retroagisce al momento della precedente scadenza, in modo che non vi sia alcuna soluzione di continuità fra le attestazioni
” (commento tratto da www.casaeclima.com).

EDILIZIA PRIVATAEdilizia in zone sismiche sempre sotto vigilanza.
Incostituzionale la disposizione che sottrae ad ogni forma di vigilanza e controllo alcuni interventi edilizi realizzati in zone sismiche, non tipizzati dalla legislazione statale di riferimento.

Questo emerge dalla sentenza 24.03.2017 n. 60, emessa ieri dalla Corte costituzionale in merito al ricorso promosso dal presidente del Consiglio dei ministri contro la regione Abruzzo.
Il ricorrente aveva invitato la Consulta a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale degli art. 5 e 7 della legge regionale 12/2015, che apportava «Modifiche alla legge regionale 11.08.2011, n. 28 (Norme per la riduzione del rischio sismico e modalità di vigilanza e controllo su opere e costruzioni in zone sismiche)», introducendo un art. 19-bis. Entrambe le disposizioni sarebbero state in contrasto con l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, nelle materie di legislazione concorrente della «protezione civile» e del «governo del territorio».
Mentre dichiara inammissibile la questione in merito all'art. 5 e all'art. 7 nella parte in cui amplia l'art. 19-bis della legge 28 con il comma 3, la Corte individua un contrasto fra il dettame costituzionale e il comma 2, lett. d), dell' art. 19-bis, che rimandava a un regolamento della giunta la definizione delle «opere minori» e di «quelle prive di rilevanza ai fini della pubblica incolumità», tutte strutture da considerare estranee sia al procedimento di autorizzazione preventiva che al preavviso.
Ma queste due categorie di immobili, sottolinea nella sentenza, non esistono nella disciplina statale per l'edilizia in zone a rischio sisma. Le regioni non possono che allinearsi ai principi stabiliti dallo normativa statale, che detta i parametri a cui attenersi agli art. 65, 93 e 94 del dpr 380/2001, conclude la Consulta (articolo ItaliaOggi del 25.03.2017).

ENTI LOCALI - VARI: Compartecipazione del Comune al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali connesse a ricoveri stabili.
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Sanità pubblica – Assistenza sanitaria – Ricoveri stabili presso strutture residenziali – Oneri a carico del Comune - Art. 6, comma 4, l. n. 328 del 2000 – Individuazione.
Sanità pubblica – Assistenza sanitaria – Ricoveri stabili presso strutture residenziali – Oneri a carico del Comune - Art. 6, comma 4, l. n. 328 del 2000 – Obbligo – Conseguenza.
Ai sensi dell’art. 6, comma 4, l. 08.11.2000, n. 328 l’obbligo a carico del Comune di assumere gli adempimenti connessi al ricovero stabile di soggetti che nello stesso Comune avevano la residenza prima del ricovero, sorge nel momento in cui si verificano le condizioni per procedere alla erogazione del contributo, momento che si verifica quando la situazione economica della persona assistita si deteriora a tale punto da non potersi permettere di corrispondere la retta alla casa di riposo con le proprie risorse economiche; ne consegue che per le prestazioni sociali non vale quanto stabilito dalla legge per le prestazioni sanitarie, cioè l’assunzione in via principale e diretta della spesa a carico dell’ente pubblico (1).
L'obbligazione di assistenza ex art. 6, comma 4, l. 08.11.2000, n. 328 a carico del Comune connessa al ricovero stabile di soggetti, che nel Comune stesso avevano la residenza prima del ricovero, sorge in considerazione soltanto delle condizioni oggettive e soggettive del soggetto bisognoso (stato di necessità e assenza di mezzi propri), senza che possa avere alcuna rilevanza la relativa eziologia, che non è mai idonea a scriminare la responsabilità del civilmente obbligato (2).
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   (1) Ha ricordato il Tar che ai sensi dell’art. 2, comma 1, d.P.C.M. 05.12.2013, n. 159 "La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lett. m), Cost., fatte salve le competente regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e sociosanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni".
Dunque, non solo l’accesso, ma anche la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali è stabilito avendo come base la disciplina statale sull’indicatore della situazione economica equivalente (Isee).
Il reddito dell’assistito ai fini dell’accesso ed ai fini della determinazione della compartecipazione non può essere definito dal Comune avendo per oggetto elementi diversi.
Per quanto riguarda poi la definizione del c.d. minimo vitale, cioè di quella parte del reddito personale che non debba essere computato ai fini della determinazione della compartecipazione alla retta, perché destinato a soddisfare altre esigenze esistenziali fondamentali, deve escludersi che il potere comunale di determinazione sia assoluto. Infatti l’art. 24, comma 1, lett. g), l. n. 328 del 2000 delega il Governo un decreto legislativo recante norme per il riordino degli assegni e delle indennità spettanti ai sensi delle leggi 10.02.1962, n. 66, 26.05.1970, n. 381, 27.05.1970, n. 382, 30.03.1971, n. 118, e 11.02.1980, n. 18, che preveda il riconoscimento degli emolumenti anche ai disabili o agli anziani ospitati in strutture residenziali, in termini di pari opportunità con i soggetti non ricoverati, disponendo l'utilizzo di parte degli emolumenti come partecipazione alla spesa per l'assistenza fornita, ferma restando la conservazione di una quota, pari al 50 per cento del reddito minimo di inserimento di cui all'art. 23, a diretto beneficio dell'assistito.
   (2) Ha ricordato il Tar che in questa materia va ritenuta quell'assoluta uguaglianza tra bisognosi, malati o meno che siano, che costituisce l'unica vera uguaglianza assoluta tra soggetti. Ad impegnare gli obbligati, congiunti o ente pubblico, è lo stato oggettivo di necessità -di cura come di assistenza- per nulla influenzato dalla causa del suo insorgere.. Neppure rilevano le ragioni della situazione di indigenza, se colposa e dolosa (
TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 23.03.2017 n. 697 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
3. Venendo al merito il primo motivo di ricorso è parzialmente fondato.
2.1 L'art. 38, primo comma, della Costituzione, sancisce il principio di solidarietà sociale, stabilendo che lo Stato (da intendersi nel suo più ampio significato, ossia con riferimento ai vari livelli di governo) deve garantire il mantenimento e l'assistenza sociale ai soggetti indigenti ed inabili allo svolgimento di una proficua attività lavorativa.
In applicazione di tale principio l’art. 6, comma 4, della legge 328 del 2000 stabilisce che “
Per i soggetti per i quali si renda necessario il ricovero stabile presso strutture residenziali, il comune nel quale essi hanno la residenza prima del ricovero, previamente informato, assume gli obblighi connessi all’eventuale integrazione economica”.
Secondo la giurisprudenza
una interpretazione ragionevole dell’art. 6, c. 4, della L. 328/2000 è nel senso che l’obbligo a carico del Comune sorge nel momento in cui si verificano le condizioni per procedere alla erogazione del contributo, momento che si verifica quando la situazione economica della persona assistita si deteriora «a tale punto da non potersi permettere di corrispondere la retta alla casa di riposo con le proprie risorse economiche» (Cons. Stato Sez. III, 10/01/2017, n. 46; Cons. St., sez. III, 23.08.2012, n. 4594).
Deve quindi escludersi che per le prestazioni sociali valga quanto stabilito dalla legge per le prestazioni sanitarie, cioè l’assunzione in via principale e diretta della spesa a carico dell’ente pubblico.
In merito alla definizione della condizione economica dell’assistito l'art. 2, co. 1, del d.P.C.M. n. 159/2013 prevede che "La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, fatte salve le competente regionali in materia di normazione, programmazione e gestione delle politiche sociali e sociosanitarie e ferme restando le prerogative dei comuni".
A sua volta l’art. 8, c. 2, della Legge Regionale 12.03.2008, n. 3 stabilisce che <<L’accesso agevolato alle prestazioni sociosanitarie e sociali e il relativo livello di compartecipazione al costo delle medesime è stabilito dai comuni nel rispetto della disciplina statale sull’indicatore della situazione economica equivalente e dei criteri ulteriori, che tengano conto del bisogno assistenziale, stabiliti con deliberazione della Giunta regionale>>.
Sia la norma statale che quella regionale stabiliscono chiaramente che non solo l’accesso, ma anche la compartecipazione al costo delle prestazioni sociosanitarie e sociali è stabilito avendo come base la disciplina statale sull’indicatore della situazione economica equivalente.
La norma regionale stabilisce inoltre che criteri ulteriori sono definiti dalla Giunta regionale. Deve quindi escludersi che il reddito dell’assistito ai fini dell’accesso ed ai fini della determinazione della compartecipazione possa essere definito dal Comune avendo per oggetto elementi diversi.
Per quanto riguarda poi la definizione del c.d. minimo vitale, cioè di quella parte del reddito personale che non debba essere computato ai fini della determinazione della compartecipazione alla retta, perché destinato a soddisfare altre esigenze esistenziali fondamentali, deve escludersi che il potere comunale di determinazione sia assoluto.
Infatti l’art. 24, 1° comma, lett. g), L. n. 328/2000 delega il Governo un decreto legislativo recante norme per il riordino degli assegni e delle indennità spettanti ai sensi delle leggi 10.02.1962, n. 66, 26.05.1970, n. 381, 27.05.1970, n. 382, 30.03.1971, n. 118, e 11.02.1980, n. 18, e successive modificazioni che preveda il riconoscimento degli emolumenti anche ai disabili o agli anziani ospitati in strutture residenziali, in termini di pari opportunità con i soggetti non ricoverati, prevedendo l'utilizzo di parte degli emolumenti come partecipazione alla spesa per l'assistenza fornita, ferma restando la conservazione di una quota, pari al 50 per cento del reddito minimo di inserimento di cui all'articolo 23, a diretto beneficio dell'assistito.
2.2 Il regolamento del Comune di Vimodrone ha stabilito che l’intervento del Comune ha luogo solo nel caso in cui il richiedente non sia titolare di depositi bancari e/o postali e assicurativi, ovvero di risparmi in qualunque forma posseduti, che dovranno essere prioritariamente destinati all'assunzione in proprio dell'onere del ricovero. Solo a esaurimento di tali importi o al raggiungimento della cifra non superiore a € 5.000,00, il Comune si riserva di valutare l’ammissibilità della domanda.
La norma regolamentare è illegittima non nella parte in cui stabilisce che l’assistito deve destinare le sue risorse all'assunzione in proprio dell'onere del ricovero, ma nella fissazione del limite dell’indigenza. Infatti se è vero che l'obbligazione pubblica di assistenza sorge in considerazione soltanto delle condizioni oggettive e soggettive del soggetto bisognoso (stato di necessità e assenza di mezzi propri), la fissazione del limite dell’indigenza totale o di quello astratto della somma di euro 5.000 è in contrasto con la quantificazione del minimo vitale effettuato dall’art. 24, 1° comma, lett. g), L. n. 328/2000.
A ciò si aggiunge il fatto che il calcolo della “base imponibile” sulla quale viene determinato il minimo vitale si pone in contrasto con la disciplina statale e regionale che fanno riferimento ai redditi rilevanti ai fini ISEE non solo per l’accesso ma anche per determinare in concreto il quantum dell’obbligazione di compartecipazione alla retta.
Il primo motivo di ricorso va quindi accolto con conseguente annullamento dell’art. 21, c. 14, del Regolamento comunale nella parte in cui stabilisce che <<Solo a esaurimento di tali importi o al raggiungimento della cifra non superiore a € 5.000,00, il Comune si riserva di valutare l’ammissibilità della domanda>> (in tal senso anche Tar Lombardia Milano, sez. III, 11.03.2010, n. 570; Tar Lombardia Milano, sez. III, 12/07/2012, n. 1986).
...
4. Il terzo motivo di ricorso è parzialmente fondato.
4.1 I ricorrenti in primo luogo lamentano l’illegittimità dell’art. 21, co. 13, del Regolamento, nella parte in cui prevede che "
13. Sono esclusi dal beneficio di cui al presente articolo coloro che abbiano trasferito, nei due anni precedenti la domanda di intervento, a qualsiasi titolo la proprietà immobiliare adibita ad abitazione principale o di qualunque altro immobile".
In merito occorre rilevare che
l'art. 38, primo comma, della Costituzione, sancisce il principio di solidarietà sociale, stabilendo che lo Stato (da intendersi nel suo più ampio significato, ossia con riferimento ai vari livelli di governo) deve garantire il mantenimento e l'assistenza sociale ai soggetti indigenti ed inabili allo svolgimento di una proficua attività lavorativa.
E’ del tutto pacifico in dottrina e giurisprudenza che
l'obbligazione di assistenza sorge in considerazione soltanto delle condizioni oggettive e soggettive del soggetto bisognoso (stato di necessità e assenza di mezzi propri), senza che possa avere alcuna rilevanza la relativa eziologia, che non è mai idonea a scriminare la responsabilità del civilmente obbligato. In questa materia va ritenuta quell'assoluta uguaglianza tra bisognosi, malati o meno che siano, che costituisce l'unica vera uguaglianza assoluta tra soggetti. Ad impegnare gli obbligati, congiunti o ente pubblico, è lo stato oggettivo di necessità -di cura come di assistenza- per nulla influenzato dalla causa del suo insorgere.
In secondo luogo la clausola, oltre ad introdurre un illegittimo esame relativo alle ragioni della situazione di indigenza non distingue neppure tra indigenza colposa e dolosa, in quanto la vendita di un immobile può dipendere dalle più svariate ragioni, non solo quelle di sottrarsi al pagamento della retta di ricovero.
Ne consegue che
l’art. 21, co. 13, del Regolamento è illegittimo in quanto scrimina in relazione alle cause che hanno determinato la situazione di indigenza e modifica l’obbligo legale di assistenza subordinandolo ad una condizione non prevista dalla legge e va quindi annullato.
4.2 In secondo luogo i ricorrenti contestano l’art. 21, c. 14, del Regolamento per gli stessi motivi già rilevati nel primo motivo, al quale si rinvia.
4.3 In terzo luogo i ricorrenti contestano l’art. 21, c. 12, del Regolamento nella parte in cui stabilisce che “la contribuzione comunale deve intendersi quale anticipazione di quanto dovuto dal cittadino beneficiario, con conseguente titolo, da parte del Comune, di rivalersi sulla futura eredità”.
In merito la giurisprudenza (Cassazione Civile n. 19642/2014; Civile Sent. n. 22776/2016) sostiene che <<
la diversa regola della erogazione gratuita delle prestazioni, da parte del servizio sanitario nazionale, a tutti i cittadini entro livelli di assistenza uniformi definiti con il piano sanitario nazionale (artt. 1, 3, 19, 53 e 63 dalla legge n. 833/1978), ha comportato un forte ridimensionamento dell'ambito di applicazione della rivalsa ex art. 1 della legge n. 1580/1931, ma -come ha ancora rilevato Cass. n. 4460/2003- non lo ha cancellato del tutto, potendo l'istituto continuare a trovare applicazione con riguardo a quelle ipotesi, indubbiamente residuali, in cui la gratuità non sussista, ipotesi alle quali per l'appunto si riferiscono tutti i precedenti di questa Corte in cui è stata ritenuta la perdurante vigenza della norma pur dopo l'attuazione della riforma. E tra tali casi deve farsi rientrare certamente anche quello relativo alle spese socio assistenziali, derivanti dalla attività di sorveglianza e di assistenza non sanitaria resa in favore di un soggetto anziano ultrasessantacinquenne, trattandosi di spese non riconducibili alle prestazioni del Servizio Sanitario secondo le previsioni della legge n. 833/1978, ma sicuramente inquadrabili nella previsione dell'art. 1 della L. n. 1580/1931. Alla luce di tali principi deve ritenersi che le attività socio assistenziali dirette in via prevalente alla tutela della salute del cittadino siano a totale carico del servizio sanitario e che ne rimangano escluse quelle di natura esclusivamente assistenziale>>.
Ne consegue che
la norma non può ritenersi illegittima in quanto riferita alla prestazioni di natura esclusivamente assistenziale erogate dal Comune.
5. Il quarto motivo di ricorso è fondato.
I ricorrenti contestano l’art. 21, c. 16, ove prevede che "16. In applicazione dei principi di buona fede, correttezza e collaborazione, l'utente o chi ne rappresenta gli interessi, nei casi e nei modi previsti dalla legge, detratta una quota mensile per le minute spese del ricoverato stesso, fino a un valore massimo non superiore a € 100 mensili”.
La norma è illegittima nella parte in cui definisce un limite massimo inderogabile per contrasto con l'art. 14, co. 2, della 1. n. 328/2000.
L'art. 14, c. 1, della 1. n. 328/2000 stabilisce che "per realizzare la piena integrazione delle persone disabili di cui all'art. 3 L 104/1992, i Comuni, d'intesa con le aziende unità sanitarie locali, sono tenuti, su richiesta dell'interessato, a predisporre un progetto individuale".
Il secondo comma precisa che "il progetto individuale comprende, oltre alla valutazione diagnostico funzionale, le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona a cui provvede il comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all'integrazione sociale, nonché le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale”.
Poiché la legge rimette al progetto individuale la definizione anche dei profili economici relativi alla condizione personale del malato, deve ritenersi che questo sia il luogo deputato dalla legge a definire le disponibilità economiche del ricoverato in considerazione delle sue condizioni di salute e di trattamento, che si differenziano a seconda della struttura di ricovero.

L’art. 21, c. 6, va quindi annullato nella parte in cui stabilisce che la disponibilità economica per soddisfare le c.d. esigenze vitali mensili non possano superare nel massimo euro 100,00.
6. Il quinto motivo di ricorso è fondato.
I ricorrenti contestano l'art. 21, co. 8, del gravato Regolamento nella parte in cui prevede che "8. Per i residenti nel comune di Vimodrone, condizioni per accedere all'integrazione della retta sono: <...> - la struttura dovrà essere stata concordata con l'Amministrazione Comunale; ‹...>" e "l'utente si deve rendere disponibile a disporre del suo patrimonio in accordo con l'Ente locale e per generare la liquidità necessaria per provvedere al pagamento dei costi del servizio".
La prima parte di detta previsione regolamentare è illegittima in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza (Cons. Stato Sez. III, 10/01/2017, n. 46), la pretesa comunale di imporre alla persona richiedente una previa concertazione circa la struttura appropriata presso la quale ricoverarsi, al fine di ottenere l’integrazione economica della retta da parte del Comune, è illegittima perché contrastante, a livello della legislazione nazionale, non solo con l’art. 6, comma 4, della l. n. 328 del 2000 (che prevede la sola previa informazione del Comune, come ora si dirà), ma anche, a livello di legislazione regionale lombarda, con gli artt. 2 e 7 della L.R. n. 3 del 2008, che garantisce la libertà di scelta dell’assistito, salvo il limite dell’appropriatezza.
La suddetta pronuncia ha poi chiarito che <<
l’appropriatezza del ricovero, che compete all’autorità sanitaria, non può essere messa in discussione dal Comune chiamato ex lege all’integrazione della retta, come questa Sezione ha chiarito in numerose pronunce (v., ad esempio, Cons. St., sez. III, 10.07.2012, n. 4085)>>.
La seconda parte della norma, relativa all’obbligo di mantenere liquido ed esigibile il patrimonio necessario al pagamento della retta, è illegittima in quanto l’obbligazione del privato di pagare la retta di ricovero ha titolo diverso da quella del Comune ed intercorre tra soggetti diversi, per cui il Comune non può definirne il contenuto o stabilire forme di garanzia patrimoniale.
7. Il sesto motivo è parzialmente fondato.
Con tale motivo i ricorrenti contestano per eccesso di potere l'art. 21, co. 6, del gravato Regolamento, secondo il quale "6. L'intervento del Comune ha luogo solo nel caso in cui il richiedente, con i propri redditi, e il patrimonio mobiliare e immobiliare disponibile, non sia in grado di pagare interamente la retta richiesta per l'accoglimento nella struttura idonea a soddisfare le sue necessità assistenziali. Tale retta non dovrà, comunque, superare l'importo complessivo di 1.700,00 mensili".
Sulla legittimità del primo periodo abbiamo già detto in precedenza.
E’ invece illegittima la parte in cui il regolamento definisce il limite massimo di 1.700,00 euro mensili di contributo. Infatti l'art. 38, primo comma, della Costituzione, nello stabilire che lo Stato (da intendersi nel suo più ampio significato, ossia con riferimento ai vari livelli di governo) deve garantire il mantenimento e l'assistenza sociale ai soggetti indigenti ed inabili allo svolgimento di una proficua attività lavorativa, definisce un’obbligazione di risultato e non di mezzi.
In questa materia, si ribadisce,
va ritenuta quell'assoluta uguaglianza tra bisognosi, malati o meno che siano, che costituisce l'unica vera uguaglianza assoluta tra soggetti. Ad impegnare gli obbligati, congiunti o ente pubblico, è lo stato oggettivo di necessità -di cura come di assistenza- per nulla influenzato non solo dalla causa del suo insorgere, ma anche dalla misura necessaria a garantire <<un’esistenza libera e dignitosa>>, secondo il dettame dell’art. 36 della Costituzione, applicabile anche agli inabili in forza dell’art. 3 della medesima Carta, che garantisce pari dignità sociale a tutti i cittadini.
In definitiva quindi
l'art. 21, co. 6, del gravato Regolamento va annullato nella parte in cui stabilisce che <<Tale retta non dovrà, comunque, superare l'importo complessivo di 1.700,00 mensili>>.
8. L’annullamento delle norme regolamentari si estende anche agli atti di definizione della retta del signor -OMISSIS- e comporta l’obbligo di rideterminazione da parte del Comune.

ENTI LOCALI: Disciplina regolamentare delle sale da gioco.
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Giochi – Sale da gioco – Localizzazione – Competenza – Individuazione.
Giochi – Sale da gioco – Orari di apertura – Regolamentazione – Competenza – Individuazione.
Giochi – Sale da gioco – Variazione del numero e della tipologia degli apparecchi – Scia – Non occorre.
Giochi – Sale da gioco – Trasferimento della proprietà o della gestione di azienda e/o di sub ingresso – Autorizzazione – Necessità.
Le disposizioni sui limiti di distanza imposti alle sale da gioco sono dirette al perseguimento di finalità prevalentemente di carattere socio-sanitario; lo Stato ha il compito di fissare i principi generali che ispirano la materia, dettati dalla riduzione e dal contrasto all’attività del gioco d’azzardo; mentre le Regioni e gli enti locali hanno il potere di disciplinarne le concrete modalità, avuto riguardo, da un lato, agli obiettivi programmati a livello nazionale, e, dall’altro, alle caratteristiche peculiari del territorio entro cui le attività del gioco sono destinate ad incidere (1).
Nel regolamentare l’attività di raccolta delle sale da gioco, l’art. 50, comma 7, t.u. 18.08.2000, n. 267 attribuisce al Consiglio comunale il compito di delineare gli indirizzi di carattere generale in tema di orari, sul cui tracciato il Sindaco esercita il proprio potere discrezionale teso a fissare un orario più o meno contenuto nell’ambito delle fasce orario predeterminate dal consiglio medesimo, in coerenza con l’interesse pubblico perseguito.
Ben può il Consiglio comunale dettare criteri rigidi e restrittivi, tanto da vincolare in misura stringente la discrezionalità devoluta al Sindaco, senza tuttavia obliterare l’esercizio del potere sindacale, che può nondimeno esercitarsi nell’ambito delle fasce orarie determinate dal regolamento comunale (2).
E’ illegittima la previsione del regolamento che introduce l’obbligo di presentare allo Sportello unico delle attività produttive (SUAP) una segnalazione certificata di inizio attività (Scia) per la variazione del numero e della tipologia degli apparecchi nelle sale giochi, imposto anche ad un soggetto già autorizzato, non essendo aderente al tenore dell’art. 19, l. 07.08.1990, n. 241, in quanto la scia appare invero sovradimensionata laddove si tratti di comunicare all’amministrazione variazioni che si verificano nella conduzione dell’attività commerciale, le quali, tuttavia, non abbiano alcuna incidenza sui requisiti previsti dalle normative di legge e regolamentare per iniziare o proseguire l’attività medesima.
E’ legittimo il regolamento che richiede agli operatori economici delle sale da gioco di munirsi obbligatoriamente dell'autorizzazione comunale nei casi di trasferimento della proprietà o della gestione di azienda e/o di sub ingresso non sono confliggenti con i principi di adeguatezza, ragionevolezza e proporzionalità.
Ed infatti, la necessità di munirsi dell'autorizzazione comunale, in aggiunta a quella del questore, ex art. 88 TULPS, da richiedere per motivi legati all’ordine ed alla sicurezza pubblici, risponde alla diversa finalità di sottoporre gli operatori economici a specifici controlli in ordine ai requisiti di carattere morale di cui gli stessi devono essere in possesso.
Appare quindi del tutto comprensibile che, in considerazione del pericolo di infiltrazione mafiosa, nell’ambito del gioco lecito, la verifica da parte del comune non si limiti ai soli locali già in esercizio, ma si estenda anche ai requisiti soggettivi degli operatori che gestiscono o subentrano nell’attività del gioco d’azzardo.

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   (1) Ha chiarito il Tar che l’obiettivo può ben essere realizzato mediante l’adozione di un testo regolamentare. In Campania, il riferimento, nell’art. 1, comma 201, l.reg. n. 16 del 2014, a “previsioni urbanistico-territoriali” allude essenzialmente al carattere, al contenuto ed alle finalità delle prescrizioni e non comporta anche il rinvio al complesso iter procedimentale per la formazione o la variazione di uno strumento urbanistico.
La previsione regolamentare in questione risponde alla ben chiara finalità di realizzare un contemperamento dell'interesse privato dei titolari al mantenimento degli apparecchi da gioco leciti e quello pubblico ad un controllo continuo e periodico in un settore sensibile, per i suoi rilevanti effetti sociali e sulla salute.
Ha aggiunto il Tar che le previsioni regolamentari che estendono l’applicazione delle previsioni regolamentari sull’attività di raccolta delle sale da gioco a tutti gli operatori del settore, ivi compresi quelli già operanti, non implica una retroattività delle disposizioni, ma è piuttosto finalizzata ad escludere situazioni franche da una verifica periodica, con la sottrazione totale dei soggetti già autorizzati da ogni possibilità di controllo e verifica successiva, con inammissibile incisione sui principi di imparzialità e di par condicio tra operatori del settore. La loro efficacia anche ai soggetti già autorizzati risponde alla giustificabile esigenza di bilanciare l’interesse alla salvaguardia delle attività economiche con quella legata alla prevenzione delle ludopatie la quale rientra nell'ambito delle esigenze di tutela della salute, in linea con i principi fissati dall’art. 32 Cost..
   (2) Giova richiamare Cons. St., sez. V, 20.10.2015, n. 4794 secondo cui non condivisibile “la tesi che l'art. 50, comma 7, d.lgs. n. 267 del 2000 possa essere interpretato nel senso che la competenza del Sindaco non riguardi anche la materia dei giochi, atteso che la disposizione gli attribuisce espressamente il compito di coordinare e riorganizzare, sulla base degli indirizzi espressi dal consiglio comunale e nell'ambito di eventuali criteri fissati dalla Regione, gli orari degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici. Dalla particolare ampiezza della nozione di 'pubblico esercizio' contenuta nella disposizione, deve ritenersi che rientrino senz'altro nella nozione anche le attività di intrattenimento espletate all'interno delle sale giochi e degli esercizi in cui siano stati installati apparecchi di 'gioco lecito': il connotato tipizzante di un pubblico esercizio è la fruibilità delle attività ivi svolte da parte della collettività indifferenziata, i cui componenti siano ammessi a parteciparvi. Le sale giochi e gli esercizi dotati di apparecchiature da gioco, in quanto locali ove si svolge l'attività attualmente consentita dalla legge, sono qualificabili, seguendo l'elencazione contenuta nell'art. 50, comma 7, d.lgs. n. 267 del 2000, come 'pubblici esercizi', di talché per dette sale il Sindaco può esercitare il proprio potere regolatorio, anche quando si tratti dell'esercizio del gioco d'azzardo, quando le relative determinazioni siano funzionali ad esigenze di tutela della salute e della quiete pubblica" (TAR Campania-Napoli, Sez. III, sentenza 22.03.2017 n. 1567 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTI SERVIZI: Revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai cd. settori speciali e rimessione alla Corte di giustizia.
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Contratti della Pubblica amministrazione – Revisione prezzi – Settori speciali - Servizio di pulizia dei locali di una stazione ferroviaria – Esclusione Rimessione alla Corte di giustizia
Sono rimesse alla Corte di giustizia dell’Unione Europea le questioni se:
   a) se sia conforme al diritto dell’Unione Europea (in particolare con gli articoli 3, co. 3, TUE, artt. 26, 56/58 e 101 TFUE, art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) ed alla Direttiva n. 17/2004 l’interpretazione del diritto interno che escluda la revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai cd. settori speciali, con particolare riguardo a quelli con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la stessa Direttiva, ma legati a questi ultimi da un nesso di strumentalità (nel caso di specie, appalto del servizio di pulizia dei locali di una stazione ferroviaria);
   b) se la Direttiva n. 17/2004 (ove si ritenga che l’esclusione della revisione dei prezzi in tutti i contratti stipulati ed applicati nell’ambito dei cd. settori speciali discenda direttamente da essa), sia conforme ai principi dell’Unione Europea (in particolare, agli artt. 3, comma 1 TUE, 26, 56/58 e 101 TFUE, art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), “per l’ingiustizia, la sproporzionatezza, l’alterazione dell’equilibrio contrattuale e, pertanto, delle regole di un mercato efficiente” (1).

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   (1) Ha chiarito il Consiglio di Stato che l’assoggettabilità dell’affidamento di un servizio alla disciplina dettata per i settori speciali non può essere desunta sulla base di un criterio solo soggettivo, relativo cioè al fatto che ad affidare l’appalto sia un ente operante nei settori speciali, ma anche in applicazione di un parametro di tipo oggettivo, attento alla riferibilità del servizio all’attività speciale; e ciò ai sensi dell’art. 217, d.lgs. 12.04.2006, n. 163 (che riproduce l’art. 20 della direttiva 2004/17/CE), a tenore del quale la disciplina dei settori speciali non si applica agli appalti che gli enti aggiudicatori aggiudicano per scopi diversi dall’esercizio delle loro attività di cui agli artt. da 208 a 213 o per l’esercizio di tali attività in un Paese terzo, in circostanze che non comportino lo sfruttamento materiale di una rete o di un’area geografica all’interno della Comunità.
Ha poi aggiunto, con riferimento al caso sottoposto al proprio esame, che posta la previsione dei servizi di pulizia degli edifici e di gestione delle proprietà immobiliari negli allegati di entrambe le direttive europee (n. 17/2004, che coordina le procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto e servizi postali, e n. 18/2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi), l’assoggettabilità dell’affidamento del servizio di pulizia alla disciplina dettata per i settori speciali non può essere desunta sulla base di un criterio solo soggettivo, relativo cioè al fatto che ad affidare l’appalto sia un ente operante nei settori speciali, ma anche in applicazione di un parametro di tipo oggettivo, attento alla riferibilità della pulizia all’attività speciale. Ha quindi chiarito che la pulizia rientra nella normativa dei settori speciali quando è funzionale a detta attività, il che si verifica qualora si tratti di proprietà immobiliari ed edifici che costituiscano parte integrante delle reti di produzione, distribuzione e trasporto indicate negli artt. 208 e ss. d.lgs. n. 163 del 2006.
Con precipuo riferimento al servizio di pulizia delle stazioni, impianti, uffici ed officine dislocati. questi riguardano elementi necessari facenti parte della rete di trasporto ferroviario, deve ritenersi rientrare nella normativa dei settori speciali in quanto strettamente funzionale a detta attività di trasporto ferroviario, dal momento che detto servizio, lungi dal costituire un servizio antecedente, collaterale od aggiuntivo al servizio di trasporto, attiene proprio all’adeguato svolgimento di detto servizio, interessando esso proprietà immobiliari ed edifici che costituiscono elementi necessari della rete di trasporto ferroviario, visto che il servizio di trasporto (in particolare, di passeggeri), che è svolto con inizio nelle stazioni di accesso ai mezzi di trasporto (e che, dunque, si avvale di uffici, impianti ed officine a queste ed alla rete connessi) non può prescindere da un servizio di pulizia che assicuri condizioni igienico-sanitarie adeguate, non solo a coloro che operano nel servizio trasporti medesimo, ma anche a tutti coloro (i passeggeri) che del servizio trasporti costituiscono gli utenti.
Quanto poi alla rimessione alla Corte di giustizia, il rinvio era stato chiesto dall’appellante secondo cui la disciplina nazionale, nella parte in cui porta ad escludere la revisione dei prezzi nel settore dei trasporti e, segnatamente, anche nei relativi contratti di pulizia, viola la direttiva 31.03.2004, n. 17.
Essa “risulta una disciplina ultronea e ingiustificata rispetto a quella comunitaria, ingiustamente sproporzionata e tale da porre l’impresa “ausiliaria” (aggiudicataria di un’attività quale quella di pulizia) in posizione di soggezione e di debolezza nei confronti dell’impresa (essa sì) esercente il servizio pubblico”, producendosi in tal modo “un ingiusto e sproporzionato disequilibrio contrattuale”, per effetto della disciplina legislativa italiana che “finisce per alterare le regole di funzionamento del mercato”.
Stante la richiesta di parte il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea, sia di interpretazione che di validità, si rende necessario, da parte del giudice di ultima istanza, alla luce di quanto affermato dalla consolidata giurisprudenza della stessa Corte di giustizia (ex plurimis, in ordine al rinvio pregiudiziale, sez. IV, 18.07.2013 C-136/12 laddove essa precisa, par. 25, che: “...qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice nazionale, quest'ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell'art. 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione di interpretazione del predetto Trattato”; in ordine al rinvio di validità, nel senso dell’obbligatorietà assoluta del medesimo, Corte giust. comm. ue 06.12.2005, C-461/03; 21.03.2000, C-6/99) (Consiglio di Stato, Sez. IV, ordinanza 22.03.2017 n. 1297 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).

ENTI LOCALI - VARIMenu vegano a scuola. Il no del comune deve essere motivato. Il Tar di Bolzano dà ragione alla mamma munita di certificato.
Sì al menu vegano per l'alunno della scuola dell'infanzia. Il comune non può negare la dieta senza carne, pesce, uova, latte e derivati al bambino che l'ha seguita fin dalla nascita senza spiegare le «ragioni giuridiche» del suo rifiuto.
È escluso che l'ente possa limitarsi a indicare l'elenco tassativo dei quattro menu alternativi a quello standard che offre ai bimbi dei suoi asili: ogni provvedimento dell'amministrazione deve infatti essere motivato e mai essa «è libera di agire secondo arbitrio».

È quanto emerge dalla sentenza 22.03.2017 n. 107, pubblicata dalla Sez. autonoma di Bolzano del TRGA.
Addentellato mancante. Vittoria per la mamma altoatesina difesa dall'avvocato Ca.Pr.. È un certificato medico del pediatra che consiglia di escludere gli alimenti indicati dalla dieta del bambino perché potrebbero avere «effetti non favorevoli», visto che in famiglia il piccolo è stato abituato così. Il provvedimento dell'ente locale è annullato per carenza di motivazione perché a fondamento del niet non risulta posta alcuna previsione normativa o regolamentare.
Anche in sede giurisdizionale il comune non è in grado di motivare il diniego: inutile per l'amministrazione invocare la delibera della giunta, limitandosi ad affermare di non avere «alcun obbligo di fornire un menu vegano ai bambini iscritti nei suoi asili» senza indicare alcuna norma o atto come addentellato: «tanto basta a rendere illegittimo il provvedimento», scrivono i giudici amministrativi.
Scelte etiche. La sentenza cita la legge regionale del Trentino-Alto Adige ma il principio applicato è analogo alla normativa nazionale sull'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi: l'ente «deve sempre operare secondo la legge», altrimenti non può provvedere esercitando il suo potere.
«Tanto le norme costituzionali italiane, quanto le linee guida del ministero della salute del 2010», osserva l'avvocato Pr., «garantiscono e tutelano il diritto dei cittadini di esigere il rispetto delle loro scelte etiche, anche in ambito alimentare. Di fronte a diritti di rango costituzionale nulla possono le delibere comunali». Al comune non resta che pagare le spese di lite (articolo ItaliaOggi del 24.03.2017).

APPALTI - PUBBLICO IMPIEGO: Il reato di illecita turbativa può configurarsi anche nel caso di affidamento diretto.
La scelta di procedere con affidamento diretto di un servizio comunale è fase del processo decisionale dell’ente locale, in cui si può concretizzare il reato previsto dall’articolo 353-bis del Codice penale, che colpisce appunto l’eventuale turbativa nell’individuazione del miglior offerente da parte della Pa.
La norma tutela, infatti, la «libertà del procedimento di scelta del contraente», non solo dalla manipolazione del bando di gara, ma anche di «atto equipollente», e cioè anche in assenza di gara.

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4. Com'è noto,
l'art. 353 cod. pen., la cui rubrica recita "Turbata libertà degli incanti", punisce chiunque, mediante le condotte alternative ivi indicate -ossia "con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti"- "impedisce o turba la gara nei pubblici incanti o nelle licitazioni private per conto di pubbliche amministrazioni, ovvero ne allontana gli offerenti".
Donde l'agevole individuazione dell'oggetto della condotta, che si risolve, in via di gravità decrescente, nell'impedimento della gara, intendendosi per tale anche la sua sospensione per un apprezzabile periodo di tempo; nell'allontanamento da essa di taluno degli offerenti, ovvero, ancora, nel turbamento della gara medesima, solitamente inteso dalla giurisprudenza in senso ampio, sì da ricomprendervi ogni manifestazione in concreto idonea ad alterare l'esito della gara, pur in difetto della realizzazione di un esito siffatto (cfr. Cass. Sez. 6, sent. n. 40304/2014; n. 41365/2013, Rv. 256276; n. 28970/2013, Rv. 255625; n. 12821/2013, Rv. 254906).
Evidente, pertanto, è il bene giuridico tutelato, che va ravvisato nella salvaguardia della libertà di iniziativa economica, attraverso la quale si realizza l'interesse della P.A. alla individuazione del contraente più competente alle condizioni economiche migliori, pur dovendosi ribadire che, ferma l'indubbia e stretta correlazione fra i due beni, non necessariamente alla lesione del primo deve seguire quella effettiva del secondo, come nel caso del mero "turbamento" che non abbia tuttavia prodotto la reale alterazione del risultato (cfr. le sentenza sopra citate) e, per l'effetto, cagionato un danno patrimoniale a carico della P.A., in tal senso dovendosi intendere la qualificazione del reato in esame, talora ricorrente, come reato di pericolo, che lascia pur sempre fermo l'imprescindibile verificarsi dell'evento, in senso naturalistico, quale sopra descritto, nelle forme alternative individuate dal legislatore.
Logico corollario di quanto precede è che l'operatività della tutela apprestata dalla disposizione in esame presuppone l'esistenza di una gara (quale che sia la denominazione formale della procedura avviata) e, dunque, di un bando o di un atto equipollente che abbia fatto luogo alla sua indizione.
4.1
L'art. 353-bis cod. pen. -che è norma di recente conio, in quanto introdotta con legge n. 136/2010, con la denominazione di "Turbata libertà del procedimento di scelta del contraente"- presenta carattere residuale ("Salvo che il fatto costituisca più grave reato ...") e sanziona chiunque, sulla scorta delle medesime condotte indicate dal precedente art. 353 -quindi "con violenza o minaccia, o con doni, promesse, collusioni o altri mezzi fraudolenti"- "turba il procedimento amministrativo diretto a stabilire il contenuto del bando o di altro atto equipollente al fine di condizionare le modalità di scelta del contrente da parte della pubblica amministrazione".
Identico, quindi -come discende altresì dalla collocazione sistematica delle due norme- è il bene giuridico tutelato rispetto a quello oggetto della fattispecie di cui all'art. 353 cod. pen., poiché anche in questo caso la norma è diretta a colpire i comportamenti che, incidendo illecitamente sulla libera dialettica economica, mettono a repentaglio l'interesse della P.A. di poter contrarre con il miglior offerente.
Non così, invece, per ciò che concerne il momento di operatività della tutela apprestata dalle due disposizioni, che, nell'un caso (art. 353 cod. pen.) -come già si è avuto modo di dire- richiede l'esistenza di una gara, comunque denominata; laddove, nell'altro caso (art. 353-bis cod. pen.), esso viene anticipato nel tempo -quando un bando (o altro atto equivalente) non sia stato adottato, anche ove la relativa procedura sia stata avviata senza essere però approdata al suo esito finale- nella consapevolezza che gli interessi meritevoli di tutela (come sopra specificati) possono essere lesi non solo da condotte successive ad un bando il cui contenuto sia stato determinato nel pieno rispetto della legalità, ma anche da comportamenti precedenti in grado di avere influenza sulla formazione di detto contenuto.
5. Fin qui la disamina compiuta trova piena rispondenza nella decisione adottata dal Tribunale distrettuale della cautela.
Sennonché occorre considerare che
l'art. 353-bis cod. pen. non circoscrive affatto il novero delle procedure tutelate, laddove l'art. 353 le indica specificamente nei pubblici incanti e nelle licitazioni private (ferma restando la già richiamata e consolidata interpretazione, nel senso della sufficienza della presenza di una gara, comunque denominata).
Anzi, la lettera della norma si riferisce al "contenuto del bando o di altro atto equipollente", dovendosi intendere per tale ogni atto che -così come recita la rubrica della norma- abbia l'effetto di avviare la procedura di scelta del contraente, venendo così in considerazione, sulla scorta di un'interpretazione di segno ampio, pienamente conforme alla ratio legis, anche la deliberazione a contrarre qualora la stessa, per effetto della illecita turbativa, non preveda l'espletamento di alcuna gara, bensì l'affidamento diretto ad un determinato soggetto economico.

Ed in tal senso si è già espressa la giurisprudenza di legittimità, a tale riguardo venendo in considerazione quanto leggesi nella parte motiva della sentenza n. 43800 del 23.10.2012 (sez. 6 - non massimata) e, più di recente, in Sez. 6, sent. n. 1 del 02.12.2014 - dep. 02.01.2015, Rv. 262917, ove appunto
si afferma, alla stregua delle medesime argomentazioni sopra illustrate, non esservi dubbio che, nella nozione di "atto equipollente" di cui alla norma in esame, "rientra qualunque provvedimento alternativo al bando di gara, adottato per la scelta del contraente, ivi inclusi, pertanto, quelli statuenti l'affidamento diretto" (nella fattispecie, la Corte ha ritenuto tale "una delibera di proroga di contratto di appalto di servizi già in corso").
Le considerazioni che precedono risultano poi, se possibile, ancor più pregnanti rispetto alla vicenda in esame, ove si consideri che il capo d'incolpazione sub m) è esplicito nel significare
come la procedura di affidamento diretto sia stata avviata in violazione della normativa stabilita dall'allora vigente "codice degli appalti" (d.lgs. n. 163/2006): ciò su cui il provvedimento del g.i.p. ampiamente si sofferma (v. pagg. 344 e ss. del provvedimento genetico, in particolare 346 e ss.) e che sembra trovare condivisione nella valutazione del Tribunale, che parla di "sospetto favoritismo per la ditta TE.", salvo poi scolorare per effetto della non corretta considerazione di ordine giuridico di cui si è detto (Corte di Cassazione, Sez. VI penale, sentenza 20.03.2017 n. 13432).

AMBIENTE-ECOLOGIABonifica dell'area, non è competenza del curatore. Tar Trento.
Non è il curatore che deve bonificare dall'amianto l'area a rischio, un tempo occupata dalla società fallita. O meglio: non può essere il comune a ordinare d'urgenza all'organo concorsuale i lavori per rimuovere i materiali contenenti la fibra-killer.
E ciò perché vale il principio eurounitario «chi inquina paga» e manca la prova che sia avvenuto dopo la declaratoria di insolvenza della società il superamento dei limiti di concentrazione dell'asbesto previsti dalle tabelle della normativa. Non bisogna dimenticare, infatti, che la curatela non risulta autorizzata all'esercizio provvisorio dell'azienda ex articolo 104 l.fall.

Con sentenza 20.03.2017 n. 93 il TRGA Trentino Alto Adige-Trento ha accolto il ricorso della professionista che si vede intimare dal sindaco opere di messa in sicurezza per oltre 220 mila euro, non sostenibili in base all'attivo patrimoniale.
L'ordine di bonifica, in realtà, riguarda un'attività anteriore alla dichiarazione di fallimento, che non può essere in alcun modo ricondotta al curatore. L'amianto è presente in dosi massicce nel capannone a partire dalla copertura e si presume che l'accomandatario della sas fallita sia a conoscenza dei materiali impiegati nella costruzione della struttura: il socio, fra l'altro, è stato subito nominato custode della struttura dal tribunale e senza successo il comune ha tentato in primis di ottenere la bonifica dall'imprenditore.
Inutile dunque per l'amministrazione prendersela con il curatore senza accertare il profilo soggettivo del dolo o della colpa nella condotta commissiva o omissiva (articolo ItaliaOggi del 23.03.2017).

CONSIGLIERI REGIONALI: Sulla finalità del diritto di accesso ad atti e documenti delle società partecipate dalla Regione da parte di un consigliere regionale.
Il diritto di accedere ad atti e documenti delle società partecipate dalla Regione da parte di un consigliere regionale è direttamente funzionale non tanto ad un interesse personale del consigliere, quanto alla cura di un interesse pubblico connesso al mandato conferito.
I consiglieri hanno, infatti, un non condizionato diritto di accesso a tutti gli atti che possano essere d'utilità all'espletamento del loro mandato, ciò anche al fine di permettere di valutare -con piena cognizione- la correttezza e l'efficacia dell'operato dell'Amministrazione, nonché per esprimere un voto consapevole sulle questioni di competenza del Consiglio, e per promuovere, anche nell'ambito del Consiglio stesso, le iniziative che spettano ai singoli rappresentanti del corpo elettorale locale; il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri, pertanto, ha una ratio diversa da quella che contraddistingue il diritto di accesso ai documenti amministrativi che è riconosciuto a chiunque sia portatore di un "interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l'accesso" (artt. 22 e ss. della l. n. 241 del 1990).
A differenza dei soggetti privati, il consigliere non è tenuto a motivare la richiesta, né l'Ente ha titolo per sindacare il rapporto tra la richiesta di accesso e l'esercizio del mandato, altrimenti gli organi dell'amministrazione sarebbero arbitri di stabilire essi stessi l'ambito del controllo sul proprio operato.
Inoltre, il diritto di avere dall'Ente tutte le informazioni che siano utili all'espletamento del mandato non incontra alcuna limitazione derivante dalla loro natura riservata, in quanto il consigliere è vincolato all'osservanza del segreto.
Gli unici limiti all'esercizio di tale diritto si rinvengono nel fatto che l'esercizio del diritto stesso avvenga in modo da comportare il minor aggravio possibile per gli uffici dell'Ente e che non si sostanzi in richieste assolutamente generiche o meramente emulative, fermo restando che la sussistenza di tali caratteri deve essere attentamente e approfonditamente vagliata in concreto al fine di non introdurre surrettiziamente inammissibili limitazioni al diritto di accesso dei consiglieri (TAR Lombardia-Milano, Sez. I, sentenza 17.03.2017 n. 656 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

APPALTI: Sull'ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara, per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del c.d. Codice degli appalti (d.lgs. n. 50/2016).
Alla luce della normativa dell'Ue, per le gare bandite anteriormente all'entrata in vigore del c.d. Codice degli appalti e delle concessioni (d.lgs. 18.04.2016, n. 50), nelle ipotesi in cui l'obbligo di indicazione separata dei costi di sicurezza aziendale non sia stato specificato dalla legge di gara e non sia in contestazione che dal punto di vista sostanziale l'offerta rispetti i costi minimi di sicurezza aziendale, l'esclusione del concorrente non può essere disposta se non dopo che lo stesso sia stato invitato a regolarizzare l'offerta dalla stazione appaltante nel doveroso esercizio dei poteri di soccorso istruttorio.
Inoltre, analogamente, ostano all'esclusione di un offerente dalla procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico a seguito dell'inosservanza, da parte di detto offerente, dell'obbligo di indicare separatamente nell'offerta i costi aziendali per la sicurezza sul lavoro, obbligo il cui mancato rispetto è sanzionato con l'esclusione dalla procedura e che non risulta espressamente dai documenti di gara o dalla normativa nazionale, bensì emerge da un'interpretazione di tale normativa e dal meccanismo diretto a colmare, con l'intervento del giudice nazionale di ultima istanza, le lacune presenti in tali documenti.
I principi della parità di trattamento e di proporzionalità devono inoltre essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di concedere a un tale offerente la possibilità di rimediare alla situazione e di adempiere detto obbligo entro un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 14.03.2017 n. 1166 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

ENTI LOCALIPartecipate, ok al Tu. Anzi no. Dubbi sui poteri del premier e dei governatori regionali. Parere favorevole del Consiglio di stato al decreto correttivo. Ma restano molti punti critici.
Un'occasione mancata. Questo è il giudizio che il Consiglio di stato dà del decreto correttivo al Testo unico Madia sulle società partecipate. Il provvedimento si limita infatti a dare esecuzione alla sentenza n. 251/2016 della Corte costituzionale che ha bocciato il T.u. (dlgs 175/2016) nella parte in cui non prevedeva l'intesa con le regioni, ma il semplice parere.

Palazzo Spada accoglie favorevolmente la previsione della necessità dell'intesa in Conferenza unificata con le regioni, intesa che peraltro sanerà tutte le disposizioni già vigenti così da assicurare la certezza dei rapporti in corso. Tuttavia, secondo i giudici amministrativi, il decreto non risolve le problematiche originarie del Testo unico che sono emerse subito dopo la sua entrata in vigore.
Nel parere 14.03.2017 n. 638 (Schema di decreto legislativo concernente "Disposizioni integrative e correttive al decreto legislativo 19.08.2016, n. 175, recante testo unico in materia di società a partecipazione pubblica"), che inaugura il nuovo giro di osservazioni sui decreti Madia-bis, palazzo Spada punta il dito sui difetti originari del T.u. a cui il governo avrebbe potuto porre rimedio con i decreti correttivi. Invece, dice il Consiglio di stato, non solo questo non è avvenuto, ma in alcuni punti il testo è stato ulteriormente peggiorato.
È il caso, per esempio, della norma, molto discussa, che attribuisce al presidente del consiglio il potere di escludere singole società dall'applicazione della riforma con un semplice provvedimento amministrativo. Palazzo Spada, aveva già messo in guardia da una possibile violazione del principio di legalità e aveva espresso dubbi sulla coerenza di una disposizione del genere con la legge delega (legge n. 124/2015). Con il correttivo, però, il governo ha fatto peggio e ha esteso tale potere derogatorio anche ai presidenti delle regioni. Una modifica definita «grave», secondo il Cds, «perché consentirebbe a un'autorità regionale di derogare, con un suo provvedimento, a una disciplina statale generale propria dell'ordinamento civile».
Altro punto debole, secondo il Cds, si rinviene le disposizioni sulla responsabilità degli amministratori delle società partecipate che secondo palazzo Spada continuano a generare incertezze sul riparto di competenze tra giudice civile e giudice contabile. Un'altra contraddizione irrisolta del decreto correttivo riguarda la fallibilità delle società pubbliche, prevista dal T.u., che mal si concilia, secondo il Consiglio di stato, con la norma che impone alle amministrazioni locali partecipanti di accantonare nel bilancio un importo pari al risultato negativo non immediatamente ripianato delle società in house. A giudizio del Cds ciò «negherebbe in radice la possibilità per le società in house di fallire» e potrebbe risolversi anche in un indebito aiuto di stato. Ma l'elenco delle correzioni suggerite non finisce qui.
Sarebbe necessario, si legge nel parere, unificare la disciplina in tema di enti in house (oggi collocata, con qualche difformità, sia nel T.u. sulle società partecipate sia nel codice dei contratti pubblici) e chiarirne soprattutto gli aspetti relativi alle modalità di scelta del socio privato. Bisognerebbe poi specificare con chiarezza che il Codice appalti (dlgs 50/2016) si applica anche agli acquisti di beni e servizi da parte delle società pubbliche.
E infine sarebbe cruciale irrobustire i poteri di intervento, di controllo e di monitoraggio del ministero della Funzione pubblica contro le elusioni della riforma soprattutto nella fase transitoria che dovrà essere portata a termine entro il 30.06.2017. Come si ricorderà, (si veda ItaliaOggi del 18/02/2017) il decreto correttivo ha fatto slittare dal 23.03. al 30.06.2017 il termine per la ricognizione delle partecipazioni possedute, propedeutica alla razionalizzazione.
Slitterà al 30.06.2017 anche il termine entro il quale le società a controllo pubblico dovranno effettuare la ricognizione del personale in servizio, per individuare eventuali esuberi. Per l'adeguamento degli statuti ci sarà tempo fino al 31.07.2017 (articolo ItaliaOggi del 15.03.2017).

APPALTIAvvalimento infragruppo, basta una dichiarazione. Legittimo senza depositare il contratto.
L'avvalimento fra società appartenenti allo stesso gruppo di imprese è legittimo anche senza produzione del contratto di avvalimento; è sufficiente una dichiarazione che attesti il legame societario di partecipazione fra gruppo e società ausliaria.

È quanto ha precisato il TRGA Trentino Alto Adige-Bolzano con la sentenza 14.03.2017 n. 99 che esamina una fattispecie in cui il ricorrente contestava la validità dell'avvalimento da parte di un gruppo imprenditoriale (Tüv Süd) che non aveva depositato il relativo contratto di avvalimento, con il quale la Tüv Süd NL si obbliga a mettere a disposizione della capogruppo le proprie prestazioni.
Il collegio giudicante, dopo avere inquadrato il caso nell'ambito della disciplina dettata dall'articolo 89 del codice dei contratti pubblici (decreto 50/2016), smentisce la tesi del ricorrente affermando che «è pacifico che non è necessaria la stipulazione di un contratto di avvalimento, ma è sufficiente che l'impresa capogruppo dimostri il legame societario intercorrente tra essa stessa e l'impresa ausiliaria».
In passato infatti la giurisprudenza aveva già accordato un regime probatorio e documentale semplificato in favore delle imprese appartenenti al medesimo gruppo societario che possono quindi partecipare alla gara per l'affidamento di un contratto pubblico con una semplice dichiarazione attestante il legame con la società di cui si utilizzano i requisiti di partecipazione.
Questo regime, precisa la giurisprudenza citata dai giudici di Bolzano, vale per tutte le imprese del gruppo e quindi sarebbe illegittimo limitarne la portata alle sole imprese ausiliarie controllanti o direttamente partecipanti e ancora capogruppo; in altre parole non sussistono limiti di tipo soggettivo perché quel che conta è il controllo direzionale societario tra capogruppo e partecipata.
E l'avvalimento infragruppo è ammesso qualunque sia la posizione nel gruppo, controllata o controllante. Si tratta di una posizione assolutamente in linea con la giurisprudenza comunitaria che già nel 1994 (sentenza Ballast Noedam groep) e poi nel 1999 (sent. C-176) ammise l'utilizzo dei requisiti di una società del gruppo, aprendo la strada alla codificazione di questa possibilità nelle direttiva Ue 2004/18 (articolo ItaliaOggi del 24.03.2017).

EDILIZIA PRIVATAIn sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, segnatamente, in sede di esame sull’effettiva disponibilità giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio, sussiste bensì l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei presupposti privatistici, ma soltanto alla condizione che tali presupposti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei presupposti medesimi, senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici.
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Il Comune procedente legittimamente si è limitato a prendere atto della sussistenza, in astratto, del diritto di proprietà, senza necessità di procedere ad un'accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici.
Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la necessità di procedere a una particolare istruttoria civilistica, rientrando la presenza di eventuali limiti alla proprietà o la supposta pretesa di lesioni di diritti soggettivi nell’ambito delle controversie tra privati, che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi, senza riflessi sulla legittimità degli atti autorizzatori dell’esercizio dello “ius edificandi”.
Com’è noto, il titolo abilitativo viene rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi, in base all’articolo 11, comma 3, del testo unico numero 380 del 2001, in quanto la funzione del permesso di costruire è quella di rimuovere un ostacolo alla libera esplicazione del diritto ad edificare del privato, per cui esso definisce unicamente i rapporti tra l’amministrazione e il privato richiedente in ordine allo svolgimento dell’attività oggetto del provvedimento, ma non ha efficacia nei confronti dei terzi.
Ne consegue che il terzo che si ritenga danneggiato dall’esecuzione dell’opera, nonostante il rilascio del permesso di costruire, ben può agire ricorrendo al giudice ordinario per la tutela delle proprie situazioni di diritto soggettivo.
Ciò anche nell’ipotesi, verificatasi nella fattispecie concreta, in cui l’estensione delle opere realizzate possa essere stata determinata, indirettamente, dall’esercizio del diritto di proprietà su un’area non interamente appartenente ai costruttori.
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A giudizio del Collegio, la censura è infondata.
Per un condivisibile orientamento della giurisprudenza, in sede di rilascio del titolo abilitativo edilizio, segnatamente, in sede di esame sull’effettiva disponibilità giuridica del bene oggetto dell’intervento edificatorio, sussiste bensì l’obbligo per il Comune di verificare il rispetto da parte dell’istante dei presupposti privatistici, ma soltanto alla condizione che tali presupposti siano effettivamente conosciuti o immediatamente conoscibili o non contestati, di modo che il controllo da parte dell’ente locale si traduca in una semplice presa d’atto dei presupposti medesimi, senza necessità di procedere ad un’accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici (v., ex plurimis, Cons. Stato, Sez. VI, 28.09.2012, n. 5128; Cons. Stato, Sez. VI, 20.12.2011, n. 6731; Cons. Stato, Sez. IV, 04.05.2010, n. 2546; Cons. Stato, Sez. VI, 21.11.2016 n. 4861).
Nella fattispecie, la società controinteressata, nel presentare la domanda di concessione edilizia, ha allegato gli atti di acquisto del fondo sul quale intendeva costruire.
In particolare, per quanto riguarda la contestata particella numero 237, la società immobiliare ha esibito l’atto notarile del 19.07.2001, numero di repertorio 3130, di acquisto, per complessivi metri quadrati 1080, delle aree distinti al catasto alle particelle numero 237, numero 381 e numero 912, ad essa vendute dalla società “Costruzioni in ferro e metalli”, cui le stesse erano pervenute in virtù di scrittura privata autenticata da notaio il 06.07.1974, numero di repertorio 79102.
In tali atti non vi era traccia della strada privata su cui il condominio ricorrente ha inteso fondare il ricorso, né era stata fino ad allora contestata la proprietà della particella corrispondente nei confronti dei privati danti causa della società immobiliare.
Ne deriva che il Comune procedente legittimamente si è limitato a prendere atto della sussistenza, in astratto, del diritto di proprietà, senza necessità di procedere ad un'accurata e approfondita disanima dei rapporti civilistici.
Non vi è, infatti, da parte dell’Amministrazione la necessità di procedere a una particolare istruttoria civilistica, rientrando la presenza di eventuali limiti alla proprietà o la supposta pretesa di lesioni di diritti soggettivi nell’ambito delle controversie tra privati, che gli stessi privati potranno difendere nelle opportune sedi, senza riflessi sulla legittimità degli atti autorizzatori dell’esercizio dello “ius edificandi”.
Com’è noto, il titolo abilitativo viene rilasciato con salvezza dei diritti dei terzi, in base all’articolo 11, comma 3, del testo unico numero 380 del 2001, in quanto la funzione del permesso di costruire è quella di rimuovere un ostacolo alla libera esplicazione del diritto ad edificare del privato, per cui esso definisce unicamente i rapporti tra l’amministrazione e il privato richiedente in ordine allo svolgimento dell’attività oggetto del provvedimento, ma non ha efficacia nei confronti dei terzi.
Ne consegue che il terzo che si ritenga danneggiato dall’esecuzione dell’opera, nonostante il rilascio del permesso di costruire, ben può agire ricorrendo al giudice ordinario per la tutela delle proprie situazioni di diritto soggettivo.
Ciò anche nell’ipotesi, verificatasi nella fattispecie concreta, in cui l’estensione delle opere realizzate possa essere stata determinata, indirettamente, dall’esercizio del diritto di proprietà su un’area non interamente appartenente ai costruttori.
Sotto questo profilo, dunque, deve essere esclusa la illegittimità del provvedimento impugnato, salve le azioni anche risarcitorie esperibili dai soggetti privati ingiustamente danneggiati (TAR Lazio-Roma, Sez. II-bis, sentenza 13.03.2017 n. 3432 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

LAVORI PUBBLICIP.f., non è vincolante il pubblico interesse. Nessun obbligo di gara per la p.a..
In un project finance la dichiarazione di pubblico interesse non vincola la stazione appaltante all'avvio della gara per affidare la concessione.

Lo ha precisato il Consiglio di Stato, Sez. V con la sentenza 13.03.2017 n. 1139 in merito alla natura e agli effetti delle valutazioni realizzate dall'amministrazione procedente nell'ambito delle procedure di project financing che si caratterizzano per la loro discrezionalità di tipo tecnico e di tipo amministrativo.
Ricorda la sentenza che era già stato chiarito che, anche una volta dichiarata di pubblico interesse una proposta di realizzazione di lavori pubblici e individuato quindi il promotore privato, l'amministrazione non è per ciò stesso tenuta a dare corso alla procedura di gara per l'affidamento della relativa concessione. La scelta è espressione di discrezionalità amministrativa oggetto di valutazioni concernenti l'effettiva esistenza di un interesse pubblico alla realizzazione dell'opera che sfuggono al sindacato giurisdizionale amministrativo.
I giudici hanno chiarito che ciò non significa che, all'indomani dell'individuazione del promotore (e quindi della proposta considerata come di pubblico interesse), residui in capo all'amministrazione un'incondizionata facoltà di recesso della procedura; ciò sarebbe contrario ai generali canoni di ragionevolezza e buona fede.
Deve però essere chiaro, dice la sentenza, che nell'ambito delle procedure di finanza di progetto grava tanto sull'amministrazione quanto sul soggetto proponente l'onere di collaborare in modo pieno al fine di individuare soluzioni giuridicamente e finanziariamente sostenibili.
Ne consegue che non si possono far gravare soltanto sull'amministrazione le conseguenze della negativa conclusione della procedura laddove il proponente, pur se consapevole delle criticità connesse ad alcuni aspetti qualificanti della proposta, abbia nondimeno insistito (e in modo consapevole) su tali aspetti, in tal modo contribuendo in modo determinante al giudizio negativo infine espresso dal Cipe e alla scelta per una diversa opzione realizzativa (articolo ItaliaOggi del 17.03.2017).
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MASSIMA
2. In primo luogo occorre confermare la correttezza del richiamo operato dal primo Giudice all’orientamento secondo cui,
nella materia della finanza di progetto ai sensi degli articoli 153 e seguenti del decreto legislativo 12.04.2006, n. 163 (nonché in relazione alla particolare forma di finanza di progetto di cui all’articolo 175 del medesimo ‘Codice’ per le cc.dd. ‘grandi opere’), risulta legittima l’esclusione del progetto presentato dal promotore nel caso di –legittima– valutazione negativa in ordine anche ad uno soltanto dei parametri di valutazione, spettando invero all’amministrazione procedente (e in ultima analisi al CIPE) stabilire se il progetto proposto risulti in generale idoneo a soddisfare l’interesse pubblico al cui perseguimento la procedura è nel suo complesso finalizzata (è stata correttamente richiamata al riguardo la sentenza di questo Consiglio 25.06.2010, n. 4084).
Allo stesso modo la sentenza in epigrafe ha correttamente richiamato l’orientamento secondo cui
le valutazioni realizzate dall’amministrazione procedente nell’ambito delle procedure di project financing sono caratterizzate sia da una discrezionalità di tipo tecnico (in relazione alle complesse valutazioni inerenti gli aspetti economico-finanziari, progettuali e ambientali delle proposte), sia da una discrezionalità di tipo amministrativo (in relazione alle valutazioni relative al più adeguato perseguimento dell’interesse pubblico e alla scelta fra le diverse opzioni a tal fine percorribili, ivi compresa la c.d. ‘opzione zero’).
La giurisprudenza di questo Consiglio ha recentemente chiarito che,
anche una volta dichiarata di pubblico interesse una proposta di realizzazione di lavori pubblici ed individuato quindi il promotore privato, l'amministrazione non è per ciò stesso tenuta a dare corso alla procedura di gara per l'affidamento della relativa concessione.
La scelta in questione costituisce infatti una tipica manifestazione di discrezionalità amministrativa nella quale sono implicate ampie valutazioni in ordine all'effettiva esistenza di un interesse pubblico alla realizzazione dell'opera, tali da non potere essere rese coercibili nell'ambito del giudizio di legittimità che si svolge in sede giurisdizionale amministrativa (in tal senso: Cons. Stato, V, 21.06.2016, n. 2719. In termini analoghi: III, 20.03.2014, n. 1365).
La premessa in questione, invero riferita ad orientamenti ben noti e consolidati, si rende invece necessaria in quanto numerosi degli argomenti profusi (anche) nella presente sede dalla parte appellante sembrano far coincidere l’obbligo per l’amministrazione procedente di esaminare la proposta del promotore in modo corretto e adeguato con una sorta di immanente obbligo di assentire comunque la proposta, determinando in caso contrario una sorta di responsabilità in re ipsa a carico dell’amministrazione stessa.
La richiamata prospettazione sembra quindi voler innestare a carico dell’amministrazione una sorta di immanente responsabilità per il caso di mancata approvazione del progetto, senza apparentemente considerare che, nella particolare disciplina della finanza di progetto, tale evenienza (pur se non fisiologica, né auspicabile) rappresenta pur sempre una delle opzioni in campo e che spetta allo stesso modo all’amministrazione e al promotore il compito di porre in essere ogni sforzo al fine di scongiurare tale (comunque possibile) esito.
Non si intende con ciò dire che, all’indomani dell’individuazione del promotore (e quindi della proposta considerata come ‘di pubblico interesse’), residui in capo all’amministrazione un’incondizionata facoltà di recesso ad nutum della procedura (il che risulterebbe evidentemente contrario ai generali canoni di ragionevolezza e buona fede che connotano anche questo settore dell’ordinamento).
Si intende però chiarire che,
nell’ambito delle procedure del tipo di quella per cui è causa, grava tanto sull’amministrazione quanto sul soggetto proponente l’onere di collaborare in modo pieno al fine di individuare soluzioni giuridicamente e finanziariamente sostenibili.
Ne consegue che non si possono far gravare soltanto sull’amministrazione le conseguenze della negativa conclusione della procedura laddove il proponente, pur se consapevole delle criticità connesse ad alcuni aspetti qualificanti della proposta, abbia nondimeno insistito (e in modo consapevole) su tali aspetti, in tal modo contribuendo in modo determinante al giudizio negativo infine espresso dal CIPE e alla scelta per una diversa opzione realizzativa.

EDILIZIA PRIVATARiguardo ai caratteri del gazebo in questione, esteso circa 110 mq, il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Infatti, la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo.
Sotto tale aspetto, per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione il manufatto per cui è causa è riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001, a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, non possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante.
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione.

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1. Con istanza del 05.05.2013 la signora An.Ma.Ma. ha chiesto al Sindaco di Mangone di essere autorizzata all’installazione stagionale di un gazebo rimovibile con telo plastificato.
Con nota del 12.06.2003 il Responsabile del Servizio presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mangone ha comunicato alla ricorrente il “diniego della domanda di autorizzazione edilizia”, ritenuta in contrasto con l’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione del Comune di Magone, in quanto non rispettosa delle distanze dai confini e dalle strade.
Nonostante tale diniego, l’odierna ricorrente ha ugualmente effettuato il montaggio del gazebo nella proprietà privata del suocero Cr.Ma..
2. In data 03.07.2003 è stata notificata al Cr. ordinanza di ingiunzione-demolizione della tendostruttura, in quanto realizzata abusivamente, in assenza della prescritta autorizzazione edilizia.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti hanno l’annullamento del provvedimenti, per i vizi di violazione di legge, con riferimento all’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione del Comune di Mangone e all’art. 10 della L. 47/1985, nonché per eccesso di potere per presupposto erroneo, travisamento del fatto e illogicità.
Il gazebo in questione non sarebbe una costruzione, trattandosi di struttura precaria e facilmente smontabile. Non sarebbe stato, pertanto, necessario un provvedimento autorizzativo, che, tuttavia, è stato negato.
...
7. Il ricorso principale è infondato e deve essere rigettato.
Riguardo ai caratteri del gazebo in questione, esteso circa 110 mq, il Collegio ritiene di richiamare l’orientamento –da quale non si rinvengono elementi per discostarsi– secondo cui i manufatti non precari, ma funzionali a soddisfare esigenze permanenti, vanno considerati come idonei ad alterare lo stato dei luoghi, con un sicuro incremento del carico urbanistico, a nulla rilevando la precarietà strutturale del manufatto, la rimovibilità della struttura e l’assenza di opere murarie, posto che il manufatto non precario (es.: gazebo o chiosco) non è deputato ad un suo uso per fini contingenti, ma è destinato ad un utilizzo destinato ad essere reiterato nel tempo in quanto stagionale.
Si è condivisibilmente osservato al riguardo che la precarietà dell’opera, che esonera dall’obbligo del possesso del permesso di costruire, postula un uso specifico e temporalmente limitato del bene e non la sua stagionalità, la quale non esclude la destinazione del manufatto al soddisfacimento di esigenze non eccezionali e contingenti, ma permanenti nel tempo (in tal senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 22.12.2007, n. 6615).
Sotto tale aspetto, il Collegio ritiene che per le sue caratteristiche tipologiche e funzionali, nonché in considerazione del regime temporale della relativa utilizzazione il manufatto per cui è causa sia riconducibile alle previsioni di cui alla lettera e.5) del comma 1 dell’articolo 3 d.P.R. n. 380 del 2001, a tenore del quale sono comunque da considerarsi nuove costruzioni le installazioni di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere che siano usati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, “e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee”.
Al riguardo, giova qui richiamare il condiviso orientamento secondo cui non possono comunque essere considerati manufatti destinati a soddisfare esigenze meramente temporanee quelli destinati a un’utilizzazione perdurante nel tempo, di talché l’alterazione del territorio non può essere considerata temporanea, precaria o irrilevante (Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; id., VI, 12.02.2011, n. 986; id., V, 12.12.2009, n. 7789; id., V, 24.02.2003, n. 986; id., V, 24.02.1996, n. 226).
Nemmeno si può ritenere che la sola stagionalità dell’installazione del manufatto per cui è causa (destinato ad occupare circa 110 mq.) conferisca al manufatto nel suo complesso il carattere di “temporaneità”, atteso il carattere ontologicamente “non temporaneo” di una struttura destinata all’esercizio di un’attività commerciale e di somministrazione (in tal senso: Cons. Stato, VI, 03.06.2014, n. 2842; Cons. Stato, IV, 23.07.2009, n. 4673).
Tanto premesso, deve ritenersi legittimo l’operato dell’Amministrazione intimata che ha correttamente configurato come costruzione il manufatto in oggetto e ha, pertanto, negato il titolo abilitativo in quanto l’opera non era conforme al Programma di fabbricazione del Comune per il mancato rispetto delle distanze dei confini e delle strade.
Alla legittimità del diniego dell’autorizzazione consegue la legittimità dell’ordinanza di demolizione impugnata in quanto l’opera è stata eseguita in assenza della prescritta concessione edilizia (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.03.2017 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

EDILIZIA PRIVATA: L’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere giustificata dalla circostanza che le opere abusive siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del Comune.
Altresì, il ricorso con cui è stato impugnato l’atto di determinazione di sgombero ed acquisizione al patrimonio comunale è ugualmente infondato in quanto tale provvedimento si configura come atto dovuto una volta accertata l’inottemperanza all’ordine di demolizione.

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1. Con istanza del 05.05.2013 la signora An.Ma.Ma. ha chiesto al Sindaco di Mangone di essere autorizzata all’installazione stagionale di un gazebo rimovibile con telo plastificato.
Con nota del 12.06.2003 il Responsabile del Servizio presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mangone ha comunicato alla ricorrente il “diniego della domanda di autorizzazione edilizia”, ritenuta in contrasto con l’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione del Comune di Magone, in quanto non rispettosa delle distanze dai confini e dalle strade.
Nonostante tale diniego, l’odierna ricorrente ha ugualmente effettuato il montaggio del gazebo nella proprietà privata del suocero Cr.Ma..
2. In data 03.07.2003 è stata notificata al Cr. ordinanza di ingiunzione-demolizione della tendostruttura, in quanto realizzata abusivamente, in assenza della prescritta autorizzazione edilizia.
Con il ricorso in epigrafe i ricorrenti hanno l’annullamento del provvedimenti, per i vizi di violazione di legge, con riferimento all’art. 8, lett. d), del Piano di fabbricazione del Comune di Mangone e all’art. 10 della L. 47/1985, nonché per eccesso di potere per presupposto erroneo, travisamento del fatto e illogicità.
Il gazebo in questione non sarebbe una costruzione, trattandosi di struttura precaria e facilmente smontabile. Non sarebbe stato, pertanto, necessario un provvedimento autorizzativo, che, tuttavia, è stato negato.
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8. Deve rilevarsi l’infondatezza del motivo di cui al primo ricorso per motivi aggiunti con cui è stato impugnato il verbale di accertamento di inottemperanza all’ordinanza di demolizione, con cui si è rilevato che tale atto non può essere adottato in pendenza di ricorso avverso l’ordinanza di demolizione. In assenza di provvedimento giurisdizionale di sospensione tale ultimo atto esplica pienamente i suoi effetti, per cui il destinatario è tenuto a eseguirlo.
Per identiche ragioni analoghe è infondato il secondo motivo, con cui i ricorrenti hanno dedotto che l’eventuale demolizione del manufatto comprometterebbe il proprio diritto di difesa da esercitare in sede di giudizio penale e di giudizio amministrativo.
Del tutto infondato il rilievo secondo cui, in presenza di sequestro, non era possibile procedere alla demolizione.
La giurisprudenza ha, infatti, precisato che l’inottemperanza all’ordine di demolizione non può essere cioè giustificata dalla circostanza che le opere abusive siano state oggetto di sequestro adottato dall’Autorità giudiziaria, in quanto nelle ipotesi suddette è sempre possibile richiedere il dissequestro allo scopo di eseguire l’ordine stesso, sfuggendo al rischio dell’acquisizione di diritto del bene e dell’area di sedime al patrimonio del Comune (tra le altre, Cons. Stato, sez. VI, 28.01.2016 n. 335).
9. Il secondo ricorso per motivi aggiunti, con cui è stato impugnato l’atto di determinazione di sgombero ed acquisizione al patrimonio comunale, è ugualmente infondato in quanto tale provvedimento si configura come atto dovuto una volta accertata l’inottemperanza all’ordine di demolizione (TAR Calabria-Catanzaro, Sez. I, sentenza 13.03.2017 n. 409 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

CONSIGLIERI COMUNALI - PUBBLICO IMPIEGOL'ineleggibilità si annulla in cinque giorni.
Le dimissioni dal rapporto di servizio con la p.a. del candidato consigliere regionale che versi in una situazione di ineleggibilità hanno effetto, se non accettate prima dall'amministrazione, dal quinto giorno successivo alla presentazione anziché immediatamente.

Lo ha ribadito la Corte Costituzionale con la sentenza 10.03.2017 n. 56 depositata ieri in cancelleria.
Nella pronuncia la Consulta ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 5, della legge n. 154/1981 sollevata dalla Corte d'appello di Catanzaro chiamata a pronunciarsi sulla decadenza di un consigliere regionale della Calabria.
Per la Consulta la norma è legittima perché contempera la regola generale in base alla quale per la cessazione da cariche o uffici pubblici è richiesta la presa d'atto ovvero l'accettazione da parte della p.a., con l'esigenza che l'interessato sia posto nelle condizioni di rimuovere la causa di ineleggibilità con atti e comportamenti propri senza che questi possano essere vanificati dall'inerzia o dai ritardi della p.a. (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2017).

PUBBLICO IMPIEGO: In merito al licenziamento per giusta causa di un dipendente pubblico per la violazione del sistema di rilevazione delle presenze.
Costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso.
Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta.

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Da ciò discende che l'esame verrà limitato alle censure adeguatamente illustrate nel motivo, con il quale il ricorrente, oltre a riproporre questioni già prospettate nella prima censura, addebita sostanzialmente alla sentenza impugnata la violazione del principio della immutabilità, a suo dire violato perché l'addebito originario si riferiva alla sola sovrapposizione degli orari e non menzionava la falsa attestazione della presenza in servizio, fatto, questo, posto a fondamento del recesso per giusta causa.
La censura è infondata.
Nel procedimento disciplinare la contestazione non obbedisce ai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell'accusa nel processo penale, né si ispira ad uno schema precostituito e a una regola assoluta e astratta, "ma si modella in relazione ai principi di correttezza che informano un rapporto interpersonale che già esiste tra le parti, ed è funzionalmente e teleologicamente finalizzata alla esclusiva soddisfazione dell'interesse dell'incolpato ad esercitare pienamente il diritto di difesa" (Cass. 30.12.2009 n. 27842).
Dalla finalità che la contestazione realizza questa Corte ha tratto la conseguenza che non interferisce con il principio della immutabilità la diversa qualificazione giuridica del fatto addebitato, giacché il diritto di difesa è leso solo qualora a fondamento dell'atto di recesso vengano poste circostanze diverse da quelle addebitate, in relazione alle quali il lavoratore non sia stato in grado di rappresentare la propria posizione.
L'indagine comparativa che il giudice del merito è chiamato ad effettuare non deve, pertanto, arrestarsi alla formulazione letterale dei due atti a confronto, ma deve riguardare gli aspetti sostanziali della condotta e deve considerare che una circostanza in tanto può essere ritenuta "nuova" in quanto la stessa esuli dall'originario atto di incolpazione. Ciò non si verifica allorquando il fatto in relazione al quale il licenziamento viene intimato può essere ricompreso nella contestazione, della quale costituisce specificazione, effettuata all'esito del procedimento disciplinare e delle difese svolte dall'incolpato.
Il ricorso, per sostenere la violazione del principio della immutabilità, fa leva solo sul tenore letterale dei due atti, lì dove, al contrario, la Corte territoriale ha correttamente valorizzato la funzione della contestazione, rilevando che all'esito della proceduta la ASL aveva individuato l'ipotesi normativa applicabile alla fattispecie, senza violare in alcun modo il diritto di difesa del Di Fo., che aveva interloquito su tutti gli aspetti della vicenda, e senza modificare la materialità del fatti, in quanto la "falsa attestazione della presenza in servizio" era sostanzialmente corrispondente alla sovrapposizione di orari originariamente contestata.
Le conclusioni alle quali il giudice di appello è pervenuto, incensurabili in sede di legittimità quanto al giudizio di fatto, risultano rispettose dei principi di diritto sopra enunciati, con conseguente infondatezza del motivo di ricorso.
3 - Non sussiste la denunciata violazione dell'art. 55-quater del d.lgs. n. 165 del 2001, giacché la interpretazione data alla norma dalla sentenza impugnata è conforme alla giurisprudenza di questa Corte, alla quale il Collegio intende dare continuità (Cass. nn. 17637, 17259, 24574 del 2016).
E' stato, infatti, affermato che
la chiara formulazione della disposizione (nel testo applicabile ratione temporis alla vicenda dedotta in giudizio, realizzatasi prima delle modifiche introdotte dall'art. 3, c. 1, del D.Lgs. 116/2016) e anche la sua ratio, evincibile dall'obiettivo, enunciato nel comma 1 dell'art. 67 del D.Lgs. n. 150 del 2009, di "potenziamento del livello di efficienza degli uffici pubblici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività e di assenteismo", inducono a ritenere che la registrazione effettuata attraverso l'utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell'intervallo compreso tra le timbrature in entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio.
La condotta che si compendia nell'allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili è, infatti, idonea oggettivamente a indurre in errore l'amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro e costituisce, altresì, condotta penalmente rilevante ai sensi del c. 1 dell'art. 55-quinquies del D.Lgs n. 165 del 2001.
3.1 - Questa Corte ha anche evidenziato che utili elementi a conforto della esegesi accolta possono desumersi dall'art. 3, c. 1, del D.Lgs. n. 116 del 2016.
Tale norma ha introdotto nell'art. 55-quater il comma 1-bis che dispone "
costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l'amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell'orario di lavoro dello stesso. Della violazione risponde anche chi abbia agevolato con la propria condotta attiva o omissiva la condotta fraudolenta".
E' certo innegabile che l'intervento additivo, sicuramente non qualificabile come fonte di interpretazione autentica, non ha efficacia retroattiva; è nondimeno indiscutibile la potestà del legislatore di produrre norme aventi finalità chiarificatrici, idonee, sia pure senza vincolare per il passato, ad orientare l'interprete nella lettura di norme preesistenti, in applicazione del principio di unità ed organicità dell'ordinamento giuridico (Cass. SSUU n. 18353/2014).
Del tutto correttamente, pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che nella fattispecie dedotta in giudizio ricorresse l'ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente, essendo "incontestato che il Di Fo., pur risultando continuativamente in servizio, di fatto si allontanava negli orari di visita presso la struttura convenzionata, senza procedere alla timbratura della scheda magnetica, così attestando falsamente la propria presenza sul luogo di lavoro" (Corte di Cassazione, Sez. lavoro, sentenza 09.03.2017 n. 6099).

APPALTI: Sul principio di rotazione nelle procedure di affidamento di servizi definite semplificate, ex art. 36 del DLgs n. 50/2016.
L'orientamento della giurisprudenza in relazione alle procedure di affidamento di servizi, ex art. 36 del DLgs n. 50/2016, definite "semplificate", è nel senso del riconoscimento dell'ampia discrezionalità dell'Amministrazione anche nella fase dell'individuazione delle ditte da consultare e, quindi, della negazione della sussistenza di un diritto in capo a qualsiasi operatore del settore ad essere invitato alla procedura. Inoltre la marcata discrezionalità che connota la predetta procedura è temperata da alcuni princìpi, tra i quali la trasparenza come antidoto preventivo a comportamenti arbitrari e, più in generale, alla questione "corruzione" e la rotazione funzionale ad assicurare l'avvicendamento delle imprese affidatarie per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo.
Se è vero che il principio di rotazione nella procedura di cottimo fiduciario non ha una valenza precettiva assoluta nel senso di vietare alle stazioni appaltanti, sempre e comunque, l'aggiudicazione all'affidatario del servizio uscente -il combinato disposto dagli artt. 36, I c. e 30, I c. del codice degli appalti pone, infatti, sullo stesso piano i principi di concorrenza e di rotazione, per cui, di primo acchito, non parrebbe sussistano ostacoli ad invitare (anche) il gestore uscente del servizio a prendere parte al nuovo confronto concorrenziale, e ciò alla stregua del criterio della massima partecipazione-, la previsione di tale principio, tuttavia, a meno di non volerne vanificare la sua valenza, privilegia indubbiamente l'affidamento a soggetti diversi da quelli che in passato hanno svolto il servizio stesso, e ciò con l'evidente scopo di evitare la formazione di rendite di posizione e conseguire, così, un'effettiva concorrenza (che sarebbe altresì frustrata dalla posizione di vantaggio in cui si trova l'operatore uscente, a perfetta conoscenza della strutturazione del servizio da espletare).
La rotazione, che nei contratti sotto soglia è la regola e non l'eccezione, si configura come strumento idoneo a perseguire l'effettività del principio di concorrenza e, per essere efficace e reale, comporta, sussistendone i presupposti (e cioè l'esistenza di diversi operatori del settore), l'esclusione dall'invito di coloro che siano risultati aggiudicatari di precedenti procedure dirette all'assegnazione di un appalto avente lo stesso oggetto di quello da aggiudicare.
L'episodica, mancata applicazione del principio di rotazione non vale ex se, in linea di massima, ad inficiare gli esiti di una gara già espletata, una volta che questa si sia conclusa con l'aggiudicazione in favore di un soggetto già in precedenza affidatario del servizio e sia comprovato che la gara sia stata effettivamente competitiva, si sia svolta nel rispetto dei principi di trasparenza e di imparzialità e si sia conclusa con l'individuazione dell'offerta più vantaggiosa per la stazione appaltante (TAR Campania-Napoli, Sez. II, sentenza 08.03.2017 n. 1336 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

EDILIZIA PRIVATACirca la produzione tardiva del DURC va evidenziato che il comma 9 dell’art. 82 della L.R. n. 1/2005 prescrive l’obbligo per il committente di inoltrare lo stesso DURC, contestualmente alla comunicazione di inizio dei lavori.
La sua mancata produzione costituisce una causa ostativa all’inizio dei lavori, mentre il comma 12 dell’art. 82 sancisce che la violazione dell’obbligo sopra citato costituisce una causa di sospensione dell’efficacia del permesso di costruire.
Ne consegue che a fronte di un DURC che conteneva un’indicazione erronea circa la data di inizio delle opere, l’Amministrazione comunale non poteva che sospendere i lavori relativi al permesso di costruire sopra citato.
Nemmeno può condividersi l’impostazione in base alla quale la produzione tardiva del DURC, poi integrato, avrebbe reso il permesso di costruire nuovamente efficace.
Tale impostazione, invero, contrasta con il contenuto dell’art. 15 del Dpr 380/2001 nella parte in cui sancisce la decadenza automatica nell’eventualità del mancato inizio dei lavori entro un anno dal rilascio del permesso di costruire.
Costituisce infatti orientamento consolidato che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire è un provvedimento avente carattere strettamente vincolato, avendo una natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire.

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E' dirimente constatare che sussistono elementi di prova e circostanze del tutto univoche a conferma del fatto che i lavori non fossero effettivamente iniziati entro il termine di legge.
La ricorrente, nell’intento di comprovare l’avvenuto inizio dei lavori, deposita la fattura di un’impresa dalla quale si evince che fossero state commissionate l’esecuzione delle seguenti opere: "formazione del cantiere presso lo stabilimento consistenti in uno sbancamento, recinzioni del terreno, nonché formazione del ponteggio a telai prefabbricati lungo il lato ovest del fabbricato. Fornitura di materiale arido di riempimento”.
Anche laddove si volesse attribuire rilievo decisivo a detta documentazione è evidente che le opere realizzate sono del tutto insufficienti ad integrare quella radicale trasformazione dei luoghi richiesta dalla Giurisprudenza.
Si è affermato, infatti, che al fine di impedire la decadenza del permesso di costruire l'avvio delle opere deve essere reale ed effettivo, manifestazione di un serio e comprovato intento di esercitare il diritto ad edificare, e non solo apparente o fittizio, volto al solo scopo di evitare la temuta perdita di efficacia del titolo, con conseguente irrilevanza, della ripulitura del sito, dell'approntamento del cantiere e dei materiali occorrenti per l'esecuzione dei lavori nell'immobile, dello sbancamento del terreno.
Si consideri, ancora, che dalle foto satellitari riconducibili alle date del 30.08.2006 e del 24.09.2008, depositate dall’Amministrazioni comunale, è emersa l’assoluta identità dei luoghi senza che fosse possibile evincere (anche nel periodo di tempo più recente) l’esistenza di opere o anche solo di macchinari e recinzioni, queste ultime necessariamente propedeutiche allo svolgimento dei lavori di cui si tratta.
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Con il presente ricorso si è impugnato il provvedimento del Comune di Capannori del 13.04.2010 (prot. n. 23894) con cui è stata dichiarata la decadenza del permesso di costruire n. C03/0296, rilasciato in data 10.02.2006, unitamente alla decadenza della successiva variante a detto permesso, rilasciata in data 06.12.2006 (n. P06/0332V).
Il permesso di costruire n. C03/0296 rilasciato nei confronti della società S. di Pi.Mo. & snc in data 10.02.2006 ha ad oggetto la realizzazione di un “intervento di sostituzione edilizia consistente nella demolizione e ricostruzione con diversa articolazione e collocazione di fabbricato ad uso artigianale”.
Il provvedimento di decadenza è stato preceduto dall’ordinanza n. 722/09 del 07.12.2009 con la quale il Comune di Capannori ha disposto la sospensione dei lavori del complesso immobiliare de quo in considerazione del fatto che la comunicazione di inizio lavori, intervenuta solo in data 09.07.2009, sarebbe stata corredata da un D.U.R.C. riportante una data di inizio successiva al termine di legge e sarebbe risultata carente della notifica preliminare ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. 494/1996.
A detta ordinanza di sospensione dei lavori è seguita l’emanazione del provvedimento del 13.04.2010 (prot. n. 23894) con cui è stata dichiarata la decadenza del permesso di costruire, provvedimento quest’ultimo che risulta motivato in considerazione del fatto che i lavori autorizzati non sarebbero iniziati entro i termini previsti dall’art. 15 del D.P.R. 380/2001 e dall’art. 77, comma 3, della L. Reg. del 03.01.2005, n. 1.
...
1. Il ricorso va respinto.
1.1 Sono infondati sia il primo che il secondo motivo (le cui argomentazioni consentono una trattazione unitaria) con i quali si sostiene che, contrariamente a quanto affermato dal Comune di Capannori, la produzione tardiva del DURC e la mancata notifica preliminare dello stesso, non costituirebbero delle circostanze idonee ad influire sulla caducazione del permesso di costruire.
Si rileva, altresì, che i lavori sarebbero iniziati entro il termine del 02.02.2007, così come evincibile dalla fattura n. 124 emessa dalla ditta Ca. in data 31.12.2008.
1.2 Per quanto concerne la produzione tardiva del DURC va evidenziato che il comma 9 dell’art. 82 della L.R. n. 1/2005 prescrive l’obbligo per il committente di inoltrare lo stesso DURC, contestualmente alla comunicazione di inizio dei lavori.
La sua mancata produzione costituisce una causa ostativa all’inizio dei lavori, mentre il comma 12 dell’art. 82 sancisce che la violazione dell’obbligo sopra citato costituisce una causa di sospensione dell’efficacia del permesso di costruire.
Ne consegue che a fronte di un DURC che conteneva un’indicazione erronea circa la data di inizio delle opere, l’Amministrazione comunale non poteva che sospendere i lavori relativi al permesso di costruire sopra citato.
Nemmeno può condividersi l’impostazione in base alla quale la produzione tardiva del DURC, poi integrato con la documentazione prodotta in data 10.12.2009, avrebbe reso il permesso di costruire nuovamente efficace.
Tale impostazione, invero, contrasta con il contenuto dell’art. 15 del Dpr 380/2001 nella parte in cui sancisce la decadenza automatica nell’eventualità del mancato inizio dei lavori entro un anno dal rilascio del permesso di costruire.
Costituisce infatti orientamento consolidato che la declaratoria di decadenza del permesso di costruire è un provvedimento avente carattere strettamente vincolato, avendo una natura ricognitiva del venir meno degli effetti del permesso di costruire (Cons. Stato Sez. IV, 28.09.2016, n. 4007).
1.3 Ciò premesso è comunque dirimente constatare che sussistono elementi di prova e circostanze del tutto univoche a conferma del fatto che i lavori non fossero effettivamente iniziati entro il gennaio 2007.
1.4 La ricorrente, nell’intento di comprovare l’avvenuto inizio dei lavori, deposita la fattura di un’impresa dalla quale si evince che fossero state commissionate l’esecuzione delle seguenti opere: "formazione del cantiere presso lo stabilimento sito in via Spada Loc. Corte Pinelli consistenti in uno sbancamento, recinzioni del terreno, nonché formazione del ponteggio a telai prefabbricati lungo il lato ovest del fabbricato. Fornitura di materiale arido di riempimento”.
Anche laddove si volesse attribuire rilievo decisivo a detta documentazione è evidente che le opere realizzate sono del tutto insufficienti ad integrare quella radicale trasformazione dei luoghi richiesta dalla Giurisprudenza.
Si è affermato, infatti, che al fine di impedire la decadenza del permesso di costruire l'avvio delle opere deve essere reale ed effettivo, manifestazione di un serio e comprovato intento di esercitare il diritto ad edificare, e non solo apparente o fittizio, volto al solo scopo di evitare la temuta perdita di efficacia del titolo, con conseguente irrilevanza, della ripulitura del sito, dell'approntamento del cantiere e dei materiali occorrenti per l'esecuzione dei lavori nell'immobile, dello sbancamento del terreno (da ultimo TAR Piemonte Torino Sez. II, 06.10.2016, n. 1243).
1.5 Si consideri, ancora, che dalle foto satellitari riconducibili alle date del 30.08.2006 e del 24.09.2008, depositate dall’Amministrazioni comunale, è emersa l’assoluta identità dei luoghi senza che fosse possibile evincere (anche nel periodo di tempo più recente) l’esistenza di opere o anche solo di macchinari e recinzioni, queste ultime necessariamente propedeutiche allo svolgimento dei lavori di cui si tratta.
Peraltro, parte ricorrente, a fronte della documentazione fornita dall’Amministrazione comunale, si è limitata a contestarne la validità, affermando ad esempio che le opere realizzate riguardassero l’interno della struttura, senza per questo fornire un minimo riscontro a dette affermazioni.
1.6 Va poi evidenziato che in relazione alla medesima area e agli stessi fabbricati la ricorrente ha presentato, in data 29.02.2008, una richiesta per l’approvazione di un piano attuativo finalizzato alla realizzazione di un complesso residenziale con recupero delle volumetrie.
A tale richiesta è stato allegato un rilievo dello stato dei fabbricati e dei luoghi nel quale viene rappresentata una situazione plano-volumetrica invariata rispetto alla situazione originaria del complesso edilizio.
1.7 Infine, a conferma di un inizio dei lavori successivo alla scadenza del permesso di costruire, non può non avere giusto rilievo la circostanza che la comunicazione di inizio dei lavori è stata presenta solo il 09.07.2009, oltre due anni e mezzo dopo il termine di scadenza dell’inizio dei lavori.
1.8 Tanto basta a ritenere l’infondatezza dei motivi all’esame.
2. Il ricorso va dunque respinto (TAR Toscana, Sez. III, sentenza 06.03.2017 n. 352 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

APPALTIDoppia riparametrazione solo se prevista nel bando. Relativa ai punteggi di offerte in gara.
La doppia riparametrazione dei punteggi, in sede di valutazione delle offerte di una gara pubblica, è facoltativa; le linee guida Anac 2/2016 recepiscono tale orientamento e quindi soltanto se prevista nel bando di gara la doppia riparametrazione è applicabile.

Lo ha affermato il TAR Lazio-Roma, Sez. III-quater con la sentenza 03.03.2017 n. 3081 che affronta il tema della cosiddetta doppia riparametrazione. Si tratta di un'operazione matematica che consente, una volta definiti i punteggi per i singoli sub-criteri tecnici, di riparametrare quello attribuito alla migliore offerta tecnica presentata al punteggio massimo previsto dalla legge di gara per tale offerta, scongiurando l'alterazione dei punteggi che deriva fisiologicamente dall'attribuzione del punteggio massimo stabilito per l'offerta economica al miglior ribasso.
Nella vicenda oggetto di esame da parte dei giudici si discuteva se la stazione appaltante fosse obbligata a seguire tale procedura, e i giudici negano tale assunto rilevando innanzitutto che le Linee guida Anac del 21.09.2016 risultano attuative del nuovo codice dei contratti che, però, non poteva trovare applicazione alla gara bandita il 15.04.2016 prima della sua entrata in vigore e che si è svolta in applicazione del codice De Lise del 2006 e del dpr n. 207 del 2010.
Il Consiglio di stato ha rilevato, inoltre, che, comunque, le Linee guida «non hanno fatto altro, per questa specifica problematica, che recepire il portato della giurisprudenza sulla questione della doppia riparametrazione nel caso della valutazione degli elementi qualitativi e quantitativi secondo il criterio dell'offerta più vantaggiosa».
La giurisprudenza, in particolare, aveva osservato che nel sistema degli appalti pubblici «nessuna norma di carattere generale impone, per le gare da aggiudicare con il criterio dell'offerta più vantaggiosa, l'obbligo della stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex specialis, mediante il criterio della doppia riparametrazione».
Invece, la riparametrazione ha la funzione di ristabilire l'equilibrio fra i diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti per la valutazione dell'offerta «solo se, e secondo quanto, voluto e disposto dalla stazione appaltante con il bando, con la conseguenza che l'operazione di parametrazione deve essere espressamente prevista dalla legge di gara per poter essere applicata» (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017).
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MASSIMA
2.2.2 Anche la ridetta censura, sostanzialmente rivolta a criticare la mancata applicazione da parte della stazione appaltante del criterio della doppia riparametrazione che scongiura l’alterazione dei punteggi che deriva fisiologicamente dall’attribuzione del punteggio massimo stabilito per l’offerta economica al miglior ribasso, rimane non condivisibile.
L’AIFA, nella sua memoria di costituzione, contesta la doverosità della doppia riparametrazione, citando a tal proposito le Linee Guida ANAC del 21.09.2016 sull’offerta economicamente più vantaggiosa e che in sostanza stabiliscono come una seconda riparametrazione sia del tutto facoltativa per la stazione appaltante oltre al fatto che deve essere espressamente prevista dal bando.
Rilevando che le Linee Guida del 21.09.2016 risultano attuative del d.lgs. 18.07.2016, n. 50 che non può trovare applicazione alla gara in esame, atteso che essa è stata bandita il 15.04.2016 prima della sua entrata in vigore e si è svolta dunque in applicazione del d.lgs. n. 163 del 2006 e del Regolamento di attuazione di cui al d.P.R. n. 207 del 2010,
è tuttavia da rilevare che le Linee Guida non hanno fatto altro, per questa specifica problematica, che recepire il portato della giurisprudenza sulla questione della doppia riparametrazione nel caso della valutazione degli elementi qualitativi e quantitativi secondo il criterio dell’offerta più vantaggiosa.
In particolare da ultimo il Consiglio di Stato, prima della entrata in vigore della nuova disciplina in materia di appalti pubblici (sezione V, 27.01.2016, n. 266) ha osservato: “
che nel sistema degli appalti pubblici nessuna norma di carattere generale impone, per le gare da aggiudicare con il criterio dell’offerta più vantaggiosa, l’obbligo della stazione appaltante di attribuire alla migliore offerta tecnica in gara il punteggio massimo previsto dalla lex specialis, mediante il criterio della doppia riparametrazione” e cita il precedente specifico della medesima sezione in data 25.02.2014, n. 899.
Nel prosieguo osserva pure che: “
Nelle gare da aggiudicarsi con detto criterio la riparametrazione ha quindi la funzione di ristabilire l’equilibrio fra i diversi elementi qualitativi e quantitativi previsti per la valutazione dell’offerta solo se, e secondo quanto, voluto e disposto dalla stazione appaltante con il bando, con la conseguenza che l’operazione di parametrazione deve essere espressamente prevista dalla legge di gara per poter essere applicata (Consiglio di Stato, sez. V, 13.01.2014, n. 85) e non può tradursi in una modalità di apprezzamento delle offerte facoltativamente introdotta dalla commissione giudicatrice (Consiglio di Stato, sez. IV, 20.02.2014, n. 802)”.
Poiché, dunque, nel caso in esame il criterio della doppia riparametrazione non era previsto dalla lex specialis non può essere invocato quale metodo doverosamente applicabile dalla Commissione di gara per ripristinare un ritenuto dislivello nella valutazione degli elementi qualitativi e quantitativi dell’offerta, con conseguente reiezione del secondo motivo di doglianza.
2.3 Col terzo mezzo parte ricorrente fa valere la violazione e falsa applicazione degli articoli 3, 83, 84, 86 e 87 D.LGS. n. 163/2006, difetto di istruttoria, violazione dei principi di trasparenza, non discriminazione, proporzionalità e ragionevolezza, eccesso di potere per manifesto sviamento.
2.3.1 L’interessata sostiene che gli atti indicati in epigrafe appaiono viepiù manifestamente illegittimi alla luce della circostanza che l’offerta dell’aggiudicataria è palesemente insostenibile sul piano economico e non avrebbe pertanto potuto superare positivamente il sub procedimento di verifica dell’anomalia, non avendo indicato le voci di costo relative alle attività di restituzione del materiale archiviato ed il costo relativo ad alcune figure professionali.
2.3.2. Anche detto motivo di ricorso non è condivisibile.
Con esso la società uscente in sostanza si oppone alle modalità con le quali la stazione appaltante ha ritenuto congrua l’offerta della controinteressata pur in presenza di profili di anomalia e quindi introduce quel sindacato sulla discrezionalità tecnica dell’amministrazione che, come noto, intanto può essere sottoposto al giudice in quanto ne venga dimostrata la abnorme illogicità e irragionevolezza delle scelte, dedotte da parte ricorrente, secondo la pur costante giurisprudenza sull’argomento: “
Il sindacato giurisdizionale sulle valutazioni compiute in sede di verifica di anomalia delle offerte è circoscritto ai soli casi di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza, in considerazione della discrezionalità che connota dette valutazioni, come tali riservate alla stazione appaltante cui compete il più ampio margine di apprezzamento.” (C. Stato, sez. V, 23.01.2017, n. 258 ed anche sulla impossibilità per il giudice di sostituirsi alla amministrazione nelle valutazioni discrezionali: C. Stato, III, 13.12.2016, n. 5232 ed anche 25.11.2016, n. 4990).
Nel caso in esame è da rilevare che dal tenore letterale del verbale del 26.07.2016, relativo alla valutazione di congruità dell’offerta, è stato osservato che “tenuto conto dell’importo a base d’asta…e avuto riguardo all’offerta economica e ai relativi costi della sicurezza e del lavoro ivi indicati da Co., i quali appaiono prima facie poco in linea con le analoghe voci di costo indicate dagli altri offerenti,..”, rilevato che non ricorrevano i presupposti di cui all’art. 86, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006 e cioè non essendo i punti relativi alle offerte tecnica ed economica superiori ai 4/5 dei corrispondenti punti massimi previsti dal bando di gara, dunque il RUP aveva deciso ugualmente di sottoporre l’offerta di Co. alla verifica di congruità ai sensi del successivo comma 3 del medesimo art. 86.
Dalla analisi della documentazione offerta dalla controinteressata ne era emerso che il costo del lavoro risultava superiore ai minimi del contratto dei Metalmeccanici applicato dalla ridetta, che i costi della sicurezza apparivano congrui in relazione all’attività di informazione, formazione e addestramento dei lavoratori essendo espletate all’interno della società e che tutte le restanti voci di cui alla tabella inserita nelle giustificazioni di Co. apparivano coerenti e giustificate adeguatamente.
In ordine poi alla mancata indicazione del costo del lavoro di alcune figure professionali (responsabile del contratto, responsabile del servizio, responsabile operations, responsabile sicurezza dati e responsabile della privacy), pure insistita con memoria per l’udienza odierna, tali costi, ribadisce l’AIFA, sono stati specificati tra i “Costi infrastruttura aziendale (IT, Commerciale, Amministrativo, Help Desk,etc) pari ad euro 20.022,07” all’interno dei quali sono indicate dette figure.
Ne risulta dunque che la censura è smentita in fatto dal verbale di verifica di congruità del 26.07.2016, sicché allo stato non risultano dimostrate le pur dedotte sproporzionalità ed irragionevolezza delle scelte operate.

AMBIENTE-ECOLOGIA: Il curatore fallimentare non è obbligato a smaltire i rifiuti su immobile di proprietà del fallito.
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Inquinamento – Rifiuti – Rimozione e ripristino stato dei luoghi – Ingiunzione – Indirizzata al curatore fallimentare – Esclusione.
Nei confronti del Fallimento non è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 194, comma 4, d.lgs. 03.04.2006, n. 152, della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa (1).

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     (1) Ha chiarito il Tar che il Fallimento non può essere considerato un “subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare. La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art. 42, r.d. 16.03.1942, n. 267: “La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art. 44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”).
Correlativamente, il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (art. 31, r.d. n. 267 del 1942: “Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”).
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72, r.d. n. 267 del 1942), in via generale “non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge” (Cass. civ., sez. I, 23.06.1980, n. 3926) (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 03.03.2017 n. 520 - commento tratto da e link a www.giustizia-amministrativa.it).
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MASSIMA
2. Il ricorso è fondato.
Nel caso in questione non è contestato che il fenomeno di produzione dei rifiuti sia connesso all’esercizio di un’attività economica da parte della società fallita e di altre società, che si è verificata prima della nomina del curatore fallimentare (in tal senso è chiara la relazione dell’ARPA). A sua volta il curatore fallimentare non è stato autorizzato a svolgere attività d’impresa né l’ha svolta in concreto.
In merito agli obblighi dei curatori la giurisprudenza ha chiarito che,
fatta salva la eventualità di univoca, autonoma e chiara responsabilità del curatore fallimentare sull’abbandono dei rifiuti, la curatela fallimentare non può essere destinataria, a titolo di responsabilità di posizione, di ordinanze sindacali dirette alla tutela dell’ambiente, per effetto del precedente comportamento omissivo o commissivo dell’impresa fallita, non subentrando tale curatela negli obblighi più strettamente correlati alla responsabilità del fallito e non sussistendo, per tal via, alcun dovere del curatore di adottare particolari comportamenti attivi, finalizzati alla tutela sanitaria degli immobili destinati alla bonifica da fattori inquinanti (TAR Lombardia-Milano, Sez. III, sentenza 05.01.2016).
Deve quindi escludersi una responsabilità del curatore del fallimento ai sensi del terzo comma dell'art. 192 d.lgs. 152/2006 secondo il quale l’autore della condotta di abbandono incontrollato di rifiuti “è tenuto a procedere alla rimozione, all'avvio a recupero o allo smaltimento dei rifiuti ed al ripristino dello stato dei luoghi in solido con il proprietario e con i titolari di diritti reali o personali di godimento sull'area, ai quali tale violazione sia imputabile a titolo di dolo o colpa, in base agli accertamenti effettuati, in contraddittorio con i soggetti interessati, dai soggetti preposti al controllo”. Infatti egli non è l’autore della condotta di abbandono incontrollato di rifiuti né titolare di diritti reali o personali di godimento sull'area.
Neppure tale responsabilità può derivare dall’art. 192, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006 che recita: “Qualora la responsabilità del fatto illecito sia imputabile ad amministratori o rappresentanti di persona giuridica ai sensi e per gli effetti del comma 3, sono tenuti in solido la persona giuridica ed i soggetti che siano subentrati nei diritti della persona stessa, secondo le previsioni del decreto legislativo 08.06.2001, n. 231, in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni.”
Come chiarito dalla giurisprudenza (Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 30.06.2014 n. 3274)
ai fini di un’eventuale applicazione della norma appena trascritta si pone la questione di stabilire se il Fallimento possa essere considerato alla stregua di un soggetto “subentrato nei diritti” della società fallita.
Orbene, il Fallimento non può essere reputato un “subentrante”, ossia un successore, dell’impresa sottoposta alla procedura fallimentare.

La società dichiarata fallita, invero, conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio: solo, ne perde la facoltà di disposizione, pur sotto pena di inefficacia solo relativa dei suoi atti, subendo la caratteristica vicenda dello spossessamento (art. 42 R.D. n. 267/1942: “La sentenza che dichiara il fallimento, priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento”; art. 44: “Tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti dopo la dichiarazione di fallimento sono inefficaci rispetto ai creditori”).
Correlativamente,
il Fallimento non acquista la titolarità dei suoi beni, ma ne è solo un amministratore con facoltà di disposizione, laddove quest’ultima riposa non sulla titolarità dei relativi diritti ma, a guisa di legittimazione straordinaria, sul munus publicum rivestito dagli organi della procedura (art. 31 R.D. n. 267/1942: “Il curatore ha l'amministrazione del patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato e del comitato dei creditori, nell'ambito delle funzioni ad esso attribuite”).
Il curatore del fallimento, pertanto, pur potendo sottentrare in specifiche posizioni negoziali del fallito (cfr. l’art. 72 R.D. n. 267/1942), in via generale “non è rappresentante, né successore del fallito, ma terzo subentrante nell'amministrazione del suo patrimonio per l'esercizio di poteri conferitigli dalla legge (Cassazione civile, sez. I, 23/06/1980, n. 3926).
Più ampiamente, la Suprema Corte ha difatti osservato quanto segue: “
Il fatto che alla curatela sia affidata l'amministrazione del patrimonio del fallito, per fini conservativi predisposti alla liquidazione dell'attivo ed alla soddisfazione paritetica dei creditori, non comporta affatto che sul curatore incomba l'adempimento di obblighi facenti carico originariamente all'imprenditore, ancorché relativi a rapporti tuttavia pendenti all'inizio della procedura concorsuale. Al curatore competono gli adempimenti che la legge (sia esso il R.D. 16.03.1942 n.. 267, siano esse leggi speciali) gli attribuisce e tra essi non è ravvisabile alcun obbligo generale di subentro nelle situazioni giuridiche passive di cui era onerato il fallito. … Poiché in linea generale, come ricordato, il curatore, nell'espletamento della pubblica funzione, non si pone come successore o sostituto necessario del fallito, su di lui non incombono né gli obblighi dal fallito inadempiuti volontariamente o per colpa, né quelli che lo stesso non sia stato in grado di adempiere a causa dell'inizio della procedura concorsuale, ancorché la scadenza di adempimento avvenga in periodo temporale in cui lo stesso curatore possa qualificarsi come datore di lavoro nei confronti degli stessi dipendenti, o di alcuni di essi.”.
Per quanto esposto,
dunque, nei confronti del Fallimento non è ravvisabile un fenomeno di successione, il quale solo potrebbe far scattare il meccanismo estensivo, previsto dall’art. 194, comma 4, d.lgs. cit., della legittimazione passiva rispetto agli obblighi di ripristino che l’articolo stesso pone in prima battuta a carico del responsabile e del proprietario versante in dolo o colpa.
In definitiva il ricorso va accolto con conseguente annullamento dell’atto impugnato.

APPALTISequestro per intero per tutti. Appalti illeciti/Corte di cassazione.
Nell'ambito di un appalto illecito, il sequestro può scattare per l'intero profitto a carico di ciascun partecipante a prescindere dalla sua quota nell'affare.

È quanto ha sancito la Corte di Cassazione -Sez. VI penale- che, con la sentenza 02.03.2017 n. 10448, ha confermato la misura, respingendo il ricorso di un imprenditore.
Inutile il tentativo della difesa di far annullare il sequestro. È ormai consolidato per i Supremi giudici che a ciascun partecipante può essere sequestrato l'intero profitto.
Insomma per la terza sezione penale merita piena condivisione la decisione del tribunale sul punto della sequestrabilità dell'intero profitto del reato nei confronti anche di uno solo dei concorrenti; l'ordinanza impugnata ha fatto infatti corretta applicazione dei principi di diritto enunciati dalla Corte di legittimità; le osservazioni critiche del ricorrente non sembrano poi cogliere nel segno, posto che il tema in questione è stato enunciato dalle Sezioni unite in termini generali come principio di valenza astratta e onnicomprensiva tutte le volte in cui più persone concorrano in un reato che ha prodotto un profitto sequestrabile, purché, naturalmente, l'entità di quanto sottoposto a vincolo non sia duplicata.
Questo principio può ormai dirsi affermato in quanto ha trovato ulteriori conferme in pronunce successive a quella della Sezioni unite in questione dove si è enunciato lo stesso principio di diritto senza alcun accenno a una sua valenza residuale rispetto a ipotesi di accertamento della pertinenza concreta «pro quota» del profitto stesso a questo o quell'indagato (articolo Il Sole 24 Ore del 03.03.2017).

LAVORI PUBBLICI: Allorché il rapporto di concessione sia risolto per inadempimento del soggetto concedente il concessionario avrà diritto al rimborso, laddove invece il fatto sia imputabile al concessionario, nulla gli è dovuto.
Qualora il rapporto di concessione sia risolto per inadempimento del soggetto concedente ovvero quest'ultimo revochi la concessione per motivi di pubblico interesse, sono rimborsati al concessionario:
   a) il valore delle opere realizzate più gli oneri accessori, al netto degli ammortamenti, ovvero, nel caso in cui l'opera non abbia ancora superato la fase di collaudo, i costi effettivamente sostenuti dal concessionario;
   b) le penali e gli altri costi sostenuti o da sostenere in conseguenza della risoluzione;
   c) un indennizzo, a titolo di risarcimento del mancato guadagno, pari al 10 per cento del valore delle opere ancora da eseguire ovvero della parte del servizio ancora da gestire valutata sulla base del piano economico-finanziario.
Il diritto a vedersi riconosciuto il valore delle opere eseguite presuppone quindi l'imputabilità all'amministrazione aggiudicatrice della risoluzione, imputabilità il cui scrutinio, nel caso di specie, è tuttavia precluso in ragione dell'omessa impugnazione sia della delibera, sia della mancata sollecitazione, in pendenza del rapporto, di qualsiasi forma di revisione del piano economico finanziario volta al ripristino delle condizioni di equilibrio e della corretta allocazione del rischio di gestione (che, nello schema della concessione di lavori pubblici, deve permanere fisiologicamente a carico del concessionario) alterate da sopravvenienze o da fatti non riconducibili al concessionario medesimo.
In altri termini, l'inoppugnabilità dei provvedimenti amministrativi concernenti l'approvazione del piano economico, della progettazione, della convezione stipulata con l'ATI concessionaria, nonché la mancata sollecitazione dell'esercizio dei poteri discrezionali di autotutela e l'inerzia serbata dalla concessionaria a fronte delle discrepanze tra progettazione preliminare e le effettive condizioni del cantiere non consentono, a rapporto ormai risolto, di svolgere alcuna valutazione comparativa degli addebiti reciprocamente ascritti, valutazione comparativa che, peraltro, non si sarebbe potuta risolvere se non nel senso della maggior gravità del notevole ritardo accumulato rispetto al termine prefissato e dell'esecuzione solo parziale delle opere affidate rispetto alla supposta imputabilità al Comune dei fattori che avrebbero alterato l'equilibrio economico della concessione, e della loro incidenza causale nel rendere insostenibile l'onere finanziario assunto dalla ATI concessionaria.
Pertanto, nel caso di specie, il decreto ingiuntivo deve essere revocato, perché la norma applicabile esclude l'insorgenza di qualsiasi credito, anche di natura indennitaria, in capo al concessionario inadempiente.
Va invece rigettata la domanda riconvenzionale risarcitoria svolta dall'amministrazione opponente, non avendo il comune specificamente provato le puntuali conseguenze patrimoniali dannose derivanti dalla mancata ultimazione dell'opera nel termine contrattualmente previsto né dalla sua indisponibilità (TRIBUNALE di Treviso, Sez. III civile, sentenza 02.03.2017 n. 494 - link a www.dirittodeiservizipubblici.it).

VARICondannato chi tiene gli animali in condizioni stressanti. Una sentenza della corte di cassazione (destinata a far discutere) applica l'art. 727 c.p..
La Suprema corte sottolinea l'importanza della cura della psicologia degli animali. Rischia infatti una condanna penale ai sensi dell'articolo 727 c.p. chi li tiene in condizioni molto stressanti.

Con una sentenza destinata a scuotere gli animi (sentenza 01.03.2017 n. 10009 della Corte di Cassazione, Sez. III penale) è stata infatti confermata la condanna a carico di una donna che deteneva in un magazzino chiuso alcuni esemplari di gatto selvatico. Ma non è tutto. Non solo la custode non aveva rispettato la natura e l'indole degli animali ma li aveva detenuti in scarse condizioni igieniche. Il tutto aveva reso i gatti fobici rispetto alle visite degli ispettori dall'Asl e comunque molto stressati.
A nulla è valso il tentativo della difesa della donna di smontare l'impianto accusatorio sostenendo l'assenza di malattie fisiche.
Infatti, la terza sezione penale, confermando e rendendo definitiva la condanna emessa dal tribunale di Busto Arsizio ha chiarito come l'articolo 727 del codice penale tuteli anche il solo patimento psicologico dell'animale.
Nelle motivazioni si legge infatti che la disposizione, rubricata appunto, «abbandono di animali», punisce, al comma 2, la condotta di colui il quale «detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze».
E non basta: il reato in questione è integrato dalla condotta, anche occasionale e non riferibile al proprietario di detenzione degli animali con modalità tali da arrecare agli stessi gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note, al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali. Dunque, «ai fini dell'integrazione del reato in esame non è necessario che l'animale riporti una lesione all'integrità fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri patimenti».
Nel caso sottoposto all'esame della Corte i gatti avevano riportato delle affezioni respiratorie per le scarse condizioni igieniche ma gli Ermellini dicono a chiare lettere che andava punito il forte disagio degli animali, particolarmente reattivi e fobici.
Sotto questo profilo, si legge ancora in sentenza, assume ben poco rilievo la circostanza che, come correttamente sottolineato dal ricorso della donna, non sia stata adeguatamente ricostruita l'eziologia dell'Aids felina, richiamata, per la prima volta, dal giudice di merito nella sentenza come dato di fatto adeguatamente riscontrato, sia pure per alcuni soltanto degli esemplari, e apoditticamente posto in relazione alla situazione di stress e di promiscuità degli animali.
Infatti, «la già sottolineata condizione dei felini doveva ritenersi sufficiente a integrare la fattispecie contestata, indipendentemente dalla eventuale presenza della malattia» (articolo ItaliaOggi del 02.03.2017).
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MASSIMA
1. Il ricorso è infondato.
2.
L'art. 727 cod. pen., rubricato "abbandono di animali", punisce, al comma 2, la condotta di colui il quale "detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze".
Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
il reato in questione è integrato dalla condotta, anche occasionale e non riferibile al proprietario (Sez. 3, Ordinanza n. 6415 del 18/01/2006, dep. 21/02/2006, Bollecchino, Rv. 233307), di detenzione degli animali con modalità tali da arrecare agli stessi gravi sofferenze, incompatibili con la loro natura, avuto riguardo, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali (Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014, dep. 17/02/2015, Garnero, Rv. 262529; Sez. 3, n. 37859 del 4/06/2014, dep. 16/09/2014, Rainoldi e altro, Rv. 260184).
Dunque,
ai fini dell'integrazione del reato in esame non è necessario che l'animale riporti una lesione all'integrità fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri patimenti (Sez. 3, n. 175 del 13/11/2007, dep. 07/01/2008, Mollaian, Rv. 238602), la cui inflizione sia non necessaria in rapporto alle esigenze della custodia e dell'allevamento dello stesso (Sez. 3, n. 28700 del 20/05/2004, dep. 01/07/2004, Fiorentino, Rv. 229431).
La condotta in esame, peraltro, può essere integrata anche con una condotta colposa del soggetto agente (Sez. 3, n. 21744 del 26/04/2005, dep. 09/06/2005, P.M. in proc. Duranti ed altri, Rv. 231652), trattandosi di contravvenzione non necessariamente dolosa (Sez. 3, n. 32837 del 16/06/2005, dep. 2/09/2005, Vella, Rv. 232196).
3. La sentenza impugnata si è mossa nell'ambito della menzionata cornice giurisprudenziale di riferimento, esplicitando, in maniera puntuale, le ragioni per le quali i fatti emersi all'esito dell'approfondita istruttoria sono stati ritenuti sussumibili nella fattispecie contestata.
Le censure mosse dalla ricorrente, invero, configurano, in diversi passaggi, il tentativo di accreditare ipotesi alternative di ricostruzione degli elementi di fatto della vicenda.
E' il caso, innanzitutto, dell'allegazione secondo cui alcuni dei gatti rinvenuti nel locale sarebbero stati animali domestici, sicché la circostanza che essi fossero custoditi in un ambiente chiuso, non configurerebbe alcuna violazione della loro natura. Ed è il caso dell'affermazione secondo cui la fobia manifestata da alcuni dei felini in occasione dell'accesso del personale della A.S.L. sarebbe potuta essere riconducibile non ad una condizione di sofferenza dei gatti, quanto piuttosto alla loro natura di animali selvatici.
E' di tutta evidenza come tali prospettazioni, fondate su congetture o ipotetiche ricostruzioni della vicenda fattuale, non possano ammettersi in una sede quale quella del giudizio di legittimità, funzionalmente deputata al controllo sulla logicità del percorso argomentativo seguito dai giudici di merito per giustificare la propria decisione.
Costituisce, infatti, principio ormai consolidato alla elaborazione di questa Corte quello secondo cui al giudice di legittimità non è consentito ipotizzare alternative opzioni ricostruttive della vicenda fattuale, sovrapponendo la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi, saggiando la tenuta logica della pronuncia portata alla sua cognizione mediante un raffronto tra l'apparato argomentativo che la sorregge ed eventuali altri modelli di ragionamento mutuati dall'esterno (Sez. Un., n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260; in termini v. Sez. 2, n. 20806 del 05/05/2011, Tosto, Rv. 250362).

PUBBLICO IMPIEGOLicenziamenti sugli atti del Gip. Il ministero può utilizzare la prova penale nell’iter disciplinare. Pubblica amministrazione. Per la Cassazione non è necessaria un’autonoma valutazione dei fatti.
È legittimo il licenziamento del dipendente pubblico se vengono utilizzate per rimando le motivazioni del procedimento penale aperto sui medesimi addebiti.
Lo ha stabilito la Sez. lavoro della Corte di Cassazione (sentenza 01.03.2017 n. 5284) annullando la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva avallato la reintegra di una dipendente del ministero delle Politiche agricole, licenziata con il semplice “rimando” al capo di imputazione formulato dal Gip per motivare il provvedimento cautelare a carico della donna.
L’insufficienza motivazionale ottenuta per questa via era stata sottolineata già in prima battuta dal tribunale capitolino, che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento e ordinato, come prassi, la reintegra nel posto di lavoro e il pagamento risarcitorio delle mancate retribuzioni e dei contributi non versati nel periodo tra l’interruzione del rapporto e la sua ripresa “comandata”.
Secondo la corte territoriale, e all’esito di una ricognizione normativa (dallo Statuto dei lavoratori -legge 300/1970- alla Fornero, legge 92 del 2012), non sarebbe ammesso in sede di procedimento disciplinare il mero rinvio “per relationem” agli atti del procedimento penale, ma occorrerebbe invece «procedere all’autonoma fase istruttoria comprovando le contestazioni addebitate al lavoratore». Sulla base di questo assunto, i giudici dei due gradi di merito avevano censurato il licenziamento della dipendente ministeriale -formalizzato nell’aprile di quattro anni fa- e condannato il ministero alla reintegra nel posto di lavoro e alle restituzioni nei confronti della donna ingiustamente licenziata.
Ma la necessità di una autonoma valutazione e motivazione dei fatti tali da giustificare il licenziamento da parte del datore di lavoro -in questo caso pubblico- è stata confutata alla radice dai giudici di legittimità. Secondo la Cassazione, infatti, non esiste alcuna norma che imponga alla Pubblica amministrazione di procedere ad un’autonoma istruttoria ai fini della contestazione disciplinare.
Soprattutto, ciò non è previsto dal testo unico sul pubblico impiego applicabile ratione temporis (il Dlgs 165/2001) tantomeno nella norma che regola i rapporti tra i due tipi di procedimento (l’articolo 55-ter). E quindi, come già affermato dalla Sezione lavoro (758/2006; 19183/2016) la Pa è libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di «ritenere che i medesimi forniscano, senza bisogno di ulteriori acquisizioni ed indagini, sufficienti elementi di contestazione di illeciti disciplinari al proprio dipendente». Tra l’altro, argomenta la Suprema corte, la prova delle condotte oggetto della contestazione devono essere fornite dal datore non tanto nella procedura disciplinare ma piuttosto nella successiva ed eventuale fase di impugnativa giudiziale.
Quanto poi all’“aggiornamento” del versante penale e delle sue conseguenze sulla sanzione disciplinare, fanno testo le disposizioni del dlgs 165/2011: in caso di successivo proscioglimento penale, la parte potrà riassumere il disciplinare entro sei mesi per chiedere l’allineamento della decisione (p.es. l’annullamento della sanzione irrogata su quelle basi probatorie).
Ma vale anche la conclusione simmetrica, vale a dire la riapertura di un disciplinare archiviato senza sanzione se il versante penale si è successivamente concluso con l’affermazione di responsabilità sui medesimi fatti
(articolo Il Sole 24 Ore del 02.03.2017).

COMPETENZE PROGETTUALIAgronomi, no a competenza esclusiva in ambito forestale.
Agronomi senza esclusive nel settore forestale.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, -Sez. V- con la sentenza 01.03.2017 n. 952, resa nota ieri, con cui palazzo Spada è tornato nuovamente sulla qualificazione delle competenze degli agronomi nel settore della progettazione e pianificazione forestale, dopo la sentenza n. 426/2017 del mese scorso.
In particolare, rende noto il Collegio degli agrotecnici, la sentenza stabilisce che le competenze forestali sono proprie anche degli iscritti nell'albo degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati, con le competenze «interferenti» tra le due categorie che devono essere definite dai giudici del supremo organo della magistratura amministrativa.
In via generale il Consiglio di stato chiarisce che l'iscrizione nell'albo degli agronomi non prevede competenze riservate, ma solo comuni con altre categorie di professionisti. Nel settore agrario nessuno degli albi operanti ha competenze riservate, ma solamente tipiche e perciò comuni ad altre professioni sia del settore agrario sia non agrario.
La vicenda prende spunto da un ricorso promosso, e inizialmente vinto (sentenza Tar Toscana n. 196/2015), dagli ordini degli agronomi della Toscana, che avevano impugnato un bando del comune di Montecatini Terme che affidava alla facoltà di agraria dell'università di Pisa un incarico per la «manutenzione del patrimonio arboreo comunale».
I ricorrenti avevano contestato quell'affidamento sostenendo che le relative attività riservate in via esclusiva agli iscritti nell'albo degli agronomi e forestali, con proibizione per altri di svolgerle. In prima istanza, il Tar aveva dato loro ragione, mentre in seguito il collegio nazionale degli agrotecnici si è costituito in appello al Consiglio di stato insieme al dipartimento di scienze agrarie dell'università di Pisa.
I giudici hanno chiarito che «le attività professionali... meglio specificate dall'art. 2 della legge n. 3 del 1976, non risultano attribuite, alla stregua di un'interpretazione letterale della norma, e in ragione della sua ampiezza, anche in forza di una sua interpretazione funzionale, in modo esclusivo ai dottori agronomi e forestali
La sentenza prosegue affermando che l'art. 2 l. n. 3 del 1976 «non contiene una siffatta o similare clausola di riserva esclusiva alla competenza dei dottori agronomi e forestali. Riserva che, d'altro canto, difficilmente poteva ipotizzarsi, attesa l'estrema latitudine e differenziazione delle competenze enucleate dalla previsione» (articolo ItaliaOggi del 22.03.2017 - tratto da www.centrostudicni.it).
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MASSIMA
3. - Con il primo motivo di appello si deduce l’erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che vi sia corrispondenza tra le prestazioni affidate dal Comune di Montecatini all’Università di Pisa e le attività professionali previste dall’art. 2 della legge n. 3 del 1976, e che le stesse siano riservate dalla legge alla competenza esclusiva dei dottori agronomi e dei dottori forestali.
Il motivo è fondato e meritevole di accoglimento.
In primo luogo, occorre precisare che
le attività professionali «volte a valorizzare e gestire i processi produttivi agricoli, zootecnici e forestali, a tutelare l’ambiente e, in generale, le attività riguardanti il mondo rurale», meglio specificate dall’art. 2 della legge n. 3 del 1976, non risultano attribuite, alla stregua di un’interpretazione letterale della norma, ed in ragione della sua ampiezza, anche in forza di una sua interpretazione funzionale, in modo esclusivo ai dottori agronomi e forestali.
Sotto tale profilo, può essere utile evidenziare, a titolo esemplificativo, la differenza tra la norma in esame e quella dell’art. 2 della legge 31.12.2012, n, 247, relativa alla disciplina della professione di avvocato, il cui quinto comma precisa specificamente che «sono attività esclusive dell’avvocato, fatti salvi i casi espressamente previsti dalla legge, l’assistenza, la rappresentanza e la difesa nei giudizi davanti a tutti gli organi giurisdizionali e nelle procedure arbitrali rituali».
L’art. 2 della legge n. 3 del 1976, oggetto di disamina, non contiene una siffatta o similare clausola di riserva esclusiva alla competenza dei dottori agronomi e forestali. Riserva che, d’altro canto, difficilmente poteva ipotizzarsi, attesa l’estrema latitudine e differenziazione delle competenze enucleate dalla previsione, che vanno dalla direzione, gestione delle imprese agrarie alla progettazione, direzione sorveglianza dei lavori relativi alle costruzioni rurali, alle operazioni dell’estimo, ai lavori ed incarichi relativi alla coltivazione delle piante, ai lavori catastali, alla valutazione e liquidazione degli usi civici, alle analisi fisico-chimico-microbiologiche del suolo, alle ricerche di mercato, alla progettazione dei lavori relativi al verde pubblico.
Così, ancora a titolo esemplificativo, è la giurisprudenza a porre in evidenza che
appartiene ad entrambe le categorie dei periti agrari e dei dottori agronomi o forestali la cura di boschi o foreste, rinvenendo il discrimine tra le competenze degli uni e degli altri, oltre che nel dato quantitativo, in quello qualitativo determinato dalla finalità degli interventi stessi (così Cons. Stato, III, 03.08.2015, n. 3816). Analogamente, emergono interferenze con le competenze professionali di architetti ed ingegneri (art. 51 r.d. 23.10.1925, n. 2537), come pure degli agrotecnici (art. 11 della legge 06.06.1986, n. 251).
In ogni caso, occorre aggiungere che non vi è totale sovrapponibilità tra le prestazioni oggetto dell’affidamento all’appellante e le attività professionali indicate nell’art. 2 della legge n. 3 del 1976, in quanto le prime descrivono servizi relativi ad attività propedeutiche e di supporto alla manutenzione ordinaria e straordinaria del verde pubblico, concentrandosi prevalentemente nell’analisi speditiva massale della popolazione arborea e nel supporto alla stesura di un capitolato di affidamento della gestione razionale ed ecocompatibile del verde pubblico.

APPALTINiente pareggio di bilancio, l'impresa resta fuori dalla gara.
L'impresa è fuori dalla gara senza pareggio di bilancio negli ultimi tre anni. Ragionevole la condizione di equilibrio finanziario imposta dal bando: i partecipanti devono avere la capacità di adempiere al contratto, l'ente che chiede il servizio può tutelarsi ingerendosi dei conti.

È quanto emerge dalla sentenza 01.03.2017 n. 81, pubblicata dalla I Sez. del TAR Friuli Venezia Giulia.
Anche le imprese, dunque, come gli Stati, hanno il loro fiscal compact da rispettare altrimenti sono fuori, sia pure soltanto dalla gara d'appalto e non dall'Unione europea. Nel bando per l'aggiudicazione di un servizio è ragionevole la clausola che esclude le società i cui bilanci non sono almeno in pareggio negli ultimi tre esercizi, al netto delle imposte.
E ciò perché, specie in tempi di crisi, le amministrazioni devono tutelarsi assicurandosi che si candida a gestire il servizio abbia poi la capacità per adempiere al contratto: il nuovo codice affida alle stesse stazioni appaltanti il compito di individuare gli indici economici e finanziari più adatti per stabilirlo. Quando l'amministrazione mette a gara servizi e forniture, poi, ben può ficcare il naso nei conti dei privati che partecipano alla procedura pubblica.
Bocciato quindi il ricorso della società: resta fuori dalla gara da 600 mila euro per gestire trentasei mesi di ristorazione scolastica nel comune. Il bilancio 2015 risultava in perdita di quasi 45 milioni (articolo ItaliaOggi dell'11.03.2017).
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MASSIMA
Il Collegio ritiene di poter prescindere dall’apprezzamento della fondatezza o meno dell’eccezione preliminare di rito sollevata dalla difesa del Comune, atteso che il ricorso è, in ogni caso, destituito di fondamento.
Invero, nel rammentare che il bando di gara prevedeva, tra i requisiti di capacità economica e finanziaria condizionanti la partecipazione alla gara stessa, il possesso del pareggio di bilancio al netto delle imposte negli ultimi tre esercizi (pt. III.2.2 del bando di gara) e che dalla documentazione presentata dalla ricorrente a corredo della domanda di partecipazione risultava che il bilancio relativo all’anno 2015 era in forte perdita per € 44.846.345,00, pare potersi affermare che il seggio di gara ha fatto buon governo della detta disposizione della lex specialis, peraltro di per sé scevra da qualsivoglia illogicità o irragionevolezza e per nulla violativa dell’art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50/2016.
Gli operatori economici interessati a partecipare alle gare pubbliche, oltre a non trovarsi in stato di fallimento, di liquidazione, di cessazione d'attività, di amministrazione controllata o di concordato preventivo o in ogni altra analoga situazione risultante da una procedura della stessa natura prevista da leggi e regolamenti nazionali, devono possedere, infatti, la capacità economica e finanziaria necessaria ad assicurare l’osservanza delle obbligazioni contrattuali.
Ad avviso del Collegio,
in un periodo economicamente critico, come quello attuale, in cui la solidità patrimoniale e finanziaria di molte aziende è messa seriamente in pericolo, non può prescindersi, a maggior ragione, da una puntuale e rigorosa verifica dello stato di salute delle imprese partecipanti alle gare di appalto pubbliche, in quanto accertamento funzionale allo svolgimento positivo degli appalti stessi e ciò a prescindere dalle capacità tecniche e professionali, che pure devono essere possedute.
La necessità di affidare il contratto a soggetti che dimostrino, tra le altre, anche la capacità economica e finanziaria idonea a garantire l'esecuzione delle prestazioni oggetto dello stesso costituisce, infatti, un fondamentale principio ricavabile dalla complessiva disciplina dell'affidamento di pubblici appalti e l’apertura al mercato e alla concorrenza non può mai spingersi sino al punto di compromettere o comunque mettere seriamente in pericolo la regolare esecuzione del contratto.
L’art. 83 del (nuovo) codice appalti, come del resto già il previgente art. 41 del d.lgs. n 163/2006, lascia, peraltro, libertà alle stazioni appaltanti di individuare nella legge di gara gli indici di capacità economica più adatti, col solo limite della “attinenza” e “proporzionalità” all’oggetto dell’appalto, nella ricerca di un costante bilanciamento con l’interesse pubblico “ad avere il più ampio numero di potenziali partecipanti, nel rispetto dei principi di trasparenza e rotazione” (vedi art. 83, comma 2).
Per gli appalti di servizi e forniture, ai fini della verifica del possesso dei requisiti di capacità economica e finanziaria, le stazioni appaltanti, nel bando di gara, possono richiedere, tra l’altro, che “gli operatori economici forniscano informazioni riguardo ai loro conti annuali che evidenzino in particolare i rapporti tra attività e passività” (vedi art. 83, comma 4, lett. b).

Avuto riguardo alla durata (36 mesi), alla tipologia del servizio (servizio di ristorazione scolastica), al valore (€ 603.389,75) e, in genere, alle obbligazioni contrattuali cui l’impresa aggiudicataria sarà chiamata a far fronte con i propri mezzi, non solo tecnici e professionali, ma anche, appunto, finanziari,
non pare, dunque, sproporzionata e/o irragionevole la disposizione, contenuta nella lex specialis di gara, di condizionare la partecipazione degli operatori economici interessati alla dimostrazione del possesso del pareggio di bilancio al netto delle imposte negli ultimi tre esercizi. Anzi, tale disposizione pare espressione di legittimo esercizio di potere discrezionale, declinato, peraltro, nel rispetto delle norme di legge.
Né, del resto, l’applicazione fatta nel caso oggetto di esame della detta disposizione può essere ritenuta artifizio per limitare la concorrenza (art. 30, comma 2, d.lgs. n. 50/2016), essendo palese che una così consistente posta negativa a bilancio porta legittimamente a dubitare della sussistenza di quei requisiti minimi di capacità economica e finanziaria necessari per ottemperare in maniera regolare e qualitativamente adeguata alle prestazioni previste nel capitolato d’appalto, anche, eventualmente, sostenendone anticipatamente i relativi costi di esecuzione.
Al riguardo, deve, invero, convenirsi con la difesa del Comune, laddove pone l’accento sul fatto che il bilancio 2015 della ricorrente era in forte perdita per € 44.846.345,00 e che la dichiarazione integrativa resa dalla medesima a sua giustificazione (accantonamento prudenziale a copertura di una sanzione amministrativa pecuniaria di € 56.190.090,00 irrogata a C. da AGCM) non modifica, in ogni caso, da un punto di vista civilistico la connotazione del bilancio come un bilancio in perdita, come si ritrae agevolmente dalla piana lettura dello stato patrimoniale e del conto economico di C. redatti conformemente allo schema di cui agli artt. 2424 e 2425 C.C., nei quali risulta iscritto un fondo rischi ad integrale copertura della sanziona dianzi indicata, che ha determinato necessariamente una corrispondente voce passiva e la conseguente perdita registrata sia nello stato patrimoniale che nel conto economico dell’esercizio.
Al di là, quindi, di ogni plausibile giustificazione formale,
il bilancio 2015 di C. è, dunque, un bilancio giuridicamente in passivo, preclusivo, a par bando, alla sua partecipazione alla gara di che trattasi.

APPALTIOfferta incompleta, addio soccorso istruttorio. Appalti/sentenza del tribunale amministrativo regionale della Liguria
Addio soccorso istruttorio per l'offerta tecnica ed economica incompleta con il nuovo codice degli appalti pubblici. La nuova norma, infatti, è più restrittiva della precedente: impedisce di integrare la documentazione necessaria a provare la sussistenza delle caratteristiche imposte dal capitolato a pena di esclusione. E l'estromissione dalla gara decisa dalla stazione appaltante risulta dunque legittima.

È quanto emerge dalla sentenza 28.02.2017 n. 145, pubblicata dalla II Sez. del TAR Liguria.
Forma e sostanza
Bocciato il ricorso dell'impresa che non ha potuto partecipare all'aggiudicazione della procedura a evidenza pubblica: si tratta della fornitura di sistemi antidecubito per i pazienti dell'Asl regionale e l'azienda non ha prodotto subito i certificati che dimostrano come il materiale delle parti imbottite sia ignifugo.
Il deposito successivo delle attestazioni non può salvare la società dall'estromissione: oggi il soccorso istruttorio non è più quello previsto dall'articolo 46, comma 1-ter, del decreto legislativo 163/06 che ben ammetteva di correre ai ripari per l'offerta incompleta, tranne nel caso di assoluta incertezza sul contenuto o sulla provenienza. Ora invece la norma ex articolo 83, comma 9, del decreto legislativo 50/2016 ammette che la sanatoria può avvenire soltanto per elementi formali. E la carenza addebitata all'impresa è invece questione di sostanza perché riguarda un elemento essenziale come la resistenza al fuoco del prodotto dal noleggiare all'Asl.
Nessuna contraddizione
Inutile per l'operatore economico lamentare che l'azienda sanitaria prima abbia chiesto alla concorrente di dimostrare che i materiali sono ignifughi e poi abbia comunque estromesso la società dalla procedura: non si configura un'ipotesi di contraddittorietà dell'azione amministrativa; si tratta invero di un puro scrupolo della commissione chiamata ad aggiudicare l'appalto, che può aver cercato di agevolare in qualche modo l'interlocutore.
Sarebbe stato semmai illegittimo l'invito della commissione a dimostrare ex post il possesso di requisiti non adeguatamente documentati in sede di offerta, in contrasto all'articolo 83, comma 9, del decreto legislativo 50/2016. All'azienda non resta che pagare le spese di giudizio (articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017).

APPALTI SERVIZICoperture assicurative, si può andare per gradi. Livello adeguato per l'aggiudicatario.
È illogica la richiesta di produrre in sede di offerta il contratto di assicurazione per la responsabilità civile professionale con un massimale rapportato al valore dell'appalto, trattandosi di richiesta da applicare al solo aggiudicatario.

È quanto ha affermato il TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, con la sentenza 27.02.2017 n. 282 in merito alla nuova disposizione del codice dei contratti pubblici in materia polizza di responsabilità civile professionale.
Si tratta dell'articolo 83, comma 4-c, del decreto 50/2016 che ha introdotto la possibilità per le stazioni appaltanti di chiedere, a dimostrazione della capacità economica e finanziaria negli appalti di servizi e forniture, un livello adeguato di copertura assicurativa contro i rischi professionali. Per fare ciò la norma impone che sia accertata, ancora al momento della presentazione dell'offerta, una condizione che in realtà sarà necessaria solo per lo svolgimento dell'attività, ossia un adempimento che produrrà effetti solo per l'aggiudicatario.
La sentenza chiarisce che il livello adeguato di copertura assicurativa può essere raggiunto anche per gradi, e con una pluralità di strumenti negoziali. Pertanto, si deve escludere che la norma richieda necessariamente l'allegazione di un nuovo contratto di assicurazione, con un massimale già adeguato al valore dell'appalto perché «tra più interpretazioni possibili in base alla lettera della norma deve essere preferita quella che impone il costo minore per gli operatori economici, evitando la creazione di ostacoli impropri alla partecipazione».
La produzione di un nuovo contratto di assicurazione viene ritenuta onerosa per i concorrenti, ma soprattutto del tutto superflua nel corso della gara. Se quindi vi è la certezza che la copertura assicurativa richiesta dal bando o dal disciplinare di gara sarà presente al momento dell'aggiudicazione, e che l'attivazione della suddetta copertura dipende solo dalla volontà dell'aggiudicatario, e non dall'assenso di terzi, l'interesse pubblico può dirsi tutelato, e di conseguenza risulta indifferente lo strumento negoziale che ha reso possibile il risultato (nel caso specifico l'incremento del massimale della polizza già stipulata per la responsabilità civile professionale) (articolo ItaliaOggi del 03.03.2017).
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MASSIMA
10. Sulle questioni rilevanti ai fini della decisione si possono svolgere le seguenti considerazioni.
Sulla copertura assicurativa
11.
L’art. 83, comma 4-c, del Dlgs. 50/2016 consente alle stazioni appaltanti di chiedere, a dimostrazione della capacità economica e finanziaria negli appalti di servizi e forniture, un livello adeguato di copertura assicurativa contro i rischi professionali. La formula normativa impone che sia accertata, ancora al momento della presentazione dell’offerta, una condizione che in realtà sarà necessaria solo per lo svolgimento dell’attività, ossia un adempimento che produrrà effetti solo per l’aggiudicatario.
12. Poiché tra più interpretazioni possibili in base alla lettera della norma deve essere preferita quella che impone il costo minore per gli operatori economici, evitando la creazione di ostacoli impropri alla partecipazione,
si ritiene che il livello adeguato di copertura assicurativa possa essere raggiunto anche per gradi, e con una pluralità di strumenti negoziali.
Pertanto,
si deve escludere che la norma richieda necessariamente l’allegazione di un nuovo contratto di assicurazione, con un massimale già adeguato al valore dell’appalto. La produzione di un simile documento, onerosa per i concorrenti, sarebbe del tutto superflua nel corso della gara, mentre assume la massima importanza al termine della stessa, quando occorre tutelare l’interesse pubblico all’immediato avvio del servizio o della fornitura.
13. Dal lato dei concorrenti, questo significa che
l’esclusione dalla gara è una sanzione ragionevole e proporzionata solo quando la stazione appaltante sia esposta al rischio di selezionare un aggiudicatario non in grado di attivare immediatamente la copertura assicurativa. Al contrario, se vi è la certezza che la copertura assicurativa richiesta dal bando o dal disciplinare di gara sarà presente al momento dell’aggiudicazione, e che l’attivazione della suddetta copertura dipende solo dalla volontà dell’aggiudicatario, e non dall’assenso di terzi, l’interesse pubblico può dirsi tutelato, e di conseguenza risulta indifferente lo strumento negoziale che ha reso possibile il risultato.
14.
La clausola di incremento del massimale riferita alla polizza già stipulata dalla cooperativa ricorrente rientra perfettamente in tale schema, perché, come si è visto, non lascia spazio a ulteriori contrattazioni con la compagnia di assicurazione. L’attivazione della garanzia con il massimale richiesto è una potestà rimessa esclusivamente alla parte contraente una volta verificatasi l’aggiudicazione.
Sul soccorso istruttorio
15. L’art. 5 del disciplinare di gara, che richiede il possesso di una copertura assicurativa contro i rischi professionali di importo non inferiore a quello a quello a base di gara, può essere interpretato come una mera riformulazione dell’art. 83, comma 4-c, del Dlgs. 50/2016.
Non vi è quindi alcun ostacolo all’allegazione di un impegno della compagnia di assicurazione, diretto o attestato dal broker, per la futura stipula o integrazione, a semplice richiesta del concorrente interessato, di una polizza con le caratteristiche richieste.
16.
Se le espressioni utilizzate nel disciplinare di gara fossero state più esplicite nel senso di imporre l’allegazione di un nuovo contratto di assicurazione con un certo massimale, questo avrebbe costituito un aggravio della posizione dei concorrenti rispetto alla disciplina di legge, e dunque si sarebbe verificata l’ipotesi di nullità parziale prevista dall’art. 83, comma 8, del Dlgs. 50/2016.
17. In questo quadro,
il soccorso istruttorio invocato dalla cooperativa ricorrente appare inutile, in quanto la stazione appaltante avrebbe dovuto semplicemente riconoscere l’idoneità della clausola di incremento del massimale, rinunciando alla pretesa di ottenere dai concorrenti un contratto di assicurazione già sottoscritto.
Sulla prova della capacità economica e finanziaria
18. Quanto sopra esposto è sufficiente ad assicurare alla cooperativa ricorrente il reingresso nella gara. Occorre tuttavia sottolineare, proseguendo nell’esame dei motivi di ricorso, che
tale risultato viene conseguito esclusivamente grazie all’impegno assunto dalla compagnia di assicurazione relativamente all’incremento del massimale della polizza contro i rischi professionali.
19.
Questo requisito non era alternativo alle dichiarazioni bancarie, parimenti richieste dal disciplinare di gara a dimostrazione della capacità economica e finanziaria. L’allegato XVII del Dlgs. 50/2016, infatti, nello stabilire l’elenco delle referenze valide come mezzi di prova, specifica che è possibile utilizzare una o più di tali referenze. La stessa precisazione è contenuta nell’art. 86, comma 4, del Dlgs. 50/2016.
La scelta è rimessa alla stazione appaltante, che può quindi esigere anche una pluralità di mezzi di prova, sommando diversi gruppi o diverse voci all’interno dello stesso gruppo, come è avvenuto nel caso in esame (le dichiarazioni bancarie e la copertura assicurativa contro i rischi professionali sono inserite nello stesso gruppo di referenze).
Il limite è solo quello (implicito) della ragionevolezza, e dunque la stazione appaltante dovrà astenersi dal richiedere mezzi di prova ridondanti. Nello specifico, tuttavia, la previsione della copertura assicurativa contro i rischi professionali appare giustificata dalla particolare delicatezza e complessità delle prestazioni erogate in una comunità protetta.

20. Non sarebbe stata utile come requisito sostitutivo la polizza riferita alla responsabilità civile in ambito extraprofessionale. In effetti, se si considera che il servizio è rivolto a soggetti fragili, si deve ritenere che la stazione appaltante, individuando come necessaria la copertura assicurativa contro i rischi professionali, abbia correttamente esercitato la propria discrezionalità.
Sulla procedura di gara
21.
Non sembra infine esservi alcun profilo di violazione dell’art. 30 del Dlgs. 50/2016 e del principio di trasparenza per il fatto che la valutazione della documentazione amministrativa sia avvenuta in seduta riservata (v. verbale del 24-26.10.2016), dopo che in seduta pubblica (v. verbale del 13.10.2016) era stata constatata la completezza della suddetta documentazione.
22. In realtà,
tale procedura è perfettamente legittima (oltre che conforme all’art. 16 del disciplinare di gara), in quanto distingue le fasi che richiedono la pubblicità (per consentire il controllo sul contenuto materiale delle offerte da parte di tutti i concorrenti) e le fasi che invece possono svolgersi anche senza la presenza del pubblico, in quanto dedicate alla qualificazione delle irregolarità di documenti ormai identificati e non più esposti al rischio di sostituzioni o manipolazioni.
Conclusioni
23. Il ricorso deve quindi essere accolto, con il conseguente annullamento degli atti impugnati, per i profili sopra esposti, e la riammissione della cooperativa ricorrente alla gara. La pronuncia favorevole su questo punto non lascia margini alla richiesta di risarcimento per equivalente, peraltro introdotta solo in via subordinata.
24. Tenendo conto dell’attività interpretativa resa necessaria dalla formulazione dell’art. 83, comma 4-c, del Dlgs. 50/2016, e considerando, da un lato, la ridotta attività processuale imposta dal rito ex art. 120, commi 2-bis e 6-bis cpa, e dall’altro la reiezione della domanda risarcitoria, appare giustificata l’integrale compensazione delle spese di giudizio.

EDILIZIA PRIVATAAntisismica speciale per tutti gli edifici in aree a rischio.
La speciale disciplina antisismica si applica a tutte le costruzioni, la cui sicurezza possa comunque interessare la pubblica incolumità, e realizzate in zone delle quali sia dichiarata la sismicità. A prescindere dai materiali e dalle relative strutture, nonché dalla natura precaria o permanente dell'intervento. Con l'obbligatorietà della comunicazione al genio civile per consentire il controllo preventivo da parte della pubblica amministrazione di tutte le costruzioni realizzate in zone sismiche.

Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 24.02.2017 n. 9126 (udienza del 16/11/2016) sulla disciplina antisismica delle costruzioni.
Il fatto in sintesi. Il Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto ordinava la demolizione dell'abusivo realizzato attorno ad un immobile. I proprietari della costruzione avevano realizzato infatti una recinzione di mq 1.282, in zona sismica ed in assenza del necessario preavviso e della preventiva autorizzazione del genio civile. I responsabili dell'intervento sostenevano che il muro non necessitava di alcuna armatura perché non aveva la funzione di contenimento e sostegno di altre strutture.
I giudici ritenevano al contrario integrata la violazione dell'articolo 606, comma 1, lett. b), cpp, perché sul cordolo di cemento armato gli imputati avevano apposto dei blocchi di calcestruzzo e non dei mattoni forati. Gli imputati sottolineavano che il termine «forati» non deve e non può essere inteso come sinonimo di «mattone forato», ma come termine generico indicante qualsiasi blocco di costruzione che al suo interno sia cavo e privo di armatura. Per gli stessi motivi ritenevano non necessaria alcuna comunicazione preventiva alle autorità competenti.
I giudici, sostenevano che il preavviso e il rispetto delle norme antisismiche erano obbligatori dal momento che per la costruzione del muro erano stati utilizzati blocchi di calcestruzzo. Il reato antisismico, sussiste nel caso di opere realizzate nelle zone sismiche senza adempimento dell'obbligo di denuncia e di presentazione dei progetti allo sportello unico e senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione, a nulla rilevando la natura dei materiali impiegati e delle relative strutture ovvero la natura precaria dell'intervento.
L'articolo 93 del dpr del 2001 n. 380 prescrive, tra l'altro, che nelle zone sismiche, chiunque intenda procedere a costruzioni, riparazioni e sopraelevazioni è tenuto a darne preavviso scritto allo sportello unico, che provvede a trasmettere al competente ufficio tecnico della regione copia della domanda e del progetto che ad esso deve essere allegato.
L'art. 94 del medesimo dpr n. 380 del 2001 prescrive poi che nelle località sismiche non si possono iniziare lavori senza la preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione (articolo ItaliaOggi del 25.03.2017).

EDILIZIA PRIVATA: Costruzione di un muro di recinzione - Modifica dell'assetto urbanistico - Interventi di nuova costruzione - Permesso di costruire - Necessità - Giurisprudenza - Art. 5 L. Regione Sicilia n. 37/1985 - Artt. 3, 44, 64, 65, 71, 72, 93, 94 e 95 d.P.R. 380/2001.
La costruzione di un muro di recinzione richiede per la sua realizzazione il preventivo rilascio del permesso di costruire quando, avuto riguardo alla sua struttura e alla estensione dell'area, esso sia tale dal modificare l'assetto urbanistico del territorio, rientrando in tal caso negli interventi di nuova costruzione di cui all'art. 3, lett. e), d.P.R. n. 380 del 2001 (Cass. Sez. 3, n. 4755 del 13/12/2007, Romano; Sez. 3, n. 52040 del 11/11/2014, Langella, concernente un muro in cemento armato avente spessore di cm. 25 ed un'altezza di circa metri 1,80).
Sicché, allorquando il muro di recinzione sia, per struttura, estensione e consistenza, idoneo a determinare una modifica dell'assetto urbanistico del territorio, esso non può neppure essere considerato pertinenza del fondo di un edificio adibito ad abitazione attorno al quale sia stato realizzato, richiedendo ugualmente, per la incidenza della sua realizzazione sul territorio, il permesso di costruire per poter essere realizzato (Sez. 3, n. 41518 del 22/10/2010, Bove; conf. Sez. 3, n. 35898 del 14/05/2008, Russo).
Nella specie, è stata esclusa anche la sufficienza della autorizzazione rilasciata all'imputato ai sensi dell'art. 5 l. Regione Sicilia n. 37 del 1985, che consente, tra l'altro, la realizzazione di recinzioni, con esclusione di quelle dei fondi rustici di cui al successivo art. 6, in forza della sola autorizzazione del sindaco, che sostituisce, in tali ipotesi, la concessione, dovendo intendersi la nozione di recinzione richiamata da tale disposizione come riferita ad opere che non determinino una trasformazione durevole del territorio, per le quali, invece, occorre il permesso di costruire (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.02.2017 n. 8693 - link a
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EDILIZIA PRIVATA: Parziale demolizione delle opere abusive o parziale rimessione in pristino - Estinzione degli illeciti urbanistici - Esclusione - Inapplicabilità analogica della disciplina sui reati paesaggistici - Recupero degli illeciti minori - Art. 181, c. 1-quinquies, d.lgs. n. 42/2004.
La parziale demolizione delle opere abusive o la parziale rimessione in pristino non determinano l'estinzione degli illeciti urbanistici, non essendo prevista una siffatta causa di estinzione di tali reati, che si perfezionano con la realizzazione delle condotte tipiche, e dunque con la costruzione delle opere in assenza dei prescritti permessi e autorizzazioni, non essendo applicabile analogicamente la disciplina dettata in materia di reati paesaggistici dall'art. 181, comma 1-quinquies, d.lgs. n. 42 del 2004, che ha una funzione premiale, diretta ad incentivare il recupero degli illeciti minori e a far riacquistare alla zona vincolata il suo originario pregio estetico.
L'eventuale parziale demolizione delle opere abusive rileverà, dunque, in sede esecutiva, nella individuazione delle opere residue da demolire in attuazione dell'ordine impartito con la sentenza di condanna, ma è priva di rilievo in ordine alla sussistenza degli illeciti urbanistici ascritti all'imputato, perfezionatisi con la realizzazione delle opere ed in relazione ai quali non opera alcuna causa estintiva per effetto della parziale demolizione delle opere abusive (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 22.02.2017 n. 8693 - link a
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APPALTIRibaltone sul soccorso istruttorio e quote Ati. Il Cds contraddice il Tar Lazio.
Non è sanabile con il soccorso istruttorio l'erronea indicazione della percentuale di partecipazione nei raggruppamenti temporanei di imprese, anche se singolarmente le imprese raggruppate possiedono singolarmente anche il 100% dei requisiti.

È questo il principio affermato dal Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 21.02.2017 n. 773 che ha ribaltato il giudizio di primo grado del Tar Lazio (sentenza n. 4384/2012).
In primo grado si era stabilito che, a prescindere dalla indicazione corretta delle quote da parte delle imprese raggruppate, quello che rilevava era il fatto che entrambe le imprese raggruppate fossero qualificate anche per il 100% dei lavori da eseguire e che ciò scongiurava il rischio che una di essere eseguisse attività per le quali non fosse qualificata.
A fronte di una illogica indicazione di ripartizione quote che non raggiungeva il 100% da parte di un Ati fra imprese singolarmente e integralmente qualificate, la stazione appaltante, prima di procedere all'esclusione, avrebbe però dovuto ricorrere al potere di chiedere chiarimenti ex art. 46, comma 1, dlgs n. 163/2006, anche al fine del rispetto del principio di massima partecipazione alle pubbliche gare.
Il Consiglio di stato ha ribaltato la situazione: «L'indicazione delle quote di partecipazione che cumulativamente non raggiungono il 100% viola l'art. 37, commi 4 e 13, dlgs n. 163/2006 nel caso di forniture o servizi nell'offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati... I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento».
Questo elemento è tale da comportare l'incertezza assoluta sul contenuto dell'offerta e, quindi, diversamente da quanto affermato in primo grado, preclude l'esercizio del potere di soccorso istruttorio di cui all'art. 46, comma 1-bis, dlgs n. 163/2006. Per il Consiglio di Stato, lungi da operare una mera rettifica, il soccorso istruttorio si sarebbe infatti tradotto nell'integrazione postuma di uno degli elementi costitutivi dell'offerta in palese violazione della par condicio concorrenti (articolo ItaliaOggi del 24.02.2017).
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MASSIMA
6. Con unico motivo, l’Università denuncia l’errore di giudizio in cui sarebbe incorso il Tar nell’interpretare l’art. 37, commi 4 e 13, d.lgs. 163/2006 che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale richiamato in memoria, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza appellata, non opererebbe alcuna distinzione in ordine alle doverose indicazioni delle quote percentuali di partecipazione in diretta connessione alle prestazioni da eseguirsi nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento.
L’offerta come formulata, denuncia ancora l’Università, sarebbe affetta da radicale nullità per indeterminatezza del soggetto che esegue le prestazioni contrattuali sì da non consentire la sanatoria ex post né l’esercizio del soccorso istruttorio.
7. Il motivo d’appello è fondato.
7.1
L’indicazione delle quote di partecipazione che cumulativamente non raggiungono il 100% viola l’art. 37, commi 4 e 13, d.lgs. n. 163/2006 a mente del quale: “Nel caso di forniture o servizi nell’offerta devono essere specificate le parti del servizio o della fornitura che saranno eseguite dai singoli operatori economici riuniti o consorziati…. I concorrenti riuniti in raggruppamento temporaneo devono eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento.”
Contrariamente a quanto supposto dall’ATI ricorrente, e in parte avallato dal Tar,
la norma non opera alcuna distinguo fra indicazione incompleta e mancata indicazione delle quote.
Viceversa
la corretta indicazione delle quote –al pari della mancata indicazione– obbedisce ad un’esigenza sostanziale: la stazione appaltante deve preventivamente conoscere la (quota)-parte dei lavori da eseguirsi da ciascuna impresa “associanda”. Esigenza necessaria ed assicurata dalla corrispondenza biunivoca tra quota di qualificazione e quota di partecipazione all’a.t.i. e tra quota di partecipazione e quota di esecuzione (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, 11.05.2011, n. 2804; Id, sez. V, 18.08.2009 n. 5098; Id, sez. V, 14.01.2009 n. 9).
L’erronea indicazione di quote solo sul piano del fatto –dell’accadimento storico– diverge dalla mancata indicazione di esse. Sul piano giuridico, in ragione della medesima ratio sostanziale sottesa all’onere, la conseguenza è però la stessa: la nullità dell’offerta per indeterminatezza dei soggetti che assumono le obbligazioni relative all’esecuzione delle prestazioni dedotte nel contratto d’appalto.
7.2
Va da sé che l’incertezza assoluta sul contenuto dell’offerta preclude l’esercizio del potere di soccorso istruttorio di cui all’art. 46, comma 1-bis, d.lgs. n. 163/2006.
Lungi da operare una mera rettifica, nel caso in esame, il soccorso istruttorio si tradurrebbe nell’integrazione postuma di uno degli elementi costitutivi dell’offerta in palese violazione della par condicio concorrenti (cfr., Cons. Stato, sez. III, 01.03.2012, n. 493; Id., sez. V, 08.02.2011 n. 846).
È appena il caso d’aggiungere che
l’attinta conclusione trova significativo avallo di diritto positivo nel nuovo codice dei contratti di cui al d.lgs. n. 50/2016 laddove, pur estendendo rispetto al precedente codice i confini applicativi del soccorso istruttorio, lo esclude (cfr. art. 80 ss.) in radice nei casi –come quello in esame– d’incertezza soggettiva dell’offerta.
8. Conclusivamente l’appello deve essere accolto.

EDILIZIA PRIVATA: Intervento di manutenzione straordinaria - Mutamento d'uso urbanisticamente rilevante - Passaggio a diversa categoria funzionale - Permesso di costruire - Necessità - Fattispecie: da uso residenziale a quella turistico - ricettiva - Artt. 22, 23 e 44 d.P.R. 380/2001 - Art. 181 d.lgs. 42/2004.
Costituisce "mutamento d'uso urbanisticamente rilevante" ogni forma di utilizzo di un immobile o di una singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata da opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità ad una diversa categoria funzionale fra quelle elencate dall'art. 23-ter, comma primo, d.P.R. n. 380 del 2001 (Sez. 3, n. 12904 del 03/12/2015, dep. 31/03/2016, Postiglione) (Corte di Cassazione, Sez. III penale, sentenza 20.02.2017 n. 7964 - link a
www.ambientediritto.it).

COMPETENZE PROGETTUALILavori viari a ingegneri.
È di pertinenza esclusiva degli ingegneri la progettazione di opere viarie non connesse ai singoli fabbricati. Deve dunque essere annullata l'aggiudicazione della gara d'appalto laddove il bando prevedeva l'affiancamento di un architetto nella progettazione esecutiva. E ciò perché il contributo dell'altra categoria professionale non risulta necessario quando i lavori riguardano opere di urbanizzazione primaria. L'impresa che è stata esclusa ottiene dunque il risarcimento del lucro cessante e del danno curriculare.

È quanto emerge dalla sentenza 20.02.2017 n. 1023, pubblicata dalla I Sez. del Tar Campania-Napoli.
È illegittimo il bando nella parte in cui impone di associare un architetto ai concorrenti privi della qualificazione Soa per la progettazione delle classi e della categoria indicate. Il discrimine fra le competenze degli ingegneri e degli architetti sta ancora rappresentato dalle norme di cui agli articoli 51 e 52 del regio decreto 2537/1925.
E nell'esclusiva responsabilità dei primi non rientrano solo la progettazione delle opere necessarie all'estrazione e lavorazione di materiali destinati alle costruzioni e quella delle costruzioni industriali. All'ingegnere competono anche le opere che riguardano viabilità, acquedotti, depuratori, condotte fognarie e impianti di illuminazione, a meno non siano di pertinenza di singoli edifici civili.
Nella specie si tratta di opere di un comparto del piano di insediamenti produttivi del comune. Comune e impresa aggiudicataria pagano le spese processuali all'azienda ingiustamente estromessa (articolo ItaliaOggi del 21.03.2017).

APPALTI SERVIZIAppalti, addio al capitolato. Tar Toscana.
Stop al capitolato d'appalto. L'impresa che si candida a gestire il servizio per conto dell'ente fa annullare il bando di gara nella parte in cui prevede la lista dei lavoratori da assumere in caso di aggiudicazione: la «clausola sociale» prevista dal nuovo codice dei contratti pubblici impone soltanto la priorità di riassorbire il personale uscente, mentre l'obbligo di mantenere i livelli occupazionali risulta contrario ai principi eurounitari in materia di libertà d'impresa.

È quanto emerge dalla sentenza 13.02.2017 n. 231, pubblicata dalla III Sez. del TAR Toscana.
Bocciato il bando di gara predisposto dall'ente regionale per il servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti sanitari. Non si può imporre a chi subentrerà nello svolgimento dell'appalto di assumere in blocco tutto il personale già utilizzato dall'impresa uscente, peraltro riproducendone alla lettera inquadramento e orario di lavoro. E ciò anche perché nella nuova gara determinate prestazioni risultano eliminate dal bando mentre alcuni ospedali non sono più interessati dal servizio.
È vero: la direttiva 24/2014/Ue prevede che anche gli appalti pubblici abbiano una specifica attenzione alle esigenze sociali. Ma l'art. 50 del dlgs 50/2016 non può essere interpretato nel senso di imporre l'assorbimento di tutto il personale impiegato in precedenza: la clausola sociale risulta comunque una facoltà del bando di gara e la stabilità occupazionale costituisce un obiettivo che non può essere trasformato in un rigido obbligo proprio in base ai principi eurounitari di libera iniziativa economica.
In effetti, osservano i giudici amministrativi, il nuovo codice dei contratti pubblici non ha fatto altro che recepire la giurisprudenza formatasi in materia. La necessità di salvaguardare i livelli occupazionali, che pure è un obiettivo dell'ordinamento, deve essere armonizzata con l'organizzazione d'impresa prescelta dall'imprenditore che subentra nella gestione del servizio.
Dunque deve essere escluso ogni obbligo automatico e generalizzato di assunzione a tempo indeterminato del personale già utilizzato dalla precedente impresa affidataria. Spese di giudizio compensate (articolo ItaliaOggi del 10.03.2017).

PUBBLICO IMPIEGOUn segno sullo scritto? Deve essere anomalo perché possa essere annullato il concorso. Il Tar toscana ha così riammesso un elaborato della prova di matematica.
Negli elaborati scritti di un concorso un segno, per essere considerato elemento di identificazione, deve assumere un carattere «oggettivamente e incontestabilmente» anomalo e non conta se, in concreto, la Commissione sia stata o meno in condizione di riconoscerne effettivamente l'autore.

Lo ha sancito il Tar Toscana, Sez. I con la sentenza 13.02.2017 n. 230.
Nel caso in esame un candidato aveva chiesto l'annullamento della graduatoria risultante dalla correzione della prova scritta di matematica, classe di concorso A-26, nella parte in cui l'elaborato scritto del ricorrente non era stato corretto con la motivazione «l'elaborato presenta evidenti segni identificativi», impedendo al medesimo di proseguire nelle successive prove orali per la classe di concorso.
Più precisamente, il ricorrente aveva lamentato che dal lapidario giudizio di «evidenti segni di identificazione» presenti nell'elaborato non si riusciva a comprendere quali fossero tali segni, né in quale parte dell'elaborato si trovassero. Inoltre, neppure si riusciva a comprendere se tali segni assumessero i caratteri dell'astrattezza e oggettività richiesti dalla giurisprudenza per dare concreto rilievo al principio dell'anonimato.
Il Tar accoglie il ricorso e annulla l'esclusione dal concorso del ricorrente. L'«evidente» segno identificativo nella fattispecie, infatti, era l'aver indicato, nell'ambito del quesito n. 1 dell'elaborato, la città dove era ubicato il Liceo Scientifico ove aveva prestato servizio il candidato. E secondo il collegio l'idoneità del segno deve consistere nell'astratta idoneità a fungere da elemento di identificazione, ma solo quando la particolarità riscontrata assuma un carattere «oggettivamente e incontestabilmente» anomalo, rispetto alle ordinarie modalità di elaborazione del pensiero in forma scritta, a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato.
Questa prima condizione, quindi, non può sussistere: l'indicazione del Liceo scientifico non assume questi connotati, sia in relazione al contenuto della traccia del quesito, sia in mancanza di prove circa la assoluta evidenza identificativa di quanto indicato.
Quanto all'elemento psicologico, infine, si è escluso che possa esserci un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato, «dovendo emergere elementi atti a provare, anche qui in modo oggettivo ed inequivoco, l'intenzionalità del concorrente di rendersi riconoscibile». Nella fattispecie, secondo la sentenza, appare evidente come difetti anche questo ulteriore requisito trattandosi di una indicazione perfettamente plausibile e giustificabile alla luce della traccia del quesito (articolo ItaliaOggi del 28.02.2017).
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MASSIMA
6 – D’altra parte,
il principio di anonimato (espressione del valore dell’imparzialità e buon andamento) va applicato con intelligenza, proporzionalità e correlazione con l’altro fondamentale principio di massima partecipazione possibile, a sua volta correlato con due valori anch’essi di rango costituzionale: quello del lavoro e quello del buon andamento, sotto l’altro profilo dell’ampliamento della platea dei partecipanti per innalzare la possibilità statistica di scegliere i migliori: sicché non ogni “segno” astrattamente idoneo al riconoscimento può assurgere a causa escludente.
7 -
La giurisprudenza, infatti, ha delineato i confini entro i quali opera la regola dell'anonimato, individuando nell'idoneità del segno di riconoscimento e nel suo utilizzo intenzionale, i due elementi costitutivi della fattispecie legale.
8 -
Quanto all'idoneità del segno, essa consiste, sì, nell'astratta idoneità del segno a fungere da elemento di identificazione, ma solo quando la particolarità riscontrata assuma un carattere “oggettivamente e incontestabilmente” anomalo, rispetto alle ordinarie modalità di estrinsecazione del pensiero e di elaborazione dello stesso in forma scritta, in tal caso a nulla rilevando che in concreto la Commissione o singoli componenti di essa siano stati o meno in condizione di riconoscere effettivamente l'autore dell'elaborato" (Cons. St., Sez. V, 11.01.2013, n. 102; nello stesso senso Cons. St., Sez. V, 20.10.2008, n. 5114; Cons. St., Sez. IV, 20.09.2006, n. 5511).
Questa prima condizione (oggettività, incontestabilità, irrilevanza di conoscenze personali) non sussiste nella specie: l’indicazione del Liceo scientifico di Livorno non assume i riportati connotati, sia in relazione al contenuto della traccia del quesito, sia in mancanza di prove circa la assoluta evidenza identificativa di quanto indicato (per un caso analogo cfr. Cons. St., sez. V, 17/01/2014, n. 202).
9 -
Quanto all’elemento psicologico della fattispecie, si è escluso che possa operare un automatismo tra astratta possibilità di riconoscimento e violazione della regola dell'anonimato, dovendo emergere elementi atti a provare, anche qui in modo oggettivo ed inequivoco, l'intenzionalità del concorrente di rendersi riconoscibile (cfr. Cons. St., sez. V, 17/01/2014, n. 202; idem, 01.04.2011, n. 2025). Nella fattispecie, appare evidente come difetti anche questo ulteriore requisito, trattandosi, come più volte detto, di indicazione perfettamente plausibile e giustificabile alla luce della traccia del quesito.
10 – Peraltro e per concludere,
la prova più evidente della mancanza di una valenza identificativa della collocazione logistica della risposta sta nel fatto che il Collegio, pur ad un’attenta lettura dell’elaborato fatta in preparazione e discussione dell’udienza camerale, non era riuscito a capire quale fosse il “segno evidente” di riconoscimento.
11 - Il ricorso va conclusivamente accolto, con conseguente definitivo annullamento degli atti impugnati e relativa condanna alle spese di giudizio.

PUBBLICO IMPIEGOSe si guarisce prima del termine si deve tornare al lavoro. Licenziamenti. Altrimenti cade il vincolo fiduciario.
È legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore che, in malattia per un infortunio alla caviglia, viene sorpreso a lavorare nell’azienda di famiglia nonostante fosse già completamente guarito.
Così si è pronunciata la Corte di Cassazione - Sez. lavoro, con sentenza 10.02.2017 n. 3630, compiendo un significativo passo in avanti rispetto all’orientamento prevalente sul punto.
Nel caso di specie il lavoratore era stato ripreso da un investigatore privato mentre aiutava la moglie nella rosticceria di quest’ultima, riscaldando e vendendo i prodotti, facendo le pulizie e persino scaricando la legna. Il datore aveva quindi avviato un procedimento disciplinare nei suoi confronti, contestando lo svolgimento di attività extra-lavorativa durante il periodo di malattia; in seguito, nonostante il lavoratore avesse negato tali accadimenti durante la fase delle giustificazioni, la società gli aveva intimato il licenziamento.
Sulla questione della sanzione applicabile al dipendente che svolga attività presso terzi durante la malattia lo stato dell’arte prevede che la stessa possa giustificare il recesso datoriale in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, ma solo qualora tale attività possa pregiudicare o ritardare la guarigione e, quindi, il rientro in servizio del dipendente (da ultimo, Cassazione 18507/2016).
La Corte d’appello, ribaltando la sentenza del tribunale che aveva invalidato il licenziamento, ha ritenuto di dover effettuare una valutazione complessiva della situazione di fatto, valorizzando, in particolare, la perizia medica d’ufficio svolta in primo grado, dalla quale emergeva che il lavoratore, nei giorni in cui aveva lavorato per la moglie, era completamente guarito e, pertanto, nuovamente in grado di svolgere le proprie mansioni.
Per il giudice di secondo grado, se da un lato è vero che questo accertamento permette di escludere a priori che lo svolgimento dell’attività extra-lavorativa avesse inciso sullo stato di salute del dipendente, è altresì da considerare che in quelle giornate contestate quest’ultimo avrebbe dovuto fornire la prestazione lavorativa al datore. Infatti l’indicazione del periodo di riposo prescritto nel certificato di malattia ha solo una valenza prognostica e non legittima il lavoratore guarito prima del termine a non rientrare al lavoro.
Il comportamento del dipendente, in violazione dell’obbligo di diligenza previsto dall’articolo 2104 del codice civile, è da ritenersi grave, in quanto incide sul dovere primario dello stesso di svolgere la propria prestazione lavorativa, e lesivo del vincolo fiduciario, visto il suo carattere doloso derivante dalla negazione opposta durante il procedimento disciplinare.
La Cassazione conferma il ragionamento del giudice di appello, ribadendo la correttezza della scelta di considerare la condotta del lavoratore nel suo complesso, «senza limitarsi alla sola considerazione dell’incidenza dell’attività lavorativa sui tempi di guarigione». Quanto al diverso motivo di ricorso relativo all’impossibilità di svolgere controlli difensivi tramite un investigatore privato, la Corte si limita a ribadire l’orientamento per cui tali verifiche sono legittime «anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione»
(articolo Il Sole 24 Ore dell'01.03.2017).

ATTI AMMINISTRATIVI - TRIBUTINotifiche, la Pec non basta. Nulla la cartella di pagamento. È un pdf. La Lapet sul valore probatorio della Posta elettronica certificata.
Sulla invalidità delle notifiche delle cartelle di pagamento tramite Posta elettronica certificata, ancora una volta la Giurisprudenza si pronuncia in conformità alle osservazioni Lapet.

A confermarlo la Commissione tributaria provinciale di Savona che, con le recenti sentenza 10.02.2017 n. 100/1/2017 e sentenza 10.02.2017 n. 101/1/2017, ha precisato che è nulla la cartella di pagamento via Pec, in quanto il documento allegato nella versione Pdf, non può essere considerato un valido documento informatico, bensì una semplice copia informatica e come tale priva di qualsivoglia valore probatorio.
«È di tutta evidenza che una semplice copia non può mai assumere un valore giuridico. Il sistema Pec non può garantire infatti che il documento allegato sia effettivamente l'originale», ha commentato il presidente nazionale Roberto Falcone. Inoltre, la Pec non garantisce neanche l'effettiva consegna al destinatario, come invece avviene con la notifica a mezzo messo in quanto pubblico ufficiale. I tributaristi concordano quindi che la semplice disponibilità di un documento nella casella Pec, non equivale all'avvenuta consegna del documento al destinatario, il quale potrebbe non leggerla per svariate ragioni. Senza considerare la conseguente incertezza sui termini di decorrenza dell'atto ai fini della presentazione di ricorso o appello.
«La notifica tramite Pec è pertanto uno strumento costituzionalmente illegittimo poiché, in termini di sistema, non garantisce alcuna libertà al destinatario al fine di poter scegliere modalità, tempi e dinamica di ricezione dell'atto o del documento informatico ed eventualmente di poter esprimere rifiuto», ha aggiunto Falcone. Ma veniamo ai fatti.
La vicenda trae origine da due eventi collegati a una stessa srl di Savona a cui Equitalia aveva notificato tramite Pec, una intimazione di pagamento per presunte cartelle di pagamento notificate in precedenza. La Società proponeva ricorso dinanzi la Commissione tributaria provinciale di Savona, la quale accoglieva il ricorso, nonostante l'Agente della riscossione avesse dimostrato la notifica delle cartelle di pagamento ai sensi dell'art. 26 del dpr n. 602 del 1973.
Secondo i giudici, però, l'Agente della riscossione si era limitata ad allegare il pdf della cartella alla Pec, non rispondendo così alle caratteristiche necessarie per poter essere considerato un documento informatico. La società, aveva, infatti, predisposto una perizia in base alla quale il consulente tecnico d'ufficio del tribunale, precisava che dall'esame dei documenti inviati via Pec da Equitalia, si conclude che gli stessi sono del tutto carenti di quelle procedure atte a garantirne la genuina paternità, nonché mancanti della firma informatica e/o digitale, e non rispondenti a criteri di univocità ed immodificabilità, per cui non garantiscono il valore di certezza e corrispondenza, peraltro confortato dall'attestazione di conformità, del tutto assente, invece previsti indefettibilmente dalle disposizioni normative.
«Ben venga l'intenzione del legislatore di incentivare l'utilizzo dei sistemi informatici al fine di ottenere una riduzione degli oneri sia per i contribuenti che per la stessa pubblica amministrazione», ha precisato il presidente, «tuttavia resta fondamentale garantire il diritto di difesa del contribuente».
Al fine dunque di assicurare una sempre maggiore compliance tra Pubblica amministrazione e cittadino, il quale deve avere sempre chiarezza e conoscenza dell'atto notificato, la Lapet torna a suggerire, in aggiunta alla Pec, l'utilizzo della firma elettronica digitale o il deposito elettronico dell'atto presso soggetti terzi qualificati digitalmente (articolo ItaliaOggi del 04.03.2017).

TRIBUTINotifiche, raccomandate informative. Contribuenti.
In caso di notifica dell'atto tributario a persona diversa dal destinatario è obbligatorio l'invio e la ricezione della lettera raccomandata «informativa» al contribuente. Non è infatti sufficiente la sola spedizione.
Così la Corte di Cassazione, Sez.  con sentenza 03.02.2017 n. 2868.
I fatti del processo - Il contenzioso fiscale nasceva dal ricorso presentato dal contribuente avverso la cartella esattoriale, in ordine alla quale lamentava la mancata notifica dell'avviso di accertamento prodromico, in violazione dell'art. 60, b-bis cit.
La citata norma dispone infatti: «La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita» in virtù dell'art. 137 c.p.c. e seguenti, tuttavia «con le seguenti modifiche», ossia la lettera b-bis) stabilisce che «se il consegnatario non è il destinatario dell'atto [ ] il messo dà notizia dell'avvenuta notificazione dell'atto o dell'avviso, a mezzo di lettera raccomandata».
La decisione - Ebbene, secondo i giudici di Piazza Cavour, «il tenore letterale della disposizione configura la raccomandata informativa come un adempimento essenziale del procedimento di notifica»: al pari della notifica per irreperibilità relativa (art. 140 c.p.c.), anche nell'ipotesi di cui alla lettera b-bis l'iter si perfeziona quando sono stati «effettuati tutti gli adempimenti, incluso l'inoltro al destinatario e l'effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell'atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione».
In conclusione, in sede di notifica di un atto tributario/esattivo, avvenuta a mani di soggetto diverso dal destinatario, il messo è obbligato a trasmettere notizia della notifica del provvedimento con invio e ricezione della lettera informativa a favore del contribuente; in difetto, il procedimento notificatorio si considera nullo, stante la natura recettizia degli atti tributari (Cass. ss. uu. n. 19704/2015) (articolo ItaliaOggi del 15.03.2017).
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MASSIMA
Il ricorso dell'Ufficio non è fondato e deve essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese.
L'art. 60 DPR n. 600 del 29.09.1973 per le notifiche degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente fa espresso rinvio alle norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile ma ha previsto specifiche modifiche, nel caso la notifica venga eseguita dai messi comunali o dai messi speciali autorizzati dall'ufficio delle imposte prevedendo che il messo deve fare sottoscrivere dal consegnatario l'atto o l'avviso ovvero deve indicare i motivi per i quali il consegnatario non ha sottoscritto e, nel caso il consegnatario non sia il destinatario dell'atto o dell'avviso, prevedendo alla lett. b)-bis , che il messo consegni o depositi la copia dell'atto da notificare in busta sigillata, su cui trascrive il numero cronologico della notificazione, dandone atto nella relazione in calce all'originale e alla copia dell'atto stesso.
Sulla busta non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell'atto. Il consegnatario deve sottoscrivere una ricevuta e il messo deve dare notizia dell'avvenuta notificazione dell'atto o dell'avviso, a mezzo di lettera raccomandata.
Il tenore letterale della disposizione configura la raccomandata informativa come un adempimento essenziale del procedimento di notifica: tale è l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte che, tenuto conto delle pronunce della Corte Costituzionale n. 258 del 22.11.2012 relativa all'art. 26, comma 3 (ora 4), del d.P.R. n. 602 del 1973 e n. 3 del 2010 -che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione- ha deciso che
nei casi di "irreperibilità cd. relativa" del destinatario va applicato l'art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto del citato art. 26, ultimo comma, e dell'art. 60, comma 1, alinea, del d.P.R. n. 600 del 1973, sicché è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l'inoltro al destinatario e l'effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell'atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione, Sez. 5, Sentenza n. 25079 del 26/11/2014 (Rv. 634229).

VARILocali, paga il titolare.
Il titolare dell'osteria all'estero per lavoro è comunque responsabile penalmente di ciò che accade nel suo locale.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, Sez. III penale, con la sentenza 27.01.2017 n. 3901 affermando il principio di diritto che in tema di disciplina penale dei prodotti alimentari, la delega di funzioni può operare quale limite della responsabilità penale del legale rappresentante della impresa solo laddove le dimensioni aziendali siano tali da giustificare la necessità di decentrare alcuni compiti, mansioni specifiche e responsabilità, ma non anche in caso di organizzazione a struttura semplice comportante l'affidamento di fatto dell'intera gestione a terzi.
Ciò in quanto tale situazione non esclude la responsabilità in capo al legale rappresentante. In caso contrario, la delega dell'intera gestione finisce per essere uno strumento artificioso per attribuire la responsabilità dal soggetto gravato di una posizione di garanzia ad altro.
Nello specifico, il Collegio ha affermato che se nell'ambito di grandi complessi aziendali della ristorazione, la possibilità di trasferire alcune funzioni e connesse responsabilità penali ad altri soggetti qualificati in presenza di valida delega e che per la validità della stessa non occorre la forma scritta, bensì soltanto I requisiti della certezza e della chiarezza a soggetto qualificato ed idoneo, il principio non può essere applicato nella generalità dei casi.
In sostanza, la giurisprudenza di legittimità ammette che, per necessità organizzative, sia utile una divisione dei compiti tra i vari soggetti lavorativi, e che il titolare dell'impresa, in presenza di una pluralità di adempimenti ai quali non è in grado di ottemperare, possa trasferire alcune sue funzioni e connesse responsabilità penali, a un dipendente qualificato, autonomo e dotato di valida delega. Ma è soltanto in questo caso che sul preposto grava il compito di far rispettare le prescrizioni la cui inosservanza è sanzionata penalmente (articolo ItaliaOggi del 04.03.2017).

TRIBUTIContributi consortili, benefici da provare.
La sola inclusione del fondo del consorziato nel perimetro di contribuenza non è sufficiente a determinare l'assoggettamento al contributo; è, infatti, necessario che sussista uno specifico beneficio derivante dalle opere apprestate e tenute in buono stato manutentivo.
Sono le conclusioni che si leggono nella sentenza 25.01.2017 n. 198/4/2017 emessa dalla IV Sez. della Commissione tributaria provinciale di Lecce.
La Commissione fonda la decisione sulle indicazioni fornite dalla Cassazione nella recente ordinanza n. 18458/2016 che qui di seguito si riporta a stralcio: «il consorzio di bonifica è esonerato dalla prova del beneficio fondiario tutte le volte in cui sussista un piano di classifica, approvato dalla competente autorità, recante i criteri di riparto della contribuenza degli immobili compresi sia nel perimetro consortile, sia nel comprensorio di bonifica.
Non è perciò (...) onere del consorzio fornire la prova di avere adempiuto a quanto indicato nel piano di classifica, approvato dall'autorità regionale, dovendo intendersi presunto il vantaggio diretto e immediato per i fondi del consorziato in ragione della pacifica comprensione degli immobili nel perimetro di intervento consortile e dell'avvenuta approvazione dei piano di classifica, salva la prova contraria del contribuente, da fornirsi mediante dimostrazione di uno specifico fatto positivo contrario, o anche mediante presunzioni dalle quali possa desumersi il fatto negativo dell'assenza di qualsivoglia beneficio diretto e specifico per i fondi di proprietà del contribuente
».
L'indicata interpretazione della regola di riparto ha ricevuto poi una ulteriore precisazione nelle decisioni prese a sezioni unite dalla stessa cassazione, che hanno circoscritto la presunzione di persistenza del diritto dei consorzi, avente titolo nel provvedimento di perimetrazione, alla ipotesi in cui il consorziato non contesti specificamente la legittimità del piano di classificazione e riparto o la inesattezza del suo contenuto.
Nello specifico caso trattato, la parte ricorrente ha specificamente addotto una serie di elementi dai quali può ritenersi dimostrato, quantomeno mediante presunzioni, il fatto negativo dell'assenza di qualsivoglia beneficio diretto e specifico per i fondi di proprietà. Il collegio provinciale salentino, quindi, assoggetta la debenza del tributo, a un effettivo vantaggio ricevuto dal consorziato; nel caso in cui, alla contestazione specifica del contribuente non faccia seguito una replica del Consorzio, il ricorso dovrà essere accolto.
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LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA
[omissis] La Commissione rileva: nel merito, il ricorso appare fondato e, quindi, deve essere accolto, anche alla luce della più recente ordinanza di Cassazione civile che qui di seguito si riporta a stralcio (Cass. civ. Sez. V, sent., 21/09/2016, n. 18458 (...)
L'indicata interpretazione della regola di riparto ha ricevuto poi una ulteriore precisazione nelle decisioni prese a sezioni unite, dinanzi richiamate, che hanno circoscritto la presunzione di persistenza del diritto dei consorzio, avente titolo nel provvedimento di perimetrazione, alla ipotesi in cui il consorziato non contesti specificamente la legittimità del piano di classificazione e riparto o la inesattezza del suo contenuto: in tal caso, infatti, venendo meno il presupposto che determina la presunzione di legittimità della pretesa contributiva, viene conseguentemente meno anche la giustificazione dell'inversione dell'onere probatorio che fa gravare sul consorziato la prova della difformità della pretesa rispetto «all'an od quantum» dovuto in base ai criteri stabiliti dagli atti amministrativi presupposti: ne consegue che in detta ipotesi, non applicandosi la presunzione derivante dall'inclusione nella perimetrazione, va applicata la generale disciplina ex art. 2697 c.c., secondo cui colui che intende far valere un diritto (il consorzio ) è tenuto a fornire la prova dei fatti costitutivi della pretesa (...)
Ad avviso di questo Collegio si tratta di disposizioni che non appaiono idonee a sostenere che, almeno per la regione (...), la semplice inclusione nel perimetro di contribuenza non sarebbe sufficiente a determinare l'assoggettamento al contributo, essendo ulteriormente necessario il sussistere di uno specifico beneficio derivante dalle opere apprestate e tenute in buono stato manutentivo.
Alla vicenda oggetto del presente giudizio, la Commissione osserva che parte ricorrente non si è limitata a una generica contestazione circa la mancanza di benefici derivanti dalle opere consortili, ma ha specificamente addotto una serie di elementi dai quali può ritenersi dimostrato, quantomeno mediante presunzioni, il fatto negativo dell'assenza di qualsivoglia benefici diretto e specifico per i fondi di proprietà del contribuente, situati nel territorio dei comuni (...), per effetto della mancata esecuzione da parte del Consorzio delle opere di bonifica e manutenzione necessarie (...) (articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017).

INCARICHI PROFESSIONALIAvvocato vs cliente con le prove. Il legale deve giustificare l'entità della parcella richiesta. Una rassegna delle decisioni assunte dalla Cassazione e dal Tar in materia di compensi.
L'ombra lunga della crisi mai come in questi anni si sta facendo sentire anche nella professione legale e sempre più sono le cause che vedono gli avvocati chiamare i loro assistiti per farsi riconoscere dal giudice quanto gli è dovuto per l'opera professionale prestata. Una serie di recenti sentenze della Cassazione offrono una panoramica abbastanza organica che certamente può offrire un valido strumento al professionista nel suo quotidiano lavoro.
I giudici della Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 24.01.2017 n. 1801, hanno ribadito come in tema di spese processuali, agli effetti del dm 20/07/2012, n. 140, art. 41, i nuovi parametri, cui devono essere commisurati i compensi dei professionisti, sono da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un avvocato che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale.
Prova sull'avvocato. Il discorso prende le mosse dalla somma che l'avvocato asserisce di dover ricevere dal suo assistito. Sul punto la Corte di cassazione (sez. II civile, sent. n. 26065 del 16/12/2016) ha affermato che per quanto riguarda il compenso per prestazioni professionali, l'avvocato che agisca per ottenere soddisfacimento di crediti inerenti all'attività asseritamente prestata a favore del cliente, avrà l'onere di dimostrare l'an del credito vantato e l'entità delle prestazioni eseguite: e ciò anche per consentire la determinazione quantitativa del compenso. Ed inoltre non avrà rilevanza probatoria la parcella predisposta dall'avvocato nell'ordinario giudizio di cognizione, né avrà rilevanza vincolante il parere espresso dal Consiglio dell'Ordine di appartenenza.
In particolare, in materia di liquidazione degli onorari degli avvocati, prima della abrogazione delle tariffe professionali ad opera del dl 24/01/2012, n. 1, il parere del Consiglio dell'Ordine era volto solo ad attestare la conformità in astratto della parcella alla tariffa, senza vincolo per il giudice circa l'effettività della prestazione.
Mentre, perciò, ai fini dell'emissione del decreto ingiuntivo a norma dell'art. 636 c.p.c., la prova dell'espletamento dell'opera e dell'entità delle prestazioni può essere utilmente fornita con la produzione della parcella e del relativo parere della competente associazione professionale, tale documentazione non è più sufficiente nel giudizio di opposizione, il quale si svolge secondo le regole ordinarie della cognizione e impone, quindi, al professionista, nella sua qualità di attore, di fornire gli elementi dimostrativi della pretesa, con la conseguenza che il giudice di merito non può assumere come base di calcolo per la determinazione del compenso le esposizioni di detta parcella contestate dal debitore.
Il valore della causa. I giudici di piazza Cavour hanno, altresì evidenziato in una più recente sentenza (sez. II civile, sentenza 25893/16 del 15/12) che al fine di determinare gli onorari a carico del cliente sarà opportuno fare riferimento all'art. 6, c. 2, della tariffa professionale approvata con il dm 127/2004, che individua il valore della causa secondo le regole di cui al codice di procedura civile.
Pertanto tale valore non potrà essere determinato tenendo conto di quanto poi effettivamente attribuito alla parte danneggiata che si troverà a vincere il giudizio. Inoltre, nella stessa sentenza gli Ermellini hanno osservato che è corretto che la speciale procedura di liquidazione dei compensi per le prestazioni giudiziali degli avvocati in materia civile, regolata dagli art. 28 e ss. della legge 794/1942, non sia applicabile quando la controversia riguardi non soltanto la semplice determinazione della misura del corrispettivo spettante al professionista, bensì anche altri oggetti di accertamento e decisione, quali i presupposti stessi del diritto al compenso, tra cui l'effettiva esecuzione delle prestazioni.
Tar e compensi legali. E infine, su quale fosse l'autorità giudiziaria chiamata a decidere circa il compenso all'avvocato, è ormai pacifico che i tribunali amministrativi regionali non hanno competenze di merito circa il compenso dell'avvocato, poiché tale compenso costituisce un diritto soggettivo.
È quanto affermato dalle s.u. civili della Cassazione con sentenza 26907 del 23/6/2016.
Il diritto al compenso dei difensori, nell'ambito di un procedimento amministrativo, ha natura di diritto soggettivo e non può essere degradato ad interesse legittimo, essendo estraneo alle competenze del Tar Il difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato che proponga opposizione avverso il decreto di pagamento dei compensi, contestando l'entità delle somme liquidate, agisce in forza di una propria autonoma legittimazione a tutela di un diritto soggettivo patrimoniale, trattandosi di un giudizio autonomo -avente a oggetto la controversia relativa alla spettanza e alla liquidazione del compenso- e non consequenziale rispetto a quello svoltosi davanti al Tar (articolo ItaliaOggi Sette del 27.02.2017).

AMBIENTE-ECOLOGIASulle immissioni tolleranza zero. Danno biologico. Rumori molesti.
Il rumore del vicino supera la normale tollerabilità? Se il “danno biologico” va rigorosamente dimostrato (Corte di Cassazione, Sez. II civile, sentenza 12.01.2017 n. 661), il risarcimento del danno non patrimoniale scatta anche senza prova dell’effettiva esistenza dei danni stessi: in questi termini si è espressa la Corte di Cassazione, Sez. II civile, con la sentenza 20.01.2017 n. 1606 (relatore Antonio Scarpa).
Teatro della contesa, un cortile trevigiano: un fratello vi esercita attività di lavorazione del ferro; l’altro vi abita e ne subisce le immissioni, fin tanto che decide di rivolgersi al Tribunale, che gli dà ragione. Le immissioni superano di 3 dB il rumore di fondo, anche se solo in alcuni giorni ed orari: il Tribunale ordina la cessazione delle immissioni, l’inibizione all’uso di determinati macchinari e il risarcimento dei danni.
La Corte d’Appello di Venezia conferma la condanna. E si configura il reato di cui all’articolo 659 del Codice penale (disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone) e scatta quindi l’obbligo di risarcire il danno non patrimoniale, a norma dell’articolo 2059 del Codice civile.
La Corte di Cassazione, con sentenza 1606/2017, conferma i due precedenti gradi e fa chiarezza nella materia:
   a) in tema di immissioni, i rapporti tra privati proprietari di fondi vicini vanno risolti sulla base dell’articolo 844 del Codice civile, anche se vi siano norme più permissive che disciplinino i rapporti con la pubblica amministrazione;
   b) il limite di tollerabilità non è assoluto ma relativo alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo e non può prescindere dalla rumorosità di fondo;
   c) solo un esperto, scelto dal giudice, è in grado di accertare strumentalmente l’intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone, mentre i testimoni tendono ad esprimere giudizi valutativi di tipo soggettivo;
   d) il danno non patrimoniale da immissioni illecite è risarcibile anche in assenza di un danno biologico documentato, «quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all’interno della propria abitazione e del diritto alla piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti».
L’accertata esposizione ad immissioni intollerabili, invece, non costituisce di per sé prova dell’esistenza di danno agli immobili limitrofi
(articolo Il Sole 24 Ore del 28.02.2017).
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MASSIMA
Ora, il ricorrente Er.Pa. si lamenta che la Corte d'Appello abbia dato peso alle sole indagini svolte dal consulente tecnico d'ufficio e non abbia considerato le proprie deduzioni di prova testimoniale.
Vertendosi in giudizio relativo ad immissioni (nella specie di rumori ed esalazioni provocati dallo svolgimento di attività di officina fabbrile), i mezzi di prova esperibili per accertare il livello di normale tollerabilità previsto dall'art. 844 c.c. costituiscono tipicamente accertamenti di natura tecnica, che vengono di regola compiuti mediante apposita consulenza tecnica d'ufficio con funzione "percipiente", in quanto soltanto un esperto è in grado di accertare, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone, l'intensità dei suoni o delle emissioni di vapori o gas, nonché il loro grado di sopportabilità per le persone. Mentre, in tale materia, la prova testimoniale rimane ammissibile soltanto quando verta su fatti caduti sotto la diretta percezione sensoriale dei deponenti, e non si riveli espressione di giudizi valutativi (come tali vietati ai testi: cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1245 del 04/03/1981; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 2166 del 31/01/2006).
Essenzialmente, Er.Pa. si lamenta che prima il CTU e poi la Corte d'Appello non abbiano tenuto in debito conto l'art. 16 Allegato A del Decreto Ministero dell'Ambiente 16.03.1998, concernente le Tecniche di rilevamento e di misurazione dell'inquinamento acustico, norma che, per il periodo diurno, prende in considerazione la presenza di rumore a tempo parziale nel caso di persistenza dello stesso per un tempo totale non superiore ad un'ora (quale si assume essere il caso per cui è causa) e stabilisce una diminuzione del valore del rumore ambientale di 3 dB(A).
Tale reiterata deduzione del ricorrente trascura il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui,
in tema, appunto, di immissioni sonore, le disposizioni dettate, con riguardo alle modalità di rilevamento o all'intensità dei rumori, da leggi speciali o regolamenti perseguono finalità di carattere pubblico, operando nei rapporti fra i privati e la P.A. sulla base di parametri meno rigorosi di quelli applicabili nei singoli casi ai sensi dell'art. 844 c.c., e non regolano, quindi, direttamente i rapporti tra i privati proprietari di fondi vicini, per i quali vige la disciplina dell'art. 844 c.c., disciplina che, nel fissare i criteri a cui il giudice di merito deve attenersi, rimette al suo prudente apprezzamento il giudizio sulla tollerabilità delle stesse (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 6223 del 29/04/2002; Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 2319 del 01/02/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 10735 del 03/08/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5697 del 18/04/2001; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 939 del 17/01/2011).
I criteri dettati dal d.m. 16.03.1998 attengono, piuttosto, al superamento dei valori limite differenziali di immissione di rumore nell'esercizio o nell'impiego di sorgente di emissioni sonore, di cui all'art. 6, comma 2, della legge 26.10.1995, n. 447, e sono volti a proteggere la salute pubblica mediante predisposizione di apposito illecito amministrativo (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28386 del 22/12/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26738 del 13/12/2006).
Perciò la Corte d'Appello di Venezia ha definito irrilevante accertare per quante ore al giorno venissero utilizzati gli strumenti da lavoro rumorosi, ed ha invece stimato decisiva la verifica, confortata dalle risultanze peritali, che ogni singola macchina adoperata nell'officina fabbrile cagionasse un rumore percepito nell'abitazione dei vicini come eccedente di 3 db rispetto al rumore ambientale di fondo.
La sentenza impugnata ha correttamente considerato, in sostanza, prive di significatività le disposizioni ministeriali sulle modalità di rilevamento dei rumori cosiddetti "a tempo parziale", valutando comunque illecite le immissioni sulla base di un giudizio di tollerabilità formulato ai sensi dell'art. 844 c.c., tenendo presente, fra l'altro, la vicinanza dei luoghi e i possibili effetti dannosi per la salute delle immissioni.
Il limite di tollerabilità delle immissioni rumorose non è, invero, mai assoluto, ma relativo proprio alla situazione ambientale, variabile da luogo a luogo, secondo le caratteristiche della zona e le abitudini degli abitanti, e non può prescindere dalla rumorosità di fondo, ossia dalla fascia rumorosa costante, sulla quale vengono ad innestarsi i rumori denunciati come immissioni abnormi (c.d. criterio comparativo), sicché la valutazione ex art. 844 c.c, diretta a stabilire se i rumori restino compresi o meno nei limiti della norma, deve essere riferita, da un lato, alla sensibilità dell'uomo medio e, dall'altro, alla situazione locale.
Spetta, pertanto, al giudice di merito accertare in concreto il superamento della normale tollerabilità e individuare gli accorgimenti idonei a ricondurre le immissioni nell'ambito della stessa, supponendo tale accertamento un'indagine di fatto, sicché nel giudizio di legittimità non può chiedersi alla Corte di Cassazione di prendere direttamente in esame l'intensità, la durata, o la frequenza dei suoni o delle emissioni per sollecitarne una diversa valutazione di sopportabilità (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17051 del 05/08/2011; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 3438 del 12/02/2010; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17281 del 25/08/2005).
Quanto al quinto motivo del ricorso di Er.Pa., questa Corte intende dare continuità all'orientamento già da essa espresso, per il quale
il danno non patrimoniale conseguente ad immissioni illecite è risarcibile indipendentemente dalla sussistenza di un danno biologico documentato quando sia riferibile alla lesione del diritto al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione e del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane, trattandosi di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela è ulteriormente rafforzata dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, norma alla quale il giudice interno è tenuto ad uniformarsi a seguito della cd. "comunitarizzazione" della Cedu (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20927 del 16/10/2015; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 26899 del 19/12/2014).
La Corte di Venezia ha proprio affermato l'esistenza di un pregiudizio alla libera e normale esplicazione della personalità ed alla qualità della vita di Br.Pa., Ma.Za., Ge.Pa. e Al.Pa., pregiudizio riconducibile allo stress ed al grave disagio provocato dalle immissioni sonore provenienti dalla vicina officina e percepibili nell'abitazione di quelli.
II. Il sesto motivo del ricorso di Er.Pa. denuncia il vizio di motivazione e "la falsa applicazione dell'art. 659, comma 1, c.p. nella fattispecie concreta", non essendo stati superati i limiti fissati dalla legge n. 447/1995. E' opportuno l'esame congiunto di tale sesto motivo del ricorso principale con il secondo motivo del ricorso incidentale di Br.Pa., Ma.Za., Ge.Pa. e Al.Pa., che censura la violazione e/o falsa applicazione dell'art. 674 c.p. e l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la stessa ha negato la configurabilità di tale reato.
11.1. Al riguardo, la Corte di Venezia ha ritenuto nella specie ravvisabili gli estremi del reato di cui all'art. 659 c.p. (Disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone), sussistendo la potenzialità del rumore ad investire tutti coloro che ne sono a contatto, mentre ha escluso la configurabilità dell'art. 674 c.p. (Getto pericoloso di cose), non essendo verificata l'attitudine del materiale per la verniciatura utilizzato da Er.Pa. a creare offesa o molestia.
Il sesto motivo del ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale sono infondati in quanto
quel che rileva ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale a norma dell'art. 2059 c.c., in relazione all'art. 185 c.p., non è che il fatto illecito integri, in concreto, un reato piuttosto che un altro, né occorre una condanna penale passata in giudicato, ma è sufficiente che il fatto stesso sia soltanto astrattamente previsto come reato, sicché è sufficiente a tal fine l'accertamento, da parte del giudice civile, della sussistenza, secondo la legge penale, degli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13085 del 24/06/2015; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 22020 del 19/10/2007).
La Corte d'Appello di Venezia ha dunque sostenuto l'astratta configurabilità, a fini risarcitori, del reato cui al comma primo dell'art. 659, c.p., avendo accertato che l'attività di officina veniva svolta con modalità idonee a disturbare le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero la pubblica quiete; ha invece negato l'ipotizzabilità del reato di cui all'art 674 c.p., non reputando comprovata l'attitudine delle emissioni di gas, vapori o fumi a molestare persone.
Ciò è stato esplicitato dai giudici del merito mediante congrua motivazione sul convincimento maturato al riguardo in base agli elementi probatori disponibili ed in conformità all'interpretazione che di tali due norme esprime questa Corte (Cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 42026 del 18/09/2014; Cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 5735 del 21/01/2015; Cass. pen. Sez. 3, Sentenza n. 760 del 10/12/2002; Cass. pen. Sez. 1, Sentenza n. 5215 del 07/04/1995).
I ricorrenti incidentali, peraltro, non rivelano quale interesse abbiano a che la condotta di Er.Pa., già valutata dalla Corte d'Appello rilevante ai fini della risarcibilità del danno non patrimoniale perché riferibile al reato di cui all'art. 659 c.p., sia invece qualificata come integrante il diverso reato ex art. 674 c.p., potendo comprendersi l'invocazione di una diversa qualificazione giuridica del fatto di reato rivolta al giudice civile sol quando da essa discendano conseguenze sotto il profilo del diritto al risarcimento, come, ad esempio, agli effetti della durata della prescrizione ex art. 2947, comma 3, c.c..

EDILIZIA PRIVATAImpianti pubblicitari, no doppioni. Placet p.a..
Il comune non può chiedere un titolo edilizio per un impianto pubblicitario autorizzato ai sensi del codice della strada. Duplicare il procedimento amministrativo non è infatti necessario ed opportuno.

Lo ha chiarito il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza 19.01.2017 n. 244.
Un comune ha ordinato la demolizione di un impianto pubblicitario perché realizzato in assenza del permesso di costruire. Il Tar ha confermato la determinazione comunale ma il Cds ha ribaltato la vicenda.
L'autorizzazione comunale per gli impianti pubblicitari ha anche una valenza urbanistico-edilizia ed assolve, pertanto, all'esigenza di tutela sottesa al rilascio di un ulteriore titolo abilitativo rappresentato dal permesso di costruire.
In buona sostanza non è possibile duplicare un procedimento di questo tipo richiedendo al soggetto interessato all'installazione di un impianto pubblicitario sia una licenza edilizia che una autorizzazione ex art. 23 codice della strada. Anche se esistono pronunce contrarie che risultano ormai superate (articolo ItaliaOggi Sette del 13.03.2017).

TRIBUTIInterrogatori annunciati. Domande a sorpresa? Accertamento nullo. Una sentenza della Ctp di Reggio Emilia a tutela del contribuente.
L'interrogatorio a sorpresa del fisco rende nullo l'accertamento. L'amministrazione finanziaria non può basare le sue pretese su informazioni rese verbalmente da un contribuente che, convocato per esibire alcuni documenti contabili, non era stato informato prima delle domande. Anche se il soggetto ha spontaneamente risposto ai quesiti. Tale modalità di procedere, infatti, viola i principi di collaborazione e buona fede richiesti dalla legge n. 212/2000.

È quanto stabilito dalla Ctp Reggio Emilia nella sentenza 19.01.2017 n. 38/2/2017.
Il caso vedeva coinvolto un panificio, raggiunto dalla richiesta dell'Agenzia delle entrate di produrre documentazione contabile relativa all'anno 2010. Il legale rappresentante del forno era invitato nella missiva «a presentarsi personalmente presso l'ufficio». Durante l'incontro, tuttavia, l'imprenditore era stato «sottoposto a sorpresa a un vero e proprio interrogatorio», si legge nella sentenza, «quattro pagine di domande preconfezionate con la richiesta di numeri e percentuali di resa».
Da qui il ricorso della snc e dei suoi soci, fondato tra l'altro sull'illegittima modalità di acquisizione di tali informazioni, sulle quali poi l'ufficio aveva basato il proprio accertamento induttivo. Tesi accolta dai giudici emiliani. «L'Agenzia ha proceduto a un atto, l'interrogatorio, della cui eventualità il legale rappresentante non era stato edotto», osserva la Ctp, «con ciò violando il principio di buona fede cui è tenuta la p.a.».
La metodologia delle Entrate viene bocciata anche alla luce del fatto che il contribuente «sia stato esplicitamente invitato a presentarsi personalmente», prosegue la sentenza, «essendo l'utilizzo dell'avverbio sintomo del fatto che l'Agenzia avesse già predisposto le domande e volesse essere sicura che fosse il legale rappresentante a presentarsi, onde poterlo “interrogare”, e non un suo inviato».
Le informazioni ottenute dall'ufficio nelle risposte verbali del contribuente, pertanto, sono da considerarsi «inutilizzabili». Da qui l'annullamento dell'atto impugnato, con la condanna dell'ufficio a rifondere all'impresa le spese del giudizio (articolo ItaliaOggi del 24.03.2017).

TRIBUTIEntrate locali, recupero entro 5 anni.
Il recupero del credito riguardante la tassa rifiuti è soggetto al termine di prescrizione quinquennale poiché si tratta di una prestazione periodica a carico del contribuente. Dunque le azioni esecutive esperite da Equitalia, o da altri soggetti incaricati dalle amministrazioni comunali che riscuotono a mezzo ingiunzione, non possono essere adottate oltre il termine di 5 anni, a meno che non sia stato notificato un atto interruttivo della prescrizione. Il termine quinquennale vale anche per le ganasce fiscali. Infatti, è illegittimo il provvedimento di fermo amministrativo emanato oltre i 5 anni, ancorché si tratti di una misura cautelare. Questo breve termine prescrizionale si applica a tutti i tributi e entrate locali che si pagano ad anno o frazione di anno.

Lo ha affermato la Ctr di Roma, con la sentenza 17.01.2017 n. 47.
Nel caso in esame, tra la notifica della cartella Tarsu e il provvedimento di fermo dell'autovettura erano trascorsi più di 5 anni, senza che l'esattore avesse emanato medio tempore un atto interruttivo della prescrizione o un'intimazione di pagamento. Per i giudici d'appello in questo caso non può essere invocato il termine di prescrizione decennale.
Trattandosi di una prestazione periodica va applicata la regola contenuta nell'articolo 2948 del codice civile, secondo cui il termine per recuperare il credito si riduce a 5 anni per tutto ciò che si paga periodicamente ad anno o in termini più brevi. Secondo la commissione regionale, «la disposizione codicistica trova applicazione nella ipotesi di prestazioni periodiche in relazione a una causa debendi continuativa, mentre la medesima norma non trova applicazione nella ipotesi di debito unico».
E questa regola vale non solo per la Tari ma, per i giudici tributari, è applicabile più in generale alle entrate locali che si pagano periodicamente, poiché «non è revocabile in dubbio che i pagamenti dei tributi locali di cui si tratta hanno cadenza annuale o in termini più brevi, in ragione di mesi, con ciò rientrando, sotto il profilo testuale, nella disposizione in parola». Per fermare il termine quinquennale è necessario notificare al debitore un atto interruttivo della prescrizione, che blocchi il suo decorso e lo faccia ripartire da zero.
Peraltro l'articolo 50, comma 2, del dpr 602/1973 obbliga Equitalia o il concessionario della riscossione, dopo un anno dalla notifica della cartella o dell'ingiunzione, a emanare un'intimazione al debitore prima di avviare le procedure esecutive (articolo ItaliaOggi dell'01.03.2017).

URBANISTICAIl termine per impugnare la variante ad un p.r.g. che non è destinata a disciplinare l'intero territorio comunale, ma ha un contenuto particolare che incide in concreto soltanto su alcune aree, non decorre dalla pubblicazione (in genere della delibera regionale di approvazione nel BUR) e neppure dall'ultimo giorno della pubblicazione all'Albo Pretorio dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti relativi al piano approvato, bensì dalla data in cui risulta che l'interessato abbia acquisito la piena conoscenza degli atti impugnati.
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Sotto il profilo della pianificazione attuativa, l’impugnativa appare ammissibile e tempestiva sia rispetto al solo atto di approvazione sia a fronte della determina conclusiva successiva alla conferenza di servizi:
- sotto il primo versante, in quanto l’impugnativa della previa adozione costituisce pacifico esercizio facoltativo, come più volte ribadito dalla giurisprudenza condivisa dal Collegio a mente della quale “l'impugnazione della delibera di adozione dello strumento urbanistico, sebbene immediatamente lesiva, costituisce soltanto una facoltà, in quanto i vizi ad essa riferibili possono essere dedotti in sede di impugnazione della deliberazione di approvazione”;
- sotto il secondo versante, in quanto costituisce parimenti principio consolidato quello per cui la determinazione della conferenza, anche se di tipo decisorio, ha mera valenza endoprocedimentale, posto che solo la determinazione adottata dall'Amministrazione competente all'esito della Conferenza di Servizi, rappresenta il provvedimento conclusivo del procedimento e impugnabile in sede giurisdizionale.
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Va ribadito con la migliore giurisprudenza che il termine per impugnare il piano particolareggiato da parte dei soggetti che da esso si reputano direttamente incisi comincia a decorrere dalla notifica individuale ovvero dalla piena conoscenza e non dalla sua pubblicazione all'albo pretorio.
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3.1 Sotto il profilo generale, va ribadito con la condivisa e prevalente opinione giurisprudenziale che il termine per impugnare la variante ad un p.r.g. che non è destinata a disciplinare l'intero territorio comunale, ma ha un contenuto particolare che incide in concreto soltanto su alcune aree, non decorre dalla pubblicazione (in genere della delibera regionale di approvazione nel BUR) e neppure dall'ultimo giorno della pubblicazione all'Albo Pretorio dell'avviso di deposito presso gli uffici comunali dei documenti relativi al piano approvato, bensì dalla data in cui risulta che l'interessato abbia acquisito la piena conoscenza degli atti impugnati (cfr. ex multis CdS n. 922/2013 e 7502/2004); ciò in specie nei confronti dei soggetti proprietari di aree diverse, sebbene limitrofe a quelle direttamente disciplinate dalla variante di estremo dettaglio, quale quella di specie.
3.2 Sotto il profilo della pianificazione attuativa, poi, l’impugnativa appare ammissibile e tempestiva, sia rispetto al solo atto di approvazione, sia a fronte della determina conclusiva successiva alla conferenza di servizi: sotto il primo versante, in quanto l’impugnativa della previa adozione costituisce pacifico esercizio facoltativo, come più volte ribadito dalla giurisprudenza condivisa dal Collegio a mente della quale “l'impugnazione della delibera di adozione dello strumento urbanistico, sebbene immediatamente lesiva, costituisce soltanto una facoltà, in quanto i vizi ad essa riferibili possono essere dedotti in sede di impugnazione della deliberazione di approvazione”; sotto il secondo versante, in quanto costituisce parimenti principio consolidato quello per cui la determinazione della conferenza, anche se di tipo decisorio, ha mera valenza endoprocedimentale, posto che solo la determinazione adottata dall'Amministrazione competente all'esito della Conferenza di Servizi, rappresenta il provvedimento conclusivo del procedimento e impugnabile in sede giurisdizionale.
A quest’ultimo riguardo il principio si coniuga con l’altro, a mente del quale la Conferenza di Servizi costituisce un modulo organizzativo volto all'acquisizione dell'avviso di tutte le Amministrazioni preposte alla cura dei diversi interessi rilevanti, finalizzato all'accelerazione dei tempi procedurali, mediante un esame contestuale di tutti gli interessi pubblici coinvolti, per cui la Conferenza non si identifica con un nuovo organo separato dai singoli partecipanti, non trattandosi di organo collegiale oppure di ufficio speciale della P.A..
Nel caso di specie, pertanto, l’impugnativa appare ammissibile e tempestiva in relazione all’atto provinciale di approvazione del p.u.o. sulla scorta delle indicazioni emerse in sede di conferenza di servizi deliberante, di cui l’atto provinciale stesso costituisce determinazione conclusiva ai sensi della disciplina di cui all’art. 14-ter legge 241 cit..
Inoltre, va ribadito con la migliore giurisprudenza che il termine per impugnare il piano particolareggiato da parte dei soggetti che da esso si reputano direttamente incisi comincia a decorrere dalla notifica individuale ovvero dalla piena conoscenza e non dalla sua pubblicazione all'albo pretorio (Tar Lazio 3023/2011)
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 02.07.2013 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: Assume rilievo di principio l’obbligo di previa sottoposizione a v.a.s. delle scelte urbanistiche, comportanti per un comparto specifico il raddoppio delle volumetrie rispetto al pregresso ed il pesante convolgimento di elementi di rilevante impatto ambientale, a partire dalla falda acquifera.
Al riguardo, ancora di recente, e rispetto ad un ordinamento simile al nostro in tema di classificazione dei piani, la Corte giustizia UE ha avuto modo di precisare, in termini di principio rispetto ai quali le eventuali previsioni di dettaglio contrarie scontano l’obbligo di disapplicazione, che la nozione di piani e programmi "previsti da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative", di cui all'art. 2, lett. a), della direttiva 2001/42, deve essere interpretata nel senso che essa riguarda anche i piani regolatori particolareggiati, come quello oggetto del procedimento principale; ciò in quanto non può essere accolta un'interpretazione che porterebbe ad escludere dall'ambito di applicazione della direttiva 2001/42 tutti i piani e programmi, segnatamente quelli riguardanti l'assetto del territorio, per il solo motivo che una tale adozione non avrebbe in ogni caso carattere obbligatorio.
In sostanza, la disciplina VAS (art. 3 della direttiva 2001/41/CE) impone agli Stati membri di attuare «piani e programmi» che possono avere effetti significativi sull'ambiente, sottoponendoli ad una valutazione ambientale. Nel caso di specie l’impatto significativo sull’ambiente è emerso sin dall’origine degli approfondimenti istruttori.

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La VAS, quale processo a supporto dell'attività di gestione del territorio e delle connesse scelte di programmazione e di pianificazione, prima che queste vengano tradotte in interventi diretti (autorizzazioni, concessioni ecc.), e non quale strumento di verifica a posteriori delle scelte di pianificazione, ben può radicarsi con lo strumento del piano o programma urbanistico-territoriale.
Strumento mediante il quale le Autorità sono chiamate allo studio organico del territorio, della gestione delle sue risorse, all'obbligo preventivo di coinvolgimento di tutte le parti, mediante l'avvio delle procedure di informazione e di consultazione dell'opinione pubblica, in ordine a qualsiasi decisione futura che inerisca un qualunque assetto territoriale.
L'obiettivo essenziale della direttiva VAS consiste nel sottoporre a valutazione ambientale, i piani e programmi che possono avere effetti significativi sull'ambiente, durante la loro elaborazione e prima della loro adozione. La VAS, al pari di qualsiasi atto programmatico e strategico richiede che siano esaminate le informazioni riguardanti gli aspetti pertinenti allo stato attuale dell'ambiente e alla sua evoluzione probabile, con o senza la previsione del piano o del programma di riferimento, nonché alla decisione della sua modifica o abrogazione.
È in questo contesto che la direttiva (art. 2) prevede l'obbligo della VAS per qualsiasi piano e programma previsto da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, elaborato e/o adottato da un'Autorità a livello nazionale, regionale o locale per essere approvato mediante una procedura legislativa dal Parlamento o dal Governo, financo per qualsiasi modifica dei medesimi piani o programmi già adottati.
Su tale ultimo richiamo normativo, la Corte di giustizia, nell'ambito del decisum pregiudiziale, afferma che la VAS trova applicazione anche in caso di modifica o abrogazione, totale o parziale, dello strumento di pianificazione, nella specie, del piano regolatore preso a riferimento. Ciò in quanto anche il venir meno dell'efficacia, integrale o parziale, della strumentazione di pianificazione in essere o una sua modifica, può comportare la genesi o l'aumento degli effetti significativi sull'ambiente. Di conseguenza, una nuova VAS deve essere immediatamente apprestata prima di procedere a deliberare le varianti della pianificazione in essere.
La configurazione empirica della VAS, che emerge anche dalle chiare indicazioni della Corte di Giustizia, consente di avvalorare la sua connotazione quale impianto giuridico sperimentale, tale da presentarsi particolarmente flessibile e da assorbire e inglobare le diversificate metodologie di impiego e di studio del territorio, ove accomunate allo scopo di assicurare un controllo ex ante, in itinere ed ex post dei possibili impatti ambientali. Sono sottoposti all'obbligo della VAS tutti quegli strumenti urbanistici muniti di «indicatori di performance», che verificano il livello di conseguimento degli obiettivi assunti e generati sulla città e sul territorio e che permettono di quantificare se, quando e quanto gli obiettivi di piano siano raggiunti.
La connotazione duttile e plasmabile della VAS è invece assente in altri strumenti quali la VIA deputata a singoli progetti, in cui è richiesto un approccio più circoscritto ed unidirezionale. Nel caso di specie, peraltro, pur dinanzi alla rilevanza della trasformazione ed all’impatto sull’ambiente sono state omesse entrambe le valutazioni, e si è svolta solo ex post la mera verifica screening.
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4.3 A propria volta, la normativa ambientale impone lo svolgimento di una serie di verifiche preliminari. Sia quelle di dettaglio, solo in seguito avviate e che hanno portato a modifiche tali da rendere non coincidente quanto approvato a livello urbanistico con quanto assentito a livello ambientale, sia più generali in termini di valutazione ambientale strategica.
In tale contesto sia normativo che fattuale, anche dinanzi alle peculiarità della zona e dell’intervento, assume rilievo parimenti di principio l’obbligo di previa sottoposizione a v.a.s. delle scelte urbanistiche, comportanti per un comparto specifico il raddoppio delle volumetrie rispetto al pregresso ed il pesante convolgimento di elementi di rilevante impatto ambientale, a partire dalla falda acquifera.
Al riguardo, ancora di recente, e rispetto ad un ordinamento simile al nostro in tema di classificazione dei piani, la Corte giustizia UE (cfr. sez. IV, 22.03.2012, n. 567) ha avuto modo di precisare, in termini di principio rispetto ai quali le eventuali previsioni di dettaglio contrarie scontano l’obbligo di disapplicazione, che la nozione di piani e programmi "previsti da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative", di cui all'art. 2, lett. a), della direttiva 2001/42, deve essere interpretata nel senso che essa riguarda anche i piani regolatori particolareggiati, come quello oggetto del procedimento principale; ciò in quanto non può essere accolta un'interpretazione che porterebbe ad escludere dall'ambito di applicazione della direttiva 2001/42 tutti i piani e programmi, segnatamente quelli riguardanti l'assetto del territorio, per il solo motivo che una tale adozione non avrebbe in ogni caso carattere obbligatorio.
In sostanza, la disciplina VAS (art. 3 della direttiva 2001/41/CE) impone agli Stati membri di attuare «piani e programmi» che possono avere effetti significativi sull'ambiente, sottoponendoli ad una valutazione ambientale. Nel caso di specie l’impatto significativo sull’ambiente è emerso sin dall’origine degli approfondimenti istruttori.
...
In via generale, come detto la disciplina VAS ex art. 3 della direttiva invocata impone agli Stati membri di attuare «piani e programmi» che possono avere effetti significativi sull'ambiente, sottoponendoli ad una valutazione ambientale. Tale obbligo discende in termini immediatamente precettivi sulla scorta dei principi predetti e della normativa attuativa di cui al d.lgs. 152 del 2006, la quale va intesa in tali termini. Le eventuali diverse indicazioni di dettaglio –comprese quelle invocate dalle difese resistenti- vanno esaminate in termini restrittivi ovvero di disapplicazione per contrasto col principio.
L'art. 3, comma 2 della direttiva aggiunge che «fatto salvo il par. 3 viene effettuata una valutazione ambientale per tutti i piani e i programmi, che sono elaborati per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli, e che definiscono il quadro di riferimento per l'autorizzazione dei progetti elencati negli allegati I e II della direttiva [85/337/CEE], o per i quali, in considerazione dei possibili effetti sui siti, si ritiene necessaria una valutazione ai sensi degli articoli 6 o 7 della direttiva 92/43/CEE».
Di conseguenza, gli Stati adempiono a tale obbligo (e non facoltà), ponendo in essere tutte quelle modalità organizzative opportune e apprestando le risorse necessarie, per realizzare l'obiettivo indicato. Completa tale adempimento la divulgazione dell'informazione ai cittadini, in modo chiaro e trasparente, che tale attività è esercitata mediante un atto vincolante, non facilmente modificabile, e in attuazione di quella precisa normativa di rango primario che trova applicazione.
A propria volta il paragrafo 3 prevede la possibilità di esclusione per i piani che determinano l’uso di piccole aree, pur dovendo a priori scontare la determinazione del concetto di piccola area (e nel caso di specie rispetto al contesto interessato l’area è tutt’altro che piccola), unicamente in assenza di effetti significativi sull’ambiente; questi ultimi invece sono ampiamente presenti nel caso de quo, come emerso sin dall’origine a fronte delle diverse problematiche idrogeologiche e geotecniche evidenziate e non adeguatamente approfondite.
Con la sentenza della Corte di Giustizia, sopra richiamata, anche lo strumento programmatico del «piano regolatore particolareggiato» (esaminato nell'ordinamento belga), può integrare la nozione di «piano e programma» ricompreso nell'art. 2, tale da essere sottoposto obbligatoriamente alle norme relative alla valutazione ambientale strategica.
L'occasione della pronuncia pregiudiziale afferente allo strumento urbanistico belga, attrae l'attenzione di tutti gli ordinamenti statali, compreso il nostro che utilizza metodologie programmatiche similari. Infatti, come evidenziato in dottrina, nell'ordinamento belga, (preso di riferimento nella sentenza in commento), il Code Bruxellois de l'Aménagement du Territoire, modificato dalla legge del 2009 menziona tra le varie categorie di piani: il piano di sviluppo regionale; il piano regolatore regionale; i piani di sviluppo comunali; il piano regolatore particolareggiato etc.
Nell'ordinamento italiano si possono richiamare, senza presunzione di esaustività, il Piano regolatore generale (PRG), il piano per l'edilizia economica e popolare (PEEP), i piani di settore; il piano territoriale di coordinamento (PTC), i piani territoriali paesistici (PTP), il piano di fabbricazione (PdF), il piano particolareggiato esecutivo (PPE), il piano esecutivo convenzionato (PEC), il piano per insediamenti produttivi (PIP), il piano di recupero del patrimonio edilizio esistente (PdR) e tutta una ulteriore serie di piani di dettaglio, cui la fantasia dei legislatori regionali ha dato nuova linfa. In Italia, tali strumenti prendono avvio anche prima della legge quadro del 17.08.1942, n. 1150 (vd. i Piani paesistici che trovano la loro fonte nella legge n. 1497 del 1939).
Una visione di insieme in sede dottrinale ha portato a riassumere il fenomeno quale passaggio in quattro tappe:
a) da un approccio territoriale generale con la legge quadro 1150/1942, b) alle leggi di supporto (167/1962; 765/1967; 865/1971; 10/1977; 431/1985, 142/1990 ecc.) per settori specifici (edilizia popolare, standard, ecc.) sempre di respiro statale, c) alla visione più circoscritta nell'ambito territoriale delle singole Regioni dal 1972 così determinando nuove normative per i vari settori dell'edilizia, dell'urbanistica e del territorio per una gestione che dal governo centrale cede a quello a regionale, d) alla rivalutazione del ruolo delle città e delle peculiarità delle risorse che ineriscono all'area territoriale, in senso stretto, determinando una visione più capillare delle problematiche locali anche per contesti non considerati oculatamente in precedenza (es. tutela del paesaggio e della difesa dell'ambiente, ecc.).
In virtù dei principi espressi in sede sovranazionale pertanto si apprende che la VAS, quale processo a supporto dell'attività di gestione del territorio e delle connesse scelte di programmazione e di pianificazione, prima che queste vengano tradotte in interventi diretti (autorizzazioni, concessioni ecc.), e non quale strumento di verifica a posteriori delle scelte di pianificazione, ben può radicarsi con lo strumento del piano o programma urbanistico-territoriale.
Strumento mediante il quale le Autorità sono chiamate allo studio organico del territorio, della gestione delle sue risorse, all'obbligo preventivo di coinvolgimento di tutte le parti, mediante l'avvio delle procedure di informazione e di consultazione dell'opinione pubblica, in ordine a qualsiasi decisione futura che inerisca un qualunque assetto territoriale.
L'obiettivo essenziale della direttiva VAS consiste nel sottoporre a valutazione ambientale, i piani e programmi che possono avere effetti significativi sull'ambiente, durante la loro elaborazione e prima della loro adozione. La VAS, al pari di qualsiasi atto programmatico e strategico richiede che siano esaminate le informazioni riguardanti gli aspetti pertinenti allo stato attuale dell'ambiente e alla sua evoluzione probabile, con o senza la previsione del piano o del programma di riferimento, nonché alla decisione della sua modifica o abrogazione.
È in questo contesto che la direttiva (art. 2) prevede l'obbligo della VAS per qualsiasi piano e programma previsto da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, elaborato e/o adottato da un'Autorità a livello nazionale, regionale o locale per essere approvato mediante una procedura legislativa dal Parlamento o dal Governo, financo per qualsiasi modifica dei medesimi piani o programmi già adottati.
Su tale ultimo richiamo normativo, la Corte di giustizia, nell'ambito del decisum pregiudiziale, afferma che la VAS trova applicazione anche in caso di modifica o abrogazione, totale o parziale, dello strumento di pianificazione, nella specie, del piano regolatore preso a riferimento. Ciò in quanto anche il venir meno dell'efficacia, integrale o parziale, della strumentazione di pianificazione in essere o una sua modifica, può comportare la genesi o l'aumento degli effetti significativi sull'ambiente. Di conseguenza, una nuova VAS deve essere immediatamente apprestata prima di procedere a deliberare le varianti della pianificazione in essere.
La configurazione empirica della VAS, che emerge anche dalle chiare indicazioni della Corte di Giustizia, consente di avvalorare la sua connotazione quale impianto giuridico sperimentale, tale da presentarsi particolarmente flessibile e da assorbire e inglobare le diversificate metodologie di impiego e di studio del territorio, ove accomunate allo scopo di assicurare un controllo ex ante, in itinere ed ex post dei possibili impatti ambientali. Sono sottoposti all'obbligo della VAS tutti quegli strumenti urbanistici muniti di «indicatori di performance», che verificano il livello di conseguimento degli obiettivi assunti e generati sulla città e sul territorio e che permettono di quantificare se, quando e quanto gli obiettivi di piano siano raggiunti.
La connotazione duttile e plasmabile della VAS è invece assente in altri strumenti quali la VIA deputata a singoli progetti, in cui è richiesto un approccio più circoscritto ed unidirezionale. Nel caso di specie, peraltro, pur dinanzi alla rilevanza della trasformazione ed all’impatto sull’ambiente sono state omesse entrambe le valutazioni, e si è svolta solo ex post la mera verifica screening.
I principi richiamati appaiono invero già noti alla giurisprudenza, sulla scorta della normativa invocata dagli stessi ricorrenti. E’ stato statuito ad esempio (cfr. CdS 5715/2012 e Tar Sardegna 810/2012) che già ex art. 4 e ss. d.lgs. n. 152/2006, devono essere sottoposti a v.a.s. i piani e programmi che possano avere un impatto significativo sull'ambiente e sul patrimonio culturale; non è allora escluso che anche i piani attuativi possano essere sottoposti a v.a.s. in presenza di particolari presupposti da verificarsi in concreto, quali l'espressa volontà della p.a. a sottoporre a detta procedura tale tipo di piano; e all'attitudine del piano stesso a incidere sui profili ambientali delle aree interessate.
Quindi, la normativa in materia di v.i.a. e di screening ambientale si applica anche agli strumenti urbanistici attuativi, purché sussistano tutte le condizioni ulteriori richieste dalla disciplina vigente; la normativa comunitaria e nazionale, infatti, prevede la necessità di un esame e un'autorizzazione preventiva di progetti che comportino un notevole impatto ambientale e, sotto tale profilo, è proprio la pianificazione attuativa ad individuare (ed autorizzare) con sufficiente grado di dettaglio -sul piano e qualitativo e quantitativo- gli insediamenti da realizzare.
L’esame e la valutazione sul punto devono essere svolte e ciò va fatto in via preventiva. Nel caso de quo, invece, a fronte di un piano attuativo avente rilevante impatto ambientale -come emerso in sede istruttoria ed oggetto di considerazione rispetto ai precedenti motivi di gravame-, non è stata svolta alcuna v.a.s. e la verifica screening ha seguito l’approvazione definitiva del piano attuativo, in termini illogici e contraddittori rispetto ai principi sin qui richiamati.
A monte, la stessa variante di p.u.c., sia per le peculiarità critiche della zona sotto i profili ambientali, sia per il rilevante impatto derivante dal raddoppio delle volumetrie precedenti, avrebbe a priori ed a maggior ragione essere soggetto alla valutazione imposta dai principi sovranazionali invocati. Nel caso de quo nessun livello di piano è stato sottoposto alla necessaria valutazione, cosicché neppure è possibile trarre spunti positivi sul punto per il p.u.o. dalla verifica fatta in ambito variante p.u.c.. Anche qui si conferma pertanto il trascinarsi di carenze negli approfondimenti, non certo recuperabili nella mera fase edilizia.
Al riguardo, a conferma dell’illogicità del percorso seguito, è emerso (ma anche sul punto si è già svolto il relativo approfondimento) che è stato oggetto di verifica screening e modifica prescrittiva un p.u.o. non più coincidente con quanto in precedenza approvato a livello urbanistico. Da ciò la fondatezza delle censure dedotte sul punto.
Infine, in termini più ampi ricostruttivi del sistema va evidenziato che le considerazioni ed i principi di origine sovranazionale hanno trovato di recente ulteriore conferma da parte della Corte Costituzionale (cfr. sent n. 93 del 2013), la quale ha evidenziato la rilevanza della normativa comunitaria in questione e la relativa prevalenza; in dettaglio è stato ad esempio ribadito che dalla citata dir. CE UE discende un preciso obbligo gravante su tutti gli Stati membri di assoggettare a VIA non solo i progetti indicati nell'allegato I, ma anche i progetti descritti nell'allegato II, qualora si rivelino idonei a generare un impatto ambientale importante, all'esito della procedura di c.d. Screening.
Pertanto, la mancata considerazione dei predetti criteri della dir. CE UE pone la normativa regionale ovvero quella statale di dettaglio (come quelle invocate dalle difese resistenti) in evidente contrasto con le indicazioni comunitarie
(TAR Liguria, Sez. I, sentenza 02.07.2013 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

URBANISTICA: E' pacifico che in sede di osservazioni siano state presentate modifiche (e quindi già di per sé con uno strumento non corretto, illogicamente esteso oltre le proprie riconosciute finalità) da parte dello stesso soggetto proponente, il cui accoglimento per relationem ha escluso la dovuta fase di pubblicazione e partecipazione in ordine alle stesse previsioni modificative.
L’utilizzo scorretto di uno strumento fondamentale della fase procedimentale di approvazione di un delicato strumento urbanistico appare evidente, sia sotto il profilo soggettivo, in quanto l’osservazione è propria dei soggetti diversi dal proponente, sia sotto quello oggettivo, avendo modificato ulteriormente il progetto sulla scorta di previsioni nuove, su cui non si è svolto il necessario iter sia in sede di pareri tecnici che soprattutto di osservazioni dei soggetti interessati.
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5.7 Infine, se per un verso sono infondati per genericità e contrasto con gli atti prodotti da parte resistente le contestazioni di cui al nono ed ultimo motivo del ricorso principale circa i tempi dei lavori, di nuovo fondati appaiono i rilievi di cui al settimo ed all’ottavo motivo di gravame, con cui parte ricorrente lamenta che la documentazione di p.u.o. avrebbe dovuto, contrariamente a quanto avvenuto, essere uniformata alle prescrizioni comunali prima dell’approvazione consiliare, e che la stessa proponente ha fatto apportare modifiche presentando osservazioni, ledendo così l’iter e le garanzie degli altri soggetti legittimati a formulare osservazioni: ciò, sia sulla scorta delle considerazioni svolte in sede di inquadramento preliminare, sia a fronte delle emergenze documentali.
Sotto il primo profilo, già in sede di esame generale è emerso come l’approvazione definitiva non abbia ad oggetto un unico e certo progetto, individuato tramite il riferimento a chiari ed univoci elaborati, riguardando in generale l’intervento cui peraltro risultano poi apportate diverse modifiche di diversa provenienza. Tale situazione avrebbe imposto la previa necessaria ricostruzione del progetto come definito dall’iter, e non il mero rinvio generico a diverse modifiche e prescrizioni, ponendo l’obbligo di una consapevole valutazione complessiva finale.
Sotto il secondo profilo, che conferma oltretutto come l’accelerazione dell’approvazione sia andata nella specie a scapito del rispetto delle scansioni procedimentali imposte per legge oltre che della completezza della necessaria istruttoria, è pacifico che in sede di osservazioni siano state presentate modifiche (e quindi già di per sé con uno strumento non corretto, illogicamente esteso oltre le proprie riconosciute finalità) da parte dello stesso soggetto proponente, il cui accoglimento per relationem ha escluso la dovuta fase di pubblicazione e partecipazione in ordine alle stesse previsioni modificative.
L’utilizzo scorretto di uno strumento fondamentale della fase procedimentale di approvazione di un delicato strumento urbanistico appare evidente, sia sotto il profilo soggettivo, in quanto l’osservazione è propria dei soggetti diversi dal proponente, sia sotto quello oggettivo, avendo modificato ulteriormente il progetto sulla scorta di previsioni nuove, su cui non si è svolto il necessario iter sia in sede di pareri tecnici che soprattutto di osservazioni dei soggetti interessati (TAR Liguria, Sez. I, sentenza 02.07.2013 n. 982 - link a www.giustizia-amministrativa.it).

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